Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Antropologia soprannaturale Vol.I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Veduto che il peccato originale ha per primo seggio l' intima natura umana, conviene che noi veggiamo come il peccato si abbatta nella natura e che dichiariamo l' ordine della umana corruzione. Per natura umana intendiamo il complesso delle potenze che si trovano nell' uomo, non meno che il nesso che tutte le unisce in un solo soggetto. Ora perchè il peccato appartiene all' ordine razionale, conviene che esaminiamo l' uomo principalmente come soggetto intellettivo e nello stato in che Dio l' ebbe posto sulla terra: indi quale sconcerto abbia prodotto nell' uomo la colpa. E richiamando quello che abbiamo detto intorno a ciò, l' uomo è soggetto intellettivo per la visione dell' essere indeterminato. La volontà è l' inclinazione verso il bene conosciuto; e perchè ogni essere è bene, è la tendenza verso ogni essere conosciuto. Indi nell' uomo vi ha un atto primo d' intelletto e un atto primo di volontà. Quello è l' idea dell' essere indeterminato: questo è la tendenza appunto indeterminata verso quest' essere. La natura umana adunque ha nel suo seno fin dall' origine un intelletto e una volontà in atto, e da questi risulta e si crea come da' suoi proprii costitutivi elementi. Ma Iddio, oltre aver dato all' uomo in sul principio la contemplazione costante dell' essere ideale indeterminato, gli ha dato altresì la percezione di sè stesso, essere sussistente e assoluto. Indi una nuova tendenza della volontà, la quale naturalmente doveva quasi direi, precipitarsi verso la pienezza dell' essere offertasi da concepire all' intendimento. Questo primo e veemente moto della volontà rispondente alla grazia divina (2), fu l' originale inclinazione al bene dell' uomo innocente, e quello stato di originale giustizia, nel quale era costituito e col quale dovevasi propaginare. L' uomo fu costituito da Dio perfettamente fino dal primo istante, nè fu un tempo anteriore, nel quale egli fosse posto nel solo ordine di natura e non anco in quel della grazia. Quindi nel primo uomo per la sua stessa costituzione la volontà trovavasi edotta, non solo in quell' atto primo che termina nell' essere ideale e indeterminato, ma si bene anche in quello che termina nell' essere assoluto e completo. La volontà in tal modo si era volta fin dal principio con un atto pieno e, come diceva, precipitata in quell' oggetto che è il TUTTO, del quale cercava di pienamente sfamarsi, per così dire, e bearsi. Se la volontà dell' uomo primo si fosse terminata solo all' essere ideale indeterminato, non ci sarebbe stata cagione di volere di più, almeno per molto tempo. Ma coll' aver conosciuto e gustato l' assoluto, doveva nascere in essa un bisogno tutto nuovo, una necessità di esso e senz' esso uno sforzo di cercarlo per tutto, una incontentabilità, una affogata brama e tendenza di completarsi con un suo atto che il tutto abbracciasse. Così noi veggiamo che l' uomo educato in piccolo e ristretto cerchio di cose, è pago nè sa bramar oltre perchè oltre non conosce: ma tratto fuori del suo paesuzzo o fatto discendere dalla sua montagna e dai tugurii passato nei palazzi e dalla scarsezza di tutte le cose nell' abbondanza, non avviene poi che restituito nell' umile e povera vita che faceva prima trovi la pace e il suo cuore gli sembri oppresso e per poco soffocato dall' angustia del casolare e dal ristretto numero di oggetti che lo circondano e che cagionano in lui poche, e sempre uguali e perciò noiose sensazioni. Conciossiachè la volontà sua ritiene ancora le brame che in lei sviluppatesi in essa nello stato di vivere dovizioso e ampio in cui era passato e nel quale aveva tratti da sè de' nuovi voleri e soddisfattili. E ora egli avvenne appunto così che la volontà del primo uomo mossa originariamente dall' oggetto assoluto, fu poi privata dopo il peccato di questo oggetto. Perocchè essendosi Iddio ritirato dall' uomo, non fece più nella sua mente quell' azione deiforme che abbiamo di sopra descritta; gli tolse la sua grazia, gli sottrasse il senso dell' essere sussistente: non lasciandogli che l' oggetto del solo intendimento naturale, cioè la tenue idea dell' essere e questo indeterminato. Ma nel tempo medesimo che alla volontà attuata e piegata verso l' infinito fu sottratto il suo oggetto, ella però rimase così piegata e così attuata: e non trovando più l' oggetto reale infinito perchè sottrattole, il suo atto, col quale il cercava, diede nel vƒno e tentò di trovarlo da per tutto, quando non era più in alcuna parte in ch' ella potesse colpire e giungere. Sicchè la volontà di Adamo doveva rimanere con una brama infinita che non poteva essere appagata e che pure voleva ad ogni costo essere; e però con un bisogno di fingere a sè stessa quell' oggetto che non aveva, e nutricarsi, per così dire, di vento, cioè di sue vuote finzioni: e questo ancorchè null' altro fosse avvenuto se non se sottrarsi l' oggetto infinito, posto a lei nella sua prima costituzione, da dover per inclinazione spontanea volare. Ma a ciò si sopraggiunse un atto di libero arbitrio, col quale l' uomo stesso stolse la volontà dall' oggetto infinito resosi a lei naturale e la piegò verso la finzione del bene, cioè verso il frutto vietato, il mangiare del quale per la menzogna del demonio fu creduto atto a render l' uomo sapiente e trarlo in istato via migliore ancora che non sia quello stesso della grazia di Dio. Sicchè liberamente l' uomo volse la volontà che dava nel bene reale, a dover dare col suo atto nel vƒno del bene finto, cioè falsamente imaginato, col quale atto anco la facoltà di eleggere , non solo quella di volere, fu storta, e datale mala piega, datole un abito vizioso; e quindi procedette principalmente e direttamente il guasto del soggetto stesso a cui la facoltà di eleggere appartiene (1). Per sopraggiunta accade che nel mangiamento del frutto l' istinto animale medesimo si rinforzò e alterò, venendone alterata e pervertita la materia del sentimento animale. Sicchè nacque in lei un' aspettazione (2) esagerata e ingannatrice, la quale doveva a sè rapire naturalmente la volontà che voleva un tutto e non aveva più ove rinvenirlo, (toltolesi dinnanzi il tutto reale ); e l' istinto alterato o la concupiscenza si presentava ella, quasi direi, ogni bene promettendole a ribocco sopra quello che potesse desiderare e portare. E si consideri che, parlando noi di senso, di volontà e d' intendimento, consideriamo queste potenze nel loro primo atto in quanto determinano la costituzione del soggetto, l' ordine intrinseco del medesimo e di quelle abitudini di cui questo primo atto è vestito; e non già nelle loro operazioni. Quindi pertanto si potrà formarsi il concetto del disordine avvenuto nel soggetto uomo mediante il primo peccato: ed ecco in che guisa. Egli è manifesto che l' atto onde Adamo peccò fu atto di libera volontà. Ora atto di libera volontà non è già un atto puramente della potenza, ma è atto immediatamente del soggetto (3). Perocchè l' uomo, collo scegliere liberamente, ha da una parte quello che l' intendimento retto gli rappresenta di vero, e dall' altra quello che la concupiscenza gli rappresenta di falso bene: e come in mezzo egli a ciò che gli offrono innanzi queste sue potenze, sceglie quella parte che più egli vuole. L' energia dunque della sua libertà viene dal soggetto immediatamente, e sceglie fra i risultamenti delle potenze e quindi è superiore alle potenze stesse e per così dire le signoreggia. Questa forza intima del soggetto è per sè stessa cieca, per così dire, perchè non ha altra ragione che pur sè sola: ma ella può sottomettersi all' intendimento retto e illuminarsi, ovvero può sottomettersi all' intendimento fallace e al senso e può illudersi da sè medesima. Or dunque quell' atto tutto libero, tutto procedente dal soggetto di Adamo fu quello che ingegnerò nel soggetto medesimo, in questa forza intima e primitiva che è il fonte della libera energia o piuttosto è ella stessa la libera energia, una mala disposizione e propriamente un ISTINTO di piegarsi al male, convalidato dalla remozione nell' intendimento dell' essere sussistente, e dall' accrescimento e alterazione d' impulso nel senso animale (1). Il perchè convien dire che come l' atto della libera energia, che è atto immediato del soggetto, fu cagione della rovina delle potenze dell' intendimento e della sensibilità, così viceversa il guasto di queste potenze reagì sul soggetto stesso e rese la sua forza volitiva debole e tarda e comecchessia oltremodo difettosa nel suo operare. Riassumendo adunque, l' ordine del guasto originale nella natura umana è il seguente. Il peccato cagione di questo guasto nacque con un atto libero, col quale l' uomo mangiò il frutto e così disubbidì a Dio. L' energia prima e elettiva propria del soggetto, togliendosi dal bene percepito anche soprannaturalmente e violentandosi alla finzione del bene, esorbitò, pigliò un nuovo peso verso il male e propriamente un ISTINTO del male (inclinazione al male morale) (2). La volontà già edotta in quell' atto che ha per iscopo l' essere completo (tutto l' essere, Iddio) e quindi bisognosa di un bene infinito; poi privata di questo, fu volta a cercare di fingersi una infinità di bene nelle creature (inclinazione al falso) (3). L' istinto animale finalmente fu reso violento e senza il freno delle potenze superiori, distratte, traviate e congiurate con lui. Il difetto della volontà e del senso reagisce sul guasto del soggetto, come il guasto di questo perverte la volontà e lascia il senso senza freno. Perocchè la volontà vuota di beni reali e bisognosa di essi non può aiutare al bene la energia radicale del soggetto, ma lasciarla pesare verso il male; la violenza del senso animale, quella aspettazione istintiva , menzognera, di un immenso e perpetuo piacere, deve trarre a sè la forza del soggetto e snervarne la facoltà di eleggere, come abbiamo detto avvenire per alterazione che nasca nella materia del sentire (4). Quindi vi ha una mutua perniciosa influenza fra questi tre principii dell' uomo: 1 il principio soggettivo elettivo; 2 la volontà; 3 l' istinto animale: per modo che ciascuno esercita un' azione corruttrice sull' altro, che aggrava il male della umana natura. Abbiamo detto che il peccato originale infetta e guasta la natura umana; or diciamo ch' egli corrompe lo stesso soggetto umano che lo riceve: ella è una conseguenza delle cose dette fin qui. Abbiam veduto che la volontà è piegata al male fino dal primo istante della esistenza dell' uomo; e ciò per un principio seduttore giacente nella natura stessa dell' uomo. Ora in quel primo momento non ancora è sviluppata la libertà umana, nè vi ha alcun atto riflesso della volontà con la quale l' uomo possa correggere l' inclinazione al male dell' atto primo e diretto. La volontà in quel primo tempo non ha che un atto solo, anzi nè pure propriamente un atto ma un abito: e questo è l' abito per conseguente dell' uomo. Conciossiachè la potenza attiva, in cui il soggetto principalmente risiede, è l' atto prevalente, e molto più se egli è unico, della volontà. Egli riman dunque il soggetto stesso infetto e peccante. Si consideri la conseguenza che deve nascere dal guasto della parte animale. Esso basta a spiegare l' infettamento del principio costituente il soggetto uomo: perocchè, come abbiamo detto, la concupiscenza animale tira e rapisce a sè la forza intrinseca e radicale del soggetto, e così la indebolisce e la perverte: e la volontà cercatrice e al tutto bisognosa del bene di cui è privata, lungi dal poter aiutare il soggetto, dal non darsi giù e farsi suddito al senso, anzi fattasi al medesimo infida consigliatrice, lo persuade a ciò e lo impelle. Perocchè è in quel bene vago e illusorio che con tanta baldanza le promette il senso materiale, che ella si persuade di poter riparare la sua perdita e felicitarsi, nè ha verun' altra cosa in che menomamente sperare, massime innanzi che l' uomo conosca i beni ideali e astratti. E un tal guasto, che per tal modo ridonda dalla natura, cioè dalle potenze nel soggetto, non si dee far già per intervallo di tempo; di modo che vi abbia un tempo nel quale le potenze sieno corrotte e non il soggetto, e vi abbia un altro tempo [in cui] la corruzione del soggetto veniente dalle potenze sia già compita: ma forza è che in un tempo medesimo e comincino a essere le potenze e in esse il lor guasto, e la comunicazione di questo guasto fatta al soggetto. Di che la ragione è che il soggetto non ha un' esistenza da sè, divisa dalle potenze; ma egli comincia a esistere con queste e in modo a queste consentaneo. Ciò che non sarà difficile d' intendere a chi si rammenta il modo onde abbiamo descritta la produzione del soggetto: il quale abbiamo detto per sè subitamente esistere tosto che sia dato un sentimento, una materia o un oggetto di sentire. E finalmente, in terzo luogo, anche lo stesso guasto delle potenze si attribuisce al soggetto, ove egli pure è infetto, per quella unità e armonica comunicazione che le potenze hanno col soggetto nel quale risiedono. E` adunque il peccato originale una infezione della natura per la disarmonia (1) e l' intimo guasto delle potenze, dalle quali la natura risulta: è una infezione del soggetto perchè essa va a infettare e depravare quel principio supremo di tutte le potenze, quel punto più eminente della natura umana che costituisce propriamente il soggetto, l' IO dell' uomo. Da tutto ciò che è stato detto si fa palese una via di conciliare la sentenza de' Tomisti, i quali insegnano che il peccato originale risiede primieramente nell' anima stessa e dall' essenza dell' anima trapassi a contaminare le potenze; colla sentenza di San Anselmo (2), di Giovanni lo Scoto (3), e altri (4), i quali sostengono il peccato originale aver sua sede primieramente e propriamente nella potenza della volontà. Questi secondi facevano risiedere il peccato originale nella potenza della volontà per la ragione che abbiamo toccata di sopra, che la sola volontà è la potenza morale, e che tutto ciò che nell' anima vi è di morale esser vi dee per cagione della volontà; e che perciò anche il peccato, essendo morale, e non è altro, come si definisce anche da S. Tommaso, che una stortura della volontà, egli deve nella volontà come in sua propria e primitiva sede ritrovarsi: ragione irrefragabile ed evidente. E tuttavia non è men vera la sentenza di quelli che abbiamo nominati, i quali vogliono che nell' essenza dell' anima, anzichè nelle sue potenze, il peccato originale s' incominci: e il contrastare di questi a quelli parmi una di quelle battaglie delle scuole, le quali collo schiarire de' vocaboli o coll' approfondire la materia vanno intieramente a pacificarsi. Conviene dunque sapere che dall' essenza dell' anima, secondo la dottrina di S. Tommaso, fluiscono le potenze. Se dunque per essenza dell' anima s' intende il principio delle potenze, egli è manifesto che, parlando dell' uomo, ciò che costituisce una tale essenza è quel principio stesso che noi abbiamo chiamato il soggetto, l' Io. Ora il soggetto l' abbiamo fatto risultare da due elementi, cioè da un principio sensitivo e da un principio operativo (giacchè il passivo e l' attivo non si possono mai dividere insieme) (1). E questo principio operativo del soggetto abbiamo detto che è una volontà primitiva e propriamente una facoltà di eleggere , che abbiamo distinto dalla potenza comunemente detta volontà; che questo principio operativo e volitivo costituisce l' essenza dell' anima, il soggetto, e non v' ha niente di attivo a lei anteriore nell' uomo. Or ecco la sede del peccato originale: ella non è nella volontà comune (potenza), ma nella volontà primitiva, la quale costituisce il soggetto uomo e con esso l' essenza dell' anima. Egli è dunque anche vero che il peccato originale risiede nell' essenza dell' anima. Io spiegherò qui sotto in che senso dica il Dottore angelico che il peccato originale macchi prima l' essenza dell' anima che la volontà; e qui mi basterà solo di notare che il Santo Dottore riconosce così necessaria la perversione della volontà a costituire il peccato che, tolta questa, è tolta l' essenza del peccato e che per ciò il peccato non comincia se non dove questa comincia, sicchè tutto ciò che di dispositivo vi può essere nell' uomo antecedentemente al guasto della volontà non è ancora peccato. E veramente cercando egli ciò che vi ha di formale nel peccato originale, comincia dallo stabilire questo principio: [...OMISSIS...] . E poi immediatamente soggiunge: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole la mente del santo Dottore manifestatamente si appalesa. Perocchè ci riconosce in esse che non può avervi formal peccato prima che non sia storta la volontà: e per ciò qualunque infezione e guastamento fosse nell' anima anteriore allo storcimento della volontà, ciò non sarebbe peccato ancora se non materiale, cioè a dire materia del peccato sopraveniente e non essa stessa peccato. E mi gioverà aver fatta questa osservazione a schiarimento di ciò che mi converrà dire parlando più sotto della trasfusione del peccato di origine. Abbiamo veduto che il peccato originale è peccato della natura umana. E abbiamo veduto che egli è peccato altresì del soggetto umano. Or egli è manifesto da sè stesso che il peccato originale si fa peccato anche della persona, poichè il soggetto uomo, in tutti quelli che per naturale generazione discendono da Adamo, è una persona. Egli è per ciò che il Concilio di Trento definì essere il peccato originale non solo comune della specie, ma proprio di ciascuno che nasce (6). E S. Agostino nel medesimo senso dice: [...OMISSIS...] . Ed è per questo che il peccato originale tocca la persona, che ha tutta la sua proprietà la espressione del Grisostomo che chiama questo peccato radicale : conciossiachè la persona si può veramente considerare, sotto un aspetto, come il principio, la virtù, la radice della natura umana. Dalle cose dette noi potremo racc“rre finalmente una conveniente definizione del peccato originale. Perchè noi abbiamo veduto: che il peccato originale non è già una mera negazione o una mera privazione della grazia. Che esso non è già puramente un disordine nella natura animale, conciossiachè l' animalità non ha per sè stesso niente che sia bene o male morale. Che tuttavia il disordine dell' istinto animale, in quanto è congiunto individualmente al soggetto umano, si fa materia alla reità di questo soggetto. Che il peccato originale risiede nella natura intellettiva e volitiva dell' uomo: e principalmente in una stortura abituale della volontà (6), ma di quella volontà primitiva che entra come un elemento essenziale della natura umana e che costituisce il principio attivo del soggetto uomo e ancor più della persona (7). Di che abbiamo conchiuso che il peccato originale infetta la stessa personalità dell' uomo e che perciò, oltre al chiamarsi naturale, deve poter ricevere anche l' appellazione di peccato personale. Ora col nome di concupiscenza noi denomineremo in generale qualunque conversione dell' uomo al bene commutabile in onta di Dio (2): e dopo di ciò ecco la definizione che noi proponiamo del peccato originale: Il peccato originale è una cotal concupiscenza e inclinazione al male della volontà (non già solo dell' istinto animale) in quanto questa volontà è la suprema parte attiva dell' uomo, e però quell' elemento nel quale risiede la personalità umana. Noi abbiamo definita la imputazione delle azioni quello attribuirsi che si fa alla persona le azioni morali come a loro causa (3). Per ciò non vi è imputabilità dove il principio da cui muove l' azione non sia la persona. Ma il peccato originale abbiamo veduto essere anche personale, cioè infettare la stessa persona e ricevere da questa la sua qualità di vero e formal peccato come da suo primo principio formale. Per ciò è manifesto il perchè per cui il peccato originale venga imputato all' uomo che per generazione lo contrae. Ma di qual genere è ella l' imputabilità del peccato originale? Noi abbiamo distinto due specie di imputabilità, la imputabilità del peccato e la imputabilità della colpa (4). Noi abbiamo detto, quando la persona umana colla sua volontà è opposta alla legge, allora vi è peccato . Se questa opposizione della volontà è libera allora vi è colpa , cioè allora il peccato è imputabile a colpa (5). Or egli è manifesto, che il peccato di origine non si contrae già per un atto di libera volontà, ma si contrae solo per un atto di volontà personale sì, ma non libera, del qual atto non è in potere dell' uomo far senza, ma anzi egli vien generato e naturato in quell' atto; sicchè non è già un atto posteriore alla sua esistenza, ma è contemporaneo e congiunto con quell' atto medesimo, col quale da principio esiste. Dunque il peccato originale non può essere imputabile di quell' ultimo genere d' imputabilità che abbiamo accennato, ma sol di quel genere d' imputabilità che spetta al peccato che non è colpa personale: ad Adamo poi che lo commise liberamente fu imputabile eziandio a colpa. Egli è così che conviene intendere l' angelico Dottore quando, parlando dell' imputabilità del peccato originale, la riferisce sempre in Adamo: a quel modo che l' errore di una mano o di un piede s' imputa all' uomo o all' anima che mosse quella mano o quel piede. Si deve intendere che il santo Dottore parli del primo e del perfetto genere d' imputabilità, cioè della imputabilità a colpa: perocchè anche il peccato s' imputa alla persona, ma in altro modo, e talora non si diede a questo secondo modo il nome d' imputabilità. Ecco i passi dell' Aquinate: [...OMISSIS...] . E applicando questo principio al peccato di origine, così dice: [...OMISSIS...] . Sicuramente non voleva S. Tommaso con queste parole t“rre quella imputabilità del peccato originale che viene alla persona generata in esso dall' esserle peccato proprio: conciossiacchè è intrinseco alla natura del peccato che la persona che lo possiede abbia da lui vituperio e macchia di reità: il che è appunto quel genere d' imputazione che noi troviamo essere nel peccato originale e che è essenzial cosa in ogni peccato. Lo stesso si dica delle due specie di demeriti che corrispondono alle due specie d' imputabilità (2). Ognuno ben vede quale de' due appartenga al peccato di origine. Dopo fatta la sposizione della dottrina del peccato originale, egli è facile intendere come la rivelazione risponda alle tre grandi questioni che l' infelice stato dell' umanità offre al pensiero, che la filosofia non ha mai potuto sci“rre e che pur sono di tanta necessità all' uomo di saperne il risolvimento (3). Alla seconda questione che dimanda: come convenga alla giustizia dalle mani della natura, risponde la rivelazione che non la natura il fece tale, ma si corruppe da sè medesimo. Alla prima questione: come l' uomo possa essere uscito così misero divina che sia soggetto ai dolori e alla morte anche il bambino che non ha ancor commesso alcun peccato attuale, la rivelazione risponde che anche in quel bambino, pur colla sua medesima generazione, entrò una infezione segreta e intima che pervertì la sua morale natura e storse la sua volontà, rendendolo per tal modo di un volere perverso, e che è la pena di questa morale corruzione in tutti quei mali a cui va soggetto (1). Alla terza questione finalmente che cerca l' origine di quella perpetua lotta e contraddizione che l' uomo prova in sè medesimo, sempre sbattuto fra una legge augusta che gli intima il bene e un incalzante e perpetuo movimento che lo caccia al male, la rivelazione risponde esser quella legge impressa da Dio e non possibile a cancellarsi, ed essere quel funesto stimolo opposto alla legge la stessa ribellione dell' uomo al suo Creatore, ribellione mutata in una infelice servitù e in un istinto lagrimevole che il precipita al male. E così è sciolto il gran nodo e spiegato il grande enigma della natura umana. Questa proposizione è della fede cattolica. [...OMISSIS...] . Come abbiamo distinte due imputazioni, due meriti e due demeriti, così abbiamo distinte altresì due maniere di retribuzioni, di premii e di pene: l' una che consegue al peccato e che abbiamo nominata retribuzione e pena di fatto, l' altra che consegue alla colpa e che abbiamo nominata retribuzione e pena di diritto (1). La prima di queste due pene che si può dire anche pena naturale, perchè viene da sè come natural conseguenza del fallo commesso, è quella che appartiene al peccato originale. E veramente noi abbiamo detto che questo peccato è della natura e che essendo annesso alla natura come un cotal morbo, viene colla natura trasmesso, e per ciò una tal pena viene naturalmente comunicata. Abbiamo veduto che il principio supremo dell' uomo, la personalità, è quella che vien lesa dalla corruzione originale. Egli è appunto per questo che la corruzione originale ha la propria e vera ragion di peccato, sicchè l' infezione della persona è ciò che vi ha di formale nel peccato originale. Abbiamo veduto che anche tutte le potenze dell' anima sono state vulnerate dal peccato originale. Ora questa lesione e questo deterioramento delle potenze, quando si considera da sè solo, cioè prescindendo dal principio supremo costituente la personalità dell' uomo, allora non costituisce propriamente alcun peccato, ma solo ciò che si chiama la materia del peccato. Ove però questo guasto sia unito alla deformità della persona, allora forma una cosa sola col guasto personale per l' unità individua che formano le potenze col loro principio supremo: allora anche il guasto delle potenze partecipa la ragione di peccato: allora nell' uomo si considera una sola grande e universale corruzione, la qual tutta è morale e tutta insieme dicesi peccato originale: e solamente per astrazione della mente si può considerare il guasto delle potenze a parte dal guasto della persona, chiamando quello la parte materiale del peccato. Nè solo il guasto delle varie potenze si considera come formante un solo peccato di origine col guasto della persona; ma le stesse operazioni che fa l' uomo impulso e mosso dall' originale colpa si possono considerare come comprese nel peccato di origine. Di che si vede ragione onde nelle divine Scritture si dica che l' uomo è concepito non solo nel peccato, ma nei peccati: [...OMISSIS...] . Or da quello che fu esposto apparisce come le potenze, non solo prese in relazione con loro e col soggetto principio di esse, ma ben anche considerate singolarmente, soffrono dalla infezione originale una intrinseca alterazione e deterioramento. Considerate poi in relazione col soggetto che è il loro principio, le potenze ricevettero dalla infezione originale la disarmonia , per la quale non si trovarono più egualmente sottomesse al soggetto medesimo: e ciò era degno, dopo che l' uomo si era sottratto dalla soggezione a Dio (2). Una evidente prova di fatto di questo cotale indebolimento che ricevette la signoria del soggetto sulle potenze, e della prevalenza presa da queste su di quello, si ha in ciò che il soggetto trovasi impacciato e legato nell' operare delle potenze: di maniera che a ogni potenza, per così dire, riesce di tirare a sè il soggetto e interessarlo tutto, per così dire, dell' affare suo; quasi come un debole principe che vien guadagnato facilmente dai partiti e prende impegno degli interessi parziali, prodigando in servigio di essi la sua autorità e potenza che dovrebbe essere riservata solo all' interesse generale. Così, a ragione di esempio, l' istinto animale suol talora esercitare una tal forza sul soggetto che il soggetto o è impedito dall' usare della ragione, o vien tratto a usarne in servigio dello stesso appetito e, per affetto dato a questo, anche a traviare il ragionamento in errori e fallacie. Se il soggetto avesse un proprio sentimento sì forte e dignitoso, in cui trovasse più nobil diletto che in quello che a lui dà o promette l' istinto animale, non abbasserebbe mai sè stesso mendicando la sua felicità da questo istinto e nell' interesse di questo riponendo tutto l' interesse proprio. Or solo in tal caso egli potrebbe essere signore dell' istinto animale, facendone quel conto, nè più nè meno, ch' egli si merita: in tal caso egli avrebbe una indipendenza dall' istinto animale e potrebbe lasciar operare l' istinto animale, senza prendere egli parte nella operazione, senza mettere in azione la forza propria a vantaggio di quell' istinto e senza muovere a favore dell' istinto la potenza razionale. In tal caso avverrebbe ancora che le operazioni di istinto animale nell' uomo non potrebbero turbare, nè alterare o impedire la intelligenza ne' suoi esercizii; e che anche nelle massime commozioni del senso animale una tranquillissima calma e un' attività imperturbata regnerebbe nella mente. E infatti l' istinto animale non ha veruna diretta comunicazione colla intelligenza, e queste due parti sono due essenze separate, l' una delle quali, per così dire, non sa niente dell' altra e per ciò non può agire l' una sull' altra nè sturbarsi a vicenda. Ma mediatore fra esse è il soggetto, ed è questo che comunica con l' una e coll' altra e che muove l' una e l' altra (1): ed è perciò che quando l' istinto animale ha tirato a sè e guadagnato il soggetto, allora per mezzo del soggetto muove a sua voglia e turba l' intelligenza (1). Egli è per questo che nell' uomo perfettamente costituito dalla natura le massime dilettazioni animali non potevano menomamente turbare l' uso della intelligenza. Egli è per questo medesimo che nel divino Redentore i movimenti della natura animale non impedivano quelli della razionale, ma che gli uni e gli altri erano tenuti indipendenti come a lui piaceva. [...OMISSIS...] . E per contraddistinguere questa passione ammodata di Cristo che non trascorre fuori dei limiti della sensibilità animale nè va appunto a dominare la ragione, separandola da quella passione smodata a cui va soggetto l' uomo corrotto, i teologi inventarono il nome di propassione e dissero che quella di Cristo era una propassione, e una passione quella degli altri uomini (3). Un' altra prova della debolezza della forza del soggetto si è che ove le potenze inferiori non riescano a tirare a sè e disporre del soggetto stesso, stando questo saldo in opporsi a ogni smoderato lor desiderio, allora si partono da lui e operano senza sua dipendenza, rifiutandosi a ogni soggezione. Sicchè o tirino esse il soggetto nei proprii interessi, o nol tirino, mostrano egualmente che egli è troppo debole ed esse troppo forti, perocchè o lo hanno legato, o esse almeno vanno sciolte da lui. E perchè il soggetto umano è persona, le potenze, se operano d' accordo colla persona, hanno un atto personale, ed essendo riprovevole questo atto, il male che fanno è personale: o dove il loro operare dall' intenzione della persona discorda, ivi cessa dall' essere personale e rimane solo un disordine materiale. S. Agostino, parlando delle conseguenze del peccato originale, le distingue secondo le potenze passive e attive dell' umana intelligenza; e nelle potenze passive trova essere la piaga dell' ignoranza , e nelle potenze attive la difficoltà di fare il bene (1). Vi fu altri che, analizzando la difficoltà di fare il bene, trovò che ella nasce da tre infelici principii, cioè dalla malizia che impiaga la volontà , dalla debolezza che impiaga quella interna forza per cui l' uomo è atto alle cose difficili, e che fu detta irascibile ; e finalmente dalla concupiscenza che offende l' inclinazione al diletto, detta concupiscibile (2). Ora perchè tutti questi danni, in quanto riguardano la parte morale dell' uomo, ricadono tutti in detrimento e perversione della sua volontà , per ciò noi ci tratterremo solo a raccogliere qui in poche parole ciò che ebbe a soffrire la libertà umana dal peccato originale (3). Il potere della libera volontà nello stato dell' uomo innocente si stendeva non solo alla virtù naturale, ma ben anche alla soprannaturale. Ma il potere di operare soprannaturalmente venendo all' uomo conferito dalla grazia, egli è manifesto che, sottratta la grazia, l' uomo non ebbe più questo potere. E in ordine appunto alla virtù soprannaturale si devono intendere molti luoghi di S. Agostino, ove sembra dire che sia perito il libero arbitrio dell' uomo. L' uomo non potè più operare cosa alcuna di buono in quell' ordine dal quale era decaduto e nel quale non era in conseguenza di sua natura, ma solo in conseguenza di un dono sopraggiunto alla sua natura gratuitamente da Dio (4). Nello stesso ordine di cose soprannaturali si devono principalmente intendere quelle parole di Cristo: « Senza di me non potete far nulla« (5) »; e quegli innumerevoli luoghi delle divine Scritture ne' quali si afferma la necessità della grazia divina per qualsivoglia opera salutare, eziandio per le parole e pei pensieri (6). E ciò perchè sebbene l' uomo nell' ordine naturale possa fare qualche cosa colle forze della natura, purchè Dio lo aiuti come autore della natura, mantenendogli l' esistenza e le forze coi loro atti; pure questo qualche cosa è detto nulla nelle Scritture, perchè è un vero nulla per l' uomo, conciossiachè è nulla al fine di esso uomo, cioè all' eterna salute che è come il frutto, a portare il quale l' uomo fu creato. Perciò Cristo illustra il suo detto: « voi senza di me non potete far nulla« »; colla similitudine del tralcio che non può far nulla senza essere inserito nella vite. Questo far nulla del tralcio reciso dalla vite equivale a non portare il suo frutto: ed il tralcio della vite veramente non fa nulla se non vegeta e non produce il suo frutto, sebbene gli rimangono tuttavia le proprietà del legno secco e sia idoneo per avventura a certi usi e ad ardere. Cristo dichiarò ancora il suo pensiero in quei luoghi, nei quali, invece di dire che non potevano far nulla, disse in ragione di esempio: « Nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre mio« (1) »; o usò altre simili espressioni che evidentemente trattano dell' eterna salute degli uomini, del bene completo spettante all' ordine soprannaturale. Che cosa poi sia quest' ordine di cose superiore alla umana natura, appare manifestamente da ciò che abbiamo detto nel libro I di questa opera, dove lungamente abbiamo dei due ordini naturale e soprannaturale tenuto ragionamento: e le cose quivi ragionate or più che mai ci bisogna rammemorare. Conciossiachè risulta da quanto colà fu detto che la operazione soprannaturale fa due cose nell' uomo: 1 o dà delle notizie nuove; 2 o dà nuova luce e forza alle notizie naturali. E applicando questa distinzione alle cose morali, ne verrà che il lume della grazia produrrà nell' uomo che lo partecipa 1 delle obbligazioni nuove , le quali corrispondono alle nuove notizie da lui per tal lume acquistate; 2 e certe modificazioni circa le obbligazioni vecchie, cioè circa le obbligazioni che aveva l' uomo di eseguire i precetti naturali, di modo che egli debba, avuta la grazia, eseguire i precetti naturali in un modo nuovo (soprannaturale): le quali modificazioni corrispondono alla nuova luce aggiunta alle notizie precedenti e naturali. Or, ciò posto egli è evidente che, essendo perito nell' uomo col peccato tutto che aveva di soprannaturale, esso uomo perdette il potere non meno di eseguire i precetti naturali in modo soprannaturale. Ed è questa dottrina come evidente in sè stessa, così conforme alla mente dell' angelico Dottore, il quale, dimandandosi se l' uomo possa adempiere i precetti della legge colle sue forze, risponde: [...OMISSIS...] . I precetti adunque naturali si possono eseguire in qualche parte, ma non già in un modo soprannaturale, e solo in un modo naturale: altramente il libero arbitrio dell' uomo sarebbe interamente perito, contro la definizione del sacrosanto Concilio di Trento. E qui conviene avvertire che l' uomo, il quale si trova nell' ordine della natura, e a cui perciò è impossibile l' operare nulla nell' ordine soprannaturale, poichè in ciò fare non ha nè meno la facoltà, non è obbligato di eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, conciossiachè, come dice il Concilio di Trento, Iddio non comanda le cose impossibili. Chè se l' uomo, che si trova nell' ordine della natura, fosse obbligato ad eseguire i precetti naturali in un modo soprannaturale, in tal caso egli peccherebbe ogniqualvolta operasse il bene naturale: il che è contrario a quanto è stato definito dalla Chiesa nella condanna di quella proposizione: Che tutte le opere degli infedeli sono peccati (2). Egli è bensì vero che la virtù naturale non porta alcun effetto soprannaturale e perciò non dà all' uomo in alcun modo l' eterna vita, la quale consiste nella visione di Dio; ma se l' uomo che fedelmente eseguisce la legge della natura viene escluso dal celeste regno, il quale aver non si può che per la grazia di Gesù Cristo, non ne siegue da questo che egli debba venire anche positivamente punito con giudizio proprio e speciali supplizii destinati a farvi scontare le sue buone opere naturali. La quale dottrina, sebbene noi sappiamo spiacere a certi Teologi di stretta sentenza, tuttavia noi la teniamo, intimamente persuasi di aderire con essa ai sentimenti della Chiesa cattolica e alle decisioni dell' Apostolica sede. E forse la divergenza delle opinioni fra i teologi che trattano di queste materie nasce dal non essersi ancora dopo tante dispute sufficientemente chiarite le idee elementari della controversia: il che vogliamo provarci a far qui noi brevemente. Ma prima, o simultaneamente, rendiamo ragione della nostra sentenza. La difficoltà che trovano gli avversarii è nel precetto dell' amore di Dio. Perocchè, dicono essi, egli è necessario che i precetti stessi naturali, acciocchè sieno bene eseguiti, si facciano pel motivo dell' amore di Dio. Ma l' amore di Dio è certo non potersi avere se non per dono di Dio stesso. E perciò l' uomo senza la grazia non può eseguire i precetti naturali pel giusto motivo; e in questa mancanza di motivo è il peccato che lo condanna anche allora quando egli adempie la materialità del precetto naturale. Ora noi crediamo che in questa materia si deva primieramente esaminare la vera natura del precetto di amare Iddio. Egli è espresso in queste parole: « Amerai il Signore Dio tuo di tutto il cuore tuo e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua« (1) ». Egli è il medesimo che dire che l' uomo deve amare Iddio con tutte le sue forze, cioè con tutta la facoltà di amare che ha l' uomo, o, come è in S. Marco, con tutta la sua virtù, la quale risulta dalle forze del cuore, della mente e della stessa vita animale. Perciò in questo precetto non si comanda già all' uomo che ami Iddio con quelle forze che egli non ha: nè gli si comanda che egli impieghi all' amore divino quelle facoltà o potenze che non sono ordinate a questa operazione. Perocchè se tutte le potenze, anche di altra natura non ordinate all' operazione dell' amore, soggiacessero al precetto di amare Iddio, converrebbe che questo precetto obbligasse anche le pietre e gli animali, i quali hanno pure delle forze e delle potenze, ma il cui oggetto non è Dio conoscibile e amabile. Sarebbe ciò contro la natura delle cose: e questa oppugnazione della natura non può essere nella legge che viene da Dio, il quale è l' autore di essa natura. Laonde ciò che è comandato all' uomo si è di amare Iddio con tutto il potere che egli ha, sia questo potere naturale, sia soprannaturale. E perchè la grazia aggiunge una cotal forza alla essenza dell' anima congiungendola con Dio, della quale partecipano tutte le potenze; per questo in virtù della grazia viene ordinato all' amore divino il cuore, la mente, e l' anima, e a tutte e tre queste parti dell' uomo viene aggiunto un potere dalla operazione della grazia di tendere soprannaturalmente in Dio. Se ciò non fosse, ne verrebbe anche un altro assurdo, che la quantità del divino amore non potrebbe crescere, nè diminuire negli uomini: ovvero che in quell' uomo nel quale il divino amore non fosse pervenuto al sommo, cioè a tale che non potesse più crescere, per quantunque grande fosse il suo amore, non valesse nulla, ma sempre in lui esistesse il peccato e la violazione di quel massimo precetto di amar Dio con tutto il cuore, con tutta l' anima, e con tutta la mente. Il che è sommamente assurdo e sommamente contrario alla cattolica verità, la quale ci ammaestra anzi a credere che anche il giusto, fin che trovasi in questa vita, può crescere sempre in amore, e cresce e crescerebbe tuttavia ove anco la vita sua fosse lunga come quella de' Patriarchi e più. Or che è ciò? Ciò nasce da questo che l' uomo non è obbligato di amare Iddio con quel potere che egli non ha, ma sì solo con tutto quello che egli ha; e che l' amore può crescere perchè può continuamente crescergli questo potere con un grado maggiore di grazia che Dio gli conferisca. E perciò nessuna maraviglia che vi abbiano molti giusti i quali, amando disugualmente Iddio, sieno nondimeno tutti giusti, perocchè tutti amano Dio col potere che hanno e tutti adempiscono il precetto che loro comanda di amare Iddio con quel cuore, con quell' anima e con quella mente che hanno. Perocchè quel precetto non dice amerai Iddio col cuore, coll' anima e colla mente; ma dice col cuore tuo, coll' anima tua, colla mente tua: che è quanto dire con quelle parti e facoltà che tu hai. E una dottrina contraria a questa addurrebbe, per mio avviso, ogni uomo in disperazione: perocchè qual uomo mai potrebbe vivere con buona fiducia di adempire il gran precetto dell' amore se fosse altramente? Or posto che abbiamo questo fondamento, egli mi par certo altresì e consentaneo agli insegnamenti dell, Apostolica sede, avervi un duplice amor divino, l' uno naturale, e l' altro soprannaturale. Egli è notabile la proposizione condannata da Pio V: [...OMISSIS...] . Dunque è vera la contraria, che la distinzione di un doppio amore, naturale e gratuito o soprannaturale, ha suo ragionevole fondamento. Vero è che l' amor naturale e l' amore soprannaturale non è ben descritto ed espresso in quella proposizione: conciossiachè la natura dell' amor naturale non consiste già in questo che si ami Iddio come autore della natura, ma che lo si ami con forze e facoltà naturali, insomma con amore naturale. Conciossiacchè può Iddio amarsi come autore della natura, e tuttavia amarsi soprannaturalmente, se ciò si fa per istinto dello Spirito Santo. E questa è una di quelle distinzioni per mancanza delle quali io dicevo non essersi ancora intieramente chiarite le idee elementari di questa controversia. Il perchè non pochi teologi ritennero che fosse uopo la grazia per amare Iddio anche come autore della natura: e bene e ottimamente così ritennero secondo il loro intendimento, perocchè intesero di un amor di Dio, il quale si riferisse bensì all' autore della natura, ma fosse insieme un amore supremo, un amore sufficiente alla salute; ciò che è quanto dire un amore soprannaturale (1). L' amore dunque naturale di Dio consiste in amare Dio colle forze naturali, in amarlo come naturalmente il conosciamo. E certo è che esiste nella umana natura un potere di amar tutto ciò che l' uomo conosce come buono. Ma l' uomo può conoscere naturalmente Dio e conoscerlo come bene; perciò sarebbe affatto gratuito e contrario a ciò che insegna l' osservazione intorno alla umana natura il dire che questo bene che naturalmente conosce, nol possa altresì amare a quel modo che l' uomo ama qualunque altro bene tosto che da lui è conosciuto. Egli è vero bensì che la cognizione che l' uomo può avere di Dio per natura è sommamente tenue, perocchè essa non si appoggia a nessuna percezione, ma finisce tutta in una cognizione che abbiamo chiamata ideale7negativa, e che abbiam di sopra diligentemente descritta. Egli è vero ancora che un oggetto, che non si conosce se non mediante una cognizione così tenue e imperfetta, non si può amar vivamente; perocchè sebbene si conosca per bene sommo e infinito, tuttavia il modo di questa cognizione fa sì che questo bene sommo e infinito sia presente al nostro spirito debolissimamente e non vi eserciti se non una minima azione: un' azione che noi abbiamo chiamata ideale per distinguerla dall' azione che fanno su di noi le cose reali, cioè le cose di cui abbiamo la reale percezione. E tutto ciò prova la poca efficacia che deve avere questo amor naturale di Dio: ma non prova già che questo amore naturale non esista: prova la necessità della grazia perchè l' amore di Dio domini stabilmente nelle anime nostre: prova finalmente che questo amore non può reggersi a lungo contro a delle forti tentazioni, delle quali tentazioni è piena la vita umana, che le percezioni delle sensibili cose colla loro violenza tirano e governano a loro talento. Ma non prova già che alla forza che ha la natura umana di amare e che fa suo oggetto tutte le cose anche solo idealmente concepute, non possa punto fare suo oggetto anche Dio medesimo. S. Agostino dice che la natura invita ad amare Iddio e invita non solo quelli che hanno l' abito della grazia, ma tutti indistintamente gli uomini. « Il cielo e la terra, egli dice, e tutte le cose che in essi si contengono, ecco da ogni parte mi dicono che riami, nè cessano di dirlo a tutti acciocchè sieno inescusabili« (1) ». E il medesimo ripete di continuo la divina Scrittura intesa a far delle cose create scala al Creatore, come specialmente in quel sublime passo di Giobbe che comincia: « interroga i giumenti e ti ammaestreranno; e i volatili del cielo e ti daranno cenno« (2) ». Dove l' uomo è sollevato a considerare la grandezza del Creatore dalle cose dell' universo. Or se l' uomo ha questa cognizione di Dio, se da questa cognizione esce il debito di amarlo e ne sente la convenienza e suprema necessità; onde poi si dirà che per solo questo oggetto, il maggiore di tutti, gli sia impossibile fare un atto di amore, quando pure ha per natura il poter amare ogni altro oggetto che conosca sotto specie di bene? Egli è vero che il grado e la qualità dell' amore non è in proporzione dell' oggetto conosciuto, ma del modo di conoscerlo , come dicevamo: ma ciò non prova se non che l' amor naturale è tenue e inefficace, sebbene è amore. Egli è di questa inefficacia che deve parlare S. Agostino; è dell' amore soprannaturale che ei vuole alludere quando, dopo aver detto che il cielo e la terra il chiamavano ad amar Dio, soggiunge: « Ah! da più alto tu fai misericordia a cui fai misericordia, e misericordia farai a cui la farai: chè altramente il cielo e la terra parlano ai sordi le lodi tue« (3) ». Perocchè quelli che non hanno la grazia non possono intendere appieno le voci della natura, le quali certamente chiamano ad amar Dio non solo naturalmente, ma soprannaturalmente ancora: e così le intendevano i Santi, i quali da ogni oggetto naturale venivano innalzati ad atti di amor di Dio soprannaturale. Dopo di tutto ciò ancor resta a vedere se sia cosa del tutto sicura che i precetti naturali non si possano onestamente compire se non pel motivo dell' amore di Dio, e che adempiti senza questo motivo contengano una reità, una colpa. E intanto mi par di poter affermare come cosa certa che quell' uomo, il quale non abbia se non le sole forze della natura, tutto al più non possa essere obbligato se non ad adempire i precetti naturali pel motivo di un naturale amore di Dio, il quale abbiamo veduto esser possibile. Perocchè in tal modo egli dà al Creatore tutto quell' onore e quell' ossequio supremo del quale egli è capace, nè più esige dalle sue creature l' ottimo degli enti. Ma dopo di ciò io sostengo che nè pur tutto questo sia necessario, acciocchè l' esecuzione del precetto naturale sia interamente buona; ma che basti che il precetto naturale si eseguisca per amore della giustizia. Egli è vero che l' amore della giustizia si può, in un cotal senso, prendere per un amore di Dio, perchè Iddio è la verità e la giustizia stessa: e dove si prenda in tal senso, accordo anch' io che ogni precetto naturale, perchè sia onestamente eseguito e non abbia in sè alcun morale mancamento, debba essere adempito pel motivo dell' amor di Dio. Ma più propriamente parlando, mi sembra doversi distinguere l' amore di Dio e l' amore della giustizia: perocchè la giustizia, come noi naturalmente la veggiamo, non è che un ente ideale, una regola della mente nostra, una idea, e propriamente la grande, la prima idea, l' idea dell' essere in universale. Ora un' idea non è ancora Dio, perocchè Dio è anche una sussistenza. Egli è vero che quell' ente medesimo che da noi idealmente si concepisce, ha una sussistenza in sè che noi non veggiamo e che veggendola noi ci si rivelerebbe in forma divina e lo percepiremmo allora come Dio. Ma fino a tanto che lo percepiamo idealmente, non lo percepiamo come Dio, e ciò che facciamo per la riverenza e l' amore che riscuote da noi questo ente ideale, non si può, a tutto rigore, dire che noi il facciamo ancora per riverenza e amore di Dio; sebbene divina sia quella forza che riscuote da noi tanta riverenza e tanto amore. Ove non contendo di parole, come dicevo, e se si voglia mi accompagnerò a quelli che dicono operarsi da noi per amore di Dio tutto ciò che si opera da noi per amore della giustizia: purchè però mi si conceda di denominare l' amore della giustizia un amore di Dio mediato , e l' amore di Dio come essere sussistente, un amore di Dio immediato . Ciò adunque che io accorderò sarà questo solo, che perchè nel modo di eseguire i precetti naturali non ci abbia peccato, è necessario che essi si eseguiscano per un amore di Dio mediato . Che se poi si eseguiscono per un amore di Dio immediato , allora l' operazione nostra non solo non ha in sè stessa alcuna immoralità, ma ella ha un grado di perfezione: e questa è la perfezione della giustizia naturale. Che se poi essi si eseguiscono pel motivo dell' amor di Dio immediato e soprannaturale, l' operazione nostra ha conseguita la perfezione anche nell' ordine soprannaturale. Ciò che mi persuade questa dottrina è non solo la ragione dell' assurdo che ne seguirebbe se vera fosse la contraria, cioè che Dio giustissimo punisce le operazioni fatte per l' amore della giustizia; ma ben ancora il parermi solo fra tutte consentanea alle decisioni della Chiesa. Consideriamo le proposizioni condannate da Alessandro VIII intorno al peccato filosofico. Esse sono le seguenti: [...OMISSIS...] . Se queste proposizioni sono condannate, dunque convien dire che sieno vere le contrarie: dunque un atto umano contrario alla retta ragione è un' offesa di Dio per sè, senza bisogno che colui che lo commette conosca Dio o a lui pensi. Ora un atto umano contrario alla retta ragione è lo stesso che un atto contro alla giustizia: dunque chi pecca contro la giustizia, offende Iddio senza più; la deformità dell' atto va a offendere Dio stesso appunto perchè Dio è la giustizia. Se dunque ciò è vero, sarà vero, altresì al contrario che quegli che opera in ossequio della giustizia, opera in ossequio di Dio (2); che il suo atto terminando nella giustizia, termina in Dio stesso e che perciò non può essere disaggradevole a Dio. Egli è che Dio non è conosciuto nel suo essere sostanziale e reale, ma dal momento che si conosce la verità e la giustizia, egli è con questo solo conosciuto almeno nel suo essere ideale: e questa cognizione della verità è comune a tutti gli uomini. Il perchè egli è certo che tutti gli uomini in questo senso conoscono Iddio per natura, sebbene molti il possano ignorare nella sua sostanziale e personale sussistenza (3). Egli pare dunque certo che nell' ordine della natura l' uomo, il quale opera pel motivo della giustizia naturale, non pecca nè in quanto alla sostanza del precetto, nè in quanto al modo. Si dirà probabilmente che consistendo la giustizia nell' amare le cose secondo quello che meritano e il lor merito essendo determinato dal modo della loro esistenza, non si può amare nessuna cosa legittimamente se non in Dio, perchè dipende da Dio l' esistenza di ogni cosa. - Ma rispondo che la obbligazione che abbiamo di amare le cose non è proporzionata all' esistenza delle cose come ella è in esse, ma come questa loro esistenza è nella nostra cognizione. Or in quelli che non conoscono Dio come essere sussistente o che attualmente non ci pensano, basta come dicevamo che le operazioni loro sieno riferite in Dio mediante quello che abbiamo chiamato l' amore mediato , cioè l' amore della giustizia, la quale luce sempre presentissima nelle anime intelligenti; perocchè in questa disposizione di operare è compreso virtualmente anche l' amore di Dio immediato. Si ripiglierà dicendo: che l' uomo essendo a principio costituito in uno stato di grazia, si trovò obbligato con ciò stesso a praticare la virtù anche nell' ordine soprannaturale. Or l' uomo si rese impotente a ciò col peccato. Ora egli è dunque sua colpa se gli mancano le forze a praticare la virtù soprannaturale. - Ragionevole è la istanza; e io non nego che l' uomo sia riprovevole in causa del mancargli le forze soprannaturali. Ma tutto ciò che ho detto non riguarda la causa dell' operazione, ma riguarda l' operazione stessa, e l' operazione non è punto difettosa se vien fatta per la giustizia. Vero è che gli manca un pregio, cioè la grazia: ma questo mancamento rifondesi nel peccato originale, è un elemento, una parte del peccato originale stesso. L' uomo cioè che nasce col peccato originale, operando giustamente secondo la legge naturale, non si aggrava già di un nuovo peccato; ma non resta nè meno di essere peccatore nella sua origine. E questa risposta credo poter soddisfare a qualsivoglia ragionevole avversario. Da tutte le quali cose consegue che all' uomo, sebbene infetto dal peccato originale, rimane qualche parte di libero arbitrio con cui può fare degli atti di virtù naturale (1). Sarebbe poi un entrare in altra ricerca chi si facesse a stabilire qual grado di forza s' abbia una cosifatta libertà, e per farne un cenno, dico che questo grado di libertà non si può con una universal misura definire, poichè varia nei varii uomini. Solo due cose si può dire in universale, la prima che in qualche modo definisce questo grado negativamente; e la seconda positivamente. Negativamente si viene in qualche modo a definire il quanto di questa libertà dicendo, che ella è poca e non tale che valga a vincere gravi tentazioni: ciò che consegue dalle dottrine già da noi esposte (2). Ove dunque la causa della virtù sia congiunta con quella della felicità ossia de' beni temporali, l' amore della virtù non riceve alcuna scossa e può operare. In ragione di esempio, la santità del giuramento nel caso di Regolo e il dovere di difendere la patria erano sostenuti e congiunti coll' amor della patria e della gloria e mediante questa alleanza di beni temporali e reali potè vincere la grave tentazione de' supplizi che gli vennero minacciati (1). Ma questa grave tentazione non l' avrebbe probabilmente vinta col solo motivo dell' onesto e del giusto, quando nessun altro motivo di amor temporale non fosse concorso ad aiutarlo in ciò. Dove adunque l' amore della giustizia non è combattuto da veruna tentazione, egli è uno stimolo sufficiente all' uomo per operare: ma dove abbia incontro delle tentazioni forti, l' uomo con lui solo non regge, vincendo l' amore della cosa reale sopra l' amore della cosa ideale, sebbene tanto più nobile e autorevole; ed è necessario in questo caso che il forte urto che produce contro il proposito della giustizia l' amore della cosa reale sia eliso da qualche altro amore pure di cosa reale acciocchè la giustizia prevalga. Positivamente poi si può in qualche modo determinare il grado di forza della naturale libertà dell' uomo, dicendo che egli è pari a quel grado di forza che può avere od acquistare nei diversi uomini l' amore della giustizia. Or quest' amore della giustizia varia di forza secondo le indoli naturali degli uomini, le educazioni e le abitudini contratte. E a tutte queste cose si deve aver riguardo ove vogliasi determinare in qualche modo quanto l' uomo colle forze naturali possa essere giusto (2). Certo che si ha per dimostrato da una funesta e universale esperienza che l' uomo non vale a reggersi giusto colle forze naturali per tutta la vita, nè per molto tempo, nè relativamente a tutti i precetti naturali; conciossiacchè troppe sono le tentazioni e troppo violente. E ciò basta a poter affermare che ogni uomo anche nell' ordine della virtù naturale è infermo e aggravato d' ingiustizia. Abbiamo veduto che pel peccato originale rimase infiacchita la forza della libertà con la quale l' uomo esercita la virtù naturale. Ora ci rimane a dichiarare meglio la natura di questo infiacchimento. Ogni atto onesto si pone in virtù di un giudizio di special natura che noi abbiamo chiamato giudizio pratico (1). La forza dunque della libertà non è altro che la forza di formare questo giudizio pratico a favore della virtù. Egli rimarrà dunque spiegato come la libertà sia stata vulnerata e indebolita, allorquando avremo dichiarata la ragione perchè in noi sia scemata la forza di formare il giudizio pratico in favore della legge della giustizia. Il giudizio pratico è quello pel quale noi in sull' atto dell' operare nostro, diciamo, considerate tutte le circostanze del momento, che qui e ora sia più bene per noi l' azione onesta, che la sua contraria: conciossiacchè, come abbiamo veduto, ciò che noi giudichiamo essere più bene per noi, tutto ponderato, nell' istante in cui operiamo, quello indubitatamente operiamo. Pratico adunque è quel giudizio che è il più particolare di tutti, e che precede prossimamente l' azione; cioè quel giudizio che determina del bene particolare, del bene risultante da tutte le circostanze in cui ci troviamo. E questo è ciò che il distingue dal giudizio speculativo, il quale è universale e non calcola le circostanze tutte dell' istante in cui cade l' operazione: ma solo ha riguardo all' oggetto e alle circostanze idealmente e specificamente considerate. Quindi è ancora che il giudizio speculativo non suole riguardare che una classe di bene, per esempio il bene onesto: come sarebbe che uno dicesse: si deve fare la tal cosa, la legge comanda la tal' altra; ovvero il bene eudemonologico, come chi dicesse: è utile questa operazione, è velenosa questa specie di frutti. Ma all' incontro il giudizio pratico abbraccia tutte le specie di beni, e, consideratele tutte, conchiude dicendo: qui e ora è meglio che faccia questo. E da questa differenza fra il giudizio speculativo e il giudizio pratico si vede la ragione per la quale il giudizio pratico si trova molte volte in opposizione collo speculativo; e quindi qui è altresì la spiegazione di quel verso che è tanto ripetuto, perchè descrive un fatto solenne della natura umana: « Video meliora proboque, deteriora sequor ». Il giudizio speculativo dice, a ragione d' esempio: la legge comanda di non fare la tale azione. L' uomo che trascinato dalla passione la fa, non ignora questo giudizio speculativo e parziale, cioè riguardante il bene onesto. Ma egli nell' atto dell' operare contrappone a quel giudizio speculativo un giudizio pratico il quale dice così: è vero che io perdo facendo questa azione il bene onesto, ma dall' altra parte il diletto che ha congiunto è tanto grande che io lo preferisco al bene onesto, e per ciò giudico che, nel momento presente, per me sia meglio il farla. Questo è un giudizio ingiusto ed in ciò sta la reità dell' azione: ma egli appare però da tutto questo come la facoltà che ha l' uomo di peccare, sia preceduta dalla facoltà di errare volontariamente: poichè tale doveva essere il nesso fra il conoscere e l' operare in un ente ragionevole; per modo che ogni colpa è figlia di un errore (1). A conoscere dunque onde procede l' infiacchimento della libertà relativamente alla naturale virtù, conviene investigare quali sieno le cagioni che sebbene l' uomo conosca speculativamente il diritto e l' onesto, e sebbene egli sappia altresì che il bene onesto non ha comparazione con altro bene alcuno, ma possegga una somma e infinita dignità; tuttavia nell' atto di operare preferisca a esso il bene eudemonologico quale di presente gli apparisce. Or ciò nasce dall' apparirgli questo bene sommamente vivace, quando l' onesto nol percepisce che assai languidamente, e ciò per quelle ragioni che abbiamo accennato altrove lungamente. Il primo male conseguente al peccato di origine dalla parte di Dio è la perdita della grazia. A cui consegue la morte dell' anima. Perocchè abbiamo definita la vita una incessante produzione del sentimento. E abbiamo anche veduto che la grazia è una percezione incipiente di Dio, il quale collo starci aderente all' anima e operante in essa colla sua propria sostanza, vi suscita continuamente un sentimento deiforme, il quale è propriamente la vita soprannaturale dell' anima intelligente. Perocchè l' anima in quanto ha il sentimento animale, intanto non vive come intellettiva, ma unicamente come sensitiva, ovvero soggetto animale: ed egli non sarebbe assurdo il dire piuttosto che di questa vita vive il corpo e non l' anima, sicchè, distrutto il corpo, anche l' anima sensitiva non è più (1). Or vero è che l' anima intellettiva naturalmente concepisce l' essere ideale, ma questa sola tenuissima e uniforme concezione non gli dà un sentimento di cosa reale e tutto al più è un cotal principio di sentimento, e non un sentimento intero. Perciò l' anima intelligente senza la grazia non ha più per natura che un principio di vivere, ma le manca la vita intera, e per ciò dicesi morta. A intender meglio questo vero si consideri primieramente che l' anima col solo essere indeterminato non vede ossia non sente nessun essere finito; e l' essere e perciò il sentimento che le può venire dall' unione con l' essere indeterminato, è egli stesso al sommo confuso e indefinito. In secondo luogo, l' anima colla vista di questo solo essere, non discerne sè stessa, ma tutta esiste, per così dire, nel suo oggetto. In terzo luogo, ella non ha alcun movimento, ma solo quell' atto immanente pel quale esiste, e quel qualsivoglia principio di sentimento è pure immanente, nè racchiude un' azione, ma un cotal principio di azione che non va più là, che non si compisce. Or a un tal principio di sentimento non si può dare il nome di vita, la quale abbiamo fatta consistere non in un principio di sentimento, ma in un sentimento compito e anzi in una incessante produzione di questo sentimento; nelle quali parole viene descritta una azione incessante e che, per così dire, continuamente si rinnova e si finisce. Or perchè l' azione che produce o della quale è il sentimento sia compita, perchè nell' anima vi abbia, per così dire, un moto continuo, non è sufficiente che essa anima possegga il solo essere indeterminato e ideale, ma è necessario che soffra l' azione di un essere reale, dalla quale azione l' anima riceve un sentimento compito e comincia da questo il suo moto che consiste principalmente in un continuo passaggio della sua attenzione, ossia della sua attività dall' essere reale all' ideale e dall' ideale al reale, e dall' idea al sentimento e dal sentimento all' idea. Ora cessando nell' anima l' azione degli esseri finiti e materiali colla morte del corpo, ove Dio non le sia presente, cader si deve necessariamente in quel cotale immobile sopimento che ragionevolmente cessazione della vita, ossia morte si può denominare. E perchè la vita animale è precaria e non propria dell' anima, quindi è che l' anima priva della grazia non ha anche unita al corpo se non una vita effimera e porta in sè stessa la morte (1). Tutto questo ha luogo anche considerando l' anima umana come semplicemente priva della grazia, sebbene difformata non fosse da nessun proprio peccato. Che se ella, oltre esser priva della grazia, sia anche peccatrice, come avviene nell' uomo infetto dalla original colpa, allora vi ha nell' anima anche un' avversione, come abbiam detto più sopra, dalla verità e da Dio, che pur è sua vita: e in questo doppio senso giustamente il peccato originale è dichiarato dal Concilio di Trento morte dell' anima (2). Un' altra conseguenza del peccato di origine, considerato dalla parte di Dio, si è che l' uomo viene rimesso a una provvidenza generale e di mezzo, in luogo di esser governato da una provvidenza speciale e di fine. L' uomo innocente era il fine dell' universo: Iddio faceva di lui le sue delizie, stava congiunto intimamente con lui e quindi aveva di lui una provvidenza immediata e veramente di fine, sicchè tutte le cose dell' universo erano ordinate e volte a servire quest' uomo, delizia di Dio e in cui era Dio. Ma dall' uomo peccatore Iddio si separò: la causa dell' uomo da quell' ora non fu più la causa stessa di Dio. L' uomo peccatore non poteva essere vero fine dell' universo, poichè Dio solo è fine, e intanto l' uomo era fine dell' universo, in quanto partecipava di Dio e era fatto una sola cosa col Creatore. Rimase adunque l' uomo una semplice creatura: fu abbandonato alle proprie forze: la natura stessa e tutti gli esseri che la compongono furono abbandonati alle sue forze e l' uomo si trovò esposto a tutti quegli accidenti che potevano naturalmente intervenire dall' azione simultanea di tutte le innumerabili forze degli innumerabili esseri creati che esistono. Se la cosa fosse rimasta così, l' universo avrebbe perduto il suo fine; ogni straordinaria provvidenza sarebbe cessata dal mondo, e del mondo e dell' uomo sarebbe avvenuto tutto ciò che avessero prodotto il complesso delle forze naturali con tutti i loro ordini e collisioni. Ma essendo fra la umanità predestinato un Individuo che non doveva essere macchiato di peccato, e congiunto della massima congiunzione con Dio e di congiunzione indistruttibile; avvenne che questo