Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Come questi infelici vogliono persuadersi che il profeta non merita fede e più la sua profezia si viene avverando, più s'irritano, più si struggono di abbattere quell'autorità minacciosa; così colui, più sentiva declinargli il vigor giovanile e perder credito i dogmi materialistici e folgorargli nel cuore di quando in quando certe apprensioni lancinanti di una Verità formidabile che poi venivano lentamente meno, più s'inveleniva nell'odio coperto d'ironica noncuranza. "Senta un po', caro Lei" diss'egli a Benedetto dopo essersi fatto largo nella conversazione con quella parola e quel gesto. "Lei parla molto di dei falsi e di dei veri. Io non so se il Suo sia falso o vero. Sarà vero ma è certamente irragionevole. Un Dio che ha creato il mondo come gli è piaciuto, in modo che deve andare come va, e poi viene a dirci che dobbiamo farlo andare in un modo diverso, eh senta, via! non è un Dio ragionevole! Lei si è permesso di vuotare un sacco di contumelie, un sacco di accuse agli uomini politici, che sono calunnie, specialmente se le vuole applicare a quel Signore lì e a me; ma io Le concedo che la politica, per forza, non è mestiere da Santi. Chi ha fatto il mondo non ha voluto che lo sia! Se la sbrighi con lui. Ebbene, bisogna pure che qualcuno lo faccia, quel mestiere lì. Adesso lo facciamo noi che se non siamo Santi, almeno Lei vede quanto pazientemente trattiamo con i Santi. E senta." Il sottosegretario guardò l'orologio. "Si fa tardi" diss'egli "e nelle vie di Roma, a ora tarda, la santità corre qualche pericolo. È meglio che Lei se ne vada." Stese la mano al campanello elettrico per chiamare l'usciere. "Signor ministro!" esclamò Benedetto con tal vigore di accento che il sottosegretario rimase immobile a braccio steso come colto da un colpo di gelo. "Lei teme per lo Stato, per la monarchia, per la libertà, i socialisti e gli anarchici; tema molto più i Suoi colleghi schernitori di Dio, perché i socialisti e gli anarchici sono febbre, gli schernitori di Dio sono cancrena! - Quanto a Lei" soggiunse vôlto al sottosegretario "Lei deride Uno che tace. Tema il suo silenzio!" Senza che né l'uno né l'altro dei due potenti dicesse una parola, facesse un gesto, Benedetto uscì della sala. Egli discese lo scalone vibrando tutto nel contraccolpo delle parole che gli erano scoppiate dal cuore e nel fuoco febbrile del sangue. Le gambe gli tremavano, gli mancavano sotto. Fu costretto due o tre volte di afferrarsi al parapetto e di sostare. Giunto all'ultima colonna, vi premette la fronte pulsante, cercando frescura. Se ne staccò subito, sentì ripugnanza della stessa pietra di quel palazzo come se fosse infetta di tradimento, complice del commercio vile che vi si era fatto, atrocemente vile, fra ministri di Cristo e ministri della Patria. Sedette sul penultimo gradino, non potendone più, senza guardare ai fanali accesi della carrozza che aspettava lì a due passi, senza dubbio la carrozza del ministro; non curando esser veduto. Respirò un poco, lo sdegno gli si venne quietando un poco, quietando in dolore, in desiderio di piangere sulle tristi cecità del mondo. E cominciò anche a sentirsi solo, amaramente solo. Unica lei, la donna del suo passato errore, aveva vegliato, aveva scoperto, aveva agito. Solo per lei gli era stato dato di far fronte al ministro sapendo quale linguaggio fosse da tenergli. Gli altri amici suoi, gli amici devoti alle sue idee religiose, avevano dormito e dormivano. Gli piacque l'acre pensiero che non si curassero più di lui. Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell'uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell'anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace. Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un'altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro. "No" diss'egli. Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé , coll'ordine di consegnarla al Signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il Signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l'ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po' d'acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione: "La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest'ora, non ne troverebbe." Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un'oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l'ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé . Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell' Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé , il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l'idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l'idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch'egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l'abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d'inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell'accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo. La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un'idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il Signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma "il Signore" volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant' Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l'ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis , giunse infine al cancello di villa Mayda. Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz'altro l'ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi. "Sarà per questa sola notte" diss'egli. Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell'entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l'annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà: "Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?" Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva. Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta! Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano: IN PACE. Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall'affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto. Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l'altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl'intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: "Allora, vederci, mai più?" Sorride nell'anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 2 occorrenze

Ma quasi l'idea di tutte le torture dell'attesa la sgomentasse; ella esclamò: Ma è orribile questo potere che ha la stampa di non rispettar nulla, neppure i dolori; di abbattere le barriere pazientemente inalzate per nascondere le vergogne delle famiglie e sciorinarle dinanzi a un pubblico avido di scandali. Amico; le mie parole possono riuscirle oscure: voglio spiegarmi meglio, non voglio che ella sappia da altri la vergogna della mia vita; sì, è vero, ho avuto un momento di gloria, il mio nome era sulla bocca di tutti, verso di me si rivolgevano gli occhi di tutti coloro che speravano di veder nascere il vero romanzo italiano, italiano per pensiero e per forma. Ma io, sul più bello, ho rinunziato a un nome che mi faceva orrore, ho rinunziato alla gloria, al lavoro, alla patria e sono venuta a nascondere il mio dolore in questa solitudine. Mio marito è in galera! Queste ultime parole le uscirono come un grido disperato dalla bocca; tutto il corpo di lei, un momento prima scosso da fremiti convulsi, ora era rigido; gli occhi avevano acquistato una fissità spaventosa; il Lo Carmine tremava e balbettava parole di conforto. Per - carità! esclamò ella supplichevolmente, stendendo le mani all'amico, - impedisca che questo giornale vada nelle mani del signor Roberto; ordini lei al guardiano che va alla posta ogni giorno di non metterlo nella valigia. Corra, s'intenda con Varvaro, gli dica tutto, ma risparmi al signor Roberto questo dolore. Il Lo Carmine andò via raccomandandole la calma. Quella debole creatura, già tanto provata, gli faceva pietà e temeva per la ragione di lei, temeva che impazzisse. I giornali erano sempre sul tavolino dell'amministrazione e Roberto non ne aveva neppur rotta la fascia. Due parole susurrate all'orecchio al Varvaro bastarono a far sparire la Trinacria, che era indirizzata a Roberto, benché egli non fosse abbonato a quel giornale. Il direttore, incuriosito dallo sgomento che leggeva nel volto del Lo Carmine, volle essere informato di tutto. Povera signora! - diceva alludendo alle sventure passate di Velleda e alle persecuzioni presenti. - Ma chi può avere interesse a palesare le sue piaghe, chi? E per quanto cercasse, non vedeva intorno a lei altro che amici, altro che persone beneficate. Per un momento il suo pensiero si fermò sul nome di Franco, rammentò la curiosità dimostrata nel domandargli del passato di lei, ma respinse quel