Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Antropologia soprannaturale Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Avendo così dunque il santo Dottore stabilito che il genere del peccato abbia due specie, cioè che ci sono peccati che s' incorrono per una libera trasgressione dei divini precetti, e unde liberum sit abstinere, e che ci sia un' altra specie che si subisce, come pena, per via di generazione senz' atto di libera volontà, non solo abbattea con ciò il pelagianesimo, ma sottraeva anche il peso della sua autorità ai futuri Giansenisti, giacchè mentre egli riconosce nello stato presente dell' uomo, oltre il peccato di origine, anche quello che liberamente e consapevolmente si commette, i Giansenisti che falsamente si dicono suoi discepoli, non riconoscono la specie di peccati che si commettono dalla volontà libera dalla necessità, unde liberum sit abstinere . 39. S. Agostino oltrecciò coll' avere stabilito che il peccato originale ha condizione di pena (il che non gli toglie però la natura di peccato) venne con questo solo a rendere ragione del perchè non possa essere un peccato libero della volontà di chi lo subisce. Poichè la pena è contraria alla libera volontà: [...OMISSIS...] . E come la pena è contraria alla volontà, così è contraria alla colpa. Onde S. Tommaso divide il male nell' ordine delle cose volontarie in queste due specie appunto di: 1 male volontario, cioè liberamente voluto, e questa è la colpa ; 2 male involontario, e questa è la pena (1). Se dunque il peccato originale ne' bambini ha ragione di pena secondo S. Agostino, segue da questo stesso, ch' egli non possa essere per essi il contrario, cioè colpa . Nè vale il dire che talora si vuole anche la pena non come pena, ma come soddisfattoria o come medicinale; perchè il peccato originale non è pena soddisfattoria, ma trae anzi seco, come causa, la necessità di pene soddisfattorie; nè è pena medicinale, che è anzi il morbo che dee essere guarito, ed è ancora più che morbo, perchè è male dell' anima. 40. S. Agostino adunque difende contro i Pelagiani che il peccato originale è vero peccato, benchè sia anche nello stesso tempo pena del peccato precedente commesso da Adamo, distinguendolo così entitativamente da quel di Adamo: [...OMISSIS...] . Con che nello stesso tempo che stabilisce, che la macchia originale ne' bambini è un vero peccato in sè stesso considerato, riconosce però che è l' effetto di una prima causa libera, che fu quella di Adamo, alla quale si riferisce l' imputazione e la colpabilità, rimanendo sempre fermo che l' effetto non sia la causa . Onde non finisce di ripetere, che « origo tamen etiam huius peccati descendit a voluntate peccantis (4), » rimanendo di nuovo distinto l' originale dall' originato. Combatte dunque S. Agostino i Pelagiani da una parte e i Manichei dall' altra coi due aspetti in cui si deve considerare il peccato originale ne' bambini, in sè stesso, nella sua entità propria come puro peccato, cioè come una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita, e relativamente alla volontà libera di Adamo che ne fu causa, da cui viene la nozione di colpa. Pe' quali due aspetti, il peccato originale si chiama peccato comune in quanto è un solo nell' origine di cui tutta la massa è stata corrotta e macchiata, è una sola la colpa; e si chiama anche peccato proprio , come lo dichiara il Tridentino, in quanto partecipato ne' singoli è più di numero, benchè uno di specie, avendo ciascuno la sua propria corruzione e macchia, che è non è quella di un altro. S. Agostino in fatti chiama il peccato originale commune , dove dice: [...OMISSIS...] . Ma il santo Dottore lo riconosce anche come proprio de' singoli dove dice: [...OMISSIS...] . 41. Sulle traccie di S. Agostino, e con un linguaggio in alcune cose più scientifico e da scola cammina S. Tommaso. Poichè anche questo santo Dottore, data la definizione del peccato in tutta la sua generalità, si fa a distinguere le due specie di peccato puro e di peccato imputato al libero suo autore. Nel concetto dunque di peccato (nell' ordine morale) altro non si acchiude, secondo l' Aquinate, se non « una deviazione dall' ordine della ragione relativamente al fine comune della vita umana«, » quando nel concetto di colpa si acchiude di più l' imputazione alla causa libera, e però ivi solo propriamente è la colpa, dove è la libertà. Laonde il peccato può essere in un individuo umano secondo la vera nozione di peccato, e la colpa di questo peccato essere, propriamente parlando, non in un modo traslato, in un altro individuo che liberamente ne sia stato causa ed autore. Tali sono le distinte nozioni che ci dà S. Tommaso in queste parole: [...OMISSIS...] . Sulle quali filosofiche definizioni del santo Dottore ragioniamo così:« Solo allora l' atto s' imputa all' agente e diviene colpa, quando è in potestà del medesimo, di modo che questo abbia il dominio del suo atto, cioè possa farlo e non farlo. Ma il bambino ha bensì il peccato originale, ma non ha il dominio del suo atto, e non può colla libera sua volontà evitarlo. Dunque non gli può essere imputato, e però non è sua colpa, ma solo peccato, secondo l' Angelico. Quindi per trovare un modo nel quale si dica che il peccato originale venga imputato al bambino, conviene ricorrere ad un modo non proprio, ma traslato, come fa lo stesso santo Dottore, dicendo che il peccato originale s' imputa al bambino, come s' imputa l' omicidio alla mano di chi l' ha commesso, dicendo che è colpa della mano. Ma è ben chiaro che l' istrumento non è in senso proprio imputabile e colpevole di ciò che fa di bene e di male colui che usa dell' istrumento, perchè l' istrumento non è un agente che abbia il dominio del proprio atto, e non ha neppure la cognizione di ciò che l' agente gli fa fare, o piuttosto di ciò che egli stesso fa per mezzo suo. E` dunque più chiaro del sole, che secondo l' Angelico nel bambino esiste il solo peccato, separato dalla colpa, quel peccato che S. Agostino dichiarava peccato pena di una colpa antecedente; e che la colpa, in senso vero e proprio di un tal peccato, non esistette che in Adamo, che fu il solo agente che avesse il dominio del proprio atto; e che in senso puramente traslato, s' applica poi la colpa di Adamo a tutti i suoi discendenti che ricevono per la generazione il peccato. 42. Ma quantunque la mente dell' Angelico sia così aperta, tuttavia v' hanno di quelli che non arrivano ad intenderla, e gioverà che ci facciamo ad esaminare le loro obbiezioni. Costoro adunque per riconfondere di novo il peccato colla colpa ci oppongono che S. Tommaso al passo da noi citato soggiunge, che [...OMISSIS...] . Ma questo passo appunto lungi dal favorire gli oppositori, conferma apertamente e ribadisce la distinzione che voglio distruggere. Esaminiamone il senso con diligenza. a ) Ammettendo il santo Dottore che il male possa esistere in ogni cosa creata anche inanimata, perchè non è altro che privatio boni , e così pure che possa esistere il peccato in tutti gli agenti, perchè non è altro nella sua definizione generalissima che un atto che tendendo ad un fine devia dal medesimo, « cum non habet debitum ordinem ad finem illum , » perciò distingue tre ordini in cui possa cadere il peccato preso in questa generalità, cioè l' ordine della natura , l' ordine dell' arte , e l' ordine morale . Ora è chiaro che negli agenti naturali, o negli artistici, non ci può essere colpa, e però il male e il peccato non s' identifica in essi colla colpa; ma negli agenti morali cioè nei loro atti volontarii il male, il peccato e la colpa s' identificano, perchè sono agenti suscettivi di lode o di biasimo quando agiscono liberamente. S. Tommaso adunque non intende qui che paragonare gli atti volontarii cogli atti della natura e dell' arte, e in questi soli dice che s' identificano il male, il peccato e la colpa: non paragona una specie di atti della volontà con altri atti, non paragona gli atti necessarii cogli atti liberi, il che fa in altri luoghi. b ) Che poi l' espressione che usa qui S. Tommaso « in actibus voluntariis , » si deva intendere senza dubbio di atti liberi , non solo apparisce dal contesto, attribuendo loro lode e colpa e avendo poche linee avanti già spiegato in che consiste l' imputazione a lode o a colpa, con queste parole: « Tunc enim actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus , » ma si trova di questa maniera di usare la parola« volontario« una ragione intrinseca anche nella stessa dottrina dell' Aquinate. Poichè avendo distinta la volontà come natura, voluntas ut natura , e la volontà come volontà, voluntas ut voluntas, e a questa appartenendo la libertà, a quella la necessità, egli chiama volontarii gli atti che appartengono a questa seconda, riponendo nel numero di atti naturali quelli che appartengono alla volontà operante come natura, benchè riconosca che anche questi appartengono alla stessa volontà, e in questo senso si possono dire« volontarii«. Applicando la qual teoria di S. Tommaso alla questione, così argomentiamo: S. Tommaso dice, che il male, il peccato e la colpa sono il medesimo nei soli atti volontarii, cioè liberi: ma il peccato originale ne' bambini non è un atto volontario libero: dunque, secondo il santo Dottore, in esso peccato non è il medesimo il peccato e la colpa. Il testo che ci si oppone convalida la distinzione. c ) Di più, S. Tommaso nel detto testo parla di atti , dice che ne' soli atti volontarii male, peccato e colpa diventano la stessa cosa. Ma nei bambini non ci sono atti volontari : il peccato da lor contratto non è un atto della loro volontà, ma è un abito della medesima contratto per via di generazione: dunque, secondo S. Tommaso, ne' bambini non è il medesimo il peccato e la colpa , perchè l' identità di queste due cose, secondo lui, cade solamente negli atti volontari, in solis actibus , e però non cade negli abiti : in questi può accadere l' opposto, può accadere che dove c' è l' abito peccaminoso, ivi non ci sia la colpa corrispondente: ed anzi la maggior parte dei teologi sostiene che cogli abiti non si meriti, perchè essi non sono atti liberi, a cui solo il merito è dovuto. Di nuovo dunque il testo citato per distruggere la detta distinzione la conferma mirabilmente. d ) E tutto questo viene espressamente confermato da San Tommaso, che distingue il peccato originale così: [...OMISSIS...] . 