Uomo rimase il vero Capo e il vero fine dell' universo: e questo fu l' Uomo Redentore anche degli altri uomini. Perocchè Iddio conservò per quest' uomo la sua provvidenza speciale, o piuttosto specialissima, e così tutti gli altri uomini decaduti, come tutte le altre cose dell' universo divennero mezzo alla grandezza, alla felicità e alla gloria di quest' Uomo7fine. Di che accadde che molti uomini furono sanati dal peccato e ricongiunti con Dio, appunto perchè anche questo era necessario, acciocchè l' Uomo7fine riuscisse il più grande, il più felice, il più glorioso che esser potesse. Conciossiacchè egli desiderò che fossero associati a lui i suoi simili; e non potevano essergli associati se prima non venivano giustificati: e giustificati che furono, ripresero anch' essi lo stato e la condizione di fine insieme con quegli che era fine per sè stesso e che chiamava altri in parte di questa sua dignità. Ma considerandoli però come peccatori, essi, come dicevamo, maggior grado non tengono che di mezzo : e per ciò fino che sono peccatori, di tanto la divina provvidenza a loro soccorre e provvede, di quanto è uopo perchè servano acconcissimamente al fine , a cui sono subordinati. Per la massima gloria adunque di Cristo sono stabiliti tanto quelli che si salvano come quelli che periscono. Se non che i primi passano a esser fine insieme con Cristo coll' uscire dallo stato di peccato; ed i secondi rimangono eternamente puri mezzi. Ai primi per ciò è destinata una piena beatitudine e soprannaturale che non può loro fallire, e nello scorgerli a questa consiste la speciale provvidenza che guarda sopra di loro e veglia a questo scopo tutti gli avvenimenti (1): ai secondi poi viene amministrata nella vita presente quella misura di beni e di mali che più conviene, acciocchè servano nel miglior modo alla gloria de' buoni: e nella futura parimenti vien fatto di loro ciò che valga a rendere più magnifico e glorioso il regno del prediletto di Dio Padre e degli amici suoi. Di che apparisce che la provvidenza universale e di mezzo, che sola presiede al governo di quelli che hanno in sè il peccato, contiene questi tre scapiti: a ) Che essi considerati nello stato di peccato rimangono in preda ai mali naturali e alla morte, perchè nessuna provvidenza soprannaturale li difende da quelli. Laddove i giusti non vengono sottomessi ai mali se non con certa misura e con un certo modo di amorosa predilezione; assicurandoci le divine Scritture che Iddio si serve a questo fine del ministero degli Angeli (2). I peccatori all' incontro di loro natura non hanno alcuna virtù soprannaturale che temperi e guidi in lor favore le forze della natura e delle creature tutte, se non per accidente, cioè in quanto ciò potesse tornare bene ai giusti (1). b ) Ed essendovi fra le creature anche degli esseri malefici, cioè i demonii, i quali sono forniti di forze atte a nuocere alla umanità, viene in conseguenza che l' uomo pel peccato originale rimane altresì in balìa dei demonii e, come dicono le Scritture e i Padri, sotto la servitù e potestà del diavolo (2). Tanto più che l' uomo del peccato originale è fatto speciale conquista del demonio, come di quello che fu il tentatore e la cagione della lamentevole caduta che tolse il genere umano di Dio. c ) Dai quali principii procedono alcune conseguenze che ci dànno lume a far probabile conghiettura dello stato dell' anima la qual passi all' altra vita macchiata del peccato originale senza più. Perocchè le conghietture che si possono fare dal detto sono le seguenti: PRIMO. - L' anima che macchiata dal peccato originale passa all' altra vita, è priva di ogni visione di Dio, perchè priva di ogni grazia o comunicazione colla divina sostanza. SECONDO. - Essa è morta, cioè a dire esclusa dalla vita eterna; il che è quanto dire priva di quella vita che nasce dalla reale percezione di Dio, la quale è eterna, perchè Iddio che la produce colla sua azione nell' anima è eterno; ed essendo vita eterna, è sola vera vita. TERZO. - Essa è esclusa dal consorzio di Gesù Cristo e dei Santi, perchè priva di Dio non può aver comune l' oggetto della loro felicità e quindi non può formare una società, una unità con essi, giacchè questa sociale unione viene dall' unità dell' oggetto comune del loro godimento, ciò è quanto dire che è esclusa dal regno de' cieli. QUARTO. - L' anima divisa dal corpo col solo peccato originale, quell' anima deve essere in un cotale stato che possiam dire di assopimento, nel quale trovasi priva di sentimento e di vita, e non ha che un principio di vita e un principio di sentimento, portando di più un' inclinazione a rifuggire dalla verità e dalla vita. QUINTO. - L' anima in tale stato è esposta all' azione delle creature, come dicevamo, anche le più malefiche, ma essendo essa priva di corpo e non avendo che la sola vista dell' essere universale, non pare dover essere suscettiva dell' azione delle forze a lei nemiche. Perocchè il sentimento materiale non lo ha più, e l' intellettuale è tale che nessun essere creato può alterarlo, conciossiacchè nell' intelletto non ha virtù di operare che Dio stesso. Sicchè converrebbe supporre che all' anima per essere tormentata dai demonii, fosse aggiunto un cotal corpo. E ciò crediamo avvenire coll' anime ree di peccati attuali, dicendoci le divine Scritture che esse ardono nel fuoco, ma rispetto a quelle anime che sono aggravate dalla sola colpa originale, riteniamo assai probabile che non sia. SESTO. - Senonchè colla risurrezione dei corpi esse racquistano i corpi. Il riacquistare poi che fanno dei corpi è un aggiungersi loro un sentimento di cosa reale. Io non so in che stato questi corpi verranno raggiunti a quelle anime: non certo in istato glorioso, perchè la gloria viene dalla unione con Dio. Anche lo stato dunque di cotesti corpi risorti par verisimile dover essere un effetto dell' universal Provvidenza, cioè a dire essi saranno tali quali li vogliono le leggi universali che presiedono al gran patto del risuscitamento dei corpi. Io inclino a credere che essi corpi verranno ripristinati in buono stato, d' una bontà però loro naturale. E ciò che mi fa creder questo verisimile si è il general principio che mi guida in tutto questo discorso delle pene de' fanciulli morti senza battesimo o più generalmente di quelli cui non altra colpa danneggia che originale, il quale è: « la pena essere meglio negativa che positiva, cioè dipendere dall' abbandono che fece Dio di essi a sè medesimi e alle forze e leggi naturali« (1) ». Conosciuta ora l' indole e la natura del peccato di origine, conviene che esponiamo la dottrina della sua propagazione. E a tal fine ci è bisogno cominciare dal riassumere ciò che abbiamo detto circa il modo onde l' animale si propaga, e onde si propaga l' uomo, considerato secondo la natura. Abbiamo dunque veduto che negli animali generanti vi ha una cotal massa carnosa, la quale unita con essi forma parte de' loro corpi e vive in questo stato di parte. Ma staccata da essi per la generazione, non muore, anzi quella vita, che aveva prima, acquista una virtù e attività maggiore, per la quale sussiste da sè, ossia forma un animale nuovo, indipendente dai primi, da' quali provenne (1). Così si costituisce il soggetto sensitivo. Ma se questo soggetto sensitivo, per legge da Dio fissata, è ordinato a dover avere anche la visione dell' ente, egli si fa con ciò un soggetto ragionevole. E tale avviene il nascimento dell' uomo, al quale, tosto chè è naturato come soggetto sensitivo, è presente l' ente; conciossiacchè l' ente per legge costitutiva, come dissi, è fatto presente alla natura umana: e perciò moltiplicandosi i soggetti sensitivi nella natura umana, è dato loro di veder sempre l' ente, ossia, che è il medesimo, di essere incontanente intellettivi. Ma abbiamo ancora veduto che l' ente a principio si congiunse alla natura umana in un modo perfetto, cioè che si diede a vedere ad essa natura non solo nella sua forma ideale, ma ben ancora nella sua forma reale e sussistente (3). Ciò è quanto dire che l' uomo venne a principio costituito non solo in un ordine naturale, ma ben anco in un ordine soprannaturale. Perocchè tutte le nature, in quanto sono create, costituiscono ciò che si chiama l' ordine della natura. Ma la sostanza del Creatore è essenzialmente distinta dalla natura ed è superiore ad essa. Per ciò la percezione della sostanza del Creatore è ciò che costituisce l' ordine soprannaturale. Or l' ente universale in quanto non è puramente ideale, ma si dà a vedere ben anco come reale e sussistente, non è altro che il Creatore istesso, Dio. Perciò si dice che quegli esseri creati, i quali non solo concepiscono l' essere nella sua forma ideale e massime in uno stato indeterminato, ma percepiscono altresì la stessa sussistenza e realità di quest' essere sono costituiti in un ordine soprannaturale. E tale fu Adamo, come abbiamo provato. All' opposto, privo lo spirito umano della percezione dell' essere nella sua sussistenza e realità e solo fornito della concezione dell' essere ideale e in uno stato d' indeterminazione, egli trovasi esser posto dentro i confini della natura: perocchè l' essere ideale si può dire creato nel modo in cui è veduto dall' uomo, cioè in quanto egli è separato dalla real sussistenza e in quanto è privo de' suoi termini o determinazioni. Fino a che pertanto la natura umana si trovò congiunta coll' ente completo, ella fu fornita di tutto ciò che appartener potesse alla sua natura, e altresì della grazia. E perchè questa grazia nel modo detto era congiunta per legge costitutiva alla natura umana, ella doveva essere annessa di conseguente a tutti gli individui ne' quali si fosse moltiplicata questa natura: ed è per ciò che i figliuoli di Adamo innocente avrebbero ereditata dal padre la grazia santificante. Perocchè Iddio e l' uomo erano congiunti in modo da formare, per così dire, una cosa sola: cioè Iddio si comunicava all' uomo ove che si trovasse o cominciasse a esistere il soggetto animale umano (1). Or avendo Adamo peccato cioè ribellatosi a Dio, egli perdette la vista della divina sussistenza, cioè la grazia; e, morto all' ordine soprannaturale, non gli rimase che la natura. Egli fu da quel momento che l' essere universale non fu congiunto alla natura umana che idealmente, non più in una forma divina, ma creata e naturale. Si può qui domandare se questa perdita che fece la natura umana della grazia e di Dio, sia avvenuta dalla parte di Dio, cioè per essersi Dio tolto da lei, o dalla parte dell' uomo, cioè per essersi la volontà rivolta da Dio e non trovato più il modo di vederlo, a quel modo che l' uomo che volta le spalle in faccia al sole nol vede più. Egli è certo essere ripugnante alla divina natura che essa faccia copia di sè ad esseri suoi nemici. Lo Spirito Santo, dice la divina Scrittura, non abita in corpo soggetto a peccato (2). Però giustamente può dirsi che Iddio fece colla natura umana prevaricata quello di che minacciò gli ebrei: « Io asconderò la faccia mia ad essi e starò a vedere a che mali termini da loro soli si condurranno« (3) ». Ma con non minore verità si può dire che la privazione di Dio nacque perchè si stolse l' uomo da Dio, perchè l' uomo si mise in uno stato, nel quale egli sarebbe ripugnante e intrinsecamente assurdo che vedesse Iddio, come sarebbe ripugnante che vedesse il sole chi si cavasse gli occhi. Conciossiacchè Iddio si vede coll' occhio della buona e retta volontà: e però il pervertire la propria volontà, cioè il darsi ad amar la creatura in luogo del Creatore, e cercare in quella anzichè in questo la propria felicità, è un rendersi impossibile la vista del Creatore, un accecarsi. E perduta una volta tal vista del Creatore, ristretto lo spirito dell' uomo nelle sole creature, non gli è più possibile di rilevarsi e trovare con gli occhi suoi dell' animo quell' oggetto d' infinito bene che ha perduto, il quale è tale che, cessando un solo istante di vederlo, non si può veder più. Perocchè la volontà non può esser tratta da cosa incognita, e perduto una volta il sentimento di Dio, la divina sostanza le rimane come un bene incognito che non può essere più appetito o desiderato: sicchè non le restano all' appetire e desiderare se non i beni materiali; perocchè il sentimento di questi non cessa, e non cessando, essi beni rinnovellano continuamente le loro impressioni sull' uomo e le producono di nuovo. E nella stessa maniera perchè l' uomo tornasse a gustare di Dio, converrebbe che Dio medesimo riagisse nell' uomo e eccitasse in lui nuovamente il sentimento della divina sostanza (1). Egli è per questo che i santi Padri riconoscono una cecità volontaria e anche peccaminosa, ove questa cecità appartenga a una volontà personale. [...OMISSIS...] . Questa cecità si chiama nelle divine Scritture cecità del cuore, per distinguerla dalla cecità dell' intelletto; conciossiacchè il cuore vien preso per la sede della volontà. Il perchè dove la cecità consiste in un traviamento della volontà, e ove questa volontà sia personale, come dicevamo, acconciamente quella cecità si può chiamare peccato. E con quest' avvertenza si devono intendere alcuni passi di S. Agostino, nei quali chiama peccato la cecità originale, come pure la concupiscenza; siccome a cagion d' esempio nel passo seguente: [...OMISSIS...] . La natura umana adunque dopo la commissione del peccato rimase: 1 privata di Dio: 2 con una irreparabile gravitazione della volontà verso il bene creato e avversione dall' increato che più non percepiva. Or essendo questo stato proprio, come abbiam veduto, della umana natura, egli doveva necessariamente ripetersi in altrettanti individui, in quanti essa natura si moltiplicava. E perciocchè questa cecità e questa mala piega della volontà personale ha in sè ragion di peccato, per ciò qui s' intende la necessità che v' avea della trasfusione nei posteri del peccato adamitico. La ricerca come passasse da un uomo nell' altro il peccato originale diede cagione alla celebre questione dell' origine dell' anima. Per ciò non vorrà essere inutile che qui frammettiamo alcune considerazioni sopra un tal punto, valendoci ciò a render più chiara e più piena la trattazione nostra della trasfusione del peccato, che dopo questo quasi episodio riprenderemo. Tre furono le principali opinioni, nelle quali si partirono gli scrittori ecclesiastici circa il sapere come cominci l' anima intellettiva in un uomo che vien generato. Altri sostennero che le anime tutte furono create da Dio a principio e mandate o venute poscia ne' corpi nuovamente ingenerati: e di questa sentenza fra gli altri fu pure Origene. Altri pretesero che come il corpo ingenerava il corpo, così simultaneamente l' anima ingenerasse di sè un' altra anima, e per tal modo che l' uomo intero, anima e corpo, fosse naturalmente ingenerato: e questa sentenza tenne Tertulliano, Apollinare e, per testimonianza di S. Girolamo, quasi tutta la Chiesa occidentale (1). Altri finalmente opinarono che le anime fossero create immediatamente e per singola da Dio e da Dio infuse ne' corpi, mano mano generati: e di questa sentenza fu pure Innocenzo III, che così esprime la origine dell' anima intellettiva: « infundendo creatur, creando infunditur ». Così pensò anche Pietro Lombardo. La prima di queste tre opinioni fu al tutto di qualche autore particolare e non seguìta. Circa lo scegliere fra le altre due stettero in forse i più bei genii della Chiesa. S. Agostino, che chiama una tale questione caliginosissima , per quanto bilanciasse col suo raro ingegno, non potè mai venire a capo, sia per l' una, sia per l' altra parte (2); e invitava chi più di lui avesse potuto conoscere in questa parte a dargli in ciò aiuto di ammaestramento (3). La maggior parte degli antichi non vollero parimente decidersi, ma lasciarono in dubbio tal controversia (4). S. Fulgenzio pure dice la cosa dubbiosa (5): dubbiosa la trova Cassiodoro (6): dubbiosa il grande S. Gregorio. Ecco il luogo in che quest' ultimo ne parla in una lettera che scrive a Secondino: [...OMISSIS...] . Tal parve forte e non così facile a risolversi una questione siffatta a quei sommi uomini. Nè è da credere che loro sfuggissero quelle ragioni ovvie che si presentano in siffatta materia alla mente di ciascheduno. Ma essi vedevano molto addentro nella cosa, e però non si decidevano leggermente. E questa incertezza e dubbiezza in siffatta questione passò, quasi direi, per ecclesiastica tradizione, a tale che fu tenuta da taluno qual parte della cattolica verità. Così S. Isidoro Ispalense non dubitò di porre fra le cose da doversi tenere per fede, che l' origine dell' anima fosse incerta (1). Nel IX secolo la questione era nel medesimo stato, come si può vedere da un luogo di S. Prudenzio Vescovo di Troyes, che citeremo più abbasso. Solo due secoli dopo Ugone di S. Vittore tolse a provare: « probabilius animas ex traduce non esse (2) ». Colle quali parole mostravasi non darsi da lui la cosa per al tutto assicurata. Nel secolo susseguente però S. Tommaso d' Aquino insegnò: « haereticum esse dicere, quod anima intellectiva traducatur cum semine (3) ». E dopo di lui si ritenne per cosa certa e fu universalmente ammesso da' Teologi, che non venisse propaginata col corpo, ma creata da Dio. Egli è però da considerarsi che la sentenza ricevuta universalmente da' Teologi, sull' autorità principalmente dell' Angelo delle scuole, non è precisamente quella di cui trattavasi e questionavasi dai Padri, e che però non può dirsi che essi abbiano al tutto recisa o sciolta quell' antica questione. Perocchè due cose diverse sono a dimandarsi:« se l' anima sebbene spirituale si propagini in un modo spirituale simultaneamente al propaginarsi che fa il corpo dal corpo«; e domandarsi:« se l' anima si propagini mediante la generazione corporea, di maniera che il corpo ingeneri l' anima«. La prima era la questione dei Padri: ed ecco come ella viene accuratamente espressa dal luogo indicato da S. Prudenzio che viveva nel secolo IX sotto Carlo il Calvo: [...OMISSIS...] . All' incontro la seconda di quelle due questioni si può dire che non fosse nè pure mai messa in controversia. Nel IV secolo Prudenzio riprende la sentenza che l' anima venga generata dal corpo, non come dubbio, ma come certo errore. E non avrebbe parlato con tale sicurezza, se avesse inteso di toccare la questione che S. Agostino dichiarava superiore alle forze del suo intendimento. Ecco i versi del poeta cristiano: [...OMISSIS...] . Medesimamente il luogo del libro degli Ecclesiastici Dommi (6) attribuito a Gennadio, scrittore del secolo V, che si trova citato nella Somma di S. Tommaso, si riferisce all' opinione del venire le anime dai corpi, dichiarando erroneo l' affermarsi che le anime ragionevoli si seminino per l' unione de' corpi. Lo stesso e nulla più è riprovato dall' Angelico Dottore in quell' articolo cui egli intitola come questa dimanda: Se l' anima intellettiva sia cagionata dal seme? Nel quale articolo è da osservarsi come egli non trae punto le obbiezioni che fa alla sua sentenza dall' autorità di S. Agostino e degli altri Padri, quasi avessero lasciata la questione dubbiosa, ma anzi da ragioni naturali. Il che dimostra, che egli non intendeva di dichiarare già eretica quella sentenza che da S. Agostino e da' Padri antichi non era stata provata riprensibile: perocchè se voleva questo, il santo Dottore, che è sempre sommamente studioso di conciliare la sua dottrina con quella di S. Agostino e dell' antichità cristiana, ne avrebbe fatto indubitatamente parola. Se non che dalle ragioni stesse che apporta si fa manifesto, che egli altro non condanna in quell' articolo se non il farsi produr l' anima dalla materia; giacchè ecco come egli dice. Riferirò le sue stesse parole, perchè si renda evidente la verità che asserisco. [...OMISSIS...] Egli è manifesto da questa prima ragione, che l' assurdo che vuol dinotare qui S. Tommaso si è quello che noi dicevamo fuori di controversia, cioè che la materia non ha virtù a produrre lo spirito. Udiamo la seconda ragione del santo Dottore: [...OMISSIS...] Anche in queste parole si par chiaro, che tutto l' assurdo che si fa rilevare consiste nella incommunicabilità dell' intelligenza colla materia corporea anche sensitiva: perciocchè il principio intellettivo non fa uso di alcun organo corporeo alla sua operazione; e perciò il corpo non può agir nulla nell' intellettivo principio. Udiamo l' ultima ragione che reca l' Aquinate: [...OMISSIS...] . Il quale argomento viene a dire così: Se il corpo producesse l' anima, o l' anima dovrebbe essere una sostanza corporea, oppure una modificazione, un atto del corpo stesso. Sostanza corporea l' anima non è: e non è nè pure una semplice modificazione o atto di un corpo, poichè un tal atto non è sostanza per sè. Dunque l' anima non può esser fatta dal corpo. Ma per condurre la cosa all' evidenza e rimuovere ogni dubbio sulla partizione che abbiamo fatta della questione, volgarmente una, in due diverse, basterà recitare qualche passo di S. Agostino e mostrare che quando si tratta di dedurre l' anima dall' anima, niente risolve (2), e piuttosto il tengo favorevole, che contrario (3). Laddove quando trattasi di dedurre l' anima da corporea materia, è risoluto in negarlo come un errore manifesto e pernicioso. Pigliamo sott' occhio la lettera che il santo Dottore scrive a Ottato, il quale aveva proposta a S. Agostino la questione dell' origine dell' anima e ricercato il suo parere. Si veda adunque in qual parole tale questione era proposta. Dimandavasi: se le anime nascano per propagazione come i corpi e vengano da quell' una che nel primo uomo fu creata? (4). Parlasi dunque di trar l' anima dall' anima; e non altro. Or su questa ecco come si tiene in bilico S. Agostino. Egli dice: [...OMISSIS...] . Egli è dunque questo il costante modo di pensare di S. Agostino, quando si tratta di propaginare l' anima dall' anima. Ma vuolsi vedere all' incontro, come egli la senta quando trattasi di una propaginazione dell' anima materiale? Il santo Dottore avvertì benissimo che alcuni materializzavano l' anima col farla venire dai corpi, e fa colpevoli di questa sentenza i seguaci di Tertulliano, de' quali ecco come ragiona: [...OMISSIS...] . Or che cosa qui soggiunge il santo Dottore? Ecco le sue parole: [...OMISSIS...] . Or dunque non era dubbioso S. Agostino se l' anima nascesse dal seme corporeo, che è la proposizione chiamata eretica da Tommaso. Ma ciò che non trovava assurdo, sebbene oscurissimo e inintelligibile, era che l' anima potesse propaginarsi dall' anima. Il primo diceva un errore sopra ogni altro pernicioso, un sogno e sino una pazzia; nel secondo vedeva un mistero. Il perchè, tosto dopo ripreso l' errore di Tertulliano, soggiunge: [...OMISSIS...] . Intorno alle quali cose conchiude che [...OMISSIS...] . Dalla storia della questione dell' origine dell' anima fin qui esposta apparisce, aver essa avuto tre periodi. Il primo anteriore al pelagianismo, nel quale essa non fu mai trattata di proposito, nè sottoposta a un rigor teologico. Il secondo, che comincia da Sant' Agostino, indottovi a trattarne per cercare un modo di spiegare la propagazione del peccato originale, e che non venne a capo d' altro se non di dichiarare la questione insolubile; e questa sua sentenza fermò ogni altra investigazione e fu tenuta per indubitabile almeno sette secoli. E il terzo, a cui diedero luogo gli scolastici, i quali, si può dire, diedero nuovo movimento agli intelletti che da tanto tempo riposavano; periodo che toccò il suo colmo in S. Tommaso, il quale, omessa ogni altra ricerca, tolse a dichiarare essere sentenza condannata dalla Chiesa di dire che le anime si propagano come i corpi (1). E dopo tanta autorità ognuno tenne la cosa per definita: senza però badare che S. Tommaso non condannò la sentenza se non a quel modo che veniva attribuita a Tertulliano e Apollinare (2) e che induceva irreparabilmente nel materialismo, il quale è certamente riprovato dal giudizio ecclesiastico. Ed egli è appunto perchè rimane, anche dopo la trattazione dell' angelico Dottore, una via alla disputa non chiusa dal giudizio perentorio della Santa Chiesa, che degli eccellenti teologi dichiararono la dottrina della quotidiana creazione delle anime non essere punto cosa di fede; fra i quali è l' Estio (3), il Berti (4), il De Rubeis (5), il Noris (6), e il Bellarmino (7). E così sarebbero rimaste le cose, se lo spirito umano non avesse ricevuto nei tempi moderni una nuova scossa e movimento dalle scuole de' filosofi: il che diede luogo a un quarto periodo nella storia della questione che noi trattiamo. A questo diedero origine le ricerche dei naturalisti (ai quali la filosofia moderna deve il suo primo movimento inquisitivo, come già nella Grecia) intorno alla generazione e allo sviluppo dei germi. Perocchè par loro di ritrovare i germi sì delle piante, che degli animali, non crearsi mai, ma non altro fare che svilupparsi, come quelli che sono ravviluppati gli uni negli altri continuamente: sicchè nelle ovaie delle prime femmine fosser già posti da Dio tutti i germi delle piante e degli animali che dovevan poi nascere. Cosa a cui la impercettibile lor piccolezza non fa punto di ostacolo, dopo che si è conosciuta la divisibilità per poco indefinita della materia e la sottigliezza a cui ella può pervenire, come vedesi nella luce e suoi colori e nella diffusione degli odori e negli animaletti microscopici (1). Or questo sistema de' germi involti diede cagione a Leibnizio di immaginare che a questi germi fossero già annesse le anime fino da principio e così gli animali tutti esistettero creati da Dio a principio, a tale che altro non facesse la generazione se non edurli alla luce e dar loro il successivo e convenevole crescimento. Quasi nello stesso pensiero caddero molti altri filosofi contemporanei di Leibnizio, tra quali lo Swammerdam, il Malebranche, il Baile, il Picarne, l' Hartst”ocker, e altri. Vero è però che Leibnizio affermava, riguardo all' uomo, che non preesistessero nella prima madre se non delle anime sensitive e animali, dotate bensì di percezione e di senso, ma prive di ragione, cui acquistassero poi mediante la generazione (2). Ma confesso di non sapere come egli intendesse che quelle facessero un tale acquisto: in che sta appunto tutto il forte della questione (3). Leibnizio fu seguitato dal Canzio (4) ma principalmente da Cristiano Wolfio, il quale però suppone inchiuse nell' ovario di Eva le anime spirituali e però intellettive, e non già puramente animali e sensitive (5). Si andò finalmente ancora più in là e si arrivò sino a dire che le anime inchiuse nel corpo di Adamo o di Eva ricevettero da Dio, insieme coi primi parenti, il precetto, e lo hanno insieme con lui, sebben men gravemente, violato (6). Non si può confondere in alcuna maniera col sistema Leibniziano e Wolfiano l' opinione da noi proposta sopra l' origine dell' anima. Perocchè sebbene noi supponiamo vera la preesistenza dei germi, tuttavia questi non sono già per noi dei piccoli animaletti, nè molto meno degli omicciuoli, ma de' puri germi, i quali diventano poi animali da sè per la generazione. Se non che noi abbiamo dato di questa una spiegazione tratta dalla natura dell' animale cui abbiam definito: un sentimento che sussiste da sè, in quanto esso si considera come principio senziente (1). Or noi abbiamo veduto che questo sentimento in ogni animale ha per materia il continuo, il quale non ha parti, e però tanti sono i sentimenti semplici quanti i continui. Il continuo però è divisibile, formandosi di un continuo solo due o più continui minori: e però se questi minori continui sien tali che possano sussistere come materia di sentimento (il che dipende da certe leggi fisiche, chimiche e animali), in tal caso la divisione del continuo ha fatto nascere due sentimenti per sè sussistenti, i quali, considerati come senzienti, sono altrettanti animali. Così ho spiegato la generazione negli animali più imperfetti come i polipi, i quali per diventare di un animale solo due o più, basta segarli con certa avvertenza in due o tre parti, senza bisogno di far altro. Perocchè le parti che ne nascono sono tali che corrispondono alle leggi fisiche, chimiche e animali che presiedono alla conservazione della materia animale; cioè a dire, le parti che si fanno di un animale solo ciascuna ha in sè un cotale equilibrio di forze per le quali si può conservare nello stato suo e non perdere quel tessuto e quella organizzazione che è necessaria a conservare l' animalità. Secondo gli stessi principii: 1. di una divisione che succede nella materia del sentimento; e 2. di un equilibrio o sistema di forze che conservasi nella materia divisa; spiegasi anche ogni altra maniera di generazione che avviene nelle diverse specie di animali più perfetti. Dove si vede che il seme del maschio non è, assolutamente parlando, necessario alla generazione; e forse anche negli animali perfetti esso non fa se non dare al germe quell' attività e forza vitale, per la quale, anche staccato nel debito modo dalla madre, possa avverarsi quell' equilibrio di forze, di cui abbiamo ragionato, il qual valga a conservare quella massa carnea staccata dalla madre in istato normale, cioè atto a conservare la vita e il sentimento e avere un dato particolare sviluppamento. Chè ove anche alcune particelle del seme virile si apprendano al germe e con esso lui s' impastino (forse delle parti sottilissime e quasi un' aura vitale che da esso spiri), la cosa però sarebbe la medesima: poichè queste particelle non sarebbero mai morte, ma vive e col vivo germe contemperate, sicchè dal maschio e dalla femmina, come da una sola carne, si staccherebbe quella vivente materia che, appena staccata e unita, sarebbe un animale. Generato così l' animale, che non è se non il costituirsi un sentimento da sè, a cui è inerente di sua natura il principio senziente; non è più difficile il concepire come il principio che è senziente diventi anche intellettivo, dopo che è stato ritrovato, essere l' intelletto null' altro che il sentimento dell' ente. Perocchè solo che si renda l' ente percettibile, egli è già con questo prodotto anche il percipiente: ciò che è conseguenza di quel principio, che ove si dà in natura la percezione, nella percezione si comprende il percipiente; come nel sentimento si comprende il senziente. Ora nella generazione umana noi diciamo succedere contemporaneamente, che l' animale si costituisca col precidersi e confondersi delle parti che costituiscono l' embrione; e che si costituisca l' intelligente principio coll' essere data al medesimo la veduta dell' essere. La quale veduta è già da principio conceduta all' umana natura a sola condizione che questa si costituisca nella sua parte organica: ed è data perciò a tutti i discendenti del primo uomo con quell' atto stesso con cui fu data al primo uomo. In tal modo non è che l' animale e molto meno l' anima intelligente preesista nei padri, ma bensì in essi esistono i germi o rudimenti, i quali in virtù della generazione stessa dell' umana natura, tal quale la fece Iddio da principio, si costituiscono poi naturalmente quasi sarei per dire in uomini. Egli è difficile conciliare molti passi delle divine Scritture colle opinioni da questa diverse; e confesso che la maniera nella quale i seguaci di quelle opinioni hanno tentato di conciliare con le medesime i luoghi delle Divine Scritture, non mi pare scevra di un cotale sforzo, e quasi direi che li traesse dal senso loro più ovvio e naturale. Tuttavia non essendo paruto a S. Agostino di trovare passo nelle Scritture che assolutamente recidesse la questione e che non potesse essere altramente inteso, io non vorrò dire il contrario. Ma sottoporrò a qualunque uomo equo e ai teologi di buona fede qualche testo, perchè veggano se non forse egli dalla nostra sentenza dell' origne dell' anima venga a ricevere l' interpretazione più piana e naturale. Iddio dopo aver creato l' universo, come dice la Genesi che riposò da ogni opera che aveva fatto (1): e in memoria di questo suo riposo stabilì il settimo giorno, dedicato al Signore, nel quale era interdetto agli Ebrei qualsiasi opera materiale e servile, a ricordo appunto di quella cessazione dal creare che Iddio aveva fatto, compita ch' ebbe l' opera dell' universo. Ora non è vero, che se si fanno a Dio creare continuamente dell' anime intieramente nuove, conviene fare una eccezione a quel gran riposo del sabbato e a quei passi tutti dove si legge che il cielo e la terra e ogni parte dell' universo era stata compita, sicchè non restava più altro a Dio che il conservare? O conviene almeno dare a quel luogo solenne una interpretazione sottile e tirata dalla lungi? In un altro luogo dice la Scrittura che Iddio fece a un tratto tutte le cose: « Fecit omnia simul (1) ». Le quali parole pure nella sentenza nostra vengono ad avere il più naturale significato. Perocchè in essa con quell' atto di Dio, che Mosè esprime con questa frase: « Inspirò nel suo volto lo spiracolo della vita« (2) »; verrebbe ad avere dato il principio intelligente alla umana natura e perciò a tutti i suoi individui; conciossiacchè quell' atto significherebbe propriamente aver dato l' ente a percepire ad essa natura. E questa interpretazione appunto dell' « inspiravit in faciem eius spiraculum vitae », è la sola, per quanto io ne capisco, che possa render chiara e giustificativa ragione di una maniera di dire così sublime. Perocchè se per quello spiracolo della vita (3), s' intende l' ente percepibile, allora nulla ha in sè che tiri al panteistico quell' espressione o che favoreggi l' assurdo sistema delle emanazioni. Conciossiacchè l' ente è veramente una appartenenza della divinità, un cotal raggio del Verbo divino; e però egregiamente si dice che questo ente è spirato da Dio medesimo e corrisponde a quell' altro passo di Giobbe: « Negli uomini vi è lo spirito, e la ispirazione dell' Onnipotente dà l' intelligenza« (4) ». All' incontro quelli che intendono per lo spiracolo della vita l' anima umana in quanto è soggetto, e non l' oggetto di quest' anima, l' ente, questi e devono sfuggire d' intendere quelle parole alla lettera e deviarle dal loro ovvio significato, o far l' anima una particella emanata dalla divina sostanza. E qui di passaggio siami lecito l' osservare che conviene intendere colla stessa avvertenza certe espressioni dei Padri della Chiesa, nelle quali fanno l' anima umana quasi una particella di Dio. Nell' anima vi è l' ente, e questo è il divino dell' anima, questo un riflesso, uno spiro di Dio: l' anima non è l' ente ma il vede, e per questo ella è così sublime, per questa sua congiunzione con un elemento divino, e attribuita a lei, quasi direi contenente ciò che spetta al contenuto, son date a lei delle divine attribuzioni. Per questa S. Giustino nel dialogo con Trifone chiama l' anima « Reginae mentis particula (1) ». Taziano allo stesso modo dice dell' uomo che è una porzione di Dio (2). Delle espressioni uguali si trovano in Clemente Alessandrino (3) e in S. Ireneo (4). Tertulliano dice che l' uomo è animato dalla divina sostanza (5): espressione con cui egli commenta il soffio divino della Genesi. L' autore delle false Clementine dice pure che l' anima ha una stessa sostanza con Dio (6). E Sinesio nelle sue poesie non dubita di chiamarla: Semente di Dio, scintilla del suo spirito, figlia, parte di Dio stesso. Nella sentenza da noi proposta ricevono parimenti un ragionevole significato alcune singolari espressioni de' Padri: come quella di S. Metodio che dice « il seme umano contenere, per così dire, una parte divina di potenza creatrice« (7) ». Perocchè ciò viene a dire pel seme essere il germe condotto a farsi animale intelligente, cioè a ricevere tale stato, nel quale possa vedere quell' ente che Dio ha fatto visibile fin dal principio agli individui della umana natura. E maggior verità e evidenza pure riceve quel dire del Genesi: « Tutte le anime che sono uscite dal femore di Giacobbe« (.) ». E quelle di S. Paolo ove dice che Levi fu decimato nei lombi di Abramo (9). E chi volesse sostenere che Dio crea di tutto punto l' anima e la mette nel corpo viziato, parmi che, di buona fede parlando e senza prevenzione alcuna, incorrerà una difficoltà grandissima nel conciliare in modo persuadente la giustizia e bontà divina con questo fatto. Perocchè questa sostanza spirituale non potendo uscire dalle mani del Creatore se non pura, senza alcuna colpa precedente, innocente e perfetta, difficil cosa è il pensare che ella, senza alcuna sua colpa precedente, sia condannata nel carcere di un corpo corrotto e astretta per necessità e violenza di esso corpo a rendersi fino dal primo momento della sua esistenza peccatrice. Io so bene che si suole assottigliarsi per dare una plausibile risposta a tanta difficoltà: ma so ancora non potersi dissimulare che in quelle risposte, se io punto nulla intendo, manifestasi più che altro uno sforzo di salvare la teoria preconceputa. Il perchè il dottissimo Gazzaniga, dopo aver recate queste soluzioni (1), ingenuamente soggiunge così: [...OMISSIS...] . All' opposto nella nostra sentenza Iddio diede l' intelligenza alla natura umana con quel soffio, col quale animò Adamo, e poscia non fece se non lasciare che essa natura si moltiplicasse per se stessa. Perocchè supponendo che in quel primo atto Iddio avesse posto, per così dire, visibilmente innanzi alla umana natura l' ente, dalla parte di Dio era fatto tutto, e solo restava a fare da parte della natura umana, cioè a generare; perocchè ciò che venia generato da questa natura avea sempre dinnanzi da sè l' ente, onde attinge l' intelligenza e nasce per tal modo l' anima intellettiva. Si consideri ancora che solo supponendo vera la nostra sentenza, prende sua forza quella ragione per la quale S. Tommaso risponde alla difficoltà, come l' anima venendo non dall' uomo, ma da Dio, ricever possa per eredità il peccato originale. Perocchè la sua risposta è questa: [...OMISSIS...] . Ora che cosa è l' umana natura? Non certo il solo corpo, ma il corpo e l' anima insieme, e principalissimamente l' anima intellettiva che costituisce la specifica differenza di questa natura. Or dunque sarebbe egli vero che per virtù del seme si traduca l' umana natura, non traducendosi se non il corpo, sebben disposto in modo idoneo a ricever l' anima? Non veggo in che modo. All' incontro se il principio senziente, che si traduce pel seme, è già di natura sua, tosto che è costituito, ammesso alla visione dell' ente e così costituito intellettivo, prende un senso verissimo il dire che la natura umana si traduce per virtù dell' umana semente. Si consideri ancora come solo nella nostra sentenza si senta tutta la verità di quel celebre passo di San Paolo: « Eravamo PER NATURA figliuoli d' ira« (1) ». Perocchè la nostra natura, per dirlo di nuovo, è composta di corpo e di anima, e questa ne è la parte principale e formale, mentre il corpo non è che la parte materiale. Il solo corpo non siamo noi , ma l' anima anche sola può pronunciare questo monosillabo NOI: al corpo non appartiene l' ordine morale, e però solo nell' anima si trova giustizia o peccato. Or come, in senso proprio e stretto, potrebbesi dire che per la nostra stessa natura (2) fossimo figliuoli d' ira, se l' anima è di sua natura creata pura e monda e solo rimane viziata non per la sua origine divina, ma pel corpo nel quale s' introduce o dove si crea? All' incontro se l' anima si produce insieme coll' uomo in virtù di quell' ente che è legato coll' umana natura, egli è nel più stretto senso della parola che noi siamo figliuoli d' ira per natura, cioè per lo stesso nostro nascimento (3), per le leggi che presiedono al contemporaneo nascimento del corpo insieme e dell' anima, in una parola dell' uomo. Chiamo ancora ad osservare quelle altre parole dell' Apostolo, dove toccando in che modo tutti gli uomini nascano infetti da peccato dice: « Che il peccato entrò in questo mondo per un solo uomo - NEL QUALE tutti hanno peccato (4) ». E il sacro Santo Concilio di Trento dice: «« Che NELLA PREVARICAZIONE DI ADAMO tutti hanno perduto l' innocenza« (5) ». Quel testo dell' apostolo che i Concilii ecumenici hanno ripetuto o parafrasato merita tutta l' attenzione. Egli è evidente che si esprime in esso una congiunzione fra il padre dell' uman genere e i suoi discendenti siffatta, per la quale possa passare il peccato dall' uno negli altri. Tutti i Padri, su questa autorità di S. Paolo e altre somiglianti delle divine Scritture, parlano di una unione e comunanza fra il genere umano e Adamo loro capo. Ora tutti questi luoghi dei Santi Padri e quelli delle Scritture sui quali insistono non possono essere intesi nel loro vero significato, in tutta la loro forza, se non allora quando sia ben chiarita la natura di questa comunione e unione di tutti noi con Adamo. Udiamo a ragione di esempio S. Ambrogio. Egli dice: [...OMISSIS...] . Or resta a vedere in che modo appunto io fossi in Adamo, in lui peccassi, in lui fossi scacciato dal paradiso; in che modo tutti gli uomini non fossero che quell' uno e solo Adamo. Alcuni proposero una unione morale o sociale. [...OMISSIS...] . Usa anche S. Tommaso la similitudine delle membra che sono colpevoli e punite del peccato commesso dal capo. Ma egli è evidente che questi esempi, sebbene giovino a far concepire una cotal congiunzione fra i posteri e il primo padre, tuttavia non giungono a dimostrare l' intrinseca ragione della trasfusione del peccato originale e la inerenza interna di questo peccato al fanciullo che nasce di nuovo: come confessa anche il valente Domenicano Pietro Maria Gazzaniga (4). Perocchè non si può dir seriamente che una mano sia colpevole o che una mano si punisca; ma solo per un cotal modo traslato: e la imputazione che si fa ai membri di una società pel peccato del capo, in cui essi non abbiano avuta alcuna parte, nè l' abbiano potuto impedire, non può essere vera imputazione morale, ma solo una cotal imputazione legale per la quale sono involti in una pena che, considerata intrinsecamente, o non è pena, ma disgrazia, come una famiglia incendiata per negligenza di un membro che appiccò il fuoco alla casa; o se ella si dà per pena, è pena ingiusta. Vi ha dunque bensì fra i discendenti di Adamo e il padre una unione morale e sociale: ma questa, eziandio che bastasse a spiegare in qualche modo la trasfusione della pena, non basterebbe però a rendere una ragione plausibile della trasfusione del peccato (1). Altri proposero una unione intellettiva fra il genere umano e Adamo, cioè consistente nell' unità della natura o specie. Giacchè il comunicare più individui nella natura, come abbiamo altrove notato, non è altro che l' avere una stessa relazione coll' intelletto che tutti li percepisce con una sola idea o specie, la quale è appunto il fondamento della natura comune (2). Quest' unione di specie è toccata universalmente dai Padri. S. Ambrogio dice: [...OMISSIS...] . Ma ne è pur questa unione intellettuale, o di una medesimità di specie, sebbene vera, e atta anch' essa a facilitarci il modo d' intendere l' unione nostra fisica con Adamo, non è però bastevole a rendere ragione della trasfusione del peccato. Perocchè una tale unione è vera nell' ordine delle idee e non nell' ordine delle realità: e il peccato all' incontro appartiene a questo secondo ordine, non al primo. Nè fa bisogno in ciò insistere molto, quando si può dire essere cosa di fede o prossima a [esser] di fede, che il comunicare nella specie non basta a comunicare nel peccato: perocchè se bastasse, Cristo stesso che comunica nella specie, doveva esser soggetto al peccato. Ma la cattolica dottrina anzi insegna che Cristo ne fu immune: e ciò non per alcun privilegio, ma sì bene perchè egli non fu concepito per opera umana, ma dello Spirito Santo. Sicchè è intrinseco nella dottrina cattolica il principio che solo per la generazione si trasfonda il peccato e che in questa vi abbia un' unione non pur morale o sociale, non pur intellettiva o di specie, ma fisica fra il padre ed il figlio. Ora hassi a considerare che quest' unione, perchè sia vera, deve succedere fra la natura del generante e la natura del generato. E parlandosi di uomini, questa natura è un composto sostanziale di anima e di corpo, e non è il solo corpo: e perciò perchè vi abbia fra l' uomo generante e l' uomo generato l' unione di che parliamo, conviene che tutto l' uomo che genera sia legato e comunicante con tutto l' uomo che vien generato, altramente le due nature non hanno legame fisico insieme ma pur solo lo ha una parte della natura generata, la quale nè costituisce la detta natura, nè riceve il nome con cui la medesima natura si appella. Vi ha dunque una terza unione fra i posteri e il primo parente, e questa è fisica, unione e comunicazione di natura con natura: e questa sola rende un' acconcia ragione della trasfusione del peccato originale. Questa è intrinseca al sistema cattolico, per quanto a noi pare: questa è indicata nei passi delle divine Scritture e massime in quelli di S. Paolo: e per misteriosa che ella sia, non si può in alcun modo rifiutare. Or ella non può, se io nulla intendo, aver luogo se non nella sentenza dell' origine dell' anima che noi abbiamo proposta. Perocchè venendo l' anima creata di tutto punto da Dio, essa non comunicherebbe fisicamente con Adamo, col quale non rimarrebbe in comunicazione se non la bruta materia. E dico la bruta materia , perocchè quel Dio che creasse l' anima intelligente, creerebbe anche l' anima animale conciossiacchè non vi sono nell' uomo due anime, ma un' anima sola. Egli è vero che la sentenza da noi proposta non occorse fosse alla mente con tutta chiarezza degli uomini grandi dell' antichità: ma S. Agostino però diceva, che egli non proferiva giudizio sull' origine dell' anima, poichè non riputava impossibile che altri dopo lui trovasse il modo di ben accertare questa origine (1); e d' altro lato non deve recar molta meraviglia che dopo trascorsi tanti secoli, dopo fatte tante investigazioni e tentativi, dopo accresciute le scienze di tante osservazioni positive, venga acquistando luce qualche verità metafisica che prima solo si travedeva. E certo si travedeva, sebbene non si potesse chiarire interamente e liberare dalle difficoltà che si affacciavano: si travedeva, dico, scorti dalle autorità delle Scritture e dai dogmi cattolici che nel loro seno racchiudono le più profonde notizie della natura umana, ma che non è necessario sempre il penetrarle, ma solo il credere i dogmi stessi. In tanto colla fede de' dogmi si conservano nel mondo quelle notizie, fino a tanto che quasi direi uscendo dal profondo dell' oscurità in cui sicuramente si custodivano e venendo a galla secondo l' ordine della divina Provvidenza, sono donate agli uomini da quel Dio che rende sempre più splendida la parola del suo Verbo e ai bisogni degli uomini nei varii tempi diversamente la apparecchia. E che almeno oscuramente la verità di cui parlo si trovi deposta negli scritti di quelli che dànno testimonianza nella successione de' tempi alla cattolica verità, mi varrà a provarlo tutti quei passi dove i Padri della Chiesa parlano della comunicazione reale e fisica di Adamo co' suoi figliuoli, e in questa ripongono la vera ragione della trasfusione del peccato, dentro ai quali passi e quasi direi come sostrato potrà vedersi giacere la nostra dottrina. Si ponga attenzione primieramente a questo passo del gran Vescovo d' Ippona, dove accenna quella congiunzione fisica di cui parliamo: [...OMISSIS...] . Si noti in che modo S. Agostino dica qui che tutti nella natura di Adamo erano un solo uomo; ecco il modo: «ILLA INSITA VI QUA EOS GIGNERE POTERAT ». Il medesimo Santo Dottore parla di questa congiunzione fisica nel libro I dell' Opera imperfetta in questo modo: [...OMISSIS...] . Nelle quali parole il Santo Vescovo confessa che in quella esistenza de' figli nei lombi de' Padri, toccata dall' Apostolo, si nasconde un vero profondo e misterioso; che ci confessa di avere bensì il desiderio di vedere e penetrare, ma che pure non ispiega: ed esorta tuttavia Giuliano, contro cui scrive, a tenerlo per fede, quantunque per argomento d' intelletto nol vegga (1). La stessa parola solenne di originale che si dà al peccato adamitico mostra la congiunzione fisica e propria di cui parliamo, secondo la quale origine , dice S. Agostino, tutti erano in quell' uno e questi tutti erano quell' uno, quando in se stessi ancora non erano (2). E questa origine, per mostrare che è la origine generativa del figlio al padre, è chiamata dallo stesso santo Dottore seminale . [...OMISSIS...] E chi considererà tutto il parlare delle Scritture, troverà che nelle stesse frasi, nelle parole, nella lingua scritturale insomma vi è inserita e supposta la sentenza dell' origine dell' uomo da noi indicata: così che questa sentenza, per misteriosa e difficile che possa parere, forma per così dire il fondo dell' eloquio biblico. Si consideri, a ragion di esempio, come i figliuoli sono, secondo quelle maniere di parlare, il padre stesso. Che cosa è il popolo ebreo? E` Abramo ovvero Giacobbe. Che cosa sono i discendenti di Davide? E` Davidde stesso. Giacobbe ossia Israello è quello che entra nella terra promessa; e tutto ciò che gode o soffre la discendenza di questo patriarca, è Giacobbe che il soffre, e che il gode (5). « A te darò questa terra« » dice Iddio ad Abramo (1). « Ti farò regnare in sempiterno« » dice Dio a Davvidde (2). Nei figli è il padre stesso il quale si moltiplica. « Io farò crescere te oltre modo, dice Iddio ad Abramo, e porrò te nelle genti« (3) ». I figliuoli son chiamati ancora il seme del padre e talora la scintilla (4). Si dice che tutte le generazioni saranno benedette in Abramo, volendo dire nel suo gran figliuolo Cristo (5). Egli è per questa maniera di vedere il padre propaginato nel figlio, che le divine Scritture parlano di Cristo sotto i nomi di Adamo, di Abramo, di Davidde e di Salomone, e questa è la chiave per la quale somiglianti profezie si possono letteralmente interpretare, e senza bisogno di alcuna stiratura. Or solamente nella sentenza sull' origine dell' anima da noi esposta tutti questi passi delle divine Scritture si fanno chiarissimi: altramente l' interpretazione loro ha bisogno di una certa condiscendenza, che tutti non sono presti egualmente di concedere. Finalmente si consideri ancora un passo dell' Apostolo, de' molti che potrei addurre, e sarà questo: « Siccome tutti muoiono in Adamo, così e in Cristo tutti saranno vivificati« (6) ». Ora in che modo nasce la vivificazione di Cristo? Per la rigenerazione. E in che modo la morte? Per la generazione. Or la rigenerazione si fa, come abbiamo altrove veduto, perchè Cristo ci comunica un principio nuovo vitale. Simigliamente la generazione ci deve comunicare un principio di morte spirituale. Questi due principii sono indicati dall' Apostolo in quel passo: « Il primo uomo fu fatto in anima vivente; e il secondo in spirito vivificante« (.) ». Per la generazione adunque si ha l' anima che dà la vita naturale: per la rigenerazione si ha lo Spirito Santo che dà la vita soprannaturale. La prima, infetta di peccato e morta: il secondo, incorruttibile giustizia e immortalità. Nella prima al soggetto è dato una imperfetta visione dell' ente: col secondo una incipiente visione di Dio (9). Nella medesima sentenza della origine dell' anima cadono a terra tutte quelle obbiezioni che i Pelagiani e i filosofi fanno contro il peccato originale e che troppo a lungo ci menerebbe il riferirle. Ma non credo però inutile anzi necessario il mostrare quanto si avvantaggi quest' opinione sopra quella degli scolastici: il che farò toccando le difficoltà che implica quest' ultima sentenza e di cui va immune la nostra. Al che fare destineremo un apposito paragrafo. Una sentenza di Aristotele, che non posso mai a meno di ammirare ove che la consideri, si è quella ove trattando della generazione degli animali e facendo venir tutto dal principio generatore, continuamente applicando all' uomo la sua dottrina, conchiude con queste parole: « Rimane adunque che il solo intelletto venga dal di fuori« (1) ». Questa sentenza direbbe tutto, se invece di dire l' intelletto, dicesse il lume dell' intelletto (2). Poichè la parola intelletto può racchiudere anche il principio soggettivo; laddove ciò che viene dal di fuori è il solo oggetto , dal quale, nella nostra sentenza, viene edotto all' atto anche il soggetto percipiente. Gli scolastici adducono in loro favore questo luogo di Aristotele; ma egli non può valere, preso nel senso in cui lo dice Aristotele, se non nel sistema delle tre anime separate, le quali sono giustamente rifiutate dalla Scuola (3). Insegnando dunque questa, che l' anima intellettiva è creata di tutto punto da Dio, quest' anima stessa, come essi dicono, racchiude anche dell' anima sensitiva e della vegetabile. Però in questo sistema non è più il solo intelletto che venga dal di fuori, come dice Aristotele, ma è ben anco il principio del sentire e del vegetare, in una parola l' anima tutta con tutte le sue parti e potenze. Ma esponiamo brevemente il sistema della Scuola intorno all' origine dell' anima umana; e poi additiamo le difficoltà che esso involge. Dicono adunque gli scolastici, che in primo luogo l' embrione è animato da un' anima nutritiva o vegetabile; ma che questa nello sviluppo dell' embrione si corrompe e a lei succede un' anima sensitiva; e finalmente si corrompe anche questa, e Dio allora vi crea un' anima intellettiva, la quale ha in sè le proprietà anche delle due precedenti. Ora su questa dottrina primieramente osservo, che l' anima vegetabile par cosa del tutto abbandonata: e però in questa parte non credo che nessuno t“rrà a difendere oggidì la sentenza scolastica. In secondo luogo il progresso delle osservazioni sullo sviluppo del feto umano, fa credere inverisimile che esso venga animato con anima umana solo dopo tanti giorni dalla concezione, come pone Aristotele, ma che piuttosto abbia l' anima sin dal principio del concepimento. Opinione che viene anche ricevendosi dalla Chiesa, giacchè ora certo in molti luoghi non si tralascia di battezzare, ove ciò sia possibile, anche l' aborto, almeno sotto condizione. Finalmente si consideri come torni forte a dover credere che prima s' abbia un' anima sensitiva nel feto, la quale si corrompe e perda; e poi v' abbia quella che Dio vi crea in suo luogo. Perocchè a qual fine un' anima sensitiva, se ella non è fatta se non per corrompersi? Forse per apparecchiare il corpo a ricevere l' intellettiva? Ma egli può essere apparecchiato senza lei, nel punto che l' anima intellettiva non entra se non dopo che ha sgombrato la sensitiva: perocchè altramente si troverebbe un istante, nel quale si troverebbero due anime in un corpo, l' una sensitiva e intellettiva l' altra. Dunque quando l' anima intellettiva entra nel corpo, essa non trova già un corpo animato da un' anima, ma il trova privo di anima; e un corpo privo di anima non ha bisogno di un' anima per apparecchiarsi a essere tale. Conciossiacchè corpo privo di anima non può avere altra disposizione che quella che consiste in un cotal ordine delle sue particelle materiali, ed ogni altro atto che appartenga alla vita anche animale, il deve ricevere dall' azione dell' anima intellettiva, che ha in sè anco la virtù sensitiva. Oltre ciò, se l' anima sensitiva si corrompe e si perde, in che modo avviene essa questa corruzione? Si fa in un istante o per successione di tempo? Se per successione di tempo, vi sarà dunque nel feto un' anima mezzo corrotta e mezzo non corrotta prima che entri l' anima intellettiva. E questo stato di mezza morte, questa vicissitudine a cui andrebbe soggetto il feto, non la mostrerebbe alla osservazione? E che nessun osservatore n' abbia mai trovato indizio? Ancora, l' anima intellettiva entrerà quando l' anima sensitiva è corrotta tutta, o quando è corrotta una parte? Se quando è corrotta tutta, dunque entrerà nel feto già morto. Se quando è corrotta una parte, dunque vi sarà un momento, nel quale il feto avrà in sè un' anima intellettiva e un' anima sensitiva mezzo corrotta. Se poi l' anima sensitiva si corrompe in un istante e in quel medesimo istante entra l' anima intellettiva, come mai il feto non darà nessuno indizio di questa gran metamorfosi? L' anima sensitiva è pur anima vera e propria del feto: or come si potrà ella staccare da lui, come si potrà corrompere e perir l' anima che è sua propria, senza che egli punto nol senta? Mutar l' anima a un corpo è egli poco? Sopravvenendo poi in un istante l' anima intellettiva, quale immenso passaggio! qual salto! un essere tramutato in un punto da bestia in uomo! Ma vi ha di più. Vi ha egli un modo possibile a concepirsi nel quale un' anima sensitiva perisca, se non corrompendosi il corpo a cui è aderente? Noi appronfondendo la natura dell' anima sensitiva, abbiamo trovato che essa è indivisile dal corpo, che forma la sua materia: che la materia del sentire e il principio senziente non formano che una sola individua natura, e che l' una ripugna a immaginarsi senza l' altra. Ora dato adunque un corpo animato, una materia del sentire, è dato pure un principio sensitivo, un' anima. Ma questo principio sensitivo non è mica cosa che si possa staccare da quella materia, perchè staccata non ha da sè sussistenza. Essa è passiva e il corpo a cui aderisce è attivo: ella nulla può adunque soffrire se non dal corpo, giacchè l' azione del corpo è appunto quella che le dà la sussistenza. Sarebbe adunque non solo superiore alle forze create, ma al tutto assurdo e contradditorio l' ammettere che un' anima perisca, restando intatto e senza alcun detrimento il suo corpo; perocchè questo corpo animato continua nella sua azione medesima, se egli non si disorganizza e guasta. Egli è qui che batte anche la dottrina di Aristotele, che definisce l' anima sensitiva un atto del corpo. Se ella è un atto del corpo (definizione ricevuta dalla Scuola), è il corpo che deve soffrire immutazione e stogliersi dal suo atto, perchè l' anima sensitiva cessi di essere. Nè vale il dire che gliene vien data un' altra; perocchè prima si cerca come si corrompa la prima. Tanto più che il corpo animato non riceve nè più nè meno dall' anima intellettiva, perocchè questa non comunica col corpo in quanto è intellettiva, ma solo in quanto è sensitiva. Il corpo dunque non fa che cangiar forma, non punto diversa di natura, ma solo di numero. Ed è egli ciò possibile? E` egli ciò concepibile? Sarebbe come se si dicesse che una pera, a ragion di esempio, viene spogliata di quella forma e qualità di pera bergamotta, poniamo, per darle una forma in tutto eguale alla prima nè più nè meno! Non è un tal cangiamento di forme assurdo anche secondo i principii medesimi della Scuola? Conciossiacchè la forma è unica, e non viene individualizzata se non dalla materia: sicchè tai cangiamenti di forme non si possono intendere, quando non si immaginassero queste forme come tante camicie uguali, e il cangiar di forme che le sostanze fanno, si prendesse per un cangiare di camicie. Io non intendo se non un solo cangiamento di forme possibile, ed è quello appunto che descrive Aristotele medesimo, per successive corruzioni e generazioni. Ma il cangiamento dell' anima sensitiva e la sostituzione dell' anima intellettiva non serberebbe nè pure la legge imposta dal duce degli scolastici alla generazione di nuove forme. Perocchè nella corruzione e successiva generazione di Aristotele gli elementi sostanziali della cosa rimangono ed è la loro forma che solamente cangia. Laddove l' anima che viene creata da Dio nulla ritiene, nella sentenza scolastica, della precedente, e nasce non per generazione, ma per creazione: oltre che non è possibile che a lei si attribuisca un successivo formarsi come nella generazione. E pure la Scuola è sollecita di applicare all' origine dell' anima i principii della generazione aristotelica (1). E finalmente noi dunque non abbiamo l' anima che abbiamo ricevuto dai nostri padri per generazione: non abbiamo nè pure ricevuto da essi l' animalità nostra, mentre quella che avevamo ricevuta da essi, è perita: non abbiamo tratto dall' origine se non la pura materia bruta e inanimata di cui è composto il nostro corpo; ed in tal caso, nè pur questa, perocchè la materia bruta e inanimata si cangia continuamente nei corpi umani mediante le sempre nuove particelle che questi ricevono e da sè emettono. In tal caso sarebbe convenuto meglio, che Iddio avesse comandato ai primi padri, che prendessero a comporre e effigiare delle statue di creta e di loto, come aveva fatto egli stesso con Adamo, e che poi infondesse Iddio le anime in queste statue; perocchè questo modo di moltiplicazione sarebbe stato, in un tal caso assai più semplice e nessuna anima sarebbe con esso andata a male. Ma l' assurdo maggiore che voglio far notare nell' ipotesi scolastica si è, che per la infusione dell' anima intellettiva che succede alla sensitiva, è perduta l' identità dell' uomo. Perocchè in un animale o in un uomo, quando gli si cangi l' anima, non è più quel desso, ma è un altro: il perchè i genitori non avrebbero per figlio se non il feto fino che ha l' anima sensitiva; ma quando egli riceve l' anima intellettiva il loro figlio è perito, e non rimane più che un figlio di Dio. Conciossiacchè l' identità dell' animale e dell' uomo non consiste se non nell' identità del sentimento e della coscienza; e l' identità del sentimento e della coscienza dipende dall' identità dell' anima. Cangiate dunque l' anima, un altro sentimento, un' altra coscienza, un altro animale, un altro essere ne è divenuto, e non più quello che fu conceputo dal padre. Che se questo nuovo essere è venuto da Dio, se è venuto da Dio immediatamente non solo l' intelletto, ma ben anco la sua facoltà di sentire, insomma il principio intelligente e senziente, che è tutto ciò che vi ha di formale non solo nell' uomo ma anche nell' animale, come questa nuova creatura di Dio potrà trovarsi viziata dal peccato dell' origine, quando l' origine sua è purissima? E se vi avesse alcuno a cui piacesse di negare questa verità evidente, che l' identità dell' animale e dell' uomo consiste nell' identità del sentimento, e volesse farla consistere piuttosto nella identità delle particelle materiali, per soprabbondanza e non per necessità, io chiamerò costui a considerare, che come di sopra ho detto, in nessuna maniera si può provare l' identità materiale delle particelle che compongono un corpo umano, le quali sono in un continuo movimento e partono dal medesimo per dar luogo a delle nuove. Se non che io giungo fino a dubitare, che una tale sentenza rinserri delle conseguenze, le quali non si possano sostenere, salva la verità della cattolica fede: anzi tali io tengo che siano anche quelle che ne ho finora dedotte, chi ben addentro e senza prevenzione le considera. Ma tale poi soprattutto parmi che deve essere riputata la seguente. Io tengo intrinseco alla fede cattolica essere, che il peccato originale passi per generazione e perciò nell' atto della generazione. Io potrei addur qui una nube di definizioni e di testimonianze che autenticano questa sentenza: ma mi limiterò ad addurre, ciò che ha dichiarato il Concilio di Trento, il quale afferma che il peccato passa nel figlio nell' atto del concepimento. Io recherò le sue stesse parole, nè pur traducendole, perchè non si trovi cagione forse di cavillare sul volgarizzamento. Eccole quali sono: [...OMISSIS...] . Ecco adunque, che mentre sono concepiti gli uomini, dice il Concilio, ricevono l' ingiustizia. Dopo la conceziione il seme paterno non ha più da fare cosa alcuna; e cresce il feto da sè nel seno materno. Ora supponendo che il feto appena concepito non abbia che un' anima sensitiva, egli non potrebbe essere soggetto capevole di peccato e di ingiustizia, meglio che una bestia qualunque; argomento insuperabile, dove non si voglia eludere con delle sottili e vane distinzioni. Di più, quell' anima sensitiva non è quella che resta all' uomo, ma ella va perduta e ne entra un' altra creata di tutto punto da Dio. Dunque, quando ancora quell' anima sensitiva fosse soggetto capevole di peccato, andando essa a perire, perirebbe con essa il peccato ricevuto dai padri. E sebbene l' anima nuova che viene infusa da Dio, dopo quei tanti giorni assegnati dalla sentenza aristotelica (2), venisse viziandosi e corrompendosi pel contatto del corpo in cui viene infusa, come liquore da un vaso infetto; tuttavia l' ingiustizia in essa anima non comincerebbe se non allora allora, e non nell' atto del concepimento: e quindi in questo solo punto, cioè quaranta o venti giorni dopo il concepimento, comincerebbe ciò che avesse propria e vera ragione di peccato. Conciossiacchè tutto ciò che precedentemente vi fosse nel corpo non potrebbe essere che sensitivo e qualsivoglia altra qualità vogliasi imaginare, ma non mai cosa che abbia propria e vera ragione di peccato. Nè basta il dire, che tale istinto e morbosa affezione della carne animale diventa poi cagione di peccato nell' anima intellettiva che sopraviene perocchè inclina questa al peccato; giacchè ciò sarebbe al tutto contro la mente del Concilio Trentino, il quale definì che sebbene la concupiscenza e il fomite che rimane dopo il battesimo inclini al peccato e per questa cagione si chiami dall' Apostolo peccato (1), tuttavia non è questa il peccato originale, perocchè ella non è peccato in senso vero e proprio, come è il peccato originale. Sicchè nella sentenza scolastica il vero peccato originale non si trarrebbe dai parenti, ma dai parenti si trarrebbe solo una cotal mala affezione della carne, che produce poi il peccato nell' anima, quando Iddio la vi crea. E il dir questo non saprei come