sospetto, parendogli impossibile che un gentiluomo scendesse a tanta bassezza. Però, poco dopo, nel salire dal duca per informarsi della sua salute, vide la Trinacria spiegata sul letto di lui e il sospetto gli si riaffacciò alle mente. Franco aveva un'espressione sinistra nello sguardo e i suoi occhi chiari mandavano lampeggiamenti insoliti. Dopo le prime parole scambiate fra loro, Franco disse : Caro direttore, dunque noi avevamo la fortuna di avere a Selinunte una donna celebre, senza saperlo. Non avevo forse ragione di dirle; appena la vidi, che quella bella creatura si avvolgeva nel mistero? Bisognava rispettarlo, - rispose il Varvaro seriamente. - Sarebbe una viltà il voler sapere di più di quello che ella dice. La condotta di lei doveva spingere gli amici ad accordarle la fiducia che meritava. Celi quel giornale, - aggiunse in tono autorevole. Non sarò mai io che recherò volontariamente un dolore alla signora Velleda, - disse il duca, cercando di sviare con quella protesta i sospetti che leggeva sulla fronte del Varvaro. - Se tutti le fossero devoti come me, ella non vedrebbe d'intorno a se altro che sorrisi. Il direttore non insistè; aveva di fronte il fratello del suo padrone e non poteva costringerlo a confessare una vigliaccheria, come avrebbe costretto qualunque altro. Sia i sospetti del Varvaro si erano cambiati in certezza. Se la morte ci liberasse da questo aspide! - borbottava fra sé, scendendo le scale, ma purtroppo capiva che la malattia era simulata e che nessuna speranza poteva basare su di essa. Appena uscito il Varvaro, Costanza sali da Franco e avvicinandosi pian piano al letto, con passo quasi furtivo, gli prese la mano, che egli teneva penzoloni lungo la rovescici delle lenzuola, e se la portò alle labbra, esclamando: Che siate benedetto! Oggi è il primo giorno che respiro, dopo tanto tempo di sofferenze. Non vedete come lo spasimo mi ha ridotta? Non ho più che la pelle e l'ossa e son diventata brutta. Ma ritornerò bella, appena potrò schiacciare e calpestare quella maledetta! Mentre parlava, faceva un movimento con i piedi come se colpisse un corpo disteso in terra, gli occhi di lei mandavano lampi e dalle labbra protese le usciva una bava che andava a fermarsi agli angoli della bocca. Pareva una parca esultante per aver reciso una giovana esistenza, o una di quelle donne fanatiche, una di quelle megere che sono il terrore di ogni sommossa popolare. Franco ebbe un brivido di spavento; che ella gli sorprese sul volto. Vi faccio paura! - disse. - Se mi leggeste nel cuore rimarreste sbalordito. Ma tutto quest'odio che ho per quella donna, che mi ha privato di tutto, di tutto; capite, signorino, io lo spenderò a darvela nelle braccia. Con un gesto rapido si cavò dal corpetto una immagine di Santa Rosalia e fissandola con occhi biechi, aggiunse : Santuzza bedda vi giuro che dopo verrò scalza in pellegrinaggio al vostro santuario, ma datemela questa vendetta! Una carrozza si fermò dinanzi allo stabilimento e Costanza ricompose subito il viso, tanto che a Franco parve un'altra e ripensando alla truce scena di un momento prima, credè di essere stato in preda a un'allucinazione. Costanza sapeva che la carrozza doveva condurre il medico e aveva ricomposto il viso per non lasciar leggere lo stato dell' animo suo. Quella straordinaria abilità di cambiar espressione della fisonomia a suo piacimento, le aveva permesso di vivere accanto a Velleda senza scoprire mai i propri sentimenti. Il dottore era un nipote di don Achille Moltedo, un giovane politicante, che non aveva più aperto un libro dopo tornato dall'università. Egli non riscontrava nei suoi pazienti altro che attacchi di febbre malarica, e non prescriveva se non chinino. Del termometro non si serviva mai, tastava il polso al malato, gli metteva una mano sotto il mento e sentenziava il grado della febbre, dicendo che i medici che hanno molta pratica debbono sentirlo dal calore della cute, come i compratori di grosse partite d'agrumi, passeggiando sotto gli alberi andate a Selinunte, da don Franco d'Astura; lo conoscete? Sì. Ditegli che vi mando io, che sto in pena per la sua salute, che il medico mi ha allarmato. Assicuratelo che se non fossi il candidato avverso sarei andato in persona a informarmi del suo stato. Fin qui non vedo in che consista la missione delicata che volete affidarmi! - osservò il