Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbattere

Numero di risultati: 4 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

I FIGLI DELL'ARIA

682302
Salgari, Emilio 4 occorrenze

Fatta abbattere la porta, ho trovato il mio signore assassinato. - Era ben chiusa? - chiese Fedoro. - E per di dentro. - Non vi era alcuna traccia che fosse stata forzata? - Nessuna, signore. - Sapevi che noi eravamo chiusi qui col tuo padrone? - Lo ignoravo, e poi ... come spiegare questo mistero? Voi vi siete svegliati proprio nella stanza che io stesso vi ho assegnata per espresso ordine del mio padrone. - Ti dico che eravamo qui. Chi può averci trasportati in quella stanza? - Ne siete certo, signore? - chiese il maggiordomo con accento alquanto incredulo. - Sì, noi eravamo qui. - Se la porta era chiusa! - Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia. - E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh! - Ci hai ben veduti uscire. - È vero - disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti. Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese: - Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta? - Eravamo assieme a lui - rispose Fedoro. Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo. - Ah - disse poi. - Che cos'hai? - chiese Fedoro con inquietuline. - Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza. - Tu oseresti sospettare di noi? - Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, - disse il cinese con voce lenta - bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete.

Non torneremo colle mani vuote, ve lo assicuro e forse riusciremo ad abbattere anche dei black-bok. - Che animali sono? - Dei caproni neri, che hanno delle costolette eccellenti. Essendo la cena pronta, mangiarono in fretta, raccomandarono ai compagni di fare buona guardia, dividendosi i quarti, poi armatisi di carabine express e munitisi di abbondanti munizioni e d'una fiasca di brandy per combattere il freddo che si faceva sentire, lasciarono il fuso, dirigendosi verso la foresta. La notte era chiara, perché la luna si era già alzata e nessuna nube offuscava il cielo; vi era quindi qualche probabilità di poter sorprendere gli orsi che, ordinariamente, si tengono nascosti durante le notti oscure e umide. Il capitano e Rokoff attraversarono velocemente le alte erbe che crescevano intorno al fuso, occupando tutto il piccolo altipiano e raggiunsero il margine della foresta, arrestandosi un momento ad ascoltare. Un profondo silenzio regnava sotto la cupa ombra delle mangifere e dei pipal. Solamente in lontananza si udiva qualche rado urlo di cane selvaggio, urlo più prolungato e più acuto di quello che lanciano gli sciacalli. - Cerchiamo un posto per metterci in agguato - disse il capitano. - Fra poco questo silenzio verrà rotto dalle belve. - Vedo là un grosso albero il cui tronco è circondato da folti cespugli - disse Rokoff, indicando un maestoso nim, che sorgeva isolato nel mezzo d'una minuscola radura. Si diressero da quella parte, coi coltelli s'aprirono un passaggio, e fatto intorno a loro un piccolo spazio, stesero a terra le coperte che avevano portato. - Il posto è buono - disse il capitano, dopo d'aver armato la carabina. - Udite questo gorgoglio? - Sì - rispose Rokoff. - Indica la vicinanza d'una sorgente o d'un torrentello. Gli animali non tarderanno a venire a dissetarsi. - Gli orsi neri? - Forse anche gli orsi. Perbacco, ci tenete agli zamponi di quei plantigradi? - Sono così eccellenti. - Non dico il contrario, signor Rokoff. Accesero le pipe, si sdraiarono sulle coperte, si misero le carabine a fianco e attesero che gli animali della foresta uscissero dai loro covi. Il silenzio che poco prima regnava quasi sovrano, veniva ora turbato con maggior frequenza. Dei rumori, vaghi dapprima, si propagavano sotto le ombre dei palmizi e delle mangifere; ora era un urlo che pareva l'ululato d'un lupo indiano, ora un miagolio rauco di qualche gattone selvaggio, ora invece un fischio acuto. Si trovavano colà da un quarto d'ora, quando il cosacco si sentì cadere addosso un ramo, che lo colpì proprio sul naso. - Chi mi bombarda? - si chiese. - Qualche ramo morto che il vento ha spezzato - disse il capitano. - Non secco, signore - rispose il cosacco, che lo aveva raccolto. - È verde e sembra che sia stato appena spezzato. - Se vi fossero qui delle scimmie direi che qualcuna si è rifugiata su quest'albero, ma qui non se ne trovano. Le vedremo più abbasso, nelle pianure dell'Assam e del Bengala. Poco convinto che quel ramo si fosse spezzato da sé, Rokoff s'alzò guardando fra il fogliame del nim, senza riuscire a scorgere alcunché di sospetto. - Non sta lassù la selvaggina - disse il capitano, che si era pure alzato. - Udite le foglie scrosciare? Qualcuno si avvicina. Un urlio assordante, un misto di ululati e di latrati echeggiò in quel momento a breve distanza, nel mezzo d'una massa di cespugli che dovevano coprire le rive del torrentello. - Chi sono questi concertisti scordati? - chiese Rokoff. - Non fate fuoco - disse il capitano, fermandogli il braccio e abbassandogli l'arma. - Non valgono una palla e poi non ci conviene spaventare la selvaggina. - Pare che l'abbiano con noi. - Ci hanno fiutati. - Che cosa sono? Sciacalli forse? - No, dei bighana, ossia dei lupi indiani un po' più piccoli di quelli siberiani e dei russi, tuttavia assai coraggiosi. - Che vengano a seccarci? - Non lo credo. Siamo in due e non oseranno farsi innanzi. Sarei però ben contento di fucilarli. Questi bricconi terranno lontana la selvaggina. - Facciamo una scarica. - No, signor Rokoff, aspettiamo e ... Un altro ramo era in quel momento caduto, colpendolo sulla testa. - Diavolo - esclamò. - Prima uno a voi, ora uno a me! - Vi dico, capitano, che lassù vi è qualcuno che si diverte a bombardarci. Guardate: anche questo ramo è verde ed è stato appena spezzato perché è ancora bagnato di linfa. - Chi può essersi rifugiato lassù? - Qualche tigre? - Non si arrampicano sugli alberi, signor Rokoff, e poi qui non ve ne sono, trovandoci noi ancora troppo alti. - E quei lupi che pare si avanzino minacciosi? Stiamo per venire presi fra due fuochi? - Signor Rokoff, che lassù si celino quegli zamponi che tanto vi piacciono? - Qualche orso? - I labiati e anche i panda si arrampicano al pari dei gatti. - E sono pericolosi? - I primi sì. Assaliti si difendono e strappano gli occhi ai cacciatori. - Ci tengo a non perdere i miei. Se lasciassimo questi cespugli? - Se voi ci tenete ai vostri occhi, io non ho alcun desiderio di perdere le mie gambe o per lo meno di lasciare i polpacci fra i denti dei bighana. A giudicare dalle loro urla, devono essere straordinariamente cresciuti di numero. Vedo dappertutto brillare i loro occhi. - Allora quegli animali sono pericolosi. - Più