non fosse un affermar cosa contraria alla cattolica fede circa il peccato originale, ed alla mente dell' Ecumenico Concilio di Trento. Io ho parlato fin qui della sentenza scolastica a quel modo che la espone l' Angelico Dottore (2). Il più dei teologi moderni si contentano di dire, che Dio crea e infonde l' anima nel corpo, senza parlare del tempo e del modo in che succede questa creazione e infusione. Ma egli è manifesto che dove anche si supponga, che venga creata e infusa nell' atto del concepimento, molte delle difficoltà sopra indicate sussistono egualmente in tutta la loro forza, e principalmente l' ultima. Perocchè se egli è vero, come è verissimo, che nell' uomo non vi ha se non un' anima, la quale è sensitiva insieme e intellettiva, sarà pur vero che nell' atto del concepimento Iddio crea tutto ciò che vi ha nell' uomo d' intellettivo e di sensitivo; e che per ciò i parenti non somministrano che la pura materia bruta e inanimata. Or dunque ciò che viene da' parenti non è nè l' uomo nè l' animale, non siamo NOI che siamo figliuoli dei padri nostri, perchè questa parola NOI indica la nostra coscienza, il nostro sentire, e tutto il nostro intelletto e la nostra animalità. NOI dunque non abbiamo l' origine da Adamo, ma da Dio, e non possiamo per ciò trarre da Adamo alcun peccato, ma tutto al più possiamo venir viziati in virtù dell' azione che sopra di noi esercita una materia bruta, che essa, e non noi, è venuta da Adamo. Ne verrebbe parimente l' assurdo, che essendo l' uomo un animale come tutti gli altri, ed anzi il più perfetto di tutti, tuttavia egli solo nel generare farebbe meno di quello che fanno tutti gli altri animali. Perocchè tutti gli altri animali in generando producono ne' lor figliuoli delle anime sensitive e animali, mentre l' uomo sebbene abbia una maniera di generare simile alla loro, tuttavia non potrebbe produrre neppure un' anima sensitiva e animale, giacchè Iddio crea l' anima umana da sè intellettiva e sensitiva a un tempo: e all' uomo sarebbe solo riservato come diceva, quel tanto che farebbe un vasaio, il quale mentre fabbrica colle sue dita una statua di molle terra, Iddio suo compagno di operazione le fabbricasse interiormente l' anima. Il che, se così pure avvenisse, non potrebbe succedere che per un miracolo; terzo assurdo che contiene la sentenza che confutiamo. Conciossiacchè, giacchè l' uomo è pure un animale come gli altri ed ha pur come gli altri la facoltà generativa, solamente per un miracolo potrebbe essere la virtù di questa sospesa e impedita dal produrre almeno un' anima sensitiva. Sicchè quelli che ammettono che le anime umane sieno create e infuse nell' atto del concepimento, sono costretti di non ammettere già un miracolo solo, facendo intervenire Iddio Creatore nella natura e accusandolo così di non aver fatta questa natura a sufficienza perfetta, ma due, l' uno del crear l' anima, l' altro d' impedire la potenza generativa dell' uomo dal produrne una ella, come fanno tutti gli altri animali. Se non che dovendo esser questa potenza generativa nell' uomo continuamente sospesa, e non potendo giunger essa mai a produrre un animale, cioè un corpo animato, ma solo a somministrare della materia bruta, da essere animata da un' anima che Dio stesso crea e v' infonde; perchè Iddio dar pure all' uomo una tale potenza? Ad effigiare e comporre una massa senz' anima non è necessario deputare una potenza e un apparato generativo; ma una forza meccanica ed esterna è sola bastevole a ciò. Avrebbe dunque Iddio operato in questo solo e unico fatto della natura stoltamente; poichè avrebbe posta una potenza inutile, anzi una potenza che serve d' impaccio, impedimento, e la cui azione gli conviene contrariare e sospendere con dei continui prodigi. Una difficoltà si affaccia alla mente contro la nostra sentenza dell' origine dell' anima, quando questa non s' abbia perfettamente compresa. E io intendo qui di risolverla, appunto perchè ciò mi dà luogo ad agevolare la conveniente intelligenza della medesima. Si dirà adunque: l' anima sensitiva non sussiste per sè, ma solamente unita al corpo, di maniera che, distrutto il corpo, anche quella è dissipata e distrutta. Or come passa questa a sussistere da sè? E se diventando intellettiva, non si fa sussistente, ella rimarrà materiale o mortale? Ma io rispondo: L' anima sensitiva, ove il corpo a cui aderisce distruggasi, ella pure si strugge e si dissipa: ciò è verissimo. Ma perchè nasce questo suo dissipamento? Perchè le vien tolta la materia del suo sentire, e senza materia di sentire non vi ha sentimento, senza sentimento non vi ha principio senziente, e senza principio senziente non vi ha anima, perocchè esso principio è l' anima stessa. Cioè a dire, nel sentimento fondamentale che costituisce l' essenza dell' animale, io ho distinto due elementi, cioè il principio e il fine, il senziente, e il sentito. L' animale si distrugge perchè è distruttibile il termine del sentimento, il sentito; ma non v' è altra maniera in cui concepir si possa dissolvibile l' animale, come dissi di sopra; sicchè se il termine o la materia del sentire non sofferisse alcuna alterazione, il principio senziente per sè non cesserebbe mai, e sarebbe immortale. Io non dubito adunque di chiamare spirituale l' anima delle bestie, considerata nel suo principio, e solo dalla parte del suo termine è materiale. Io non dubito di chiamare l' anima, considerata come principio senziente, spirito, e questa mia maniera di parlare è conforme a quella delle divine Scritture che dicono: « lo spirito di ogni carne« (1) ». Or dunque se il principio senziente per sè non perisce, ma solo per il termine suo, ossia per la cosa sentita; che sarà ciò che il possa rendere al tutto immortale? Basterà cioè che gli si dia un termine, il quale sia di natura sua indistruttibile e eterno. Perocchè avendo egli questo termine, allora il connubio fra il senziente e il sentito è fatto per guisa che non può più venir dissipato; e quel principio senziente che solo non può sussistere, congiunto con questo termine, non può perire, non venendogli mai meno qualche cosa cui senta. Or questo appunto succede in darsi che si fa la intelligenza al principio senziente, perocchè non è altro che un dargli a sentire l' ENTE, il quale è di natura sua eterno, immutabile, necessario, universale e fornito di altri caratteri divini. Un principio che senta l' ENTE, sussiste eternamente, perchè ha sempre un oggetto da sentire, che non gli può venire mai meno. E se questo principio, oltre avere per cosa sentita l' ente, abbia per cosa sentita anche la materia corporea, in tal caso esso è un' anima intellettiva e animale a un tempo, la quale ha due termini, uno eterno e industruttibile, e l' altro distruttibile. Venendo dunque a perire la materia corporea, quest' anima non si dissipa nè distrugge, ma rimane sussistente per sè, cioè per l' oggetto a cui è aderente e cui sentendo ha sua vita (2). Ed egli, chi ben considera, fu da un consimile ragionamento che fu provata la immortalità e la semplicità dell' anima dai maggiori filosofi dell' antichità e dai Padri della Chiesa. Perocchè essi indussero queste sue preclare doti da qualche cosa di sublime, d' immortale, di eterno, a cui la trovarono essere aderente. Fu perchè la videro dotata della cognizione della verità e della giustizia, dell' ordine e del bene, che la dichiararono di stirpe divina e partecipante dei pregi di questi oggetti a cui ella aderisce; e per ciò della loro immateriale e eterna consistenza. E ora che abbiamo fatto noi, se non meditare appunto la natura della verità, della giustizia, del bene, dell' ordine, e trovare che tutte queste cose si accolgono in una sola, cioè nell' ENTE universale, luce semplicissima, di cui è partecipe e dove sussiste l' anima intelligente? Sicchè quando noi abbiamo detto, che l' anima umana è intelligente, immateriale, sussistente per sè, appunto perchè è congiunta coll' ente, noi abbiamo con una sola parola indicato quello che tutta l' antichità ha predicato con molte; e abbiamo ridotto alla formola più precisa e più filosofica i vaghi e alquanto indeterminati ragionamenti della filosofia ancora immatura e la sapienza comune del genere umano. A confermare queste affermazioni non sarà inutile che io rechi qualche passo fra i moltissimi che potrei addurre degli antichi savi, nei quali si parla appunto di questa cognazione dell' anima colle cose eterne, che essi nominavano anche Dei, appunto perchè vedevano come quell' elemento che rende l' anima immortale sia divino, e non trovavano nè come unificarlo, nè come preciderlo dalla divinità. Iamblico, raccoglitore di dottrine antichissime, dice così: [...OMISSIS...] . Si sostituisca in questo passo alla parola Dio e alla parola cose divine l' ENTE IN UNIVERSALE, e si avrà appunto espressa la nostra teoria. Altrove il medesimo autore dice: [...OMISSIS...] . Finalmente aggiungerò ancora un passo di Iamblico, degno di considerazione all' uopo nostro: [...OMISSIS...] . Il che è un esprimere quanto più si possa al vivo la natura dell' anima, formata da un principio senziente, soggetto, e da una cosa divina, oggetto: le quali due parti sono così coerenti tra sè che nulla più; sicchè di due, senza mescolarsi, o confondersi punto, fanno risultare una sola natura. Ora i platonici di tutti i tempi e con essi molti altri filosofi, e con essi il comun dire medesimo parlò sempre nella stessa sentenza (2). Da ciò che abbiamo detto risulta, che Adamo peccando commise un peccato personale, come sono tutti i peccati attuali liberi. Che questo guasto della persona in Adamo guastò e corruppe la natura. Che la natura guasta fu comunicata ai posteri per generazione. Che nei posteri la natura guasta, aggravando e torcendo la volontà personale, guastò la persona (6). Ora la natura è una cui egualmente partecipano molte persone. Or questa natura o che è moralmente sana, o moralmente infetta. Essendo dunque stata infetta già col primo peccato, gli altri peccati non possono più infettarla e rimangono solo peccati personali senza più. La quale ragione viene esposta egregiamente dal Dottore angelico in queste parole: [...OMISSIS...] . Tuttavia chi sostenesse avervi nei padri talora delle disposizioni morali perverse, le quali vengono comunicate ai figliuoli per generazione, sicchè anche i figli rimangono maggiormente inclinati a certi vizii (2), siccome pure avervi delle buone abitudini morali che sembrano conservarsi in certe schiatte e tramandarsi per eredità; questi non terrebbe forse cosa contraria alla esperienza (3), nè sottosterebbe punto contro a quella decisione apostolica con la quale fu condannata questa proposizione di Baio: [...OMISSIS...] . Nel fanciullo la natura è quella che infetta la persona . Per natura abbiamo detto intendere il complesso dei costitutivi dell' uomo. In modo più proprio però la natura, che trae l' origine da nascere , significa le prime [qualità] costitutive dell' uomo con una relazione alla loro origine; quasi si definisce la parola« natura« con dire: ciò che si porta nascendo. Or per vedere adunque quel principio contenuto nella natura umana che va a pervertire colla sua azione la volontà, converrà cercare appunto nel nascimento dell' uomo, in ciò che per primo egli ha e riceve dall' origine, la causa prossima del peccato originale; perocchè questa sarà quella stessa causa prossima e istrumentale per la quale egli vien concepito. Ora la causa istrumentale e prossima, che muove il germe al suo sviluppo, è il seme paterno. E la tradizione cristiana di pieno consenso attribuisce appunto a una mala qualità del seme il ricevere che fa la natura generata in sè una cotal corruzione e disordine che ridonda nella volontà, ove così in uno colla generazione si forma il peccato. Le divine Scritture parlano senza ambiguità di questa rea qualità, che viene anco chiamata immondezza del seme umano. Giobbe deplorando la malizia della umanità, dimandava: « E chi può far mondo ciò che è stato concepito da un seme immondo?« (3) ». E di cui perciò tanta è la miseria che la corruzione abita ne' primi stami e rudimenti stessi di sua natura? E Davidde deplorava di esser stato concepito dalla madre sua « nelle iniquità e nei peccati« (4) ». A spiegazione e commento delle quali parole, Innocenzo III dice: « il corpo si concepisce corrotto e fedato nato da semi corrotti e fedati« (5) ». Un segno che infetto era il mezzo della generazione, e col quale Iddio volle mantenere la cognizione e la fede del peccato originale, fu la circoncisione; e quelli si avevano per soggetti alla morte presso gli Ebrei che non subivano questa ceremonia, indicandosi per tal modo e il principio del male e la necessità di una originale riformazione della natura umana. Questa infezione del seme è fisica , e perciò non è che in essa stia la propria e vera ragione di peccato, ma bensì la ragione istrumentale del peccato. Perocchè questa infezione fa sì che l' uomo nasca guasto nella sua parte animale, e ricevendo così un istinto animale alterato, questo istinto animale tira a sè le forze della volontà soggettiva, e in questo piegamento della volontà la ragione del peccato si assolve. Vi ha dunque, 1. la infezione del seme paterno: 2. l' istinto animale alterato, ossia la concupiscenza animale che viene prodotta nel generato: 3. la volontà stessa inclinata e condiscendente tutta alla concupiscenza: e in quest' ultima parte trovasi, come dicevamo, un vero e proprio peccato abituale. Niente adunque ripugna, anzi sembra consentaneo alla cattolica verità l' ammettere una morbosa qualità nel seme; purchè non si faccia consistere in essa l' essenza del peccato originale: niente ripugna che si ammetta una morbosa qualità della carne, ossia un' alterazione dell' istinto animale, purchè non si confonda con essa la piega della volontà, che sola può esser sede di moralità. E parmi che certi teologi parte si sieno male spiegati, parte sieno stati troppo severamente intesi in questa parte. Così Enrico di Gand, a cui si appone di far consistere l' essenza del peccato originale in una morbosa qualità della carne, si esprime pur chiaramente quando dice: [...OMISSIS...] . Delle quali parole si può egli dar nulla di più chiaro e di più preciso? Ed egli pare che questa morbosa qualità della carne tanto meno doveva essere occasione di censura, quanto che tutte le Scritture son piene di questo stesso sentimento, fino a chiamare carne lo stesso peccato originale, sicchè essere nella carne, nello stile di S. Paolo, vale essere ancora nel peccato originale (2). E S. Agostino secondo lo spirito di esse Scritture dice, che il peccato originale « è una cotal affezione di mala qualità e come una malattia« (3) ». E altrove parimente disse, che il corpo trasse pel peccato originale una qualità morbosa e pestilente (4). Alcuni per questa mala qualità intendono la concupiscenza stessa. Ma se per concupiscenza s' intende quell' insulto che fa la carne allo spirito quando, occupandolo di sè tenta di trarlo giù dalla sua padronanza e assudditarlosi, egli è manifesto che la concupiscenza deve essere piuttosto un effetto di quella morbosa qualità della carne. Perocchè se la carne è fatta così superba e stimolante, ella deve avere indubitatamente sofferita un' alterazione pari appunto a quella che ha sofferita la cute dello scabbioso o di colui che soffra delle insolite pruriginose sensazioni (1). Nè si potrebbe immaginare nella carne questo effetto senza pensar in essa esser succeduta appunto una morbosa alterazione: ed è questa che assai agevolmente s' intende potersi contrarre per via di generazione; come succede di tutti i mali gentilizii, i quali vanno comechessia a portare la loro corruzione contagiosa nelle prime radici della vita. Per ciò S. Agostino dice che Adamo peccando viziò in sè come in radice la propria stirpe (2). Nè però mai s' intenda, come qui sopra ho avvertito, che in questa alterazione morbosa della carne stia l' essenza del peccato originale, ma solo lo stimolo che dalla natura è applicato alla volontà, del quale stimolo questa viene sedotta e tolta dai beni intellettivi per bearsi degli animaleschi. Confermano questa dottrina tutte quelle maniere efficacissime di dire che usa la divina Scrittura; nelle quali l' uomo peccatore si dice nato di carne. In S. Giovanni è scritto: « Ciò che è nato di carne è carne; e ciò che è nato di spirito è spirito« (3) ». Che cosa vuol dire qui essere carne, se non essere peccatore, cioè schiavo della carne? E che cosa esprime quell' essere nato di carne, se non venire la nostra schiavitù dalla carne appunto male condizionata e violenta; il che è quanto dire avere in sè un' alterazione fisica indebita? E si noti quella frase esser carne , la quale indica che il soggetto, in luogo di applicare la sua forza più lungamente alle cose intellettive, si abbandona tutto a percepire la materia sensibile e da essa trae la sua esistenza: secondo ciò che detto abbiamo più sopra, che il principio senziente trae il suo essere dal termine sentito. Il medesimo sentimento esprime S. Paolo in tanti luoghi, nei quali alla carne attribuisce tutta l' origine del male. [...OMISSIS...] . Ora una tal carne, di cui anche più sopra aveva detto: « Io so che non abita in me, cioè nella carne mia bene alcuno« (2) », sarà ella la carne di Adamo innocente? O non si dirà anzi una carne alterata, impestata dal peccato? Anteriore dunque alla concupiscenza è una morbosa e pestifera qualità della carne, che si trasmette per generazione e che è la cagione prossima della concupiscenza, come la concupiscenza è la cagione prossima della stortura della volontà ossia del formal peccato. Or ciò posto, io non vedrei altresì che si potesse riprendere come contraria alla fede l' opinione di quelli ai quali par verisimile che nel frutto vietato da Dio ad Adamo potesse ascondersi un cotal veleno, il quale contaminasse l' uomo e principalmente ammorbasse la potenza generativa (3). Tale opinione, sostenuta da un' antica tradizione presso gli Ebrei (4), a me sembra verisimile e conforme a quelle leggi, secondo le quali Iddio suole governare le sue creature. Dirò di più, quando si dovesse fare in tal materia delle conghietture, più volte essermi passato per la mente che Iddio potesse aver permesso al demonio di prendere sua sede in quel frutto vietato appunto, e che insieme colle particelle di quel frutto, le quali si devono essere convertite nella carne e secondo la loro propria natura andate per avventura a unirsi colla seminale sostanza, il demonio avesse potuto trovare l' adito nel corpo dell' uomo peccatore e tenerlo come sua conquista e passare egli stesso per il mezzo della generazione in tutti i figliuoli di Adamo, travagliandoli appunto principalmente e insultandoli per via di carne. Or non sarebbe questo conforme a quel dire che fanno le divine Scritture, che tutta l' umanità fu pel mangiamento di quel primo frutto in potestà del demonio e che ogni carne fu da lui posseduta? Non mostra la santa Chiesa negli esorcismi che fa al bambino prima di battezzarlo, tener essa che dentro lui stia il demonio? Non gli dice, soffiandoli in volto: Escitine, o maledetto diavolo? E quanto naturale intendimento non riceverebbero pure quelle parole di Cristo: [...OMISSIS...] . Da questa morbosa qualità del seme adunque, dalla quale rimane infetto l' embrione, prima conseguenza è, come dicevamo, la concupiscenza, ossia un sentimento animale che agisce con forza sulla volontà soggettiva e tutta a sè ne tira l' attività, per modo che ella rimane distolta e avulsa dai beni intellettivi. Perciò i Padri parlano della concupiscenza come di cosa costitutiva del peccato stesso originale. Ma ella si deve intendere esser tale solo considerata come vittoriosa sulla volontà, sicchè la volontà le sia serva: cessando poi dall' essere peccato tosto che la volontà soggettiva e personale riprenda le redini e torni a signoreggiare sopra di lei colla forza della grazia divina; poichè allora lo stimolo della concupiscenza, sebbene rimanga, non serve che ad accrescere il merito della vittoria. Perciò il serafico Dottore esaminando un passo del Maestro delle Sentenze, dove afferma che il peccato originale sia la concupiscenza, dice egregiamente che ciò si può sostenere, purchè s' intenda non qualunque concupiscenza, ma quella che in sè racchiude la privazione della debita giustizia (1). La concupiscenza considerata nel fanciullo abbiamo detto esser cagionata da una morbosa qualità di cui è infetta la carne, nella quale egli fu generato. Ora egli sembra, che se la concupiscenza si considera nei generanti, ella possa essere stata, anzi che effetto, cagione in buona parte della morbosa qualità propagata nei figliuoli. Questo è ciò che S. Agostino dice tanto di frequente: in ragione di esempio, in un luogo così parla: [...OMISSIS...] . E S. Tommaso sulle vestigia del suo Maestro: [...OMISSIS...] . Nè mi farebbe maraviglia che la voluttà annessa alla generazione fosse partecipata dal generato, in quanto prima la massa carnea di cui egli è composto formava parte di essi, e poi diviso ed acquistato un essere da sè, non morì però mai, ma restò con quel vigore di vita e con quel sentimento che in lui fu suscitato e acceso pure in generandolo. Sicchè la causa istrumentale e prossima della trasmissione nei figliuoli del peccato originale è la morbosa qualità del seme paterno e la concupiscenza che accompagna l' atto della generazione, ove questa si faccia per via di esso seme paterno. Le quali due cose mancarono nella generazione di Cristo: perocchè, non essendo intervenuto in essa opera di uomo, non ebbe luogo l' effetto che suol produrre il seme guasto nella madre a un tempo e nel figlio, cioè la carnale concupiscenza. Il che apparisce assai più chiaro nel sistema de' germi inviluppati gli uni negli altri; perocchè in questo sistema, sebbene il germe da cui dovea poscia svilupparsi Cristo, passasse di parente in parente per tutta la serie de' suoi ascendenti, tuttavia rimanendosi egli sempre inviluppato fino al momento, in cui fu depositato nel corpo purissimo di Maria Vergine Immacolata, fu protetto per modo, che non venne mai tocco nelle generazioni antecedenti da seme umano, e così non potè contrarre mai, nè pure se ne fosse stato capace, alcuna macchia o infezione. Così si trovano conciliate e insieme contemperate le sentenze apparentemente diverse intorno alla ragione per la quale Cristo naturalmente fu immune da peccato. Perocchè innumerevoli sono i luoghi de' Padri co' quali affermano che ciò fu perchè non vi intervenne uman seme; e molti pure e evidenti sono quelli nei quali si legge che fu perchè non vi intervenne alcuna concupiscenza. Questo secondo sentimento ripete assai di sovente S. Agostino, come a ragion di esempio là dove dice: [...OMISSIS...] . Considerando adunque l' alterazione e il guasto del seme umano come cagione di questa concupiscenza, è vero l' uno e l' altro, che Cristo fu immune dal peccato perchè non ci intervenne l' uso del seme, e non quella concupiscenza che accompagna quest' uso. Quella concupiscenza adunque è propriamente la cagion prossima della trasfusione del peccato, che accompagna il concepire in virtù dell' uman seme; non altra, se ella essere vi potesse. E con ciò io credo di cogliere la mente del Dottor della grazia, il quale non si potrà provare che in nessun luogo parli di altra concupiscenza se non di quella che accompagna appunto la umana seminagione: il che dimostra nel passo sopracitato, chiamandola non puramente concupiscenza, ma concupiscenza di uomo che con femmina si accoppia, « concumbentis concupiscentia ». E ancor più precisamente altrove dichiara il suo pensiero determinando di quale concupiscenza egli parli, dandole l' epiteto di concupiscenza seminatrice . E per ciò dice di Cristo che quantunque anche egli sia secondo la carne seme di Abramo, perocchè la Vergine Maria ond' egli tolse la carne fu di quel seme propagata, tuttavia egli non fu sottoposto all' azione di quel seme, non venendo da viril seme concetto, e libero rimanendosi dal legacciolo della seminatrice concupiscenza (1). Ricapitolando ora e paragonando ciò che abbiam detto sulla natura e sulla trasfusione del peccato originale, noi abbiam parlato sì in quella trattazione, che in questa del principio di esso peccato e ne abbiamo parlato in modo diverso. Perocchè parlando della natura, noi abbiamo posto il principio del peccato originale nella personalità dell' uomo: e parlando della trasfusione, abbiamo posto questo principio nella rea qualità e concupiscenziale del seme virile. Colà abbiamo detto che il peccato prima è nella persona ossia nella volontà soggettiva: e qui abbiamo mostrato il disordine originale cominciare dalla carne ossia dall' animalità. Colà abbiamo fatto discendere il peccato dal punto superiore della umana natura e condottolo a contaminare le potenze subordinate: e qui abbiam fatto nascere il disordine nel punto inferiore di tutti, cioè nella carne dell' uomo, e l' abbiamo fatto ascendere e comunicare la sua infezione alle altre potenze più nobili, deturpando ultimamente l' altissima di tutte, cioè la volontà soggettiva. Insomma colà abbiamo assegnato al peccato un principio diverso e opposto da quello che gli abbiamo assegnato in quest' ultima trattazione. Come si conciliano e stanno insieme queste dottrine? La natura umana ha veramente due estremi, che sono, quasi direi, i due poli della medesima: il più nobile è ciò che forma la personalità, e il men nobile è ciò che forma l' animalità. Ora la generazione della umana natura procede dalla parte men nobile alla più nobile, dall' imperfetto al perfetto, dall' animale alla persona. Questo processo risulta da tutto ciò che abbiamo detto intorno all' umana generazione, la quale è una operazione animale sicchè ha virtù di formar l' animale. Ma essendo da Dio congiunto con questo animale per ferma legge l' ente percettibile, egli non può essere formato questo animale se non a condizione che veda l' ente: e per ciò all' operazione generativa, che di natura sua non avrebbe virtù se non di produrre un animale, tiene dietro, immediatamente la percezione dell' ente, mediante la quale il principio senziente in quell' animale si eleva a stato di soggetto intellettivo e di persona; il che succede senza progressione alcuna di tempo , ma è contemporaneo l' animale e l' uomo. Nasce adunque la formazione dell' uomo mediante una mozione animale dall' imperfetto al perfetto. Ora comunicandosi il disordine adamatico per generazione, di che è che si chiama originale , egli deve in producendosi nell' infante tenere lo stesso ordine e processo che tiene l' infante stesso in generandosi e formandosi. Quindi è che egli deve cominciare a infettare e corrompere le parti basse e da queste passare il suo disordine alle più sublimi. Il che è ciò che esprimono le Scritture collocando nella carne tutto il fonte del male morale dell' uomo e usando di questa parola carne a significare il nido, quasi direi, di tutte le tentazioni e il complesso di tutti gl' inimici contro lo spirito della virtù e della giustizia. « Perocchè la carne, dice S. Paolo, concupe contro lo spirito e lo spirito contro la carne: conciossiacchè queste due cose si contrariano insieme, pericolandone la vostra libertà« (1) »; della quale la baldanza della carne vorrebbe pure spogliarvi. In questo senso adunque, parlando della trasfusione del peccato, noi abbiamo messo il suo principio nella parte più bassa della umana natura, per la quale entrato il disordine si comunicò alle altre. Ma convien riflettere, che questo disordine fino che si resta nelle parti basse dell' uomo, non ha vera e propria ragion di peccato, nè però peccato si può denominare. Ma bensì può dirsi principio di peccato , in quanto che egli produce nell' uomo uno stimolo che tenta la sua volontà, e come priva di aiuto e di forze, qual' è la volontà di quello cui manca la grazia, la trae agevolmente dalla sua e la fa quietarsi nella vita animale e nella carnale dilettazione. Egli è però certo, che il formal peccato non è prodotto nell' uomo se non da quel punto che questa volontà soggettiva non ha piegato e ceduto al dilettico animale. E però noi abbiam detto, che il peccato non comincia se non nella volontà soggettiva, nella più alta parte dell' uomo, che è quanto dire nella personalità: perciocchè tutto il male che precede al guasto della personalità non è cosa per sè morale, ma fisica e animale, essendo sola la persona la vera e propria sede di ogni bene e di ogni male morale. Sebbene adunque il disordine cominci nell' uomo prima della sua personalità, tuttavia solo in questa e con questa comincia propriamente il peccato . Quando poi la personalità stessa ha allettato in sè il disordine, rendendo con ciò morale quello che prima era fisico e animale, allora la persona comunica per così dire l' immoralità propria alle potenze subordinate e tutto diventa immoralità, tutto peccato nell' uomo. La concupiscenza è peccato, l' ignoranza e la cecità di cuore è peccato, come dicono a una voce i Padri. Relativamente dunque al peccato di che vengono infette le potenze dalla volontà personale, prima e propria sede del peccato, noi abbiam detto che il principio del peccato originale risiede nella persona, nella più alta parte dell' uomo, e che da quest' apice discende e macchia le parti inferiori. Se si considera dunque il disordine in generale, il suo principio è nella parte più bassa dell' umana natura. Se si considera poi l' immoralità di questo disordine, il suo principio è nella parte più alta di essa natura. E questo ci valga a conciliare, a legare insieme e a ricapitolare quanto abbiamo detto sul principio del peccato originale in questo e nel capitolo precedente. Trovata la cagione prossima del peccato originale, egli è facile render ragione perchè anche i figli di coloro che sono rigenerati nel santo battesimo, ricevano il peccato originale. La grazia del santo battesimo non è che personale , cioè non riforma che la persona, come abbiamo accennato e come più a lungo dimostreremo nel libro seguente. Il disordine originale all' incontro contamina non meno la persona che la natura. Riformata adunque la persona col battesimo, rimangono le altre parti della natura umana ancora disordinate. A queste parti disordinate dell' umana natura appartiene principalmente la facoltà generatrice, e quindi la causa prossima e istrumentale per la quale s' insinua nel neonato e vi si eccita il peccato originale rimane viziata anche nei fedeli battezzati. Il perchè una natura corrotta produce una natura corrotta e che ha pur bisogno di essere rigenerata. Questa ragione adduce S. Agostino contro i Pelagiani che dimandavano perchè se il peccatore genera il peccatore, anche il giusto non generi il giusto. [...OMISSIS...] . La quale medesima ragione adduce in altre parole S. Tommaso, il quale afferma rimanere il peccato originale, materialmente preso, negli stessi battezzati; [...OMISSIS...] . Dalla natura del peccato originale, dottrina fondamentale della Chiesa Cattolica (4), si spiega lo spirito di questa, e per l' opposto lo spirito da cui è animato il mondo. La Chiesa professa che l' uomo nasce corrotto per natura: e quindi il figliuolo della Chiesa riceve da questa dottrina un sentimento di umiltà che lo accompagna in tutti i suoi passi. Il mondo niente ode più mal volentieri quanto la dottrina del peccato originale: egli fa di tutto per ritorcere gli occhi da questa profonda piaga dell' umanità, e dice volentieri: l' uomo nascere uomo, ovvero le indoli formarsi per la educazione senza più. Dell' ignoranza pertanto, in cui il mondo si tiene volontariamente del peccato originale, è effetto a un tempo e cagione lo spirito di superbia di cui sempre è gonfio il figliuolo di questo secolo. Quanto più lo spirito del mondo prevale anche nel mezzo delle nazioni cristiane, tanto più si vede allontanarsi e rimuoversi la memoria del peccato originale, massime dai libri di educazione; e dipingersi in essi in quel cambio l' uomo sempre con dei lieti e ridenti colori, ma, ohimè! purtroppo menzogneri, e simili per avventura a quelli che facevano si bello e desiderabile il pomo di Eva. La Chiesa col peccato originale insegna, che ciò che portiamo di corrotto fino dalla prima origine è la carne; e deduce da essa il fomento d' ogni peccato. [...OMISSIS...] . Per questa dottrina che possiede la Chiesa, avviene che il suo spirito sia di mortificazione della carne e di penitenza: e ciò a tal segno da desiderare fino la distruzione totale della carne, riguardando tale distruzione come l' abolizione del peccato e la liberazione dell' anima dai ceppi di una tediosissima schiavitù. Fino poi che questa felice distruzione non sia avvenuta, il figliuolo della Chiesa si propone di non prendere giammai a principio del suo operare il desiderio della carne, di non riconoscere nè pure la carne quasi come parte di sè, ma di riguardarla già come fosse al tutto morta. Questo è il proposito che si fa nel battesimo, questo è il sentimento che esprime S. Paolo là dove dice: [...OMISSIS...] . Or questa è nuova cagione per la quale il mondo non riceve o rifiuta di considerare la dottrina del peccato originale, la quale gli è troppo triste e malinconiosa, eziandiochè vera. Indi lo spirito del mondo si fa uno spirito di solazzo, di gaiezza e di accontentamento appunto della carne, così dalla Chiesa ripresa e vituperata. Il peccato originale adunque è quella gran dottrina la quale mette quella grande separazione che pure è tra l' operare della Chiesa e del mondo. Egli è manifesto che il peccato originale è il fatto solenne della umanità, il quale determina il vero e proprio suo stato. Or la morale deve esser acconcia al soggetto per il quale ella è fatta: e però un fatto che modifichi l' uomo, soggetto della morale, egli è evidente che deve recare una modificazione corrispondente in tutta la morale dottrina. Ma la filosofia non è stata solita di considerare i fatti solenni che hanno modificata la natura umana e hanno condotto l' uomo a essere quello che è: ma ha preso in veduta la natura umana astrattamente presa senza più. E il fatto del peccato originale tanto più lo ha negletto che esso è un fatto soprannaturale per così dire, cioè a dire un fatto che si lega con un ordine di cose soprannaturali e con una primitiva e immediata comunicazione col Creatore; e per la stessa ragione questo fatto fu di sua natura proprietà della cristiana teologia. Quindi principalmente nacque il carattere che divide la morale de' filosofi dalla morale cristiana. Perocchè quelli non poterono considerare l' uomo se non imperfettamente nelle sue qualità universali e comuni date dalla sua natura: laddove la rivelazione e religione cristiana lo considera fornito di tutti i suoi accidenti e alterazioni da lui sofferte e nei varii stati nei quali egli si trovò di fatto. Egli è perciò che la predicazione del Cristianesimo tende direttamente a sorreggere e riformare la umana natura in quelle parti, nelle quali fu più vulnerata dal peccato originale: onde è suo proprio carattere di inveire contro la superbia e la carnalità, e di soprammodo promuovere la virtù dell' umiltà e della castità, nomi peregrini e al tutto insoliti in bocca alla filosofia. Di più la morale teologica mettendo tutta la forza, per la quale divien possibile all' uomo di resistere contro all' ingiustizia cui gli vien suggerendo la concupiscenza originale, nella grazia del Redentore che solo vinse e riparò il peccato originale; avviene che rivolga la sua morale predicazione principalmente a indurre e consigliare l' uomo di provvedersi di questa grazia nell' orazione e nei sacramenti della Chiesa. Ed egli è per queste vie, di domare la carne colla penitenza e colla grazia, che la morale cristiana trae l' uomo alla reale virtù, mettendo la scure alla radice del male e insegnando quello che diceva di pur fare l' Apostolo: [...OMISSIS...] . Questo scopo determinato e che batte il sodo e nel vero dell' uomo, è appunto ciò che manca alla morale filosofica. Essa vi propone dei bellissimi precetti, ma tutti vaghi e universali, i quali non discendono ad applicarsi allo stato dell' uomo infermo e caduto sì come egli è, e non insegnano onde attinger egli possa le forze da rilevarsi; non gli fanno nè conoscere il suo male, nè il rimedio del medesimo; e finalmente da una parte non ha coraggio di proporgli tutta intera la virtù, temendo di sgomentarlo; dall' altra non la conosce: perchè una tale morale è essa stessa l' opera di quel medesimo uomo infermo e scaduto cui solo può guarire e rilevare un medico maggiore di lui, un altro essere sopraumano che tenda a lui soccorrevoli delle braccia piene di pietà e di misericordia. Le dottrine cattoliche da noi esposte sul peccato originale mi chiamano a lumeggiare meglio con esse una osservazione altrove per me fatta, cioè che la divina rivelazione, ossia quel complesso di dogmi che forma la sostanza della fede cattolica, suppone sotto di sè e accenna una filosofia, il ricercamento della quale Iddio commise alla umana ragione da lui stesso sovvenuta e aiutata, acciocchè col trovare i principii e le ragioni delle verità, dia essa ragione un tributo alla fede, la quale acquista di continuo una vie maggior luce e bellezza. Così noi veggiamo nelle divine Scritture e nei libri de' Padri della Chiesa che contengono il deposito della fede, parlarsi di verità le più sublimi e recondite colla massima precisione e sicurezza: e tuttavia confessare assai di sovente di non avere ragione naturale con la quale provarle, ma solo l' autorità di Dio che le ha fatte conoscere agli uomini. Tuttavia mettendosi poi l' ingegno umano a partito, procedendo innanzi le investigazioni filosofiche della umana natura e della divina, e a questo fare venendo stimolati principalmente i maestri stessi della Chiesa dalla disposizione della divina Provvidenza, la quale permette che gli eretici o gli infedeli o tutti quelli che si fanno nemici a Cristo, insorgano contro alle verità rivelate e accampino contro di esse delle obiezioni cavate dalla ragione naturale; allora, dico, si vanno trovando e scoprendo altresì tali verità naturali, le quali e valgono a ribattere le opposizioni avversarie e sorreggono o fiancheggiano mirabilmente gli stessi dogmi rivelati, mostrandoli di un perfetto consentimento ed accordo coll' intima natura delle cose e resi fin necessarii da questa natura delle cose ben conosciuta, di modo che l' ordine stesso delle cose naturali diverrebbe un assurdo, non che un enigma inesplicabile, quando quell' ordine di verità soprannaturali non fosse. Insomma, come ho detto ancora, la verità rivelata è un cotal compimento della verità naturale e presuppone questa sotto di sè, a quel modo che una dipintura suppone sotto di sè la tela sopra di cui è lavorata; e molte dottrine rivelate, o non sono misteriose se non perchè rimangono ancora a trovarsi quelle naturali verità che formano come l' addentellato a cui esse si continuano, o certo, trovate queste, cessano dall' essere difficili a credersi, e come che sia sublimi si fanno però tali che riesce sommamente difficile a non credersi. Il che forma una manifestissima prova della verità della divina rivelazione. Perocchè non può esser l' opera degli uomini una dottrina che gli uomini, i quali per molti secoli l' hanno insegnata, confessano inesplicabile e di cui non dànno altra prova che la divina rivelazione: una dottrina che tuttavia nel correre dei secoli acquista sempre più luce: una dottrina che per quantunque nuove verità naturali si scoprano, ella non si trova mai in contraddizione con alcuna: una dottrina che anzi si mostra in mirabile accordo colla filosofia più che questa si approfondisce e che perciò mostra supporre sotto di sè la più profonda filosofia, quasi un suo preliminare: quindi una dottrina che non potè essere annunziata se non da un Essere che fosse già in possesso precedentemente di una tale filosofia, che ad essa dottrina forma quasi direi un sotterraneo e tutto occulto fondamento. Queste generali osservazioni ricevono appunto lume dal dogma del peccato originale. Esso è annunziato nelle divine Scritture come un fatto, nè si pone cura ad accompagnarlo di alcuna ragione. Egli anzi alla ragione umana di prima giunta si presenta siccome il più mostruoso assurdo o certo come un impenetrabile mistero. Tuttavia la Chiesa lo insegna costantemente, non adducendone altra prova che l' autorità di Dio rivelante; e sicura di questa sola fede, sebbene alla ragione apparentemente contraria, lo proclama in modo che il toglie anzi ad uno de' principali cardini di tutto il suo insegnamento. I Padri della Chiesa, quelli stessi che sono riputati come ingegni naturali i più straordinarii, confessano di non poter penetrare la oscurità di questo mistero. S. Agostino stesso, la cui mente era considerata da un filosofo dei nostri tempi inimicissimo della religione (1), dichiara che « come non vi era nulla che fosse più noto del peccato originale per la predicazione della Chiesa, così non vi aveva nulla che fosse più secreto e nascosto all' intelligenza« (2) ». Questo gran Padre, dopo le più profonde meditazioni sopra questo argomento, non trovava che sempre nuovi imbarazzi. La natura del peccato originale lo sconfidava di penetrarla e piegava la fronte dicendo che vi si inchiude una occulta giustizia di Dio (3). La propagazione di esso peccato non gli era men forte nodo, e traendolo nella questione dell' origine dell' anima, il faceva perdersi in quest' altro labirinto, giacchè da una parte non poteva concepire alcun modo onde le anime potessero propaginarsi; e dall' altra « confessava di non poter spiegare a sè medesimo, come mai l' anima possa trarre il peccato da Adamo, se essa stessa non viene pure da Adamo« (4) ». Or dunque se la ragione umana nel suo massimo vigore non poteva dare alcun suffragio al dogma del peccato originale, non è egli evidente che questo dogma, conservato pur dalla Chiesa senza dubitazione alcuna, non poteva venire dagli uomini, ma da una sapienza più sublime? Dico da una sapienza più sublime, perocchè quantunque questo dogma non presentasse alla ragione se non un inesplicabile mistero, tuttavia da una parte la ragione stessa non potè mai trovare in nessun tempo un principio evidente che fosse in evidente contraddizione con esso, e dall' altra oggimai io credo non essere difficile d' accorgersi che si possa dare e che veramente si dia una filosofia, la quale rechi molta luce sulla stessa dottrina dell' original peccato e faccia in essa dileguarsi molte di quelle nubi che l' ignoranza umana vi vedeva, o piuttosto vi produceva. E se questa filosofia si dà veramente, parmi che a lei dovesser far buon viso tutti i cattolici. Perocchè l' accordo perfetto in cui ella verrebbe a trovarsi col Cristianesimo, e segnatamente con questo terribile dogma del peccato originale che essi credono per fede, dovrebbe fare a lei appo loro buona raccomandazione e prova efficace di sua verità. All' opposto persuasa colla virtù delle sue prove intrinseche una tale filosofia a coloro i quali discredono la cristiana religione e per troppo forte nodo hanno il peccato originale, essa dovrebbe avvicinare costoro, quanto può ragione naturale, al cristiano insegnamento. Sicchè la filosofia e la teologia si darebbero così insieme mano e l' una aiuterebbe l' altra in vantaggio degli uomini. Ora, egli è appunto questa filosofia la quale giace occulta nelle viscere della cristiana teologia, che noi ci siamo proposto di aiutare perchè venga alla luce: facendo ancor noi, (se ci è permesso di usare in altro senso la frase di Socrate) l' ufficio, quasi direi, di levatrice. E veramente tutta la dottrina del peccato originale riceve chiarissima luce da due verità filosofiche, le quali noi abbiamo provato con ragioni naturali e che costituiscono per così dire la teoria filosofica dell' uomo, cioè: 1. Che si ha una distinzione reale tra l' esservi nell' anima un sentimento ed un' idea qualunque, e l' avvertenza di quel sentimento e di quell' idea. Di modo che vi possono essere e vi sono nell' anima dei sentimenti e delle idee di cui l' uomo non ha nessuna avvertenza per molto tempo, acquistandola poi mediante l' uso della sua riffessione. 2. Che l' uomo fino dal primo istante del suo esistere ha un sentimento fondamentale e l' idea dell' essere universale, dei quali però egli non ha ancora avvertenza. Dai quali due elementi succede poi tutto lo sviluppo umano, perocchè tutte le sensazioni che riceve appresso non sono che modificazioni di quel primo sentimento; e tutte le idee che egli acquista e i ragionamenti che fa, non sono che i sentimenti veduti in rapporto coll' idea dell' essere, o rapporti di rapporti. Ben provate queste due verità, tutto ciò che ha di più oscuro la natura del peccato originale si chiarifica. Perocchè non è più un assurdo apparente, ma anzi una verità chiarissima di dire, che nel fanciullo appena nato vi abbia una volontà verso l' essere in universale, la quale sia piegata e tirata dalla violenza del sentimento animale; sebbene questa volontà non sia libera. Ed or, ciò posto, una immoralità si trova nell' uomo fino dalla prima sua esistenza, la quale ha ragione di peccato , sebbene non abbia ragione di colpa , perocchè a formare il peccato abbiamo detto bastare la volontà , a formare poi la colpa esigersi altresì la libertà . Ora ciò che è peccato nell' infante, considerato in lui solo, niente vieta che si chiami colpa, considerato in relazione colla prima libera volontà che il cagionò, cioè colla volontà di Adamo (1). Egli è per ciò che con molta assennattezza, per nostro avviso, Vincenzo Palmieri in un suo libro scrisse così: [...OMISSIS...] . Da questo passo apparisce che il citato professore di Teologia dogmatica sentì lo stretto nesso che aveva la questione filosofica dell' origine delle idee col dogma teologico del peccato originale, e che questo portava la risoluzione di quella nel suo seno. Egli è vero che l' acuto teologo che ciò vide, non potè però indicare un sistema delle idee innate che potesse al tutto reggersi e sostenersi contro gli avversarii; perchè non ne aveva altri che quello di Cartesio e quello di Malebranche: ma ciò non toglie che egli intravedesse la verità che noi tocchiamo. Il peccato non accennava se non la necessità di un sistema filosofico che ammettesse qualche cosa d' innato, ma non diceva che solo una diligente e fedele investigazione della natura della mente umana doveva poi trovare che cosa fosse questo che d' innato; e questa ricerca da noi affrontata ci condusse alla teoria della naturale intuizione dell' essere in universale. Si dica il medesimo circa la questione dell' origine dell' anima, che ha pure un così stretto rapporto, sebben filosofica, col dogma puramente teologico della trasfusione del peccato originale. Il dogma della trasfusione poteva egli essere inventato da chi non conosceva la soluzione di quella prima questione? Ma si consideri la soluzione che noi ne abbiamo dato; e poi quanta luce, ci si dica, non manda fuori di sè un insegnamento sì strano a prima giunta come quello che dichiara originario un peccato? Quel maestro che lo insegnò il primo, non doveva essere qualche gran cosa, se confidò agli uomini un risultamento che non poteva dare se non una dottrina, che non sarebbe stata nota se non quando il mondo fosse ben vecchio? Delle riflessioni simili a queste mi potrebbe somministrare la dottrina della Chiesa intorno alla maniera nella quale ella insegna che i fanciulli vengono mondati dal peccato originale nel santo battesimo. Perocchè la Chiesa chiaramente e costantemente insegna ed ha sempre insegnato, che nel battesimo non solo vien rimesso il debito contratto dalla natura umana con Dio, ma che viene purificata l' anima stessa del fanciullo dalla macchia originale e che in quest' anima viene infusa la grazia dello Spirito Santo e gli abiti delle virtù teologiche della fede, della speranza e della carità. Ma cerca ella la Chiesa di spiegarci come avvenga tutto ciò nell' anima del fanciullo che non dà ancora nessun segno esterno di uso di ragione? Non cerca: solo ci dice che questo è la verità e ci ingiunge di crederlo. - Ma non è egli una tale dottrina opposta al pensare comune degli uomini e apparentemente assurda anche agli occhi della filosofia che non iscopre in quel bambino appena nato nè idee, nè volontà, nè perciò discernimento e amore del bene e del male? - Di tutto questo non si dà veruna pena la Chiesa: non risponde a tali obbiezioni se non solo con queste parole: Chichessia ciò non crede, sia anatema. I maestri poi anche più insigni della religione cristiana parlando di ciò confessano assai spesso la loro ignoranza ed è loro frequente in bocca: così è, ma in che modo ciò sia la ragione lo ignora, perocchè vi giace un mistero. Non si è parlato così solamente nei primordii del cristianesimo, ma dai più gran genii dei secoli moderni: e quando è venuto a questo punto lo stesso Bossuet, ha dovuto conchiudere con queste parole: « Egli è questo il mistero dello Spirito Santo« ». A me pare di veder ben chiaro l' impronta di un magisterio divino in questa maniera di enunziare le più sublimi verità e apparentemente contrarie alla ragione come altrettanti fatti indubitabili senza fornirli di loro ragioni e spiegazioni: il ciò farsi per molti secoli e il venir solo in ultimo col progresso delle scienze trovate quelle ragioni che rendano quei misteri chiari, o certo che li dimostrino, anzi che contrarii alla ragione, ad essa medesima necessarii e d' essa nobile finimento. E veramente quando si conosce lo stato del fanciullo a quel modo che egli risulta dai principi filosofici per noi dimostrati, non ci rende egli manifesto come la infusione delle virtù teologiche e il raddrizzamento e sollevamento a Dio della volontà possa aver luogo? E poichè ho toccato di sopra una parola di Bossuet da lui proferita nella celebre disputa che tenne col ministro Claudio, non sarà inutile che io arrechi ancora un passo dello stesso insigne prelato, tolto dalla relazione di quella medesima disputa. Questo passo mi varrà a dimostrare due cose: 1 Come il gran Vescovo di Meaux colla sua solida mente giunse a vedere il rapporto strettissimo della dottrina della Chiesa colla questione filosofica intorno alla natura dell' anima intelligente, e come quella dottrina della Chiesa richiedeva assolutamente che questa questione si risolvesse in modo che l' anima dovesse avere una comunicazione primitiva e naturale colla verità: 2 Mi varrà a mostrare quanto cautamente la sana mente di quel prelato toccasse questa risoluzione, non buttandosi perciò nel sistema delle idee innate di Cartesio (come poco avvedutamente vedemmo fare più sopra un teologo italiano), ma anzi si contenesse dentro a' giusti limiti, non avanzando più di quello che la necessità richiedesse ed esigesse di quelle cattoliche dottrine delle virtù infuse. Perocchè avendo ridotto il ministro protestante e strettolo a confessare che sviluppandosi nel fanciullo battezzato la ragione, questo non può premettere alla fede delle verità che gli sono proposte da Santa Chiesa alcun esame e alcuna dubitazione, ma deve crederle subitamente; e che il mezzo onde può far ciò non è altro che la fede infusa nel battesimo; restava a levare la difficoltà che faceva il protestante, come questa fede infusa potesse essere ragionevole nel fanciullo, senza esame e non facendo uso della ragione. Or ecco come l' egregio prelato si fa a rispondere: [...OMISSIS...] .

Introduzione alla filosofia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

E tanta e così efficace è l' abbondanza degli argomenti svolti da que' savi, i quali s' opposero a che il genere umano non venisse spossessato del suo più prezioso patrimonio, la verità, tanta è l' eredità d' una scienza salubre di che i nostri maggiori ci lasciarono doviziosi; che noi crediamo, non avervi oggimai più forse un solo errore nocevole, che con quell' armi, a ben maneggiarle, non si abbatta, nè un sofisma, la cui fallacia non si possa in piena luce svelare. All' accumulamento di uno così smisurato tesoro di dottrine concorsero tutti i secoli, e specialmente que' diciannove, che dalla luce del Vangelo acquistarono un nuovo e più perfetto intendimento; e quelle furono consegnate da innumerevoli scrittori ad una serie di volumi, che, quantunque dalla guerra del tempo e delle peripezie de' popoli diminuita e lacerata in parte, rimane ancora grandissima. E Dio volesse che i presenti conoscessero quanta ricchezza possedono, e avessero il petto caldo di tanto amor della scienza, di tanto desiderio del vero, che, con assidua diligenza e costanza, traessero, scrutando le pagine de' libri dottissimi, quell' oro che vi si contiene, e l' adoperassero a loro profitto! Ma uno studio solido e tollerante in questo mollissimo secolo è raro pur troppo, e la superbia delle cose materiali e superficiali sdegna la fatica delle spirituali e profonde: leggonsi i libri d' una giornata, si spregiano quelli de' secoli. Onde la presente generazione, come vecchia rimbambita, sembra nuova e disarmata contro quelle fallacie, che già le tante volte furono da' suoi padri disciolte e disfatte. Il che dimostra la necessità di compilare in nuovi libri e con più trita esposizione quelle stesse verità elementari, senza le quali la vera vita dell' uomo perisce, e rinfrescare quegli argomenti che le proteggono dalle cavillazioni: chè le une e gli altri, quantunque registrati negli archivi dell' umana scienza, vi giacciono spesso dimentichi, e quasi coperti di polvere. Il quale è uno de' fini, a cui intendono le opere che si danno in questa raccolta. E la necessità di propugnare così preziose verità via più s' intende, ove si consideri che gli errori vestono di continuo novelle forme e si svolgono in nuove propaggini, sicchè, quantunque antichissimi nelle loro radici, sembrano alla vista nuovi e inauditi; a cui perciò egli è uopo contrapporre argomenti, in nuovi modi atteggiati e questi sviluppar maggiormente. Tanto più che non è propriamente l' errore che seduca il genere umano, il quale è chiamato dalla sua stessa essenza alla verità; ma è sempre la forma dell' errore, che lo tenta e lo illude, come quella che, mascherando il falso, lo rappresenta alle male accorte intelligenze sotto il vestimento e la figura del vero. Onde tutta l' arte di colui che, ragionando, si propone di proteggere l' umana mente contro a quella funestissima seduzione, si riduce a questa, di trarre d' addosso all' errore il vestito non suo: perocchè tutti gli uomini necessariamente lo abborriscono quand' egli è mostrato ignudo, nè possono pure sostener la vista della sua propria naturale deformità. Si perpetua nell' uman genere la tradizione dell' errore a fianco di quella della verità. Ma nè l' una nè l' altra è una semplice tradizione, sì un progresso; non un progresso di sostanza, ma di forma, e propriamente di forma dialettica. La Psicologia riduce ad un solo principio questa rimutabilità delle forme dialettiche nella quale si presenta il pensiero alla mente, colga egli o non colga nel vero. Perocchè quella scienza insegna, che la prima e più universal legge, che governa il progressivo sviluppo dell' umana intelligenza, esige che questa dalla prima e diretta cognizione salga ad una prima riflessione, e quindi ad una seconda, e da questa poi ad una terza, e così di mano in mano senza alcun salto, per una scala di riflessioni più elevate. Laonde il continuo operar della mente non solo nell' individuo, ma ben anco nella stessa società e nel genere umano (ne abbia egli coscienza o no), s' affatica senza posa a tradurre tutti i suoi conoscimenti da un ordine ad un altr' ordine di maggior riflessione, il che è appunto un mutare la loro forma dialettica e mentale. Perocchè ciascuno di questi ordini di riflessione dà una sua propria forma al conoscimento, e cotanto distinta dalla precedente, che non è agevole accorgersi dell' entità del subbietto scientifico, che, di quelle varie forme rivestito, si dà a contemplare. E come ciascuno di questi ordini graduati di conoscere atteggia in diversi modi la cognizione, così ciascuno trova pure una nuova lingua a sè appropriata, onde avviene che le disputazioni agitate tra quelli, le cui menti sono pervenute ad uno di questi ordini e quasi sfere di concepimenti, non riescano intelligibili agli altri che non vi sono ancora saliti; e a quelli poi, che, montati colle operazioni della mente qualche grado più sù, portaron la disputa in un ordine di riflessione più alto ancora e quindi in un nuovo agone combattono, a questi torna difficilissimo l' intendere, come la loro sia la medesima questione che prima di loro veniva da altri agitata, parendo due le questioni per la diversità del linguaggio, e, quando pur s' accorgessero dell' identità della disputata materia, male ancora s' appagherebbero delle risposte e delle soluzioni precedenti, che riuscirebbero loro o rozze ed ineleganti, o inadeguate. Di che si raccoglie, che quando si propongono gli errori, sebbene antichi, di nuovi concetti vestiti, e con un nuovo linguaggio s' impugnano le salutari verità, l' uomo ritorna ad essere tentato e facilmente sedotto, come se quegli errori per la prima volta fossero insinuati, e que' sofismi non fossero giammai stati dissipati. Allora dunque è mestieri tornare a rispondervi e risolverli di nuovo, ma con ragioni che abbiano anch' esse una forma che corrisponda a quell' ordine di riflessione, al quale le contrarie istanze sono elevate. E allorchè questo ripetuto lavoro de' difensori della verità cogli studii di molti, e non senza esser corso un certo spazio di tempo, è condotto alla perfezione, e a tutte le necessarie risposte è trovata la veste opportuna, sicchè le contrarie istanze rimangono ripercosse collo stesso linguaggio dialettico, allora è svanita ogni seduzione, e smascherato pienamente l' errore; il quale sarebbe vinto per sempre, se da quell' ora egli non principiasse a cercarsi una forma nuova dentro a un nuovo ordine di riflessioni, quasi il Proteo della favola, e con nuova armatura, risorto a nuova vita, non rinfrescasse la sua battaglia. Ed è per questo che nella vita dell' uman genere si manifestano certe età, quasi sacre all' errore, nelle quali egli sembra che di seduzione e di fallacia sia pieno ogni cosa, e le menti degli uomini compaiono indebolite, e, quasi non vedesser più quel lume che pur hanno presente, vacillino, e cadano ad ogni spinta. I quali periodi sono quelli ne' quali l' errore sempre più attivo, perchè irrequieto, della placida verità, ha prevenuta questa su per la salita delle mentali riflessioni, e s' è ravvolto in una forma più elevata, a cui quella non è ancor giunta nel suo tranquillo procedere. Sembra allora agli uomini che l' errore abbia vinto, come quello che armeggia in un campo, dove per poco non trova avversari. Ma all' aspetto d' un tempo così calamitoso, gli ingegni più eletti, a' quali il vero è più caro del lume degli occhi, temendo che non ne rimanga orbato il genere umano, si riscuotono, e senza riposo s' accingono alla fatica di sollevare la stessa verità a quell' altezza di mentale riflessione a cui già fu portato l' errore, e in quell' ordine di cogitazioni cercano e trovano quelle forme, nelle quali posti gli argomenti per la verità diventano efficacissimi, chè ognuno allora vede essersi risposto alle fallacie dell' errore col suo stesso linguaggio, nel quale racchiuso sembrava prima inattaccabile. Ed allora la condizione intellettuale e morale degli uomini s' ammigliora, e spunta una nuova età, in cui le menti riacquistano l' antico vigore, e si rassodan nel vero, e gli animi riprendono fiducia, e s' emendano col favore della nuova luce, e alla virtù, che della verità è bellissima figlia, si riconducono. E così nella storia dell' umanità è segnata una via di alterni periodi, negli uni de' quali prevalgono i sofisti, negli altri i filosofi, negli uni l' errore baldanzoso s' arroga il nome di filosofia e il comune degli uomini sorpreso dalla nuova foggia del ragionare non glielo contende; negli altri lo stesso errore rimane spoglio con ignominia di quel nome malamente usurpato, riconoscendo pressochè tutti, che in coloro, i quali prima si chiamavano filosofi, non v' era in fondo che un' ignorantissima petulanza (onde questi bei nomi di filosofia e di filosofi rimangono per qualche tempo infamati). E questo alternare di periodi di un fallace e di un vero sapere è una di quelle molte maniere di vicende, che, regolate a misura di tempo e quasi a battuta, dalla provvidenza, come fisse leggi, regolano il corso dell' umanità sulla terra, e, uscendo dal male il trionfo del bene, rendono quel corso, quasi contemperato di varie note, una cotal musica dilettevole al divino intelletto. Nel secolo XVIII i sofisti (e anche questo è uno di quei nomi che in Grecia prima e poi per tutto e per sempre, perduta la prima loro nobile significazione, se ne acquistarono una obbrobriosa, quando i falsi ingegni che se l' erano ambiziosamente appropriato furon vinti dai migliori) occuparono il regno dell' opinione: il libro di Giovanni Locke (1690) fu il segnale dell' aprimento di questo novello periodo di volgarissime e pur efficacissime fallacie. Da quell' ora gli uomini, sviati dalle più ferme e salubri verità, vennero illusi e uccellati con apparenze d' utilità e con magnifiche promesse d' un facilissimo e non mai prima conosciuto sapere: le menti blandite ricevettero in sè docilmente gratuite opinioni e goffi errori nella sfera delle cose religiose, in quella della morale, in quella della politica, in quella dell' umana socievolezza, in tutte le questioni più gravi e più importanti alla salute ed alla vita dell' uomo nel tempo e nella eternità. A' quali errori certo da valentissimi scrittori fu risposto e tuttavia ancor seducono, perchè non impugnati intieramente nelle loro proprie forme. Laonde a queste che, sebbene alquanto appassite, pure non cessano di parer seducenti, par necessario di trovare e contrapporre le forme correlative della verità, il che si tenta, come che sia, di fare in varie opere contenute in questa raccolta. Dicevamo che secondo il disegno della Provvidenza l' occhio della quale non si chiude giammai sul mondo, dal male dell' errore procede il bene del trionfo del vero. E già S. Agostino osservava, che gli eretici occasionano questo nobilissimo vantaggio alla Chiesa, « « che i veri da essi impugnati si considerano per la necessità della difesa con più diligenza, e s' intendono con più chiarezza e con più istanza si predicano »(1). » E altri vantaggi ancora arrecano al progresso fra gli uomini della verità, senza volerlo e senza pure accorgersene, i maestri dell' errore. Chè non potendo essi insinuare l' errore nelle menti se non ammantandolo col vestito della verità, non distruggono l' amore di questa in universale a cui anzi prestano testimonianza, e di più sono obbligati di mettere attorno al falso alcuni brandelli della stessa verità, onde prenderne l' avviamento de' loro discorsi e il principio de' loro sillogismi. I quali brandelli sogliono essere per lo più alcune parti di verità, che fino allora erano meno osservate e da' legittimi e sinceri maestri forse neglette, onde con quelle, siccome con altrettanti veri trovati e inculcati da essi, si raccomandano nell' opinion degli uomini e ne magnificano la propria scuola. Di che accade, che colla stessa industria colla quale intendono propagar l' errore, traggono alcuni veri, giacenti quasi nell' ombra, in aperto lume, e così ogni particella della verità ha il suo tempo di venire a galla, d' acquistare il suo giusto valore e di mettersi in corso, servendola di ciò gli stessi nemici. E tuttavia gli uomini che abboccano a quest' esca del vero, rimangono pur troppo presi nell' amo del falso. Al quale danno non poco contribuisce una cotale apparenza di merito, che a' fallaci dottori appartiene. Perocchè cotesti non potendo sedurre gli uomini, se non col trasferire, siccome noi dicevamo poco fa, gli errori antiquati, a cui era stato già cavato il pungolo velenoso da lucidissime confutazioni, in una regione di riflessioni più alta, sforzano i savi che li vogliono combattere a seguitarli, e ad innalzare seco stessi la verità, le forme della quale così s' ingrandiscono agli occhi dell' umana intelligenza; chè l' uomo venuto ad una riflessione maggiore fa appunto come colui, che dalla valle recatosi all' altezza delle vette de' monti, di colà scorge un orizzonte smisuratamente più vasto del primo. Veramente ad ogni ordine di riflessione, battano queste nel vero o nel falso, lo sguardo dell' umano intendimento prende un nuovo orizzonte di scienza o vero od illusorio. Di che non fa maraviglia, che i falsi savi attirino a sè gli uomini colla novità delle forme e coll' originalità del linguaggio, chè la novità, quasi fosse luce, occupa e diletta la mente sempre avida di sapere e prontissima alla speranza di francare i limiti antichi, l' originalità la sorprende e ne riscuote l' ammirazione; e però coloro, che con questi modi si presentano maestri degli uomini, non falliscono mai d' acquistarsi nella volgare estimazione il nome e la fama d' antesignani del sapere e del progresso. E perchè noi dobbiamo essere giusti a tutti, fino al primo autore del male, riconosciamo noi pure, che i sofisti in qualche senso sono gli antesignani del progresso scientifico, in quanto che, con sempre nuove assurdità, essi riscuotono quelli che possedono il vero dalla loro quiete, e li sforzano all' opera di sospingere innanzi l' umano intendimento. Così avviene che questo, pel corso de' secoli, va contemplando la bellezza dell' immutabile verità da tutti i suoi molti lati, de' quali sol uno alla volta ella presenta alle umane menti, e sotto tutte le più nobili