43. Con questi stessi principii 1. che volontario comunemente significa libero presso S. Tommaso, per la ragione detta, 2. che egli parla di atti , e non di abiti: (e così per doppia ragione, rimane tagliato fuori il discorso del peccato originale), si disciolgono le difficoltà contro la distinzione sopra mentovata tra peccato e colpa , che altri passi dell' Angelico potrebbero ingerire nell' animo di chi li considera superficialmente, e che noi abbiamo già dissipate nelle varie nostre opere (2), principalmente nella prima e seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa illustrate . Altri luoghi dell' Angelico con facilità pure si spiegano ponendo attenzione al valore delle parole. Così ciò che dice: « ibi incipit genus moris, ubi primum dominium voluntatis invenitur , » è vero tanto se si intende nello stesso senso, in cui S. Agostino aveva detto: « nisi voluntas mala, non est cujusquam ulla ORIGO peccati , » testo da noi citato di sopra, quanto se s' intende di un dominio della volontà potenziale, sebbene non esercitato per accidentali cagioni; quanto finalmente se per genus moris s' intende la moralità che ognuno si procaccia liberamente coi suoi costumi, colle sue proprie operazioni, che è l' uso più consueto che si fa di questa parola. Ma un argomento ugualmente ineluttabile, che non lascia dubitare della mente di S. Tommaso si è, che l' intendere S. Tommaso contro la proprietà del linguaggio da lui usato e fargli dire, a ragion d' esempio, che« il bambino che riceve il peccato originale per generazione con questo sia anche colpevole, e gli si deva imputare a colpa, come s' imputano le male azioni all' uomo che le fa liberamente«, il dir questo, non solo mette S. Tommaso in contraddizione seco stesso e coi principii più inconcussi della sua dottrina, ma lo fa diventare di più Giansenista, giacchè i Giansenisti sono quelli che vogliono appunto, che il peccato originale sia rispetto al bambino imputabile a colpa e a demerito, o perchè egli lo ricevè senza impugnare colla sua volontà, come disse Baio, o perchè basti a costituire la colpa e il demerito d' un individuo, la volontà libera d' un altro individuo, cioè di Adamo, che è la sentenza propria di Giansenio. Se dunque non si vuole calunniare a questo segno il santo Dottore riman fermissimo, che egli distinse nel peccato dei bambini il peccato dalla colpa, confessando quello inesistere in essi come vero peccato, la colpa poi riferirsi in Adamo che ne fu la libera causa: il che ho comprovato in più opere con tanti e sì luminosi testi del santo Dottore, che non mi saprei spiegare, come ancora possa rimanere su di ciò il minimo dubbio. 44. Con questa distinzione adunque, comune nella sostanza a S. Agostino e a S. Tommaso, rimane da una parte atterrato il sofisma de' Pelagiani, dall' altra quello dei Giansenisti. Poichè ai Pelagiani è dimostrata per essi la possibilità, che in un individuo esista realmente un vero peccato che egli non ha commesso con alcun atto di sua libera volontà, il che non si potrebbe loro dimostrare se si trattasse di una colpa: ai Giansenisti del pari è dimostrato, che niun peccato può essere imputato a colpa propria in chi non fu libero a riceverlo o a commetterlo, e che può stare il dogma del peccato originale senza l' imputazione a chi lo subisce, bastando che essa si possa fare alla causa libera che lo commise e commettendolo lo pose in essere, onde risplende manifesta la ragione della condanna che fece Innocenzo X della terza proposizione di Giansenio, e quella d' altre simili proposizioni dalla Santa Sede anatematizzate. Ripeterò qui dunque le parole colle quali ho conchiuso la seconda parte delle Nozioni di peccato e di colpa . « Trattasi di due concetti che sono, quasi voleva dire, i poli su cui si gira l' intiero Cristianesimo: tolta la colpa con Giansenio e Calvino, l' obbligazione, il merito, la pena, il premio è perito: tolto peccato necessario con Pelagio - non è più quello che le Scritture chiamano peccatum mundi : la redenzione, la grazia medicinale, l' efficacia de' Sacramenti ex opere operato , Cristo, le sue promesse, la Chiesa da lui fondata, non hanno più una ragione«. Ammessi quei due concetti e ben distinti, tutto è restituito, le contrarie eresie cadono sotto entrambi, alla luce della dottrina della Chiesa. 45. Ma è necessario, che dimostriamo più specificatamente la necessità di distinguere le due nozioni per poter rispondere con efficacia ai Pelagiani non meno che ai Giansenisti. E alle obbiezioni dei Pelagiani risponderemo in quest' articolo: l' errore de' Giansenisti intorno alla natura del peccato originale, essendo intimamente connesso con altri errori intorno alle conseguenze del peccato stesso, sarà confutato nel paragrafo che segue. Tutti gli argomenti dei Pelagiani a favore della loro eresia come a capo e principio si riducono al seguente:« Il peccato (e così dicasi di tutto ciò che riguarda l' ordine morale) è l' opera della volontà umana propria di ciascun umano individuo, e non l' opera della natura: [...OMISSIS...] . Essendo la volontà di un individuo propria di lui, essa stessa non può passare in un altro individuo, e perciò non può neppure passare in un altro il suo proprio atto buono o reo: quindi il peccato di un individuo non può trasmettersi in un altro. Ma la volontà del bambino non produce con alcun suo atto il peccato originale che dicesi essere in lui: dunque non può darsi esso peccato originale nel bambino. Nè vale il dire, che lo riceve per via di generazione, perchè questa appartiene alla natura e non alla volontà , a cui solo spetta il peccato«. Tanto risulta dai luoghi di S. Agostino, in cui reca la dottrina di Pelagio, e dai propri testi dell' opere di Giuliano Vescovo di Eclana, come si può vedere, oltre ai luoghi citati (2). 46. Ora per rispondere direttamente a quest' argomento è necessario dimostrare che la natura razionale, la natura umana, può soggiacere al peccato senza che concorra nessun atto della libera volontà di quella persona che subisce il peccato medesimo, e poichè questo non si potrebbe mai dimostrare della colpa e del merito , che, come mostrano la ragione e le definizioni della Chiesa, non possono stare in un individuo senza che la sua libera volontà ne sia la causa (e dire il contrario sarebbe l' eresia gianseniana), perciò è necessario separare il peccato dalla colpa e dimostrare che quello, e non però questa, ci può essere in una persona, senz' opera di sua libera volontà, ma per naturale generazione, e che così avviene rispetto al peccato d' origine. 47. Ora alcuni teologi moderni che d' altra parte hanno valorosamente combattuto contro l' eresia gianseniana, avendo abbandonata questa via, non sono sempre stati così cauti da non esporre un fianco indifeso all' eresia pelagiana, di cui credevano non esserci forse gran fatto a temere. Pochi esempi che ne darò, de' molti che me ne somministrerebbe la storia della Teologia, basteranno a dimostrare, per la ragione de' contrari, la solidità del metodo che noi proponemmo, sulla traccia dei più antichi e sicuri maestri, per abbattere non una sola, ma entrambe le eresie opposte ad un tempo. Il dotto e per altro accurato teologo Domenico Viva (e lo stesso professano altri teologi) scrive così dei dannati: [...OMISSIS...] . Ora il Pelagiano non mancherebbe di approfittarsi di questo principio, argomentando in questo modo:« Voi mi accordate che il peccato fisicamente necessario non è peccato formale, ma solo materiale. Ma il peccato, che si dice originale ne' bambini è per essi fisicamente necessario: dunque è per essi puramente un peccato materiale, e non un peccato formale. Ora il peccato materiale non è peccato, mancandogli la forma, che è quella che dà la specie e il nome alle cose. Dunque non esiste alcun peccato originale nei bambini«. La maniera adunque di favellare che usano tali teologi non sembra abbastanza cauta contro la eresia pelagiana. Il dire che il peccato necessario è piuttosto pena che peccato non è conforme alla dottrina di S. Agostino, che trova che i due concetti di pena e di peccato possono stare insieme come accade nell' originale. Che l' odio poi in Dio, in qualunque modo esista in un' anima, sia formalissimo peccato consegue dalla definizione da noi data del peccato sulle vestigia di S. Tommaso e di S. Agostino essere cioè« il peccato una deviazione della volontà dal fine dell' umana vita«. E qual deviazione maggiore dal fine dell' umana vita dell' odio di Dio? Questo è ciò che vi ha di sommo, di perfettissimo nel suo genere, e male a proposito lo stesso Viva (2) paragona a quest' odio gli atti necessari della concupiscenza, dicendo che il Tridentino nega che sieno peccati, ma sì venienti dal peccato e inclinanti al peccato; poichè tali atti, non voluti dall' uomo rinato, non sono una « deviazione della volontà dal fine«, al quale anzi la volontà del giusto intimamente unita e via più si stringe, lottando contro di essi, e così dando prova di amare Iddio suo fine. Nè pure dunque al peccato originale, sebbene fisicamente necessario per riguardo al bambino, può negarsi la forma di peccato; e il farlo contraddirebbe alle parole del Sacrosanto Concilio di Trento, che dicendo: [...OMISSIS...] , riconosce nell' originale « la vera e propria ragion di peccato« » che equivale a dire la forma vera e propria di peccato. Conviene dunque togliere l' equivoco delle parole, e invece di negare che ci possa essere un peccato formale , necessario, è da negarsi che ci possa essere una colpa formale rispetto alla persona che soggiace alla necessità: con che si chiude la bocca ad un tempo ai Pelagiani e a' Giansenisti. 