degli orsi, in questo momento. Ci hanno circondati e non mi pare che abbiano l'intenzione di lasciarci, senza aver almeno assaggiato un pezzetto delle nostre gambe. - Proviamo a respingerli - disse Rokoff. - E l'orso? - Non lo vedo scendere. - Una scarica a destra e una a sinistra. I due cacciatori si fecero largo fra i cespugli, per giudicare prima la loro situazione. Entrambi non poterono reprimere una smorfia di malcontento. I bighana a poco a poco li avevano circondati e si erano radunati in numero tale da temere un furioso assalto. Se ne vedevano dappertutto e s'avanzavano lentamente e incessantemente, stringendo i loro ranghi. Come il capitano aveva detto, i lupi indiani, quando si trovano in buon numero, sono coraggiosi, anzi non la cedono, per audacia, ai grossi lupi delle steppe e della Siberia. Somigliano ai loro congeneri del settentrione, sono invece più piccoli, non essendo più alti di sessanta centimetri, né più lunghi di ottanta o novanta. Hanno il pelame rossiccio o grigiastro, colle parti inferiori bianco sporco. Ordinariamente vivono in piccoli branchi di sette od otto individui; sovente si radunano in grosse bande e allora diventano il terrore dei pastori e dei villaggi montanini. Intelligenti, velocissimi, coraggiosi, si precipitano sui montoni e sui buoi senza spaventarsi delle grida dei mandriani e osano perfino entrare, in pieno giorno, nelle borgate per rapire i bambini sotto gli occhi dei genitori. Il capitano, che li conosceva, vedendoli in così grosso numero, era diventato inquieto. - Non credevo che in così poco tempo si fossero radunati in tanti - disse a Rokoff. - Il pericolo maggiore non sta alle nostre spalle, bensì dinanzi a noi. - Cerchiamo un rifugio - disse Rokoff. - E dove? - Arrampichiamoci sul nim. - E avremo da fare i conti coll'orso. - Non sappiamo ancora se lassù si trovi veramente un tale animale. - Questo è vero - rispose il capitano. - Dei due mali, scegliamo il minore. - Proviamo prima a fucilare questi audaci predoni. - Sono pronto, capitano. Le due carabine tuonano quasi contemporaneamente con un rimbombo assordante, coprendo le urla acute dei bighana. I grossi proiettili atterrano due file di animali. Gli altri indietreggiano vivamente, balzando attraverso i cespugli e s'arrestano cinquanta passi più lontano, riprendendo con maggior lena il loro scordato concerto. - Non ci lasceranno - disse il capitano. - Vedete l'animale scendere il nim? - No - rispose Rokoffi. - Ho invece ricevuto un altro ramo sul viso e più grosso degli altri. - Mettiamo in salvo le gambe; ecco i bighana che tornano a restringere le file e che si preparano per un assalto generale. Caricate la carabina. - È già pronta. - Salite, mentre io faccio una nuova scarica. Il cosacco si gettò a bandoliera l'express, s'aggrappò al tronco e aiutandosi con delle piante parassite che lo avvolgevano, si mise a salire, tenendo gli sguardi volti in alto per paura di vedersi rovinare addosso l'animale. Il capitano, fatto una nuova scarica, si era affrettato a raggiungerlo. I lupi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, si erano subito scagliati contro il tronco del nim, ululando ferocemente e spiccando salti colla speranza di raggiungerli. Erano quattro o cinque dozzine, numero più che sufficiente per mettere a mal partito due uomini, anche se formidabilmente armati. Rokoff e il capitano, ormai al sicuro, salivano con precauzione, guardando sempre in alto. Un animale che non riuscivano ancora a distinguere in causa della foltezza del fogliame, si agitava fra i rami, scuotendoli vigorosamente e facendone cadere parecchi. Si erano elevati d'una decina di metri, quando Rokoff, che distava pochi passi dalla prima biforcazione della pianta, si fermò, dicendo: - La bestia che sta lassù, mi pare molto grossa, capitano. - Che cosa vi sembra? - Un'enorme scimmia. - Questo non è il paese dei gorilla e nemmeno dei mias, signor Rokoff - rispose il capitano. - Sono convinto che si tratti d'un orso. - Se ci piomba addosso ci getterà giù e allora verremo alle prese coi bighana, se non ci romperemo il collo o le gambe. - Non potete far fuoco? - È impossibile, capitano, non vi sono più piante parassite a cui aggrapparmi e il tronco è così liscio che è un vero miracolo che ci possiamo sorreggere con ambo le mani. - Che cosa fa quell'animale? - Scuote i rami e grugnisce come un porco. - Potete raggiungere la biforcazione? - Mi ci proverò, ma ... se quell'animalaccio scende? - Non affrontatelo; piuttosto ridiscendete. Se è grosso deve essere un labiato e non già un panda. - Bella posizione! - borbottò Rokoff. - Abbasso i cani che non attendono altro che di rosicchiarci le gambe e sulla testa quattro zampe armate d'unghie. Siamo fra Scilla e Cariddi. - Orsù, signor Rokoff, decidetevi. Non ho più forze per sorreggermi - disse il capitano. - Giacché non vi è scampo né da una parte né dall'altra, affrontiamo il nemico che può fornirci degli zamponi. Il cosacco si assicurò la carabina onde non gli sfuggisse dalla spalla, si mise fra i denti il coltello da caccia e riprese la salita, la quale diventava sempre più difficile, non essendovi più piante arrampicanti ed essendo il tronco ancora più grosso da non poterlo abbracciare interamente. Sotto, i lupi indiani continuavano a ululare e a saltare come se fossero impazziti; sopra, l'orso, ammesso che fosse tale, continuava a scuotere furiosamente i rami, minacciando a ogni istante di lasciarsi scivolare lungo il tronco e di travolgere i due cacciatori. Rokoff, che faticava assai a tenersi stretto, con un supremo sforzo riuscì a raggiungere la biforcazione dei rami. Stava per mettersi a cavalcioni e aiutare il capitano, quando si vide precipitare addosso l'animale, il quale, fino allora, si era tenuto aggrappato a un grosso ramo trasversale, situato due metri più sopra. Come il capitano aveva supposto, si trattava veramente d'un orso della specie dei labiati, chiamati dagl'indiani adamsad, molto comuni sulle catene dell'Himalaya e anche nelle foreste del Nepal. Quantunque appartengano alla medesima razza degli altri plantigradi, sono diversi nelle forme e nelle abitudini. Hanno il corpo più corto e più massiccio, le zampe assai basse, armate di robuste unghie ricurve; muso molto sporgente che finisce in una punta tronca, pelame lunghissimo, nero sul dorso, grigio sulla testa, con qualche macchia gialla e una lunga criniera che finisce in due lunghi ciuffi, che danno a quegli animali uno strano aspetto. A prima vista, sembrerebbero gobbi. Abilissimi arrampicatori, si può dire che vivono più sugli alberi che in terra, nutrendosi quasi esclusivamente di frutta. Amano però anche le alte rupi e se sono inseguiti non esitano a slanciarsi negli abissi, nascondendo la testa fra le zampe e cavandosela senza troppi