Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

I bisonti, dopo essersi arrestati un momento presso i cespugli, dove poco prima si erano tenuti nascosti i malesi, sperando forse che i cacciatori si fossero imboscati là in mezzo, avevano ripresa la loro carica indiavolata, tutto abbattendo sul loro passaggio. Parevano tanti enormi proiettili scagliati da qualche colossale pezzo di marina, tanto era il loro impeto. I bambù, che come si sa, sono resistentissimi, cadevano falciati dai robusti zoccoli di quei demoni, come se fossero semplici giunchi. Giunti dinanzi allo strato fangoso, s'arrestarono di colpo, piegandosi fino a terra e accavallandosi gli uni sopra gli altri. - Per Siva! - esclamò Kammamuri, raggiungendo rapidamente i suoi padroni, che si erano messi in salvo sul loro elefante. - Altro che assamesi! Questi sono ben più pericolosi di quei poltroni! ... - Avanti, cornac! - gridò Tremal-Naik. - Se passano lo strato fangoso, assaliranno gli elefanti. - E voialtri aprite il fuoco! - comandò Sandokan, vedendo che anche tutti i suoi uomini erano già montati. Otto o dieci colpi di carabina rimbombarono, ma non ottennero altro effetto, che quello di rendere maggiormente furiosi gli jungli-kudgia. Gli elefanti, aizzati dai cornac, si erano già lanciati coraggiosamente nella fanghiglia, avanzandosi frettolosamente, temendo di dover provare la robustezza e l'acutezza di quelle terribili corna. I bisonti, vedendoli allontanarsi, anziché calmarsi si misero a muggire spaventosamente ed a spiccare salti; poi si provarono a gettarsi a loro volta nel pantano, ma accorgendosi che le loro gambe, che non avevano lo spessore di quelle degli elefanti, sprofondavano interamente, rimontarono lo strato duro, seguendo su quello i fuggiaschi. - Che non vogliano lasciarci? - chiese Sandokan che cominciava ad inquietarsi. - Avrei desiderato meglio incontrare gli assamesi. - Quegli animali sono testardi ed eccessivamente vendicativi - rispose Tremal- Naik. - Aspetteranno che i nostri elefanti trovino un terreno solido per darci battaglia. - Spero che prima di allora saranno ben decimati. - Non ci rimane altro da fare, amico. - Non sono che a trecento metri, e le nostre carabine hanno una portata più che doppia. - Gli è che il dondolìo degli elefanti renderà il nostro tiro molto difficile. - Sandokan prese la carabina, si piantò per bene sulle gambe, appoggiando il petto contro l'orlo superiore della cassa, e puntò l'arma, aspettando che l'elefante pilota trovasse qualche punto su cui poggiare con minor violenza, le sue zampacce. Trascorse qualche minuto, poi Sandokan lasciò partire il colpo, approfittando d'un istante di sosta del pachiderma. La palla, quantunque ben diretta, andò a spezzare una delle corna del bisonte, che guidava la truppa e che era il più colossale di tutti. L'animale si fermò un momento, sorpreso, senza dubbio, di vedersi cadere dinanzi una delle sue principali difese; poi riprese tranquillamente la marcia, come se nulla fosse avvenuto. - Saccaroa! - esclamò Sandokan, deponendo l'arma ancora fumante, per prenderne un'altra che gli porgeva Kammamuri. - Quegli animali valgono i rinoceronti. - Te l'ho detto, - disse Tremal-Naik. Sandokan tornò a puntare l'arma, mirando ancora il capo-fila, essendosi promesso di abbatterlo a qualunque costo. Due minuti dopo un altro sparo rimbombava e la palla passava oltre senza aver colpito nessuno del branco. - Tu sprechi il piombo, - disse il bengalese. - Ho ancora una palla. - Confesserai almeno che si spara male, stando sul dorso d'un elefante, e che per distruggere tutto quel branco, dovremmo consumar tutte le munizioni. - Ciò che non desidero affatto, non sapendo se gli assamesi ci seguono ancora o, se sono tornati indietro. - Uhm! Lo dubito: sono testardi come gli jungli-kudgia. - Riprese la carabina e per la terza volta l'alzò, aspettando il momento favorevole. Una nuova fermata dell'elefante pilota, il quale era sprofondato nel fango fino alle ginocchia, rimanendo immobile per qualche istante, gli permise di sparare il suo ultimo colpo. Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente. Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito. Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi. - Sta per morire! - esclamò Sandokan. In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco. - Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? - disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato. - Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, - rispose il bengalese. - Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce. - Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia. - Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. - I bisonti, dopo d'aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti. Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi. Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d'alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata. Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello. D'altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell'attacco furioso degli jungli-kudgia. Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall'attacco di quei testardi animali; e poi su quell'isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d'areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d'un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura. Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all'ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa. Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

Meravigliosi tiratori, aprirono a loro volta il fuoco abbattendo un uomo ogni colpo che sparavano. I seikki, quantunque atterriti dalla precisione di quel fuoco, che non cessava un solo istante, se non osavano avanzare, si tenevano però ostinatamente sul dorso del pachiderma, rispondendo colpo per colpo, mentre il pezzo d'artiglieria, piazzato in fondo al cortile, tuonava mandando le palle sopra le loro teste, cercando di sfondare il soffitto e di provocarne la caduta per schiacciare i difensori della sala. Fortunatamente la volta era stata troppo bene costruita e non rovinavano che qualche mattone e larghi pezzi di calcinaccio, proiettili che non inquietavano affatto né Yanez, né i malesi. Il fuoco era diventato terribile d'ambo le parti e anche rapidissimo. Ogni seikko che cadeva, veniva subito surrogato da un altro non meno ostinato, né meno valoroso del compagno e che non tardava a capitombolare morto o ferito. Una ventina di uomini erano già stati posti fuori di combattimento, quando il segnale della ritirata venne dato. Quel comando giungeva in buon punto, poiché i malesi si trovavano ormai imbarazzati a tener fronte a tanti avversari, e si bruciavano le mani essendo diventate le canne delle carabine ardenti. Anche questa volta il fuoco dei seikki non aveva ottenuto alcun risultato, poiché solo Burni era stato colpito da una palla di rimbalzo, che gli aveva portato via il lobo dell'orecchio destro, provocando un'emorragia che non poteva avere alcuna grave conseguenza. - Capitano, - disse Burni, - come ce la caveremo noi? Che cosa tenteranno i seikki? - Eccoli radunati intorno al pezzo, - gridò Yanez. - Amici, preparatevi a sgombrare o riceverete in pieno petto una palla di buon calibro. - I malesi furono solleciti ad allontanarsi, riparandosi dietro le due estreme ali della barricata, che si trovavano fuori dalla linea del portone. Avevano appena raggiunti i loro posti, quando il cannone avvampò con un fragoroso rimbombo. La palla rimbalzò sulle porte di bronzo, scheggiando quella di destra, attraversò la barricata dei divani, affondandone parecchi e andò a conficcarsi in una parete. - Avranno però da fare, a sfondare le porte di bronzo, capitano - disse il malese. - Cederanno anche quelle. Il pezzo che i seikki adoperano deve essere buonissimo, - osservò Yanez. Un altro colpo seguì il primo e la palla