Torres. - Ecco, tutta la vostra abilità starà in questo. Strappare al duca una dichiarazione di debito contratto al giuoco, verso di me, per tremila lire. Ora capisco! - disse l'altro. - Ma egli non vi deve tanto! Non importa, voi gli dovete dire che aspetto il pagamento quanto vuole, purché per la vita o la morte, mi geriva quella lettera. Portate la carta bollata, perché il foglio abbia più valore, e se domani sera mi consegnerete ciò che voglio, vi darò cento lire. Non potreste darmene subito la metà? Devo figurare domani in certo modo; pagare il nolo del cavallo ... . Ma se avete detto che ve lo imprestava un amico? Si, ma anche lui ha diritto a qualcosa. Eppoi, non posso presentarmi come uno straccione! Va bene! va bene! - disse l'Orlando per tagliar corto, - eccovi cinquanta lire e le altre al ritorno; so non riuscite non avrete altro. La mattina dopo il Torres mandava il suo biglietto, fregiato da una corona comitale, al duca d'Astura. Egli si rammentava bene dell' individuo, ma tremò; ogni messaggio che gli giungeva da quella combriccola genia, fra la quale aveva un creditore di giuoco, turbava immensamente. Il polso si alterò di nuovo, sangue gli salì alla testa. Fate salire quel signore, - disse a Saverio. Pettinato come un garzone di parrucchiere, con i capelli che gli formavano una frangetta sulla fronte bassa, andando a toccare le sopracciglia folte, riunite, e nere come gli occhi, che parevano prolungati col kolk, con i baffi arricciati, il Torres, serio e grave si presentò in camera di Saverio, e lo salutò battendo insieme i tacchi guarniti di sproni. Un paio di calzoni celestini a grandi quadri, una sottoveste di velluto a fiori su cui ricadeva una cravatta rossa e un vestito color nocciola, davano a quella figura snella, ma stanca, un aspetto strano. Il Torres in città sarebbe stato guardato con disprezzo da quanti lo avessero incontrato di sera in una via deserta. Pareva uno di quegli individui che vivono alle spalle delle donne perdute e si sarebbe detto che non solo si tingesse le ciglia, ma s'impiastricciasse il viso con la polvere di cipria, tanto era bianco. In tutta la persona poi aveva un so che di molle, di effeminato che ripugnava. Franco era a letto e rispose con un breve saluto a quello inchinevole del visitatore, il quale prese posto sopra una poltrona bassa e incominciò recitare molto abilmente la lezione, con voce alquanto nasale e monotona Finché il Torres parlò delle apprensioni dell'onorevole Orlando e di tutta la nobile compagnia - le parole "nobile" e "gentiluomo" erano quelle che più spesso uscivano di bocca a quel figuro - per la preziosa salute del duca, questi, che da principio si era turbato, rimase calmo; ma quando con una lunga circonlocuzione venne a dire del debito, Franco divenne livido e troncandogli la parola, dimandò imperiosamente. Dunque, che cosa vuole? Eccellenza, - rispose allora facendosi umile umile il Torres, - per la morte o per la vita, l'onorevole Orlando desidera due righe, due rigue soltanto ... . Sono pronto a fargliele, - e prese il taccuino per vedere la cifra precisa del suo debito, che ammontava a mille e ottocento lire. L'altro, tutto umile a servizievole, portò una cartella e un calamaio a Franco e gli stese davanti la carta bollata. Date, - disse il duca. Due righe soltanto, - rispose il Torres; e prese a dire: " Io sottoscritto dichiaro di esser debitore verso l' onorevole Orlando, per una differenza di giuoco ... . " qui si fermò perché anche a lui pareva enorme. Avanti! - ordinò Franco che aveva terminato di scrivere. " ... per una differenza di giuoco, - ripetè l'altro; di tremila lire. Franco ebbe voglia di accennare la porta a quell' antipatico mandatario di uno strozzino, ina si trattenne. Era assuefatto a vedersi mangiar vivo, e quella scenetta era una meschinità in confronto a tante altre di cui era stato l'attore principale. Però, con voce ferma, disse: Il mio debito reale è di mille e ottocento lire; si vede che l'aggio del danaro e molto alto a Castelvetrano. Siamo in momenti di elezioni, - rispose l'altro spudoratamente, - e i quattrini scarseggiano. Quella parola fu un lampo per Franco; il quale indovinando a che cosa doveva servire la lettera, scrisse la cifra richiesta e firmò senza esitare. Il Torres lo ringraziò e volle stendergli la mano prima di uscire. Franco finse di essere occupato a riordinare