guasti. L'animale che stava per assalire il cosacco, era grosso e pesante almeno un quintale e mezzo, un nemico certo pericoloso, che poteva abbattere i due uomini. Vedendolo avanzarsi, Rokoff aveva afferrato precipitosamente la carabina, mentre gridava al capitano: - Aggrappatevi ai miei piedi! Resisterò meglio! L'orso scese rapidamente il ramo, mise le zampe posteriori sulla biforcazione e s'alzò brancolando con quelle anteriori, armate di lunghi artigli. - Fuoco! Fate fuoco! - gridò il capitano. Rokoff aveva puntato la carabina, sparando precipitosamente, quasi senza mirare. Non ebbe il tempo di constatare gli effetti della scarica, perché si sentì afferrare strettamente da due zampacce e scuotere a destra e a manca, mentre si sentiva soffiare in viso un alito caldo e fetente. Credeva di sentirsi già dilaniare le carni o scaraventare nel vuoto da un'altezza di cinquanta piedi, quando una seconda detonazione rimbombò. Era stata sparata così da vicino, che per un momento si credette accecato dalla polvere. Il capitano, comprendendo che il cosacco stava per venire oppresso e che non doveva aver colpito la belva, tenendosi con una mano, coll'altra aveva scaricato la carabina. Il labiato aveva mandato un urlo di dolore, poi aveva lasciato il cosacco, arrampicandosi su pel tronco e rifugiandosi sui rami. - Colpito! - gridò Rokoff, allungando le braccia verso il capitano, il quale si era lasciato sfuggire di mano la carabina, pel contraccolpo della grossa carica di polvere che per poco non l'aveva gettato giù. - Ma è ancora vivo - rispose il comandante. - L'avete colpito, voi? - Lo credo. - E io l'ho solamente ferito. - Forse gravemente. Guardate, mi gocciola addosso del sangue. - Morisse almeno dissanguato! - esclamò il capitano, mettendosi a cavalcioni del ramo. - Sapete che vi credevo già perduto? - Ancora un momento e venivo gettato giù. - Vi ha piantato le unghie nelle spalle? - Non ne ha avuto il tempo; ha lacerato solamente la mia casacca. - E la mia carabina è caduta! - Ne abbiamo ancora una - disse Rokoff. - Io non l'ho abbandonata e ci servirà per finire quel dannato orso. - E perdereste gli zamponi. - Perché, capitano? - I bighana ve li mangerebbero. - E durerà molto questo assedio? - Fino all'alba, se i nostri compagni non vengono a liberarci - disse il capitano. - Quei lupi non torneranno alle loro tane prima che spunti il sole. - Brutta prospettiva. Che non vengano Fedoro e gli altri? Abbiamo già sparato cinque colpi di carabina e devono averli uditi. - Diranno che noi abbiamo fatto buona caccia e non si muoveranno, signor Rokoff. - Fuciliamo i lupi. - Abbiamo una carabina troppo grossa per ottenere buoni risultati - rispose il capitano. - Queste armi sono buone contro le tigri e i rinoceronti. - Non credevo che questa caccia finisse così male! - E come, vi lamentate, incontentabile cacciatore? Siamo qui da sole due ore e abbiamo già ucciso sette od otto lupi e ferito un orso. - E siamo assediati - disse Rokoff. - Sia pure, ma siamo anche completamente al sicuro dalle offese dei nemici. Il labiato non pensa più a discendere per attaccarci e i lupi non possono salire. Che cosa volete di più, signor cosacco? E avete il coraggio di lamentarvi? - Adagio, capitano, colle vostre buone speranze. Vedo invece l'orso agitarsi e l'odo brontolare. - Si lamenta delle ferite. - E se invece scendesse? - Allora perderete gli zamponi perché sarete costretto a fucilarlo e gettarlo a pasto dei lupi - disse il capitano. - Preferisco che rimanga lassù - rispose Rokoff. - Credo che ci tenga anche lui a non esporsi agli assalti dei lupi. Se non fosse ferito, non avrebbe paura ad affrontarli, mentre chissà in quale stato si trova e se le sue zampe sono in grado di distribuire colpi d'artiglio. - Cade sempre il sangue? - Mi piove addosso - rispose Rokoff. - Devo sembrare un macellaio. - Signor Rokoff! - Capitano. - Siete annoiato? - Un pochino. - Allora tirate al bersaglio. Abbiamo ancora centonovantacinque cartucce e i lupi non sono più di cinque o sei dozzine. Se volete, divertitevi, mentre io sorveglierò l'orso. Vi concedo un lupo ogni cinque palle. - Cercherò di ammazzarne invece due su cinque colpi - disse Rokoff, accomodandosi sul ramo, onde tirare con maggior attenzione. I bighana non avevano lasciato la base dell'albero. Continuavano a saltellare, mordendo la corteccia della pianta e strappandola a larghi pezzi coi loro denti acuminati e robusti e ad urlare con tale fracasso da far rintronare la foresta. Di quando in quando alcuni si allontanavano in diverse direzioni e andavano a urlare cinque o seicento passi più lontano, su diversi toni. - Chiamano altri compagni - disse il capitano. - Che sperino di rosicchiare l'albero fino a farlo cadere? - chiese Rokoff. - Non temete; ci vorrebbero delle settimane per atterrare una simile pianta. Signor Rokoff, aspettano i vostri saluti. Il cosacco puntò la carabina mirando in mezzo al gruppo e sparò il primo colpo, facendo cadere due bestie nello stesso momento. - Ho nove palle di vantaggio - disse ridendo. - Continuate - rispose il capitano. - Ah! L'amico che sta lassù comincia ad inquietarsi. Il labiato, udendo quello sparo e vedendo il fumo salire fra il fogliame, aveva ricominciato a dimenarsi, facendo scricchiolare i rami. - Che ci cada addosso? - chiese Rokoff, guardando in alto. - Non sarà così stupido da tentare un simile capitombolo, quantunque abbiano l'abitudine di precipitarsi da altezze considerevoli, allorquando si vedono in pericolo. Se non vi fossero sotto di noi i lupi, chissà, potrebbe tentare un simile salto. - Senza fracassarsi? - Pare che abbiano le ossa molto dure i labiati e posseggano una elasticità incredibile. Signor Rokoff, i lupi aspettano sempre. - Eccomi! Il cosacco aveva ripreso il fuoco. Sparava con calma, mirando attentamente, come se si trovasse in un tiro a segno durante una gara e i lupi cadevano a uno e a due alla volta. Era davvero un valente bersagliere; di rado sbagliava l'animale che aveva scelto. In cinque minuti, undici lupi giacevano attorno all'albero, massacrati dai grossi proiettili della carabina express. - Rimangono ancora cinque dozzine - disse il capitano. - E ne giungono altre due o tre - disse Rokoff, con accento scoraggiato. - Quelli che erano partiti urlando al largo tornano con nuovi rinforzi. - Che questa foresta sia piena di bighana? - Pare che sia così, capitano. E l'orso? - Si è tranquillizzato e non l'odo più muoversi. - Che sia morto? - Sarebbe caduto. - Salutiamo i nuovi arrivati - disse Rokoff. Aveva ripreso il fuoco, mirando in mezzo ai gruppi e senza mai mancare al bersaglio. I bighana però non accennavano a volersi ritirare, quantunque vedessero aumentare i morti. Avevano tuttavia compreso che rimanendo così uniti offrivano un bersaglio troppo facile e