forme di cui ella possa rivestirsi. Perocchè è troppo vero, che i savi, ove non sieno vivamente scossi al pericolo della verità che li appaga, assalita da apparenti fallacie, o a quello de' loro simili colti facilmente in queste reti, non dimostrano a pezza quella straordinaria attività, che negli ingegni falsi e cavillatori viene suscitata, secondo l' espressione d' Agostino, dalla loro calda inquietudine. Ma quantunque i figliuoli di questo secolo sieno più prudenti de' figliuoli della luce, il progresso che procede indirettamente da' loro errori non può ascriversi a loro merito, benchè sovente gliel' ascriva la moltitudine nella sua semplicità captivata: chè qui ogni merito non è dell' uomo, ma dell' altissima provvidenza che presiede allo sviluppo dell' umanità, e con infallibile effetto l' ottiene, sia permettendo quel male, che lo provoca quasi stimolo, sia producendo ed operando quel bene che lo compie; epperò nell' immenso suo regno, dove ogni essere è limitato e niuno può far da sè solo alcuna cosa compita, ella adopera ciascuna maniera di enti a lavorare una parte della grand' opera da essa ab eterno contemplata, ora licenziando l' arguzia degli ingegni straniati ad irrompere coll' errore in una nuova sfera di mentali riflessioni, ora aiutando le sane e rette intelligenze a recare in quella stessa la verità, pel qual movimento alterno, come dicevamo, progredisce sollecita a' suoi destini l' umana mente e l' uman cuore con essa. Aggiungi, che il Dio della verità, che con tanta sapienza mette a profitto tutte le potenze e le volontà umane, buone o triste, senza violentarle ad accelerare la realizzazione di quell' idea in cui egli mirava creando l' universo, trae di quell' impaziente operosità d' alcune menti che rifuggendo dal vero lo cercano tuttavia continuamente nel falso, un altro nobilissimo vantaggio a pro di coloro che della sincera verità si dilettano. Poichè questi all' esempio di quelli si sentono provocare ad emulazione, ed esperimentano di necessità una cotale erubescenza considerando la propria inerzia intellettuale, che facilmente scade alla lassezza ed alla infingardaggine, col paragone di quella faticosa e sempre mai irrequieta assiduità. E questo pudore de' buoni ingegni al vedersi precorsi e avanzati nelle scientifiche investigazioni da coloro, che le rivolgono ad offuscare le prime e più salutari verità, in cui pende la vita intellettuale e morale dell' uomo, se mai fu lodevole in altri tempi, in questi nostri è divenuto manifestamente doveroso, ed è così vivamente sentito, che io mi credo, niuno degli onesti che s' applicano alle lettere ed hanno cuore, il possa evitare. Perocchè ci stanno davanti tanti secoli, e in essi l' esperienza tante volte replicata del danno improvviso e quasi procelloso sopravvenuto al mondo per la divulgazione di funestissimi errori, i quali non trovando sufficientemente preparati ed armati quelli che avrebbero dovuto combatterli appena nati, e che allora neppur li riconobbero per quel che erano, ebbero tutto il tempo e l' agio di radicarsi nelle menti, e di farsi adulti e gagliardi, rendendosi poi l' opera del vincerli e dello schiantarli oltre misura più ardua e lunghissima. E questo stimolo che la Provvidenza aggiunge naturalmente agli amatori del vero e del bene, coll' esperienza de' fatti che ella permette, è quel medesimo col quale il divino autor del vangelo spronava i suoi discepoli ad emulare nel bene la prudenza de' figliuoli delle tenebre, ed insegnava, addotto l' esempio dell' amministratore infedele (1), a saper trovare negli stessi malvagi qualche cosa degna d' imitare: che anzi nel giudice iniquo, nel tepido amico, nel principe crudele (2) egli accenna un elemento per sè non reo, che ritrae alcuna somiglianza di quelle leggi, colle quali Iddio medesimo suole operare. Riscosse le intelligenze de' migliori a tali eccitamenti ed ammonimenti, e già infervorate non più solo a dissipare i cavilli di quelli che invidiano agli uomini la luce della verità, ma a prevenirli, s' accende in esse un nuovo ed incredibile desiderio di recare la verità stessa alla sua ultima e più nobile forma ed espressione, e, percorrendone tutto il campo, raccorne ogni membro, e decentemente al suo tutto congiungerlo, facendone riuscire un corpo scientifico di tanta bellezza e luce, che l' odio sì possa oltraggiarlo, non più il sofisma, con qualche probabilità di guadagnar le menti offuscarlo. Il qual desiderio nobilissimo che incomincia a farsi sentire soltanto ad una certa età della vita umanitaria, ed è un nuovo sviluppo di quel tesoro di germi che l' umanità nasconde nel profondo della sua essenza, e nol conosce ella medesima prima che al suo atto esteriore si maturi, cresce in appresso ognor più coll' invecchiare del mondo. E chi molto o poco nol sente in questa nostra età? Ora quale spirito gentile può esserci, che vedendosi davanti tanti nobili veri, utilissimi e fertilissimi, quanti sono quelli, che purgati ed accertati dai sapienti, giacciono consegnati alle carte di cui ogni secolo a noi fè dono, non desideri e non chieda qualche grande sintesi, nella quale tutti quasi d' un solo sguardo si possano abbracciare, que' veri, ordinati a bella unità, e nell' evidenza d' un loro supremo principio di nuova vita accresciuti? Perocchè come da tutte le maniere d' errori sembra che oggimai sia stata travagliata successivamente la verità; così di mano in mano tutte le sue parti più sostanziali furono e validamente difese e descritte con diligenza e con singolare amore ed eloquenza illustrate e adornate. Laonde, la mercè di quelli che istantissimamente s' adoperarono ad oscurare il vero e che insensatamente ambirono alla celebrità di vericidi, è venuto per l' uman genere un' età di tanto suo sviluppo, che i buoni e diritti ingegni, i quali prima (comunemente parlando e fatta eccezione ad alcune menti straordinarie) o s' accontentavano di possedere quasi per abito la verità o si levavano a difenderla solo quand' era assalita, vedendosela ora innanzi divenuta così ricca e molteplice, già si sentono accesi di contemplarla raccolta nella sua scientifica integrità, e di coltivarne lo studio meno ancora per rifiutare gli errori, che per possederne la forma più elegante, e pascersi consapevolmente di quella nuova luce, di cui, nel suo compiuto disegno, ella mostrasi sfolgorante. Nè deve rallentare lo sforzo delle nostre intelligenze a soddisfare questo nuovo bisogno che la Provvidenza ha risvegliato in esse coll' opera de' secoli ne' quali fu combattuta parte a parte e parte a parte difesa la verità, il pensiero che anche dopo essere noi riusciti a inserire in un solo corpo di scienza, con perfetta euritmia, le sparse membra del vero, i sofisti non si ristaranno perciò dall' opera loro, e dedurranno da una riflessione ulteriore nuove fallacie, tendendo con esse nuovi agguati alle menti. Poichè è necessario distinguere tra le singole parti, e il sistema intero della verità. Quella serie d' ordini di riflessioni, che noi abbiamo accennata, si prolunga indefinitamente rispetto alle singole parti; non così da quel punto, in cui la riflessione, lasciate le parti, dee occuparsi del tutto: questo non ammette quegli ordini indefiniti; chè quando una riflessione abbraccia veramente il tutto, un' altra non trova più alcuna nuova materia (non restando altro fuori del tutto), e però ella s' identificherebbe colla precedente, nè da questa si potrebbe distinguere. Laonde, supposto che una volta sia trovato e bene costituito l' intero sistema della verità, non si può più continuare quella lotta se non presso coloro che non vogliono prender cognizione di quel sistema, ovvero che, dopo averla presa, vi ricusano l' assenso dell' animo, nel qual ultimo caso rimane la lotta delle volontà, anzichè quella degli intendimenti, una lotta cioè che niuna scienza, niuno umano argomento può ricomporre, giacchè l' uomo è libero, e la libertà può ben esser condannata dalla ragione, ma vinta solo da Dio. Egli è dunque desiderabile che oggidì tutti gli studiosi del vero e del bene, amici fra di loro, pongano la loro industria nell' opera di comporre (giovandosi dei materiali che il tempo ha già così copiosamente accumulati) quel sistema intero della verità che noi dicevamo, e per aiutare comecchessia quest' impresa, anche noi tentammo noi stessi. Noi diremo appresso in che modo credemmo di poter accingerci a questo tentativo: vogliamo per intanto avvertire come questo secondo fine de' nostri studi serbi un' intima relazione col primo. Poichè prendendo un tale intento per mira s' incontra per via una nuova maniera più efficace e più completa d' impugnare gli errori. Altra cosa è dimostrare che una dottrina è falsa, ed altra insegnare di più qual sia la dottrina vera da sostituirsi. Il primo assunto è assai più agevole del secondo, ma non soddisfa ad ogni bisogno delle menti, le quali per natura avide della verità chiedono che la si annunzi loro espressamente, e tanto poco s' appagano di maestri che si limitino ad impugnare gli errori (il che è un ammaestramento negativo che distrugge ma non edifica) che per la molestia che loro arreca il rimanersi, tolti di mezzo gli errori, tuttavia nell' ignoranza e nell' incertezza, s' attengono fortemente a qualunque opinione, per poco che ella goda di una probabile apparenza o di qualche fama, e dagli errori stessi assai più difficilmente si staccano, quando s' accorgono che, depostili, non hanno perciò guadagnato alcun positivo conoscimento. Anzi questo è uno di que' costanti artifizi co' quali i maestri degli errori traggono gli uomini alla propria scuola e ve l' invescano, il prometter loro una scienza positiva, certa, superiore a tutte l' altre, atta a spiegare ogni cosa; chè la loro formola infine è sempre quell' antica; « In qualunque giorno mangerete di questo frutto si apriranno gli occhi vostri, e sarete siccome Iddii, scienti il bene ed il male; »colla quale l' antichissimo de' sofisti invitò i primi parenti a giudicare il divieto divino; e questo era appunto un far ascendere il loro pensiero ad un ordine di riflessioni superiore, formandosi il giudizio con una riflessione più alta di quella, a cui appartiene la notizia della cosa su cui si giudica. Da quell' ora ad una riflessione erronea convenne di necessità contrapporre un' altra verace, e tale fu veramente il giudizio che pronunciò Iddio sul colpevole giudizio di Adamo; e la disputa del vero col falso, dell' argomento col sofisma è divenuta inevitabile. I maestri del vero non corrono così facilmente a promettere come i seduttori, i quali non si curano dell' attenere, ma di sorprendere, e fare al momento seguaci. Ma ora sembra venuto quel tempo, in cui necessiti soddisfare con una positiva esposizione della verità a modo di scienza, la curiosità tanto cresciuta, anzi divenuta in tutti gli animi pungentissima di sapere in questa forma riflettuta. Tanto più che qualora non si possa contrapporre una dottrina sana e luminosa a quella che si vuol combattere, bene spesso accade che questa non si lasci nè intendere nè vincere compiutamente: se ne parano i mali effetti, se ne mostrano le conseguenze assurde; pure la radice non è schiantata, e talor' anco, senza avvedersene, si coltiva la pianta de' frutti mortiferi. Il qual difetto si può osservare ne' bene intenzionati nostri scrittori. A ragion d' esempio per ciò che riguarda la questione del sensismo e del soggettivismo, fonte di tutti i moderni delirŒ, invano il Galuppi disse di confutarlo a Napoli, il Bonelli a Roma, molti nell' alta Italia: questi ed altri filosofi italiani (per non parlar che de' nostri) non potendo sostituire al sensismo e al soggettivismo alcun sistema positivo intorno alla natura ed all' origine della cognizione, mentre pur ne dimostrarono alcuni accidentali difetti, lasciarono saldo nelle loro scritture il ceppo di quegli errori, e, quasi diradandogli intorno il folto de' suoi silvestri virgulti, lo resero più vivace. Che anzi tanto è difficile conoscere tutto il veleno nascosto nell' errore quando lo si combatte soltanto e non si raggiunge il sistema vero da sostituirvi, che noi ancor poco fa udimmo un Collizi, un Mastrofini, un Costa ed altri venirci a dire che il sensismo fu calunniato, e, persuasi d' averlo essi già d' ogni macchia purgato con alcune accessorie modificazioni, tesserne l' apologia! Noi ci siamo dunque consigliati di prendere il cammino contrario, cioè di cercare prima d' ogni altra cosa in qualsiasi questione ed investigazione il vero positivo, e questo, il meglio che per noi si potesse, descrivere e stabilire: su questo poi quasi su fermo appoggio puntar la leva per dare all' errore la rivolta. Ed abbiamo creduto talmente importante ed utile quel primo intento, che non sempre ci siamo poi trattenuti ad assolvere il secondo, parendoci facilissimo a ciascheduno che il brami, conosciuta solidamente la verità, dedurne la rifutazione dell' errore; massimamente che ci parve tanta esser la fecondità e la potenza di quella, che non un solo errore, ma innumerabili cadono bocconi al suo cospetto, e il parlare specificamente di tutti sarebbe cosa infinita. Così alla domanda assai naturale che sogliono far coloro, i quali si convincono in qualche disputazione d' essere ingannati: « diteci dunque qual sia il sistema che in questa materia si deve tenere, »noi credemmo di non ammutolire, e procurammo di dare quella soddisfazione, di cui hanno, in qualche modo, diritto gl' interroganti. Qualora dunque si consideri che gli uomini aspirano a conoscere e contemplare la verità, e conoscerla e a contemplarla, i presenti segnatamente, in un modo riflesso ed attuale, perchè ne vogliono godere consapevolmente (e senza l' uso della facoltà di riflettere l' umana mente è inconscia delle sue proprie notizie): se si considera ancora, che non si rappresenta il vero alla riflessione nella sua nudità, ma bensì colla compagnia, e coll' aiuto di cose sensibili, fra' quali i vocaboli delle lingue sono i soli che conducano i passi della riflessione a lungo cammino, di maniera che la verità riflessa e parlata è quella infine che più manifestamente e consapevolmente cercan gli uomini, non ci sarà, speriamo, per noi bisogno di giustificare quell' intento, a cui dicevamo avere indirizzate, qualunque sieno, le nostre fatiche, cioè a raccogliere colla meditazione della mente e a raccomandare a' segni delle parole, ordinata a scienza, quella dottrina che è, o che credemmo essere, IL SISTEMA DELLA VERITA`. Ma se un tale intendimento, per se stesso considerato, non ha bisogno di giustificazione, pure prevediamo che ci verrà rivolta questa ragionevole domanda: « come quell' intendo sia possibile, come abbiamo noi creduto di poterlo ottenere almeno per approssimazione: » Non sono le cognizioni umane, ci si dirà, senza numero? e perciò senza numero le verità? In quante scienze non è oggimai compartito il sapere? e non racchiude ciascuna di esse tanti veri o già trovati o trovabili da riuscir soverchi a qualsivoglia memoria e a qualsivoglia intelletto? »Alla quale questione noi sentiamo il debito di rispondere, e lo facciamo tanto più volentieri, che, rimanendo sospesa, non solo i nostri amici potrebbero, trovando ottimo in se stesso lo scopo, riputarlo nondimeno impossibile e vano e temerario, ma noi non avremmo chiarito abbastanza il nostro pensiero, il quale non inteso, neppure potrebbe essere equamente giudicato. Il sapere umano, in quanto si dispone ed ordina scientificamente, può essere rappresentato da una piramide a forma di tetraedro: la base sterminatamente grande è formata, quasi d' altrettante pietre, da' veri particolari, i quali sono innumerevoli; sopra di questi corre un' altra serie fatta di un ordine di quei veri universali, che fra gli universali, sono i più prossimi ai particolari, e anche questi moltissimi, ma non quanti i primi: e se così di mano in mano si ascende agli altri strati o scaglioni superiori, ciascheduno di essi si trova contenere un minor numero di veri, ma di una potenzialità od universalità sempre maggiore, fino a che, pervenuti alla sommità, il numero stesso è scomparito nella unità, e la potenza dell' universalità è divenuta massima ed infinita nell' ultimo tetraedro che forma la cima della piramide. Questa immagine mostra ciò che vogliam dire, ma non in tutto; essendo impossibile che una figura materiale abbia le condizioni spirituali delle idee: quello dunque che non può essere rappresentato o significato da questa similitudine si è, che un ordine più elevato di veri contiene virtualmente in seno l' altr' ordine che gli è prossimamente inferiore (perocchè quelli sono veri più universali, questi meno), e coloro che sanno fare l' ufficio del figliuolo di Fenarete, possono estrarlo dalle sue viscere; laddove un' ordinanza di pietre soprapposte non ha virtù generatrice dell' altra ordinanza che le sta sotto, nè questa nel seno di quella si chiude, nè indi può trarsi fuori alla sua propria esistenza. La quale condizione del vero di trovarsi implicato ed involto in una suprema unità, d' onde si spiega e si svolge nel numero, e ciascuna unità di questo numero implica anch' essa e di sè svolge un altro numero di meno estese verità, feconde pure di germi, pure generative di altre feconde verità, (ond' è che cresce e si moltiplica senza fine questa famiglia d' immortali, e classificata poi a specie e a generi, l' intellettuale progenie forma di sè tante scienze, tante arti, tante discipline); questa condizione, dicevo, del vero che si riversa e quasi si rinnova in altri veri, e in questi diviene di continuo più numeroso senza cessare di essere quello di prima unico e semplicissimo, ella è tanto incorporea e divina che non trova, per dirlo di nuovo, negli enti sensibili e materiali, per qualunque parte dell' universo si vada cercando, alcuna adeguata similitudine o sufficiente rappresentazione. Non è qui il luogo di dire o d' investigare come un vero si risolva in più veri, e come quando questi sono venuti alla luce della mente umana, quello, che s' è quasi direi sgravato di tanti portati, non cessi d' esser qual era per nessuna guisa modificato, gravido ancora degli stessi veri, nè più nè meno di quel che era prima. Ma ci conviene bensì osservare che i veri così figliati da altri veri antecedenti, che in sè li portano, ricevono da questi loro generatori la legge e la norma del loro essere, e ne mutuano tutta la luce. Perocchè egli è manifesto, che non può rinvenirsi più di essere e più di luce ne' veri derivati, di quello che se ne ritrovi ne' loro principŒ, da' quali per giuste inferenze furono dedotti, e tutto il di più che si voglia collocare nelle inferenze e non sia contenuto ne' principŒ, è puro errore. Ora da questa ordinatissima costituzione della verità, e da questa sua singolar natura, che una serie di veri più elevati porti in sè tutte le serie de' veri inferiori, e più sono elevati, meno è grande il lor numero, si può raccogliere, che nella piramide scientifica, quanti sono i gradi della medesima, altrettanti sono i modi, ne' quali la stessa verità è concepita ed espressa dall' uomo, di manierachè tutta intera la verità si trova nella detta piramide replicata altrettante volte in diverse forme, quanti sono gli ordini orizzontali de' massi, per dir così, sovrapposti, con questa sola eccezione, che i veri che costituiscono gli ordini inferiori, scompagnati da quelli degli ordini superiori onde derivano, rimangono quasi ombrati, e l' uomo privo della luce de' loro principŒ, non può farne grand' uso, nè cavarne a' suoi bisogni gran pro; laddove congiunti nell' umana mente ai veri più alti che li generano e in questi contemplati, diventano lucidi, maneggevolissimi ed utilissimi. Laonde sebbene i veri che appartengono alle sezioni più basse della piramide siano smisuratamente più di numero, ed anzi innumerevoli; tuttavia l' essere in tanta moltitudine non li rende nè più splendidi nè più preziosi di quelli, sempre men numerosi, che appartengono alle sezioni superiori; anzi l' esser tanti loro pregiudica doppiamente, e perchè non possono esser tutti conosciuti e raccolti dall' umano ingegno, e perchè la verità così divisa in parti, perde di quella dignità e di quello splendore di cui ella rifulge nella sua interezza. Certo che anche i veri degli ordini superiori acquistano un maggior uso e un maggior corso, quando si possedono dall' uomo accompagnati dalla loro prole, cioè da' veri degli ordini inferiori. Ma posciacchè l' apprensiva e la memorativa di ciascun uomo non s' estendono all' infinito, epperciò non possono abbracciare tutti i veri particolari; al conoscimento di molti di questi è da preferirsi di gran lunga il conoscimento di que' pochi che li racchiudono tutti, e da' quali altresì la mente può ricavare e dedurre, ogni qual volta le piaccia, gli altri, in maggiore o minor numero, secondo il tempo e le forze, ch' ella spende nell' opera della loro derivazione e deduzione. Le quali considerazioni già fanno intendere, che cosa volevamo dire nominando il sistema della verità : dimostrano che questo sistema, il più nobile ed alto scopo a cui si possano rivolger gli studŒ, non è impossibile a rinvenirsi, nè vano o temerario deve riputarsi il tentarlo: di più, che il prenderlo di mira è necessario a chi vuol dare un segno fisso alle filosofiche meditazioni, e finalmente che non può biasimarsi nè pure colui, che quantunque nol colga del tutto, pure se l' è proposto, e vi si è in qualche modo avvicinato. Perocchè il sistema della verità altro non è, per dirlo con diverse parole, se non la descrizione di lei, in quella forma nella quale sta contenuta ne' principŒ, non già ne' veri particolari; ossia, per continuarci nella similitudine usata di sopra, qual ella si trova ne' più alti gradi della piramide, di pochi, ma grandi veri composti, che, avendo in sè potenzialmente tutti quelli de' gradi inferiori, riassumono la verità intera. E certo ad alcuni pochi principŒ i veri più minuti si riducono, i quali principŒ, come dicemmo, sono la viva e pura luce di questi, e ad una tal luce, come si possono discernere tutti i veri, così si possono riconoscere altresì e separare tutti gli errori. Ora il determinare i principŒ ossia le prime ragioni di tutto il sapere, e con precisione pronunciare e affidare ai vocaboli quest' altissima parte dell' immensa piramide dello scibile umano, è appunto l' ufficio della FILOSOFIA. A questa dunque noi abbiamo stimato di dover rivolgere l' attenzione della mente, a questa abbiamo indirizzati i nostri varŒ scritti, ciascuno de' quali intorno a qualche porzione di lei si travaglia. Altrove noi abbiamo definita la Filosofia: « la dottrina delle ragioni ultime »(1), secondo la qual definizione non è malagevole determinare con precisione quale porzione della nominata piramide ella costituisca (2). Perocchè in primo luogo è manifesto, che quel tetraedro nel quale la piramide finisce e che rappresenta Iddio, o la scienza di Dio, deve essere il principale argomento, e formare la precipua parte della filosofia, giacchè Iddio è la ragione ultima e piena di tutte le cose che esistono nell' universo o possono cadere nelle menti. A quel divino e finale tetraedro poi si congiunge immediatamente l' ordine primo di quei veri, che riguardano il creato, e nè anche questi possono essere dimenticati dalla Filosofia, quantunque non costituiscano la ragione assolutamente ultima, la quale non è altra che Dio medesimo; ma essi sono gli ultimi veri, le ultime ragioni fra quelle che all' universo appartengono, facendone in qualche modo parte. Perocchè l' universo ha in se stesso le sue ragioni relativamente ultime, e sono le prime cause create o concreate, dalle quali dipendono, secondo natura, tutti gli enti, e tutte le leggi, al cui tenore gli enti si muovono alle loro operazioni, ed operando pervengono alla loro perfezione, o al parziale decadimento, che pur contribuisce poi anch' esso alla perfezione del tutto, la quale non può essere frustrata giammai. Le ragioni ultime dunque al di là del mondo, e le ragioni ultime nello stesso mondo; ecco l' oggetto della filosofica disciplina, che così prende i due ultimi, e più elevati gradini della immensa piramide scientifica, che noi abbiamo descritta. Di che la Filosofia si rimane chiaramente separata dall' altre scienze e sopra esse innalzata, siccome la madre e la guida comune di tutte, formando queste i gradi inferiori della piramide, che da que' due supremi dipendono, e ne ricevono il lume e la vita. Non potea dunque caderci nell' animo di trattare tutte le scienze, ma bensì di occuparci della loro comune sommità, negletta pur troppo, ed anzi in questi tempi superbi di materiali godimenti e pensieri, ravvolta nel fumo e nella caligine. Dalla sovversione anzi dall' annientamento della Filosofia operato nel secolo scorso dagli autori del sensismo, guazzabuglio di negazioni e d' ignoranze, che sotto il nome assunto di filosofia invase tutta l' Europa con più detrimento del vero sapere, che non vi avesse recato giammai alcuna invasione barbarica, derivò quella corruzione profonda della Morale, del Diritto, della Politica, della Pedagogia, della Medicina, della Letteratura, e più o meno di tutte l' altre discipline, della quale noi siamo testimoni e vittime: e questa corruzione, trasfusa nelle azioni e nella vita mentale de' popoli e della stessa società umana, continua a dilacerare, come mortifero veleno, le viscere di quelli e a minacciar questa stessa di morte. Da quell' ora sembra essersi in molti quasi perduto nelle cose morali il senso comune; le passioni e l' ignobile calcolo degli interessi materiali sono divenuti l' unico consigliere, l' unico maestro delle menti: e queste, aperte a tutte le prevenzioni, disposte a dare il loro assenso sull' istante alle sentenze più stravaganti, a toglierlo pure sull' istante alle più dimostrate, secondo l' opportunità casuale; orgogliose di soggiacere alla schiavitù delle opinioni più appassionate, anzi, appunto perciò, schizzinose della soggezione più ragionevole; credule fino all' assurdo (1), incredule all' evidenza, legislatrici del mondo intero, intolleranti di ogni legge, frenetiche de' proprii diritti, immemori de' proprii doveri, entusiaste, in parole, della filantropia, professanti co' fatti la frode e l' egoismo, irreligiose, disonorate nelle lascivie, impudenti, sembrano avere perduto ogni coscienza della virtù e della verità, e l' esistenza stessa dell' una e dell' altra è divenuta per esse un problema od una vana chimera. Se questa condizione di cose fa nascere da se stessa il pensiero e il desiderio di un radicale rimedio, e invita gli studiosi a indagare una migliore filosofia da sostituirsi a quella che si mostrò feconda di tanti mali, altri gravissimi eccitamenti ancora inclinarono i miei studii verso un tale scopo, e a' miei amici e benevoli non sarà discaro, se io li trattenga qui brevemente colla narrazione di qualche fatto personale, che d' altra parte mi sembra necessario a purgarmi presso alcuni altri dalla taccia di soverchia presunzione nelle mie proprie forze. Ecco dunque quello che mi confermò nel proposito di por mano, per quanto lo concedessero le mie facoltà e le opportunità, alla ristorazione della Filosofia. Io mi trovavo l' anno 1.29 in Roma, e Mauro Capellari in allora Cardinale della S. Romana Chiesa, al quale mi legava il vincolo d' un' antica amicizia, m' esortava e consigliava a scrivere e pubblicare in quel centro della Cattolicità il « Nuovo Saggio dell' origine delle idee, » di cui avevo in allora solamente concepito il disegno, e gettatone il seme negli « Opuscoli filosofici, » che ne' due anni precedenti erano usciti alla luce in Milano. Quell' opera, che effettivamente scrissi e pubblicai quell' anno e sul principio del seguente nella capitale del mondo Cattolico, e che fu approvata da' romani censori, tendeva a combattere il sensismo, fonte di tanti altri errori, ed anzi di tutti i nostri mali: e non a combatterlo soltanto nelle sue conseguenze o a dimostrarne erronei i principŒ, ma a combatterlo a quel modo che abbiamo detto, col mettergli a fronte il vero sistema intorno alla natura e all' origine delle cognizioni; chè il falso, quando gli è posto in faccia il vero, rimane come un reo convinto, ed anche confesso davanti al giudice; e da se stesso si dilegua a quel modo che sgombrano le tenebre all' apparire della luce. A cui s' aggiunse un altro autorevolissimo conforto a non farmi più parere temeraria l' impresa, a cui aveva posto mano col « Nuovo Saggio » ed a condurla avanti, rendendomela un dovere. Poichè in sul bel principio dell' anno seguente Pio VIII assunto al trono pontificale dissipava da me tutti i timori, non tanto della difficoltà dell' impresa, quanto dell' incertezza, se quel tempo e quelle forze che avrei dovuto spendervi, non potessero per avventura essere impiegate a maggior vantaggio del prossimo in altre occupazioni. Ricordo ancora le sue amorevoli ed autorevoli parole, le quali presso a poco furono queste: « E` volontà di Dio che voi vi occupiate nello scrivere de' libri: tale è la vostra vocazione. La Chiesa al presente ha gran bisogno di scrittori: dico, di scrittori solidi, di cui abbiamo somma scarsezza. Per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello di prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione. Tenetevi certo, che voi potrete recare un vantaggio assai maggiore al prossimo occupandovi nello scrivere, che non esercitando qualunque altra opera del sacro ministero ». In tal maniera quel sommo Pontefice di santa memoria mi tracciava la via, e m' esortava a calcarla; e non posso dimenticarmi con quante parole e con quanto calore e bontà seguitasse a dimostrarmi la verità del suo consiglio, e specialmente a persuadermi, che gli uomini si dovevano condurre col ragionamento. A Pio, che rimase sì breve tempo al governo della Chiesa, successe Gregorio XVI, cioè quel Capellari, onde m' erano venuti i primi consigli e conforti, e che durante il lungo suo Pontificato non mancò giammai di raffermarmi nello stesso proposito, d' aiutarmi a compirlo con ogni dimostrazione di paterna benevolenza e di costante protezione. Così fu determinata la direzione de' miei studŒ successivi, e la riforma della filosofia divenne l' intento universale de' lavori fin qui da me pubblicati o promessi; a cui consegue di sua natura quella ristaurazione di tutte l' altre scienze, delle quali la filosofia è madre e nutrice, principalmente delle morali, dove ogni decoro ed ogni onore dell' umanità consiste. Il sensismo e il soggettivismo, che non è, propriamente parlando una filosofia, non può avere una Morale: perocchè noi non dobbiamo prendere i nomi con cui giocano i sofisti, per le stesse cose. Niuna Morale deriva dall' umano soggetto, il quale è bensì colui che viene obbligato dal dovere, ma non è, e non può essere colui che obbliga. Coll' avere i sofisti trasformato l' obbligato nell' obbligante, scambiando il passivo coll' attivo, fecero fare un capitombolo alla Morale. Acciocchè dunque questa disciplina si raddirizzi (chè se non è diritta non è più dessa), egli è uopo dimostrare, che v' ha un oggetto, il quale sia degno di riverenza e d' amore: e lo stabilire questa dignità dell' oggetto, che importi un' esigenza di essere riverito ed amato, di maniera che il non farlo sia un disordine, una turpitudine, è quanto un rimettere la Morale nella sua natural posizione, restituendole il suo primo fondamento. Quest' oggetto è l' ESSERE, in tutta l' estensione che prende questa parola; perocchè l' essere ha di sua natura quella forma appunto, per la quale dicesi oggetto: egli è PER SE` OGGETTO, e quindi medesimo non può mai non essere oggetto. Che se l' essere non può non essere, e se non gli può mancare la forma oggettiva, perchè senza questa non sarebbe pienamente; dunque l' essere oggettivo è necessario, e quindi la Morale pure è necessaria. Non si potea dunque rendere alla Morale il suo immobile fondamento, nè proteggerlo validamente contro gli assalti di coloro, che l' aveano voluto rovesciare nell' opinione umana, senza ascendere col pensiero fino alla teoria dell' essere oggettivo: il che ci obbligò di principiare la serie de' nostri lavori dall' Ideologia, donde ogni sapere umano incomincia. Per la stessa ragione e per una strada ancora più corta il sensismo ed il soggettivismo rovesciò la scienza del Diritto sul quale si reggono non meno le relazioni dell' umana convivenza, che quella delle umane società. Poichè il Diritto nella sua parte materiale è una facoltà soggettiva che ha per fine l' utilità di chi la possiede, e l' esercita: all' opposto della Morale, che tutta si racchiude nel riconoscimento volontario e riverenziale dell' oggetto, senza che le conseguenze eudemonologiche formino, od accrescano l' inflessibilità dell' obbligazione, assoluta come la verità. E quella facoltà soggettiva, che è come la materia del diritto, rimane, anche rimossa la morale; ma colla remozione di questa, che è come la forma del diritto medesimo, essa perde incontanente la dignità e l' essere formale di diritto. La quale dignità morale, che quella soggettiva facoltà d' operare non ha in se medesima, le viene dal di fuori, cioè dalla morale appunto, che la consacra proteggendola, coll' imporre a tutti gli altri uomini l' obbligazione di lasciarla intatta e libera a' suoi atti. Laonde ristabilita la morale, fermatane immobilmente la base, è con questo stesso salvato anche il diritto, e la doppia eccellenza delle azioni umane, cioè l' etica e la giuridica. Se col sensismo e col soggettivismo la mente, coerente a se medesima, non può riconoscere l' esistenza nè di doveri nè di diritti; coll' annullamento poi di questi, ella non può più concepire alcun' altra politica che quella che si consuma in frodi e in violenze, e che, come il principe ideale del Macchiavelli, è biforme, cioè mezza volpe e mezzo leone, quella che ha per suo necessario effetto procacciar l' odio a tutti i governi, quell' odio universale, che li rende tutti impossibili, e che pur troppo vediamo diffuso in Europa a guisa di un diluvio, in cui affogano i governanti, con esso tutte le forme governative. Solo quando sia restituita la morale (e con questo dico la religione, che è la vita della morale) e colla morale il diritto (non una larva ingannevole di diritto), allora è possibile una scienza politica, custode della giustizia, tutrice della libertà di tutti, promotrice d' ogni bene, autrice della concordia de' cittadini, fortissima madre della pace. E quantunque questa scienza che presiede al governo delle società civili, non sia che la prudenza applicata a condurre quelle speciali società al loro fine, e però non possa avere per suo proprio scopo ed effetto altro che l' utilità de' governati, tuttavia se si considera più profondamente, e s' investiga la connessione e la lunga serie di tutte le cause e degli effetti onde la civile società perviene a quella prosperità che le è propria, nella fine di una tale investigazione e di un tal calcolo, la mente riesce ad una conclusione nobilissima; la quale è questa: « Il governo civile instrutto della dottrina della giustizia nelle sue tre parti, la commutativa, la distributiva e la penale, e dotato di una perfetta coerenza di ragionamento, può e deve dedurre tutte le regole della prudenza politica dalla sola giustizia »: conclusione, che può sembrare, nel primo aspetto e superficialmente considerata, un paradosso, perchè veramente è una sentenza fuor d' opinione, non potendo esser di molti la coerenza della mente, che ne' principŒ vede le più lontane inferenze, e pur troppo mancando nei più un alto sentimento morale, quella magnanima fede e sapiente nella giustizia stessa, che n' aspetta ogni migliore effetto, ne fa uno studio continuo, ne prevede con secura speranza gli ultimi felicissimi risultati. Ora quello che prima di tutto insegna la giustizia sociale, quello che i presenti governi sono più che mai lontani d' avere imparato o di voler imparare, si è che il civile governo co' suoi atti e colle sue disposizioni, non dee uscire giammai da' naturali confini della sua autorità, i quali non si possono assegnare, se prima non si definisce che istituzione sia quella del civile governo. Laonde sino a tanto che non si riconosca sinceramente il supremo impero della giustizia, nessun governo può avere un confine, oltre il quale il suo potere non voglia trapassare. Perocchè la sola utilità, questa incertissima e vanissima parola, non può prescrivergli limite fisso, dipendendo essa dal calcolo probabile delle circostanze, e però essendo variabilissima in se stessa e commessa all' arbitrio di chi assume di fare quel calcolo. Onde se a questa sola guida sono rimessi i governanti, come non hanno più alcuna ragione d' anteporre l' altrui utilità alla lor propria, a tutte le occasioni, in cui credano poterlo fare impunemente, stenderanno su tutto quello che loro piace le mani, nè i governati sapranno mai prevedere dove essi voglian fermarsi, nè potranno imporre ragionevolmente un termine al potere o pretendere guarentigie, le quali, accordate che pur fossero, non avrebbero un maggior valore di quello che prima s' avesse la loro propria forza: chè per certo, disconosciuta la morale e la giustizia, sono impossibili le convenzioni; cancellandosi dalle menti il « verba ligant homines », rimanendo solo superstite il « taurorum cornua funes ». Ed egli è così forte il piacere dell' imperare e del governare, anche per le utilità proprie che se ne traggono, talmente seduce, quasi all' impensata dell' uomo stesso, che non solo prima di Cristo, quando tutto era signoria e servitù, ma anche dopo, quando il cristianesimo fece nascere le società civili, non si è mai pensato seriamente (il che pare incredibile e pure è vero) a definire il poter civile, e a circoscriverlo con precisione, ma se n' è mantenuto il concetto nel vago e nell' indeterminato, sebbene la giustizia volesse che la prima questione a risolversi da' governanti, colla massima accuratezza, dovesse essere questa: « che cosa è una società civile; a quale intento è istituito il governo della medesima? »La quale rimanendo insoluta, nè il governo può andar sicuro di non oltrepassare i suoi limiti, nè del pari i governati possono esigere alcuna cosa da chi li governa, senza incorrere nel medesimo pericolo. Ma rimanendo oscura ed incerta la natura e l' intento della civile istituzione, chi governa crede di poter fare alto e basso d' ogni cosa a sua volontà, il che è incredibile quanto a lui piaccia, ma insieme quanto noccia a tutto il popolo. Sarebbe dunque ormai tempo di ben intendere che la società civile non è una società universale nel senso, che comprenda nel suo seno tutte le altre e di conseguenza tutti i diritti delle altre; ma ella è una società particolare che vive a lato delle altre, come pure a lato di tutte le individualità, perchè neppur queste possono essere da lei assorbite colla perdita del loro proprio essere individuale; è una società che lungi di poter appropriarsi, od invadere i diritti degli individui e delle altre società, ha l' intento di tutelarli, senza distruggerli, senza minorarli, senza legarli o recar loro altro pregiudizio, ciò che sarebbe appunto il contrario del tutelarli; è una società che tutta si posa e si fonda sul rispetto de' diritti di qualunque maniera, il qual rispetto è la sua prima, la sua essenziale ed universale obbligazione, onde discendono tutti gli altri suoi speciali doveri, non rimanendole appunto altro diritto, che quello di osservare questi doveri: è una società che per tutelare e proteggere i diritti li modifica altresì nella forma, li coordina, acciocchè non s' impediscano reciprocamente, e possano coesistere pacificamente, e pacificamente svolgersi e prosperare: e in una parola è una società istituita al solo fine di REGOLARE LA MODALITA` DI TUTTI I DIRITTI DE' SUOI MEMBRI, lasciandone intatto il valore. Questa questione fondamentale di giustizia si eleva di gran lunga sopra la questione delle forme di governo, e a tutte impone la stessa legge: « di non disporre menomamente del valore di alcun diritto, limitandosi a regolare, come dicevamo, la modalità di essi tutti per guisa che tutti possano coesistere, svolgersi liberamente, prosperare »: nè dichiara una forma migliore dell' altra, se non in quanto, avuto riguardo ai tempi ed alle circostanze, in una forma possono trovarsi maggiori probabilità, che quella legge fondamentale sia dal governo osservata e seguita. Ora questa determinazione precisa dell' unico ufficio universale della società civile, quando sia abbracciata o resa così evidente nell' opinione di tutti, che non possa più da' governi ricusarsi, è il solo rimedio radicale e specifico del dispotismo, il quale in tutte le forme di governo si è sempre rinvenuto, ma più subdolo e più ributtante che in altre, in certe forme viziate dalle passioni sofistiche all' .9 in poi, nelle quali gli arbitri de' parlamenti compaiono al pubblico con in sul volto l' onesta e mansueta maschera della legge, quasi che la legge dell' uomo non possa anch' ella esser dispotica e tirannica, ma sia una purissima idea astratta, che nulla tiene d' umanità, e non sappia punto odore del volere di quelli che l' hanno fatta. L' onnipotenza attribuita pazzamente al popolo si travasa ne' deputati, i quali (parlo sempre di costituzioni viziate alla francese) si persuadono, che ormai non più colla giustizia, ma con essa onnipotenza si faccian le leggi: contro l' iniquità delle quali il mondo freme e si dibatte, e, poichè rimane confitto nelle menti il vizioso principio, colla ribellione non s' ottiene che di fabbricarsi de' legislatori peggiori, che impongono al popolo ribelle che gli ha scelti, leggi peggiori. E come può essere diversamente, se niuno, nè governanti nè governati, conosce il termine a cui deve andare, nè la strada che vi conduce? Niuno sa precisamente perchè il governo esista? perchè la società civile sia istituita? Niuno vuol saperlo o supporre di saperlo, senza prendersi la cura di ricercarlo? E niuno, massimamente di quegli ambiziosi che s' incaricano di guidare il popolo, accetta i limiti naturali di questa società, ma in persona di difensori del popolo, pubblicano a suon di tromba, che la volontà del popolo può ogni cosa giusta od ingiusta? Cioè creano un' onnipotenza per fondarvi su una società civile pure onnipotente, e questo fanno acciocchè ne riescano onnipotenti gli organi e gli strumenti, cioè il governo che sperano recarsi in mano? Tale è il sofisma dell' egoismo politico, che co' più bei nomi si copre, e specialmente con un bellissimo di liberalismo, e questa specie di liberalismo consiste nell' edificare in sul dorso incurvato degli uomini la mole d' un governo onnipotente, che è quanto dire d' impor loro un dispotismo sofistico così sfrenato, che non fu mai tale sopra la terra da Nembrotte in poi, denominandolo per refrigerio, e consolazion del popolo, libertà! Dal qual laccio le nazioni non possono trarre il collo, se prima nol traggono da quello del sofisma che ha prodotto lo stato, nel quale si logorano e straziano senza volerlo e senza sapere il perchè, cioè se esse non tornano a consacrare il diritto sconsacrato dall' utilitarismo, riponendolo sotto la protezione della morale e della religione che ne è l' effettività, e riconoscendo, che nè il popolo, nè gl' individui che il compongono, nè i parlamenti, nè i monarchi, nè i ministri, nè alcuna autorità sopra la terra può toccarlo; e quindi che i governi non hanno e non possono avere altra incombenza, nè altra autorità, se non quella, che i diritti di tutti (i quali non sono già da' governi creati, come pazzamente fu asserito), i diritti degl' individui, e di tutte le società oneste, sieno conservati nella loro integrità di valore, e, salvo questo valore, regolati nella loro modalità per sì fatta guisa, che senza impedirsi reciprocamente, senza sacrificarsi gli uni agli altri, coesistano, s' esercitino, liberissimamente si svolgano. E` questo il solo principio che può somministrare una politica salutare, che guarisca la malsanìa delle nazioni, e con esse salvi la stessa società umana. Dacchè dunque il senso corporeo, che non apprende la verità, fu proclamato il solo maestro sicuro, la sola guida fedele degli uomini, e questi prestarono fede a quella sentenza che portava la contraddizione in se stessa, la Morale, il Diritto e ogni altra cosa di natura eterna, perì insieme colla Verità nell' opinione degli allucinati, e la politica divenne un' arte aleatoria, nella quale gli uomini giocarono e giocano se stessi, e le loro cose più care co' due dadi dell' astuzia, e della forza brutale. E su questa dottrina furono educate le novelle generazioni alla sensuale sapienza. La voluttà de' sensi divenne, come divenir doveva, il fine della scienza e dell' arte pedagogica, ed acciocchè quella, consumando le sostanze, non consumasse troppo celeramente se stessa, le fu dato a contrapeso la scienza dell' economia politica (anche questa scienza per sè bellissima ed utilissima così corrompendosi), alla quale noi italiani imparammo da Melchiorre Gioja ridursi la morale! Nè vogliamo qui perscrutare quale istinto inducesse i sensisti a conservare con tanta sollecitudine questo nome di Morale, quando parea dover loro bastar quello d' Economia politica, giacchè, non dovendo rimaner più che questa sola scienza, pare che per una scienza sola non ci sia bisogno di due nomi. Certo che la verità si resta colà ritta ed immobile davanti ai deliri degli uomini, e questi, sebbene, chiudendo gli occhi, dicano che quella non è più perchè non la vedono, tuttavia non potendo tenerli sempre chiusi perfettamente, che è uno sforzo contro natura, di quando in quando s' irritano in percependone alcuni raggi, e allora scappano loro quelle incoerenze ed indirette confessioni del vero, che ognuno può avvertire nelle loro parole, se ci bada: ma se quei raggi battono in essi più vivi che non vorrebbero, cagionano loro infiammazione degli occhi, e allora vanno in furore per la doglia: indi l' origine di quella lotta tremenda, incessante, vendicativa che non pochi movono alla verità ed a suoi confessori, nella quale si riassumono tutte l' altre lotte, chè, senza quella prima ed essenziale, l' altre o non sarebbero o cesserebbero facilmente. Al piacere dunque, all' economia politica che lo alimenti, ed all' astio della verità morale e religiosa, nel sistema di cotali educatori, devono sacrarsi le novelle piante umane destinate a formare « la selva selvaggia ed aspra e forte »che ricopre tutta quanta la terra incivilita. Ma se a questo termine dee condurre necessariamente quel sistema ideologico, che nega ogni eterno e immutabile elemento e che abbandona il genere umano e le sue giovanili propaggini al flusso dei sensi; per lo contrario si raccoglie, che la scienza e l' arte dell' umana educazione, qualora non deva essere un' industria dotta e sistematica di corrompere ed imbastardire i teneri rinascenti germogli dell' umana famiglia, converrà che abbia per fondamento anch' essa quell' elemento eterno, che costituisce la nobiltà dell' uomo, e, sollevandolo al di sopra del minerale, del vegetale e dell' essere sensitivo, il fare della terra e scopo della creazione; quell' elemento, a cui il senso corporeo è straniero e soggetto, e che l' Ideologia addita nell' idea, che splende con inestinguibile lume alla mente come prima manifestazione dell' essere necessario; la Morale mostra nella legge, che con autorità assoluta lega la volontà, qual seconda manifestazione dell' essere medesimo; e la Religione fa trovare in Dio stesso, manifestazione ultima e compita, fonte misterioso e della luce ideale ad un tempo e d' ogni legislazione, soddisfacente ogni voto dell' umanità, che nell' essere infinito s' immortala, s' assolve, si bea, si deifica. Al quale sublimissimo fine, a cui l' uomo, col suo intelletto, colla sua volontà, colla sua stessa essenza tende sempre di stendersi al di là del creato, deve dunque indirizzarsi con perseverantissima industria e con perfetta coerenza anche la scienza e l' arte dell' umana educazione, ad un semplice ed evidente principio tutte le altre parti subordinando, le quali, subordinate così, partecipano di quella infinita dignità e contribuiscono alla verace perfezione e alla felicità degli educati. All' opposto, abolita la dignità intellettiva per opera del sensismo, non ci ha più cagione di non abolire la stessa natura sensitiva e discendere al materialismo, come nel fatto è avvenuto. Perocchè chi non ha tanta virtù di mente da vedere l' assurdo, che le idee sieno fenomeni sensitivi, non può neppure ravvisare l' altro assurdo, che le sensazioni sieno fenomeni materiali. Quella mente che non sa conoscere il primo errore è fors' anco meno atta ad accorgersi del secondo; chè dall' idea alla sensazione v' ha un tratto maggiore, che non dalla sensazione alla materia: col primo salto si precipita dall' infinito al finito, col secondo si va dal finito ad un altro finito, benchè di opposta natura. In tutti i rami del sapere, non solo in quelli che riguardano lo spirito razionale e morale, ma ancor più immediatamente in quelli che riguardano il corpo vivente, il materialismo esercitò la sua dannosa influenza intrudendovi il sofisma nel metodo, l' errore nel risultato. La Medicina divenuta materiale (e si parla sempre della scienza, non degli individui, i quali per una felice incoerenza possono credere alla spiritualità dell' anima, coltivando pur la scienza medica quale la trovano, chè non è dato a tutti il cangiarla) ruppe con orgoglio anch' essa il filo della sua tradizione, rinunciò all' eredità de' maggiori: il padre della medicina non fu più un genio, non si vide più nel vecchio di Coo, che un uomo volgare e pregiudicato. E di vero l' antica medicina avea la colpa di riconoscere nella vita e nelle sue funzioni, o in istato di sanità o in quello di malattia, un principio spirituale: Ippocrate riconosceva l' unità perfetta della vita e del vivente, e ne' morbi stessi avea conchiuso nascondersi un principio così straniero alla materia, che egli non seppe in altro modo denominare, che dicendol divino. Non si potea dunque professare il materialismo senza condannare ad un tempo la dottrina di tutti i secoli, e a' sofisti di quest' arte sembrò una magnifica gloria di collocarsi da se stessi al di sopra de' secoli, calcandoli sotto i piedi: gl' Ippocrati infatti (se pur si contentano di questo nome) a' dì nostri formicolano per ogni villa. Così la materia fu termine fisso alle mediche investigazioni portate a cotanta altezza, il pensiero e la sensazione divennero funzioni della fibra altrettanto quanto il meccanico o chimico movimento, e sul cadavere si studiò la vita, e si cercò col microscopio la spiegazione de' fenomeni vitali. Ma quando si muove dalla supposizione che il principio della vita non sia che materia, allora non presentando questa, per qualunque studio l' uomo vi faccia, se non fenomeni passivi, è smarrito quel principio attivo, onde tutte le funzioni, sieno fisiologiche o patologiche, dipendono come da loro causa, e quindi è anche smarrito necessariamente il vero principio dell' arte salutare, nè questo si ritroverà più, se non quando, tornandosi un po' indietro, si riconoscerà di nuovo, che il principio sensitivo, lungi dall' esser materia, è anzi quello che agisce sulla materia e l' avviva e la domina come il principio razionale agisce sul sensitivo, lo modifica e in gran parte lo signoreggia. Di che consegue, che se la medicina vuol influire con utilità sul vivente, è uopo che ella si rimetta in comunicazione con questi due principŒ (il sensitivo e il razionale), dall' azion de' quali il vivente e il suo stato morboso o normale deriva; e in quest' azione benefica confidi assai più che in se stessa, e ad aiutare e riordinare quest' azione tutta la sua industria rivolga. Nell' ordine del senso animale, a cui la sofistica riduce tutte le facoltà dell' uomo, restano le passioni, perchè le passioni sono sentimenti, ma non più rimane la norma intellettiva e morale che le ordina, or temperandole, ora eccitandole, sempre governandole agli alti fini dell' umana destinazione, a cui debbon servire. E quando le passioni ebbero ricevuto dal sensismo, col bando della loro guida e signora, l' intelligenza, il desiderato dono della libertà (e questa è veramente quella libertà, che trae a sè seguaci più numerosi e più clamorosi), allora, tolte al guinzaglio della ragione, esse si svolgono con tutto quell' impeto, in tutti que' capricci, in tutti quegli eccessi, di cui per loro natura sono suscettive. E così esse rimasero sola materia alla letteratura del secolo sensista, da Lord Byron a Vittore Ugo. Lo spettacolo di tutte le passioni uscite agli ultimi loro atti cozzanti fra loro a morte, intrecciantisi in una mischia variata da strani accidenti e quasi in un ballo complicatissimo e capricciosissimo, parve sublime, parve l' ultima rappresentazione estetica degna della letteratura del secolo, e certo ell' era l' unica, perchè il sensismo non ne lasciava altre. Vero è che ritorna a mescolarsi in quella danza la ragione tapinella quasi di furto, sia perchè quand' anco si cacci colla forca la natura, la si presenta poi di nuovo all' impensata, sia perchè senza ragione nè letteratura, nè altra scienza o arte può stare, di che il sensismo condannato a divenire incoerente per esistere, va a finire col suicidio. Ma la meschina è da que' letterati riammessa nella loro letteratura a patto di serbare l' incognito; poniamo, come un personaggio esiliato per legge d' ostracismo, richiamato poi segretamente dalla polizia per averne informazione o altro confidenziale servigio, il quale è in città, donde presto riparte, senza che alcuno sel sappia. Per certo la ragione è necessaria alle passioni stesse, delle quali alcune senz' essa non vivono, altre non possono concitarsi e irritarsi quanto si brama per averne l' effetto della meraviglia, e per cotesti buoni servizi ella s' accoglie nella letteratura, però travestita da figliola o da servetta della sensualità; chè nel suo proprio abito di regina e di regolatrice del senso stesso e delle passioni, non se ne sostiene la vista. E poichè negli storici avvenimenti non si scorge un sublime disegno, se non quando si contemplano in quella ragione e sapienza eterna che gli ordina e li dirige ad un fine, perciò a coloro i quali, eliminata dal calcolo l' intelligenza, non vogliono tener conto che del solo senso, non può parere la storia che cosa gretta, fredda e nuda d' ogni bellezza. Ed è questa la vera ragione del perchè i sensisti furono obbligati ad alterarla e a rifarla a loro gusto (e tutte le storie del secolo scorso sono veramente rifatte non sulle memorie de' tempi, ma sul disegno delle prevenzioni appassionate degli scrittori); e finalmente per avere un maggior campo all' arbitrio, fu inventato il genere ibrido del Romanzo storico, in cui le passioni possono a tutta lena sbizzarrire e disordinarsi, come non si trova mai nella storia; romanzo vestito, qual cornacchia, d' alcune penne della storia medesima, che così si disvuole e si vuole ad un tempo. La qual maniera di contraddizione non fa noia a coloro che altro non ricercano nelle scritture se non sensazioni ed emozioni, quali si sieno, al che il sistema de' sensisti ammaestra gli uomini, anzi d' ogni altro bello o d' ogni altro sublime rende loro impossibile il desiderio: a quelli, a cui è qualche cosa l' intelligenza e l' amore, e d' un delicato sentimento delle cose morali sono dotati, pare che così facendo venga profanata la storica verità, che col filo degli eventi, quasi con caratteri incancellabili, scrive i disegni di Dio, e, per la riverenza a questi ed alla stessa natura umana che li compie, brama che il vero di fatto rimangasi intemerato, siccome un' arca che racchiude de' segreti di bontà e di sapienza, i quali non sono pel sensista che materialmente lo considera. Quindi lo stesso autore del più perfetto e del più maraviglioso de' romanzi storici (e coll' idea dell' alta sua mente, non coll' ignobile senso ne aveva ordite le fila), mal pago di se medesimo, fra l' inaudita celebrità ei solo riprendendo se stesso d' aver saputo trovare un verosimile che dal vero della storia intrecciatavi non si discerne, spuntò la penna onde avea scritto l' opera immortale, e la rattemprò di poi per accusare l' intrinseco vizio di quel genere di componimento. Il sensismo dunque rapendo la parte ideale e divina alla letteratura, e a tutte le arti del bello, o le distrugge col legar l' uomo al positivo della sensazione, o certo le ignobilita lasciando loro il solo ufficio d' imitare, o rappresentare in un aspetto seducente gli eccessi delle passioni, nè altrove si può raccendere la facella del genio, se non al fuoco sacro della verità, della morale e della religione, che il senso ignora, e l' intelligenza consapevole ne' suoi penetrali conserva (1). I tre intenti o almeno i tre desideri, che abbiamo sin qui dichiarati, spiegano in gran parte la ragione de' diversi lavori, che si danno in questa raccolta. Ma un altro bisogno dell' età nostra sollecitava l' animo dell' autore, e il desiderio di soddisfarvi, quant' era da lui, guidavalo nelle sue fatiche. Ei ben vedeva il Vangelo risplendere al di sopra di tutti gli umani sistemi, siccome il sole, a cui le nubi della terrena atmosfera non giungono; e sapeva di più che « «il cielo e la terra trapasseranno e quelle parole non trapasseranno »(1) » Nè ignorava che la divina sapienza non ha bisogno d' alcun filosofico sistema per salvare gli uomini, e che ella è perfetta d' ogni parte in se medesima. Tuttavia sapeva ancora che fra la rivelazione ed una verace filosofia non può sorgere alcun dissidio, non potendo la verità esser contraria alla verità, come quella che, una e semplicissima nella sua origine, è consentanea mai sempre a se medesima: considerava oltracciò che la filosofia, dove non si diparta dalla verità, giova alla mente dandole una naturale disposizione e una cotale preparazione rimota alla fede, di cui fa sentire all' uomo la necessità: che gli errori, le prevenzioni, i dubbi che nascono dall' imperfezione della ragione, e che frappongono altrettanti ostacoli al pieno assenso da prestarsi alle verità rivelate, possono e devono risolversi e dissiparsi colla ragione medesima; che la stessa Chiesa cattolica invita ed eccita i filosofi (specialmente nell' ultimo Concilio di Laterano) a prestar quest' ufficio co' loro studŒ; che la rivelata dottrina non può esporsi compiutamente a modo di scienza senza supporre le verità dimostrate dal filosofico ragionamento, giacchè la religione non distrugge ma perfeziona la natura, la divina rivelazione non abolisce ma completa e sublima la ragione, e però la natura e la ragione sono i due postulati, o sieno le due condizioni e prenozioni del vangelo e le prime basi, su cui s' innalza l' edificio della sacra Teologia (1). Ne' primi secoli della Chiesa i Padri s' erano appigliati, per averne questi aiuti, alla filosofia di Platone da essi emendata; nell' età di mezzo fu preferita la filosofia d' Aristotile, pure emendata da' dottori e maestri della scuola. Nell' uno e nell' altro di questi due periodi di tempo la dottrina filosofica, a cui s' attenevano i Teologi, era universalmente ammessa e consentita; la diversità delle opinioni non ne scoteva l' edificio, perchè rimanevano fra pochi, nè si propagavano a tutto il corpo della scienza, di cui almeno restava sempre comune e incontroversa la forma dialettica, il metodo ed il linguaggio. E questo agevolava oltre misura lo studio della Teologia che s' innalzava a guisa d' un tempio, compito d' ogni sua parte, solidissimo e venerando agli occhi di tutti: ne' primi secoli quella scienza delle cose divine pareva disegnata a foggia d' un tempio greco o romano, ne' posteriori, d' un tempio gotico, ma sempre perfetto e magnifico. Nell' ultima età l' erudizione, la critica, la classica letteratura perfezionarono l' esposizione della scienza Teologica, rendendola più schietta, ed aggiungendo nuove prove positive, ben accertate, ai dogmi; ma caduto e dimentico il sistema filosofico della scuola, che le sopponeva un fondamento naturale, ella perdette la regolarità delle sue forme e la sua maravigliosa unità scientifica, per la quale, congiunta intimamente colla ragione naturale e con tutte le più nobili speculazioni, appariva manifestamente siccome un compimento soprannaturale dell' umana natura e dell' umano sapere, quasi l' ultima mano che il creatore stesso avesse posto all' opera sua. L' uomo allora sentiva altamente che la Teologia non era divisa da lui, e che, sebbene ella travalicasse, per l' origine e la sostanza, i limiti della natura, pure ella parea una continuazione di se stesso, il qual passava dal ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco inferiore ad un altro superiore dello stesso palagio della mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli. La Teologia cristiana in quella età era senza contrasto la conduttrice e la custode di tutte l' altre scienze, la signora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato, che sarebbe venuto un altro tempo, in cui alcuni pensassero, doversi la Teologia dividere interamente dalla Filosofia? E pure nacque questo pensiero: nacque, tostochè mancò una filosofia comunemente ricevuta, e si disperò di trovarne un' altra solida e coerente in tutto alla religione. Ma la sfiducia non è mai consiglio, non è ragione. Se il Teologo rinuncia alla filosofia, o egli dovrà intralasciare le più profonde questioni e lasciar imperfetta la scienza (1), o se tuttavia vorrà mettersi dentro ad esse, non gli riuscirà di risolverele, se non forse in una maniera assai imperfetta o falsa, onde n' avrà biasimo da' veri filosofi, dileggio dagli altri, con discredito della sacra disciplina. [...OMISSIS...] La filosofia poi di natura sua amica e fedele ancella della Teologia, se viene da questa ripudiata e dalla sua compagnia cacciata, non cessa perciò di vivere, massimamente ne' tempi nostri, che secondo la sentenza di Pio VIII vogliono gli uomini esser guidati al bene ed alla fede stessa dalla ragione; ma avverrà pur troppo di lei siccome di fanciulla derelitta da' suoi genitori e tutori, che per pane vende a chi ella incontra l' onestà ed il decoro. E qual maraviglia che la Filosofia, come noi pur vediamo dovunque avvenire, degeneri in quel superbo razionalismo, che ambisce oggimai d' esser solo, cacciatane in bando ogni rivelata Teologia? E` dunque desiderabile, che si volga il pensiero a ricomporre e ristabilire un sistema di Filosofia, il quale vero e sano e sufficientemente compiuto, possa essere dalla scienza teologica ricevuto per suo ausiliare, e questi due rami del sapere si ricongiungano in quella unità alla quale son nati, e nella quale reciprocamente si giovano, fiorendo entrambi a vantaggio dell' uman genere (2). Un antico detto consiglia l' uomo a prefiggere alle sue operazioni il più alto scopo concepibile dalla sua mente, acciocchè mirando in un ideale di perfezione e di bellezza possa prenderne sicurissime ed eccellentissime regole d' operare e attignervi quell' amore, quell' inspirazione, quell' aumento di forze, colle quali, eziandiochè non raggiunga la nobilissima meta, pure vi si avvicina abbastanza da far conoscere col suo lavoro, che cosa egli abbia voluto, e da potersi applicare senza vanto e senza vergogna quell' in magnis et voluisse sat est . E dall' esposizione de' fini che mi sono proposto nell' esercizio delle lettere, i miei amici si saranno avveduti, che quel documento mi fu presente all' animo, e o loderanno o scuseranno il mio ardire. Ora io devo loro indicare altresì la via, per la quale mettendomi, mi è sembrato poter più facilmente accostarmi all' intento. Non mi propongo di descrivere i mezzi e i sussidii, onde trassi vantaggio, il che condurrebbe il discorso a lungo senza necessità, nè tampoco di discutere o di giustificare in tutte le sue parti il metodo da me preferito, ma di due sole cose far cenno, cioè della libertà colla quale ho osato filosofare, e della conciliazione che ho procurato di fare, per tutto dove mi fu possibile, delle altrui sentenze. Il vero ed il falso è una qualità de' giudizŒ e degli assensi dell' uomo. Se l' uomo assente a ciò che è, il suo assenso è verace; se assente a ciò che non è, il suo assenso è mendace. Si suol parlare d' idee e di cognizioni vere e false: questa è una di quelle tante improprietà o imperfezioni di dire, che producono questioni inutili (questioni che rimangono escluse solo che si riformi il linguaggio), ovvero che implicano e rendono difficili a risolversi quelle, che sarebbero di loro natura pianissime. E per fermo, se si riserbasse il nome di cognizione a significare quelle che l' uomo acquista o s' appropria per un assenso verace, e le altre si chiamassero noncognizioni, quanti equivoci scomparirebbero incontanente dall' umano discorso? Primieramente si giudicherebbe un uomo saperne tanto, quanto egli possiede di pura verità; e non si metterebbero più in conto di dottrina gli errori, che frequentemente ingombrano le menti di quelli, che passan per dotti, a quella maniera, come chi vuol rilevare l' asse d' una famiglia non somma insieme i crediti e i debiti, siccome fossero quantità d' una stessa natura, ma sottrae questi da quelli, e così ne ricava il netto della sostanza. Ma poichè colui che aderisce a molti errori, crede di saper molto; perciò volgarmente si appella sapere anche quello, che non è altro se non una falsa persuasione che l' errante ha di sapere. Ora con questa sola avvertenza quanti ci avrebbero, che perduto il nome di dotti e di scienziati che malamente portano, benchè abbiano faticato molto sui libri, rimarrebbero in opinione d' ignoranti! E quanto si scemerebbe allora il numero di quelle ingannevoli autorità, che impongono agli uomini, e invece di lasciarli accostare al vero, li trattengono spesso vacillanti fra il vero ed il falso? E per la stessa ragione convien dire che tutti quelli che dubitano, non sanno ancora; chè i dubbŒ non sono cognizioni. Laonde se noi poniamo da una parte gli uomini, che dubitano di molte verità, e dall' altra quelli che a queste verità concedono un pieno assenso: questi secondi hanno indubitatamente maggior copia di cognizioni di que' primi, e così si deve conchiudere, senza tener conto del maggiore studio che possono avere posto i primi per riuscire al dubbio, di quello che abbiano posto i secondi, riusciti alla verità. Perocchè lo studio è il mezzo e non il fine, e anch' egli è vano, se non ci produce altro, che il dubbio del vero; ma soltanto quello studio ha un gran valore, che o ci arricchisce del vero, o ci spoglia del falso, o anche ci fa dubitar di questo, se già ne siamo imbevuti; benchè col farcene dubitare tanto solo ci arricchisca, quanto s' arricchisce colui, che non avendo altro che debiti, acquista quello che gli basta a pagarne una parte. L' assenso dunque che diamo al vero è ciò che ci mette in possesso del vero, fuori del quale non si trova la scienza, ma soltanto l' ignoranza o il dubbio che è un' ignoranza maggiore, o finalmente l' errore che è l' ignoranza massima. L' assenso suppone la notizia di ciò a cui si assente, e che coll' assenso si accetta per vero; e però se la cosa è vera, in ogni assenso, qualunque sia il modo nel quale si dà, c' è sempre cognizione, c' è sapere, e acquisto di verità. Ma l' assenso poi si può dare per più cagioni, le quali si riducono a queste due: o per la sola efficacia che la volontà esercita sulla facoltà dell' assenso, o per una necessità razionale veduta dall' intendimento, che muove al suo atto la facoltà dell' assenso. Nel primo caso l' assenso è arbitrario, cioè voluto non già senza un fine, ma senza una ragione; nel secondo caso l' assenso s' appoggia ad un motivo di ragione, e viene da una facoltà illuminata e qualche volta anche necessitata dall' evidenza, che in certe circostanze dell' animo, determina lo spontaneo moto dell' assenso medesimo. Ora quantunque l' assenso arbitrario non muova da ragioni che dimostrino la verità della cosa, e però sia un atto che non può dirsi strettamente ragionevole, tuttavia anche questa maniera d' assenso può essere dato ad una cosa che è e quindi esser verace, o ad una cosa che non è e quindi esser mendace. E se egli è verace, anche con quest' assenso l' uomo partecipa della verità e vi aderisce, ma nello stesso tempo che sa che quella cosa è vera perchè vi presta fede, egli non conosce il perchè sia vera, e questa è la parte di verità che egli ignora e che gli rimane a cercare. ora questo assenso cieco, che dimostra che l' uomo ha la potestà di assentire e di non assentire, è un fatto degnissimo della meditazione del filosofo, come quello che spiega innumerevoli altri fatti i quali frequentemente avvengono ed esercitano un' amplissima influenza sulla vita umana, voglio dire tutti i giudizŒ temerari, i pregiudizŒ, le prevenzioni, le credenze, le presunzioni, le persuasioni, che talora si manifestano fortissime negli animi, senza sapere onde vengano, senza poter trovare alcuna buona ragione in cui siano fondate, senza che questa ci sia, o almeno senza che ci sia piena e dimostrativa. Il maggior numero degli atti della vita, e stavo per dire pressochè tutti gli atti più necessarŒ, senza i quali l' uomo non potrebbe vivere, vengono diretti da prevenzioni e da credenze, le quali talora sono del tutto in aria, supplendo al loro fondamento di ragione la forza che ha la volontà di determinare l' assenso, la volontà, dico, con tutto ciò che influisce su di lei, colle inclinazioni, cogl' istinti, colle passioni, co' bisogni: talor poi si fondano in ragioni meramente conghietturali, più o meno probabili, in apparenze, in indizŒ o reali o trovati dall' immaginazione ed assunti di nuovo arbitrariamente come segni e generali indicazioni del vero. Se l' uomo, prima d' operare, volesse sempre avere davanti alla mente la dimostrazione delle verità che suppone in operando e che lo determinano a quello o a quell' altro modo d' operazione, egli non s' indurrebbe mai ad agire, e parrebbe divenuto una statua, e cessato d' essere un uomo. La facoltà dunque della persuasione immediata, la qual dipende dalla volontà, gli è oltremodo necessaria e preziosa, e l' aiuta all' azione più dello stesso ragionamento dimostrativo. Ma questa facoltà, se talora coglie nel vero, sovente batte nel falso: si può anzi dire che da essa provenga, universalmente parlando, la funesta potenza che ha l' uom d' errare, da essa altresì il vero ostacolo al libero filosofare. Vediamo qual sia l' ufficio della Filosofia relativamente alle tante prevenzioni, che prendono posto così facilmente nella mente degli uomini. La Filosofia chiama ad esame tutte queste prevenzioni, tutti gli assensi più o meno gratuiti, e distingue quelli che sono prestati al vero da quelli che sono prestati al falso. Riguardo ai primi, la Filosofia aggiunge quello che loro manca, cioè, fa conoscere la ragione che giustifica l' assenso, ricevuta la quale l' uomo non solo possiede la verità, di cui s' era già persuaso non ancora sapendo il perchè, ma ben anco possiede quell' altra verità che gliene rende il perchè, e così la sua cognizione coll' abbracciare queste due verità si completa, e la sua persuasione diventa razionale. Che se l' assenso era stato dato sopra ragioni di probabilità, la Filosofia o tenta di condurre la probabilità a dimostrazione, o, non giungendovi, s' adopera a dimostrare, che in quel caso non si può trovare il certo, e a misurare i gradi della probabilità che gli convengono. Relativamente poi agli assensi che l' uomo ha dato agli errori o senza ragione o per ragioni false, cioè per altri errori precedenti da cui i primi si derivino or come logiche illazioni, or come illazioni credute logiche anch' esse per errore, è propria incumbenza della Filosofia il dimostrare l' erroneità di ciò a cui fu dato l' assenso, ed anche l' erroneità di ciò che fu preso per ragione dell' assenso, e finalmente, se in dedurre il primo errore da questo secondo, non s' inferì bene, anche l' erroneità di questa inferenza: laonde la Filosofia in quest' ultimo caso ha da dimostrare per ogni falso assenso almeno tre errori. Ma gli errori, le prevenzioni erronee, sono di sovente ostinate; anzi convien dire che ogni persuasione, erronea o no, tiene nella sua propria natura una forza di resistenza ad essere annullata, ed è quella stessa forza di conservazione che ha ogni ente, ogni atto di qualunque ente. Laonde quando il filosofo col ragionamento prende a distruggere tali persuasioni (ed è obbligato a farlo per andare avanti), egli non può a meno di entrare in una lotta più o meno forte, più o meno pertinace, cogli uomini, che non vogliono al primo intìmo abbandonare, quasi parendo loro ignavia, il proprio errore. La Filosofia non trova un simile ostacolo se le prevenzioni che ella incontra negli animi, quantunque gratuite, pure sieno vere, perchè allora ella non è obbligata di combatterle anzi con esse si associa, e in vece di rovesciarle, si mette dalla lor parte per fortificarle, illuminarle, difenderle, completarle, con costruirvi il fondamento che loro manca e che è la loro propria ragione. Dal che si deduce che non sono le prevenzioni e i pregiudizŒ per se stessi e nella loro universalità, quelli che ingombrino il passo alla Filosofia (come falsamente si dice), ma sono le sole prevenzioni, e pregiudizŒ erronei, e in una parola sempre e poi sempre l' errore invalso nelle menti. E ne consegue, che colui che avrà ammesse in sè prevenzioni e pregiudizŒ di tal natura, cioè erronei, sarà un uomo del tutto inetto al libero filosofare, e per rendersene atto, egli dovrà prima deporre quelle persuasioni, o certo, entrare in tale disposizione d' animo, che gravemente dubiti di esse, e si renda indifferente a deporle o no, secondochè la Filosofia, lasciata discorrere così libera come se quelle non esistessero, pronunci la definitiva sentenza. Ecco dunque la vera causa del lento e contrastato progresso della Filosofia: le prevenzioni e persuasioni erronee, ecco altresì la causa logica della perdita della sua vera libertà, e quella de' suoi traviamenti. E che le prevenzioni e persuasioni erronee, diffuse specialmente nella moltitudine, sieno causa del lento progresso della Filosofia, si scorge a non dubitarsene ove si consideri, 1 che il sistema filosofico della verità non può arrecare in un popolo que' frutti saluberrimi che in sè contiene siccome in germe, se non a condizione, che riesca a prevalere universalmente nell' opinione. Ma più sono le prevenzioni erronee infisse negli animi, più ancora sono i nemici che egli dee combattere e vincere prima di stabilirvisi, e dove dominano molti errori, gli animi discordi sono più irritabili e superbi, nulla rendendo l' uomo tanto altero, tanto indocile, quanto la tirannia dell' errore, chiamato sapere dallo schiavo che la subisce. 