tornò a rimbalzare, sfondando però un'altra buona parte della barricata. - Se ne va, - disse Burni scuotendo tristemente la testa. I colpi si succedevano ai colpi, facendo tremare le invetriate della sala. Le palle rimbalzavano da tutte le parti, scrosciando sulle porte di bronzo, le quali a poco a poco cedevano, e si conficcavano contro le muraglie aprendo dei buchi enormi. Yanez ed i malesi, rannicchiati dietro i divani, cupi, pensierosi, stringevano le loro carabine senza sparare un solo colpo, ben sapendo che sarebbero state cartucce perdute senza alcun profitto, poiché la massa del pachiderma impediva a loro di scorgere gli artiglieri. Il cannoneggiamento durò una buona mezz'ora, poi quando le due porte caddero spezzate, e la barricata fu sfondata, il fuoco fu sospeso ed un uomo, salito sui resti dell'elefante, si presentò, tenendo infisso sulla baionetta un pezzo di seta bianca. Yanez si era già alzato, pronto a fulminarlo, ma accortosi a tempo che si trattava d'un parlamentario, abbassò la carabina chiedendo: - Che cosa vuoi tu? - Il rajah mi manda per intimarvi la resa. La vostra barricata ormai non vi protegge più. - Dirai a Sua Altezza che ci proteggeranno le nostre carabine, e che il suo gran cacciatore ha ancora le braccia ferree e la vista eccellente, per mettergli fuori di combattimento le guardie reali. - Il rajah mi ha mandato per proporti delle condizioni, mylord. - Quali sono? - Accorda a te la vita, purché tu ti lasci condurre alla frontiera del Bengala. - Ed a' miei uomini? - Hanno ucciso, non sono uomini bianchi e pagheranno colla loro vita. - Va' a dire allora al tuo signore, che il suo grande cacciatore li difenderà finché avrà una cartuccia e un soffio di vita. Sgombra o ti fucilo sul posto! - Il parlamentario fu lesto a scomparire. - Amici, - disse Yanez con voce perfettamente tranquilla, - qui si tratta di morire: la Tigre della Malesia penserà a vendicarci. - Signore, - disse Burni, - la nostra vita ti appartiene e la morte non ha mai fatto paura alle vecchie tigri di Mompracem. Cadere qui o sul mare è tutt'una, è vero camerati? - Sì,- risposero i malesi ad una voce. - Allora prepariamoci all'ultima difesa, - disse Yanez. - Quando non potremo più sparare, attaccheremo colle scimitarre. - Ai colpi di cannone di poco prima, era successo un profondo silenzio. I seikki si consigliavano e stavano preparando la colonna d'attacco. Essi, invece di esporsi al tiro di quelle infallibili carabine, avevano trascinato il pezzo d'artiglieria vicino alla porta, e siccome l'elefante, ormai quasi interamente distrutto dalle granate, non impediva più il puntamento, si preparavano a mitragliare i difensori della sala. - Ecco la fine! - disse Yanez, che si era accorto della manovra. - Cerchiamo di morire da prodi. - Una bordata di mitraglia scrosciò sugli avanzi della barricata, fulminando Burni che si era avanzato per vedere come stavano le cose. Seguì una seconda scarica che fece cadere un altro malese, poi il parlamentario tornò a mostrarsi fra il corpaccio dilaniato dell'elefante, gridando per la seconda volta: - Il rajah mi manda per intimarvi la resa. Se rifiutate vi stermineremo tutti. - La difesa era insostenibile. - Noi siamo pronti ad arrenderci, - rispose finalmente il portoghese, - a condizione però che i miei uomini abbiano, al pari di me, la vita salva. - Il mio signore te lo promette. - Ne sei ben certo? - Mi ha dato la sua parola. - Eccomi. - Balzò sopra gli avanzi della barricata seguito dai suoi malesi, superò l'elefante e saltò sul gradino, fermandosi dinanzi al cannone ancora fumante. Il cortile era pieno di seikki ed in mezzo a loro si trovava il rajah coi suoi ministri, i quali reggevano delle torce. Yanez gettò a terra la carabina, respinse gli artiglieri che cercavano di afferrarlo e mosse verso il principe a testa alta, colle braccia strette sul petto, dicendo con un accento sardonico: - Eccomi Altezza. I seikki hanno vinto l'uccisore di tigri