4.. Nè del pari si cautela abbastanza la dottrina cattolica contro l' eresia pelagiana dicendo col Lugo (2), che il peccato originale ne' bambini è solo « peccatum interpretative proprium ob inclusionem voluntatis propriae in voluntate Adae, tamquam tutoris humani generis ». L' istitutore di un tutore appartiene alla legge positiva civile, e non si può trasportare all' ordine naturale, se non come una vana metafora. Di poi, il tutore non si dà dalla legge civile a quelli che non sono ancora concepiti, e però non esistendo, non hanno diritti da tutelare. In terzo luogo il tutore può bensì rappresentare il pupillo riguardo a' suoi interessi temporali ed esterni, e può produrre degli effetti legali che modificano la condizione del pupillo nel foro esterno, ma non può assorbire in sè la personalità del pupillo, e tutto ciò che appartiene all' interiore moralità del pupillo stesso di maniera che il pupillo sia reo o sia buono in sè stesso solo perchè il suo tutore è reo o è buono: cosa assurda. La personalità d' ogni uomo è incomunicabile, non può essere contenuta in nessun' altra personalità: riguardo alla dignità personale e morale non solo il pupillo è indipendente dal tutore, ma anche il figliuolo dal padre e il servo dal padrone, ed era un enorme abuso di autorità, proprio solo del paganesimo, quello di considerare il figlio o il servo come una cosa , di cui la volontà del padre e del padrone potesse disporre anche per riguardo alla dignità morale, come abbiamo già dimostrato nella Filosofia del Diritto , e specialmente dove abbiam parlato de' diritti connaturali dell' uomo (1). In quarto luogo finalmente nè pure le leggi civili accordano al tutore il potere di abusare della sua autorità a danno del pupillo: e però l' autorità tutoria che si vuole attribuire metaforicamente ad Adamo non si potrebbe mai estendere a rendere tutti i nascituri da lui rei del proprio peccato, nè pure se Adamo avesse voluto, sia per l' intrinseco assurdo che c' è in un tale concetto, sia perchè neppur la legge positiva accorda o può accordare una tale autorità al tutore, sia perchè tutela non ci può essere finochè i pupilli stessi non esistono. In che senso dunque si può mai chiamare un peccato proprio solo interpretativamente quello in cui nascono i bambini? Quale interpretazione arbitraria e crudele volete voi fare a danno dei poveri bambini? Volete voi interpretare che se le volontà di tutti i bambini nascituri da Adamo fossero state presenti quando Adamo trasgredì il divino precetto, avrebbero anch' esse dato il loro consenso? Infatti i teologi chiamano intenzione interpretativa « cum quis nullam habet nec habuit intentionem actualem sed ita est dispositus, ut si adverteret, haberet . » Voi adunque giudicate che tutti i bambini nascituri, prima di essere infetti del peccato originale, sarebbero stati così disposti da consentire nel peccato adamitico. Ora non è questo un giudizio temerario? Che un uomo esista, e che, esistendo, abbia disposizione a consentire in un peccato avendone l' occasione, si potrà forse congetturare da certi segni, che dimostrano quella sua mala disposizione , e quindi si potrà in qualche modo, dire che interpretativamente e per via di mera congettura, è già in peccato. Ma di uomini, che non esistono ancora, e che non hanno nessuna precedente mala disposizione, perchè si suppone che non sieno ancora in peccato (trattandosi di spiegare come vengano a soggiacere al peccato), di uomini dalla libera volontà de' quali in istato ancor buono e perfetto dipende la scelta, si potrà egli dire che siano disposti a consentire nel male stesso, nel quale consentì il loro padre prima di generarli? Delle cose contingenti e molto meno della scelta che farà una volontà perfettamente libera non c' è ancora alcuna determinata certezza (se non davanti agli occhi di Dio che vede anche la scelta, perchè è presente ad ogni tempo): onde è impossibile interpretare , che tutti i milioni di nascituri, non già saranno disposti a scegliere il male (come vuole l' intenzione interpretativa), ma senza essere disposti precedentemente, nè inclinati a scegliere il male, lo sceglieranno liberamente. Attribuire adunque a tutti i bambini non ancora esistenti un peccato interpretativo è un collocare l' interpretazione dove non può esistere, è formare un giudizio temerario e calunnioso, ed è sostituire in fine vane parole al dogma della Chiesa cattolica. Per il che dobbiamo conchiudere, che nè pure in questo sistema la verità del peccato originale rimane sufficientemente difesa contro il Pelagiano che risponderebbe:« Voi difensore del dogma del peccato originale non credete poterlo difendere se non dicendo che è un peccato proprio del bambino solo interpretativamente. Questo ben mostra la debolezza del vostro assunto, perchè un peccato interpretativo, come il fate voi, non è peccato. Convenite adunque con noi che il peccato originale ne' bambini non esiste veramente, e non può esistere«. 49. Agli stessi inconvenienti soggiace il sistema di Vasquez (1) e d' altri teologi che deviarono dalla tradizione scolastica d' accordo con quella de' Padri, affine di rendere più facile l' intelligenza della trasfusione del peccato. Immaginarono essi un patto tra Dio e l' umana natura sussistente in Adamo, in virtù del quale Iddio ripose le volontà de' singoli nascituri in quella di Adamo, di maniera che se Adamo conservasse la giustizia si riputasse che le volontà di tutti l' avessero voluta conservare, se per opposto egli eleggesse l' ingiustizia, anche le volontà di tutti i suoi figliuoli non ancora esistenti si considerassero rei di non averla conservata. E` difficile l' assegnare una differenza veramente sostanziale tra tale pensiero e quello di Giansenio, che diceva bastare la volontà libera di Adamo, acciocchè fossero imputati a' suoi figliuoli i loro atti non liberi: o piuttosto quel patto, se si potesse ammettere, sarebbe un modo di coonestare e giustificare la sentenza gianseniana. Ma in nessuna maniera si può ammettere. Primieramente, perchè la dignità personale, a cui spetta la moralità, non può essere materia di un contratto o di un patto, sia che questo patto lo faccia la stessa persona della cui dignità e moralità si tratta, sia molto meno che lo facciano de' terzi. In secondo luogo, perchè in Adamo c' era bensì la natura umana, ma non la persona de' suoi discendenti, della cui sorte si tratta, giacchè in quella natura non sussisteva che la sola persona di Adamo, e non quella di coloro che non esistevano ancora. In terzo luogo sarebbe un patto inonesto tanto da parte di Dio, quando da parte di Adamo, quanto da parte de' suoi discendenti, il cui consenso si presume. Da parte di Dio, il quale dispone delle sue creature cum magna reverentia , quando con quel patto disporrebbe della giustizia e ingiustizia dei posteri di Adamo, senza loro intervento e senza che nè pure esistessero: e ne disporrebbe preconoscendo con certezza che il patto andrebbe a finire male, cioè che la conseguenza del patto sarebbe stata quella di rendere rei di morte eterna tutti i discendenti del primo padre in virtù di un solo atto di questo, senza alcuna loro partecipazione: quando, se Iddio potesse fare un contratto simile, per la sua infinita bontà, non potrebbe farlo che a loro favore e vantaggio. E dato, per supposizione impossibile, che a Dio fosse stato ignoto l' abuso che Adamo avrebbe fatto della sua libertà; ancora rimarrebbe che lo stato di giustizia o d' ingiustizia de' posteri di Adamo, e quindi la loro eterna sorte, sarebbe stata esposta ad una specie di giuoco di sorte, poichè l' elezione libera di Adamo poteva esser fatta egualmente in senso bono e in senso non bono . Sarebbe stato inonesto dalla parte di Adamo, che non poteva nè avere alcuna autorità di patteggiare della moralità de' suoi futuri discendenti, nè poteva senza presunzione o temerità farla dipendere da un atto suo proprio, sapendo di essere fallibile, sebbene costituito in grazia. Sarebbe stato inonesto dalla parte degli stessi discendenti, volendo attribuir loro non esistenti ancora un assenso interpretativo, giacchè nessun uomo può lecitamente fare che l' esser egli giusto od ingiusto, innocente o peccatore, dipenda da un atto di un altro uomo: non potendo rinunziare alla propria responsabilità in cosa di tanto momento. Al che si aggiunge l' assurdo che si contiene nel pensiero, che la giustizia e l' ingiustizia di una persona umana possa mettersi in essere, non da una loro propria azione o passione, ma dall' azione di un' altra persona; come chi patteggiasse che se un' altro mangierà un cibo avvelenato, sarò avvelenato io che non ne ho mangiato; e chi mangierà un cibo salubre, ne starà bene il mio stomaco al pari del suo. Un sistema pieno di tante difficoltà e assurdi non poteva venire in mente, se non perchè dimenticandosi il concetto di peccato che è quello di disordine inerente alla persona, altro non si cercò di spiegare se non il concetto di colpa senza il substratum del peccato, che è la materia imputabile a colpa, onde si pensò come si potesse applicare la colpa a chi non aveva peccato. Egli è chiaro che anche con questo sistema hanno buon gioco i Pelagiani, i quali possono dire a un teologo che così ragiona:« Voi fate dipendere il peccato originale de' bambini da un patto che altri hanno fatto senza di essi: con questo venite a confessare che essi in sè stessi non hanno peccato alcuno, ma che loro viene imputato l' altrui peccato, pel buon volere di altri, a cui è piaciuto di fare un patto pel quale si obbligarono, in caso che Adamo avesse peccato, di imputar loro questo peccato!