alcuni fogli nella cartella, per salutarlo soltanto col capo. Ma il Torres seppe fare a meno del saluto, e nel consegnare più tardi la dichiarazione all'Orlando; gli strappò non solo cinquanta, ma cento lire. Potete darmele, - gli disse; - cerche questa leiterina non solo vi fa guadagnare più di mille lire, ma vi porta cento voti. L'altro sorrise e ripose la carta nel portafogli. Era un sabato, giorno in cui Velleda non voleva mancare al pranzo degli operai, e nonostante ella avesse la morte nell'anima e si sentisse sopraffatta dal timore di vedere svelata a tutti la sua vergogna, pure si diresse insieme con Maria verso il capannone della cucina quando già mezzogiorno era suonato allo stabilimento. Gli operai erano seduti dinanzi alle tavole e mentre per solito tutti si alzavano vedendola comparire e la salutavano sorridendole, quel giorno molti rimasero seduti, fingendo di essere intenti a mangiare. Velleda impallidì e mentre quel fatto non l'avrebbe forse colpita se fosse accaduto un altro giorno, in quello le ghiacciò il sangue. Quale nuova perfidia avevano inventata per alienarlo l'animo di quella gente primitiva e impressionabile? Ella era coraggiosa però e con passo sicuro si diresse verso la cucina, passando attraverso le tavole. Alcuni operai; sentendola avvicinare, non avevano potuto ostinarsi a non vederla e si alzarono; molti, invece, voltarono la faccia da un altro lato sfacciatamente e fra questi erano tutti i lavoranti all'officina dei fusti, i compagni di Giovanni, e di Alessio. Il vecchio Federigo, che soleva intonare ogni giorno le preghiere, si accorse del fatto e rimanendo ritto, dopo aver salutata la signora guardava ora gli operai seduti ora quella, senza sapersi spiegare il perché di quell'insolito sgarbo. Velleda aveva voglia di piangere e celava le lagrime sotto un forzato sorriso diretto al vecchio. Passò rigida e si accostò ai fornelli per assaggiare al solito le pietanze; ma non polo mettersi nulla in bocca; presa da una nausea fisica e morale. Scrisse però i buoni per il lunedì e la lista del desinare e per non ripassare attraverso gli operai; come faceva sempre, usci subito da una porta a fianco dei camino, trascinandosi dietro la bimba, e invece di tornare alla villa, dove Roberto l'attendeva, entrò nello stabilimento, rifugiandosi nell'ufficio del Varvaro. La prego, faccia accompagnare Maria da suo padre, io ho bisogno di rimaner qui un momento, - disse con voce soffocata. Il direttore eseguì l'ordine e, tutto turbato; tornò presso la signora, la quale, accesa in viso, con gli occhi pieni di lagrime, gli narrò la scena avvenuta poco prima, commossa, offesa dalla ingratitudine di quella gente. Oh! Dio, com'è dura la vita! - diceva Velleda. Non ci sarà dunque mai, mai pace per me! Signora, - rispose il Varvaro, - sorveglierò gli operai, sorprenderò i loro discorsi per indovinare il motivo di quest'improvvido cambiamento rispetto a lei, che ieri ancora era il loro idolo. Io non capisco più nulla! Qui bisognerebbe credere a un potere occulto, perché avvengono cose che non si spiegano. Come mai essi, siciliani, cioè cavaliereschi per tradizione e per indole, sono scortesi e villani con una signora? Pareva che il Varvaro facesse tutte queste interrogazioni a se stesso, quando le tre donne, che cucinavano per gli operai, si affacciarono sull' uscio della direzione e stavano per entrare, ma nel veder Velleda, ristettero. Che cosa succede? - domandò il Varvaro. Direttore, - dissero le tredonne a una voce. Quasi tutti gli operai hanno ricusato d'inscriversi alla cucina per la settimana ventura. Si lamentano forse del cibo? - domandò egli. No, anzi, dicono di preferire il pan solo alle pietanze che sanno di furto. Velleda; che era rimasta in fondo alla stanza, balzò in piedi. E chi dice questo? - chiese imperiosamente. Giovanni e gli altri suoi compagni. Dugento son quelli che hanno ricusato il vitto per la prossima settimana. Andate pure. - ordinò Velleda, - il direttore darà domani gli ordini. Quando fu rimasta sola con lui, esclamò: Ma questa è una congiura, una congiura che parte di là! - e accennava le finestre di Franco, tutte chiuse. Lo credo, purtroppo, - disse il Varvaro, - ma la sventerò. Velleda scrollò mestamente il capo. Non lo spero, - diss'ella. - La lealtà non ha mai trionfato dell'inganno ne della perfidia. Ma è orribile di sentirsi