2 Che non solo la Filosofia, supposto che sia già trovata e ordinata, ma colui stesso che meditando la cerca, incontra nelle prevenzioni erronee invalse nella società, in cui vive, un' immensa difficoltà a raggiungere il vero che si propone, sia perchè coll' educazione e colla consuetudine de' suoi contemporanei egli stesso n' ha in sè poco o assai ricevute, sia perchè le opinioni abbracciate dal comune si presentano con una grande autorità, crederebbesi coll' autorità del genere umano, e l' uomo si perita e tituba a prendersela con questo cotal senso comune, e diffida di se stesso, nè si risolve a confessare con franchezza una verità che gli si rivela, dissentendo tutti, avendo tutti per giudici che lo condannano, e per lo più non con una seria e motivata sentenza ma colla derisione. E qui è veramente dove spicca la necessità di quel coraggio ed ardire filosofico, col quale tanto facilmente si confonde la presunzione e la temerità, perchè queste diversissime disposizioni si rassomigliano al primo aspetto, e spesso le ultime fanno come quegli impostori, che alla morte di qualche Imperatore le cui fattezze imitano, si spacciano per lui stesso ancor vivente, e non, come si credeva, già morto. Questo è il buon coraggio che libera la Filosofia da inutili restrizioni ed ingiusti vincoli, ed egli nasce nella mente di chi prende a filosofare mosso dall' amore della verità . Quando quest' amore è puro e vivace: quando colui che si dedica alla filosofica investigazione, sente che c' è un tal bene nella verità (nella verità dico d' un ordine sublime e morale), che a niun altro è comparabile, e la stima di tal valore che per acquistarla è disposto a far getto di tutte l' altre cose, e pur gli pare d' averla in dono gratuito: quando le cose, che non sono verità o ad essa s' oppongono quella reputa vane, anzi, meno della vanità e del nulla, una quantità negativa, perchè ingombrando la luce di quella ne impediscono il pieno e tranquillo possesso, la desiderata fruizione; quand' egli soggiace a quella potentissima debolezza, per la quale non può resistere per così dire alle immortali attrattive di lei e a lei cede senza difesa e senza pentimento; allora quest' uomo captivo di sì giusta imperatrice della mente, trovasi innalzato al di sopra di sè, delle sue proprie prevenzioni e delle altrui, pronto a sacrificar quelle senza dolore, e a combatter queste senza timore, se dopo un imparzialissimo sindacato le une e le altre appariscano erronee; e non può più mancare a costui quel coraggio e quel filosofico ardimento, che la prudenza e la modestia, quasi dandogli mano, accompagnano. E questo è quello che rivendica la Filosofia alla sua natural libertà, onde senza lasciarsi arrestar dagli intoppi, alla scoperta del vero con celerità s' incammina. Io ho sempre riputato in questa generosa disposizione contenersi il primo e il più importante dovere di chi prende a filosofare, la condizione indispensabile del filosofo. E in questa persuasione procurai spingere qualunque investigazione fino agli estremi quesiti, e raccoglierne con esultanza, qualunque fossero, i risultati; procurai di verificare se quei risultati erano veramente gli ultimi e perchè non ce ne potessero essere di ulteriori, di cavarne finalmente le conseguenze; e tutto questo pel primo lavoro. Le conclusioni in tal modo avute non meritano ancora un pieno assenso; devono considerarsi come possibili, o non molto più, fino che non s' è data la riprova all' operazione della mente che le ha somministrate, e questa riprova è il secondo lavoro. Il quale consiste nell' esaminare con attenzione, se i risultati ottenuti, o in se stessi, o nelle loro conseguenze, vengano a cadere in contraddizione con qualche verità, che già si conosce siccome certa, o con qualche opinione probabile, o con qualche prevenzione anche gratuita. Perocchè essendo la verità a pieno coerente seco medesima, se si può accertare che una conclusione qualsiasi, o qualche sua legittima conseguenza, si mostri ripugnante ad una qualunque sia verità, ella è indubitatamente da rigettarsi come fallace, e conviene riandare tutto il calcolo, e rifarlo, fino a scoprirne lo sbaglio. Se poi la lotta è con un' opinione probabile, non si può progredire, se questa non è stata prima esaminata e trovatone l' accerto: chè se ella si convince di falsità, non è a farne più caso; se poi è conosciuta vera, s' ha di nuovo la lotta di quella conclusione colla stessa verità. Il somigliante è a dirsi delle prevenzioni da cui le menti sieno universalmente occupate: non si devono dispregiare eziandiochè gratuite, ma discutere se quelle possano ricevere un fondamento di ragione, o al contrario se v' abbia una ragione che le riprovi per vane ed erronee. Con che il filosofo o le cambia colle sue ricerche in verità accertate, o le discopre errori, e, secondo il risultamento, o se ne giova quali indizŒ sicuri di qualche fallo o trascorso del suo primo ragionare, o, lasciatele indietro, egli continua animosamente ad avanzarsi pel suo cammino. Laonde egli è mal fido consiglio il prestare subitamente l' assenso alle proposizioni singolari che il filosofo crede d' avere discoperte col suo ragionare. Prima di tutto gli conviene diffidare assai di se stesso, altamente persuaso, che gli stessi ragionamenti più speciosi possono ingannare per qualche difetto, o salto che vi s' asconda (chè la fallacità è una delle limitazioni più manifeste dell' umana natura); e per cautelarsene, egli è uopo che faccia l' assaggio d' ogni singolare proposizione, chiamandola al confronto di tutte le altre, e delle verità certe, quasi reo posto al contradditorio co' testimonŒ; perocchè se non regge a questa prova, non può assolversi da grave indizio d' errore, ma se la proposizione regge così bene che si riscontri a pieno consentanea con tutte l' altre verità, allora si potrà fidarsene, e riceverla in lor compagnia. E così non sono tanto le ragioni dirette, che accertano soggettivamente una proposizione, quanto il consenso che ella mantiene con tutte l' altre, e quel sistema apparirà e sarà vero, in cui si trovi tanto perfetta consonanza, che tutte le sue parti, anche minime, quasi ad una voce facciano fede della verità di ciascuna, e in ciascuna, siccome in foco, s' accentrino i raggi di tutte, rendendola con sì gran luce evidente: chè ella è primissima condizion del vero la concordia, l' unità, la perfettissima pace. E qui non posso trapassare un pregiudizio, anzi un errore gravissimo, che si trova ripetuto da molti scrittori de' nostri tempi, rispondendo brevemente a coloro che ce lo opporranno sicuramente come un' obbiezione. Il quale errore si è quello di credere, che il libero filosofare sia interdetto o impedito a coloro che professano la cattolica religione. Opinione assai strana in se stessa, e più strana ancora, in quantochè non si considera, che questo impedimento che s' attribuisce ai cattolici, si dovrebbe, per la stessa ragione, riconoscere in qualunque altro uomo, il quale s' avesse pure una qualche fede religiosa. Di che proverrebbe la singolare conclusione, che il solo ateo si trovasse in istato di liberamente filosofare! Ma da qual principio s' inferisce una tale persuasione? Si pretende forse che l' essere in possesso di alcune verità sia un impedimento alla filosofia? In questo caso converrebbe portare la conseguenza ancora più in là, e sostenere che quegli solo può mettersi sicuro e lesto nell' arringo filosofico, il quale non conosce nè manco una sola verità. Ora quell' uomo di tutto ignaro, non rallegrato da alcun raggio del vero, non si trova, grazie a Dio, sopra la terra, e se ci si trovasse, egli non sarebbe uomo: chè l' uomo riceve da natura il primo lume, quasi concreato con lui, e questo lume è la forma prima che lo rende intelligente, e cresce questa forma con esso lui nell' infanzia, nella puerizia, nell' adolescenza, e continuando a crescere in isviluppo anche quando non crescono più le sue membra, non l' abbandona nè nella virilità, nè nella vecchiaia, nè nella morte. E d' altra parte che cosa vogliamo noi che sia la Filosofia? Tutti quelli che ne intendono alquanto, vi diranno che ella è il prodotto del movimento riflesso del pensiero. Ma come crediamo che possa darsi il movimento riflesso , se il pensiero non trova alcuna materia nel deposito della mente, su cui ripiegarsi? La cognizione riflessa in generale, e molto più la filosofica che è di una riflessione molto elevata, suppone prima di sè la cognizione diretta , e la cognizione popolare e sociale; e in ciascuno di questi generi di cognizione può trovarsi la verità, anzi deve almeno trovarsene una parte, chè altramente non sarebbe cognizione. Noi, definendo la Filosofia, l' abbiamo sollevata su tutte l' altre scienze con dire, che ella è quella che investiga le ultime ragioni di tutto il sapere umano. Ora come potrebbe farsi quest' ultima di tutte le ricerche, se non ci fosse dato precedentemente il sapere, che nelle varie scienze e discipline si comparte? E non è appunto per questo, che nella vita del genere umano i Filosofi e la Filosofia, propriamente detta, comparvero assai tardi, dovendosene prima raccogliere i materiali; e che lo spirito umano, salendo, dopo molte prove e ricco di molte notizie, a quella sublime riflessione, dall' alto della quale egli scorge in che si fondino le già prima conosciute e raccolte verità, giudica di se stesso, del suo proprio cammino, delle leggi che lo guidano ne' suoi passi, e si prescrive un metodo e si rende consapevole della necessità dialettica di quelle cognizioni, di cui fino allora non sapea indicare la ragione necessaria? Ella è dunque la più grande delle assurdità il sostenere, che le verità possedute precedentemente da colui che s' accinge a filosofare sieno un impedimento, un vincolo posto al suo libero pensiero, come chi dicesse che l' ali sono un impedimento, un legame all' uccello, che vola con esse. La verità dunque non impaccia il pensiero giammai: ma quello che lega il pensiero e lo impedisce dal volare liberamente è l' errore, o creato da un fallace ragionamento, o ricevuto gratis nella mente siccome una prevenzione od un pregiudizio: questo è il vero, il solo nemico della libertà filosofica. Laonde è pur maraviglioso e doloroso ad un tempo il vedere, che allorquando un autore produce delle opinioni le più stravaganti e le più erronee, contrarie al senso comune, e mette il suo miglior vanto nel professare delle empietà, benchè non ne adduca prova efficace di sorta, costui trovi chi l' onori (e certo non possono essere che degli ignoranti) del titolo di libero pensatore; quando il suo pensiero è pure allora così vincolato e schiavo all' errore, che non può muovere un passo verso la verità, e di più è trascinato, repugnante invano la natura umana, nel contrario cammino, rivolto il dorso al sole della medesima verità. L' audacia dunque di coloro, che assaliscono le più venerabili e più consentite verità, non è il certo segno, come crede il volgo de' dotti, della libertà del filosofare, ed è anzi del suo contrario. Ma a quante e a quali significazioni diverse non è stata abusata questa parola di libertà! A quanti inganni non s' è prestata strumento, a quante discordie! Quanti odŒ non ha ella commesso, quanti parapigli non ha occasionati, quante lagrime e quanto sangue non hanno sparso uomini che la presero a vessillo per abbaruffarsi con altri uomini che volevano la libertà altrettanto e più di essi, la libertà dico, che la natura umana non può disvolere! Ma o non s' intendevano sul significato del vocabolo e si menavano busse da ciechi, o non volevano intendersi, come non vogliono tuttavia, e in nome della libertà facevano e fanno a chi può meglio opprimere e soverchiare. Chè tutte quelle parole che ricevono diverse significazioni nelle dispute de' filosofi, e così prestansi acconcissime agli artificŒ e alle cavillazioni de' sofisti di tutte le professioni, quelle stesse applicate alle cose della vita reale dividono gli uomini in partiti violenti, ciascuno de' quali rappresenta l' idea diversa che allo stesso vocabolo attribuisce, idee, che poi, quasi incarnate ne' loro fautori, avvolgono in orrenda mischia la società di cui niuno sa predir facilmente la fine. E certo poichè le immortali idee non cadono sotto il ferro, nè trafitte dal piombo, quelle dissensioni, e guerre civili non possono trovare la loro fine, se non là donde presero il principio, cioè nella regione dell' intelligenza, nella quale l' errore tolse dapprima la maschera del vero che si mise in sul volto, deposta la quale, è restituito il regno della pacifica verità, nel cui seno, come in loro proprio domicilio, tutte le idee ritornano (lasciati di fuori gli assensi erronei e gli appetiti che colà entro non sono ammessi), e divinamente ordinate ed unificate dimorano. Libertà dunque è una di queste parole equivoche indeterminate, polisenne, e il mondo che freme e schiuma per essa, come un mare combattuto da contrarii venti, n' è testimonio. E il senso più astratto che s' applica a quella parola è il più assurdo di tutti: perocchè alcuni ripongono il concetto dell' uomo libero in questo, che egli non abbia più alcun legame di soggezione, e però si propongono di liberar l' uomo non meno dal giogo della verità che da quello dell' errore, e di formar così il libero pensatore ; non meno dal vincolo del dovere e della virtù, che da quello del vizio, e di formar così il libero cittadino ! I quali dimostrano, che non solo ignorano la natura umana, ma perdettero ancora totalmente il senso di se medesimi. Che cosa ci rimane dell' uomo, se gli togliamo ad un tempo il vero ed il falso, il vizio e la virtù? Nulla: quello che ci rimane è il bruto, il quale non è suscettivo di libertà, chè in ogni sua operazione è determinato e necessitato dagli istinti. Onde i Comunisti e i Socialisti, che intendono così appunto la libertà, prima di tutto negano affatto all' uomo il libero arbitrio! (1) E per tal modo l' astrazione immoderata trasporta cotesti speculatori fuori del subbietto della questione, cioè fuori dell' uomo che essi distruggono. L' uomo, che non è sottomesso alla verità, necessariamente è sottomesso all' errore; l' uomo, che ha scosso da sè il peso della legge morale e della virtù, necessariamente sostiene il peso del vizio. La verità dice: « « Chi non è meco, è contro di me »(2) » Fra la verità e l' errore, come pure fra la rettitudine e la tortitudine morale, non v' ha mezzo: il punto che le divide è il nulla dell' intelligenza. Convien dunque che l' uomo scelga in questa alternativa: perocchè non istà in suo potere il cessar d' essere uomo. Sia pure che la verità imponga anch' essa all' uomo una cotal soggezione, un cotal giogo. Già la verità in persona l' ha detto di sua bocca: « « il mio giogo è soave, e il mio peso è leggiero »(3): » ha parlato d' un giogo, d' un peso che impone all' uomo. E uno degli Apostoli della Verità ha indicato mirabilmente l' indeclinabile alternativa delle due servitù, scrivendo così ai cristiani di Roma [...OMISSIS...] L' uomo dunque è sempre servo, se così si vuole: a tutte e due quelle opposte servitù non può sottrarsi: egli può solamente scegliere fra quella che il rende servo della verità e della giustizia, e l' altra che il rende servo dell' errore e dell' immoralità. - Quale eleggerà? - Ecco la sola questione possibile; e perchè egli la sciolga, o di nuovo la risciolga, Iddio l' ha fatto libero; ma questa elezione non può esser sospesa: col solo volerla lasciar sospesa, l' uomo ha già scelto, e scelto il male: il momento dunque dell' elezione si può replicare, ma è sempre un momento: non costituisce uno stato, non è una disposizione; è un punto, nel quale l' uomo entra liberamente in uno de' due stati suoi proprŒ, o dall' uno passa all' altro, entra o passa nel regno della verità, o in quello dell' errore. Ma qui io prevedo, che coloro, i quali hanno eletta la verità per loro signora, si lagneranno di me, che chiamo servitù anche la loro felicissima condizione. Io mi scuserò a loro, come Paolo si è scusato a que' di Corinto d' una somigliante maniera di favellare; Paolo, dico, il quale non solo riconobbe due servitù , quella della giustizia e quella del peccato, ma ben anco due libertà , quella che rende l' uomo libero dal peccato, e quella che lo rende libero dalla giustizia. Perocchè dice: [...OMISSIS...] . Come dunque si giustifica di questa maniera di parlare? « « Io parlo alla maniera degli uomini, » dice, «per l' infermità della vostra carne »(2). » Veramente, se l' uomo non fosse limitato, debole, infermo, non gli verrebbe mai nella mente o sul labbro, che l' esser conformato alla verità ed alla conseguente giustizia fosse una condizione di servitù. Perocchè l' ordinario concetto di servitù acchiude in se stesso qualche cosa di ripugnante, d' involontario; giacchè si direbbe mai servo colui che potesse sempre fare, e che sempre facesse tutto ciò che egli vuole? che non trovasse alcun ostacolo al suo volere? non trovasse alcuno, che obbligasse la sua volontà a deviare dalla strada ch' egli s' elesse, riputandola di tutte la migliore ed a sè la più cara? Niuno certamente chiamerebbe cotesta una servitù, anzi una pienissima libertà. Questo sembra evidente: soffermiamoci dunque a considerare come e quanto, secondo questo stesso principio, possa convenire d' appellare servitù la soggezione dell' uomo alla verità ed alla giustizia. La natura umana si può considerare da tre aspetti; in se stessa, astraendo dagli atti posti da essa e dagli abiti acquistati; in quello stato nel quale s' è piegata all' errore ed al male; e in quello, nel quale ella s' è volta alla verità ed al bene. Se consideriamo la nuda natura umana in se medesima, noi la troviamo limitata. Ma fu divino consiglio di chi la compose, ch' ella potesse, quasi per un cotale spiraglio, lasciatole aperto, dell' intelligenza, attignere ed appropriarsi coll' efficacia della sua volontà l' illimitato e l' infinito. Così l' uomo limitato, come soggetto ha proposto dinanzi a sè un oggetto illimitato e illimitabile, l' essere in forma d' idea, che è la verità, verso a cui egli può stendersi senza fine, e, seguendola fedelmente come stella che gli mostra il cammino, ingrandire oltre misura se medesimo. E a questo ingrandimento egli aspira, come a sua propria perfezione. Tuttavia l' abbandonare le primitive sue limitazioni, e il romperle per cercarsi un altro modo più ampio e più nobile d' esistenza, gli è faticoso e difficile; chè gli pare una negazione e quasi un infrangimento di se stesso. Il che accade in questo modo. Egli è dotato di più potenze, e ciascuna ha il suo proprio impulso pel quale ella è portata ad operare indipendentemente dall' altre, e l' indipendenza di tali impulsi e di tali azioni cagiona disordine e disarmonia fra le potenze medesime. A mantenerle in concordia sicchè tutte cospirino armonicamente a migliorare il soggetto, dal quale, come da un' unica virtù, procedono, sta di continuo presente all' uomo la verità, e da alto luogo, siccome divino auriga, colla voce le dirige e le affrena e le inanima. Laonde quest' autorevolissima moderatrice di tutte le umane potenze incontra non di rado opposizione nell' impeto particolare di ciascheduna, che inconscia dell' altre si svolge; ma niuna opposizione trova, nè può trovare nello stesso soggetto che tutte in sè le contiene, a pro di cui ella le governa, almeno se il soggetto stesso volontariamente non si snaturi, lasciando la propria unità, e spezzandosi, trasformandosi quasi in una sua speciale potenza, a' capricci della quale sacrifichi se medesimo. Sotto al governo dunque della verità v' ha una cotale servitù delle singole potenze, non quella dell' uomo; che anzi questi per la verità lungi d' acquistar servitù, diviene il governatore di se medesimo, il signore di tutte le sue proprie facoltà. Ma quando l' umano soggetto invece d' operare coll' istinto suo proprio, che del bene complessivo dell' intero uomo è promotore, si lascia trascinare all' istinto esorbitante d' una sua potenza particolare e a questo ubbidisce; allora noi non abbiamo più davanti la nuda natura umana priva di modificazioni e di alterazioni, ma uno stato di lei acquistato co' suoi atti e cogli abiti; l' abbiamo presente già ripiegata verso l' errore ed il male. Dico anche verso l' errore, perchè l' umano soggetto, se non abbandona la verità, non può dimenticare se stesso, e perdere la sua unità e totalità, per seguir le voglie esclusive d' una sua speciale potenza, in questa sola quasi attuandosi e consumandosi; chè la verità l' ammaestra di fare il contrario, anzi gli dà la forza di reggere e di mantenere nel debito ordine le diverse sue attività, acciocchè tutte cospirino a produrgli quel bene complessivo che è il suo proprio, il bene di tutto l' uomo. E poichè l' uomo considerato nella sua integrità ed unità, naturalmente non può voler altro che il bene di se stesso, non quello d' una sua parte a scapito del suo tutto; perciò l' attenersi alla norma della verità, che gliene insegna la via e gliene dà il potere, è così conforme e consentaneo all' umana natura, che dalla congiunzione di questa colla verità nasce appunto la maggiore delle umane potenze, cioè l' intelletto, e il più eccellente, il più proprio degli umani istinti, quello del bene. E non si potrebbe nè pure intendere in che modo l' uomo che alla verità deve tanta parte di sua esistenza e quell' essenzialissimo istinto che solo, rigorosamente parlando, merita il nome di umano , potesse poi abbandonarne la luce e prendere nelle sue operazioni una direzione contraria, se non lo si sapesse dotato d' una libera volontà, potenza unica nel suo genere, e diversissima da tutte l' altre; chè l' altre tendono solo al bene di se stesse ed altro non possono; per la libera volontà l' uomo può scegliere ugualmente il bene ed il male, può operare così alla propria perfezione come al proprio deterioramento, può rivolgere le sue forze a conservarsi, od anche (quantunque nol possa pienamente conseguire) a distruggersi. Qualora dunque l' uomo coll' abuso di questa singolar potenza (nell' investigazion della cui natura i filosofi si sono di frequente smarriti come in un laberinto) abbia collocato se stesso di contro alla verità per combatterla, diventa necessario che egli consideri quella luce amica, come inimica, e non ravvisi più in lei se non una severissima legislatrice, una regnante crudele, di cui sente pesantissima e molestissima la servitù, e che non gli paia più d' esser libero se non allora, che se la sia tolta d' addosso. Ma il combattere contro la verità è in suo potere, il ritorsene d' addosso la servitù (quella servitù che s' è creata egli stesso) non è in suo potere. Poichè certo il potere dell' umano arbitrio non si stende fin quà: egli può determinare le operazioni dell' uomo e dar loro un avviamento ritroso alla verità, ma non può nulla sulla stessa natura umana, che è guardata dal Creatore; e in questa natura appunto, che sta nella mano dell' Onnipotente, è collocato, come in una rocca munitissima e indistruttibile, anzi inaccessibile a' suoi nemici, la verità; e quivi ella regna, o beneficando, anzi assumendo al proprio talamo i suoi fedeli, o castigando i ribelli. V' ha dunque una servitù della verità, ma sol per quelli che ricusano di partecipare delle sue nozze e del suo regno a cui son tutti invitati. Ma chi può regnare colla verità, il che è più ancora d' esser libero, e in quella vece elegge da se stesso d' esserle servo, anzi di que' servi che furono detti servi di pena, può egli lagnarsi d' una tale servitù volontaria, può dire che la verità e la conseguente giustizia tolgano all' uomo la libertà? Riassumendo dunque, noi vediamo, che, se si considera l' uomo in se stesso, la verità, che lo illumina e gli dà intelletto, impone una cotale servitù alle singole sue potenze, non all' uomo medesimo, a cui anzi mette in mano la libera signoria di queste, onde se ne giovi come gli piace alla propria grandezza. Che se poi si considera quell' uomo, il quale, ricusata questa signoria offertagli in dono dalla verità, preferisce di discendere e d' assudditarsi egli stesso al capriccioso istinto di qualche sua singolare potenza, alla quale, invece di comandare, ubbidisce, allora la giusta servitù della potenza ricade sullo stesso soggetto, cioè sull' uomo, che, servendole, si è reso volontario servo di questa serva. Ma cotesta maniera di bassissima servitù non viene dalla verità, ma dalla rea volontà dell' uomo medesimo, che l' antepose alla libertà. Non è un servire l' operare secondo la propria natura, chè questa forma d' operazione è anzi spontanea e dilettosissima; ma qui sta il concetto della servitù, che altri sia costretto ad operare l' opposto di quello a cui la sua natura propende. E l' unione intima dell' uomo colla verità è naturale, onde l' operare secondo questa unione è consentaneo alla libertà umana. Ma poichè la libera volontà può opporsi all' umana natura , quindi da essa procede la volontaria servitù dell' uomo; e stando la cosa così per colui che ritorce la terribile potenza della propria libertà contro se stesso, egualmente può dirsi, che quella servitù provenga dalla signoria della natura umana, e che provenga dalla signoria della verità; perocchè queste due sono una sola e medesima signoria. E come l' uomo, che si sforza di scuoter da sè la signoria della propria natura, tenta (benchè impotentemente) la propria distruzione, così l' uomo, che si dibatte per iscuoter da sè la signoria della verità, tenta la distruzione medesima. Onde chi non vuole esser servo della natura umana e della verità, diventi libero e signore, che ben lo può; non opponendosi a quelle, da quelle non dividendosi; ma rimanendo con quelle indiviso, regni liberamente e felicissimamente. E questo è il terzo aspetto nel quale noi ci proponevamo di considerar l' uomo: questa è quella condizione, che l' uomo trova quando alla verità ed al bene s' è interamente concorso. Nella quale alla verità non consegue alcuna maniera di servitù, non c' è nulla che costringa l' uomo, che lo leghi. Poichè non è legato colui, che, come dicevamo, fa sempre quello che vuole, il che avviene a chi non vuole altro che la verità e ciò che consegue alla verità; onde la verità ed il bene non è per cotest' uomo alcun giogo o peso, chè non può esser tale l' oggetto stesso de' suoi affetti, de' suoi desiderŒ, de' suoi voleri. Con quest' oggetto egli sente se stesso di sè più grande, da esso deriva e prende una potenza che gli si aumenta in mano di giorno in giorno, in esso trova un' immortale dilettazione, dove acquieta l' ardore dell' anima. La libera volontà di costui è in perfettissimo accordo colla propria natura, o piuttosto ella è la stessa natura nobilitata. Perocchè come la natura dell' uomo, dico la sua natura propria e specifica, consiste in una congiunzione e in un' immanente visione della verità, così la volontà rettissima non fa altro con tutte le sue operazioni che stringere, e perfezionare via più, e quasi consumare questo connubio, nel quale l' uomo più o meno perfetto sussiste. Laonde l' istinto della natura intera dell' uomo e la libera volontà, non avendo più scissura nè opposizione nè lotta di sorte alcuna, si unificano: e l' uomo è uno e perfetto. Il che veniva a significare molto altamente S. Paolo, quando diceva, che « « la legge non è imposta al giusto, ma agli ingiusti »(1). » Perocchè la legge non è qualche cosa d' opposto alla volontà del giusto; che anzi ella dice quello, che questa volontà vuole, onde in altro luogo l' Apostolo afferma ancora, che l' uomo che vuole il bene, è già egli stesso legge a se medesimo (2). Le singolari potenze possono sì nella loro cecità insorgere disgregate e mettere cotanta pace a cimento, tentando d' ingannare e di sedurre la volontà: ma, se questa s' attiene alla verità tanto fortemente che basti, ella le domina, e non riceve offesa da' loro assalti. Se poi la volontà cede per sua fiacchezza, non è questa colpa della verità, onde ogni valore ed ogni forza le deriva. Ma a questa stessa fiacchezza di volontà venne il Creatore in soccorso, e questo comunicando all' uomo di nuovo la verità, ma in misura più copiosa, in un modo più intimo, in una nuova forma più sublime, che non sia quella, in cui egli la consegnò prima universalmente alla natura umana; e così la libertà dell' uomo contro alla cieca violenza de' suoi particolari e parziali istinti fu guardata ed assicurata da Dio medesimo. Il quale diede una tanta promessa agli amatori della verità; quando disse: « « Se voi vi terrete nel mio sermone, sarete miei veri discepoli, e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi »(3) » La verità dunque lungi d' imporre per se stessa una servitù agli uomini, è l' unica causa della loro libertà, della qual libertà essi non rimangono privi se non allora che essi la ricusano, col ricusarne la causa. E nella verità tende tutta la Filosofia. Poichè, che altro vuole questo studio e quest' amore inquieto di sapienza, se non discoprire la verità, e discoperta contemplarla, e contemplata penetrarla più innanzi, quasi visitandola negli ultimi suoi recessi, dove ella più disvelata si manifesta, per ivi refrigerare la sete ardentissima, che n' ha l' umana natura, all' acque d' una più pura e più alta sorgente? Laonde s' egli fosse così, che la verità traesse seco una servitù del pensiero, che altro sarebbe lo stesso filosofare, se non un andare in cerca di servitù e di servitù sempre maggiore? E come si potrebbe allora esigere in coloro, che alle filosofiche investigazioni si danno, un libero pensare? Quanta e quale dunque non è la contraddizione di coloro, che, facendo pur encomio della libertà del pensare, temono poi della verità e della vera religione, che per avventura non la facciano loro perdere, e considerano meno liberi quelli, che più di verità possedono, e che son quindi più prossimi ad ottenere il fine della Filosofia? E quanto questa contraddizion così strana non si aumenta e moltiplica, allorchè s' ascoltano costoro lodare altamente, siccome liberi pensatori, quelli che si presentano al pubblico autori de' più sformati e stravaganti sistemi, accozzamento di delirŒ e di assurdi, pigliando essi per sicuro segno della libertà del pensiero la novità e il coraggio d' allontanarsi, delirando, dai veri i più consentiti dal genere umano, e di sottrarsi a questa luce quasi ad una volgare ed ignobile servitù, nella quale vivano abbietti gli uomini comunali! Così questi appunto, che sono gli schiavi dell' errore, si predicano i pensatori liberi, e le menti, che la verità ha fatte libere dall' errore colla sua luce e colla sua potenza ha rese signore delle passioni che diffondon le tenebre, si dicono schiave! Qui l' ingiustizia mentisce troppo apertamente a se medesima. Ma taluno dirà: « Voi asserite, che l' avere ricevuto nella mente delle verità, ancorchè ciò sia per modo di prevenzione, di pregiudizio, o di fede, non è una disposizione contraria ed anzi è favorevole al libero filosofare, perchè la verità non impone mai servitù, che anzi è quella che forma nell' uomo la stessa libertà, e fin qui niuna opposizione da parte nostra. Ma voi avete aggiunto, che nè anco le credenze cattoliche scemino la libertà al pensiero filosofico, con che avete supposto che tali credenze sieno altrettante verità. Ora tutti quelli, che non ammettono questa supposizione, vi negheranno la conclusione. » - La quale obbiezione, a buon conto, mi concede, che tutto ciò che dicevo, deve essere assentito senza difficoltà da ogni uomo che professa la cattolica religione; e qui già un gran numero di suffragi viene a confermare il mio ragionamento. Poichè la cattolica Chiesa dilata le sue tende fino ai confini della terra, ed accoglie sotto di esse, tutte o gran parte, le civili nazioni. Per verità un' udienza così numerosa, così civile, ed unanime può soddisfare, anche sola, un uomo che ragiona. Agli altri, cioè a quelli che non ebbero il dono della fede, o dubitano ancora della verità delle cattoliche credenze, io, unito con tutti i filosofi cattolici, volgerò la seguente comparazione: « Fatevi in una scuola dove si spieghi Euclide: voi ci giungete nell' atto, che il maestro dimostra agli scolari la proposizione dell' ipotenusa. Non essendo voi stato presente all' esposizione di tutta la serie delle proposizioni che la precedono, non potete raggiungere quella dimostrazione, che suppone conosciute ed ammesse per vere le altre proposizioni sulle quali ella si fonda. Ora voi vi fate a dire così al maestro: Io non posso assentire alla dimostrazione che voi avete data di questa proposizione, perchè voi ne supponete vere tant' altre, di cui non me n' avete dato alcuna prova. Voi dunque ve ne andate avanti siccome colui, che non adopera un pensiero libero, ma bensì legato da molte gratuite supposizioni. » Chiaro è che quel matematico risponderebbe subito al suo nuovo uditore in questa guisa: « Badate che siete voi quello che non procede con un pensiero libero da false supposizioni, voi che a torto supponete che io ammetta gratuitamente per vere le proposizioni che ho adoperate in ordendo la dimostrazione da voi udita: a voi par questo, perchè, non essendo voi intervenuto alle lezioni precedenti, non avete intese le prove, che di ciascuna di esse io diedi a questi miei discepoli. Se dunque a voi piace d' imparare la geometria, io m' offerisco d' insegnarvela per ordine in lezioni private, e di condurvi di proposizione in proposizione fino a raggiungere questi miei discepoli coi quali potrete poscia continuare lo studio. » A quest' uomo, che giudica di matematica per averne sentito a caso una sola lezione di mezzo al corso, e trova esser la mente del matematico schiava di pregiudizŒ, de' quali egli va liberissimo, è somigliante colui che si dà a credere che il filosofo cattolico ammetta gratuitamente le sue credenze, e queste sieno false, e però gli tolgano la libertà del filosofare la quale, come ci fu conceduto, non è impedita che dall' errore. All' incontro il filosofo cattolico, al pari dell' accennato matematico, reputa che non a sè manchi la libertà del pensiero, ma bensì a colui, che ignora la cattolica verità, e che, ignorandola, la tiene per vana: al quale solo insieme coll' ignoranza appartiene l' errore, che è l' opposto della verità e della libertà. E però egli fa appunto come quel matematico, riducendo la disputa ad una importantissima questione di metodo. Perocchè, come il matematico invitò quell' uomo, che volea incominciare lo studio della geometria dal mezzo invece che dal principio (ond' avveniva, che non gli paresse ben dimostrata la proposizione dell' ipotenusa, perchè ne ignorava le precedenti), lo invitò, dico, a riprendere la scienza dal suo principio; così il filosofo cristiano invita colui che nol crede libero pensatore perchè s' attiene alle credenze del cattolicismo, a discutere prima di tutto sulla verità di queste, e poscia ad accompagnarsi con esso lui nel cammino più innoltrato della Filosofia. Poichè questa appunto è la prima di tutte le discordanze e la fonte dell' altre tra i filosofi cattolici e i non cattolici, che reciprocamente s' accusano di non esser liberi pensatori, cioè la discordanza nel metodo. Il filosofo non cattolico vuole creare tutta intera la Filosofia, senza mai cercare se il cattolicismo sia un errore o una verità: e poichè egli la tiene per un errore, o n' ha almeno il dubbio, vuol filosofare con questo pregiudizio in capo senza discuterlo. L' ateo, molto più, vuol filosofare astraendo da Dio, che suppone non esistere, supposizione che egli pure ricusa d' esaminare, e che appunto perciò è un pregiudizio che egli manda avanti a tutti i suoi ragionamenti filosofici, quasi a capitanarli. Il filosofo cattolico vuole, con chi non ha la vera religione o ne dubita, che prima si ragioni sulla religione stessa, e si stabilisca se il cattolicismo è vero o no; perchè trovatolo vero, è con ciò stesso dimostrato ch' egli non arreca alcun nocumento al libero filosofare, ed anzi rende più facile e più sicura la soluzione delle altre filosofiche questioni. E il filosofo cattolico ha tanto diritto a ciò, quanto n' avea il matematico a volere che colui che bramava applicarsi alla geometria incominciasse l' Euclide da capo; perocchè con qual diritto può il filosofo non cattolico accusare il cattolico d' avere il pensiero inceppato e servo di preventive credenze, se non dimostra che queste sien false? e se non esamina nè manco se quelle siano ammesse senza alcun fondamento di ragione? Chè se sono vere e ragionevoli, certo non impediscono il pensiero dell' uomo, ma lo liberano dall' errore, e l' aiutano mirabilmente. Laonde anche il sommo filosofo di Tagaste diceva, che « « in quelli che ardono d' un grande amore per la verità perspicua, non è da riprendersi lo studio, ma da richiamarlo all' ordine » » cioè, al giusto metodo, « « in modo che incominci dalla fede e colla bontà de' costumi si sforzi d' arrivar dove tende » » cioè alla perspicua, o scientifica verità (1). Veramente ella è una manifesta prevenzione e una prevenzione erronea quella de' filosofi non cattolici, che pretendono d' assumere per cosa certa, che la fede cristiana sia del tutto cieca, una credenza prestata a caso, simile a quella, che la plebaglia accorda al loquace cerretano. Pure il loro pensiero è così fattamente schiavo di questo giudizio temerario, che non arrivano mai a sentire la necessità di sottomettere quella loro prevenzione ad un serio esame, onde ad essa non resta altro fondamento che l' ignoranza della religiosa dottrina e della cristiana fede. E` dunque ragionevole chiamarli prima di tutto a questa discussione; nella quale entrati con lealtà, non sarà difficile il convincerli prima di tutto, che l' intelligenza nell' uomo cattolico precede, accompagna, e sussegue la fede, di manierachè la fede cattolica non va giammai scompagnata dalla luce dell' intelligenza, quando, se più addentro è dato di penetrare, la fede stessa è una parte, la parte migliore di questa luce. E nel vero, i motivi della credibilità sono all' aperto, e a ciascuno è lecito, talor anche doveroso, sottometterli all' esame e alla prova del ragionamento. La religione cattolica poi in questa disamina non teme che una sola cosa, cioè che la discussione si faccia troppo leggermente, superficialmente, non bastevolmente accurata, paziente e profonda. Chè quanto quella discussione si porta più avanti, si conduce con maggior rigore, perseveranza, dottrina, tanto più si tiene sicura la cattolica fede d' uscirne vittoriosa, come sempre accade alla verità, che più è messa alla prova, e più viva luce trasmette; e solo allora non è veduta e abbracciata dagli uomini, quando la disprezzano, ed orgogliosi, con un sogghigno, senza guardarla in faccia, le passano avanti. Laonde è passata quasi in proverbio quella sentenza di Bacone, che una scienza superficiale (non mai priva d' allucinazioni e d' errori) ritrae gli uomini dalla religione, ma una profonda ve li riconduce. Che se i motivi di credibilità resistono saldissimi alla prova del filosofico ragionamento, e rimane vinto, che essi addimostrano la verità della rivelazione e del magistero della Chiesa che ne custodisce il deposito e agli uomini il propone e il comunica, sarà egli filosofo, sarà uomo ragionevole colui che rifiuta nondimeno d' ammettere per vera quella scienza, che esce, come da immediato suo fonte, non da una scuola umana, ma dall' intelligenza di Dio medesimo? In che modo il pensiero che cerca la verità, temerà di non esser più libero quando la trova nel suo più alto fonte? Come la Filosofia prenderà sospetto di un tanto acquisto, dopochè ella stessa n' avrà riconosciuto il fonte e la legittima derivazione ed accertate le prove? Chè nel vero, supposto che la Filosofia abbia trovati efficaci e concludenti gli accennati motivi di credibilità, pure con ciò ella ha imposto a se medesima il dovere di riconoscere per veri gli articoli della fede: ricusarli, la metterebbe in contraddizione, e la contraddizione distrugge la Filosofia. E` dunque per la necessità di conservare se stessa, che la Filosofia accetta la fede, di cui ha discussi i motivi. E parimenti, chi dirà che il pensiero tolga a se medesimo la libertà colle sue proprie, libere, e naturali operazioni, e col subirne le conseguenze? La prima di tutte le leggi del pensiero è la coerenza, chè l' incoerenza, in quant' è incoerenza, non è nè pur pensiero. Se dunque il pensiero, liberamente movendosi, è pervenuto a scoprire l' esistenza d' un' autorità divina e d' un magistero infallibile, egli con queste sue operazioni s' è messo nella necessità o di cessare d' essere, ovvero di assentire a tutto ciò che attesta quell' autorità, il che è quanto dire di credere. V' ha dunque una ragione che precede la fede, e il credere è anch' esso un atto del pensiero, che ubbidisce alla ragione, benchè non sia questo solo. Se facesse altrimenti, allora, e allora soltanto, il pensiero avrebbe perduta ogni sua libertà; poichè non ci potrebbe essere che una causa straniera che gl' impedisse il suo proprio atto, cioè di far quello a cui la sua natura lo determina; e questo appunto è servitù, non potere operare come inclina la propria natura, per un ostacolo, che l' agente incontra fuori di sè al suo svolgimento. Ma non tutti, direte, prima di prestare la fede, esaminano filosoficamente i motivi di credibilità - Sia, se così volete; ma che un gran numero di quelli che ricevono l' evangelica predicazione, ne esaminino o no i fondamenti, quest' è una questione affatto aliena dall' argomento: noi parliamo di ciò che può fare il filosofo, se lo vuole: e basta che lo possa, perchè cada in nulla l' accusa di coloro che dicono, il filosofo cattolico non poter conservare la libertà del suo pensiero. Tuttavia su di questo stesso mi sia permesso frapporre alcune parole. Io richiamo anche qui l' obbiettante a una questione preliminare di metodo. Sieno discussi avanti ogn' altra cosa i motivi di credibilità, e suppongasi che da questa discussione risulti la loro validità, rimanendo così provato, che i dommi cattolici sono altrettante verità. Conosciuto questo, un' altra questione si presenta, di natura totalmente filosofica: « Come l' uomo conosce la verità? C' è un solo modo di conoscerla? E quest' unico modo è forse quello della discussione filosofica, dell' esame condotto a regolo e forma di scienza, di maniera che ad ogni uomo che non è filosofo, o che non s' è applicato alle scienze (e in questo caso si trova il più degli uomini) rimanga precluso interamente l' adito alla verità? E (quello che ne consegue), che quasi tutto il genere umano, eccettuati i pochissimi scienziati, sia condannato negli argomenti più importanti e più necessari al fine dell' umana natura, ad una di queste due cose, all' ignoranza, o all' errore? perchè tolta la verità, questi due mali rimangono ». Ed io credo che può rinunziare alla Filosofia colui che risolve questa questione affermativamente; chè al buon senso ha già rinunziato: credo che se la Filosofia, intendo quella che ha vestito forma di scienza, tanto si restringe, tanto si divide dal genere umano, che si persuada in sè sola contenersi tutta la verità e la certezza, nella gran maggioranza degli uomini non rimanerne un minuzzolo, quella non è più Filosofia, ma invece di Filosofia un' ignorante baldanza che n' ha preso il nome e l' acconciatura. Ma se pure si danno di costoro, i quali abbiano cotanto impacciato il pensiero e da una così ingiusta prevenzione legato, sieno filosofi o no; si può ragionare anche con questi, purchè vogliano veramente seguire quel ragionamento tirato a filo di scienza, al qual solo s' affidano, o piuttosto dicono d' affidarsi. Perocchè appunto con esso quel ragionamento scientifico, in cui ripongono tutta la causa della verità, si devon condurre a istruirsi meglio intorno alle proprietà ed alle operazioni della mente umana, colla qual maggiore istruzione dismettano quell' errore. Chè una credenza così erronea, così ingiuriosa all' umanità, non ha la sua origine nella scienza, ma nell' ignoranza della natura dell' intendimento umano, e delle vie più segrete, per le quali egli alla verità si congiunge. E di vero un' investigazione profonda dell' intendimento conduce a riconoscere, che v' ha indubitatamente una prima verità, la quale comunica senza mezzo con tutte le menti, e questa è l' essere stesso nella sua essenza indeterminata, e nella sua forma ideale. La quale notizia prima ha l' uomo per visione, non per ragionamento, come quella appunto che non ha bisogno di mezzo termine. E chi ne dubitasse, e al ragionamento volesse appellarne, la stessa natura del ragionamento, diligentemente perscrutata, lo convincerebbe che la cosa è così; perocchè il ragionamento non può esistere da sè solo, ma da quel primo vero immediatamente intuìto procede, e, tolto via questo, esso è estinto prima di nascere, come in vano supporreste esistenti i colori de' corpi, se prima di fare questa supposizione, aveste negata la luce. E che fa mai il ragionamento, qual è il suo ufficio, a che s' estendono le sue forze? Non ad altro che a dedurre una verità da un' altra anteriore, per mezzo d' una verità media. Ora quella verità anteriore dove si prende? vorremo procacciarcela per via d' un altro ragionamento? E bene, in tal caso noi la dedurremmo da un' altra verità: se ripetiamo lo stesso discorso anche su l' origine di questa, ad un' altra ci troveremo condotti più lontana; ma così risalendo di verità in verità e di sillogismo in sillogismo, o non ci potremo mai fermare, o dovremo posare il piede in una prima verità, non dedotta dal ragionamento, ma nota per se medesima, come luce immediata della mente. Ora ci atterremo noi al primo braccio di questo dilemma? Il solo tentarlo è un cadere in molti assurdi: poichè se così fosse, ogni ragionamento sarebbe impossibile, e non ci somministrerebbe mai alcuna certa verità. Sarebbe impossibile, perchè supporrebbe un infinito numero di sillogismi conchiusi prima di venire all' ultima conclusione; chè la verità, da cui si toglie a dedurne un' altra, sarebbe ella stessa dedotta da un' altra, e questa da un' altra, e questa da un' altra di nuovo all' infinito. Ora l' uomo è consapevole a se stesso, che niuna delle verità che egli conosce gli costa tanto, e che a niuno di que' sillogismi, co' quali egli ha stimato conoscere qualche verità, ne ha premesso altri infiniti, nè riputò mai esservene bisogno. Di poi, dato anche che l' uomo spendesse tutta la sua vita quant' è lunga a comporre una catena intrecciata di sillogismi, questa catena gli si spezzerebbe in mano colla morte, e così non sarebbe più infinita, e perciò egli non sarebbe arrivato in tutta la vita sua a pur conoscere la minima delle verità. Facciamo l' uomo immortale, e apparirà ancor meglio l' assurdo dell' ipotesi che la verità non si possa conoscere, se non per la via del ragionamento. Dato un uomo che non muoia mai, quand' anco egli in altro non s' occupi che in infilare l' un nell' altro sillogismi, mai non giungerebbe nè manco quest' immortale al termine dell' opera, cioè ad averne infilato quel numero, di cui egli abbisogna per conchiudere con efficacia ad una sola verità, poichè quel numero dovea essere infinito. Che se egli venisse a capo di questo lavoro, la serie de' ragionamenti avrebbe trovato il suo termine, e così non sarebbe più infinita. Onde se ogni verità ha bisogno d' esser provata col ragionamento, niuna verità si può provare; non trovandosi mai in questa deduzione la prima verità da servire di fondamento a tutte l' altre susseguenti: e non solo non si trova, ma nè pure esiste; chè a poter esistere avrebbe bisogno che l' eternità fosse tutta scorsa, e l' eternità non si può scorrere tutta, senza che cessi di essere eternità. Mancherebbe dunque sempre il primo anello della catena delle verità, niuna di esse potrebbe conoscersi dall' uomo, niuna dimostrarsi: chi introduce la verità in questo labirinto, l' ha trasformata in un assurdo, e quella che è per natura sua necessaria, l' ha perduta nell' impossibilità. Dicevo dunque che il ragionamento senza qualche verità precedente, la cui cognizione da lui non dipenda, o è impossibile, o almeno non ci può fornire alcuna certa verità. Impossibile, se si vuole spingere all' infinito la serie de' sillogismi, e fu dimostrato pur ora; non ci può fornire alcuna certa verità, se fermando la serie ascendente de' sillogismi in una prima proposizione, poi si neghi che questa risplenda all' intelletto, come un vero per sè evidente, e si sostenga che quella proposizione, più o men rimota in cui è giocoforza fermarsi, non abbia veruna autorità, e si ammetta soltanto per la necessità che a ciò costringe, come un postulato gratuito, o come un pregiudizio di cui non si può rilevare il valore. Con questo colui che avea cominciato a proclamare il ragionamento qual unico mezzo di conoscere la verità, avrebbe finito, non volendolo e non accorgendosene, col trovarsi divenuto uno scettico: colui, che per mantener libero il pensiero, l' avea affidato alla sola scorta dell' argomentazione ricusando d' ammettere qualsivoglia verità non dimostrata per essa, scorgerebbe d' avere legato mano e piedi il suo pensiero medesimo, fino a renderlo impotente a conoscere cos' alcuna, resolo non solo schiavo, ma scimunito. E questo non è tanto ciò che si prova dover conseguitare dialetticamente, quanto quello che si vede avvenuto; è la storia della moderna filosofia, cioè di quella che i moderni s' ostinano a chiamare Filosofia. Non vediamo noi i filosofi della Germania per un lunghissimo e tortuosissimo cammino aver condotto il pensiero umano in trionfo al suo estremo supplizio? Perocchè l' ultima conclusione de' loro infaticabili studii si fu che la ragione teoretica è impotente a conoscere qualunque siasi verità in se medesima, col qual decreto vericida hanno chiusa ad un tempo stesso la loro rivoluzione filosofica, e finita la filosofia. Di poi hanno tentato di farla risuscitare (perocchè in qual maniera può contentarsi l' uomo di esistere senza la verità?), e sono perciò ricorsi alla ragione pratica , cioè ad una ragione, che assume de' postulati senza poterli dimostrare, per aver qualche punto, in che possa insistere, non tanto il pensiero, quanto l' azione degli uomini; parendo loro più facile rinunziare a quello che a questa. Sono dunque ricorsi ad una cosa indimostrata, non più ad una verità; sono ricorsi ad una ragione, che ha bisogno d' un epiteto per esser ragione, ed è quanto dire ad un fantoccio di ragione messo sul trono, acciocchè, per la grazia dei filosofi, regni, ma non governi; sono ricorsi ad una ragione fatta da loro a mano, schiava della più crudele necessità, dopo aver espulsa la ragione libera e veramente regina. Ecco quello che è avvenuto; ecco quello che doveva avvenire dall' aver posto il principio, che il pensiero non è libero, se non s' affida interamente al ragionamento senza una verità primordiale, che guidi come face luminosa ogni ragionamento. Convien dunque riconoscere, che questi nuovi maestri degli uomini hanno incominciato i loro studŒ da una gratuita ed erronea prevenzione, per la quale hanno accordato al ragionamento maggiori forze ch' egli non s' abbia; che essi dunque non furono filosofi liberi, ma legati e veramente pregiudicati. Convien riconoscere che il ragionamento non è l' unico nè il primo mezzo di conoscere la verità; ma che o avanti il ragionamento ce ne devon essere degli altri, oppure la è finita della verità e della certezza, e molto più della filosofia, e l' uomo si dee rassegnare a rinunziarvi in sempiterno. Ma quello che, considerando l' impotenza del ragionamento di dar fondamento da sè solo alla cognizione umana ed alla certezza, noi induciamo dover essere, quello stesso troviamo che è, osservando e perscrutando con diligenza l' essere, e il fare dell' umana intelligenza. Imperocchè con questa diligente perscrutazione, noi prima intendiamo, che, avanti il sillogismo (alla qual forma si riduce ogni ragionamento), l' intendimento umano pronuncia i giudizŒ, e avanti i giudizŒ, egli vede le idee, senza la qual vista i giudizŒ non si possono pronunziare, come senza aver questi pronunciati non si possono ordire i sillogismi. E poichè le idee composte da' giudizŒ stessi ci vengon date; dunque è da conchiudersi, che anteriori ai primi giudizŒ non sono che le idee semplici, e cercando quali queste sieno, se n' ha per risultamento che una sola di esse è tale, e questa è l' idea dell' essere; di cui investigando poi la natura, rilevasi, che ella a tutti i giudizŒ precede, di nessuno abbisogna, ai giudizŒ tutti è ella stessa così necessaria che senz' essa nessuno è possibile, nessuno concepibile. Quest' idea dunque è la prima di tutte, quella in cui affissando l' occhio della mente, l' umano soggetto può giudicare e raziocinare, onde perciò egli attigne l' intelligenza: noi abbiamo dunque trovato in essa il lume della ragione , la forma oggettiva dell' intendimento: l' uomo crede a questo primo vero, non può non credervi, perchè è pura luce, e da quest' atto di razionale credenza ogni ragionamento toglie tutto quel valore che ha, ivi incomincia l' attività razionale, ed ivi pure finisce. Applichiamo questa dottrina a provar quello che ci proponevamo. Quell' Essere, che ha formata l' umana natura concedendole d' intuire, con certa limitazione, la luce della verità, e così rendendola intelligente, voglia comunicarle un' altra parte di verità, un altro grado specifico di quella luce. Non sarebb' egli verosimile, ed anzi indubitato, che quest' Essere che appieno conosce la sua fattura e che vuole in essa aggiungere verità a verità, la illustrerebbe con un ordine simile e del tutto rispondente a quello, secondo il quale l' ha creata, e quindi medesimo non affiderebbe già la nuova porzione di verità di cui la vuole arricchire, al ragionamento, ma sì bene a quella prima facoltà che al ragionamento ed allo stesso giudizio precede, e in cui, come abbiamo veduto, il giudizio ed il ragionamento si fondano? Anzi, a vero dire, egli non potrebbe far altro; chè il ragionamento non crea la verità, ma la deduce, e il giudizio non la crea neppur egli, ma la analizza e la connette. Onde, qualunque perfezione s' aggiungesse al giudizio o al ragionamento, non sarebbe mai un aumento di verità, non sarebbe che la deduzione di un vero dall' altro resa più sicura e più celere, sarebbe il vero stesso veduto da più lati e nelle sue relazioni: nessuna porzione di verità nuova sarebbe per questo aggiunta all' uomo. Il giudizio, e il ragionamento, come risulta da ciò che abbiamo detto, sono facoltà che altro non fanno che congiungere in nuovi modi l' uomo alla verità che già possiede, senza accrescergliela, gliela scompongono, questa verità, in varie parti, gli collegano queste parti a diverse connessioni, sicchè le une si vedano scorrere da altre, ciò che dà all' uomo una cognizione più esplicita, più viva ed efficace della verità, ma ne lascia uguale la sostanza e la misura primitiva all' uomo conceduta. Egli è dunque manifesto che Dio stesso non potrebbe comunicare all' uomo una nuova parte sostanziale di verità, se non l' aggiungesse a quell' altra parte di essa che l' uomo possiede per natura, continuando l' edifizio a quel punto dove l' ha lasciato, se non la confidasse a quell' intuizione intellettiva, che ogni altro atto di ragione precede, precede ogni giudizio, precede il ragionamento. Ora quello che ho supposto che Iddio volesse fare, co' motivi di credibilità di cui abbiam parlato, si prova al filosofo che l' ha fatto veramente. Almeno questo è il metodo, a cui noi abbiamo richiamato, o invitato il nostro filosofo. L' abbiamo invitato prima a discutere sui motivi di credibilità; trovato poi che questi sono efficaci a dimostrare l' esistenza d' una divina rivelazione, contenente una nuova porzione di verità, che non è all' uom visibile per natura, e che perciò dicesi soprannaturale , e con essa l' esistenza d' un visibile e permanente magistero, che ne conserva intemerato il deposito acciocchè non perisca sopra la terra; l' abbiamo condotto a cercare come Iddio poteva fare che gli uomini ricevessero nel loro spirito quella nuova porzione di verità contenuta nella detta rivelazione, e quindi vi assentisser coll' animo; e abbiamo conchiuso, che non potea farlo in altro modo, se non illustrando egli stesso lo spirito umano con una nuova luce, onde prendesse poi origine una nuova serie di giudizŒ, una nuova serie di ragionamenti, diversa da quella serie di giudizŒ e di ragionamenti, che prendono il loro movimento dalla prima porzione di verità, data