si erano dispersi fra i cespugli, senza però allontanarsi troppo dalla pianta. - Il tiro a segno comincia ad andare male - disse Rokoff, dopo aver sprecato cinque o sei palle. - Rimarremo senza cartucce prima di averli distrutti. - Me ne sono accorto - disse il capitano. - Devo continuare? - Sì, signor Rokoff. I nostri compagni, udendo questi continui spari, s'immagineranno che noi corriamo qualche pericolo e verranno di certo in nostro soccorso. Non siamo lontani più d'un chilometro dallo "Sparviero" e le detonazioni giungeranno distinte fino al fuso. Ah! Udite? Uno sparo si era udito in quel momento in direzione del piccolo altipiano. - È uno Snider - disse il capitano. - Signor Rokoff, rispondete. Il cosacco scaricò la carabina facendo cadere un altro lupo. Un istante dopo un altro sparo echeggiava verso lo "Sparviero". - Continuate il fuoco senza interruzione - disse il capitano. - Ormai i nostri compagni hanno compreso che noi abbiamo bisogno d'aiuti. - E non li assaliranno i lupi? - chiese Rokoff. - Ci siamo anche noi, e cinque uomini bene armati possono tener testa a quei piccoli predoni. Rokoff riprese a sparare senza far risparmio di cartucce. Ormai sapeva che gli aiuti stavano per giungere e non si preoccupava di rimanere con sole poche cariche. I lupi dovevano essersi accorti che altri uomini s'avvicinavano, perché alcuni si erano distaccati dal grosso ed erano partiti ululando, in direzione del piccolo altipiano. - Li hanno fiutati - disse il capitano. - Prepariamoci ad appoggiare i compagni. D'un tratto sotto gli alberi si videro balenare dei lampi seguiti da spari. - I Winchesters - disse il capitano. - Buone armi a ripetizione che faranno ballare i bighana! I lupi che assediavano l'albero, udendo quelle detonazioni, erano partiti a corsa disperata, ululando a piena gola. - Scendiamo! - gridò il capitano. Si lasciarono scivolare lungo il tronco, toccando ben presto terra. Il capitano raccolse la sua carabina, l'armò precipitosamente e si slanciò fuori dai cespugli, gridando: - Signor Fedoro! Badate a non fucilarci! Veniamo in vostro aiuto! Vedendo i lupi radunarsi innanzi a una folta macchia, in mezzo alla quale dovevano trovarsi il russo, il macchinista e lo sconosciuto, li presero alle spalle fucilandoli senza misericordia. I bighana, presi fra due fuochi non ressero molto a quella tempesta di palle che li decimava rapidamente. Dopo d'aver cercato di far fronte ai due pericoli, si sbandarono, fuggendo velocemente attraverso la foresta, perseguitati per qualche tratto da Fedoro, dal macchinista e dal loro compagno. Rokoff stava per seguirli, quando udì il capitano gridare: - L'orso! Ecco che scende! Il cosacco si era subito arrestato, ricaricando la carabina. Il labiato, approfittando della discesa dei suoi compagni e del combattimento coi lupi, aveva lasciato gli alti rami del nim e si lasciava a sua volta scivolare lungo il tronco, colla speranza di raggiungere inosservato i cespugli e di scomparire entro le folte macchie. Aveva però fatto i conti senza il capitano, il quale, pur facendo fronte ai bighana, non aveva dimenticato quella grossa e succolenta selvaggina. Vedendo i cacciatori tornare, nascose la testa fra le zampe anteriori e si lasciò andare precipitandosi da un'altezza di otto o dieci metri. Piombò in mezzo ai cespugli che schiantò col proprio peso e senza farsi, probabilmente, troppo male, poi si rialzò di scatto e si scagliò contro il capitano, che gli era vicino, cercando di piantargli gli unghioni nel viso. - Badate! - gridò Rokoff, che giungeva di corsa. Il capitano aveva fatto un salto indietro per evitare l'urto e aveva puntato la carabina facendo fuoco quasi a bruciapelo. Quantunque ferito a morte, il labiato non era caduto, anzi si era alzato sulle zampe posteriori facendo un salto innanzi. L'attacco era stato così improvviso e così impetuoso, che il capitano, il quale credeva di averlo fulminato sul colpo, non poté reggere e cadde lungo disteso. Fortunatamente Rokoff era vicino. Si udì un secondo sparo. Il labiato brancolò un istante dimenando disordinatamente le zampe, poi stramazzò mandando un rauco urlo che finì in una specie di sibilo soffocato. - Pare che sia proprio finito questa volta - disse Rokoff. - Tre palle express e quasi non bastavano ancora! ... Che pelle dura hanno questi animali! Fedoro e i suoi compagni, dispersi i lupi, tornavano. - Un orso! - esclamò il russo. - Che ci fornirà degli zamponi deliziosi - rispose Rokoff. - E centocinquanta chilogrammi di carne eccellente - aggiunse il capitano. - Lasciamo i lupi e portiamo questo morto allo "Sparviero". La caccia, come avete veduto, signor Rokoff, non poteva riuscire migliore.

- Non riuscirai ad abbattere le traverse - disse Fedoro. - Lo credi? Ebbene, guarda! Il cosacco, a cui il furore centuplicava le forze, afferrò due canne e le scosse con tale rabbia, da farle inarcare e scricchiolare. Un carnefice, che stava rigando le cosce ad un disgraziato prigioniero mediante una sbarra di ferro arrossata al fuoco, accortosi di quell'atto, accorse, vociando e minacciando. - Toccami, se l'osi! - urlò Rokoff, allungando le mani attraverso le canne. Quantunque l'aguzzino non avesse potuto comprendere la frase, vedendo quell'Ercole in quella posa, si era arrestato titubando. - Noi siamo europei! - gridò Fedoro. - Guardati, perché le Ambasciate ci vendicheranno e vi faranno uccidere tutti. Quella minaccia, forse più che l'atteggiamento del cosacco, aveva fatto indietreggiare il carnefice. - Europei! - aveva esclamato. Poi, passato il primo istante di stupore e anche di terrore, aveva rialzata l'asta infuocata, minacciando d'introdurla fra le traverse e di calmare i due prigionieri con qualche puntata. - Giù quel ferro! - urlò Rokoff, scuotendo le canne con maggior vigore. - Giù o ti strangolo come un cane. - Tu non mi fai paura - rispose l'aguzzino. - Ora lo vedrai. Stava per farsi innanzi, quando la porta della sala si aprì lasciando il passo al magistrato che aveva arrestato i due europei nella casa di Sing-Sing. Vedendo il carnefice avvicinarsi alla gabbia, con un grido lo arrestò. - No, costoro - disse precipitosamente - non ti appartengono! Vattene! Vedendolo, anche Fedoro si era afferrato alle canne, gridandogli: - Canaglia! Mettici subito in libertà! Tu sai che siamo stati condannati senza colpa e che gli assassini sono gli affigliati della "Campana d'argento". - La liberazione non è lontana - rispose il magistrato. - Abbiate pazienza fino a domani. - Allora levateci da questa gabbia. - È impossibile per ora. - Noi non possiamo resistere a queste atroci scene. - V'interessate di quei banditi? - chiese il magistrato. - Non siamo abituati ad assistere a simili torture. - Manderò via i carnefici. - E fate dare da mangiare a quei miserabili che muoiono