avvolti in una rete d'insidie; di temer sempre, senza poter sventare i colpi! Cento volte meglio una pugnalata che vi fredda, piuttosto che quest'agonia continua che vi fa soffrire nel presente e nell'avvenire. E che diremo al signor Roberto? - soggiunse ella, dimenticando sé per pensare all'amato, all'idolo suo al quale avrebbe voluto risparmiare ogni pena. La verità! - esclamò il Varvaro. - Egli è il padrone e deve sapere tutto quello che avviene fra i suoi operai. No! no! - rispose Velleda. - Per il momento serbi con lui un silenzio assoluto; ho bisogno prima di riordinare le idee, e se deve sapere quello che accade, lo saprà da me. Mi aspetterà, - disse subito, - debbo correre alla villa, - e ricomponendo il viso usci dalla porta che dava sul mare, per non incontrare alcuni operai che ritornavano in città. Come mai questo ritardo? - domandò Roberto che l'attendeva ritto sulla porta della sala da pranzo, che metteva in giardino. Avevo alcuni affari da regolare col direttore, disse quella sublime creatura, atteggiandola bocca a un sorriso, e dominando l'orribile agitazione che le faceva martellare le tempie e le mozzava a momenti il respiro, si sedè a tavola e mangiò come nei giorni lieti. Ma ogni boccone che inghiottiva era come una pietra che le cadeva nello stomaco e parevale di morire. Nonostante, ebbe l'eroismo di parlare, di sorridere. Se Roberto avesse saputo quanto le costava ognuno di quei sorrisi, si sarebbe sgomentato della profondità del sacrifizio che compieva per lui; ma Roberto, in quel giorno, non pensava ad altro che alla ferrovia elettrica di cui dovevano farsi le prime prove nel dopopranzo. Vuole assistervi? - domandò a Velleda. Me ne dispensi. Debbo andare a Castelvetrano per fare alcune spese, - diss'ella, Ebbene, assisterà alle seconde; faccia voti perché riescano, - disse Roberto. - Non può credere quanto io sia felice di risparmiare ai miei buoni operai la fatica giornaliera di una lunga gita sotto la sferra del sole. Velleda non rispose e pensava fra se: Se sapesse! Se sapesse! Verso le cinque ella faceva attaccare e insieme con Maria andava in città, salendo subito da don Achille Moltedo. Voleva un consiglio dal vecchio aulico di Roberto e gli chiese un momento di colloquio. Senza esitazioni, senza false vergogne, gli narrò tutto: la sua vita, le sue sventure, le persecuzioni del duca, gli attacchi della Trinacria e quell'ultima sanguinosa offesa inflittale dagli operai. Pianse la povera donna lagrime di dolore e di vergogna; pianse tanto che i suoi occhi non vedevano più neppure la faccia bonaria di don Achille sulla quale si rispecchiavano tutti i dolori di lei. È Franco, l'istigatore di tutte lo perfidie. Era un inetto a Roma; qui nella solitudine è divenuto un malvagio. L'ho presentito subito quando ho visto quella faccia scialba e notata. Qui egli è capitato in mezzo a una masnada d'intriganti, in mezzo all' elemento peggiore del paese, dove hanno solleticato le sue vanità e i suoi vizi, ed ecco l'opera sua. Esso la tortura sicure di colpire anche suo fratello. Ma io conosco Roberto. Velleda, lo conosco fino da bambino, e la sua dolcezza, la sua mansuetudine sono uno sforzo di volontà. È di una violenza tremenda e vedendo offesa, perseguitata una donna che rispetta altamente, non so di che sarebbe capace. La prego, se anche si accorge del disprezzo che le dimostrano gli operai; non gli palesi i suoi sospetti; non gli dica mai che Franco è l'agitatore di tutto per dispetto amoroso, non gli riferisca la scena della. barca. Sono vecchio, mi ascolti se non vuoi veder il sangue bagnare la spiaggia di Selinunte; se non vuoi che Roberto divenga fraticida! Ma che devo fare allora, che devo fare? - disse in atto di supplica Velleda, sgomentata più che mai dalle parole di don Achille. -Resti in casa; è abbastanza ammalata, abbastanza scossa per dire che si sente male; non esca dalla sua camera. Così eviterà gl'insulti di quei traviati e le persecuzioni di Franco, al quale io le prometto di parlare richiamandolo al dovere. Sia il giornale che promette la mia biografia? Lasci che la stampi. Roberto conosce la sua vita; gli onesti la compiangeranno, ai disonesti non pensi, essi non sono capaci di apprezzare una vita come lausa. Oh! l'inutilità dei sacrifizi! - esclamò Velleda. Si asciughi le lagrime. Sento che mia moglie si avvicina insieme con Maria. Si calmi.