e di rinoceronti, che esponeva la sua vita per la tranquillità dei vostri sudditi. - Tu sei un valoroso, - rispose il rajah evitando lo sguardo fiammeggiante del portoghese. - Poche volte mi sono divertito come questa sera. - Sicché Vostra Altezza non rimpiange i seikki, che sono caduti sotto il mio piombo. - Li pago - rispose brutalmente il principe. - Perché non dovrebbero distrarmi? - Ecco una risposta degna d'un rajah indiano, - rispose Yanez ironicamente. - Che cosa farete ora di me? - A questo penseranno i miei ministri, - rispose il principe. - Io non voglio avere questioni col governatore del Bengala. T'avverto però che finché non si saranno decisi, tu sarai mio prigioniero. - Ed i miei uomini? - Li farò rinchiudere intanto in una stanza appartata. - Assieme a me? - No, mylord, almeno per ora. - Perché? - Per maggior sicurezza. Siete uomini troppo astuti voi per lasciarvi insieme. - Avverto però V. A. che anche i miei servi sono sudditi inglesi, essendo nati a Labuan. - Io non so che cosa sia questo Labuan, - rispose il principe. - Tuttavia terrò conto di quanto tu mi dici. - Fece poi un segno colla mano e tosto quattro ufficiali piombarono sul portoghese, afferrandolo strettamente per le braccia. - Conducetelo dove voi sapete, - disse il rajah. - Non dimenticatevi però che è un uomo bianco e per di più un inglese. - Yanez si lasciò condurre via senza opporre resistenza. Era appena entrato in una delle sale pianterrene, quando i seikki si scagliarono, coll'impeto di belve feroci, contro i tre malesi, strappando a loro di mano le carabine e legandoli solidamente. Quasi nel medesimo istante, da una delle ampie porte che s'aprivano sul cortile, usciva un colossale elefante, montato da un cornac barbuto e d'aspetto feroce. Appeso alla tromba reggeva un ceppo, poco dissimile a quello su cui i macellai usano spaccare i quarti di bue. Quel bestione era l'elefante-carnefice. In tutte le corti dei principotti indiani vi è un simile animale, ammaestrato sul miglior modo di mandare all'altro mondo tutti coloro che danno ombra a quei crudeli regnanti. Mentre i seikki si ritiravano per lasciargli il passo, il gigantesco pachiderma depose, proprio nel centro del cortile, il ceppo, posandovi poi sopra una delle sue zampacce, come per provarne la solidità. - Avanti il primo, - disse il rajah che stava comodamente seduto su una poltrona, con un sigaro fra le labbra. - Voglio vedere se questi uomini, che si battono col coraggio delle tigri, saranno altrettanto coraggiosi dinanzi alla morte. - Quattro seikki afferrarono uno dei tre malesi e lo trascinarono dinanzi all'elefante, facendogli appoggiare la testa sul ceppo e trattenendolo con tutto il loro vigore. Il gigantesco carnefice, ad un ordine del cornac, fece due o tre passi indietro, alzò la proboscide cacciando fuori un lungo barrito, poi s'avanzò verso il ceppo, levò la zampa sinistra e la lasciò cadere sulla testa del povero malese. Il cadavere fu gettato da un lato, e coperto con un largo dootèe; poi l'uno dopo l'altro, furono giustiziati, nel medesimo modo, i due altri malesi. - Teotokris sarà ora contento, - disse il rajah. - Andiamo a riposarci. - Cominciava allora ad albeggiare. Egli si alzò e entrò in uno degli edifici laterali, seguìto dai suoi ministri e dai suoi ufficiali, mentre i seikki si preparavano a portare via i loro camerati, caduti sotto il piombo delle tigri di Mompracem. Il principe si era forse appena coricato, quando un uomo entrava frettolosamente nel palazzo reale e saliva a quattro a quattro i gradini, che conducevano nell'appartamento di Yanez. Era Kubang che tornava, dopo aver assistito all'attacco del palazzo di Surama, e alla fuga di Sandokan e di Tremal-Naik verso il fiume. Udendo bussare frettolosamente, il chitmudgar, che dopo le prime fucilate sparate nella sala si era precipitosamente rifugiato lassù, non osando prendere le parti del gran cacciatore, aveva subito aperto. Il pover'uomo, che da una