«. 50. E non meglio, per quanto io vedo, provvede all' illustrazione e alla difesa del dogma cattolico del peccato originale ne' bambini contro quelli che lo impugnano, il sistema di que' teologi, che fanno consistere questo peccato nella sola privazione dell' ordine soprannaturale, a cui il primo uomo era stato elevato per mezzo della grazia santificante. Essi si persuadono d' essersi con questa invenzione fabbricato un istrumento, dirò così, a due manichi, prendendolo dall' un de' quali possano dimostrare ai Cattolici la loro perfetta ortodossia nell' ammettere il peccato originale, prendendolo dall' altro possano dimostrare agli increduli che spacciano questo dogma contrario alla ragione, che esso non involge nè pur l' ombra o l' apparenza di difficoltà, e che quindi essendo facilissimo a spiegarsi e a dimostrarsi conforme alla ragione, si possa risparmiar loro quello che S. Agostino diceva a Giuliano: « Si potes, intellige; si non potes, crede (1), » e si possano considerare come esagerate quelle altre parole del santo Dottore, che però esprimono il sentimento di tutta la tradizione, prima de' nuovi teologi di cui parliamo: [...OMISSIS...] . 51. Coi Cattolici questi teologi dimostrano il peccato originale così: « La vita dell' anima è la grazia santificante: la privazione di questa grazia è dunque la morte dell' anima, e però in questa consiste il peccato originale ne' bambini. Avvertite però che c' è differenza tra la mancanza ossia carentia della grazia, e la privazione . Il peccato originale consiste nella privazione della grazia e non nella semplice carenzia. La differenza è questa: Iddio poteva crear l' uomo senza la grazia santificante e di conseguenza senza l' ordine soprannaturale: in tal caso gli sarebbe mancata la grazia soprannaturale, ma non sarebbe stato per questo peccatore, nè morto dell' anima, perchè Iddio avrebbe decretato fino a principio di non dargli una cosa che non gli era dovuta. Ma Iddio costituì Adamo nella grazia santificante, e fece a principio il decreto che sarebbe passata a' suoi discendenti s' egli non avesse peccato, benchè ben sapeva che avrebbe peccato. Avendo dunque Adamo perduta colla sua disubbidienza la grazia, i suoi discendenti, benchè non abbiano disubbidito, sono restati privi della grazia, che posto il decreto di Dio era loro dovuta: e però questa mancanza di grazia in essi non è semplice mancanza in essi, ma privazione , e così, atteso quel divino decreto, sono peccatori, morti nell' anima, schiavi del demonio, ecc.«. Così provano l' esistenza del peccato originale ne' bambini. Rivolgendosi poi agli increduli, che dicono essere contrario alla ragione che un bambino che ancora non ha posto alcun atto di sua libera volontà, deva avere in sè un vero peccato che lo renda oggetto dell' ira e dell' indignazione di Dio, parlano loro in questo modo:« Non c' è la menoma repugnanza colla ragione: e voi non siete bene informati che cosa si intenda pel peccato de' bambini. Per questo peccato altro non s' intende se non che viene loro tolto quello che non è per sè stesso dovuto alla loro natura: la natura l' hanno tutta senza lesione o ferita di sorte: ma i doni soprannaturali che non appartengono alla natura, Iddio se li ritiene senza concederli loro: ecco che cosa è il peccato originale. Vedete dunque che non solo qui non c' è assurdo, ma nè pure c' è la minima difficoltà: e il modo della sua propagazione è tanto piano che non può nè manco essere oggetto di una questione, perchè non si vede alcun motivo di dimandare « quomodo propagetur quod non est , » come dice un chiaro teologo« (1). 52. Non so a dir vero che cosa l' incredulo, udendo che il peccato originale non è finalmente altro che questo, non è nulla che pregiudichi veramente all' umana natura che solo rimane per esso spoglia di quello che per sè non le appartiene, sarà per dir poi di tanti lamenti e vituperi, di cui è piena la dottrina e la tradizione cattolica intorno all' originale peccato come a somma calamità e sciagura caduta addosso al genere umano, da volerci la morte di un Uomo7Dio per ripararla: e se egli non riputerà forse di essere ingannato o da nuovi teologi, o dagli antichi, con danno ed onta della cattolica fede. Ma lasciando lo scandalo che possano prendere gli eretici confrontando la nuova espressione del dogma coll' antica e perpetua, noi restringiamoci a confutare il sistema proposto in sè stesso. 53. L' uomo, si dice, poteva essere creato da Dio come nasce al presente non adorno della grazia santificante. L' uomo che fosse stato così creato, e l' uomo qual nasce al presente sono nè più nè meno, per riguardo ad essi, nella stessa condizione della natura umana. Ma in quello la privazione della grazia non sarebbe peccato, e però con quello Iddio non sarebbe irato nè indegnato, in questo la stessa privazione della grazia è peccato e però Iddio con questo è irato e indegnato. Da che nasce questa differenza, per la quale la stessa identica condizione naturale nell' un caso non è peccato, nell' altro è peccato? Rispondono:« Nasce da un decreto di Dio: nel primo caso Iddio non avrebbe fatto il decreto che gli uomini che nascessero da un padre costituito nella grazia santificante, ereditassero anch' essi la grazia: e avrebbe anzi decretato che tanto il padre, quanto i figli rimanessero nello stato naturale. Nell' altro caso Iddio ha decretato che il padre fosse costituito in grazia, e che se la perdesse, la perdesse per tutti i suoi discendenti: perciò questi nascendo senza la grazia hanno il peccato; laddove i primi nascendo senza la grazia non avrebbero il peccato«. In questo sistema dunque il peccato originale de' bambini dipende da un decreto di Dio: secondo che a Dio piacque di fare piuttosto uno che un altro decreto, essi senz' altro, o sarebbero peccatori o nol sarebbero: benchè in quanto ad essi niente è mutato, nell' un caso non hanno in sè nè più nè meno dell' altro: non c' è in essi altro difetto inerente che abbia per sè ragion di peccato: ma quello che non ha per sè ragion di peccato, cioè la mancanza della grazia, diviene tale per un decreto positivo di Dio, che Iddio poteva non fare. Di qui sembrano venirne più assurdi e difficoltà: a ) Che Iddio col suo decreto è il vero autore del peccato ne' bambini, cangiando col detto decreto in peccato ciò che senza il detto decreto non sarebbe peccato. b ) Cresce questo assurdo, quando si consideri che quel decreto di Dio, pel quali stabilì che la giustizia o il peccato del padre Adamo debba passare ai posteri, e così sia loro dovuta l' una o l' altro, non è un decreto condizionato, se non al nostro modo di concepire, nè è un decreto che stabilisca una vera alternativa da parte di Dio: perchè Iddio ben sapeva che Adamo non avrebbe già conservata la giustizia ma avrebbe peccato, e questo stesso peccato era contenuto nel decreto totale di Dio, perchè Iddio non fa già molti decreti, ma con un solo decreto stabilì tutta l' economia del governo dell' umanità e della sua salute. Iddio adunque sapea di certo che Adamo avrebbe peccato, e se egli decretò che il peccato di lui passasse ai posteri, egli non fece un tal decreto sopra una ipotesi, o sopra una vera alternativa come accade degli uomini, ma egli avrebbe con ciò costituiti col suo decreto positivo tutti i discendenti peccatori, privandoli della sua grazia, e attribuendo a questa privazione, secondo tal sistema, ragione di peccato. c ) Un tale sistema contiene ancora questo assurdo, che un decreto positivo cangerebbe la natura delle cose, non dico già un decreto efficace che influisce e cangia colla sua operazione le cose, ma un decreto che lascia la cosa qual' è. Ella non può cangiare certamente di natura solo pel buon volere di chi decreta che sia un' altra, quando la sua natura non diviene un' altra. Così nell' uomo creato nell' ordine naturale, e nel figliuolo generato da Adamo, la mancanza di grazia è e rimane in sè la stessa, ma questa identica senza subire alcuna modificazione, solo perchè nell' un caso Iddio decretò di non voler dare la grazia, non ha natura di peccato, nell' altro caso solo perchè decretò bensì di non volerla dare a' discendenti di Adamo, ma che l' avrebbe loro data se Adamo non avesse peccato, sapendo già egli che avrebbe peccato, questa privazione acquistò la natura di vero peccato, che non aveva prima. d ) In un tale sistema inventato per ovviare le difficoltà nascenti dall' essere il bambino reo di peccato senza aver preso alcuna parte al peccato di Adamo, ritornano in campo, anche con maggior apparenza, rimanendo sempre a spiegare come Iddio potesse, salvi i suoi divini attributi di bontà e di giustizia, rendere il non dare la grazia al bambino (il che dipende unicamente da lui cioè da un suo libero decreto) un peccato del bambino, tale da fare che il bambino per sè innocente diventi un oggetto della sua ira e della sua indegnazione, degno di eterna condanna, morto dell' anima, schiavo del demonio, ecc., cose tutte che sarebbero concertate nel consiglio di Dio, senza intervento alcuno del bambino stesso, della cui sorte nelle mani di Dio si sarebbe così infelicemente disposto. 