di fame. La vostra giustizia vi disonora. - Avranno dei cibi, - rispose il magistrato. - I nostri carcerati sono trascurati, questo è vero. Con un gesto che non ammetteva replica, fece uscire tutti; poi, rivolgendosi ai due europei, disse: - Non farete nulla per informare la vostra ambasciata fino a domani mattina? Solo a questa condizione io vi prometto di lasciarvi tranquilli. - Avete la nostra parola - rispose Fedoro. - Vi farò subito servire il pasto. - Se non possiamo quasi muoverci? - Vi ho detto che pel momento non posso liberarvi, perché la grazia dell'Imperatore non è ancora giunta. Tranquillatevi e abbiate fiducia nella giustizia cinese. - Che cosa ti ha detto quel miserabile? - chiese Rokoff, quando il magistrato fu lontano. - Che domani saremo liberi - rispose Fedoro, raggiante. - Essi hanno avuto paura di qualche denuncia all'ambasciata. Hanno voluto solamente spaventarci, sperando forse che noi confessassimo il delitto che non abbiamo commesso. - Ti giuro che non me ne andrò da Pechino senza strangolare qualcuno. Mi prendano poi, se ne saranno capaci. - E chi? - Quel furfante di maggiordomo. - Ti prometto di aiutarti. Egli è stato la sola causa delle nostre disgrazie. Deve aver protetto i membri della "Campana d'argento", messo il pugnale nella nostra camera e poi saccheggiata la cassa del suo padrone. - Noi lo strozzeremo, no, lo martirizzeremo in modo che muoia a poco a poco. Alcuni carcerieri erano entrati portando delle scodelle di riso, del formaggio fatto con fagioli, piselli mescolati a farina, gesso e succhi di vari semi, che ha il sapore dello stucco e che pure è assai pregiato in Cina, dei pien-hoa o radici eduli, delle arachidi e delle kau-ban, ossia olive salate e poi seccate. Passarono i tondi entro la gabbia occupata dai due europei, poi si ritirarono precipitosamente per paura di venire afferrati dalle poderose mani dell'ufficiale dei cosacchi. Altri intanto avevano portato ai miseri, che morivano di fame nelle altre gabbie, delle terrine ricolme d'una certa poltiglia nera, che esalava un odore nauseabondo, formata da chissà quali generi alimentari. Fedoro e Rokoff, che dalla sera innanzi non avevano assaggiato alcun cibo, quantunque potessero appena muoversi, vuotarono i tondi, scartando però le arachidi, buone solamente pei palati dei cinesi, essendo rancidissime. Terminato il pasto, il magistrato, che era ritornato, si sedette presso la gabbia offrendo loro, con molta gentilezza, alcune tazze di tè recate da un carceriere e dei sigari europei; poi impegnò con loro una divertente conversazione. Non era più il burbero magistrato che li aveva trattati da assassini e perfino minacciati di farli fucilare. Era un vero cinese delle caste alte, cerimonioso fino all'eccesso, amabilissimo, che discuteva con competenza anche sulle cose europee. S'intrattenne con loro fino a quando le lanterne furono accese, poi si accomiatò augurando la buona notte e promettendo che all'indomani sarebbero stati rimessi in libertà. - Fedoro - disse Rokoff, quando furono soli. - Capisci qualche cosa tu di questi cinesi? Io no, te lo assicuro. Poco fa pareva che volessero sottoporci alla tortura; ora ci colmano di cortesie. - Senza liberarci però - rispose il russo, che pareva un po' preoccupato. - Si direbbe che tu dubiti della promessa fattaci. - No, ma ... vorrei essere già lontano da qui. - Ci andremo domani e anche in fretta. Ci recheremo a comperare il tè a Canton od a Nan-King o in qualche altro luogo. Qui non ci fermeremo nemmeno un'ora dopo ... - Dopo che cosa? - Che avremo strangolato il maggiordomo. Per le steppe del Don! Quel gaglioffo non vedrà tramontare il sole domani sera, parola di Rokoff! Fedoro non rispose e si accomodò alla meglio per dormire. Ciò era possibile, perché gli altri condannati, dopo la zuppa somministrata loro dai carcerieri, avevano cessato di urlare. Rokoff, vedendo il compagno chiudere gli occhi, si allungò quanto glielo consentiva lo spazio e cercò d'imitarlo, sognando già di sentire sotto le mani il collo del maggiordomo di Sing-Sing. All'indomani, quando riaprirono gli occhi, svegliati dalle urla degli affamati, ai quali la zuppa del giorno innanzi non era stata sufficiente a calmare i lunghissimi digiuni, Fedoro e Rokoff videro la loro gabbia circondata da otto robusti facchini. Due lunghe aste, un po' elastiche, erano state passate fra le canne che formavano la parte superiore della piccola prigione, assicurandole con corde. - Pare che si preparino a portarci via - disse Rokoff. - Che ci conducano all'ambasciata rinchiusi qui dentro? Potevano metterci in una portantina, questi spilorci; avrei pagato ben volentieri il nolo. Fedoro non aveva risposto. Guardava con viva inquietudine i facchini, chiedendosi dove lo avrebbero portato. Cercò cogli sguardi il magistrato, ma non era ancora giunto. Invece erano entrati dodici soldati, armati di fucili, guidati da un ufficiale che faceva pompa d'una larga e lunghissima scimitarra. - Fedoro, - riprese Rokoff - dove vogliono condurci? Domanda a quel comandante perché non ci mettono subito in libertà, come ci aveva promesso il magistrato. Tu non mi sembri tranquillo. - È vero, Rokoff; sono preoccupato per l'assenza del magistrato. - Si sarà ubriacato d'oppio e giungerà più tardi. In quel momento l'ufficiale si avvicinò ai facchini, dicendo: - Andiamo. - E dove? - chiese Fedoro, mentre la gabbia veniva alzata. Il comandante del drappello guardò il russo con stupore, inarcando le sopracciglia. Forse era sorpreso di sentirsi interpellare da un prigioniero. - Vi ho domandato dove ci volete condurre - replicò Fedoro. - Ci era stata promessa la libertà per stamane. - Ah! - fece l'ufficiale. Poi, voltandogli bruscamente le spalle, disse: - Orsù, sbrigatevi. Quattro facchini si posero le aste sulle spalle e portarono fuori la gabbia, seguiti dagli altri quattro che dovevano surrogarli più tardi e dal drappello dei soldati. L'ufficiale marciava innanzi a tutti, colla scimitarra sfoderata. - Comprendi nulla tu? - chiese Rokoff al negoziante di tè. - Non so spiegarmi il motivo per cui hanno preso tante precauzioni verso due uomini che devono mettersi in libertà - rispose il russo, le cui inquietudini aumentavano.