finestra che prospettava sul cortile d'onore, aveva assistito alla resa di Yanez, e all'esecuzione dei tre malesi, era disfatto per l'intenso dolore e piangeva come un fanciullo. - Ah, mio povero sahib! - esclamò vedendosi dinanzi Kubang; - vuoi morire anche tu, dunque? - Che cosa dici chitmudgar? - chiese il malese, spaventato dal pianto di quell'uomo. - Il tuo signore è stato arrestato. - Il capitano! - esclamò il malese facendo un salto. - Ed i tuoi compagni sono stati tutti giustiziati. - Kubang diede indietro come se avesse ricevuto una palla di fucile in mezzo al petto. - Povera Tigre della Malesia! - esclamò con voce strozzata, - povero capitano Yanez! - Poi rimettendosi prontamente e afferrando strettamente le braccia del chitmudgar, gli disse: - Narrami ciò che è avvenuto, tutto, tutto. - Quando fu informato del combattimento avvenuto nella notte, il malese si passò più volte una mano sugli occhi, strappando via qualche lagrima, poi chiese: - Credi tu che il rajah giustizierà anche il mio padrone? È necessario, prima che lasci questo palazzo, che io lo sappia. - Io non so nulla, tuttavia secondo il mio modesto parere, il rajah non oserà alzare la mano su un mylord inglese. Ha troppa paura del governatore del Bengala. - Dove hanno rinchiuso il mio padrone? - Se non m'inganno devono averlo condotto nel sotterraneo azzurro, che si trova sotto la terza cupola del cortile d'onore. - Un luogo inaccessibile? - Sicuro di certo. - Bene guardato? - So che giorno e notte vegliano dei seikki dinanzi alla porta di bronzo. - Vi sono dei carcerieri? - Sì, due. - Incorruttibili? - Eh, questo poi non lo posso sapere. - Sotto la terza cupola mi hai detto? - Sì, - rispose il chitmudgar. - Potresti farmi uscire senza che mi vedano? - Per la scala riservata ai servi, che mette dietro il palazzo. - Un'ultima domanda. - Parla, sahib. - Dove potrei rivederti? - Ho una casetta nel sobborgo di Kaddar, che è tutta dipinta in rosso, ciò che la fa spiccare fra tutte le altre, che sono invece bianchissime, e dove tengo una donna che mi è assai affezionata e che due volte alla settimana posso vedere. Là potrai trovarmi quest'oggi, dopo mezzogiorno. - Tu sei un brav'uomo, - disse il malese. - Ora fammi fuggire. - Seguimi: il sole è appena sorto ed i servi non si saranno ancora alzati. - Attraversarono un piccolo terrazzo che s'allungava sul di dietro dell'alloggio di Yanez, si cacciarono entro una scaletta aperta nello spessore delle muraglie, e così stretta da non permettere il passaggio che ad un solo uomo alla volta, e scesero nei giardini del rajah, che avevano una notevole estensione e che, stante l'ora mattutina, erano deserti. Il chitmudgar condusse il malese verso una porticina di metallo, adorna delle solite teste di elefante e l'aprì, dicendogli: - Qui non vi sono sentinelle. Ti aspetto nella mia casetta. Io mi sono affezionato al tuo padrone e tutto quello che potrò fare per liberarlo dalla sua prigionia, te lo giuro su Brahma, mio sahib, lo tenterò. - Tu sei il più bravo indiano che io abbia conosciuto fino a oggi, - rispose Kubang, commosso. - Il padrone, se un giorno sarà libero, non ti dimenticherà. - S'avvolse nel dootèe e s'allontanò frettolosamente, senza volgersi indietro, avviandosi verso la casa di Surama, colla speranza d'incontrare in quei dintorni qualcuno di sua conoscenza. Stava per giungervi scorgendo già le ultime colonne di fumo che s'alzavano sopra le rovine del palazzo, interamente divorato dal fuoco, quando un uomo che veniva in senso contrario con molta premura, gli sbarrò bruscamente il passo. Kubang, già troppo esasperato dalla catastrofe che aveva colpito il suo padrone, stava per sparare una pistolettata sull'insolente, quando un grido di gioia gli sfuggì: - Bindar! - Sì, sono io sahib, - rispose subito l'indiano. - Surama e la Tigre della Malesia sono ormai in viaggio per la jungla di Benar e venivo ad avvertire il tuo padrone. - Troppo tardi, amico - rispose