all' uomo nella formazione della sua natura. Ed ora qui badate bene che non sono più io, ma è la stessa Religione cristiana, che spiega se stessa in questo modo. Ella si presenta appunto all' uomo come un lume primitivo, intimo, nuovo, che illustra in segreto il fondo dell' anima in un modo simile a quello che fa il lume della ragione, onde i cristiani si dissero sempre, fino dal primo tempo in cui fu annunziato il Vangelo, illuminati ; e il Battesimo, rito scelto dall' Onnipotenza divina qual mezzo ordinario a dar questo lume, si disse illuminazione ; e a questo lume che si comunica ugualmente a tutte le età dell' uomo, si attribuì sempre l' origine della potenza di giudicare e di ragionare sanamente nell' ordine delle cose della salute eterna, che eccedono la natura. A qual filosofia è venuto mai in mente una cosa simile? qual religione si è mai presentata agli uomini sotto la forma di un lume così misterioso ad un tempo, e così ragionevole? Anzi qual religione si è rivolta all' umana essenza e ha dichiarato d' esercitare su di lei una potenza che la migliori e che la sublimi? Tutte, dalla prima all' ultima, le religioni, o veramente le superstizioni inventate dagli uomini si sono indirizzate all' adulto e non al bambino, hanno rivolto il loro discorso alle potenze , all' immaginazione, ed al ragionamento, niuno di esse ha mai osato, ha neppur pensato, di poter entrare e collocare la sua radice nella stessa natura intellettiva dell' essere umano e di là, da quel fondo dove non penetra che il Creatore, regnare sull' uomo, rigenerare coll' uomo tutte le sue potenze. Laonde tanto è lungi che possa farsi al Cristianesimo un' accusa del non rivolgersi egli esclusivamente e immediatamente all' umano ragionamento, ma a quel più recondito principio onde ogni ragionamento deriva e mutua la propria luce, che anzi questo, chi bene il considera, è un palmare argomento della sua divinità, come il non aver saputo, nè potuto osare, nè promettere, nè pensar tanto le altre religioni, è un argomento palmare, che sono invenzioni umane (1). Alla qual conclusione pervenuto, il nostro filosofo non ci domanderà più: « perchè molti credano alla cattolica predicazione senza aver prima esaminati i motivi di credibilità »; chè a questo saprà rispondersi da se medesimo. E per rispondersi non avrà neppure bisogno di considerare, che certi miracoli, certe profezie, ed altri tali motivi possono essere riconosciuti come argomenti legittimi, e a sufficienza efficaci anche dal comune degli uomini, senza che vi spendano un lungo esame; chè anzi di tali argomenti appunto perchè più spediti e manifesti, volle Iddio che non mancasse la rivelazione che egli faceva al genere umano: tutto ciò sarà trapassato dal nostro filosofo come un di più, come una conferma della più diretta e più intima risposta, che da se stesso saprà fare a quella sua interrogazione. Perocchè, se l' uomo quando appena apre gli occhi alla luce, già incomincia a giudicare dell' esistenza delle cose esteriori che gli feriscono i sensi, e non s' inganna; ed egli fa questi giudizŒ, dà questi assensi alle percezioni sensibili, perchè, intuendo egli per natura la luce dell' essere, conosce l' essere, e sa di conseguente, che tutto ciò che agisce su di lui, non può esser altro che essere, e i vari modi, e gruppi separati e specifici di nuove sensazioni che esperimenta, non indicar altro che altrettanti esseri; così somigliantemente l' uomo che apre gli occhi dell' intelletto all' evangelica predicazione, vi può e vi dee dare l' assenso, senza passare pel mezzo di alcun ragionamento, avendo già in se stesso il criterio che gli fa discernere immediatamente il vero ed il falso nell' ordine soprannaturale; il qual criterio è quella nuova visione di verità, come dicevamo, che Iddio discuopre per grazia all' intelletto, la quale, eccedendo la verità naturale, è una cotal nuova forma di verità che dicesi soprannaturale, principio e base d' un nuovo ragionamento. Laonde a quest' interna illustrazione della mente cristiana richiamandosi S. Agostino, con frequenza dice di non potere aprire il secreto delle verità rivelate, se Iddio stesso da dentro non lo aiuti (1). Che se si vuole investigare che cosa sia quest' altra porzione e forma di verità sopraggiunta alla naturale, non cadrà lontano dal vero chi la definisca: « un' intima notizia di Dio medesimo »; il quale è la sussistente verità. Laonde, come col sapere già prima per immediata intuizione che cosa è l' essere, l' uomo acquista la potenza di giudicare dove sia un essere, e che cosa all' essere appartenga e convenga, e che cosa all' essere ripugni; alle quali cose si riducono tutti i naturali giudizŒ: così somigliantemente con quell' intima notizia di Dio che è data all' uomo per immediata e graziosa percezione, egli acquista la potenza di giudicare dove sia la parola di Dio, e se le cose annunziate e predicate a Dio appartengano e convengano, o a Dio ripugnino, alle quali cose si riducono i giudizŒ soprannaturali che fa l' uomo, quando accoglie liberamente l' evangelica predicazione, e rigetta ogni altra che sia superstiziosa o profana. Che se il nostro filosofo continuerà i suoi studŒ su questa via, e, non lasciandosi legare e impedire dall' erronea prevenzione di sapere quello che egli non sa, indagherà più a fondo il mistero della cognizione umana (argomento del tutto filosofico), perverrà a convincersi, che l' uomo, anche il più idiota, non solo pronuncia de' retti giudizŒ, ma ben sovente li pronuncia come conseguenze de' suoi segreti e rapidissimi ragionamenti; e che perciò v' ha una maniera di ragionare naturale e propria degl' idioti, d' una forma sintetica, che conchiude con uguale, se non anco talora con maggior sicurezza, di quella dell' uomo dotto, al quale non par di pensare, se non analizza e divide ogni sua argomentazione in varie proposizioni, e se non le pronuncia tutte ad una ad una; quando l' uomo della plebe le trascorre con uno sguardo mentale, e, all' insaputa degli altri e di se stesso, afferra in un baleno la conclusione, che sola pronuncia e sola sa pronunziare. E sapendo questo, il nostro filosofo non affermerà più con tanta sicurezza, com' egli faceva, che la moltitudine suol dare l' assenso all' evangelica predicazione senza motivi di credibilità, o senza avervi adoperato il ragionamento; perchè vedrà esser troppo possibile, anzi certo, che molte volte vel dee avere usato, benchè non a modo degli scienziati, ma al suo proprio, non meno valido: essergli poi del tutto impossibile l' affermare che non ve l' abbia usato. Laonde l' uomo che filosofa di buona fede con questa discussione si potrà facilmente convincere, che le credenze della cattolica religione non iscemano la libertà del filosofare, perchè questa non viene scemata, se non da quell' ingombro, che gli errori fanno alla mente. Ora se egli discute i motivi di credibilità, i quali non ricusano alcun ragionevole esame, e se li trova efficaci, è già obbligato a conchiudere che quelle credenze non sono erronee, ma altrettante verità. Nè queste verità potrebbero impedire il pensiero, nè manco se fossero ricevute dagli altri uomini a modo di gratuite prevenzioni, perchè non cesserebbero per questo dall' esser vere, e il vero, lo diremo ancora, non può nuocere al vero. Ma questo stesso è un pregiudizio erroneo di molti di quelli che si dicono filosofi liberi, il credere cioè che sieno così ricevute; quando in quella vece gli uomini che prestano il loro assenso alla predicazion del Vangelo, hanno a guida, come abbiamo detto, una luce interiore, che dà loro quasi un senso intellettuale a percepire e gustare la verità, che in essa si trova, ed una facoltà di pronunciare veritieri giudizŒ, di ordire altresì sui motivi d' assentirvi efficacissimi, benchè complessivi, ragionamenti. Nè mai la fede, o la Cattolica Chiesa che la propone, ha messo limiti al pensiero, ma solo ne ha proscritto l' abuso, che non è altro che un impedimento del pensiero medesimo. Anzi i Padri della Chiesa hanno trovato nella fede cristiana uno stimolo, dirò di più, un' obbligazione di svolgere più ampiamente, che non sia stato mai fatto prima di essi, l' intelligenza; non già temendo le conclusioni che ne potessero uscire, quasi alla fede potessero esser contrarie, certi anzi di trovarle sempre alla medesima fede consonanti, di scoprire testimonianze nuove a favore di essa, luce aggiunta a luce, da rendere il giorno più chiaro. Arrecherò a conferma di ciò la sola testimonianza dell' Aquila de' Padri latini. Il quale in una sua lettera riprende gravemente Cosenzio, che voleva fare andar la fede da sè, disgiunta dalla ragione; e fra l' altre cose gli scrive così: [...OMISSIS...] La fede dunque non può stare senza la ragione, di cui è la luce completiva, come il perfetto non può stare senza il suo rudimento, quantunque la ragione naturale, appunto perchè rispetto alla fede è un cotal rudimento, può stare senza la fede. E però l' effetto della fede cristiana introdotta nel mondo fu quello di dare uno inaspettato, maraviglioso, infinito sviluppo alla ragione umana, e di mutar faccia alle nazioni che l' abbracciarono, mettendo nelle mani di queste lo scettro di tutta la terra, uno scettro non materiale che facilmente si spezza, ma spirituale, che dominando la materia, non ha da temer nulla da essa. E di che s' insuperbisce cotanto oggidì il genere umano se non di quella civiltà, che nelle sole nazioni cristiane ha il suo seggio, e il suo stabile domicilio? E guai ad esse se s' insuperbiranno troppo di quella luce, che esse debbono all' umiltà della fede! Chè la superbia adduce seco l' ingratitudine; e dove in queste ingiustizie insolentiscano [...OMISSIS...] potrà loro accadere che di quello splendido effetto, che fa lor nascere per vana gloria il capogiro, perdano la causa, cioè la fede; e la perenne sorgente della civiltà stessa e della luce inaridisca nel mezzo di loro. Tant' è lungi dunque che la fede cristiana tolga la libertà alla ragione, e le impedisca di svolgersi, che anzi quella aggiunse agli uomini uno stimolo fortissimo all' onesto e legittimo uso di questa, vi aggiunse un' obbligazione novella di trafficare con più industria e sollecitudine quel talento, pel quale, come dice S. Agostino, Iddio li creò più eccellenti delle bestie e simili a se stesso, e coll' uso del quale devono dalle cose animalesche dividersi, ed avvicinarsi alle divine, dove sta la causa della loro dignità. La ragione da quell' ora potè camminare più sicura, perchè più robusta, e mutò i passi vacillanti di un bambino in quelli di un gigante: la nuova luce divenne il criterio, e quasi il paragone dell' antica, e non solo questa sentesi più coraggiosa in tal compagnia, ma ben anco di più acuta vista, e chiaroveggente. Laonde le stesse verità che appartengono alla ragion naturale entrata la fede nel mondo, divennero più luminose, e talora così evidenti da divenire un problema per noi difficile a sciogliersi, come prima o non sieno state vedute dagli uomini, o abbian potuto sembrar loro dubbiose. Ed è un' osservazione fatta più volte, e facile a farsi, che gli scrittori gentili di morale, che fiorirono dopo Cristo, si vantaggiano immensamente su tutti quelli che fiorirono innanzi. Chè quantunque non ricevessero la fede, e però rimanessero ciechi alle verità soprannaturali, tuttavia parteciparono di quello splendore, che la fede stessa avea diffuso sulle verità naturali. Perocchè nel Cristianesimo si contengono le une, e le altre, le naturali, e le soprannaturali, e la fede che raggia di sè queste ultime, illumina quelle prime. Laonde anche al presente quelle nazioni che rimangono fuori della Chiesa, quanto si trovano collocate più da vicino alle nazioni cristiane, tanto più prendono del riflesso, che manda loro il lume del Cristianesimo, e s' avvera anche in questo modo la profezia d' Isaia, che dopo aver invitato il Salvatore a sorgere come il sole sopra Gerusalemme, aggiunge, che le genti cammineranno al suo lume, e i Regi allo splendor del suo nascere (1). Ma a chi, anche dopo tutto ciò, dubitasse non forse la fede ponga qualche impedimento al libero esercizio della ragione, io favellerei in questo modo: E` chiaro che dalla fede non può venir alcun impedimento alla ragione, se qualche principio, o deduzione di questa non si trovi in contraddizione con qualche articolo di quella. Perocchè qualora niuna contraddizione intervenga, è necessario che o tutte e due, la fede e la ragione, camminino di conserva, e riescano alle stesse verità, o che l' una non s' incontri sulla stessa strada coll' altra, e quindi non s' urtino, nè s' impediscano. Se vanno di conserva alle stesse verità, invece che l' una pregiudichi all' altra, si giovano reciprocamente: se vanno scompagnate, di maniera che l' una investighi un ordine di verità, e l' altra ne proponga un altro, ciascuna allora compie l' opera sua indipendentemente, e liberamente, senza possibilità di conflitto. Perocchè non possono cadere in conflitto, e in contraddizione, a ragion d' esempio, due matematici, che risolvano due problemi diversi, ma bensì due che risolvono lo stesso problema in modo diverso. Ora in questi diciannove secoli da che il Vangelo fu predicato nel mondo, e ne' quali la ragione fu in continuo esercizio, e fruttò tante scienze e tante scoperte, quante non ne diedero i quaranta secoli anteriori a Cristo, in tutto questo tempo dico, dove la fede cristiana ebbe a lottare con ogni maniera di nemici, e con tutte le cavillazioni, che seppe trovare lo spirito dell' empietà, comparve mai una contraddizione certa e dimostrata fra una verità di ragionamento, e una verità di fede? Mai. Furono bensì prodotte delle apparenze di contraddizione, delle conghietture: ma messe ad un serio esame, tutte si trovarono, si dimostrarono vane ed illusorie: non v' ebbe una sola delle credute contraddizioni, che sia stata riconosciuta tale, e che abbia avuto l' assenso concorde degli intelligenti. Che se questa ci fosse, o ci potesse essere, è egli verosimile che in tanti secoli, con tante prove, con tanti sforzi d' ingegni ostili al Cristianesimo, non si sia trovata, non s' abbia potuto rendere evidente ed irrecusabile? Nè pur una sola? E a malgrado che il Cristianesimo insegni senza esitare, e senza investigare, tante cose le più sublimi, cose nuove, che non furon mai dette prima e non le insegni come conghietture, al che solo arrivava l' ardire de' più gran filosofi, quando toccavano di quelle cose, ed anzi non tema di rispondere subito e francamente a qualunque questione riguardante i supremi destini dell' umanità? non s' abbia potuto trovare una contraddizione del cristianesimo nè con se stesso, benchè egli non muti dottrina giammai, e perciò non ritratti, non nasconda mai nulla di sè; nè colla ragione, benchè sotto la sua influenza si sviluppi del continuo, e faccia nuove scoperte, ed abbia anche frequente bisogno di emendare i suoi risultamenti, i quali così si mutano e si accrescono di secolo in secolo? Tant' è! Tutti gli sforzi per cogliere il cristianesimo in una sola contraddizione con se stesso, o co' principŒ della ragione, o colle necessarie lor conseguenze, sforzi mille volte ripetuti, tornarono affatto inutili, rimasero solo argomento palmare dell' ignoranza e della fallacità di que' sapienti del secolo, che li facevano; a tale, che quantunque degli increduli ve n' abbiano sempre, perchè Iddio lasciò l' uomo libero di dare, o negare l' assenso alla fede, volendo dagli uomini un ossequio spontaneo, e lor proprio; tuttavia essi non sogliono più assalire seriamente da questo lato la cristiana, e cattolica religione, non più tentare di mostrarla in conflitto colla ragione, sfiduciati di poter indicare una sola contraddizione fra essa, e i dettami certi della ragione. E pure il cristianesimo si è presentato al mondo in modo assoluto, dicendo implicitamente agli uomini: « Se voi potete trovare una sola contraddizione vera, e apoditticamente provata, rigettatemi. » Questo è il patto sottinteso, dirò così, anzi è la sfida che fanno tutti i Teologi cattolici ai filosofi, e ai sapienti del secolo, e il patto fu sempre mantenuto, e per quantunque que' filosofi si limassero il cervello per trovarli in fallo, non ne sono mai venuti a capo, come dicevamo; i teologi hanno sempre vinto pienamente quella sfida. Odasi che cosa accorda alla ragione S. Tomaso: « « Quelle cose che sono insite naturalmente alla ragione, è noto che son verissime, di maniera che non è nè pur possibile di pensare che sieno false »(1) », e un commentatore osserva qui, che « « ne' primi principŒ è virtualmente contenuta la notizia di tutte l' altre cose conoscibili coll' investigazion naturale »(2): » di che consegue, che il non contraddire alla ragione s' accetta dai cattolici come una condizione indispensabile e necessaria alla fede, e si concede, che se questa contraddicesse a' primi principŒ della ragione, e alle conseguenze da questi logicamente dedotte, non si potrebbe dagli uomini ammetter per vera. Che si vuole di più? E quel grande dottore delle scuole cristiane conferma la stessa condizione con quest' altro principio: « La cognizione de' principŒ noti per natura è in noi inserita da Dio, il quale è l' autore della nostra natura. »Di che consegue, che la fede cristiana non verrebbe da Dio se ella fosse in contraddizione con que' principŒ della naturale ragione, o colle loro conseguenze. Lo stesso egli argomenta dall' assurdo che ci avrebbe, qualora Iddio dopo aver dato all' uomo la ragione, gl' imponesse una fede contraria alla medesima, guastando così l' opera sua, cioè impedendo l' intendimento umano dall' emettere i naturali suoi atti, e quindi dal pervenire alla verità, perocchè « contrariis rationibus , » dice sempre S. Tomaso, « intellectus noster ligatur, ut ad veri cognitionem procedere nequeat . » Laonde, secondo i cattolici, la libertà intera lasciata alla ragione è una condizione necessaria della verità della fede, perocchè quando la fede si dovesse tener per divina, benchè in contraddizione colla ragione, s' imporrebbe all' uomo un' obbligazione impossibile, ed anzi si legherebbe del tutto la sua attività razionale; chè egli non potrebbe determinarsi a prestare l' assenso nè all' una, nè all' altra, così rimanendosi privo del vero; non alla fede, essendo impossibile all' uomo il rinunziare ai principŒ della ragione; non alla ragione, non potendo egli opporsi alla fede, nell' ipotesi, che fosse tuttavia divina; non ad entrambi, perchè in contraddizione; [...OMISSIS...] Ella stessa dunque, la religione cristiana, professa prima di tutto di non essere in contraddizione colla ragione: ella stessa c' insegna, che quando una religione qualunque si potesse convincere di contraddizione co' principŒ della ragione, o colle loro legittime conseguenze, sarebbe falsa, non sarebbe religione, ma superstizione: ella stessa ci dà in mano questo criterio per distinguere le religioni false dalla vera; con questo criterio appunto ella convince l' altre religioni di falsità, e contro i sofisti, che si assottigliarono per mostrare in essa una tale contraddizione, si difende, e si è sempre difesa colle sole armi della ragione, dimostrando efficacemente, che quella pretesa contraddizione che le si opponeva non era tale per modo alcuno, di maniera che la necessità della concordia della ragione colla fede, è insegnata dalla stessa fede, è un punto essenziale della religione, e la Chiesa cattolica diffinì questo punto anche nell' ultimo concilio di Laterano. Laonde quelli che credono alla fede cristiana, credono necessariamente anche alla ragione, e nello stesso tempo che essi, fermi nella loro fede, ritengono e sanno, che qualunque affermazione contraria alla fede è per ciò solo falsa, non dubitano punto di dire a quelli che non credono: « Se voi giungete a dimostrare apoditticamente colla ragione una proposizione qualunque, statevi certi, che la fede cristiana non v' insegnerà mai nulla di contrario, non avrete ad incontrare con essa alcuna lotta, perchè la fede cristiana si professa alla prima di ricevere, e di ammettere, quasi preliminari, tutte, qualunque sieno, le verità della ragione ». Che se questa è la dottrina del cristianesimo, chi potrà più dire colla minima apparenza di verità, che i cattolici non possano esser filosofi liberi, e che la cattolica religione impedisca, o leghi il libero e pieno sviluppo dell' umana intelligenza? Chi dicesse ciò mostrerebbe chiaramente d' avere la mente preoccupata dall' errore, e dall' ignoranza della fede cristiana, e non sarebbe più filosofo libero egli stesso. Sono appunto i filosofi non liberi, i filosofi servi dell' errore, per lo più ignoranti della cristiana dottrina, quelli che invidiano alla nostra libertà, e tramutando i nomi alle cose, vogliono far passare per una servitù quella fede che ha liberato il pensiero. Non credo necessario che qui io mi trattenga a togliere l' obbiezione tratta da' misteri, obbiezione volgare, che non può esser proposta in buona fede da un filosofo, e che fu sciolta le mille volte. Il fonte de' religiosi misteri è l' infinità incomprensibile di Dio. E che Dio sia infinito, e però eccedente l' intelligenza umana, che è finita, è la semplice ragione che lo dice e lo dimostra. Laonde i religiosi misteri non sono esclusivamente della fede cristiana, ma si trovano ugualmente in qualsiasi teologia naturale, che è una scienza puramente filosofica. Se dunque bastasse trovare de' misteri nella fede per rigettarla, sarebbe necessario di rigettare prima la ragione che li propone egualmente, e vi dice perchè vi sieno, e perchè vi devano essere. Confondere poi il mistero colla contraddizione è uno di quegli sbagli grossolani, che fa la sola ignoranza, non la vera filosofia. Si dice avervi un mistero quando in una data proposizione v' ha qualche cosa che non s' intende, che non può intendersi da una ragion limitata. Non è già che in quella proposizione non s' intendano molte cose, ma basta che ne resti una inintelligibile. S' intendono gli argomenti che la dimostrano vera, quella proposizione, procedano essi dalla ragione o dall' autorità. Così la proposizione: « Iddio è infinito »si prova esser vera anche con argomenti somministrati dalla sola ragione, e pure l' infinito non si comprende, è un mistero, è il complesso di tutti i misterii. La proposizione « un solo Dio è in tre persone » si dimostra vera coll' argomento cavato dall' autorità di Dio rivelante, e la rivelazione si prova anche con argomenti somministrati dalla ragion naturale. Ma come un solo Dio sia in tre persone, questo riesce incomprensibile, è un mistero, benchè la natura stessa somministri delle analogie di questo mistero. In tali proposizioni misteriose, oltre gli argomenti che ne provano la verità, molte altre cose s' intendono colla ragione. Per esempio, s' intende, benchè non appieno, che cosa sia Dio, che cosa voglia dire infinito, uno, trino, essere; ma resta qualche cosa di non inteso, poniamo resta non inteso il nesso de' termini, il modo, come la cosa sia così (1): perocchè non avviene già sempre, nè anco nelle cose naturali, che quando la ragione ci dimostra che una cosa è, ci dimostri anche in che modo ella sia. Così accade, che noi vediamo un fenomeno, un avvenimento, e che tuttavia non lo sappiamo spiegare perchè ne ignoriamo la causa, il che è frequentissimo. La ragione umana dunque ignora molte volte, ma non si contraddice mai: quando d' una data cosa, di cui conosce qualche parte, ne ignora qualche altra, e per quanto faccia non può venire a conoscerla, allora si dice che c' è un mistero , ma non una contraddizione. La contraddizione importa sempre un errore, non così l' ignoranza, chè chi ignora, non erra, non nega il vero come fa l' errante. E` dunque manifestamente un' obbiezione puerile l' addurre i misteri come esempio di contraddizione della fede colla ragione. Se ciò fosse non sarebbe la fede quella che contraddirebbe alla ragione, ma sarebbe la ragione quella che contraddirebbe a se stessa; perocchè l' ignoranza è propria della ragione; chè è la ragione quella che ignora: le limitazioni sono attributi del soggetto a cui appartengono, e l' ignoranza è una limitazione della ragione. Se la ragione umana non fosse limitata non incontrerebbe misteri nè nella natura, nè nella fede: questi dunque non si devono attribuire nè alla natura, nè alla fede, ma alla ragione umana che è limitata. Che se la fede aggiunge delle altre verità misteriose a quelle che la ragione trova nella natura, questa è una nuova ricchezza che la fede medesima dona alla ragione, la quale in quelle verità della fede intende sempre qualche cosa, se non tutto; e applicandosi a quelle (ed è materia degnissima e sublimissima) essa può, aiutata dal lume divino, esercitarsi, e penetrare sempre più addentro, e intenderne sempre più, di manierachè gli stessi misterŒ sono fonti d' inesauribile luce, benchè non si possa mai intendervi tutto, e la medesima ragione il sa in precedenza, e nol pretende, perchè essa conosce la limitazione sua propria, e l' assoluta infinità dell' oggetto. Ma v' ha più ancora, chè la ragione medesima è quella che sentendo d' esser fatta per l' infinito, benchè nol possa comprendere, si slancia in esso come può quando non ha la fede, e molto più quando gli viene offerto dalla fede, conscia di non poter trovare la sua quiete, se non tuffandosi in quel pelago luminoso, nè la piena sua vita, se non perdendosi in quell' abisso (1). E che tutte queste cose non sappian coloro, i quali servi di prevenzioni contrarie alla fede cristiana, non si curano di conoscerla e di farne studio profondo (onde la condannano ignorata ed inaudita), questo non può far maraviglia. Ma è a stupire, e più ancora a dolersi, che alcuni cristiani, e cattolici, i quali professano la pietà, disconoscano anch' essi da questo lato la propria fede, e le facciano un gravissimo torto, facendolo insieme alla verità, in cui non confidano bastantemente: parlo di quelli, i quali si stanno sempre in su un cotal sospetto, e quasi in un femminil timore del naturale ragionamento, come se col legittimo uso di questo potesse pericolare mai la loro fede. Cotestoro inceppano pur troppo il proprio pensiero e l' altrui; non sono questi nè i veri filosofi cattolici, nè i veri teologi di cui parlavamo (1): nè egli è giusto nè ragionevole, che sulla meticulosa ignoranza d' alcuni, che autorità non hanno, si faccia giudizio della relazione tra la Fede cattolica, e la Filosofia. Spaventati soverchiamente dall' abuso, questi osteggiano l' uso stesso del ragionare: altri dal medesimo abuso, che di tanti errori, e di tanti deliri fu padre, deducono, che il naturale ragionamento non può fornire all' uomo alcuna certezza, e così risuscitano il sistema sopraccennato di Cosenzio, già confutato da S. Agostino. Ma il rispettabile signor Bautain, che deluso nella speranza di trovare ne' sistemi filosofici della giornata la verità s' era troppo sfiduciato della Filosofia, e avea riproposto quell' antico sistema, che, segregata la ragione, nella sola rivelazione ripone il vero ed il certo, s' avvide ben presto, che con questo egli s' allontanava dalla dottrina della Chiesa cattolica, che credea sostenere, e si ritrattò del suo errore, la stessa fede riconducendolo alla ragione. Come poi questo filosofo, perchè fedele discepolo alla Chiesa, ritornò discepolo altresì alla ragione; così per l' opposto nel secolo XVI gli autori della falsa Riforma in Germania (si ponga ben mente), abbandonato il magistero della Chiesa cattolica, ripudiarono con esso la stessa ragione. Chè in qualsiasi modo s' interpretino le tesi che Lutero difese l' 11 gennaio 1539, certo è che in esse la naturale ragione è depressa, quasi contraria alla rivelazione (2); come pure è certo, che, a quella scuola educato, Daniele Hoffmanno, e i due suoi discepoli Giovannangelo Werdenhagen, e Venceslao Schilling riprovarono apertamente la filosofia, e la coltura della ragion naturale, onde sollevataglisi contro la facoltà filosofica dell' Università di Helmstadt, l' Hoffmanno fu obbligato ad emettere una dichiarazione pubblica, riconoscendo il suo errore, per decreto del Duca Giulio Enrico di Brunswik del 16 febbraio 1601 (1). E la ragione così spregiata s' indebolì a tal segno nelle menti di que' primi settari, che non sapevano più vedere, e però negavano la differenza intrinseca del bene e del male, e alla sola positiva rivelazione l' attribuivano, sottraendo così alla morale il primo suo fondamento (2). Staccarsi dunque dalla Chiesa cattolica, e prendere la ragione a calci fu tutt' uno: il che non avrebbero potuto fare senza riprension della Chiesa, ma poichè non vollero udire la sua voce nè pure vollero udire quella ragione, che all' autorità della cattolica Chiesa gli avrebbe conciliati (1). Ora che ne riuscì? La natura compressa risaltò, e dell' oltraggio si vendicò crudelmente: i protestanti che avevano prima degradata la ragione a pro, come si credevano, della fede, in appresso, con un errore opposto, degradarono la fede a pro della ragione; di maniera che i discepoli condannarono i maestri, come i maestri aveano già in precedenza condannati tali loro discepoli. Così rompendo sempre negli eccessi, con quello spirito esclusivo che hanno tutti gli errori, mentre aveano incominciato la riforma con un cieco misticismo, e positivismo , finirono con un altrettanto cieco razionalismo ; dissero di non voler più altra guida che la ragione, ma la ragione com' essi la intendono, com' essi la fanno, nuda, disarmata, limitata arbitrariamente a quel genere di materia che loro piace lasciarle in dominio, cioè ai veri naturali, escluso l' ordine dei veri soprannaturali. E questi razionalisti credettero con ciò d' avere aperti gli occhi, e d' essere divenuti simili agli Dei. Se non che avvenne loro ben presto un caso spiacevole: che furon banditi dal paradiso terrestre. Perocchè tanto innalzarono l' umana ragione, tanto la restrinsero in se stessa (vollero fin anco che ne' suoi visceri rientrassero tutte le cose dell' universo, e tutte ne uscissero); che ultimamente s' accorsero che ella moriva loro in mano di replezione, o, se par meglio, per oppressione, come la moglie del levita di Efraim. Infatti la filosofia Germanica discendente in linea retta dal protestantismo, dopo di aver promesso di sè al mondo cose miracolose, si spense in un desolantissimo scetticismo, o certo ella s' addormentò in un sogno panteistico, e l' ultima sua parola fu: « Io ragione non posso conoscere cosa alcuna eccetto me stessa »! Che se noi vogliamo esprimere con altre parole, e con altra similitudine lo stesso fatto diremo, che la ragione in mano di quelli che si tolsero alla Chiesa, si consacrò vergine vestale nel tempio che le eressero, ond' ella non può oggimai aver più figliuoli senza violare, sacrilega, i proprŒ voti. Non è per fermo questa la ragione libera; non è la ragione libera e feconda del Cattolicismo; ma è la ragione che dicono libera coloro, che dal Cattolicismo si dividono. La scelta e il giudizio di queste due libertà a quelli che non hanno ancor perduto il senso comune. Certo è cosa naturale anzi doverosa che un uomo, il quale vuol applicarsi allo studio della Filosofia in Europa, in presenza di un' autorità così grande, così solenne, come è quella della Chiesa cattolica, venerata e ubbidita da milioni di discepoli diffusi in tutta la superficie del globo, fra i quali si contano sublimi intelligenze, cultori esimŒ di ogni maniera di dottrina; un' autorità, che con assoluto magistero favella a tutto il mondo già per un corso di diciannove secoli, e per tutto questo corso è ascoltata da sempre nuovi discepoli, la cui voce persuasiva non è mai vecchia non mai affiocchita per qualunque opposizione e contrasto le muova tutto ciò che nel mondo si reputa forte, prudente, sagace; un' autorità, a cui è dovuta per consenso di tutti la civiltà europea, nella luce della quale egli vive, è doveroso, dicevo, che un uomo che vuole applicarsi alla Filosofia in mezzo ad una tal società, e in presenza di una tale autorità che a lei presiede, qualunque sieno le sue opinioni o prevenzioni, incominci dall' esaminare in quali relazioni si trovi la filosofia, e la libertà della ragione umana con essa autorità, cioè colla cattolica Chiesa. E se questo si facesse da quei che filosofano n' avrebbero il risultato, che noi stessi n' abbiam dato più sopra, cioè la libertà del pensiero, e questa libertà protetta, e in molte maniere aiutata. Ma qualora questo esame non si faccia, o non si faccia seriamente; che altro rimane, se non la prevenzione che, per quanto sia antifilosofica, è tuttavia così frequente, diciamolo pure colla franchezza d' una esperta persuasione, e così comune ne' filosofi? Che cosa sogliono mai fare molti di quelli che così si chiamano? Invece di ricercare qual sia la dottrina della Chiesa cattolica intorno all' uso della ragione, che è la sola questione importante, essi s' appigliano alla sentenza di qualche scrittore particolare, che, quantunque cattolico, non rappresenta la Chiesa cattolica, e non ne esprime con accuratezza l' insegnamento; e della sentenza di questo particolare scrittore fanno un sistema, e gli danno un nome che egli stesso non gli ha dato, un nome equivoco ed improprio, e contro questo nome, contro questo nemico della filosofia creato da se stessi, e resosi a bella posta una fantasima spaventosa, menano i loro colpi, i quali appunto perchè la fede cattolica vi è sempre taciuta dove dovrebbe essere nominata, par che s' indirizzino a questa. E un tal lamento mi spiace di doverlo fare altresì a quell' eloquente scrittore di Vittore Cousin, che con tanto amore, con tante fatiche tentò di promuovere in Francia lo studio della Filosofia. Vedete come nella prefazione al manuale del Tennemann, anch' egli dissimula la questione importante della relazione fra il ragionamento filosofico e la fede, e in quella vece vi parla d' una scuola teocratica , dando evidentemente questo nome al Bautainismo, cioè a una sentenza, che non è quella della Chiesa cattolica, e che fu rivocata dallo stesso suo autore, perchè da lui riconosciuta contraria a quella della Chiesa medesima: egli vi parla della secolarizzazione del pensiero, parola di partito, insensata, e indegna di un filosofo: egli vede nel fantasima che s' è creato della scuola teocratica un nemico, che vuole arrestare la civiltà e distruggere la Filosofia: egli vi butta là una sentenza, che può esser vera, e falsa, che in fatti non è nè vera, nè falsa, perchè non ha senso preciso, dove dice: « « La teocrazia è la culla legittima delle società nascenti; ma non le accompagna nel progresso del loro sviluppo, progresso necessario, che deriva dalla natura delle cose »(1). » Che se per teocrazia intende un' autorità divina, la sua proposizione è manifestamente falsa, e contraddittoria, se pur fra le cose non voglia negare il suo posto a Dio, che è la prima di tutte le cose, e di tutte le nature, anche ascoltando solo la filosofia, e, come io credo, anche ascoltando quella che professa il nostro filosofo. A che dunque questo armeggiare all' aria? che voglia è questa di battagliare contro nemici che non esistono? E in ogni caso, se voi temete di quelli che vogliono separare la fede dalla ragione, ripudiando quest' ultima, non sarebbe stato più semplice e più convincente, che vi foste limitato a dire a costoro: « Voi altri siete gente da non temere, perchè non avete per voi nè il suffragio della filosofia che rifiutate, nè quello della fede cattolica, a cui vorreste attenervi, e da cui siete rifiutati; chè questa è l' amica intima della ragione, e della filosofia. » Convien dunque qui ripetere che al filosofo della civiltà è necessario prima di tutto risolvere la questione dell' accordo fra la ragione, e la fede, che sono i due elementi indivisibili de' popoli civili. E senza aver riconosciuto questo accordo sin da principio, non avrà il filosofo autorità sui suoi contemporanei; chè la civiltà cristiana, la sola civiltà che esista, e che sia mai esistita, udirà la sua voce con ragionevol sospetto; o certo egli non potrà dare una dottrina filosofica proporzionata all' altezza del suo secolo. Verrà forse da questo, che la Filosofia si confonda colla fede, o viceversa? No: chè la fede è tutt' altro dalla filosofia. La fede è un volontario assenso prestato all' autorità di Dio rivelante, in qualunque modo poi si conosca quest' autorità. La filosofia è una scienza, la quale investiga le ultime ragioni delle cose, e da queste ultime ragioni deduce le conseguenze, di maniera che alla filosofia è necessario il ragionamento esplicito, il quale non è necessario, come abbiam veduto, alla fede. La fede contiene delle verità che possono esser date altresì dalla filosofia, e provate col naturale ragionamento, ma ne contiene ancora di quelle, che, senza contraddire giammai a questo, superano le sue forze. La fede ha una sola ragione, ma potentissima, in cui si fonda, quella dell' autorità di Dio rivelante, ma questa non condanna, non esclude, anzi apprezza le altre ragioni: la filosofia trae le sue ragioni unicamente dall' intima natura delle cose, e dai nessi che hanno fra loro; ma queste cose su cui argomenta la ragion filosofica, non sono già create dalla stessa filosofia, ma le vengono dal di fuori, le sono date, e se non le fossero date, mancherebbe alla filosofia la sua materia, la filosofia non esisterebbe più. Il Creatore diede questa materia alla filosofia colla formazione dell' universo, ma lo stesso Creatore dando la fede agli uomini, diede una nuova materia al filosofico ragionamento. Questa nuova materia non distrugge la prima, ma la accresce e la completa. Laonde come la natura presta la materia ad una prima filosofia, così la fede presta la materia ad un' altra più sublime filosofia, che non distrugge, ma amplifica e compie la prima. La fede così resta sempre indipendente dalla filosofia, e bastevole a se stessa, bastevole a tutti gli uomini. Ma non è per questo ostile alla filosofia, che è ricchezza di pochi, anzi ella tiene il suo luogo frammezzo a due filosofie, ad una filosofia naturale che la precede, e ad una filosofia soprannaturale che la sussegue, e quasi paciera fra esse, e mediatrice ne congiunge le destre. Chi poteva comunicare una fede, che avendo tanta dignità stesse in tanta armonia colla natura, e colla ragione umana, se non il Creatore dell' una e dell' altra? Ma tornando a quelli tra cattolici, i quali non intendono come la fede supponga la ragione (chè, come dice Agostino, noi non crederemmo se non avessimo anime ragionevoli), e come la fede e la ragione scambievolmente si giovino, per uno stolto amor della fede sono alla ragione molesti, noi n' abbiamo distinte due classi, l' una di coloro, che, temendo le illazioni della ragione quasi potessero essere contrarie alla fede, astiano lo sviluppo di quella, i quali noi possiamo chiamar timidi : l' altra di coloro, che avendo perduto ogni fiducia nella ragione, e non credendola atta ad accertare la verità; e questi, il sistema de' quali è indebitamente chiamato teocrazia dal Cousin, noi possiamo chiamare sfiduciati . A queste due classi principali si può aggiungerne una terza, niente migliore delle precedenti, quella degli indifferenti , i quali professano questo singolar principio: « Non conviene aderire ad alcun sistema di filosofia: chè ogni sistema è buono quando non s' opponga alla fede, e convien servirsi di tutti in servigio della stessa fede ». La qual proposizione a chi, se la esamina, non parrà strana ed assurda? chè certo niuno può ammettere quella proposizione, se non ad una di queste due condizioni: o che egli stimi, che in diversi e contrarii sistemi giaccia ugualmente la verità, e così non ci sieno due sole verità, come dissero assurdamente taluni fra protestanti, ma molte verità fra loro contradditorie, cosa più assurda ancora; ovvero che egli reputi indifferente il vero ed il falso, cosa assurda, e stolta altrettanto ed immorale. E` non meno stravagante il credere, che, avendovi una sola verità, e però non potendo esser vero che un solo sistema filosofico, tuttavia gli altri sistemi, necessariamente falsi, possano ugualmente accordarsi colla fede, e colla teologia cristiana, e a questa prestare aiuto (1). Certo per me ho sempre creduto, o piuttosto il genere umano intero ha creduto, che una sola sia la verità, e che come il vero non può essere opposto al vero nè nuocervi, così il falso sia opposto al vero e gli pregiudichi; e quindi non ho mai compreso quale utilità possa cavare la cattolica verità dai falsi sistemi di filosofia. Ancora io ho riputato un dovere morale per l' uomo amare quella verità una, che non può mai essere amata abbastanza, e quindi medesimo mi sarebbe parso d' operare contro coscienza se non mi fossi appigliato ad un solo sistema, a quello nel quale mi parve di vedere contenuta la verità, lasciando però fare il contrario a coloro che per qualsiasi ragione non possono formarsi una ferma persuasione (e però nè pure un chiaro conoscimento) d' alcun sistema; purchè essi non pretendano di convertire in una legge universale obbligatoria per tutti, l' esitanza del loro proprio intendimento, e quindi non distribuiscano a larga mano la taccia di superbe a tutte quelle menti, che non sanno trattenersi nell' incertezza, dalla quale non trova onde uscire la loro. Quanto a me io confesso, che la luce della verità mi colpì vivacissima e brillantissima, e che sarebbemi stato impossibile di fare altramente da quel che ho fatto. Laonde se mi resta il biasimo di cotestoro, non mi resta però il rimorso d' aver resa duplice la verità. Le quali parole bastano a rispondere ad alcuni, che m' hanno più volte fatto questo rimprovero di seguitare un solo sistema, quasi che il far questo fosse cosa immodesta ed orgogliosa, come veramente ne pareva a que' censori, i quali affermavano, che coll' abbracciar io un unico sistema; venivo a condannare tutti gli altri concepiti da uomini di altissimo merito: il che io nè posso nè voglio negare, ma scusarmene, opponendo loro l' impossibilità di fare altrimenti, per aver io trovata la verità così altera, e così impolitica, che vuol sempre esser sola, e si ricusa d' essere in due: de' quali costumi della verità io non ho colpa. Tale è la limitazione dell' uomo, che quand' egli è occupato d' alcuna cosa di suprema importanza si rende facilmente, senza avvedersene, ingiusto con altre cose d' importanza minore. E però se non sono in questo lodevoli, sono però in qualche modo scusabili que' teologi (e son pochi, e di minor conto), i quali pare che dieno poca importanza alla verità filosofica, e, invece di cercare qual sistema sia vero, credono meglio d' appigliarsi or all' uno, or all' altro, anche de' più contrarŒ, e sembra loro troppo esclusivo colui, che, coerente a se stesso, ne accetta uno solo. Ma se questo facilmente si spiega, è inesplicabile per l' opposto com' essi trovino imitatori tra quelli che s' applicano di proposito agli studi filosofici. Chi potrebbe credere, che fra questi professori della Filosofia si trovasse alcuno, il quale ignorasse, che il sistema della verità filosofica non può esser che uno? e che essendo uno solo, gli altri tutti non possono esser che falsi? Chi potrebbe credere, che un uomo il quale si propone d' innalzare la Filosofia al di sopra di tutto, al di sopra della Religione stessa, dichiarasse poi che nell' unicità d' un sistema vi ha il sepolcro della Filosofia? e che confondesse la storia de' sistemi filosofici, che nella massima sua parte è la storia delle aberrazioni dello spirito umano, colla stessa filosofia? La quale sembra che per quest' uomo non sia altro, che un cotale spettacolo di atleti, uno spettacolo, in cui gli errori sotto infinite forme or fanno alla lotta, or giuocano al pugillato, or colla spada, col pugnale, col coltello, e con ogni sorta di armi combattono corpo a corpo colla verità, la quale può esser vinta, ma non deve vincerli mai, che vincendoli, terminerebbe a gran danno degli spettatori il divertimento che si chiama filosofia. Il filosofo che s' è formato questo concetto della sua scienza, somiglia allo storico, che deplora quelle età, che non gli danno a narrare guerre atroci, e dissidŒ civili, e affronti di calamità, o accidenti, e rovine di regni, e di popoli, ovvero a quel principe bellicoso, che ripone l' infelicità del suo regno nella tranquillità della pace. E mi duole d' incontrare nell' illustre autore dell' ecletismo francese delle sentenze simili alle summentovate. Perocchè quanto non ci va egli, per lo meno, vicino, quando considera la storia della filosofia come una lezione perpetua di quel suo ecletismo appunto che vuole esser l' unica filosofia possibile a' nostri tempi (1)? [...OMISSIS...] Ma dopochè voi avrete trovata e distaccata quella porzione immortale di verità che ciascun sistema contiene, vi resteranno ancora i medesimi sistemi? o pretendete che quella porzione di verità immortale, che avete svincolata dall' intero sistema, sia ella sola quel sistema? anche se questa porzione è piccola, perchè voi non dite se questa porzione di verità sia grande, o piccola, od uguale in tutti i sistemi? Se non volete dir questo (che sarebbe strano, che voleste confondere quella porzione di verità che può trovarsi nel sistema col sistema stesso); perchè dunque date l' epiteto d' immortale alla porzione di verità che vi si contiene? Chiamando voi immortale questa sola porzione, venite a confessare implicitamente, che è mortale tutto il resto del sistema: e se questo resto del sistema è mortale perchè non gode di quell' immortalità che è la prerogativa divina della sola verità, che compassione ve ne prende? lasciatelo subire la sua sorte, lasciatelo morire, che anche morto resterà nella storia dello spirito umano. Ed anzi, se volete confessar il vero, non potete far altro, quando pure non v' arroghiate la facoltà di rendere immortali i mortali, o non vogliate far la figura di que' medici che hanno trovato l' elixir vitae che preservava gli uomini dalla morte. Infatti, non molto dissimile a questi, voi vi proponete di salvar dalla morte gli errori, cioè quei sistemi da cui avete succhiato fuori, siccome ape industriosa, il miele della verità; e non contento d' assumere voi stesso un così difficile incarico, lo volete dare anche a noi, che non sappiamo d' avere tanta virtù, ed anzi a tutti, prescrivendo loro « di perfezionare i sistemi l' uno per via dell' altro senza tentare di distruggerne alcuno. »Ma badate che non accada a voi stesso di fare involontariamente quel che proibite. Perocchè i sistemi filosofici rassomigliano sovente a quegl' insetti di così ammirabile e dilicatissima tessitura, che per quanto gentilmente si tocchino colle dita, s' infrangono, e muoiono con gran rammarico dell' osservatore della natura; e però parmi, che voi stesso, benchè protestiate in contrario, facciate un tentativo di distruggere que' sistemi, non solo arrischiandovi di toccarli, ma di più sottomettendogli ad una operazione pericolosissima, qual' è quella che estrae da' loro visceri quella porzione di verità che è la loro anima. E voi stesso lo confessate quando dite: « « L' autorità di questi differenti sistemi viene di qui, che tutti hanno qualche cosa di vero e di buono (1) ». » Dite ancora che « « ciascun sistema per quella porzione di verità che contiene, è fratello di tutti gli altri, e figliuolo legittimo dello spirito umano »; » di che consegue necessariamente, non me lo potete negare, che quando voi gli avete tratto di corpo quella porzione di verità, che è l' operazione che vi proponete di fargli subire, quello che resta dopo tale operazione non è più un fratello degli altri sistemi, nè un figliuolo legittimo dello spirito umano. E, per trarre da questa vostra dottrina un' altra conseguenza, ciò che rimane di quel sistema si può legittimamente seppellire nella storia, come cosa morta, e siete stato voi stesso che l' avete ammazzato, senza mancar di rispetto alla libertà dello spirito umano, il che voi giustamente raccomandate. E che? Pretendete forse, o avete il diritto di pretendere dopo queste vostre confessioni, che la libertà dello spirito umano consista in lasciar sussistere tutti i sistemi filosofici l' uno accanto all' altro, i sistemi più contraddittorŒ, i sistemi falsi, altrettanto quanto il sistema vero, i sistemi misti di falso e di vero, anche dopo aver loro tratto di corpo il vero che contengono? Voi sperate di conservarli nel vostro ecletismo, e promettete che vi staranno in pace, come le bestie nell' arca di Noè, e così camperanno dal diluvio: ma a dir vero voi con questo cadete nel solito errore de' falsi liberali, scambiando la libertà colla servitù; poichè siete voi quello che sotto il nome di libertà imponete allo spirito umano la più irragionevole e tirannica servitù, dichiarandogli, che non c' è da far altro che d' attenersi al vostro ecletismo (1), il quale impone allo spirito umano l' obbligazione (ecco come s' intende la libertà) di non distruggere alcun sistema, e di perfezionarli tutti! Il che è quanto dire, che allora si rispetta la libertà dello spirito umano, quando gli si proibisce d' esercitare il diritto, e d' adempire il dovere che ha di rigettare i falsi sistemi, e d' attenersi al sistema vero, che non può essere, che uno solo! Questa è la libertà, che i nostri filosofi liberali spaventati dalla fantasima della scuola teocratica, che giganteggia nella loro immaginazione, lasciano alla ragione umana. E v' assicurano, che questo è uno onorare lo spirito umano, e che sia così, ve lo provano; ascoltate il loro argomento: « Tutti i sistemi sono tanto vecchi quanto la filosofia, e inerenti allo spirito umano che li produce il primo giorno, e poi di continuo li riproduce: il tentare dunque di distruggere un solo di questi sistemi, che sono tutti creature dello spirito umano, è un disonorare lo spirito umano: dunque per lo contrario è un onorarlo il conservarli tutti ». Peccato che il filosofo, che ragiona così sottilmente, si sia lasciato scappare di bocca, che i sistemi sono figliuoli legittimi dello spirito umano per quella porzione immortale di verità che contengono. Parlando di figliuoli legittimi si suppone che ve n' abbiano anche d' illegittimi, e se la verità è prole legittima dello spirito umano, consegue che la falsità sia la prole bastarda del medesimo: e se la prima è una gloria, non pare che si possa riputare una gloria del medesimo spirito umano la seconda che è figliuola della fornicazione. Laonde il concetto che s' è formato il nostro filosofo dell' onore dovuto allo spirito umano non è più giusto di quello che abbiamo veduto essersi egli formato della libertà. Se non vogliamo impazzire, dobbiam riconoscere che lo spirito umano è fallibile, e però che non sono tutte vere, nè tutte belle le cose che fa questo spirito, e che però colui veramente l' onora, che lo dirige sulla via della verità, dalla quale sola riceve il suo onore e la sua gloria, e non punto quell' uomo superstizioso, che per onorarlo l' adula, e lo trasforma in una divinità, il quale così facendo si rende simile a que' cortigiani, che raccoglievano religiosamente, ed adoravano gli escrementi del loro imperatore. Lungi da noi tanta viltà, e tanta servilità. Noi vogliamo esser liberi seguaci della verità, e non rinunziamo in grazia di checchessia, foss' anche l' ecletismo o 'l sincretismo che ci si vuole imporre a nome della libertà e dell' onore dovuto allo spirito umano, al diritto che abbiamo di tentare la distruzione di tutti i sistemi erronei, e di tutta la parte erronea che ci è dato di discoprire ne' medesimi. Tale è il concetto che noi ci siamo formati della libertà dello spirito umano, e della maniera di onorarlo, e reputiamo che chi non l' onora in questa maniera, lo disonora, forse senza avvedersene. Che cosa è un sistema? L' accozzamento di alcune proposizioni senza nesso fra loro? o si vogliono distinguere i sistemi co' puri nomi de' loro autori senza por mente al contenuto della dottrina? Per noi un sistema non è nè un nome, nè dei brandelli staccati a caso da diversi corpi di dottrina; ma è un principio elevato con tutte le sue conseguenze. Laonde molti di quelli che nella storia della Filosofia si descrivono come sistemi diversi, perchè esposti da autori diversi, e con un ordine diverso, non sono agli occhi nostri diversi, qualora que' corpi di dottrina si possano ridurre ad uno stesso principio. Laonde quegli autori, i quali convenendo in un dato principio, ne cavano conseguenze diverse, e non opposte, o s' applicano a dedurne conseguenze nuove, o s' occupano esclusivamente a svolgere quel principio per un nuovo genere d' applicazioni trascurate dagli altri; questi non sono autori di sistemi nuovi, ma lavorano intorno allo stesso sistema, perchè lavorano a fecondare lo stesso principio. E così i sistemi veramente diversi sono in minor numero che non si creda, quantunque la storia della filosofia, come fu fatta fin qui, e che l' ecletismo francese prende a suo fondamento, ce li moltiplichi. Or poi se il sistema filosofico si contiene in quel principio elevato, onde il filosofo muove tutto il suo ragionare, n' avremo questa conseguenza, che, come il principio del sistema il quale è una proposizione semplice non può esser che vero o falso, non essendovi niente di mezzo fra la falsità, e la verità, così converrà dire, che anche i sistemi diversi non possono essere che veri o falsi, e però o da ammettersi o da rigettarsi. Nè vale il dire, che in ogni sistema v' ha una porzione di verità: perocchè quand' anco s' ammetta una proposizione così universale, e per ciò stesso così gratuita, che è un dire antifilosofica; quella porzione di verità o riguarderà il principio, se il principio è vero, o riguarderà alcune conseguenze, se alcune conseguenze prese da se sono proposizioni vere. Se riguarda il principio, e però questo sia vero, in tal caso tutto il sistema è vero, e le conseguenze false, che s' incontrano non possono essere che mal dedotte e si devono espungere, come straniere al sistema sostituendovi le vere. Ma de' principŒ veri, e de' sistemi veri non ve ne possono esser che uno. Se riguarda le conseguenze, di maniera chè alcune conseguenze prese per sè sieno proposizioni vere ma dedotte (probabilmente mal dedotte) da un principio falso; tutto il sistema è falso, e non si salva il sistema, salvando quelle proposizioni vere che non gli appartengono, e da esso si devono separare, raggiungendole a quel sistema, a cui veramente appartengono, cioè a quell' unico che ha un principio vero. Ond' ella è cosa vana e impossibile far quello che prescrive troppo dispoticamente l' ecletismo francese, non tentare di distruggere alcuno de' sistemi prodotti dallo spirito umano. I quali sistemi, vi dice l' ecletismo, sono inerenti allo spirito umano che li ha prodotti il primo giorno della filosofia e li riproduce senza posa. Sia: ma sono veri o falsi? Ecco tutta la questione della libera filosofia, d' una filosofia che non ammette il giogo delle aberrazioni dello spirito, e che ricusa dichiararsi mallevatrice e pagatrice de' suoi errori, e de' suoi delirŒ, che anzi giustamente si sdegna contro a chi le fa violenza per costringerla a tanta umiliazione, e le va prodigando i titoli di serva, e di teocratica, perchè ella, giusta signora, si ricusa di pagare i debiti de' prodighi e degli scapestrati. Protesta altamente, dice all' ecletismo: « Se i sistemi dell' errore sono inerenti allo spirito umano, come voi dite, ed egli gli ha prodotti il giorno che io sono nata, tal sia di lui, io non gliene ho fatto procura, e se egli ha speso il mio nome, e adulterate le carte, non mi resta altro che dargliene querela di falso. »E veramente il dire, che lo spirito umano fino dall' ora che prese a filosofare ha prodotto tutti i sistemi anche falsi, come dice Vittore Cousin, questo non prova, che si debbano ammettere, e religiosamente conservare; ma piuttosto disvela il peccato originale dello spirito umano, un vizio inerente al medesimo, che l' indebolisce e sommette la sua ragione alle seduzioni dell' errore; il quale vizio non gli può venir dal Creatore, che l' ha fatto per la verità. E non è maraviglia che tornino sempre in campo gli stessi sistemi, quando si sa, che le inclinazioni e le passioni umane che affascinano la ragione, e la fanno servire, sono sempre le medesime, ed hanno leggi fisse nel loro operare. Il signor Cousin producendo la prescrizione a favore dell' errore che tiene in servitù lo spirito umano, imita fuor di proposito gli avvocati che difendono i debitori che non vogliono pagare i debiti, senza accorgersi, che se quella prescrizione vale in legge per il solo foro esterno, in filosofia non è buona nè per l' uno, nè per l' altro foro. Una ragione libera dunque, una filosofia libera ha diritto di sdegnare tutto ciò che è falso, e di congiurare colla verità a distruzione di tutti i sistemi falsi: niuno può impedirla dall' esercitare questo diritto di guerra: ognuno può richiamarvela, se non gli resta fedele. E tuttavia egli è vero, che coloro i quali trattano la verità come una femmina, si adirano sconciamente quando la trovano scompiacente, e ritrosa a piegarsi alle vane e capricciose loro opinioni, e di rusticità l' accusano, « siccis rustica veritas capillis (1) »: è vero ancora (noi non lo possiamo negare senza mentire) che tutti quelli che cercano lei sola, lei sola abbracciano; vengono facilmente in voce d' orgogliosi, perchè di necessità, e contro loro voglia, si trovano in diretta opposizione a tutti gli altri, che non consentono con esso loro nello stesso amore del vero, o che a questo antepongono degli altri amori: e in tutti i tempi dovettero scusarsene agli uomini irritati con esso loro. Se ne dovette scusare lo stesso Socrate, pochi giorni prima di lasciare la vita, per cagione dell' invidia di coloro, che egli coll' insegnamento della verità dimostrava ignoranti, e con Teeteto ebbe a dire: « « Molti oggimai, o maraviglioso giovanetto, sono così mal disposti inverso di me, che vorrebbero lacerarmi co' denti, se alcuna volta io discacciassi da essi qualche ciancia, non istimando che da me si faccia questo per benevolenza, essendo essi troppo lontani dal sapere, che niuno Iddio è malevolo agli uomini. Nè io fo per malevoglienza alcuna cosa somigliante, ma non pare a me lecito in verun modo di accettare il falso, e ribattere il vero »(1). » E veramente questi appunto a cui si appone taccia di alterezza sono i più benevoli, anzi i soli benevoli a tutti gli altri uomini. E sebbene davanti ad essi non v' abbia accettazione di persone o di opinioni, tuttavia ne' loro studŒ preparatorŒ alla filosofia non ricusano punto la storia, nè schifano di riguardare negli altrui sistemi tutto ciò che v' ha di vero, e di sincero, ma non confondono però la storia colla filosofia, e non fanno nè credono poter fare della storia, o colla storia la filosofia. Chè la Filosofia non si stabilisce sopra alcuna autorità, nè pur divina, non che umana; poichè la Filosofia è ragionamento, e non altro che ragionamento. Laonde un' autorità sia pure infallibile può bensì segnalare la via al ragionamento filosofico, acciocchè non si perda, ma non può mai surrogarlo: può, ancorchè non infallibile, eccitare il pensiero di colui che cerca una Filosofia, ma non può prevenirlo, ed escluderlo, quasi non più necessario. E dee pur fare un' altissima maraviglia l' incoerenza di coloro, i quali mettendosi in gran sospetto dell' autorità divina, che loro apparisce siccome una scuola teocratica, dimostrano poi la riverenza più servile alle sentenze de' filosofi, o di quelli che così si chiamano, registrati nella storia, a tal che si fanno coscienza di distruggere un solo de' loro sistemi, per non recare, dicon essi, onta allo spirito umano, che pure non veglia sempre, anzi di quando in quando dormicchia e sogna. Singolar cosa è il vedere introdotta nella Filosofia la riverenza allo spirito umano (ed è la sola riverenza, che conoscono costoro), come se questo, o alcun altro simile sentimento potesse valere assai nel decidere questioni di verità e di falsità. Del resto qualora la storia dei sistemi ci porga altresì colle sentenze de' ragionamenti, questi non possono esser ricevuti nella Filosofia a titolo d' essere storici, ma al solo titolo d' essere veri, e di procedere con logica dirittura; il che è quanto dire, d' essere non di questo, o di quel filosofo, ma della mente, e però una proprietà comune di tutte le menti, rimanendo affatto esclusa dalla Filosofia la questione erudita: qual' individuo abbia il primo veduti que' veri colla sua mente e convenevolmente pronunciati colla sua lingua. Come diceva dunque Socrate che niun Dio è malevolo agli uomini, così anch' io dicevo, che quelli che amano e cercano la verità, cosa divina, che è l' onore dello spirito umano non perchè egli la formi ma perchè n' è informato, sono i più benevoli, anzi i soli benevoli agli uomini, ed ai sistemi stessi da loro inventati; ch' essi soltanto sono quelli che procacciano il vero bene alla natura umana, che dalla verità deriva, e alla verità si riduce, e dentro a' loro sistemi riconoscono volentieri ed amano e prezzano tutto quello che c' è d' amabile, e d' apprezzabile, cioè appunto la porzione immortale di essi, la verità, nella quale sinceramente s' accordano e s' uniscono. Così non fanno coloro, i quali s' imaginano, che lo spirito umano meriti un onore per se stesso, indipendentemente dalla partecipazione della verità, e sembra che onorino questa come una creatura di quello, alla stessa maniera dell' errore, che certamente è una creatura, una pura creatura del medesimo. Costoro, non avendo più alcun punto fermo a cui dirigere i loro affetti, ripongono tutto il bello, la vita, la gloria della filosofia in quel movimento continuo, pel quale diversi, e contrarŒ sistemi nascono e cadono, e ricompariscono senza posa, e s' abbaruffano fra di loro in una mischia che non deve mai finire, acciocchè continui a mostrarsi vivace e rigogliosa la filosofia. Nell' arringo della quale essi si spingono cavallerescamente, non per la pace, ma per la guerra, e per la palma della vittoria, e tuttavia i più bravi fra essi non astiano il valore de' loro compagnoni, chè anzi ne lo magnificano, acciocchè sia più glorioso il combatterli, e nel vincerli spicchi maggior prodezza. Solo quelli che non hanno una cortesia così raffinata si strapazzano a vicenda prima di venire a' colpi, come gli eroi d' Omero. Tutti cotesti dilettanti dell' armeggiare gustano assai che i sistemi filosofici sieno molti e che rimangano sempre molti, acciocchè i tornei riescano più brillanti e spettacolosi, dando luogo a un maggior numero di campioni. E questo spiega perchè fin qui la storia della Filosofia, invece di narrare le avventure di quella Dama, che tutta soletta vince molti cavalieri, cioè dell' unica verità, che giostra co' moltissimi errori, non sia che una continua narrazione di gare e di puntigli, che hanno preso l' abito e le forme de' sistemi, i quali scaramucciano con gran valentìa senza intendersi, e senza che la vittoria si decida per l' una o per l' altra delle parti, perchè tanto dall' una, che dall' altra, s' adopera per lancia la verità mista coll' errore. A chi mai non è noto tutto ciò che è stato detto contro lo spirito irascibile, e contenzioso de' filosofi? A cui non son venute a noia le lor perpetue discordie ed emulazioni? Chi non ha preso scandalo di quella interminabile mischia di sempre nuove e contradditorie opinioni, nella confusion delle quali è impossibile, anche agli uomini di miglior vista, discernere la verità, o credere che ve ne sia una, quando i densi nuvoli che si sollevano di polvere olimpico, ne offuscan la luce? Perocchè non tutti gli uomini son battaglieri, o si dilettano solo di zuffe: onde volendo divertire troppo il mondo di sè, si finì pur troppo coll' annoiarlo. E si pretende ora di rimettere in istima la filosofia con uno spediente così nuovo (che in pratica è così antico) di divietare che si distrugga alcun sistema, e di raccomandare che si fortifichino tutti, acciocchè tenzonino ancor più alla disperata (1)? Quando pure, questa è la vera ragione del discredito, per non dire del disprezzo, in cui è caduta la filosofia: la cagione, per la quale gli uomini finirono col credere, che la verità filosofica sia irreperibile, e la filosofia stessa un trastullo di certi ingegni astrusi e stravaganti, che, senza curarsi gran fatto della verità, nè poter riuscire alla certezza e a recare alcun frutto all' umanità, amano di far prova e pompa delle loro forze colla vana gloria della cavillazione! Qual meraviglia che quando comparve al mondo improvvisamente un' altra dottrina di contrario carattere, sicura di sè, immutabile come la verità, completa come la sapienza, voglio dire il Vangelo, ne ricevessero una così grande scossa le scuole de' filosofi, e comparissero alla luce di que' trattati che, sottosopra, avean per titolo: Irrisio philosophorum ? E di questi trattati se ne vogliono ora degli altri? Il Vangelo li produsse in allora, e il Vangelo sta lì per riprodurli, se gli uomini ritornati sofisti, gliene dieno nuova occasione (e la scuola che il Cousin chiama teocratica, n' è almen la minaccia); il Vangelo, dico, che solo potè in appresso, siccome fece, rimuovere dalla filosofia la derisione e la beffa, restituendo al mondo la fiducia che avea perduta nella ragione e nella verità, comunicandogliene una grandissima parte, la parte essenziale e necessaria, anzi facendo molto di più, chè egli ne guarentì la perpetua esistenza nel genere umano, in virtù di quello stesso potere che ordina al sole di nascere ogni giorno e risplendere sulla terra; e accrebbe l' obbligazione d' amarla, infondendone ad un tempo negli animi un amore infinito. Così fu il Cristianesimo, che