- Vedremo come finirà questa avventura. Un carro massiccio, tirato da due cavalli e scortato da dodici cavalieri manciù, li attendeva fuori della prigione. La gabbia fu caricata, solidamente assicurata, poi i cavalli partirono al galoppo, fiancheggiati dai manciù. - Questi cinesi vogliono rovinarci - disse Rokoff, che si aggrappava fortemente alle canne per resistere agli urti ed ai soprassalti che subiva il ruotabile. - Ehi, cocchiere del malanno! Rallenta un po' la corsa! Non siamo già di caucciù noi! Basta, ti dico, buffone! Erano parole sprecate. I cavalli, piccoli, vivaci, eppur vigorosi, come sono tutti quelli dell'impero, galoppavano sfrenatamente, imprimendo al carro delle scosse disordinate in causa del pessimo stato delle vie, quasi tutte sfondate e rigate da solchi profondissimi. Sempre scortati dai manciù, i prigionieri attraversarono i quartieri meno popolati della capitale e che stante l'ora mattutina erano ancora quasi deserti e uscirono dalla porta di Shahuomen, passando sotto una massiccia torre quadrata. - Dove ci conducono, Fedoro? - chiese Rokoff, vedendo il carro seguire i bastioni esterni. - Vorrei saperlo anch'io. - All'ambasciata no di certo. - Siamo usciti dalla città. - E ci dirigiamo? - Verso il Pei-Ho, se non m'inganno. Ah! Mi viene un sospetto. - E quale Fedoro? - Che c'imbarchino su qualche giunca e che ci traducano a Tient-sin o fino al mare per impedirci di fare i nostri reclami all'ambasciata russa. - Ci sfrattano dall'impero? - Lo suppongo, Rokoff. - Che ci mandino via non m'importa: mi rincresce solo di andarmene senza aver strozzato quel cane di maggiordomo. Però non siamo ancora giunti al mare. Il carro intanto continuava la sua corsa indiavolata, seguendo sempre le mura della capitale, robustissime ancora, quantunque contino molti secoli, alte nove metri, con uno spessore di cinque, tutte lastricate in marmo, con bastioni, torri, fossati e cannoniere in gran numero, guardati però, per la maggior parte, da pezzi d'artiglieria di legno. Di quando in quando passava in mezzo a borgate popolose, circondate da ortaglie, attirando l'attenzione dei passanti, i quali però rimanevano subito indietro tutti, perché i cavalli non rallentavano il galoppo. Attraversato su un ponte di pietra il canale fangoso che viene chiamato pomposamente "fiume" e che altro non serve che ad alimentare gli stagni ed i laghetti dei giardini del palazzo imperiale, il carro si diresse verso il nord- est. - Mi pare che ci conducano a Tong - disse Fedoro. - Che cos'è? - Una borgata sulle rive del Pei-Ho. - Allora tu devi aver ragione. Vogliono imbarcarci. - Tale è ancora la mia opinione, Rokoff. - Purché facciano presto! Io ho tutte le membra rotte e se questa corsa dovesse durare ancora poche ore, non potrei più fare un passo. È così che trasportano i detenuti queste canaglie cinesi? - Sì, Rokoff. - In conclusione, trattano i prigionieri come polli. - Né più né meno - rispose Fedoro. - Bel sistema per far rompere le gambe. - Che ha però il vantaggio; di rendere le evasioni impossibili. - In quale stato devono giungere i condannati che si mandano dai paesi lontani! - E lontani centinaia di miglia? - aggiunse Fedoro. - All'inferno i cinesi! - Vedo delinearsi all'orizzonte delle abitazioni. - - Che sia la borgata? - Sì, Rokoff; il Pei-Ho deve scorrere dietro di essa, perché vedo anche delle piante d'alto fusto. La nostra prigionia sta per cessare. I cavalli acceleravano la corsa, attraversando la pianura piuttosto arida che si estende intorno all'immensa capitale. I manciù si erano divisi in due drappelli: uno marciava innanzi al carro; l'altro dietro. Come se temessero qualche sorpresa, avevano levato i moschetti che fino allora avevano tenuto appesi alla sella e sguainate le scimitarre. In lontananza si udiva un fragore confuso che pareva aumentasse di momento in momento. Erano urla acute, tocchi di tam-tam e muggiti di conche marine. Si sarebbe detto che una folla enorme si accalcava intorno alla borgata. - Che siamo aspettati? - chiese Rokoff. - Non so - rispose Fedoro, il quale era diventato pallido. Si era alzato sulle ginocchia, spingendo lontani gli sguardi. Di fronte alla borgata, una folla enorme si accalcava su una pianura sabbiosa, agitandosi disordinatamente e urlando a piena gola. Pareva che succedesse qualche straordinario avvenimento. Quando il carro giunse sul margine della pianura, la folla si squarciò di colpo per lasciare il passo, mentre da ventimila petti usciva quell'urlo terribile che è suonato agli orecchi degli europei come una tromba funebre durante le insurrezioni mongoliche: - Fan-kwei-weilo! Weilo! Fedoro aveva mandato un grido d'orrore. In mezzo a quel mare di teste rasate aveva veduto ergersi un palco, e su esso, ritto come una statua di bronzo giallo, un uomo di statura quasi gigantesca, che s'appoggiava ad una larga scimitarra. Era un carnefice in attesa delle sue vittime.

Erano i tibetani che cercavano, ancora una volta, di abbattere gli stranieri. Si erano nascosti in mezzo ad alcuni crepacci aperti nella parete e vedendo i loro nemici fuggire, li avevano salutati con una scarica. Gli aeronauti non si degnarono nemmeno di rispondere. D'altronde lo "Sparviero" s'innalzava con crescente rapidità, aumentando di momento in momento la distanza. Sorpassò il margine dell'enorme spaccatura e si slanciò attraverso gli altipiani nevosi con una velocità di trentacinque miglia all'ora. L'uragano erasi calmato e anche la nebbia si era completamente dileguata sotto i vigorosi colpi di vento del settentrione. Che caos però presentava l'altipiano, dopo lo scatenamento degli elementi! La neve, strappata dalle raffiche irresistibili, si era accumulata in mille guise, formando qui un bastione, più oltre una montagna, più innanzi una serie di cumuli che si profilavano indefinitivamente. In certi luoghi vi erano delle enormi valanghe staccatesi dai Crevaux e soprattutto dal Ruysbruck, la cui mole imponente giganteggiava un po' al sud, all'estremità occidentale della catena e degli ammassi di ghiaccio capitombolato dai ghiacciai che si mostravano numerosissimi in quei luoghi. - Guai se invece di scendere nel vallone noi ci fossimo arrestati qui - disse il capitano. - Il nostro "Sparviero" sarebbe rimasto schiacciato subito, non credendo io che i Crevaux ci fossero così vicini. - Ed è anche stata una fortuna che l'ala si sia spezzata - disse Fedoro. - Diversamente ci saremmo fracassati contro quelle montagne che la nebbia c'impediva di scorgere. - Sì, una disgrazia ed una fortuna ad un tempo. - Che si rompa ancora l'ala? - Non lo credo, essendo stata saldata perfettamente, meglio dell'altra volta. - E anche i piani funzionano come prima? - Sono diventati più pesanti, ma lo "Sparviero" ha una forza ascensionale poderosa e non se ne risente. Attenti, amici, passiamo i Crevaux. - I Crevaux! - esclamò Rokoff. - Un nome francese in mezzo al Tibet. - Dato a questi monti da Bonvalet - rispose il capitano. - Quella missione ha battezzati anche parecchi laghi con nomi che ricordano la Francia. Lo "Sparviero" s'innalzava facendo forza d'ala, onde superare la catena, la quale appariva imponente, e con una massa di piramidi e di picchi altissimi, coperti di neve e di ghiaccio. Esso si dirigeva fra l'estremità occidentale dei Crevaux ed il Ruysbruck, dove si vedeva una enorme spaccatura, che doveva servire di