54. Ma per vedere più chiaramente quanto manchi a un tale sistema a poter vantarsi di rappresentare fedelmente il dogma cattolico e a difenderlo contro l' eresia, gioverà intendere ed esaminare le ragioni de' suoi fautori, o, per meglio dire, quelle vane frasi di parole e distinzioni di cui lo vestono, perchè ora vi dicono che il bambino è peccatore perchè non semplicemente nudo, ma spogliato della grazia santificante; ora che questa mancanza è peccato perchè non è sola mancanza ma privazione; ora perchè la detta grazia non è per lui cosa estranea alla sua natura, ma dovutagli; ora perchè costituisce un' avversione a Dio, ma non positiva, ma solamente negativa ; ora finalmente credono di trovare il saldo fondamento di un tale loro sistema nelle proposizioni condannate in Baio e in Giansenio. E` dunque a esaminare la solidità di queste molteplici e diverse maniere di cui si riconosce aver bisogno il sistema di cui parliamo, affinchè possa essere insinuato nell' altrui persuasione. a ) Se un uomo, dicono, venisse creato da Dio nudo della grazia santificante, questa nudità non costituirebbe per lui alcun peccato: ma se un uomo viene spogliato della grazia e per questo rimane nudo di essa, questa condizione di spogliato lo costituisce in istato di vero peccato, e però il bambino nasce in peccato. Qualunque sia la verità di questa asserzione, essa potrà convenire ad Adamo che fu veramente vestito e poi spogliato della grazia santificante (non però per sempre): ma il bambino che nasce da Adamo non fu mai vestito, e però non fu mai spogliato da Dio. Rispetto poi ad Adamo egli fu spogliato della grazia santificante a cagione del suo peccato. L' aver dunque Iddio tolto ad Adamo la grazia non poteva essere il peccato di Adamo che ne fu la giusta causa, ma solo la pena e la conseguenza del peccato. Che se in Adamo questo spogliamento non costituì il peccato, molto meno può costituirlo ne' bambini, il peccato de' quali è uno solo nella sua origine con quel di Adamo, e della stessa specie del peccato abituale di lui, benchè numericamente diverso. Altramente sarebbe passato ne' posteri solo quello che in Adamo non era peccato, contro il dogma, che, come dice S. Tommaso, « solum primum peccatum primi parentis in posteros traducitur (1), » e non sarebbe più uno di specie. [...OMISSIS...] Ma rispondono, se il bambino non fu spogliato di fatto, fu spogliato di diritto, perchè aveva diritto alla grazia. Ma perchè aveva diritto? pel decreto fatto prima da Dio: senza questo decreto che Iddio, secondo gli avversarii, potea non fare, il bambino non aveva alcun diritto. Il peccato dunque del bambino ha per vera causa quel decreto di Dio: e così tornano in campo le difficoltà precedenti. Che se si dice che il bambino avea diritto non per decreto di Dio, ma per qualche altra ragione, convien dare quest' altra ragione, e torneremo nel ginepraio delle difficoltà. Ma suppongasi che il bambino sia stato spogliato della grazia. L' esser spogliato da altri è egli un peccato? S' intende che lo spogliatore possa essere peccatore se spoglia altrui della veste ingiustamente: ma che colui che viene spogliato, e che non può impedire al più forte di spogliarlo, per questo sia costituito peccatore, chi lo può intendere? O dunque Iddio spogliò il bambino della grazia ingiustamente, e allora il peccato ricade in Dio, o giustamente, e allora bisogna dire qual ragione di giustizia ci aveva di spogliare il bambino innocente di quella veste, e torneranno tutte le difficoltà che si volevano evitare, converrà di nuovo spiegare il detto di S. Paolo in quo omnes peccaverunt , e dopo di ciò ne verrà che il bambino rimarrà spogliato della grazia pel suo proprio peccato, e però lo spogliamento seguirà come pena al peccato, e non sarà il peccato stesso, il quale conterrebbe solo la ragione per cui quello spogliamento sia giusto. b ) Gli argomenti a favore di questo sistema reincidono sempre nel medesimo: i suoi fautori non moltiplicano che le parole e le sottili e puramente logiche distinzioni per darvi credito. Così vi dicono: noi distinguiamo la carenza della grazia santificante dalla privazione della medesima. Se Iddio avesse voluto creare l' uomo nell' ordine della natura, la mancanza della grazia santificante nè sarebbe peccato, nè sarebbe morte dell' anima, benchè prima dicano in universale che la detta grazia sia la vita, e che la mancanza della vita sia la morte dell' anima. Ora non più: non ogni mancanza della grazia è morte dell' anima, ma solo quello che è privazione. Poichè avendo Iddio decretato di dare la grazia a Adamo e a' suoi posteri, non dandogliela, tale mancanza è privazione , e così vogliono che sia morte dell' anima e peccato. Or che Adamo si sia demeritata la grazia, questo è chiaro per la sua prevaricazione, e però che Iddio l' abbia punito col privarlo della sua grazia, questa è necessità e patente giustizia. Ma questa privazione della grazia in Adamo è pena conseguente al suo peccato, e non è il peccato stesso commesso da Adamo. Ma riguardo ai bambini, che non hanno peccato, ci dicano come sia giusto il privarneli. Negano che abbiano in sè alcun peccato? perchè dunque privarli della grazia, perchè pretendere di più che questa stessa privazione sia per essi peccato? Che se dicono avere ereditato il peccato; in tal caso certo è giusto che sieno privati della grazia. Ma allora altro è il peccato da essi ereditato, altro la pena della privazione della grazia. questa pena è giusta perchè dovuta al peccato che è in essi. Rimane dunque sempre a spiegare come in essi sia il peccato; cioè rimane quella difficoltà che si vuole evitare, cangiando quello che è pena del peccato in peccato: e così distruggendo il peccato stesso ne' bambini, ai quali si lascia solo la pena, senza che ne apparisca la giustizia. Di poi la parola privazione in un tale discorso, si prende in un senso largo ed improprio. Poichè privazione in senso proprio è solamente quando manca ad un subbietto ciò che dovrebbe avere per sua propria natura. « Carentia formae in subiecto apto nato . » Ora i nostri teologi sostengono che al bambino che nasce, per sua natura, niente manca, perchè gode della natura umana senza ferita o lesione alcuna. La natura umana adunque in tale stato non ha veramente alcuna privazione , nulla al bambino manca di quello che è nato atto ad avere, poichè esser« nato ad avere«, vuol dire che è atto per sua natura ad avere. Ma i nostri teologi dicono:« Questo è vero se si riguarda la natura umana, ma se si riguarda il disegno che aveva Iddio su di essa, di rivestirla cioè di grazia santificante, questa grazia, in virtù di tal decreto, è divenuta una cosa appartenente alla natura stessa dell' uomo«. Loro si può facilmente rispondere, che Iddio con un suo decreto non può fare che quello che non appartiene a una natura, le appartenga, perchè sarebbe una contraddizione. Rimane dunque, che la natura umana nel bambino abbia tutto quello che essa esige come tale, e più che non abbia alcuna privazione in sè stessa. Replicheranno, che pure il non avere quel più che potrebbe avere, e che avrebbe avuto, se Adamo non avesse peccato, è una specie di privazione, sebbene questo più non sia dimandato dalla natura stessa. Si ricorre dunque al vocabolo di privazione , dando a questa parola un' estensione maggiore di quella che le è propria, per accomodarla al sistema. Ma non si accomoda tuttavia. Poichè questa pretesa privazione consisterebbe in una relazione tra il disegno di Dio e la natura umana oggetto di questo disegno. In tal caso una tal sorta di privazione non sarebbe inerente a ciascun bambino, perchè un estremo della relazione, cioè il decreto di Dio, non è qualche cosa che inesista nel bambino (che anche l' ignora), ma è cosa che esiste solo nella mente e nella volontà di Dio. Mancando dunque nel bambino un estremo della relazione, e le relazioni avendo bisogno per esistere de' due estremi, apparisce che la relazione di cui si tratta, può esistere bensì in una mente che col pensiero abbraccia nello stesso tempo e il bambino, che ha la natura umana senza difetto nè privazione alcuna, e Iddio, che ha in sè concepito il decreto di esaltare questa natura e che mette questi due estremi a confronto; ma non esiste perciò nel bambino stesso, che è un estremo e un estremo che non costituisce neppure nè il fondamento nè il principio della relazione, ma solo il termine. Non è dunque una relazione inesistente nel bambino; e però non si può dire nè pure privazione , poichè i filosofi insegnano, che la privazione deve inesister sempre in un subbietto vero e reale (1). Che se in questa relazione si pone il peccato d' origine, convien dire che questo peccato non esista nel bambino, contro quanto decise il Concilio di Trento, ma che un tal peccato altro non sia che una relazione esterna al bambino medesimo e un ente di ragione. In terzo luogo, dato anche si possa chiamare privazione, in vece di semplice carenzia, la mancanza della grazia santificante nel bambino, è provato con questo che egli sia in peccato? Non ogni privazione è peccato: la pena, a ragion d' esempio, è anch' essa una privazione e non però un peccato. E se volete sostenere che la privazione della grazia nel bambino costituisca il suo peccato, non ricadete con ciò in quelle difficoltà stesse che col vostro sistema credete evitare? Poichè il bambino nulla ha contribuito a una tale privazione che gli si fa subire. Si è forse egli meritata con un atto di suo libero arbitrio questa privazione? Come è egli dunque peccatore, se pur voi intendete ch' egli abbia in sè un vero peccato, come l' intende la Chiesa Cattolica? 