con tutti gli altri beni, dopo aver abbattuta la falsa, salvò anche la vera filosofia, la quale avrebbe sicuramente trovato la sua tomba nell' ecletismo alessandrino, o questo stesso, per dir meglio, senza di lui, non avrebbe avuto il tempo di farne balenare agli occhi degli uomini l' ultimo raggio. E però noi consideriamo come nostro dovere il mantenere alla filosofia quella dignità che le ha dato il Cristianesimo, e che tutta consiste nella nobilissima obbligazione, o se si vuole, nella felicissima necessità, di dover essere d' allora in poi, maestra di verità, e non punto altro; non già perchè l' uomo che filosofa sia divenuto infallibile, ma perchè tutto ciò ch' egli pensa o dice di contrario al vero non può più usurparsi, senza contrasto, il nome di Filosofia. [...OMISSIS...] Di che necessariamente consegue, che i pensatori e gli scrittori si debbano giudicar tanto filosofi, quanto hanno pensato o scritto di filosofica verità; e per aver essi pensato o scritto altre cose erronee, quante se ne vogliano, non si dee attribuir loro il nome di filosofi (chi pur voglia provvedere all' onore, alla conservazione, e al progresso della stessa filosofia); ma conviene che si denominino sofisti, nemici della Filosofia, o, secondo i loro speciali costumi, filosomati, filocremati, filomachi , o in generale, come volea Platone, « filodossi (2). » Poichè colui che si stanca e si lima l' ingegno non per arrivare al conoscimento della verità, ma per riuscire a distruggerne, se gli fosse possibile, o negarne alcuna parte, e con ardue, ma indottissime cavillazioni, annuvolare il sereno degli umani intelletti; questi fa appunto l' officio contrario a quello che è assegnato al filosofo; e quindi è manifestamente improprio e barbaro l' uso d' applicare lo stesso nome a chi professa due uffici non pur diversi, ma così contrari, quasi che il fare e il distruggere fosse una sol' arte. Ed è cosa ben singolare a vedere, che mentre gli uomini non usano così quando danno i nomi ad altre cose (chè nè s' intenderebbero più tra loro, nè canserebbero il morso del ridicolo); in questa sola materia della Filosofia, cadono in tanta confusione e inversione di linguaggio senza che se ne avvedano. Chi vorrebbe chiamare scultore egualmente il Canova, e colui che prendesse diletto nel graffiare e bucherare le finitissime sue statue? Chi accomunerebbe la denominazione di pittore a Raffaello ed a quell' insensato, che per mostrare il valor suo nell' arte, s' occupasse con grande assiduità, e mettendoci tutta la diligenza, a suggellare con qualche bel colore le pupille degli occhi, ed impastare i nasi, imbellettar le gote de' volti divini, che s' ammirano nelle tavole dell' Urbinate? A niuno potrebbe venire in mente, che un parlare così stravolto si giustificasse colla ragione, che tanto il Canova quanto il guastatore delle sue statue v' adoperi gli stessi ferri, gli stessi scalpelli, le scuffine, le raspe; e che tratti pure gli stessi pennelli, e gli tinga alla tavolozza de' colori altrettanto, quanto faceva il Sanzio, quel disennato che ne deforma le inapprezzabili dipinture. Ma che cosa è il sistema della verità, se non un cotale augusto simulacro, o una figura nobilissima di Dio stesso? E quanto questo altissimo lavoro col quale si scolpisce e colora in anime immortali la viva imagine d' un' eterna sapienza, non ha egli più di pregio, non merita più di riverenza, di quello, col quale gli eccellentissimi artefici danno forme eleganti al marmo e le avvivano sulle tele? Or poi quell' artista, che ad una tant' opera si consacra, chiamasi Filosofo; e l' arte che egli professa, chiamasi Filosofia. Laonde se questo è l' intento, questo lo scopo assegnato alla professione del filosofo; come se ne profanerà, e abuserà il nome accomunandolo anche a coloro, che maneggiano bensì lo stesso stromento del pensiero, ma con sì vituperevole imperizia, che ad altro non riescono che a demolire o sformare l' opera del filosofo? ad offuscare cioè co' sofismi quel lume di verità, che l' arte filosofica mette in aperto, a disformare, troncare, imbrattare colle macchie degli errori quelle membra decentissime del corpo della sapienza, che ritrae in carte il filosofo? E pure questa biasimevolissima improprietà passò quasi universalmente in costume, e nel secolo scorso l' ateismo stesso fu detto il segno d' una mente filosofica! E noi non istupiamo punto, che si vedesse qualche cosa di mostruosamente grande in una sì grande negazione, chè certo non ve n' ha un' altra che cancelli una porzione maggiore e più importante di verità, quand' anzi l' ateismo veramente la cancella tutta. Chi mai non sa che si dà anche un' ignoranza grande, un errore grande, una grande demenza? Ma ci maravigliamo, che si confondesse questa grandezza colla grandezza del sapere e della Filosofia. E a confondere grandezze di cose così opposte, s' usava questo argomento: « « Non v' ha gente così barbara e inospitale, che non ammetta qualche divinità, e con qualche culto non la onori: dunque per lo contrario non può essere che opinione di uomini dottissimi l' ateismo (1). » Quasi che la dottrina giunga al suo colmo, allorquando si dimostra potente a rimuovere dalle menti degli uomini quelle stesse verità, che nè anco la più efferata barbarie, e la salvatichezza medesima non vi ha potuto scancellare. Non ignoriamo quanto sia, e sia sempre stata cosa odiosa, lo scacciare dalla compagnia de' filosofi i maestri dell' errore: ma coloro che amano la verità devono esser disposti a subire l' applicazione dell' antico proverbio: « La verità partorisce odio », come Socrate, che negò coraggiosamente il nome di filosofi ai sofisti del suo tempo (2). Noi dunque non ci terremo, ma continueremo a dire, che è un' ignobile adulazione, perchè è una falsità di parlare, quella d' onorare col titolo di sistema filosofico, qualunque viluppo di proposizioni vere o false, che l' aberrazione della ragione umana o il delirio d' una imaginazione inferma, vi presenti siccome un trattato di filosofia. Può essere una debolezza d' animo e di mente il ricever la legge da' titoli de' libri, e da nomi de' loro autori: che se vi piace mantenere questa improprietà di parlare per qualche vantaggio reciproco che n' aspettate, ell' è una colpevole connivenza. Or come l' accogliere nel novero de' sistemi filosofici anche quelli che hanno per principio l' errore, col pretesto che racchiudono tuttavia qualche particella di verità (quasichè quel che hanno di vero non sia un elemento a loro eterogeneo da sceverarsi per raggiungerlo a quel sistema della verità di cui è proprietà inalienabile), pare un largheggiare d' onori, con manifesta ingiustizia, a cosa che non li merita; così è del pari un negare o scemare l' onore dovuto alla verità, con un' altra ingiustizia, il parlar di sistemi senza distinzione, mettendoli tutti in un fascio, partano essi da un principio vero o da un falso: questo umilia la verità fino al grado ignominiosissimo dell' errore; questo umilia ancora lo spirito umano. E poi, come sapete, che tutti i sistemi sono egualmente un miscuglio di vero e di falso? Pretendete, voi filosofo, che vi si creda sulla parola, che basti l' autorità del vostro giudizio? E come dunque avete poi tanta paura della teocrazia? ne sareste forse geloso? E pure non ci avea bisogno d' una grande penetrazione a capire, che se il principio supremo d' un sistema è vero, tutto il sistema dee riceversi siccome vero e rettificarne soltanto le conseguenze se mai non fossero derivate logicamente, cavarne dell' altre e così svolgerlo e completarlo: se poi il principio supremo d' un sistema è falso, tutto il sistema si dee avere per falso, e se vi s' incontrassero per accidente delle cose vere, queste che non son sue, nol rendono vero. Onde l' accoglierli tutti senz' altra distinzione, è un voler esser filosofo alla guisa d' Omero, che avendo, come osserva Seneca, ne' suoi poemi tutte le filosofie, non ne ha veramente nessuna (1). Convien dunque dire, che niun sistema, propriamente parlando, è misto di vero e di falso (benchè il vero ed il falso possa esser misto ne' libri in cui i sistemi si contengono), ma i sistemi sono tutti o semplicemente veri o semplicemente falsi; ed i sistemi veri (1) si allontanano più che il cielo dalla terra da' falsi, e però non si possono confondere nella medesima categoria, nè pronunciar di tutti in monte una sentenza; e di più, i sistemi falsi, son sistemi d' errori, e quindi a rigore non meritano il titolo di filosofici, ma sì d' antifilosofici. Convien dunque onorare lo spirito umano, diciamo anche noi col signor Cousin, ma intendendo l' onore dello spirito umano in altro modo. Chè per noi tale onore non consiste punto nel calore e nella ostinazione con cui esso spirito umano contraddice e discerpe se stesso, nè si procaccia il richiamare indietro il mondo a' costumi gentileschi, cioè a un tempo passato per sempre. Allora framezzo alle scandalose e impotenti mischie de' filosofi s' udì una voce nuova e potente che diceva: « « La Filosofia non si può ottenere da coloro che consumano l' opera loro in pugne e contrasti di parole »(2), » voce ascoltata da' migliori tra gli stessi filosofi (3), ma più ascoltata da tutto il mondo, a cui parve manifesta la vanità di que' dottori, che faceano la filosofia, come i condottieri del medio evo faceano la guerra. L' onore dello spirito umano, ripetiamolo ancora, per noi sta unicamente nella verità di cui egli può esser partecipe, e n' è veramente, la cui conseguenza è la pace e la concordia; siccome il suo disonore sta nell' errore e nella perpetua incertezza della dissensione. Laonde il disonorare quella verità che lo spirito umano non crea, ma vede, e, vedendola, se ne illumina ed incorona, e l' onorare per l' opposto quell' errore, pur troppo sua creatura, che acceca e scorona il suo creatore; sono due modi di fare ugualmente allo spirito umano vitupero e atrocissima ingiuria. E questo si fa appunto nell' uno e nell' altro modo ad un tempo col sommettere alla stessa sentenza del signor Cousin, benchè sentenza più di grazia che di giustizia, i sistemi veri ed i falsi, e in volerli tutti conservati e affortificati egualmente. Ora se di questa sentenza si possono chiamar contenti tutti gli autori e seguaci de' sistemi falsi; per l' opposto il nostro paciere s' avrà sollevati contro con essa tutti gli autori e seguaci de' sistemi veri, i quali appellano e fanno valere davanti ad un tribunale più autorevole, qual è il senso e la coscienza del genere umano, benchè a dir vero tribunale teocratico, i loro gravami. Come dunque l' ecletismo promette la conciliazione di tutti i sistemi tanto filosofici, quanto antifilosofici, senza distinzione? che conciliazione è possibile in questo modo? Quanto a noi, intendiamo di gratificare agli autori de' sistemi veri; e se il signor Cousin riesca a metter pace, almeno tra' suoi, forte ne dubitiamo (1): all' opposto confidiamo di poter noi aver pace co' nostri, noi che consideriamo il sistema della verità come il fondamento dell' unica pace possibile fra le intelligenze, e causa d' ogni altra pace. E come si può ottenere la pace, quando la pace stessa si pone nella guerra, cioè nel conflitto de' sistemi? Come si può parlare di conciliazione, mostrarne l' importanza, declamare contro quelli che la ricusano da uno, che mette per condizione alla medesima il conservare tutti gli opposti sistemi, e anzi di più l' affortificarli tutti? e che nello stesso tempo vi dice, v' assicura sulla sua parola, che in tutti, niuno eccettuato, v' ha qualche cosa di falso? Non è proprio degli errori, che hanno una natura così moltiplice, d' escludersi e di combattersi a vicenda? e di combattere sopra tutto la verità? Onde, se tutti i sistemi racchiudono nel proprio seno errore e verità (2) (che è il postulato su cui si fabbrica l' ecletismo, e non è altro certo che un postulato, e per buona sorte non come quelli de' matematici che non si possono rifiutare), non solo avremo molti sistemi discordi, ma in ciascuno avremo i semi della discordia! E notate, che si confessa, che l' indole di tali sistemi è l' esclusività, per modo che ciascuno vuole esser solo, ed è questa esclusività che li rende sistemi distinti, cessata la quale, non rimarrebbero più molti sistemi, ma si fonderebbero in uno. Il che si riconosce anche per un difetto, ed un difetto, che a ciascun sistema è così essenziale, che senz' esso non si può conservare, molto meno fortificare. Tuttavia ogni sistema si vuol conservare ed affortificare, a condizione che niuno domini in su gli altri, cioè che non sia esclusivo! Mi dispiace che la contraddizione qui spicchi a tal segno, che mi taglia quasi a mezzo il ragionamento che stavo facendo; perocchè non si può più nè pur domandare come una contraddizione sia possibile, chè una tale domanda equivarrebbe a quest' altra: come sia possibile l' impossibilità. Ricopriamo dunque per un poco questa contraddizione col velo di quelle parole vaghe ed indeterminate, colle quali la copre l' autore dell' Ecletismo, e sostituendo la parola di conciliazione a quella di contraddizione, dimandiamo come la conciliazione promessa sia possibile? Ci si risponde: colla tolleranza (1). Bellissima parola, e gratissima agli orecchi degli uomini che ci vivono. Ma si è mai pensato seriamente al significato di questa parola: tolleranza ? Certo se per tolleranza s' intende - diffidare della propria opinione e rispettare l' altrui dentro i confini che la prudenza assegna, compatire gli altrui errori anche evidenti e le altrui debolezze anche viziose, non prenderne pretesto d' invadere gli altrui diritti, astenersi da ogni giudizio temerario, esser benigno e benevolo a tutti, - questa è una virtù preziosa, ma una virtù che s' esercita verso le persone, non verso i sistemi, e, appunto perchè è una virtù, è un abito della volontà umana, non una scienza. Ora noi non eravamo nel campo della volontà, eravamo in quello della mente, parlavamo di filosofia, di sistemi filosofici, di errori e di verità: bisogna che ce lo ricordiamo. Non è egli un grande scambio cotesto, di trasportare all' intelletto le leggi della volontà, e pretendere ch' egli ubbidisca ad altre leggi diverse dalle sue proprie? Chi non sa che la tolleranza è una legge impossibile a praticarsi dalla mente? chè la mente è sempre per sua natura intollerante (se mi si permette di così parlare), e se potesse tollerare la contraddizione e l' errore da lei conosciuto, compirebbe con ciò una tale annegazione di sè stessa che si annullerebbe. Il costringere dunque la mente ad essere tollerante è un costringerla ad annullarsi: e questo per fermo non è filosofico: anzi a buon diritto si può chiamare un' intolleranza, e un' intolleranza così enorme, che l' uomo per essa non tollera più l' esistenza sua propria della sua mente, e di conseguente molto meno quella della Filosofia. E la colpa per certo non è della mente, se non si presta a leggi che non son fatte per lei: la colpa, se qui c' è colpa, è tutta dell' intollerantissima verità, dell' inesorabile logica: le idee non le fa l' uomo, le riceve bell' e fatte, nè si rifanno, ed oltracciò esse non sono persone, in verso a cui si possa usare la virtù della tolleranza, della compiacenza, e somiglianti. La conciliazione dunque de' varŒ sistemi fatta per via di tolleranza, quale ci viene proposta dall' Ecletismo francese, somiglia perfettamente all' unione delle sette protestanti incominciata nel ducato di Nassau nel 1.17, ed estesa poscia in altri Stati, e specialmente in Prussia per opera del defunto Re, unione singolare, nella quale ciascuna setta mantiene la sua credenza, e tuttavia con credenze diverse e contraddittorie, ciascuna delle quali condanna l' altra, vogliono tutte formare una sola Chiesa, che chiamarono evangelica , come se il Vangelo fosse il complesso di mille contraddizioni, il sincretismo mostruoso di tutte le sette protestanti! Questi fedeli, che per formare una sola Chiesa si contentano d' un nome comune e d' alcune esterne forme, indifferenti poi alle cose , ai dogmi dagl' individui professati, v' assicurano di rappresentare colla più fedele somiglianza la Chiesa Cristiana de' primi secoli! A tale esemplare si modella l' ecletismo francese: egli propone a' filosofi una unione, o conciliazione d' egual taglia, in cui un nome comune, alcune frasi indeterminate, qualche botta contro la teocrazia scusano e ricoprono la sostanziale differenza d' opinioni, che divide gli ecletici, i quali protestano di mantenere, d' affortificare, per onore dello spirito umano, tutti gli opposti sistemi. Solo che a questa proposta di conciliazione, n' aggiungono un' altra speciale, ed è, che i sistemi esclusivi si facciano alcune reciproche concessioni (1), quasichè sistemi su principŒ diversi fondati, potessero esser tanto compiacenti, o far concessioni senza distruggersi, anzichè conservarsi ed affortificarsi. Per fermo che unioni e conciliazioni di tal natura non sono filosofiche, nè da filosofi possono esser proposte, nè ricevute: lasciamole dunque fare a' politici, a' ceremonieri, a' protestanti. Noi distinguiamo la legge dell' intelletto da quella della volontà: non imponiamo questa a quello, che sarebbe una confusione troppo madornale: nè con tali scambŒ potremmo mai condurre avanti la filosofia, nè scorgere quali sieno le cose, che, nell' ordine dell' intelletto, ammettano una conciliazione, quali quelle che non l' ammettano. La verità si concilia sempre colla verità, l' errore si concilia rare volte con se stesso, mai colla verità. L' assumersi un' autorità così grande, com' è quella d' imporre a proprio arbitrio un' altra legge all' intendimento, è un vincere in assurdo que' demagogi, che sotto il nome di libertà insinuano la più ributtante tirannia, è un darsi a credere di poter estendere a man salva il proprio dispotismo intellettuale sull' umana natura, e su quella verità che n' è la legislatrice e l' unica regina legittima. La verità dunque, ecco il solo punto possibile della conciliazione, e questa conciliazione (non ne riconosciamo alcun' altra) è quella che noi abbiamo sempre tenuto davanti agli occhi nelle filosofiche discussioni. Ci permettano anche qui gli amici nostri di rammemorare il cominciamento de' nostri studŒ e come nacque in noi il desiderio e il tentativo di una tale conciliazione. Nell' adolescenza la nostra mente ignara di ciò che era stato pensato e scritto, entrò con ardire, non insolito a' giovani, nelle questioni filosofiche: ve l' introdusse un uomo quasi sconosciuto al mondo, indimenticabile a noi, Pietro Orsi. Colla gioia che il primo aspetto scientifico della verità infonde nell' anima, con una sicurezza quasi baldanzosa, con delle speranze indefinite proprie di quella età che per la prima volta si volge con una riflessione elevata e consapevole, all' universo ed al suo autore, e gli par assorbir l' uno e l' altro colla facilità con cui respira, noi ci ravvolgevamo giorno e notte, quasi pei sentieri d' un giardino, nel vasto campo delle filosofiche questioni, non ci arretravamo dinanzi ad alcuna difficultà, anzi la difficultà ci rendeva più animosi, chè in ogni difficultà vedevamo un secreto atto ad eccitare la nostra curiosità, un tesoro a scoprire, e consegnavamo alla carta il frutto giornaliero di quell' ingenua e ancora inesperta libertà di filosofare, conscŒ di affidarvi i semi che ci doveano preparare il lavoro di tutta quella vita, che Iddio ci avesse poi conceduta. E per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que' semi. Dopo quella prima fatica, noi confrontammo di mano in mano a quegli spontanei e imperfetti pensamenti, tutte le dottrine de' filosofi; ed ogni qualvolta le riscontrammo ad essi consentanei, ci tornò caro come può esser caro l' incontro d' un amico, e il trionfare in sua compagnia. Eravamo troppo persuasi della fallacità della mente di un solo e della nostra particolarmente, e intendevamo, che, per assicurarsi a pieno del vero, non solo è necessaria un' autorità in quelle cose divine, a cui non giunge il raziocinio della mente, ma di più, che un' autorità, o, se si vuol meglio, l' assenso d' altre menti è mestieri soppravvenga a confermare la dirittura degli stessi naturali raziocinŒ. I quali certo sono quelli che costituiscono la scienza, chè la Filosofia, come abbiam detto più sopra, di raziocinŒ si compone, e non di autorità; ma l' autorità sopraggiunge sempre a tempo ed utilissima a rivedere ed a suggellare colla sua testimonianza, i medesimi raziocinŒ, di cui quella s' intesse. Allora intendemmo via meglio e apprezzammo la maniera di sentire di Seneca, dove dice: [...OMISSIS...] Non apparisce in questo filosofo, che è de' più sensati, alcun timore, che, stabilendosi nelle menti l' unico sistema vero, la Filosofia vi trovasse la sua tomba. Quando il capo dell' ecletismo francese si dimostra sollecito e in gran pensiero di questo che gli pare troppo sinistro avvenimento, mi comparisce del tutto simile ad Alessandro Magno, che piangeva d' una vittoria riportata da suo padre, per timore che non gli restasse più paese da conquistare. Noi crediamo, che in questo vecchio mondo, ricco di così varie e lunghe esperienze e di tanti disinganni, il diritto di conquista sia oggimai screditato, e che come nell' ordine delle cose politiche difficilmente può evitare la taccia di prepotenza, così nell' ordine delle cose filosofiche difficilmente possa evitar quella d' impostura. E ad ogni modo crediamo che alla contenzione degli spiriti che ambiscono con nobile gara di scoprire la verità, sia da preferirsi la verità già scoperta: crediamo che anche dopo essersi questa scoperta, non possa giammai mancar il lavoro a quelle intelligenze che vogliono assumersi la fatica d' accrescerne la luce e di renderla evidente agli occhi degli uomini, persuasi siccome siamo, che la luce della verità possa sempre aumentarsi all' intelligenze umane: crediamo che come ogni sistema riposa in un principio, onde anche emana; così il principio di quello che noi chiamiamo il sistema della verità abbia una natura tanto feconda, che affaticandosi intorno ad esso tutti gli uomini, non possano finir mai di derivarne nuove conseguenze, nuove, inaspettate e importantissime applicazioni, e che l' opera dell' annodare a quel principio tutte le scienze e tutti i fatti della natura e della storia che ci si riferiscono, e di farne riuscire così, congiunto in un corpo bellissimo, tutto lo scibile umano, sia inesauribile e per poco infinita: crediamo che quand' anco questo smisurato lavoro potesse quando che sia compirsi dagli umani ingegni, ne rimarrebbe loro un altro, sempre nuovo, sempre rinascente, non meno pregevole che non concederebbe alcun ozio, quello di conservare tanta copia di ordinata dottrina, di propagarla a tutti gli uomini, di vestirla di tutte le forme, di tramandarla intatta alle generazioni che si rinnovano, di difenderla e di proteggerla contro all' attivissimo, inquietissimo, cavillosissimo principio che mai non muore e sempre s' agita, del male e dell' errore: finalmente crediamo, che gl' intelletti esercitino un' azione grande e compiuta, anche col solo riposarsi nella verità, col fruirne, col comunicarne in se stessi la fruizione alla volontà, che sola l' attua, la realizza, e, rapendola al cielo della mente dove si mostra quasi pendula, la reca veramente in mano dell' uomo. Il perchè niun filosofo si spaventi, come le femmine della versiera, al pensiero della morte della filosofia predetta dall' ecletismo, nè perciò desista o si rallenti nella ricerca di quell' unico sistema, nel quale, come nella sua più alta idea, dee riguardare e fissamente intendere la filosofica investigazione. Chè niuna cosa muore col giungere alla sua perfezione, e non è verosimile che quest' accidente succeda alla sola filosofia giungendo al suo sistema perfetto. Piuttosto l' arduità e la vastità dell' impresa consiglia ad affrettarsi al lavoro; e prima a rimuovere gli ostacoli della discordia, i quali impediscono che le menti s' uniscano veramente nella verità. Laonde egli è un avvicinarsi a sì desiderabile effetto lo svelare i sistemi erronei, e, colla luce del vero, senza alcuna compassione, dileguar quelle ombre, lasciandoli soltanto segnati nella storia, come gli scogli e le arene nelle carte de' navigatori. Fra i sistemi veri, noi dicevamo, la conciliazione è possibile e desiderabilissima. E prima di tutto è mestieri vegliare attentamente per non cadere nell' ingiustizia, per non escluderne alcuno, e rilegarlo a torto nella classe de' falsi. Che se si riscontra qualche particella di falsità nelle conseguenze mal dedotte da un vero principio, questa si vuol correggere, non il sistema stesso rigettare. Di poi è necessario misurare l' altezza di ciascuno di que' principŒ che costituiscono la base de' sistemi, e a quelli che sono più elevati subordinare i principŒ meno elevati, e tutti all' altissimo, dal quale gli altri derivano siccome conseguenze. Con questa prima industria un sistema s' inserisce opportunamente nell' altro al debito luogo, come ramo al suo tronco, onde di molti parziali ne riesce un solo o completo, o certo meno parziale. Di poi, è da distinguersi la verità dalle varie forme di cui ella si veste, dai varŒ modi di concepirla, dagli aspetti o lati differenti, da' quali ella si mostra visibile alle menti. Questi non sono che altrettante parti della stessa verità, niuna delle quali esclude l' altra, niuna contraddice l' altra, ciascuna le aggiunge un nuovo raggio di luce. Quel savio che sarà animato dallo spirito della conciliazione, troverà sotto tante espressioni diverse, entro molteplici pensamenti, l' unità bellissima del vero, moltiplice senza misura nelle sue apparizioni, ma sempre concorde e consentaneo con se medesimo: questa è la seconda industria colla quale si può addurre una giusta conciliazione fra tutti quelli che rettamente filosofeggiano. Una forza che aiuta grandemente la conclusione di questa pace filosofica, vuol essere la benigna interpretazione delle altrui sentenze. Perocchè non è meno difficile il retto favellare del retto pensare. E però non di rado accade che l' uomo non esprima convenientemente tutto il proprio pensiero, ed allora l' equità esige, che chi ascolta o legge, lo interpreti, e quasi l' indovini sotto l' enimma dell' imperfetta espressione, quasi nobile simulacro coperto dà un velo. Conviene in tal caso cogliere lo spirito dello scrittore piuttosto d' attenersi alla lettera: considerare ciò che risulta da tutto il contesto de' vocaboli, delle sentenze e de' ragionamenti, ma soprattutto porre l' attenzione nella coerenza che aver devono le conseguenze dubbiose co' principŒ certi e colle intenzioni chiaramente manifestate dal pensatore. Un lietissimo e oltremisura desiderato risultamento mi trovai in mano dall' applicazione di queste regole, e si fu aver io acquistato la persuasione; che tutti i grandi filosofi, rispetto alle cose principali e più necessarie all' uomo, differiscono fra di loro più in apparenza che in sostanza, e sebbene di varie forme, non sempre convenienti e adeguate, rivestano la verità, pure nella verità stessa, senza talora avvedersi d' esser concordi, s' abbattono. Laonde lasciando da parte coloro che Cicerone chiamava « minuti filosofi (1) » alla qual distinzione del romano oratore tra i filosofi minuti e i grandi risponde quella che noi trovammo necessaria tra gli autori de' falsi, e gli autori de' veri sistemi; mirabil cosa è a vedere, come le sentenze coincidano nelle medesime capitali e supreme verità, e concordino colla fede e colla coscienza del genere umano, dalla quale que' minuti, non filosofi ma sofisti, dipartendosi, pensano, con insensatissima vanità, di parere dottissimi. E tuttavia questi stessi, qualunque abuso facciano del loro ingegno, qualunque sieno le illusioni di cui si circondano, quasi d' uno steccato che tenga da loro lontana la verità, in qualunque abisso d' errori si sprofondino per non esserne raggiunti, non arrivano mai a radere del tutto dall' anime loro quello che v' ha impresso con caratteri indelebili la natura, nè a soffocare del tutto quella inestinguibile fiammella, ond' hanno accesa l' intelligenza, nè ad imporre un intero e perpetuo silenzio in sè al sentimento umano, che cerca pur quella luce, che con sì grand' arte gli si toglie, come fanno le pupille del moribondo. Laonde da costoro medesimi, non perchè filosofi, ma perchè uomini, si possono raccogliere efficacissime testimonianze rese alle medesime verità, sia in quelle confessioni che scappano loro di bocca in alcuni istanti ne' quali vigilano meno la propria natura, sia nelle contraddizioni colle quali da se stessi tradiscono e distruggono i proprŒ errori, sia in que' temperamenti, che nell' esitazione aggiungono alle proprie dottrine, le quali con una aperta e nuda assurdità offenderebbero soverchiamente, e provocherebbero alla difesa il comun senso degli uomini. Chè sentono anch' essi, e non possono non sentire, la felice necessità d' aggiungere all' errore qualche brano di vero. Poichè come l' essere è necessario al nulla acciocchè questo si possa concepire, così la verità è necessaria all' errore, acciocchè questo si possa ricevere nelle menti, dalle quali sarebbe ripulso se non facesse valer come sua l' amabilità ch' egli usurpa al vero con cui astutamente si mescola, e si confonde. E anche in un' altra maniera tutti coloro che trattano le questioni appartenenti alla filosofia, ragionino in buona o in mala fede, rendono indirettamente testimonianza alla verità, e n' aiutan la causa; cioè col dare a vedere, pur cogli sforzi de' loro ingegni, dove abbian trovato il forte della questione, cioè il nodo difficile che tentarono, quantunque invano, di sciogliere, e che non potendo e pur volendolo ad ogni patto, diede a molti di loro occasione d' errare. Perocchè il sapere dove giaccia precisamente la difficultà, è già un passo, e grande, verso la stessa verità; chè, quando questa è recondita e munita d' ostacoli, non si può espugnare, se prima non s' esplori da tutti i lati la fortezza che la difende. Di che possiamo recare in esempio le disputazioni molte e i sistemi de' filosofi intorno alla quistion principale dell' origine delle idee, che tutti coll' aver urtato nella medesima difficultà, presentatasi loro in varie forme, concorsero a renderla più manifesta e da molti aspetti visibile, e così ne facilitarono gli approcci, e n' apparecchiarono l' espugnazione. Laonde a me pare non inutile l' autenticare i raziocinŒ, che son venuto esponendo, quasi di continuo colle altrui autorità, e colle sentenze de' grandi filosofi precipuamente, interpretate con equità, collazionare e confermare le nostre; non già per surrogare nella filosofia l' autorità al ragionamento, ma perchè è una guarentigia della mente, un gran conforto dell' animo, di cui la stessa filosofia nell' arduo suo viaggio tanto abbisogna, l' udire quel quasi concento delle umane intelligenze. Come dunque la conciliazione e la concordia non può trovarsi che nell' unità, così ci parve assurdissimo il cercarla nella moltiplicità de' filosofici sistemi, voluta mantenere ad ogni costo dall' ecletismo colla fiducia di piacere in tal modo a tutti i loro seguaci; il che, siccome abbiamo già prima osservato, è un cercar la pacificazione della filosofia, dove non è punto la filosofia, cioè fuor della mente, lasciando frattanto in questa ardere, anzi attizzandovi, il dissidio delle opinioni e delle idee. E se nell' unità del sistema può solamente trovarsi la conciliazione degl' ingegni e la perfezione e la pace della filosofia: dunque nella verità, perchè la verità sola è una, e l' errore molteplice. Certo per coloro che, avvezzi alla scuola, all' animoso fervor della disputa, al grato spettacolo che dà l' attrito e la percossione delle menti giovanili ond' escono inaspettate scintille di luce, alla gioia della vittoria nelle superate tenzoni, non distendono i loro pensieri fuori delle mura dell' Università, può parere di poca importanza quella conciliazione e quell' unità, a cui, secondo noi, è uopo d' indirizzare seriamente i filosofici studi. Ma se traendo fuori l' animo e con esso l' attenzione della mente dallo steccato filosofico, si riguarderanno le conseguenze della proposta concordia, queste si ravviseranno così importanti all' umanità, che il voler tuttavia conservata, nella moltiplicità de' sistemi, la materia e il fomento alle questioni scolastiche, incomincierà ad apparire più ancora colpevole che puerile. E il timore stesso, che possano mai mancare a quelle questioni argomenti, è vano come vedemmo. Che la conciliazione sia desiderabile, il dimostrano, a troppa evidenza, i dissentimenti, onde noi, cogli occhi nostri, vediamo il mondo diviso, e turbato: scissure, odŒ, guerre, minaccie di guerre, partiti che, a guisa di tori, dirò con un antico, traggettano in v“to le corna. E perchè tanta divisione di animi, tante sette che s' insidiano a morte, tanto incendio di passioni, dove più fiorente è la coltura, più avanzata la scienza, in questa Europa, con iscandalo de' popoli ancora incolti? Forse, che dove più sono le idee, ivi ancora si debbano accendere più numerose le discordie? Ovvero avvien questo, non pel numero maggiore delle idee e delle opinioni, ma per la loro discrepanza? Certo il verace fondamento della concordia nella convivenza umana, come pur quello della discordia, nelle idee e nelle opinioni o concordi o discordi, si dee ricercare. Perocchè ell' è sempre un' idea, quella che presiede, guida e s' imprime, per così dire, in tutte le operazioni degli uomini. E non solo le singole operazioni hanno per base un' idea; ma fra le idee stesse, ve n' ha di sì generali che costituiscono il tipo e danno il carattere a quella lunga serie d' azioni onde s' intesse l' intera vita degl' individui, e medesimamente da una di quelle primarie idee, come da una secreta norma, prende un' unica sua forma tutta quella mole d' operazioni, dal complesso delle quali risulta in ogni tempo la condizione morale e civile e politica delle nazioni. Che anzi nel fondo stesso della storia, come fu già osservato, nel fondo di tutte le varie vicende per le quali procede, svolgendosi e trapassando su questo globo, l' umana specie, si rinvengono alcune idee, divenute altrettante leggi di quella complicatissima successione d' avvenimenti, in apparenza casuale, e la compartono regolarmente in determinati periodi, ciascun de' quali non è già governato dalla dominazione e dall' influsso d' un astro; ma sì bene dal dominio d' una idea prevalente a quel tempo nelle menti umane, la quale poscia dà luogo di mano in mano al dominio d' un' altra. Laonde se le idee e le opinioni sono discordi nelle umane menti, forz' è che gli affetti altresì dell' animo e le operazioni della vita esteriore riescano discordanti; e per lo contrario, se le umane menti si mettan d' accordo nelle idee e nelle opinioni, incontanente questo mentale consenso influisce nel vivere, e comparisce la benevolenza fra tutti, e quell' unione, in cui sta la pace e la forza sociale. E tu il sai troppo bene, povera Italia, che più lungamente e più atrocemente d' ogni altra regione esperimentasti i funesti effetti della discordia, e ne fosti la vittima! Perocchè io mi credo che il genio stesso del male, temendo forse più da te, che da ogni altra nazione, per ogni tuo angolo agitasse più che altrove la face della discordia, e ve l' accendesse, acciocchè discorde, tu fossi altresì divisa, e divisa, tu rimanessi debole, e debole, tu divenissi pusillanime ed infingarda, e prostesa nella tua infingardaggine, tu non sapessi più nè manco conoscere la vera cagione della discordia. Eccoti questa qual è: il non aver tu un' opinione ben ferma, e l' averne molte deboli e discrepanti. Nella tua mollezza, ne' tuoi studŒ superficiali, in recitando, vecchia fanciulla, le lezioni apprese alle scuole altrui, tu non ti potesti formare giammai una filosofia, una dottrina che fosse tua, e però nè pure avesti una nazionale opinione: sorgi, tendi all' unità intellettiva, che, se tu vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza. Or poi sieno qui rese grazie a que' generosi, che all' intento d' ordinare una filosofia che conduca a raggiungere quegli scopi, che ho indicati nella prima parte di questo discorso, e le utilità che conseguono alla conciliazione delle opinioni, mi porsero amicamente la mano. Molti n' ho trovati fra' miei concittadini, e sarebbe impossibile il nominarli tutti, benchè a tutti sia v“lta la mia riconoscenza. Non posso però passarmi in silenzio primieramente i professori dell' Università Torinese Giuseppe Andrea Sciolla, Pietro Corte, e Michele Tarditi, che i primi dettarono de' trattati, difesero, portarono in sulle cattedre, con rara concordia d' intendimento, quella dottrina stessa che noi proponevamo. Ed ahi che due di questi egregi, i quali l' amore d' uno stesso vero e la consuetudine delle stesse fatiche filosofiche, avea resi con noi quasi fratelli, ci furono così in breve rapiti dalla morte con non lieve danno della scienza e della patria; l' uno quello specchio di probità, quell' esempio d' amicizia, lo Sciolla, già inclinato a vecchiezza, ma l' altro, il Tarditi, nel pieno vigor dell' età, e nel fiore delle speranze! Ma essi, lasciando dopo di sè una bella accolta di valorosi discepoli, or sono là « « dove vegliano con perpetua vista nel sacro amore (1) » » e questo sia al dolor nostro lenimento e conforto. Gustavo di Cavour, a cui siamo avvinti con tutti que' legami d' antico affetto e di stima che s' intessono di cose eterne, fu forse il primo che, scrivendo in lingua francese, facesse conoscere la stessa dottrina alla Francia. Di poi Alessandro Pestalozza, professore di Filosofia nel Seminario Arcivescovile di Monza, ne pubblicò, il primo nella patria lingua, un intero e più copioso corso, e con più scritti validamente la difese contro alle obbiezioni mosse e svolte con eloquenza, da un celebre ingegno. Finalmente colui che avea rapito tutta l' Italia coi numeri d' una nuova lirica divina, che vi avea iniziati gli studŒ storici coll' esempio d' una diligenza non comune presso di noi, e con un acume di critica raro per tutto, che in una sagacissima pittura dello spirito umano, sotto forma di romanzo, avea date lezioni di severa e delicata morale, che con nuovi principŒ sulla lingua e sulla letteratura avea saputo additar la via da render quella più omogenea e più certa, questa più virile e più sincera, l' una e l' altra stromento più acconcio all' italiana concordia; questi, riposandosi quasi, dopo aver percorso sì varŒ e sì felici studi, nella filosofia, occupazione convenientissima alla sua età ed alla sua erudizione, fece pur ora dono all' Italia di un dialogo intitolato « « Dell' invenzione » », nel quale resta in dubbio se vinca la finezza dell' ingegno perspicacissimo, o l' urbanità dello stile, e non sai a quale delle due egregie doti, tu conceda più la tua maraviglia. Finalmente noi professiamo la nostra riconoscenza anche ai nostri leali avversari. Abbiamo narrato nelle due parti precedenti quello che abbiamo fatto, o che abbiamo avuto intenzione di fare. A compimento del discorso rimane ora da dire quello che non abbiamo fatto, e che non si può fare con letterarie fatiche e studŒ. Di questi studŒ, de' quali rendemmo conto ai nostri amici e a tutti quelli la cui benevolenza c' impose la dolce obbligazione della gratitudine, furono effetto gli opuscoli che abbiamo pubblicato e che or si raccolgono. Ma quello che si contiene ne' libri, ne' quali non si può trovare altro che scienza, non è nè il tutto, nè il meglio dell' uomo, o i libri trattino di quelle cose di cui, non essendo autor l' uomo, solamente da lui si contemplano, o di quelle le quali, essendo nella potestà dell' uomo, da lui non solo si contemplano, ma ancora si fanno. Chè la potestà che ha l' uomo di farle e le stesse azioni con cui egli le fa, come pure tutte l' altre realità da lui percepite, nè sono scienza, nè possono ne' libri racchiudersi: la stessa natura le esclude dalle scritture, e le colloca al di fuori della scienza, alla quale le scritture richiamano e dirigono, siccome altrettanti segni, il pensiero. Il che non è negato da persona, ma pochi tuttavia intendono quanto importi che questo si consideri. Perocchè v' ha qui una di quelle verità d' indole singolare, che sono nel tempo stesso e facilissime a concedersi, e difficilissime a comprendersi. E di ciò non è dispregevole prova il vedere che così sovente gli uomini, anche dotti, ripongono ogni importanza nella scienza e mostran di credere che con essa sola altri diventi sapientissimo uomo e perfetto, onde colla scienza che appartiene all' ordine delle idee, tornano a confondere la bontà della vita che appartiene all' ordine delle azioni e delle cose reali, la quale alla scienza è bensì confinante, ma al di là per gran tratto si stende. E a conferma di questo posson giovare le sentenze di quegl' ingegni che a perscrutare la natura delle cose morali più particolarmente si applicarono, le quali di rado sono consentanee a se medesime, ma per lo più, senza alcuna costanza, asseriscono l' una cosa e l' altra: ora dalla filosofia distinguersi la virtù, ora queste due cose farne una sola, ora finalmente distinguersi, ma andarsene sempre di conserva indivisibili. Vedasi una tale incoerenza nelle lettere di Seneca. In più luoghi questo moralista ripone la Filosofia nell' insegnamento della virtù, e, come più sopra noi abbiamo escluso dalla classe de' filosofi quelli che non professano la verità, così egli ricusa tal nome a coloro che non danno la dottrina della virtù: « Videndum, utrum doceant isti virtutem an non: si docent, philosophi sunt (1) ». Nella quale sentenza, non guari lontana dalla nostra, e che ugualmente mira a ristabilire la proprietà del parlare riserbando i vocaboli alle cose per le quali furono istituiti, si distingue la virtù, e l' insegnamento della virtù , e non in quella, ma in questo si ripone l' ufficio della filosofia. Ma in un' altra lettera, dimentico d' aver detto che la filosofia è una scienza (e la scienza giace nelle mere idee), un insegnamento (e l' insegnamento si compone di parole), benchè l' una e l' altro possa avere la virtù per oggetto, egli colloca la filosofia non più nelle idee, non più nelle parole che le significano, ma nelle cose, cui quelle rendono note all' uomo, e queste insegnano all' altr' uomo, e vi dice che: « Philosophia - non in verbis, sed in rebus est (2). » Così colui, che avea prima chiaramente distinta la scienza dall' azione , la prima delle quali non può uscir mai dall' ordine delle notizie senza perdere il suo carattere di scienza, la seconda entra nell' ordine delle cose reali; di poi, perduta di vista questa massima differenza, vuole che la scienza della filosofia nelle stesse cose si trovi, in quelle cose che ad essa non ispetta altro che insegnare o additare co' vocaboli all' altrui intendimento. Ma in un terzo luogo egli poi torna a riconoscere che quelle cose che qui confonde in una, sono due, e due a segno, che hanno fra loro una cotale opposizione, come il passivo e l' attivo; onde esponendo l' altrui sentenza, alla quale egli non nega l' assenso, le vuol distinte, ma però indivisibili. [...OMISSIS...] Nelle quali parole quantunque si distinguano la filosofia che è lo studio, e la virtù che n' è l' oggetto, tuttavia non si riconoscono per due forme categoricamente diverse, ma piuttosto per due gradi della cosa medesima, perocchè non pare che si possa intendere il concetto espresso nel testo allegato, se non così: che la Filosofia sia una virtù incipiente, la quale accresca e perfezioni se medesima coll' esercizio; ovvero che la filosofia sia una virtù speciale, la quale conduca l' uomo all' acquisto delle altre virtù, alla virtù universale; e nell' uno e nell' altro modo la filosofia ha perduto il carattere di pura scienza. Quello che professavano que' due sofisti di Chio, Eutidemo e Dionisiodoro, che Platone introduce a disputare nel dialogo che egli inscrisse col nome del primo di essi, cioè « di aver trovata l' arte di rendere gli uomini da malvagi buoni », e questo in un modo facile ed ottimo, unicamente con alcune loro argomentazioni, è quello nella sostanza che promisero agli uomini tutti i filosofi gentili prima di Cristo, e che promettono, se non così esplicitamente chè non potrebbero più esser creduti, pure implicitamente, anche molti de' moderni. I quali tutti non possono evitare l' uno di questi due errori, o che la bontà e la virtù morale consistano unicamente nella scienza, confondendo cose disparatissime, o che basti all' uomo di sapere il bene, perchè incontanente egli riceva col sapere anche la volontà e la forza d' operarlo in modo consentaneo a quel che la scienza gli addimostra. Delle quali due cose, l' una e l' altra è ugualmente smentita dall' esperienza, e da un' accurata osservazione dell' umana natura. Così è frequentissimo trovare negli scrittori confusa l' arte , che è un abito, il quale si riduce al genere dell' azione (1), colla scienza che spetta al genere di contemplazione ; e già notai altre volte la poca proprietà della parola pratico applicata a ciò che non è altro che notizia speculativa, come si dice filosofia pratica per dire la filosofia che specula sulle cose pratiche, cioè sulle azioni umane, e come si definisce la coscienza morale: un giudizio pratico , quando pure la coscienza non è che un giudizio speculativo sull' onestà, o inonestà delle proprie azioni particolari, ossia sulla pratica (2). Egli è facilissimo dunque rispondere a chi propone la questione netta ed immediata: « Se sia lo stesso la conoscenza d' una cosa reale o d' un' azione, o altrui, o anche propria, e quella cosa , quell' azione »nè v' ha alcuno (se lasciamo da parte alcuni filosofi che si perdono nella stessa speculazione) che tostamente non ne senta la differenza, e non risponda, esser quelle due cose, anzi non asserisca, distare infinitamente il conoscere dal fare. Ma perchè dunque una differenza così evidente, negata da nessuno, confessata da tutti, quand' è riguardata in faccia scappa poi dalla mente di molti allorquando essa entra nel discorso in un modo indiretto, e voi vi abbattete da per tutto, anche per mezzo alle più eccellenti scritture di uomini grandissimi, in quelle due cose ridotte ad una, o l' una confusa, o convertita nell' altra? Questa contraddizione in cui cadono senza avvedersi, deve avere la sua ragione, e merita d' essere ricercata: all' intento poi del nostro ragionamento, che è di porgere l' idea della sapienza, l' investigarla è necessario. Ed ella si trova in questo, che ci sono due sorti di notizie, nelle une si ferma il solo intelletto, nelle altre si spiega l' attività del soggetto, e in virtù dell' adesione di quest' attività soggettiva, esse stesse diventano operative, di maniera che si può dire ugualmente che esse operano per virtù della volontà, o che la volontà opera per virtù di esse. E nel vero tutti consentono che la volontà è il principio delle azioni umane. Ma cos' è la volontà? Esisterebbe questa potenza senza notizie? No: chè a' principŒ attivi i quali operano senza alcun lume di cognizione non s' addice il nome di volontà , che è un principio razionale onde la sentenza comune, che la volontà non si muove mai verso l' incognito. Una notizia dunque è necessaria ed essenziale alla costituzione della volontà, od è la forma oggettiva della volontà stessa. Poichè come l' attività del soggetto, astraendo da ogni notizia, non è più che, quasi direi, la materia costitutiva della volontà, così quando quell' attività è informata dalla notizia del bene, allora essa è divenuta volontà; non è più un semplice rudimento materiale della volontà, è la volontà a pieno formata; non è la volontà ancora in via ad essere, nel quale stato si vuol chiamare con una maniera antichissima della scuola italica non7ente , ma è la volontà pervenuta al compiuto suo essere. Questo è dunque l' ordine intrinseco, nel quale la volontà si natura: c' è prima la notizia oggettiva nell' intelletto, poi l' attività soggettiva a quella si congiunge, assentendo: l' attività soggettiva così congiunta all' oggetto è divenuta un principio attivo, che si chiama volontà: questo congiunto, questa potenza di volere è il principio delle umane operazioni: ed ha un grado di forza proporzionato al grado della sua adesione all' oggetto intellettivo: laonde si può dire che la notizia dell' intelletto diventi operativa per l' adesione ad essa del soggetto e quindi che ella operi per la volontà di cui è divenuta la parte formale, e si può dire altresì, che la volontà operi per la notizia che è la sua forma. Ci sono dunque, per ricapitolare, due generi di notizie, le une speculative, le altre pratiche ossia operative; quelle costituiscono la scienza , queste costituiscono il principio reale delle azioni umane. E qui si avverta bene (perocchè l' equivoco e la confusione che vogliamo spiegare sta qui), si avverta, che la scienza può speculare su tutto, anche sul principio delle azioni, la volontà, sulle notizie pratiche, come fin anco sopra se stessa; ma lo speculare sopra una cosa non è già un convertir la cosa in ispeculazione, un' assorbirla con essa speculazione: chè tanto è lungi che la speculazione cangi ed assimili le cose reali, e le azioni a se stessa, che anzi ella è quella che ci fa conoscere queste cose e queste azioni avere e mantenere una natura diversa ed opposta a quella della scienza, a cui diventano oggetto. Laonde le notizie pratiche di cui parlavamo non sono scienza, nè si possono scrivere ne' libri, perchè cesserebbero dall' esser pratiche , e quando si pretende di scriverle (ecco l' illusione), quando si crede di averle scritte, allora altro non s' è fatto, altro non s' è scritto, che la dottrina che versa intorno a quelle notizie pratiche , non le stesse notizie, in quanto sono pratiche, cioè in quanto sono le radici delle reali operazioni, non potendo stare immobili dentro un libro le operazioni dell' uomo che passano, benchè dentro ad esso possa stare un trattato scientifico sulle medesime; chè le idee non passano, ancorchè le cose di cui sono idee, passino. Ma onde poi quest' allucinazione, per la quale si confondono insieme due ordini così distinti quali sono l' ordine delle cose ideali , e l' ordine delle cose reali ? due ordini che gli uomini hanno un bisogno frequentissimo di distinguere, e che in fatti frequentissimamente distinguono nel comune linguaggio? La prima ragione che si presenta alla mente è quella de' vocaboli. Chè gli stessi vocaboli si usano veramente così a significare le idee delle cose come le cose, così a significare le cose possibili, come le cose reali. Quando si dice a ragion d' esempio: « l' uomo è un essere ragionevole », la parola uomo non significa alcun uomo reale, ma l' uomo nella sua essenza e possibilità. Quando poi si dice: « l' uomo che tu vedi chiamasi Pietro », la stessa parola uomo è usata a significare non più la sola idea dell' uomo, ma con essa l' uomo reale. Ora vocaboli che s' applicano a significare più entità differenti, fanno sì che alcune volte le entità stesse, confuse nel discorso, si confondano nella mente, e si parli dell' una come se fosse l' altra. La qual ragione tuttavia non è l' ultima: chè ci resta a cercare: perchè poi gli uomini impongano gli stessi vocaboli alle idee ed alle cose, agli esseri meramente ideali, ed agli esseri reali corrispondenti a quelli. E la dottrina intorno all' umana conoscenza, ci discopre questa ragione ulteriore. E` indubitato, che l' uomo non può applicare un segno vocale, un nome, se non a quello che egli conosce. Ora l' uomo non potrebbe conoscere ciò che cade nel suo sentimento, se non riferisse il sensibile all' idea , rendendolo così intelligibile . All' incontro l' idea non ha bisogno per essere intesa della presenza della realità sensibile; di che questa è una prova evidente, che l' idea rimane nella mente senza la realità, per modo che l' idea è intelligibile per se sola, quando il sensibile non è intelligibile se non per mezzo dell' idea, e colla continua presenza dell' idea. L' idea dunque è l' ente in quanto è conoscibile per se stesso ed è la conoscibilità delle altre cose o entità che non sono idee, cioè degli enti in quanto sono reali e sensibili. Come dunque c' è un ordine logico fra le notizie, di manierachè le prime a conoscersi sono le idee, le seconde poi sono quelle cose che si conoscono per mezzo delle idee, così conviene, che anche l' invenzione de' vocaboli proceda con lo stesso ordine, di manierachè anche ne' vocaboli si distinguano due classi, e la prima sia quella de' vocaboli, che significano idee, la seconda sia quella de' vocaboli che conducono la mente alla realità delle cose. Ora alla prima di queste due classi appartengono i nomi comuni (e comuni sono quasi tutti), alla seconda poi appartengono i nomi proprŒ , e tutte quelle particelle, sieno pronomi, o avverbi, od altro, che si adoperano a trasferire la mente dall' idea comune ed universale, al proprio ed al reale. Così quando io voglio far servire il nome comune di uomo a significare non più la sola idea, ma un uomo particolare e reale, io non posso adoperare quel nome tutto solo, nel qual caso altro non additerebbe alla mente altrui che l' uomo universale, cioè l' idea, e però ho bisogno d' aggiugnergli qualche altro vocabolo, che lo determini a significare l' uomo particolare, per esempio il nome proprio Pietro , o « che tu vedi »o delle particelle che ne indichino la presenza ai sensi, come « che è qui », od altri modi che richiamino alla memoria o all' attenzione l' uomo che fu presente ai sensi nostri altre volte, o ai sensi altrui, o un uomo insomma particolare in qualsivoglia modo determinato. Colle quali aggiunte si restringe il significato di quel nome comune, e si dà a intendere a coloro, co' quali si parla, che quell' idea fa conoscere, in quel caso e per quella volta, una data realità sensibile , e non altro: e così la si prende come fosse la conoscibilità di questa sola, sebbene per sè significhi una conoscibilità universale. Laonde i nomi comuni (a cui si riducono pure gl' infinitivi de' verbi, i participŒ, e gli addiettivi d' ogni maniera), non son essi che significhino il reale, ma l' aggiunte che ad essi si fanno nel favellare; ma essi sono necessarŒ, perchè son necessarie le idee a far conoscere il reale, che separato dalle idee è oscuro, ed essenzialmente ignoto. Or se l' ideale, e il reale sono differentissimi, come in quello e per quello si può conoscer questo? (1) La risposta si trova nell' intima osservazione della cognizione, e del modo di conoscere. La quale osservazione ci attesta, che il fatto è così; e tanto dee bastare a qualunque uomo ragionevole: chè non è mai ragionevole il negare un fatto ben accertato. Ma la stessa osservazione, ove sia penetrante, non solo ci attesta il fatto, ma anche ce lo spiega, perchè è uno di que' fatti, che nel suo seno contiene la sua propria ragione. Noi dunque entrando coll' attenzion della mente negl' intimi penetrali di quel fatto, troviamo che quantunque l' ideale e il reale sieno differentissimi, tuttavia hanno un elemento identico, e questo è l' ente: lo stesso ente identico trovasi nell' uno, e nell' altro, ma a diverse condizioni, e sotto una forma diversa: una forma sotto cui si trova l' ente è l' idealità, o la conoscibilità, o l' oggettività (espressioni che vengono tutte a dire, sostanzialmente, il medesimo), un' altra forma sotto cui si trova il medesimo ente è la realità, la sensibilità, l' attività, che anche queste sono espressioni, che dicono in sostanza il medesimo. Così una massima differenza sta nella forma, un' identità sta nel suo contenuto, che è l' ente stesso: questo in quanto è puramente conoscibile, in tanto è ideale, in quanto è sensibile in tanto è reale: il sensibile reso conoscibile, cioè l' accoppiamento di quelle due forme, è ciò che ci dà la percezione intellettiva, e la cognizione del reale. Dopo di ciò non possiamo più maravigliarci, che i filosofi confondano talora quelle due forme; perchè questo accade loro ogni qualvolta, non accorgendosi che il loro ragionamento si volge intorno alle forme , e riputando in quella vece di parlare dell' ente , accade loro di prendere quelle due forme per una sola, o di prender l' una per l' altra, appunto perchè l' ente, di cui credono ragionare, è uno solo sotto le due forme. All' incontro quando s' accorgono apertamente, che il loro ragionamento s' aggira circa le forme, e che non è dell' ente, come quando si propongono direttamente la questione che batte sulle forme, « se l' idea, e la cosa sia il medesimo », allora non avviene mai che le confondano. Rimane nondimeno a dare un passo più oltre, cioè a investigare perchè accada sovente, che quando il ragionamento tratta delle forme, i filosofi, non avvedendosene, lo dirigano a dir quello che dovrebber dire se si trattasse dell' ente: perchè questa difficoltà a distinguere quando l' oggetto di cui si parla è l' ente, e quando l' oggetto di cui si parla sono le forme? Si osservi, che l' uomo comune, alieno dalle scientifiche astrazioni, non fa riposare mai la sua attenzione intellettiva nè sul solo reale scompagnato dall' idea, che senza questa non si può conoscere; nè sulla mera idea, che sa bensì usare a conoscere il reale, ma d' essa sola non sa che farne: di manierachè ciò, in cui si ferma l' attenzione naturale dell' uomo, è sempre il reale unito all' ideale, colla quale unione si forma il termine della percezione. Ma quando l' uomo si solleva alle astrazioni scientifiche, allora s' accorge di questa duplicità che è negli enti da lui percepiti, onde distingue (in qualunque maniera chiami questi due elementi) la materia e la forma della cognizione. E allora l' idea acquista una nuova relazione colla mente umana, non è più solo oggetto dell' intuito, e mezzo di conoscere le realità, ma è divenuta ancora oggetto della riflessione , e quindi mano mano della scienza. Ma il reale scompagnato dall' idea, privo della sua luce, rimane del tutto incognito, e il rimanere incognito equivale a un dire, che, rispetto alla mente, è caduto nel nulla. La mente però che prima lo conosceva, non vuol perderlo; e per non perderlo, ella, senza pure avvedersene, lo riveste di nuovo dell' idea: quell' idea che gli ha tolto consapevolmente, quella stessa gliela restituisce inconsapevolmente. E quindi ella cade in una prima allucinazione, e poi traendo seco quest' allucinazione (quasi una penna con un peluzzo nel taglio che scrivendo imbratta tutte le eleganti lettere che va formando) fonda la filosofia sopra due elementi, cioè sull' idea staccata dal reale, e sul reale unito di nuovo all' idea; prendendo così l' idea due volte, invece di prenderla una volta sola. Con un' altra riflessione spontanea su questo prodotto erroneo della riflession precedente, il filosofante incappa necessariamente in un altro errore; chè egli oggimai trova da per tutto l' idea da cui è inseguito, o accompagnato nella stessa fuga, la trova anche in quell' elemento che egli crede aver sceverato da ogni idea, perchè questa, alla sua insaputa come dicevamo, c' è ritornata, anzi c' è l' ha rimessa egli stesso per un istinto intellettivo, non per alcuna riflessione, e quindi senza coscienza. Trovando dunque l' idea anche là dove pensa che ci sia sola la realità, è natural conseguenza, che confonda l' idea con essa realtà: e questo io stimo essere il vero principio, e il processo dell' errore d' un illustre italiano, che di quest' errore fece un sistema sull' esempio de' Tedeschi. Ma i filosofi tedeschi caduti in quest' errore, in cui ci cadono tanti altri, il raccolsero con quella gioia, con cui si trova un tesoro, e colla loro diligenza, colla maraviglia loro famigliare, vi edificarono sopra un gigantesco, o piuttosto grottesco sistema; all' incontro gli altri, che pure confondono la scienza coll' azione reale, il fanno senza badarci, e senza darvi alcuna importanza. Non è men vero per questo, che anch' essi vengano in tal maniera a riporre tutta l' umana natura che è reale, nella scienza, e a ridurre l' uomo allo scienziato: e quindi oggimai non può fare maraviglia se facilmente si persuadano, che quando un uomo ha la scienza, abbia ancora con essa la virtù, e che essi soli diano questa agli uomini nelle loro scuole, perchè in esse comunicano loro le proprie teorie. L' impossibilità dunque in cui è l' uomo di pensare direttamente, e più ancora d' immaginare il reale scompagnato affatto dall' idea, conduce lo scienziato, che non istà sommamente guardingo, per questa serie d' allucinazioni, onde perviene a ridurre ogni cosa alla scienza (nulla più vedendo fuori di questa) o almeno a pigliare la scienza per la stessa virtù morale, che all' opposto nel reale dell' operazione consiste; tanto più che l' operazione, per esser virtuosa, è necessario che si riferisca e conformi all' idea, ossia a quella Filosofia, che Seneca, quando non confonde le due cose, definisce (ancor troppo parzialmente) « lex vitae (1) ». Al di là dunque della scienza vi ha un mondo reale, che sfugge non di rado agli occhi degli scienziati e de' filosofi; e in questo mondo vive in gran parte l' uomo, il quale non vive di sola scienza. Se si cerca quello che è perfetto nell' uomo, e che acconciamente può esser denominato sapienza , non convien fermarsi al primo elemento cioè alla scienza, o più generalmente alla cognizione , ma a questa è necessario unire il secondo, che è l' azione reale , in cui la bontà morale consiste. In certi lucidi intervalli della mente sentirono questa verità assai bene gli stessi filosofi gentili, e parlarono della sapienza come di qualche cosa di completo, di qualche cosa, che dovea comprendere tutta la perfezione dell' uomo , la quale nella mente s' inizia, ma si continua poi a ordinare gli affetti, e a rendere onestissime e piene d' armonia tutte, anche le menome sue azioni. Onde qui opportunamente scrivea il filosofo morale che abbiamo citato: « Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut et ipse ubique par sibi idemque sit (2). » E non preterisce a questo luogo la distinzione fra la filosofia come scienza, che può annunziarsi colle parole, o consegnarsi alle scritture, da quella sapienza la quale non concede che per intero o si dica, o si scriva, e che s' ottiene allorquando la scienza trapassa nell' attività umana, e ne riforma le passioni, gli affetti, le operazioni. [...OMISSIS...] Dove si scorge distinta la filosofia dall' uso della filosofia, da quell' uso , dico, pel quale l' uomo non già co' ragionamenti e colle lettere, ma co' fatti e colle operazioni, che son fuori di tutta la scienza e di tutti i libri, realizza quello che la filosofia insegna nelle parole e ne' libri, e converte le massime di lei in sentimenti, che è quasi un farle penetrare dentro i precordŒ, sede dagli antichi assegnata alle passioni. E in una maniera somigliante viene descritta la sapienza da Platone in quel dialogo che nominò dal giovanetto Teeteto, dove cercasi la definizione della scienza, senza mai rinvenirla, o almeno senza che la si profferisca espressamente, al che forse era un ostacolo, che rendea quella disputa anche lunga ed intrigata, il non distinguersi bastevolmente dal concetto della scienza , quello dell' arte e della vita . Ma la sapienza si ripone senza esitare « « nella perfetta congiunzione della giustizia e della santità colla prudenza »(2). » Chè Socrate dopo aver detto essere impossibile che tutti i mali s' estirpino nelle cose umane e soggiunto « « che tuttavia quelli non possono avere alcun luogo presso gli Dei », » continua così: [...OMISSIS...] Laonde, secondo il senno più compiuto e più purgato degli antichi, la sapienza ha due parti, le quali però in essa si trovano individuamente congiunte, la prima che nella mente, e questa se si separa, e col mezzo della riflessione ordinatamente si dispone, acquista il nome di scienza , che s' insegna, e si scrive; l' altra poi è tale, che nè s' insegna dalle cattedre, nè si può scrivere ne' libri, ed ha la sua propria ed unica sede nell' animo e nella volontà, e in tutte le affezioni, e le operazioni; e tuttavia ella è quasi la stessa scienza, discesa dalla mente, trasfusa nella realità del sentimento, penetrata nella vita, dove con pieno e beneficentissimo imperio governa. E veramente si può mai scrivere l' azione? l' azione umana dico in qualunque de' suoi tre o quattro gradi che sono la cognizione pratica, il sentimento, il decreto, l' operazione esteriore? Ponete mente, che non è mai abbastanza avvertita la distinzione: quando voi avete scritta la parola azione , avete scritto altro che un' idea? Non altro: e l' idea di un' azione sarà ella l' azione nella sua realità? Se voi invece di scrivere azione solamente scrivete di più: « quest' azione reale » ovvero « questa cognizione pratica, questo sentimento che proviamo, questo decreto della mia volontà, onde venne il movimento alle mie mani che or maneggian la spada », allora voi avete scritto delle azioni reali, ma cosa vuol dire scrivere delle azioni reali? Forse prendere le azioni medesime, e incarteggiarle, inserirle nello scritto? Nulla affatto, nulla di questo; vuol dire solamente tracciare in sulla carta de' segni che richiamano tali azioni all' intendimento. Quando poi l' intendimento riceve questi segni, che operazione fa egli per trasportare la sua attenzione da essi alle azioni significate? Forse un' operazione di tal natura che con essa intruda in sè, nel suo pensiero, come in un astuccio, le operazioni stesse reali, per forma che la cognizione che n' acquista diventi essa stessa quelle operazioni? Certo no: che, se fosse, come potrebbe pensare, il che pur pensa, che quelle azioni erano prima che fossero da lui conosciute, e