passo ai pellegrini provenienti dalla Mongolia. Che orribile regione era quella! Abissi, valloni selvaggi, creste che pareva si spingessero fino in cielo, punte aguzze, nevi e ghiacciai. Non un albero, non una pianticella qualsiasi, nemmeno dei modesti licheni. Una vera regione polare, forse peggio; perché anche nelle isole dell'Oceano Artico e anche in quelle dell'Antartico, durante la breve estate nasce un po' di vegetazione. E poi non un animale, non un volatile. Perfino le aquile mancavano. - Questa si potrebbe chiamare la terra della desolazione - disse Rokoff. - In questa stagione sì - rispose il capitano. - In estate invece vi sono dei pastori che si spingono anche quassù colle loro mandrie di jacks e di montoni. - A pascolare che cosa? - Le magre erbe che spuntano timidamente fra i crepacci. - Questa regione non potrà mai essere popolata stabilmente. - Eh! Chissà, signor Rokoff. Io non mi stupirei se fra due o trecent'anni anche questi spaventevoli deserti avessero una popolazione. Pensate che gli abitanti del nostro globo aumentano ogni anno prodigiosamente e che la nostra Terra rimane sempre eguale per estensione. - Oh! Ve ne sono ancora degli spazi inoccupati. - Meno di quello che credete, signor Rokoff. Guardate l'America del Nord per esempio. Cinquant'anni or sono le sue immense praterie erano popolate solamente da poche centinaia di migliaia d'indiani; oggi tutti quei terreni sono stati invasi dalla razza bianca che non è meno prolifica di quella mongola, e spazi liberi o semideserti non ve ne sono quasi più. - Non dico di no. - Guardate l'Africa. Cent'anni or sono aveva immense plaghe abitate da tribù di negri; ora gran parte di quel continente è stato invaso e fra altri cinquant'anni non vi saranno più terre disponibili. - In quanti siamo ora noi? - La popolazione del mondo conta oggidì, in cifra tonda, un miliardo e cinquecento milioni, mentre le terre abitabili o semiabitabili non sono che quarantasei milioni di miglia quadrate. Calcolato che le terre fertili non possono nutrire più di duecentosette abitanti per miglio quadrato, vedrete che non rimarrà gran margine pei nostri futuri nipoti. E non dimenticate che fra i quarantasei milioni di terre, ve ne sono quattordici di steppe e quattro di deserti. - Sicché voi credete che fra due o trecento anni la nostra terra non sarà più capace di nutrire tutta la sua popolazione. - Molto prima, signor Rokoff. Da un calcolo fatto da eminenti scienziati, parrebbe che quell'epoca fatale dovesse scadere dopo il duemila. Vi sarà forse dell'esagerazione, perché vi sono certi paesi anche oggidi occupati da una popolazione intensissima e che pur vivono comodamente. La Cina, per esempio, ha duecentonovantacinque abitanti per miglio quadrato e il Giappone duecentosessantaquattro, eppure cinesi e giapponesi non muoiono di fame. - La prima, però, di quando in quando, soffre delle carestie disastrose - disse Fedoro. - Questo è vero, e anche l'India perde ogni anno parecchie centinaia di migliaia d'abitanti, avendo già una popolazione troppo esuberante per la sua estensione. I morti di fame non si contano ormai più in quel paese. - Gli scienziati troveranno il mezzo per raddoppiare le produzioni del suolo. - Certo, ma non faranno altro che ritardare l'epoca fatale e niente di più. - Sicché - disse Rokoff - se il sole non arrostirà l'umanità, questa sarà condannata a morire di fame. - O tornare all'antropofagia. - Preferisco vivere ora e mangiare costolette di bue piuttosto di avere per colazione una bistecca d'uomo. Meno male che noi non ci saremo più in quel tempo. Il passo dei Crevaux era stato superato felicemente e lo "Sparviero" ridiscendeva verso l'altipiano, diretto al lago di Mont-calm, che è uno dei più alti, trovandosi a ben cinquemila metri sul livello del mare. Il paese non accennava a variare. Era sempre il deserto di ghiaccio e di neve, con spaccature, abissi e scaglioni immensi che si succedevano con monotonia desolante. Alle otto di sera lo "Sparviero" calava sulle rive settentrionali del Montcalm, il quale era coperto da uno strato di ghiaccio. Il freddo era considerevolmente aumentato e un vento secco e insistente soffiava dal nord, facendo soffrire assai gli aeronauti, i quali si sentivano screpolare la pelle del viso e gelare le dita. Si rinchiusero nel fuso, dove qualche ora prima era stata accesa la stufa e dopo la cena si cacciarono nei loro letti. L'indomani lo "Sparviero" riprendeva la sua corsa, aumentando considerevolmente la velocità. Anche il capitano cominciava ad averne fin sopra i capelli di quel deserto di ghiaccio e sospirava il momento di scendere nella regione dei laghi, per ritrovare una temperatura più mite e rinnovare anche le sue provviste. Almeno là era certo di trovare abbondante selvaggina, essendo le vallate del Tibet meridionale ricche d'asini selvaggi, di jacks, di argali e di stambecchi. Ci vollero nondimeno altri due giorni prima di giungere al margine meridionale di quell'eterno altipiano e di calare nelle ricche vallate dell'Or, cosparse di laghi e laghetti e anche di villaggi popolosi. Veramente l'altipiano continuava ancora, estendendosi fino sulle rive del Tengri-Nor. È solamente nelle vicinanze di quel lago sacro che cessa, nondimeno non aveva più la elevazione di prima, né appariva brullo e nevoso. Anzi, cominciavano a vedersi foreste di pini e di abeti, di querce gigantesche e di aceri, e anche campi coltivati a orzo e poi si vedevano pascolare cammelli, jacks domestici e bande di montoni guardate da numerosi pastori, i quali accoglievano coraggiosamente lo "Sparviero" a colpi di fucile, scambiandolo per qualche aquila mostruosa. Non avendo che delle pessime armi a miccia, le palle non giungevano mai fino agli aeronauti, i quali, per precauzione, si mantenevano a un'altezza di tre o quattrocento metri. Quando lo "Sparviero" passava invece sopra qualche borgata, un profondo terrore si spargeva fra gli abitanti. Tutti fuggivano urlando, i cammelli si gettavano al suolo nascondendo la testa fra le gambe anteriori, gli jacks muggivano, i montoni si disperdevano fra i dirupi e i cani latravano con furore. Quella confusione non durava che qualche minuto; l'aerotreno s'allontanava rapidissimo, senza aver divorato alcuno. La sera del terzo giorno, dopo aver attraversato la regione dei piccoli laghi del Bilui-Dyka e i monti Nobokon-Ubaski, la macchina volante calava sulle rive del Buka-Nor, un vasto bacino disabitato che si trova al nord del Tengri. Il capitano avendo veduto fuggire numerose bande di animali che supponeva fossero asini, era calato in quel luogo, colla speranza di abbatterne qualcuno. Rokoff però, udendo parlare d'asini, non aveva potuto trattenere una smorfia. - Vi pare una selvaggina apprezzabile, degna d'un colpo di fucile? - aveva