55. Di poi S. Tommaso, che questi teologi citano, e a dir vero con poca sincerità, come favorevole alla loro opinione, insegna e dimostra apertamente, che il peccato originale non può consistere in una pura privazione, ma che egli è un abito corrotto: [...OMISSIS...] . E qui si osservi come S. Tommaso distingua nel peccato attuale « ipsam substantiam actus, et rationem culpae (2) » e nel peccato originale in luogo della sostanza dell' atto distingue la sostanza dell' abito della natura, che chiama « quaedam inordinata dispositio ipsius naturae (3), » il che torna alla distinzione tra il peccato entitativamente considerato che è la sostanza dell' abito, e la colpa che è l' imputazione del medesimo « in quantum derivatur ex primo parente . » Ottimamente dunque distingue tra la materia dell' imputabilità, e l' imputabilità stessa. Ma i nostri teologi stabiliscono una imputabilità senza materia, perchè non ammettono nella natura del bambino nessun disordine che si possa imputare, e la privazione della grazia, che è la pena conseguente all' imputabilità stessa, vogliono che sia il peccato ad un tempo imputabile e imputato, il che è antilogico ed assurdo. Laonde se S. Agostino rimprovera giustamente a' Pelagiani di fare ingiusto Iddio perchè puniva i bambini senza che in essi ci avesse alcuna materia d' imputazione: [...OMISSIS...] , che cosa avrebbe poi detto il santo Dottore di un sistema che pretende, che la stessa privazione della grazia con cui sono puniti i bambini, dalla qual privazione provengono tutti gli altri loro mali, costituisca la stessa materia dell' imputazione, lo stesso peccato imputabile? Non vince questo nuovo sistema, almeno in assurdità, lo stesso pelagianismo? Non così certamente S. Tommaso, il quale riconosce che, non volendo fare ingiuria all' infinita bontà e giustizia di Dio, conveniva che la ragione per la quale negava loro la grazia santificante conferita alla natura umana in Adamo, si trovasse ne' bambini stessi, cioè fosse appunto il peccato da essi ricevuto per via di generazione, il quale mettesse ostacolo alla grazia: onde il peccato nel bambino lo chiama contrarium prohibens, dicendo: [...OMISSIS...] . E però dice appresso, che la mancanza della divina visione è pena e del peccato originale che è nei bambini, e dell' attuale di Adamo (2). E però, coerentemente a questa dottrina dice ancora, che la remissione del peccato importa due cose 1. la restituzione della grazia, e 2. la remozione dell' impedimento che impediva la grazia di essere ricevuta nel peccatore: [...OMISSIS...] , laddove i nuovi teologi che fanno consistere il peccato nella sola privazione della grazia, devono ridurre la remissione della colpa alla sola restituzione della grazia, e non all' impedimento che poneva il peccato alla medesima; il che è un nuovo e manifesto errore. 56. c ) L' uomo dunque che fosse creato colla sola natura, e il bambino che ora nasce da Adamo, secondo questo sistema, trovansi nella stessa interezza di natura. Ma nel primo l' assenza della grazia dicesi mancanza o carenza, nel secondo dicesi privazione, perchè al secondo la grazia era dovuta e non al primo. La qual distinzione, quand' anche fosse solida non porterebbe ancora per conseguenza, come vedemmo, che nel secondo ci fosse un peccato, perchè a costituire un peccato non basta una semplice privazione. Ma questo concetto di grazia dovuta merita che non resti nè pur esso un concetto confuso, ma dev' essere chiarito, acciocchè s' intenda bene che cosa vi si contenga. In generale e assolutamente parlando, che la grazia sia dovuta all' uomo non si può dire, « alioquin gratia jam non est gratia (4). » L' averla una volta data al primo uomo, questo solo non costituisce nell' uomo un diritto d' averla anche in appresso: poichè essendo la grazia cosa di Dio, egli può darla e riprendersela senza fare ingiuria a nessuno. Nè pure il proposito che fece Iddio di dare la sua grazia al genere umano, costituisce in questo un diritto di averla, poichè Iddio salva quelli che sono predestinati alla salute « secundum propositum gratiae Dei (1). » E pure questo proposito e disegno misericordioso di Dio, non cangia natura alla sua grazia, rimanendo grazia, e non debito, nè mercede. Ciò dunque che può costituire un titolo di diritto non è che una formale promessa da Dio fatta liberamente all' uomo, come sono le promesse di Cristo ai credenti. Ma ai bambini che nascono non fu fatta alcuna promessa: essi non conoscono quando nascono, che loro sia fatta promessa acuna, nè sono in caso di accettare la promessa che non conoscono, e pure la promessa dee essere in qualche modo accettata acciocchè costituisca un diritto. Per questo anche l' antico Testamento o patto stretto da Dio col suo popolo si fece con solennità tra le due parti contraenti (2); e il nuovo Testamento o patto si fa coi credenti, i quali colla loro fede accettano le promesse di Cristo, e lo stesso conferimento del battesimo, secondo l' ecclesiastica tradizione, prende forma di un patto bilaterale. Se dunque i bambini che nascono non hanno alcuna cognizione del proposito fatto a principio da Dio di conferir loro la grazia, quando il loro stipite avesse conservata la giustizia, qual è il titolo al diritto che si suppone in essi, pel quale la grazia sarebbe stata loro dovuta? Converrà dunque ricorrere a un patto fatto da Dio con Adamo anche in nome loro. Ma primieramente la Scrittura non fa di questo patto espressa menzione, onde rimane un' ipotesi congetturale, su cui non si possono stabilire i dogmi inconcussi della fede cattolica, specialmente a fronte degli eretici: di poi abbiamo già veduto quali e quante difficoltà involga un patto di questa sorte. E` bensì vero, dunque, che i bambini, se Adamo non avesse peccato, sarebbero nati in grazia, per l' eterna e misericordiosa economia del Creatore, ma che la grazia sarebbe loro stata dovuta in modo che essi ne avessero avuto un vero diritto, questo è quello che non si prova, e solo viene asserito da tali teologi, che obbligati in fine a supporre un patto con Adamo, invece di rendere più facile l' intelligenza del peccato di origine de' bambini, ricadono nelle difficoltà che promettevano facilmente evitare e in altre maggiori. 57. d ) A un' altra distinzione futile di parole i fautori di un tale sistema ricorrono, affinchè non offenda troppo le pie orecchie. Tra la conversione e l' avversione c' è l' indifferenza . Riguardo a una persona che io non conosco, non posso essere nè avverso nè converso coll' animo mio, ma solo indifferente. Ora risulterebbe dal detto sistema che il bambino non fosse avverso a Dio, nè converso al bene commutabile; ma il dir questo s' opporrebbe a tutta la tradizione cattolica. I nostri teologi adunque introducono una distinzione dicendo che c' è un' avversione positiva e un' avversione negativa, e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione. Così mutando il nome a quello stato negativo d' indifferenza, e chiamandolo avversione [ negativa ], e che il bambino è avverso a Dio di questa seconda maniera di avversione, coprono il difetto del sistema, introducendo nella sacra Teologia di quelle distinzioni futili e verbali, che tanto la discreditano presso gli eretici. L' avversione indica sempre qualche cosa di positivo, come pure la conversione , avvertendo anzi S. Tommaso che l' avversione e la conversione sono il medesimo, colla sola differenza di termini verso i quali si riguardano (1). Dal che non ne vengono menomamente le conseguenze gianseniane che se ne vogliono derivare, come diremo in appresso. Laonde S. Agostino riunisce l' avversione e la conversione nella stessa definizione del peccato dove dice, che [...OMISSIS...] . 5.. e ) Finalmente i fautori di questo sistema abusano delle proposizioni condannate in Baio, citandole senza darsi cura di osservare in qual senso furono a ragione condannate. Ne darò due soli esempi. La propos. 47 dice: [...OMISSIS...] . Di qui essi deducono francamente, che il nome di peccato applicato a quel de' bambini deesi intendere di un peccato che sia tale non in sè, « sed quia rationem habet ad peccatum Adami (2). » Ma il dire che il peccato in cui nascono i bambini, e che inest unicuique proprium secondo il Concilio di Trento, non è peccato in sè stesso, è egli conforme al dogma cattolico? Non è lo stesso che negare il peccato originale, riducendolo a una sola relazione esterna tra una cosa che non è peccato ed una cosa che è peccato, cioè al peccato personale di Adamo? Non sarebbe stato contento Pelagio, se gli si avesse conceduto dai campioni della fede che lo combatterono, che ne' bambini che nascono nulla si rinviene che sia peccato in sè, ma che quello che non è in sè peccato si chiama o si considera come peccato (così diceva appunto uno degli autori a cui noi rispondiamo) (3), unicamente perchè fu un effetto della libera trasgressione di Adamo? E` dunque a considerarsi che quella proposizione fu condannata in Baio, perchè questo Dottore parlava dell' imputazione e del merito del peccato de' bambini, e voleva che fosse imputabile e demeritorio, senza riferirla alla libera volontà di Adamo, il che è quanto dire avesse ragione di colpa perchè il bambino non fa un atto contrario, cioè un atto che non può fare; onde ammetteva la colpa e il demerito senza la libertà. S' aggiunga, che se quella proposizione condannata in Baio non s' intenda con discernimento teologico si urta nello scoglio del giansenismo per troppa voglia di evitare il baianismo. Poichè come nel sistema di Baio basta al peccato originale la volontà non libera del bambino, così nel sistema di Giansenio basta la volontà di Adamo, che nel bambino non solo non è libera, ma nè pure esiste. E questo si può vedere nell' Augustinus (1) dove al capo 4 si sostiene appunto che [...OMISSIS...] . I fautori poi del sistema che esaminiamo, citano tanto più a sproposito quella proposizione condannata in Baio, che la vera causa, per la quale la privazione della grazia ne' bambini essi vogliono che sia peccato, non è già propriamente l' atto della libera prevaricazione di Adamo, la quale è soltanto una condizione: ma sì bene il decreto di Dio di dare a tutto il genere umano la grazia, se Adamo fosse stato fedele, e di toglierla se fosse stato infedele, il qual decreto Iddio poteva fare e non fare. In virtù di questo decreto dunque, dicono, che la grazia era dovuta alla natura umana, e che medesimamente in virtù di esso gli fu