- esclamò il duca e riepilogando tutto ciò che aveva veduto in due giorni e che era opera soltanto di suo fratello, questi gli apparve potente e saldo come una delle colonne gigantesche che rimanevano erette sulle sabbia, una di quelle colonne che nè commozioni telluriche, nè furia d'intemperie, nè rabbia d'uomini avevano potuto abbattere. Oh! che invidia ispiravagli quel colosso, che dominava gli eventi, che lo vinceva nella forza, nel sapere, nell'intelligenza, nella bontà, in tutto, in tutto, anche nella bellezza fisica, perché Roberto era la vera espressione della bellezza maschile! Ma non può non avere un lato vulnerabile, - diceva Franco a se stesso, - e quel lato io lo scoprirò certo; so volere tenacemente anch'io! Mentre il duca sfogava nella sua camera l' invidia contro il suo salvatore, Velleda, in atteggiamento umile, di devota, dinanzi a una sacra reliquia, rileggeva per la terza volta la lettera di Roberto e giunta alla firma, posava su quella le labbra. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime, ma un sorriso di beatitudine le illuminava il volto delicato, curvo sui fogli coperti di una scrittura unita e marcata. Nessuna lettera di Roberto l'aveva fatta piangere, perché nessuna era più dolce, più cara di quella. Mia buona amica, - diceva quella lettera, - lasci che io le dia questo nome che riassume i sentimenti di stima profonda e di affetto vero che nutro per lei. Nessuna donna, credo, abbia mai avuto nel cuore di un uomo onesto il posto che ella occupa nel mio. Non le ho fatto mai questa confidenza, poiché non volevo che vicino a lei la commozione mi vincesse, e perché potevo esser debole anch'io e noi dobbiamo esser forti; ma ora, da lontano, posso farle questo sfogo, posso aprirle il mio cuore di cui ella è signora. E questo dominio che ella ha preso su di me, non sussiste da che le sono lontano, da che sento la mancanza di lei ad ogni istante, no. Rammenta la lunga lettera che mi scrisse appena io ebbi accettato la sua offerta di essere per Maria una seconda madre? Spinta da un sentimento di delicatezza sublime, ella volle farmi una confessione generale e mi narrò la sua triste infanzia fra una madre, gran signora, dissipatrice, capricciosa, una di quelle russe che hanno tutte le superstizioni delle razze corrotte e tutti gli ardimenti di quelle primitive, pietosa e barbara, entusiasta e calcolatrice, nevrotica e dispotica sempre; e un padre, artista di piccola ambizione e di modesta fama, gretto, schiavo della moglie, incapace di farsi valere dagli estranei e di farsi rispettare in famiglia. E accennava alle scene disgustose, ributtanti, fra la dama che rinfacciava al suo schiavo la propria inettezza a conquistare un nome e una fortuna, che il più delle volte sorride soltanto agli auduci. Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

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