chiesto al capitano. - E come! - aveva risposto questi, quasi scandalizzato. - Sdegnate un boccone da re? - Mangiano gli asini i re di questo paese? - L'onagro, si chiama anche così, è una selvaggina scelta, ricercatissima, che supera lo jack e il montone. Voi non sapete dunque la storia della bella figliola di Semengam, uno dei più celebri re della Persia. - Niente affatto, capitano. Andava matta per gli asini, quella signora? - Narrano le antiche cronache persiane, che quella fanciulla si fosse innamorata alla follia di Rustan, uno dei più prodi cavalieri dell'Iran, perché questi, fra le tante sue meravigliose gesta compiute, aveva fatto anche quella di divorarsi nientemeno che un asino intero. - Che stomaco doveva avere quel guerriero persiano. Io non l'avrei di certo invidiato. - Perché non avete mai assaggiato la carne dell'onagro. Me ne direte qualche cosa domani, se riusciremo a catturarne qualcuno. - Come li cacceremo? - Standocene sullo "Sparviero": diversamente perderemmo inutilmente il nostro tempo, essendo velocissimi. - Sapendovi un buongustaio raffinato, proverò anche la carne degli asini - disse Rokoff. - Suppongo che non sarà peggiore di quella dei cavalli, e nella guerra russo-turca e anche nella spedizione di Samarcanda, dei corsieri ne abbiamo divorato più d'uno. Il capitano non si era ingannato a scendere in quel luogo. Lo "Sparviero" si era, l'indomani, appena alzato costeggiando le rive del lago, quando a circa un mezzo miglio fu veduta una immensa truppa di quegli animali galoppare sull'altipiano. Erano tre o quattrocento che s'avanzavano su parecchie linee, preceduti dai capi, coi maschi dinanzi e le femmine in coda. Correvano all'impazzata, facendo rimbombare il suolo e ragliando rumorosamente, poi s'arrestavano un momento, quasi tutti d'un colpo, per fare poco dopo un rapido dietrofront e ripartire come un uragano. Brucavano un po' le magre erbe e i licheni, quindi, presi da un nuovo capriccio, riprendevano le loro corse disordinate. Erano animali grossi quasi quanto gli asini europei, cogli orecchi però meno lunghi, il pelame bigio oscuro, attraversato sul dorso da una lunga striscia nera che s'incrociava sulle spalle con altre due bigie. Questi animali sono anche oggidì numerosissimi e s'incontrano di frequente sugli altipiani dell'Asia centrale, nelle pianure persiane e anche nell'India settentrionale. Viaggiano in bande immense, emigrando ora fra i deserti e ora fra le steppe, non temendo nemmeno le tigri, che affrontano con un coraggio straordinario, colpendole cogli zoccoli, e se non basta, mordendole ferocemente. La truppa scorta dagli aeronauti pareva che colle sue continue mosse disordinate e colle sue fughe precipitose, cercasse appunto di sfuggire a qualche pericolo che la minacciava. Il capitano, che la osservava con un cannocchiale, indovinò ben presto da quali nemici era assediata. - Si difendono dai lupi - disse a Rokoff che lo interrogava. - Sono numerosi? - Un centinaio. - Che riescano a fare un macello degli onagri? - Saranno i lupi che avranno la peggio. Cercano di forzare le linee degli asini per gettarsi sui piccoli, ma non riusciranno a nulla. Assisteremo a una bella battaglia. Ehi, macchinista, rallenta e teniamoci ben alti onde non spaventare i combattenti. Gli asini, dopo aver fatto parecchie corse, si erano fermati in mezzo a una vasta pianura, dove avevano potuto spiegare i loro battaglioni. Con un insieme ammirabile avevano formato un immenso cerchio: i maschi alla periferia, le femmine e i piccini al centro. I lupi, che erano più di cento e molto affamati a giudicarli dalla loro spaventosa magrezza, correvano intorno ululando ferocemente, cercando il punto più debole per rompere le linee. Ogni volta però che s'avvicinavano al circolo, i maschi voltavano il dorso e colle zampe posteriori tiravano calci con un rapidità sorprendente. Più d'un lupo, colpito, volteggiava in aria semifracassato e quando cadeva, tre o quattro asini gli si precipitavano addosso mordendolo ferocemente, finché esalava l'ultimo respiro. Non ancora soddisfatti, lo calpestavano furiosamente riducendolo in un informe ammasso di ossa e di carne triturata. Le asine e i loro piccini, spaventati dalle urla dei carnivori, si serravano le une addosso agli altri, ragliando disperatamente come per incoraggiare i maschi a difendere la loro prole. Non ne avevano veramente bisogno, perché quei bravi animali mantenevano le linee sempre strette, tempestando senza posa gli assalitori. - Come si difendono bene! - esclamò Rokoff. - Non credevo che potessero tener testa a un simile attacco. - Aspettate - disse il capitano. - A loro volta daranno la carica e io non vorrei trovarmi al posto dei lupi. Infatti gli asini, vedendo che i loro avversari continuavano le loro corse, perduta la pazienza, si preparavano ad assalire a loro volta. Non fu che la prima linea che si mosse. La seconda, con una prudenza incredibile, rimase ferma per impedire ai lupi di irrompere attraverso il cerchio. Quei cinquanta o sessanta animali, i più robusti e i più coraggiosi, partirono al galoppo, spezzando in più parti le linee dei voraci avversari. S'impennavano lasciandosi cadere di peso, distribuivano calci con rapidità vertiginosa, afferravano i nemici colle poderose mascelle e li scuotevano furiosamente, strappando a un tempo lembi di pelle e di carne. Qualcuno, assalito da tre o quattro lupi, che lo azzannavano alla gola o agli orecchi, cadeva, ma tosto i compagni accorrevano in suo soccorso, liberandolo prontamente. La battaglia durò un quarto d'ora e, come il capitano aveva predetto, finì colla completa sconfitta dei carnivori che, perduta ogni speranza di fare un pasto abbondante, almeno per quel giorno, dovettero in breve salvarsi con una pronta fuga, lasciando sul terreno un bel numero di morti e di moribondi. Era in quel momento che lo "Sparviero" scendeva. Gli asini, vedendo proiettarsi sul suolo quell'ombra gigantesca, s'arrestarono stupiti; poi, scorgendo quel mostro scendere, presi da una pazza paura, partirono ventre a terra in direzione del lago, salutati da tre colpi di fucile. Una femmina, colpita mortalmente, cadde dopo breve tratto, ma gli altri continuarono la loro corsa indiavolata, scomparendo in mezzo alle rupi. - Signor Rokoff - disse il capitano, balzando a terra. - Avrò l'onore di offrirvi delle bistecche così squisite da far perdonare il vostro disprezzo per questa delicata selvaggina. - Non ho ancora dato il mio giudizio - rispose il cosacco, ridendo. - Non dubito che sarà favorevole. Due ore dopo il bravo cosacco confessava candidamente che la carne degli asini selvaggi valeva ben quella degli jacks e dei bovini europei e che gli sciah persiani avevano pienamente ragione di stimarla come un boccone degno dei re.

Cerca

Modifica ricerca