tolta, ed essendogli tolto ciò che gli era dovuto, questo fece sì che tal privazione si dovesse chiamare peccato . Di che viene indeclinabilmente, come abbiam già osservato, che quella disposizione divina sia ciò che dà forma o piuttosto il nome di privazione e di peccato a tale mancanza di grazia, e non la volontà di Adamo: il che è un collocare in Dio stesso, cioè nel suo decreto, la causa del peccato ne' bambini, e non nella libera disubbidienza del primo padre. Con minore efficacia ancora abusano della proposizione 55: « Deus non potuisset ab initio talem creare hominem, qualis nunc nascitur, » deducendone che dunque al presente l' uomo nasce senza alcuna ferita nella sua natura, e talora dando la taccia di eretici a quelli che professano il contrario. Ma basta conoscere i primi elementi della teologia cattolica per non ignorare che questa è una di quelle proposizioni di cui S. Pio V nella sua Bolla dice, che « aliquo pacto sustineri possunt, » benchè in altro senso da quello di Baio, su di che rimettiamo il lettore a quanto ne scrisse il P. Filippo da Carboneano, uno dei tre teologi che Benedetto XIV solea consultare, nel suo solido trattatello De propositionibus ab ecclesia damnatis (2). Quivi riprende, tra gli altri teologi lo Sporer e Felice Potestà per le spiegazioni date alle dette proposizioni Baiane, [...OMISSIS...] . E dimostra come queste ed altre proposizioni sono sostenute in un senso ben differente da quello di Baio dalle più celebri scuole cattoliche in Roma, sotto gli stessi occhi del Papa, e quanto replicatamente i Sommi Pontefici abbiano vietato, sotto precetto di ubbidienza, d' accusar d' eresia i loro sostenitori. Tali proposizioni baiane dunque nulla provano, se chi le adduce non ne spiega prima il senso nel quale furono dannate e non dimostra che l' autore che accusano le prende in quel senso. Concludiamo adunque da tutto ciò che neppure questo sistema, che ricade in quelli che abbiamo esaminati precedentemente, ha in sè alcun valore per abbattere l' eresia di Pelagio, il quale può dire a tali teologi: « Voi mi concedete che il peccato originale, che i cattolici attribuiscono al bambino, non è peccato in sè stesso, ma che solo così si chiama relativamente a un decreto di Dio che aveva stabilito che così si considerasse qualora Adamo suo padre avesse trasgredito il divino precetto: voi dunque convenite meco nel fondo, dissentite solo nelle parole per salvare le apparenze«. 59. Servano adunque questi esempi di un saggio di que' sistemi inventati modernamente intorno alla dottrina del peccato originale, i quali non hanno virtù d' abbattere ad un tempo le due opposte eresie del pelagianismo e del giansenismo: e di attenersi agli insegnamenti più solidi degli antichi. E per rispetto al pelagianismo (giacchè del giansenismo ci riservammo di parlare all' articolo seguente) dicemmo che tutta la forza dell' obbiezione pelagiana si riduce a sostenere che« l' ordine morale, a cui appartiene il peccato è opera così esclusivamente propria della volontà umana, che non può essere un fatto della natura« come sarebbe il peccato dei bambini, se fosse vero che l' ereditassero insieme colla natura per generazione, e che per confutare direttamente una tale obbiezione conviene dimostrare il contrario, esservi cioè una moralità ed un peccato distinto dalla colpa, che non alla sua volontà, ma alla stessa natura può, senza alcun assurdo, appartenere. 60. E veramente i Pelagiani caddero nell' eresia, perchè vollero filosofare invece di credere, non avendo tanto di filosofia che bastasse a sostenerli dall' errore. Essi posero sempre in opposizione la natura e la volontà , senz' avvedersi che tra queste due cose non passa quella separazione che s' immaginavano (1). Infatti la volontà è una natura anch' essa, e come dice S. Tommaso, [...OMISSIS...] . Laonde si distinguono due movimenti o modi di operare, della volontà, l' uno che ubbidisce necessariamente alla natura, e s' attribuisce alla volontà come natura, voluntas ut natura, l' altro che è libero, e si attribuisce alla volontà come volontà, voluntas ut voluntas, i quali due modi dagli scolastici, seguendo S. Giovanni Damasceno si chiamarono il primo «thelesis» e il secondo «bulesis» (3), denominazioni atte a segnare la volizione diretta, o intenzione, e il consiglio . Secondo questa distinzione di atti, o, se più piace, di funzioni della volontà, procede S. Tommaso, distinguendo la volontà semplice dal libero arbitrio, osservando che quella corrisponde all' intelletto, e questo alla ragione: [...OMISSIS...] . 61. Questa distinzione fu sconosciuta o trascurata non meno dai Pelagiani che dai Giansenisti, ed è quella, come abbiamo accennato, che tronca con un solo colpo la radice de' due opposti errori. Ma vediamone a bell' agio le conseguenze: a ) Primieramente da essa nasce la distinzione del peccato semplice che ha nozione di peccato astraendo dalla libera volontà, dalla colpa che esige il libero arbitrio: quando i Giansenisti disconobbero la natura di questa seconda, confondendola col primo; i Pelagiani, non tenendo conto che di questa seconda, negarono il primo. b ) Con altre parole, essendo la moralità, secondo la definizione che ne abbiam data,« l' abitudine che ha la volontà cogli oggetti della legge eterna« ne viene, che come è doppio il modo di operare e di essere abitualmente della volontà, l' uno naturale, l' altro elettivo, due devono essere le specie di moralità ben distinte che si manifestano in essa, l' una dipendente dalla natura degli oggetti che essa apprende e a cui aderisce come a fine, e questa specie di moralità non dipende attualmente e necessariamente dall' atto del libero arbitrio, in maniera che quell' atto elettivo entri a costituire la sostanza di quella moralità; l' altra dipendente dalla sua propria libera elezione, per la quale essa stessa tra i diversi oggetti che le sono offerti sceglie l' oggetto buono e ordinato a cui aderire, e rigetta l' oggetto non buono e disordinato: e queste due specie di moralità sono riconosciute, come abbiamo dimostrato nella Dottrina del peccato originale (1), nella cattolica dottrina, e su di esse si fondano diversi dogmi della nostra santa fede. c ) L' oggetto voluto che sia dalla volontà, in qualunque maniera lo voglia, costituisce la forma di questa potenza, e in quanto è buono o cattivo, ordinato o disordinato, dà la specie e la condizione morale al suo atto ed al suo stato, e però se l' oggetto è intrinsecamente cattivo, come abbiamo detto dell' odio di Dio, e lo stesso si può dire dell' odio del prossimo e d' un essere intelligente qualunque, la volontà che ha quest' odio, non può mai essere buona, ancorchè non sia più libera di fare il contrario, perchè dal disordine intrinseco dell' oggetto essa riceve il disordine in sè, come ogni ente che riceva una forma corrotta, anch' egli si corrompe (2). Onde giustamente S. Tommaso dice che « bonitas voluntatis proprie ex objecto dependet (3). » E qui si può riferire un luogo difficile di S. Agostino, in cui dice che si può peccare non solo voluntate peccati, ma anche voluntate facti (4), il che si deve intendere del caso, quando il fatto sia un intrinseco male, e però in sè stesso un peccato. - Poichè chi vuole ciò che è un male intrinseco ed essenziale, con ciò vuole il peccato che è indivisibile dall' essenza di quel fatto, ancorchè chi vuole quel fatto non sappia fare l' astrazione per la quale distingua la ragione del peccato dalla ragione del fatto. Onde viene la regola morale, che niuno può esporsi a far cosa che sia intrinsecamente mala, solo che ne dubiti (5), perchè s' espone con ciò al pericolo di dare a sè stesso di fatto la forma dell' immoralità. d ) Infatti l' oggetto voluto dalla volontà e la volontà che vi aderisce formano qualche cosa di uno, sebbene quest' uno consti di due elementi divisibili colla mente, perchè l' oggetto ha natura di termine e la volontà di principio, ed il principio ed il termine formano una sola entità. Laonde se il termine non è, rispetto al principio, cosa accidentale, ma così essenziale che lo costituisca quello che è, il termine stesso è un elemento che costituisce il principio nel suo essere di ente. Questo avviene primieramente e perfettissimamente in Dio, dove l' oggetto della sua volontà non solo gli è essenziale e uguale e immutabile in modo che non ammette accidenti di sorta, ma di più esso è la stessa essenza divina, come anche la volontà è l' identica essenza. Laonde in Dio la volontà è sempre necessariamente nel suo pieno atto, ed ha sempre lo stesso oggetto, e quest' oggetto è l' identica essenza che è la volontà: onde principio e termine non si possono mai dividere, ma sempre uniti costituiscono una sola semplicissima natura. E questa natura è appunto la moralità e la santità sussistente: dove si vede, che la moralità nella sua prima sede, e nel suo primo fonte, e nella sua perfezione essenziale , è una natura sussistente (la quale considerata come nozione personale è la proprietà del Santo Spirito) e non l' effetto di un atto di volontà libera di eleggere tra il bene e il male. e ) Ed essendo l' uomo creato ad imagine di Dio, niuna maraviglia che si trovi anche nell' uomo qualche vestigio di questa morale natura sussistente. Infatti anteriormente all' elezione libera trovasi nell' uomo quell' atto che i filosofi e teologi morali chiamano intenzione , il quale dà all' uomo un certo essere o natura morale, in cui si radica la stessa potenza della volontà, di maniera che non si potrebbe concepire l' esistenza di questa potenza senza presupporre nell' essenza umana quella morale natura, onde il Gaetano, dichiarando S. Tommaso, dice: [...OMISSIS...] . Ma grandemente differisce la natura morale in Dio, dove è natura completa, dalla natura morale dell' uomo, dov' è solamente iniziale, che ha bisogno poi di ultimarsi con altri atti, e massimamente con quelli della libera elezione. Poichè in Dio l' oggetto naturale così dello intelletto come della volontà è la stessa essenza divina attualissima; laddove l' uomo non ha per oggetto naturale la propria essenza, ma un' altra essenza, laonde da questa è dipendente, carattere comune a tutte le intelligenze create e finite. Di poi il suo oggetto naturale non contiene tutti gli enti attualmente, ma solo virtualmente, onde non è che un lume che gli fa conoscere la moltiplicità degli oggetti, che in appresso gli sono aggiunti in modo accidentale, e il quanto della loro entità e bontà, onde può eleggere fra essi. L' oggetto all' incontro in Dio essendo Dio, tutto attualmente contiene, e non bisogna d' altra aggiunta qualunque: ma la volontà stessa distingue e crea i finiti, e dà loro l' entità reale e ciò che hanno di bene: onde il bene degli enti finiti è posteriore all' atto della volontà divina come l' effetto alla causa, e non preesistono in modo che le possano esser dati sussistenti tra cui eleggere. 