Kubang con voce triste. - Egli è prigioniero ed i miei camerati sono stati massacrati. Pare che tutto sia stato scoperto e che quel cane di greco sia vincitore su tutti. Non perdere un momento, va' a raggiungere subito la Tigre della Malesia e avvertilo subito di quanto è avvenuto. - E tu? - Io rimango qui a sorvegliare il greco. Ho modo di sapere quello che può accadere alla corte. La mia presenza in Gauhati può essere più utile che altrove. - Hai bisogno di denaro? Ho riscosso or ora per conto del capo. - Dammi cento rupie. - E dove potrò io trovarti? - Nel sobborgo di Kaddar vi è una casetta tutta rossa, che appartiene al chitmudgar, che era stato messo a disposizione del capitano Yanez. Là andrò a stabilirmi. Ora parti senza indugio e va' ad avvertire la Tigre. Quell'uomo libererà di certo il capitano. - Bindar gli contò le cento rupie, poi partì a corsa sfrenata dirigendosi verso il fiume, dove contava di acquistare o di noleggiare qualche piccolo battello. Kubang proseguì il suo cammino per raggiungere il borgo, il quale trovandosi lontano dal palazzo reale, aveva meno probabilità, in quel luogo, di venire scoperto. Sua prima cura però fu quella di entrare da un rigattiere baniano e di cambiare il suo costume troppo vistoso, con uno mussulmano; poi dopo d'aver fatto colazione in un modestissimo bengalow di passaggio, riprese la marcia addentrandosi nelle tortuose viuzze della città bassa. Eccetto che nei grandi centri, o nei dintorni dei palazzi reali o delle più celebri pagode, le città indiane non hanno strade larghe. La pulizia è una parola poco conosciuta, sicché quelle viuzze, prive d'aria, sempre sfondate e polverose, essendo rare le piogge, somigliano a vere fogne. Una puzza nauseante si alza da quei labirinti, anche perché di quando in quando si trovano delle vaste fosse, dove vengono gettate le immondizie delle case, il letame delle stalle e le carogne d'animali morti. Guai se non vi fossero i marabù, quegli infaticabili divoratori, che da mane a sera frugano entro quei mondezzai, ingozzandosi fino quasi a scoppiare. Fu solamente verso le tre del pomeriggio che Kubang, che aveva parecchie volte sbagliata via, non conoscendo che imperfettamente la città, riuscì finalmente a scoprire la casetta rossa del chitmudgar. Era una minuscola costruzione a due piani, che sembrava più una torre quadrata che una vera casa, che si elevava in mezzo ad un giardinetto dove sorgevano sette od otto maestose palme, che spandevano all'intorno una deliziosa ombra. - È un vero nido, - mormorò Kubang. - Speriamo che il proprietario vi sia già. - Aprì il cancelletto di legno che non era stato fermato e s'inoltrò sotto le piante. Il maggiordomo stava seduto dinanzi alla sua casetta, insieme a una bella e giovane indiana dalla pelle vellutata, appena un po' abbronzata, con lunghi capelli neri adorni di mazzolini di fiori. - Ti aspettavo, sahib, - disse l'indù muovendo sollecitamente incontro al malese. - Sono due ore che sono giunto. Ecco la mia donna, una brava fanciulla, che sarà ben lieta di riceverti come ospite, se tu, come credo, avrai intenzione di fermarti qui. Almeno saresti sicuro, specialmente ora che hai cambiato pelle. - È una offerta che io accetto ben volentieri, avendo dato appuntamento qui agli amici del mio padrone. - Saranno sempre ben ricevuti da me e dalla mia donna. - Hai raccolte notizie sul capitano? - Ben poche. Posso solo dirti che è sempre rinchiuso nel sotterraneo della terza cupola, però ... - Continua. - Ho trovato il modo di poter far pervenire a lui tue notizie, se credi che possano essergli utili. - E come? - chiese il malese con ansietà. - Il rajah ha rinnovato i carcerieri che vi erano prima, e uno è un mio parente. - E si presterà al pericoloso giuoco? - È troppo furbo per lasciarsi sorprendere. Con un po' di rupie, sarà a nostra disposizione. - Dammi un pezzo di carta. - Più tardi: ora pranziamo. -

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