62. Dimostrato adunque che ci sono nell' uomo due specie di moralità, l' una dipendente dall' atto del suo libero arbitrio, l' altra anteriore a questa e principio di questa, giacente nella sua natura morale, l' obbiezione de' Pelagiani contro il peccato originale rimane del tutto annichilita, come quella che si fondava sul falso supposto, che tutto l' ordine morale si assolvesse negli atti del libero arbitrio. E veramente se ci può essere una moralità inerente e appartenente alla natura, e se la natura viene trasmessa per via di generazione, dunque è tolto ogni assurdo che ci sia qualche cosa di morale che si possa trasmettere insieme colla natura per la naturale generazione. E questo è quello che insegna la Chiesa Cattolica col dogma del peccato originale, il quale si chiama costantemente e peccatum naturale, e languor naturae . E perciò anche i bambini, come dichiara il Sacrosanto Concilio di Trento, [...OMISSIS...] . 63. Gli eretici e gli increduli accampano due specie di argomenti contro alla cattolica verità, cogli uni pretendono di trovare qualche dogma da essa insegnato in contraddizione con qualche principio indubitato di ragione, cogli altri non pretendono tanto, ma sono obbiezioni tratte dalla difficoltà di spiegare gli stessi dogmi, e da certe verisimiglianze che deducono da tali verità. Ai primi argomenti è necessario che il teologo risponda direttamente sciogliendo l' apparente assurdo, perchè niuno è obbligato a credere a ciò che si oppone ai primi principii della ragione: ai secondi, basta che esponga e provi i motivi di credibilità, poichè dimostrato, che la cosa è rivelata da Dio, può dire con tutta ragione agli avversarii:« se non potete intendere, credete« (2). L' argomento dei Pelagiani contro la moralità indeliberata della natura era della prima specie, e abbiamo veduto come cada disciolto, quando si approfonda il concetto di moralità e di peccato: gli altri appartengono alla seconda specie, e basta che si combattano coll' autorità della rivelazione e colle definizioni della Chiesa. Tuttavia toccheremo e ragionando abbatteremo anche alcuni di quelli, la cui confutazione giova a far via meglio conoscere la condizione del peccato d' origine, di cui ci siamo proposti trattare in questo paragrafo. 64. a ) Se alla natura si attribuisce l' immoralità si rovescierebbe nel manicheismo, ammettendo una natura malvagia. - Si risponde con S. Agostino e gli altri maestri, che la natura umana è stata creata da Dio da ogni lato buona, ma che l' uomo col suo libero arbitrio l' ha guastata, e l' ha guastata solo ne' suoi accidenti, e non in ciò che costituisce la sua essenza. Ora tal è la limitazione di ogni natura creata (non della sola natura umana, o della sola natura morale), che ella sia corruttibile nella sua parte accidentale: i Manichei all' incontro pretendevano, che ci fosse una natura che non fosse già corruttibile nella sua parte accidentale, ma fosse mala per sè nella sua stessa essenza: [...OMISSIS...] . 65. b ) Essendo la natura umana opera di Dio e non dell' uomo, s' ella potesse essere malvagia, verrebbe a rifondersi in Dio, come in causa, il peccato della medesima. - Si risponde allo stesso modo, che Iddio fu l' autore della natura umana, buona e perfetta, e arricchita di più di doni soprannaturali; ma che l' uomo col suo libero arbitrio, peccando, la guastò nella sua parte accidentale e mutabile; che Iddio fu l' autore della natura umana in Adamo innocente; che uscì dalle sue mani colla creazione; ma che Iddio non è la prossima causa della natura umana ne' discendenti di Adamo: perchè la causa prossima della natura umana in essi esistente è il padre che per via di generazione comunica loro la natura umana, e la comunica quale la ha in sè stesso, cioè disordinata dal peccato commesso da lui col suo libero arbitrio. E qui conviene rimuovere l' equivoco che nasce pe' varii significati che s' attribuiscono alla parola natura, che male a proposito in quest' argomento si prende per l' essenza o ideale o realizzata, laddove deve prendersi per la natura tutt' intera, cioè co' suoi accidenti, generabile, che è il primo significato che Aristotele attribuisce a questa parola natura a nascendo [...OMISSIS...] (2). Dato dunque che la natura umana sia corruttibile ne' suoi accidenti, parte de' quali appartiene all' ordine morale, e che in quest' ordine possa scompaginarla e guastarla il libero arbitrio dell' uomo stesso; e posto che l' autore prossimo di questa natura, in quanto è moltiplicabile, non sia Iddio creatore, ma l' uomo stesso che ha per legge naturale di generare il simile a sè: niente più ripugna, che lo stesso guasto e disordine che l' uomo ha prodotto nella propria natura, lo comunichi insieme colla natura a quegli individui, che egli per opera della generazione fa sussistere, mentre prima non sussistevano. 66. c ) Dato anche che la natura umana possa essere disordinata per effetto dell' atto libero di Adamo, questo non può essere un disordine morale, e molto meno un peccato mortale abituale, che è un disordine personale. - Rispondesi colla dottrina di S. Tommaso, che è quella della tradizione, la qual dottrina nel citato Compendio della Teologia così viene espressa: [...OMISSIS...] . E per intendere come ciò sia, non conviene separare la persona dalla natura, quasi che siano due separati sussistenti, ma considerare, che la persona non è altro che un modo d' esistere della natura, quando questa sia intelligente, è quel modo che ne costituisce l' ultima e più elevata sua attualità, che unifica e contiene sotto di sè tutto il resto che nella natura si trova, come abbiamo dichiarato nella Antropologia, onde gli scolastici solevano anche definire la persona: una sussistenza o ipostasi « distincta proprietate ad dignitatem pertinente . » Se dunque la persona non è che il modo nel quale sussiste a pieno determinata e semplificata la natura tosto che questa sia intelligente, qual meraviglia, che il guasto morale della natura s' estenda al suo modo proprio di sussistere? Vero è, che, come abbiamo detto, la persona non può essere mai del tutto passiva, essendo essa un principio attivo (2); ma da questo non procede altro, se non che la persona non ammette coazione, senza però escludere (parlandosi di persone limitate e create) la spontanea consensione alla piega che le dà la natura, di cui è, come dicevamo, il modo di sussistere. Di che consegue pure, che se il guasto rimanesse nella sola natura, e non ascendesse a pervertire il suo principio supremo, ossia il suo modo di esistere intellettuale e morale, esso non potrebbe ricevere il concetto di peccato mortale. Ma tosto che attrae a sè e seduce il suo principio personale, tosto riceve un tale concetto, come insegnarono, seguendo l' ecclesiastica tradizione, gli scolastici: [...OMISSIS...] . Di che ancora si può inferire che nè le nozze, nè la generazione sono peccato, non producendo immediatamente il peccato, perchè la generazione comunica solo la natura guasta, venendo poi la persona a ricevere da essa l' infezione che si fa morale, perchè si fa personale; la persona viene altronde come diremo. A quel modo dunque che non sono peccati morali i difetti che un pittore o uno scultore lascia nelle opere sue per imperizia dell' arte, o per imperfezione di stromenti, così la generazione lascia un difetto nella carne, che in sè solo non è peccato morale, ma è poi causa del peccato alla persona. 67. d ) Voi dite che la persona viene altronde e non immediatamente dalla generazione, e con questo volete dire certamente che essa viene da Dio che crea e infonde l' anima intellettiva. Ora con questo le difficoltà si aumentano. Se aveste sostenuto che l' anima intellettiva, subbietto, come voi dite, del peccato d' origine, venisse ex traduce, s' intenderebbe in qualche modo che il peccato passasse per generazione, ma venendo creata e infusa da Dio, si fa Iddio autore del peccato. - In nessuna maniera noi ammettiamo che l' anima intellettiva si comunichi ex traduce , il che involgerebbe diversi assurdi, e tra gli altri quello che la persona sia moltiplicabile e comunicabile, quando è essenziale alla persona l' essere incomunicabile, appunto perchè è una natura perfettamente determinata e quindi tutta finita in sè stessa. Ma tuttavia in nessun modo procede che Iddio sia l' autore del peccato. Così sebbene Iddio intervenga e concorra come prima causa nella produzione di tutti gli eventi mondiali, non ne viene che egli concorra come causa a' mali che in essi permette, intervenendo egli solamente come causa e fonte del bene, e il male provenendo dalle cause seconde e deficienti, come abbiamo dichiarato nella Teodicea .

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