saranno dopo che egli avrà cessato di pensarvi, e che hanno una causa, che egli fors' anco ignora, o conosce esser diversa dal suo pensiero, nè mai gli accade di credere fino che è sano di mente, che il solo pensarle sia un produrle? Dunque nè lo scritto, nè il pensiero delle azioni sono le azioni scritte e pensate, si pensino esse nel loro essere ideale per via di semplice intuizione, o nel loro esser reale per via di apprensione, e di affermazione: fuori della cognizione teoretica, della scienza, rimane sempre qualche cosa, rimane l' azione reale; fuori delle idee, rimane tutto il soggetto. Ma pur questa è una legge dell' anima, che quando agisce esclusivamente con uno de' suoi principŒ operativi, allora ella è questo stesso principio, nel quale ha trasfusa tutta la sua attualità, o certo non le pare di esser altro, perchè gli altri suoi principŒ non sono in quell' istante attuati. Ora lo scienziato, o diremo meglio il pensatore, vive di pensiero, e però egli è attualmente il pensiero, e quindi facilmente cade nell' illusione di riputarsi solo pensiero. Ma le cose che attualmente non cadono nel pensiero, come abbiamo detto di sopra, sono nulla al pensiero, perciò il pensiero immediato le dichiara nulla . Ecco qua di nuovo l' origine del nichilismo hegeliano, la quale in fondo è la medesima di quella che abbiamo indicata più sopra, ma qui vestita d' altre parole. Il nulla onde Hegel fa uscire tutte le cose dell' universo, e nel quale le fa poscia rientrare, non è altro, preso alla sua origine, se non quello che non è divenuto ancora oggetto del pensiero, e che però è nulla al pensiero dell' uomo, e ritorna nel suo primitivo nulla, quando il pensiero cessa dall' atto consapevole. Il qual fenomeno che nasce al pensatore ingannò quel filosofo (ed è lo stesso inganno che subirono gli antichi dell' India) che pose per principio delle cose il nulla (chè gli enti sono prima non pensati, e però nulla al pensiero, e poi pensati, e però relativamente al pensiero esistenti). Quello adunque che era un' apparenza relativa al pensiero immediato e percettivo o anche al pensiero consapevole, e che dipendeva da una legge soggettiva del medesimo pensiero, il filosofo di Stuttgarda, chiuso così in quella sfera del suo pensiero, lo diede per cosa assoluta. Per fermo l' anima che trova la scienza non è, e non può essere, in quell' atto, che solo pensiero, essendo soltanto in questo attuata, e quand' anco ella fosse attuata in altro, quest' altro atto che ella avesse in quell' ora, non sarebbe quello che le produrrebbe la scienza, e però la scienza non lo rappresenterebbe. Ora poi se s' aggiunga, che il primo fondamento su cui s' eresse la filosofia tedesca fu un pregiudizio introdottosi universalmente dopo Locke, cioè che « le cognizioni sieno un mero prodotto dell' intendimento », e però del soggetto umano, ell' è ovvia la spiegazione del sistema hegeliano, e, nel suo traviamento, mostra la forte dialettica dell' inventore, chè tutto si deriva per diritto da queste due proposizioni, entrambi erronee: 1 Il pensatore come tale non riconosce per esistente quello che non è ancor oggetto del suo pensiero, e però lo dichiara NULLA; 2 le cognizioni sono mere produzioni dell' intendimento, e però anche gli oggetti del pensiero sono da questo prodotti e quindi creati, chè il pensiero dal NULLA li fa passare all' ESSERE. E dissi che anche la prima di queste due proposizioni è un errore (l' errore contenuto nella seconda fu da noi lungamente esposto nell' Ideologia), perchè ella non è una proposizione che proceda dal pensiero preso nella sua totalità, ma da un atto particolare di esso, dall' atto della percezione , a cui i tedeschi diedero un' estensione maggiore che non abbia (1): giacchè il ragionamento che sussegue alla percezione, e che certamente è pensiero anch' esso anzi pensiero più innoltrato, conduce l' uomo ad ammettere l' esistenza attuale anche di enti che non cadono nel pensiero percettivo, o nel pensiero consapevole, purchè abbiano relazione con cose che cadano in quel pensiero. Per altro questa illusione non è un fatto isolato: è dello stesso genere di quella che accade agli uomini dati sfrenatamente ai piaceri de' sensi, i quali si mostrano sempre inclinati a credere che quel genere di piaceri sia tutto, e che l' anima umana sia unicamente sensitiva, com' è quella delle bestie, appunto perchè l' anima loro è tanto attuata nella sensazione, e quasi in essa assorbita, che non si conosce più se non come anima senziente, o non ha d' altro coscienza. Pure l' illusione della filosofia Prussiana ha un carattere che la distingue dall' illusione dell' uomo sensuale, e la rende più superba, e quel carattere deriva da questo, che la filosofia è effettivamente opera del solo pensiero, non del senso, e però al filosofo, ridotto quasi ad essere un pensiero puro, accade facilissimamente di non conoscere e di non ammettere che il pensiero, e di prendere i fatti del pensiero per fatti ontologici, come è già avvenuto alle scuole Indiane e alla stessa scuola d' Elea; laddove se il sensualista prende a filosofare, egli è necessitato a salire al pensiero, e, non potendolo disconoscere, si contenta d' attribuirlo al senso dove trova pure il sostegno d' una realità. Ridotto poi l' uomo da' nominati filosofi al solo pensiero, e le idee ridotte pure a non esser altro che produzioni, e modi del pensiero, e confuse necessariamente colle cose (che fuori del pensiero nulla più si riconosce), l' uomo dovea acquistare nelle mani di tali filosofi un cotale stato d' oggettività, e d' impassibilità, che lo divideva necessariamente dagli umani sentimenti, e dai doveri morali. Perocchè io lascio qui da parte le altre gravissime conseguenze, che discendono da' principŒ della scuola hegeliana, quali sono il panteismo, con tutte le dottrine inauditamente mostruose dell' empietà germanica, e voglio solamente osservare, come l' uomo divinizzato in quella filosofia si trovi ad un tempo dissecato ed inaridito riguardo a tutti i più nobili umani affetti, i quali non sono nobili se non sono dai doveri morali nobilitati. Chè allorquando l' uomo si ferma ai sentimenti e ai doveri, sieno religiosi, o di padre e figlio, o di sposo e sposa, o altri quali si vogliano, egli non è ancora divenuto Dio secondo tali maestri, perchè egli non è ancor consumato nell' oggettività del suo pensiero, e per usare una frase famigliare a tali sofisti la « sua coscienza è ancora involta nel travaglio della sua propria creazione. »Quando poi ella emerge da questa sua « immediatità creativa, »del tutto sviluppata, a guisa della farfalla dal bozzolo, allora, divenuta pensiero oggettivo, ella contempla tutte l' altre cose che appartengono agli uomini, cioè i sentimenti e i doveri, dall' alto del suo trono dell' astrazione, siccome cose a sè inferiori, che non più a sè appartengono, ma le stanno davanti a modo d' uno spettacolo artistico, nel quale lo spettatore non ha a fare alcuna parte attiva. L' IO allora è libero, dicono, perchè la morale stessa è sotto di lui: egli la contempla con una perfetta indipendenza e separazione, siccome un pittore che fattosi ricco, e divenuto per la virtù dell' oro più che pittore, sdegna oggimai il dipingere, e si contenta di riguardare con signorile alterezza i quadri dagli altri pittori dipinti. Questa mostruosa dottrina dovea riflettere sulla politica, sulla famiglia, sulla letteratura germanica, e per non parlare che di quest' ultima il Goethe ne fu il rappresentante più ammirato. Il carattere della letteratura del Goethe è appunto l' oggettività nel senso della filosofia germanica: non l' oggettività che l' uomo riconosce per qualche cosa di superiore a sè, a cui si sommette con umile riverenza, ma l' oggettività che l' uomo espugna ed invade, mettendo in essa se stesso e di là regna (cioè s' immagina di regnare), senza aver bisogno di riconoscere più nulla sopra di sè, ma tutto sotto di sè: in una parola è la scalata data al cielo. Tutti gli affetti, tutti i doveri stanno sotto i piedi di quest' uomo [...OMISSIS...] Il Faust è il carattere d' un uomo che non può sofferire di sentirsi chiuso dentro i confini dell' umanità, vuol romperli, tenta ogni cosa per uscirne: si profonda nella scienza della natura, in vano: fa ricorso alla magia, in vano: s' immerge in tutta la voluttà de' sensi di cui l' uomo è capace, si sdegna col Creatore che l' ha rinserrato in que' cancelli dell' essere umano, si vende al demonio, tutt' in vano; infine dopo avere tanto sperato inutilmente di trovare il TUTTO nel NULLA di Mifistofele (2), raggiunto dalla morte, in presenza di questa esclama: « « O natura ch' io non sia null' altro che un uomo davanti a te! porterebbe in tal caso la pena d' essere un uomo! » » E` un' imitazione del Prometeo d' Eschilo, se non che la figura del Semideo è d' un disegno grandioso e puro: il Faust è un piccolo titano del secolo XVIII, un vero professore delle università tedesche, senza un solido sapere, d' immensa ma sregolata immaginazione, credulo, voluttuoso, ambizioso, visionario, pazzo: e per fermo che sotto a questo aspetto il Faust di Goethe è la più acre derisione di quella filosofia ond' egli attinge la vita. Tale è il capo d' opera del poeta prodotto dal panteismo germanico. Non sarà inutile soggiungere il giudizio dell' Herder sopra il Goethe; eccolo: [...OMISSIS...] Non ci parve inutile distenderci alquanto dimostrando le conseguenze d' un errore, nel quale, ove la questione si ponga direttamente, l' uomo non cade mai, ed anzi pare allora impossibile che uomo alcuno ci cada; vogliam dire l' errore che confonde l' idea colla realità, e assorbe tutte le cose nella scienza e nel pensiero che la produce. Dall' aver obliato questa distinzione, che forse a molti può sembrare una sottigliezza metafisica senza utilità alcuna, vennero tutte le conseguenze di cui abbiam parlato: quell' oblivione fu la fucina a cui fabbricaronsi l' armi, di cui alcuni professori tedeschi, quasi gelosi della gloria de' giganti che gemono sotto l' acque, s' armarono. L' uomo della vita comune, a cui non manca mai una logica naturale, bastevole dentro la sfera onde non escono le sue azioni, non va soggetto a sì strana allucinazione; chè il termine de' suoi pensieri, su cui posa la riflessione, è sempre il congiunto dell' idea e del reale, che cade nelle sue percezioni: egli non divide i due elementi; non si ferma a considerar l' idea in separato dalla cosa, molto meno la cosa in separato dall' idea. Distingue bensì questa da quella, ma non la separa: vede l' una in faccia all' altra. Laonde non trova nella cosa reale alcun mistero che lo sorprenda; quando la cosa conserva i suoi rapporti coll' idea, ella trovasi illuminata da questa, è conoscibile; laddove se la cosa si separa dall' idea per un' astrazione costante, come fa il filosofo, subitamente ella gli diviene in mano un enimma: un non so che, che d' una parte non può negare perchè gli rimane nella mente la memoria della notizia che n' ebbe quando la considerò congiunta all' idea, e che dall' altra non può ammettere, perchè non sa più affatto che sia, astratta a quel modo, o come sia, priva dell' idea, ed anzi ne vede l' impossibilità: antinomia singolare e trascendente, per isnodare la quale il pensatore s' ingolfa in quelle ipotesi che sono altrettante mostruose aberrazioni. Conviene dunque che lo scienziato così aberrante ritorni uomo, e non può ritornarvi se non per lo stesso cammino della scienza pel quale s' è traviato; chè la scienza, o ciò che si usa di chiamar scienza, è quella maga che ha virtù di convertire gli uomini in bestie, e in vari generi di mostri, ed anche in demoni, e di farli poi ritornare uomini, ma d' una statura maggiore di quella di prima. E queste due contrarie operazioni quell' antica incantatrice le compie l' una per mezzo de' sofisti, e l' altra per mezzo de' filosofi che loro succedono, come abbiam veduto di sopra; chè i sofisti rompono audacemente le sfere del cielo della mente, quasi fossero di cristallo, entrando in ordini superiori di riflessioni, e colassù tiranneggiano per un po' di tempo la scienza; ma i filosofi che ivi sopravvengono, gli spossessano poi del campo con violenza usurpato. Così la filosofia tedesca s' innalzò per vero ad una riflessione più elevata di quella a cui trovavasi la filosofia del tempo quando considerò il reale diviso intieramente dall' idea, e s' accorse che in questa separazione, egli si rimaneva un incognito, e di più diventava un impossibile. Allora ella conchiuse frettolosamente, secondo il costume della sofistica, e coll' entusiasmo proprio delle vane creazioni, che il reale, e quindi il soggettivo, si dovea ad ogni patto ricacciare dentro ne' visceri dell' idea cioè dell' oggettivo, e ne comparve immantinente la teoria dell' identità assoluta , e la logica hegeliana che si divora la metafisica, come Saturno i suoi figliuoli. Indi le rovine della filosofia e di tutto ciò che è vero e santo. Ma come i diversi ordini della riflessione non determinano nè la verità nè l' errore, ma sono indifferenti all' una e all' altra; onde in ciascuno tanto l' errore, quanto la verità trova un amplissimo spazio in cui collocarsi, e tanto più ampio, quanto l' ordine è più elevato; così rimaneva che, entrando i veri filosofi, per la porta aperta, nella medesima sfera, vi combattessero l' errore arrivato il primo, conquistando quella nuova zona celeste alla verità. E la filosofia fa questo, ragionando così: Vero, che il reale diviso totalmente dall' idea è un incognito, e, se volete, in tale stato, anche un impossibile: ma da questa premessa non deriva la conseguenza che dunque egli appartenga all' idea, che questa se l' abbia in sè, di sè lo emetta e in sè di nuovo lo assorba: cose tutte che si possono anche direttamente mostrare contrarie al fatto, ed assurde; ma deriva soltanto quest' altra conseguenza, che il reale non è mai senza l' idea, dalla quale per un' astrazione arbitraria della mente si divide, è coll' idea, non nell' idea come un suo momento, sicchè reale e idea sono indivisibili, ma non identici: il primo non può stare senza la seconda, ma non si confonde mai colla seconda e d' altra parte l' idea può stare, fino a un certo segno, senza il reale. Altro è dunque il dire che il reale abbia una relazione essenziale coll' idea, un sintesismo ontologico; altro è il dire, che da que' due elementi si deva, si possa rimovere la dualità, concentrandoli in uno solo. Come abbiamo già detto innanzi, il reale è indivisibile dall' idea e insieme distintissimo; perchè quell' essere che è nell' uno, è identicamente nell' altra, ma non sotto la stessa forma, nè alle stesse condizioni: tale essendo l' immutabile natura ed eterna dell' essere, che, nella sua perfettissima unità, in due forme distintissime ed affatto inconfusibili si ritrovi. Di qui la dualità dello stesso sapiente, tanto diverso dallo scienziato. Chè il sapiente nasce dalla piena conformazione dell' uomo reale colle idee, e per mezzo delle idee con tutto l' ordine delle cose reali: conformazione che niuno gli può dare se egli non la dà a se medesimo colla propria attività, cioè colla libera potenza di volere, la quale sola rende pratico, cioè operativo, lo stesso pensiero. E tutta quest' azione della volontà, benchè sia comunicata al pensiero, è però distinta dal pensiero teoretico che si ferma nelle idee e nelle notizie; è un' azione unita al pensiero, ma non confusa con lui, un' azione del soggetto sopra il soggetto, a cui il pensiero diventa mezzo e stromento, dalla quale, il diremo di nuovo, il soggetto reale - persona umana - rimane modificato e nobilitato, partecipando della divina eccellenza delle stesse idee, senza poter giammai trasformarsi in esse. Quando l' umanità era ancora, quasi direi, nella sua culla, e non s' era molto inoltrata nella scoperta delle regioni astratte, regioni vastissime e piene di pericoli, come pe' viaggiatori sono gl' immensi deserti, a lei si affacciava quest' imagine della sapienza in tutta la sua nativa semplicità e verità, ed ella tendeva a raggiungerla. Questa tendenza, questi sforzi, in cui s' esperimentava sempre più la difficoltà dello scopo, più lontana apparendo la sapienza, più che progredendosi verso di lei se ne scopriva meglio la divina natura, (come l' areonauta quanto più s' innalza nell' atmosfera, tanto più intende quanto lontane stieno le stelle, o come incontra a colui che ascende un' altissima montagna, che la vetta, che gli parea da principio toccare, gli si dilunga e gli par più inaccessa): questa tendenza, dico, e questi sforzi furono chiamati convenevolmente filosofia , significando appunto la parola « amore e studio di sapienza ». Ma non è ancor quì la filosofia come scienza , nel quale significato, a cui fu più tardi ristretto il vocabolo, noi la prendiamo: quell' antica filosofia è più ed è diversa dalla scienza. E` più della scienza, perchè questa non ha e non può avere a scopo se non d' illuminare l' intendimento, grandissimo aiuto alla buona volontà, a cui spetta di compir l' opera rendendo, l' uomo sapiente; ma aiuto prestato alla volontà senza violentarla o necessitarla lasciandola libera, rinforzando anzi la sua libertà, sia di dirigere e modificare l' umano soggetto e tutte le sue potenze a quel modo che la scienza dimostra, sia nel modo contrario, qualora riponga, con un falso giudizio, la sua grandezza e la sua felicità in altra cosa, e fors' anco in una lotta d' orgoglio contro la vera scienza e la verità in quella racchiusa, e cerchi una gloria più grande, anche non isperando vittoria, quant' è più grande ed augusto il nemico col quale combatte, da cui si lascia uccidere, senza arrendersi. La filosofia dunque, noi dicevamo, nel senso, « d' una tendenza pratica alla sapienza »è più della filosofia come scienza, che al cospetto di quella rimane umiliata. E questa giusta umiliazione, rivelata al mondo dal Vangelo che dell' umiltà fece la più alta e la più ragionevole delle virtù, è causa d' un' irritazione, che talora giunge al furore, nell' uomo dedito alla sola scienza che si crede divenuto puro pensiero, e come tale vuol esser tutto. Le sue potenze inferiori vanno disordinate: egli le lascia andare quasi non appartenessero a lui, ed arrivano a trascinar seco, lui medesimo: disordinano il suo stesso pensiero traviandolo dalla verità, ma egli non cura, chè non pone l' eccellenza nel modo , ma nella forza del pensiero. E allora appunto, il suo proprio pensiero gli par forte, perchè lotta colla verità, e la violenza della lotta mette in gioco anche le poche forze delle costituzioni deboli. Pure il pensiero che in quel furore sembra a sè stesso così potente, in verità è reso schiavo della volontà pervertita: questa gl' impone di giustificare il proprio disordine, dandogli una base scientifica: egli cancella le leggi della morale, ne inventa dell' altre: pronuncia che qui consiste la libertà: finalmente si presenta come l' uomo7oggetto, nuovo Dio Pan, che assorbe in sè la morale, il mondo: e l' antropolatria è il nuovo culto, che comparisce sopra la terra. Or la filosofia nel senso « d' una tendenza pratica alla sapienza » non solo è più, ma è anche cosa diversa dalla scienza: il che, se noi prendiamo a cercar come sia, ne rimarrà non mediocremente illustrato il primo de' due elementi, di cui abbiam detto comporsi la sapienza. Osserva Seneca, che la Filosofia, a differenza della Matematica, della Fisica, e somiglianti, che mutuano i loro principŒ da altre scienze superiori, « « non prende nulla altronde, ma innanlza tutto l' edificio dal suolo »(1). » Della qual sentenza si trova la ragione nella definizione che noi abbiam dato, dicendo la Filosofia essere la scienza delle ragioni ultime, ultime cioè a rinvenirsi dall' uomo, ma prime rispetto all' albero dello scibile, che da esse incomincia e germina come da radici, onde anche furono dette madri da qualche antico. Laonde la Filosofia sola è quella, fra le scienze, che, in un senso a sè appropriato, può dire, « Sed summa sequar fastigia rerum (2). » Ma la Filosofia nel nostro senso, è una scienza, e benchè sia la prima fra le scienze, sicchè non prenda nulla de' suoi principŒ dall' altre, quando l' altre tutte prendono i loro da lei; tuttavia, appunto perchè è scienza, non può esser prima di tempo in tutto l' ordine intellettuale, chè ogni scienza è opera della riflessione, e la riflessione non è il primo modo, che abbia l' uomo di conoscere, ma egli n' ha e n' adopera degli altri prima di cominciare a filosofare. Noi abbiam detto in qualche luogo, che la filosofia non potrebbe esistere se non a condizione di prendere altronde non de' principŒ, ma de' postulati: e questi postulati dati alla filosofia dalla natura umana come condizione del suo nascimento, sono due, la notizia naturale e immediata dell' essere, e il sentimento (1); l' ideale e il reale primitivo , che diventano in appresso oggetti della riflessione, la quale con tali materiali, e non mai col nulla, edifica l' edificio della dottrina filosofica. L' atto che dà la notizia dell' essere si chiama da noi intuizione , e questo è il primo modo di conoscere anteriore di molto alla riflessione filosofica, la facoltà dell' intuizione è l' intelletto in senso proprio. Il sentimento, come tale, non appartiene all' ordine intellettivo (benchè ci sieno de' sentimenti intellettuali, razionali, e morali che l' accompagnano o prossimamente lo seguono), ma egli presta materia all' intelligenza. Il primo sentimento è quello che costituisce il soggetto uomo, perchè l' uomo (intuente l' essere e percipiente il proprio corpo con quell' immanente percezione che il rende ad un tempo animale e razionale (2)), è un sentimento sostanziale e individuale, che riceve modificazioni accidentali, e in varŒ modi attivo. La percezione primitiva , nella quale sta l' unione dell' anima col corpo, è un modo di conoscere contemporaneo alla prima intuizione , e solo logicamente posteriore; ed è quell' atto primo, che costituisce la facoltà della ragione. L' intuizione e la percezione primitiva appartengono alla cognizione diretta , a cui si riducono molti altri atti di conoscere, come, a ragion d' esempio, tutte le percezioni accidentali che susseguono (3); e la cognizion diretta non è la riflessione, e di molto precede la riflessione filosofica. La riflessione che sopravviene è un secondo modo di conoscere; e molte riflessioni precedono quella d' un ordine alquanto elevato, che genera la Filosofia. Il complesso di queste riflessioni, o, a più vero dire, una parte di queste riflessioni costituiscono quella che abbiamo chiamata cognizione popolare (1). Tutti questi modi di cognizione precedono la cognizione filosofica. E per determinare con maggior accuratezza quel punto nella serie delle varie riflessioni, che divide la cognizione umana in due gran parti, o stadŒ, quella che precede la filosofia, e quella colla quale l' uomo ha incominciato a filosofare; basterà che noi ricorriamo alla preaccennata definizione della filosofia come scienza. Se la filosofia tratta delle ragioni ultime, egli è evidente, ch' essa incomincia precisamente a formarsi con quella riflessione, colla quale l' uomo o implicitamente o esplicitamente, rivolge a se medesimo la domanda: « Quali sono le ragioni ultime di tutto lo scibile? »Con questa domanda, non prima, incomincia dunque il lavoro filosofico dello spirito umano. Vero è che con essa non c' è ancora la filosofia, non c' è la scienza delle ragioni ultime; ma c' è la questione, a cui tien dietro la ricerca, e questo è quanto dire la strada che conduce all' invenzione della filosofia, e però si può dire che l' uomo da quell' istante filosofeggi. Ora di certo non è a credere, che prima che sia venuto quest' istante, nel quale il bisogno d' una filosofia si fa sentire all' uomo, lo spirito umano si trovi interamente vuoto di cognizioni: anzi n' ha molte, che non solo dispongono le sue facoltà, esercitandole; ma offrono alla riflessione copiosi materiali pel nuovo edifizio filosofico ch' ella a suo tempo porrà mano a costruire. E in questa costruzione della scienza, che fa la riflessione? A dir vero, non altro se non vestire la verità precedentemente conosciuta di nuove forme, le quali prestano questo nobilissimo vantaggio, che l' uomo per esse la vede da più lati, e da lati più lucenti, e può usarne in nuove utilissime maniere. Poichè conviene distinguere con diligenza la verità, e le forme di lei che la rendono più accessibile, più visibile, e più maneggevole all' uomo: convien distinguere le idee dalle forme che prendono nell' umana mente e poi nell' umano linguaggio s' esprimono. Le idee e le notizie tutte variamente spezzate coll' analisi, raggiunte colla sintesi, ordinate colle loro intrinseche relazioni, diventano acconce a innumerevoli ragionamenti, si lasciano aggruppare e distribuire in formole secondo i bisogni della mente, e danno a questa quelle nette conclusioni, colle quali, avendole a mano, ella opera speditamente, e lo spirito se ne sente confortato, arricchito, di nuova potenza accresciuto. Fino che voi avete dell' oro in verghe, poco uso far ne potete: mandatelo alla zecca che ve lo restituisce coniato in monete, e ammodato in tal forma voi lo cangiate assai facilmente in tutto quello che vi piace. La zecca è la mente filosofica. Questa svolge le idee e ne trae ciò che hanno ne' visceri: sembrano altrettante nuove verità, quantunque alla fin fine, per dirlo ancora, non v' ha dato che nuove forme; chè le idee, su cui avete esercitato il vostro pensiero, c' erano innanzi, e contenevano quello che voi ci avete cavato, c' era implicito e voi l' avete reso esplicito. Così un principio si pronuncia in una breve proposizione: e pure se voi ne deducete le conseguenze, una scienza intera v' è nata in mano: infinito vantaggio: ma dovete confessare che non avete creato nulla, chè tutta quella scienza già si conteneva nel principio, d' onde voi non l' avreste potuta cavare se non ci fosse stata. Un gran numero di notizie che la mente vedeva ad una ad una, il pensiero filosofico le considera tutt' insieme, ne ferma le relazioni, e con queste le integra, e secondo queste le dispone in un ammirabile sistema: bellissimo lavoro; ma le notizie c' erano, avevano le loro relazioni, forse erano complesse ed intere, e fu bisogno d' astrazione e d' analisi, come le pietre hanno bisogno d' essere rotte dal martello, e riquadrate, acciocchè s' aggiustino al luogo dell' edificio, ove devono essere collocate, ma in fine, checchè faccia il pensiero filosofico, lavora sempre su quello che gli è dato innanzi, nol può creare, cioè non può trovar nulla che sia per intero nuovo, poichè la funzione stessa dell' integrazione non fa che passare dal termine dato d' una relazione essenziale all' altro termine trascendente in virtù d' una legge nota (1). La differenza dunque tra l' uomo comune e colui che filosofa, non istà in questo, che al primo manchino le cognizioni, e n' abbia il secondo; ma in questo, che il primo dà l' attenzione della sua mente ora a questa ed or a quella cognizione delle tante che il tesoro dell' anima sua racchiude, non per vero dire a caso, ma secondo il bisogno che gliene viene di farne uso, siccome un padre di famiglia che trae dall' armadio que' soli vasi di cui abbisogna al momento; il secondo, che filosofeggia, prende per assunto di riguardare tutto il complesso delle medesime cognizioni, non perchè egli abbia bisogno d' usar di tutte in una volta, ma per diletto di contemplare quel ricco tesoro, ed altresì per conoscerne meglio il valore e ben ordinarle, alla guisa d' un vigilante ed operoso amministratore, che ripassa e inventaria tutti i vasi preziosi, le ricche masserizie, e gli arnesi della casa, e li classifica, ed altri ne dispone in altrettanti armadŒ, non solo ripulendoli dalla polvere, ma inserendoli ancora in astucci e in guaine eleganti, altri poi d' argento e d' oro, come troppo antiquati e pressochè inutili, li fa rifondere, e cavarne altri collo stesso metallo di miglior gusto, più conformi agli usi ed alla moda del tempo. Ma il valsente con tutto ciò rimane il medesimo, benchè un grandissimo vantaggio riceva la famiglia da queste diligenze. Ora posciachè il primo elemento della sapienza è LA VERITA`, sotto qualunque forma ella sia; perciò noi dicemmo, che la sapienza, e conseguentemente la filosofia definita all' antica siccome uno studio pratico della sapienza, contiene un primo elemento, l' elemento conoscitivo diverso dalla scienza. E la differenza sta qui, che l' elemento della sapienza è la verità, prescindendo dalle forme, e però sotto tutte le forme, sieno queste quelle di cui ella si riveste prima che l' uomo si risolva a filosofare, o sieno le forme filosofiche; laddove la filosofia come scienza riguarda un genere speciale di forme, di cui il pensiero riflesso veste la verità. Di che si trae questa conseguenza, che la Sapienza può ugualmente precedere, ed anche succedere alla Filosofia: e che quantunque questa giovi non poco a quella, rendendo la verità accessibile all' uomo da più punti e da punti più cospicui, tuttavia non è a quella del tutto indispensabile e necessaria. Non vorrei, che l' aver detto questo, m' attirasse l' indegnazione de' filosofi (che per quanto è a' sofisti, mi ci conviene ad ogni modo rassegnare). Ma quella io spero o d' evitarla, o di poterla comechessia calmare. Perocchè niuno dee conoscere qual sia il nobile e vero amore degli uomini meglio de' filosofi; ai quali perciò conviene che riesca lieta una dottrina, che dimostra, esser tutti gli uomini capaci della sapienza, non esser questo bene riserbato ad una sola classe, eziandio che fosse quella de' filosofi. Perocchè se tutti gli uomini hanno ricevuto la stessa verità, sebbene implicita fin da principio della loro esistenza nel lume della ragione, e se tutti quelli che vissero ad una certa età, hanno più o meno svolta la verità ricevuta in germe, secondo lo stimolo de' bisogni e le occasioni; e se oltracciò portano l' animo ben disposto verso a quella verità che conoscono, riconoscendone liberamente l' autorità suprema e l' immutabil bellezza; onde la loro volontà unita e quasi conglutinata alla verità coll' affetto, a questa, come a norma guida l' altre facoltà; tutti cotesti uomini, i quali hanno saputo mettere in sè stessi tant' ordine e fra le proprie potenze tanta concordia, ed ancora con ciò stesso saputo rendere il mortale e finito consonante all' infinito ed all' eterno, cioè alla verità, di cui riscuotono l' approvazione, tutti costoro dico, si meritano il nome di sapienti. Essendo dunque la verità il primo elemento e la base della sapienza, è da conchiudere che come la verità è variamente sviluppata negli uomini, e sebbene una e sempre uguale in se stessa, è oltre ogni misura feconda e moltiplice nelle sue attuazioni, onde molte sono le forme, più o meno magnifiche, più o meno ornate e quasi a mano trapunte, nelle quali agl' intendimenti diversi ella si dona; così pure sieno molte, e propriamente altrettante, e di consimile ricchezza ed eleganza di lavoro, le forme della sapienza . Di che, principiando da un qualche savio sconosciuto agli uomini, e che deva esser chiamato abnormis sapiens crassaque minerva , fino a un Agostino o ad un Tommaso d' Aquino, o ad altro qualsivoglia dottissimo tra' sapienti, noi avremo innanzi una lunghissima serie non solo d' uomini illustri, ma ben anco d' ignoti a' loro simili, anco dispregiati, benchè non dispregevoli, a cui il nome di sapiente si conviene giustissimamente accordare. E questa conclusione è tale, che non solo può confortare l' animo di colui, che allo spettacolo delle umane ignoranze, e alla somma arduità della scienza , accessibile a pochi, (confondendola egli per errore colla sapienza , o credendola l' unica via per la quale a questa s' arrivi), diffida soverchiamente dell' umana natura, e diffidandone, quasi di troppo inetta al bene, la disama; ma devono e desiderar che sia vera, e goderne, quando per vera la riconoscono, tutti quelli, filosofi o no, che dell' onore, della dignità, e della felicità dell' umana specie si curano. Poichè una tale notizia è la buona novella data ai piccoli: e coincide con quella, che nell' ordine perfetto e soprannaturale, la stessa Sapienza di Dio diede di sua bocca alla umana stirpe, dicendo: « « Colui che viene a me, non lo caccerò fuori »(1) ». Il che non riesce di alcun disdoro alla filosofia; chè comunque questa si prenda, ha sempre la verità a suo proprio oggetto e scopo, e però è affine alla sapienza. Se si prende come scienza, ella insegna le più elevate verità, ed abbiam detto non esser filosofo colui che in vece della verità, insegni l' errore; se come studio di sapienza, ella non solo cerca la verità, ma la rende operativa. Laonde Platone, descrivendo il filosofo, in modo che all' uno e all' altro senso di questa parola risponda: « « Trovasi forse qualche cosa, dice, che sia più famigliare alla sapienza della verità? - Nessuna - E` dunque possibile che la medesima natura sia filosofica (amatrice di sapienza) ad un tempo, e mendace? - In niuna maniera - Dunque colui che è cupido d' apparare, forz' è che tosto dalla puerizia sia soprammodo affezionato ad ogni verità »(2). » Tale deve essere la disposizione del filosofo, anche se si prende questa parola solamente per indicare quello che alla scienza è applicato. Dove si disvela la relazione, e l' intimo nesso che passa fra que' due elementi che abbiamo trovati esser parti integrali, ed anzi essenziali, della sapienza, cioè la verità , e la vita alla verità conforme , nel che consiste la virtù. Il primo de' quali è sempre posseduto dal sapiente, sotto qualsivoglia forma; ed è l' oggetto della filosofia non sotto qualsivoglia forma, ma sotto una forma scientifica, universale, complessiva, splendida all' umana consapevolezza. Ora il filosofo perverrà egli al possesso, e alla sublime cognizione della verità, se non l' ami? o se l' ama solo splendiente, ma la teme redarguente (3)? Il che è quanto dimandare: Se la volontà dell' uomo è alla verità contraria, se lotta con essa, se la rifiuta per maestra della vita, se ne riceve continui rimproveri, potrà poi l' intendimento ne' suoi assensi e dissensi, guidato dalla volontà a cui il vero non piace, riconoscere e confessare pienamente, e prontamente il vero stesso, dovunque gli si presenti, qualunque egli sia, con una perfetta imparzialità e giustizia? quando è appunto perchè alla sua volontà manca la giustizia, che il vero gli si rende molesto, ed odioso, e ripugnante all' assenso? « « Ogniqualvolta, diceva un celebre sofista del secolo scorso, la ragione sarà contraria all' uomo, l' uomo sarà contrario alla ragione » (1) » Ma quand' è che la ragione sarà contraria all' uomo? sempre, quando l' uomo colla sua libera volontà, avrà reso se stesso contrario alla ragione; di certo, questa non è mai la prima ad esser contraria all' uomo. Leibnizio diceva, che le stesse verità matematiche, diverrebbero argomento di grandi disputazioni fra i dotti, qualora comandassero agli uomini de' sacrificŒ e ne regolassero i costumi. La virtù dunque o la disposizione alla virtù conduce alla verità non meno gli uomini tutti, che quelli che vogliono filosofare: tanto è intimo il nesso fra i due elementi costitutivi della Sapienza. E nello stesso tempo nasce di quì l' onore e la dignità della filosofia, rendendosi manifesto, che questa scienza, a differenza di tutte l' altre, benchè nè sia da sè sola la sapienza, nè tampoco sia una forma speciale della sapienza; tuttavia è involta nella felicissima necessità di non poter essere a pieno professata, se non da un sapiente. Laonde Socrate appresso Platone in commendazione di questa disciplina domanda a Glaucone: « « Puoi tu dunque, in qualunque modo, condannare questo studio » (della Filosofia), «che niuno può compire con sufficienza, se di natura non sia perspicace, memore, magnifico, grazioso, amico e famigliare della verità, della giustizia e della temperanza? »(2). » E con ragione questa sentenza è temperata da quella parola « con sufficienza ». Poichè anco di quelli, i quali non hanno la volontà, in cui sta tutto l' uomo come persona, nè di conseguente la vita conformata al vero, possono pronunciare una parte della verità, e con questa apparire filosofi, ma tutta la verità non mai. Altramente non avrebbe potuto aver luogo quella comune, e così giustificata querela mossa a' filosofi del paganesimo, ed ad altri che li prendono ad imitare, cioè che « magna loquuntur, sed modica faciunt (1) ». Se non che era cosa avventurosa e degna di qualche lode anche questa, ch' essi non facessero tutto quello che dicevano ed insegnavano, poichè, come osserva uno di loro stessi, molte cose assai strane, erronee, e riprovevoli uscirono di loro bocca, delle quali, dopo rammentate alcune, quello scrittore continua: « « E moltissime altre cose simili a queste dicono i filosofi, le quali essi non oserebbero mai di farle, se non si trovassero nella repubblica dei Ciclopi e de' Lestrigoni »(2). » Non fanno dunque, ma nè pur dicono, nè possono dire il vero nella sua integrità, nella quale solamente egli costituisce quell' elemento della sapienza , e quell' oggetto della filosofica scienza , che noi dicevamo. E a' nostri lettori, che si rammentano dove noi abbiamo collocata questa integrità, non potrà mai sembrare, che noi con un favellare troppo vago ed indeterminato facciamo contumelia a molti che, a loro possa, s' applicano lodevolmente agli studŒ della filosofia. Essi sanno troppo bene quanto sia lungi da noi l' intenzione di pretendere, che il filosofo, per meritar questo nome, deva conoscere tutte le singole verità: il che se fosse, non solo alcuni cultori di questa scienza rimarrebbero esclusi dal novero de' filosofi, ma non si potrebbe trovarne un solo sopra la terra: chè ogni uomo, di qualunque ingegno, qualunque età abbia speso nel meditare, ignora di molte cose, e per fermo molte più di quelle, ch' egli ne sappia. Non è dunque l' integrità materiale della verità, quella di cui parliamo, ma un' integrità formale, di cui noi dicevamo più sopra la filosofia essere il sistema, come anche Aristotele l' avea definita « « la scienza della verità »(3). » Conviene aver presente quel modo, in cui piacque all' autore dell' umana natura, che questa fosse partecipe della luce della verità. Perocchè, l' abbiamo veduto, volendo Iddio che questa natura fosse intelligente, egli ordinò che fin dal primo suo esistere, le si rendesse visibile la verità, non una parte, ma tutta, come quella che è una e semplicissima, e per conseguente, non capace di divisione. Il perchè non può esser veduta col primo intuito una sola parte di lei recisa dall' intero suo corpo, che anzi questa parte non c' è; benchè quando la mente vede il tutto, allora essa nel tutto stesso, possa poi limitare la sua riflessione e quasi concentrarla in una parte, ch' ella stessa si circoscrive. Ma questa verità, che è l' essere per sè intelligibile , e che, senza che le manchi cos' alcuna (giacchè se mancasse qualche cosa all' essere, non sarebbe più l' essere), sta di continuo presente allo spirito, contiene sì in se stessa tutte le cose vere, ma in un modo implicito e virtuale; e però queste a principio non si vedono in lei le une dalle altre nè separate nè distinte, e nell' atto loro proprio, ma tali vi si scoprono, quando lo stesso spirito umano, aiutato da' sentimenti corporali, coll' uso di diverse attività conoscitive, attua quello che vede in potenza, e quello che già possiede implicito, se lo rende esplicito, quello che è indistinto, distinto; quello poi che sommerso e nascosto nella virtù dell' essere come in un mare senza limiti, lo fa venire a galla, e quasi, direbbe Socrate, esercitando l' arte pescatoria, lo prende e lo ripone nella dispensa della sua memoria. Che se l' uomo non avesse alcun bisogno di far tutto ciò, e le notizie particolari gli fossero date belle e formate dalla natura, non ci sarebbe più cagione della sua propria razionale attività, e rimarrebbe un essere maraviglioso per le preziose cose che conterrebbe, come gl' Iddii d' oro inseriti nel petto de' Sileni, ma privo di quell' onorevolissima azione, per la quale egli si fa quasi maestro a se medesimo. L' essere dunque oggetto dell' intuizione conceduto all' umana natura è la verità nella sua integrità formale. E questa integrità è quella che si dee trasportare dall' attività stessa dell' uomo a cui Iddio l' ha consegnata, nell' opera scientifica della Filosofia: il che si fa, come abbiamo detto, coll' uso di una riflessione elevata. Laonde il primo oggetto, e però il principio della filosofia, non può esser altro che quello che è il primo lume nella natura, e che è il primo principio di tutte le indefinite cognizioni, di cui può arricchirsi l' umanità, le quali tutte, da quello, siccome da un cotal fuoco eterno e sacro, custodito nel tempio della natura, s' accendono. Imperocchè se quello è il primo lume, conviene che in quel solo si trovino le prime ed ultime ragioni delle cose di cui va in cerca, o, trovate, professa d' insegnare la Filosofia. E però è indubitato che intorno a questa scienza, da tempi remotissimi sino a noi, si sono fatte molte, ingegnosissime, e sublimi ricerche, ma, a veramente parlare, non si può dire ch' ella sia stata trovata od abbia esistito, se non allora che si rinvenne quel principio, intorno a cui si facevano quelle investigazioni, il qual solo è la base, su cui regolarmente e a modo di vera scienza, si edifica. Che se quell' essere intelligibile , che è come il sigillo della natura umana, onde questa è intelligente, e che quando poi dalla riflessione è colto e trasportato nel campo della scienza, diviene la prima pietra dell' edificio, contiene la verità nella sua integrità formale, quantunque in modo ancora implicito; questa integrità non si perde più co' lavori che si vanno facendo dalla mente di chi filosofeggia sopra di quel fondamento, se ne innalzino poco o molto al di sopra del suolo le muraglie; e, ancorchè non si arrivi colla fabbrica fino al tetto, si può dire oggimai con verità, che la filosofia è fondata, sebbene non condotta al suo colmo. Ma in questa edificazione è in primo luogo necessario, che l' architetto ponga mente alla perfetta commettitura delle pietre, sicchè non resti fra loro vacuo o fessura, ma ciascuna, squadrata e spianata a giusta misura, si continui all' altra: con che vogliam dire, che le verità speciali che si vogliono ordinare e costruire a forma di scienza, procedano, senza alcun salto, quasi una continuazione della stessa idea che l' uomo per natura intuisce, il primo ordine di esse a questa s' appoggi, i successivi l' uno sull' altro, per modo che in su quel solo e primo fondamento si regga e solidi tutta quanta la fabbrica. Dipoi, non tutte le qualità di pietre sono acconcie a tanto edificio; ma solo quelle che, traendosi dalla prima idea, come da' visceri di ricchissima miniera, ritengono della stessa natura e condizione di pietra durissima, non fragile od arenosa. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione, e non vedo di poterne rinvenire altra migliore di quella che ne dà Platone sulla fine del quinto dialogo della Repubblica, là dove Socrate vuole che Gluacone avverta, che non si direbbe con verità che taluno amasse una cosa, se non l' amasse tutta, ma una parte n' amasse, e un' altra parte della cosa medesima odiasse. Di che egli deduce, che quando si dice, che il filosofo è l' amatore della sapienza, allora si asserisce ch' egli è avido d' ogni sapienza, non d' una specie o d' una parte: con che il filosofo ateniese tocca incidentemente quell' integrità formale della verità di cui noi parlavamo, siccome d' una condizione necessaria dell' oggetto della filosofica scienza. Onde in appresso soggiunge, i veri filosofi, cioè gli amatori della sapienza, doversi chiamar quelli, che sono cupidi di vedere la verità; coloro all' incontro che vogliono veder altre cose, non senza il suo solito attico sale, egli dice, che non filosofi, ma si devono chiamare simili a' filosofi , perchè almeno assomigliano a questi nella voglia di vedere. Ma tosto appresso quando cerca che cosa sia quella verità in cui arde di affissare lo sguardo il vero filosofo, allora parla in modo che noi intendiamo quanto vogliano esser salde e durissime quelle pietre, di cui dicemmo, potersi con esse sole costruire l' edificio della scienza filosofica. Perocchè quella verità, di cui parla il grand' uomo, è l' essere : onde risulta che la filosofia dee riputarsi non altro che la scienza dell' essere . Ma Platone qui distingue tre cose, cioè quello che è, quello che non è, e quello che ora e in parte è, ed ora ed in parte non è. Quello che è, è l' essere; quello che non è, è il nulla; e quello che ora e in parte è, ora e in parte non è, e, qualche cosa di mezzo fra l' essere e il nulla, di maniera che non si può dire di lui, semplicemente ed assolutamente, nè che è, nè che non è; ma conviene aggiungere all' assertiva qualche distinzione, o condizione, o limitazione. Ora l' essere è l' oggetto della scienza e della cognizione: col nulla, con quello che in tutt' i sensi è nulla, non prestando alcun oggetto alla mente, rimane l' ignoranza: ma quello che in parte è, e in parte non è, si presta ad una maniera di sapere che cammina medio tra la scienza e l' ignoranza, e non può dirsi nè assolutamente scienza «(episteme)», nè assolutamente ignoranza, onde Platone lo chiama opinione ( «doxa»). la filosofia dunque contempla quello che semplicemente ed assolutamente è, l' essere senza più, e le relazioni di questo col non essere, o con tutto ciò che è solo in parte; e così ella si distingue dall' ignoranza, e dall' opinione. Ora quello che semplicemente è, non accade mai che non sia, e perciò è eterno: è sempre nello stesso modo, e perciò è immutabile: è per essenza, cioè in questo sta la sua essenza, nell' essere, e perciò è necessario: dunque è solidissimo, costantissimo, insuperabile, ugualissimo a se medesimo: tale è la saldezza e la durezza di quelle pietre, di cui, lasciate da banda tutte l' altre meno consistenti, noi dicevamo doversi murare il filosofico palagio. Platone per fare intendere la differenza fra la cognizione di queste cose eterne, e l' opinione che s' aggira intorno le cose contingenti e mutabili, fa uso di un esempio: distingue le cose belle dal bello veduto nella sua idea. Quelle sono molte e varie, e possono divenire, od essere state, brutte, ma il bello stesso, quale l' idea lo fa conoscere alla mente, è perfettamente uno, e non può mai essere stato, o in futuro divenir brutto, perchè è appunto questa la sua essenza, d' essere il bello, e nessuna essenza si può pensare diversa da quello che è, e che appare immutabilmente all' intelligenza. Le cose che possono ora esser belle, e ora esser brutte, non sono assolutamente e semplicemente il bello, ma ora e in parte sono tali, ora e in parte tali non sono: partecipano del bello; e per questa partecipazione Platone le chiama similitudini del bello. Ora, dice, colui che prende le similitudini delle cose, per le cose stesse , fa come chi sogna, che prende le cose sognate per altrettante cose reali. E la massima parte degli uomini sognano a questo modo; poichè si fermano col pensiero alle cose che sono per partecipazione, e si persuadono che al di là di esse nulla ci stia, o non ci pensano: pochissimi giungono a cogliere colla riflessione quell' immutabili essenze, in cui la cosa è veramente in un modo semplice ed assoluto, e questi soli vegliano. Questa facoltà dunque di veder le cose nella veglia della mente, come veramente sono, appartiene a' filosofi. Quello poi che Platone dice della bellezza, vuole che si dica egualmente della giustizia e dell' altre essenze (1); le quali in ultimo sono i soli materiali accomodati a costruire la fabbrica della Filosofia. E veramente noi dicevamo che la Filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Ora le ultime ragioni di tutte le cose contingenti e mutabili, le quali sono e non sono, si trovano appunto in quelle loro essenze che nelle idee appariscono, necessarie ed immutabili, che non già sono e non sono, ma semplicemente sono. Tali pietre ci abbisognano, e per trovarle conviene che l' uomo, dice Platone, si stacchi dalle cose corporee e corruttibili, e si rivolga tutto alle eterne e divine, onde chiama questa scienza, «periagogen,» cioè rivolgimento (1), e una specie di morte, solutio atque avulsio animi a corpore, cum ad intelligibilia et ad ea quae vere sunt, convertimur (2): così intimo è il nesso della virtù, che abbiam detto essere il secondo elemento della sapienza, colla scienza filosofica, che nessuno è acconcio a questa, se non è reso generoso e sublime da quella. Ma trovate le pietre, conviene unirle, non a caso, ma secondo il disegno del tempio, che si medita edificare. E come quelle pietre sono eterne e assai più dure del diamante, così eterno ed unico è pure il disegno. Ma questo è sufficientemente indicato alla mente umana dalle stesse pietre, chè ciascuna di esse, tosto che sia estratta dalla miniera, staccata e rinettata da tutto ciò che le aderisce, ma non le appartiene, chi attentamente l' osserva, trova essere numerizzata, e sopra di sè porta scritto il luogo della fabbrica, in cui vuol essere inserita, di maniera che il muratore non ha a far altro, che locarla con ogni fedeltà e con somma esattezza in quello stesso ordine e in quello stesso luogo, che dice la scritta, e con questo il disegno nell' eseguir l' opera si manifesta da sè, e risulta perfettissimo, senza averlo pur veduto su qualche carta delineato. Ora noi stimiamo, che Platone (giacchè non sappiamo facilmente staccarci da un così grand' uomo, poichè l' abbiamo nominato), il quale seppe indicarci le vere pietre colle quali costruire la Filosofia, non abbia poi nè veduto tutto l' edificio, nè conosciutone l' intero disegno; ma certo a lui torna di somma ed immortale onoranza, l' aver conosciuto quale ne dovesse essere il fastigio e, quasi dicevo, il comignolo, benchè ne tocchi con un modesto timore (che parmi il più certo argomento della grandezza di quella mente) di non parlarne in modo degno, quindi anco con una soverchia brevità. Il qual fastigio egli l' addita nell' idea del bene. La quale idea è chiamata da lui disciplina massima , e vuole, che i custodi della città ne sieno, più che di qualunque altra scienza, imbevuti. Perocchè, « come non ci gioverebbe, dice, il possedere qualunque cosa senza il bene, così, se ci è ignota quell' idea, e, senza di essa, pur conosciamo ottimamente l' altre cose, di nessuna utilità ci possono essere tutte queste cognizioni. »Soggiunge poi, che « l' anima intera desidera il bene, e per esso fa tutto quello che fa, augurandosi che il bene sia pur qualche cosa; e tuttavia ella dubita, e non può sufficientemente comprendere che cosa sia, nè sa trovarne una persuasione ferma, qual è quella che usa circa il resto: e quindi anche nell' altre cose s' inganna, quando si continua a giudicare che cosa sia utile. »Dalle quali parole, aguzzata negli uditori la voglia di conoscere una così magnifica e misteriosa verità, che cosa sia il bene, Glaucone ne pressa Socrate di caldissime istanze, che ne voglia ragionare; ma Socrate: « temo, dice, che mi manchin le forze, e che io mi paia più inetto, e muova gli uditori a riso, osando sopra il potere »; onde, scusandosi dall' entrare per allora nella questione dell' essenza del bene, promette di dire in quella vece, quale ne sia il figliuolo a lui somigliantissimo, ma prega gli uditori, anche così restringendo il discorso, di stare bene avvertiti, non forse in un argomento di sì gran rilievo egli inscientemente gli inganni, recando loro di quel figliuolo un vano concetto. E questo, che Socrate chiama il figliuolo del bene è il lume della ragione umana come prole a lui somigliante. Qual mai pensatore in tutta l' antichità gentile vide tant' alto, pronunciò una sentenza più stupenda di questa? Perocchè, egli dice, come nell' ordine delle cose corporee, oltre la forza visiva, e oltre le stesse cose visibili, per aversi la visione, è necessario che ci sia il lume , il quale informi la virtù dell' occhio traendola all' atto, e nelle cose produca i colori, senza i quali non sarebber visibili, così del pari accade nell' ordine delle cose intelligibili. E come il lume del visibile mondo emana dal sole, così quel lume che informa l' intelligenza e rende le cose intelligibili, è immediato figlio del bene essenziale , che Platone chiama spesso l' idea del bene, perchè nell' idea è l' essenza (1). Ora questo lume è la causa della scienza, dice, e della verità, che l' intelletto apprende, e dall' eccellenza di queste cose vuole che la mente ascenda ancora più su, a conoscere cioè l' eccellenza e la prestanza di lunga mano maggiore di quel Sole, da cui, aggiunge egli, non solo è figliato il lume, ma sono altresì causate tutte le cose mutabili, alle quali, causandole, dà il generarsi, l' accrescersi, il nutrirsi, quando pure quel Sole non è niuna di queste cose. Il che noi dichiariamo così, secondo la mente di quel gran filosofo: le cose reali mutabili e contingenti (che Platone chiama con parola tecnica della sua filosofia generabili , ossia soggette alla generazione) non si conoscono da noi, nè sono conoscibili, se non nelle loro essenze, le quali sono eterne e per sè intelligibili, e si chiamano idee, quando sono comunicate alla mente: ora queste essenze si riducono tutte ad un primo lume, che dicesi il lume della ragione, e non è altro che l' essere manifesto alla mente fino dalla prima costituzione di essa: ossia, che è il medesimo, l' essenza dell' essere intuìta da noi senza confine, nè determinazione alcuna, è l' idea prima che produce l' altre, come il lume corporeo, i colori; perchè l' altre idee ed essenze in esse vedute, non sono che la stessa idea dell' essere variamente determinata e limitata, siccome appunto i colori sono la luce, non tutta unita, ma rifratta, separata in fascicoli luminosi, in una parola, anch' essa limitata. Ora il vero, il permanente essere delle cose, quell' essere che è sempre e in uno stesso modo, nè tentenna fra l' essere e il non essere, ma semplicemente è, trovasi nelle loro essenze, di cui le cose contingenti e mutabili non sono propriamente che espressioni imperfette, e, come Platone le chiama, similitudini . Come dunque la similitudine ha per sua cagione l' originale di cui è un' imitazione, così le essenze sono cagioni delle realità, e il lume delle essenze, nelle quali sta il vero essere delle realità, e il Sole che è il bene per essenza, di tutte queste cose insieme. La qual dottrina è per avventura così magnifica e santa, massimamente nella bocca di un gentile, ch' io mi credo non poter dispiacere al lettore, se io qui soggiunga una porzione delle parole stesse, con cui ne parla quell' uomo straordinario: [...OMISSIS...] Nessuna mente prima di cristo fra i gentili salì mai più alto. Il fastigio dell' edificio filosofico qui è chiaramente mostrato in Dio, autore del lume dell' umana ragione, sede delle essenze, autore delle cose. E Dio è indicato, con sommo accorgimento, come l' essenza del bene ; giacchè la sola natura del bene ha in sè la ragion del diffondersi, e, per questo suo istinto diffusivo, Iddio dà sussistenza all' universo. Ma noi dicevamo, che avendo Platone così sagacemente quasi a dito mostrato il colmo della mole filosofica, non potè però disegnarne con accuratezza e distinzion sufficiente l' intera architettura. Chè certo nella sola idea del bene si rinviene il principio intenzionale ed il fine reale del mondo. Ma l' idea della causa finale non è la sola ragione ultima : conviene ad essa aggiungere la causa esemplare , che è per sè idea, o a dir meglio quello di cui l' idea è l' analogo, come pure la causa efficiente . Queste tre cause offeriscono alla meditazione filosofica le tre ragioni ultime di tutte le cose, delle quali l' una non è superiore all' altra, nè l' una si rifonde nell' altra, come sembra supporre Platone, che alla natura del bene subordina l' altre due o con essa le confonde. E anche qui impedì a quella gran mente di conservarle sufficientemente distinte, l' avere ignorata la legge, di cui noi parliamo di continuo, del sintesismo , per la quale accade, che più cose devano essere insieme, e ciascuna si possa annullare col ragionamento, fatta solo la supposizione che manchino le sue compagne, e tuttavia l' una non è l' altra, anzi dall' altra distintissima. Onde essendosi accorto Platone, che l' idea del bene non potea essere senza che si collocasse nello stesso bene l' intelligibilità e la potenza , prese queste come elementi di quella, non come idee da quella distinte. Che se egli avesse considerato altresì, che nè pure l' idea della potenza si regge, se in essa non si collochi l' intelligibilità e il bene; nè l' esemplare, che, come dicevamo, è per sè idea, o verbo di cui l' idea è l' analogo, senza l' esemplato potente e buono; si sarebbe facilmente accorto, che nessuno di questi tre si può ridurre all' altro, benchè ciascuno reciprocamente si chiami e si supponga. Sarebbe stato necessario altresì, a tracciare un disegno perspicuo della filosofica scienza, l' osservare che l' idea della causa efficiente deriva e s' inchiude in quella d' essere reale e soggetto, la causa esemplare poi è l' essere ideale (che si riduce al Verbo divino a cui è analogo), l' essere per sè manifesto , o per sè oggetto; in ultimo l' idea della causa finale scaturisce dall' idea del bene, che è l' essere morale , quasi talamo dell' essere soggetto e dell' essere oggetto. Le quali sono tre forme, ciascuna delle quali in se stessa contiene il medesimo essere e tutto intero, per guisa che quella trinità si consuma nell' unità semplicissima dell' essere stesso. Nè con questo vogliam dire che a torto Platone derivi dal bene essenziale come da causa immediata il lume dell' umana ragione, e l' essenza delle cose mutabili, e queste stesse cose, perocchè veramente quello che è ultimo in Dio, secondo l' ordine logico della mente nostra, è primo rispetto al mondo, è la ragion prima del movimento creativo; ma il grand' uomo, non avendo altro lume che il naturale, corse troppo frettoloso al mondo considerando le cose divine nell' ordine che hanno con questo, senza prima meditare, com' era mestieri, quell' altr' ordine precedente ed assoluto, che quelle hanno tra sè. Onde sebbene ne faccia giustamente stupire l' altezza di quella mente, che chiamò il lume della ragione figliuolo del bene essenziale, similissimo al padre ; tuttavia in un tanto e sì nobilissimo sforzo di sollevarsi alla somma altezza, ci rimane una prova manifesta della limitazione dell' ingegno dell' uomo, il quale per quantunque levasse verso al cielo una mano di gigante, per verità non si potea credere che lo toccasse, ma pure per l' analogia del natural lume, seppe additare dalla lunga un Verbo, ossia un lume eterno, figliuolo del bene essenziale, e anche questo non senza essersi probabilmente aiutato d' antiche tradizioni. La sola parola di Dio stesso vale a guidare per le celesti ragioni l' umana intelligenza, senza smarrirsi, e renderla idonea alla più sublime filosofia. Il punto dunque ove termina la filosofia e onde pure incomincia è l' essere , e il suo ordine intrinseco , cioè le sue tre forme, che si riflettono nel mondo, e costituiscono la base delle categorie a cui tutte le cose si riducono, e diventano le ragioni ultime, intorno alle quali la meditazione filosofica si rivolge. Perocchè nell' essere sotto una prima forma reale è necessario investigare la prima ragione di tutte le realità che costituiscono il mondo reale, nell' essere sotto una prima forma oggettiva è neccessario investigare la prima ragione di tutte le idee e cognizioni che costituiscono il mondo ideale ed intelligibile; nell' essere sotto una prima forma del bene, è necessario investigare la prima ragione di tutte le esigenze e le leggi, di tutte le morali attività co' loro effetti, che costituiscono il mondo morale. Chè l' intrecciamento di questi tre mondi è il creato, e pende dal suo Creatore, a cui somiglia, quasi siccome un frutto dall' albero. E che nella natura delle cose e nella composizione di questo universo si possano facilmente ravvisare calcate queste tre impronte, e quasi solchi di altrettante vie, per le quali il pensatore si conduce a trovare le ultime ragioni delle cose, nel che sta il filosofico esercizio, lo dimostra anche la partizione dell' antica filosofia, da' migliori filosofi distribuita in tre parti, che nominarono « naturale, razionale, e morale (1). » E quantunque lo sviluppo immenso di queste tre membra primitive abbia introdotto in appresso tali e tante suddivisioni, che fecero dimenticare que' tre principali tronchi, aventi la comune radice dell' essere, onde uscirono gli altri rami; tuttavia chi si fa a riandare il cammino percorso, e torna a sintesizzare quello che l' analisi ha moltiplicato e, quasi dicea, sparpagliato, si trova restituito di nuovo a quelle tre parti primitive, a cui noi pure riconducemmo i nostri lavori (1). S. Agostino ci fa riflettere, che quella divisione non fu instituita da' filosofi, ma da essi trovata esistente nella natura delle cose (2), e vi riconosce un cotale vestigio della divina trinità, vi scorge i tre problemi dall' umana scienza non mai sciolti, a dir vero, da' gentili filosofi, ma tuttavia proposti, la cui ultima soluzione s' annoda alla cristiana dottrina delle tre divine persone. Perocchè dice « « avendovi in ciascuna di quelle (tre grandi e generali questioni) una discrepanza moltiplice d' opinioni, tuttavia niuno esita in affermare, che v' ha qualche causa della natura, qualche forma della scienza, qualche somma della vita »(3). » Ecco come la cima più alta della filosofia, quasi vetta d' altissimo monte che si perde nella maestà delle nubi, si continua col lume superno custodito nella cristiana credenza, e questa mette in sul capo a quella un' augusta e celeste corona. Egli è dunque manifesto, che quello che abbiamo detto il secondo elemento della sapienza, LA VIRTU`, e la religione che n' è la perfezione, fa la strada al primo che è LA VERITA`, di cui la Filosofia, come esercizio, è l' investigazione, e la Filosofia, come scienza, è il sistema. Ma la scienza poi dà una nuova forma e più sublime alla stessa sapienza . Perocchè se la sapienza ha per sua base la cognizione della verità, e se questa si può conoscere nella sua integrità formale in due maniere, l' una delle quali è comune a tutti gli uomini, l' altra, riflessa e consapevole, propria sol de' filosofi; convien dire che v' abbiano del pari due maniere di sapienza: una sapienza comune a tutti, che s' edifica sulla cognizione comune, diretta e popolare, quando l' attività libera dell' uomo, senza lasciarsi anneghittire da alcuna tenebra d' affetto, nè sommovere da alcun impulso di cieca passione, cammina nella luce di quella verità che conosce ed ama su tutte le cose, onde il soggetto uomo, che nella volontà dimora, è conformato ed accordato all' oggetto, come due corde d' una stessa cetera; e una sapienza propria del filosofo, che s' edifica, non sulla sola scienza, a dir vero, che rade volte è perfetta ed intera, ma sulla scienza e ad un tempo su quel fondo di cognizioni che in lui rimane, di cui la scienza è come un ricamo a rilievo; quando amando tutto quello che sa di vero, lo sappia in una forma o nell' altra, cerca di realizzarlo tutto, e di rendere quasi sussistente e vivente in se medesimo quella verità che conosce. E quantunque nel viaggio all' alta regione della scienza l' ingegno incontri nuovi pericoli e strane lotte da sostenere con nuove forme d' errori (chè trasportato l' umano ragionamento, spesso ambiguo, ad una riflessione superiore in un campo senza pari più ampio, gode provar le sue forze a scoprire egualmente ed a coprire il vero, e seco stesso combattere, come in vasto mare i venti si sbrigliano con più di libertà e di furore che in un lago angusto); tuttavia e può l' uomo trionfare di tali procelle, se il guida un illimitato amore della verità, e giunto in fine alla scienza, può rendere a quella verità che come scienza possiede e vede perspicua e da molti lati, un più profondo ossequio, e una testimonianza più illustre; e ad essa dare quasi in dono, una porzione più eccellente di se medesimo, qual è la volontà riflessa e consapevole che sorge come nuova potenza in seno alla scienza, e che nel vero, di cui fruisce, rinviene una gioia sua propria, che anch' essa è cognizione, e amore, e nuovo ossequio del vero. E` dunque somministrata dalla Filosofia nuova materia alla Sapienza, che per essa aggrandisce, e nuovo stimolo all' amore della Sapienza. Laonde se la Sapienza che precede, guida l' uomo alla Filosofia, e con questa dimora; la Filosofia da sua parte restituisce l' uomo alla Sapienza che sussegue, e che è maggior della prima. Tali sono le intime e preziose relazioni fra la scienza filosofica e la Sapienza. Invano s' è tentato di sciogliere vincoli così naturali e sì sacri. Ogni qual volta si è voluto separare la scienza dalla virtù morale , e si è preteso che quella dovesse andarsene sola e bastare a se stessa; ella s' è trovata languire e morire nelle mani temerarie che le hanno fatto subire quest' esperimento, come il corpo d' un uomo, a cui si estragga il proprio sangue, per rifondervi forse quello d' un caprone. Chè per verità egli è più facile comporre un essere vivente ed intelligente accozzando insieme elementi materiali per via di chimiche operazioni, che, senza l' amore della verità e della virtù, comporre la Filosofia. Quella è l' illusione del materialista, questo il perpetuo sogno del razionalista. Tanto più che non essendo la Filosofia che una rappresentatrice fedele e quasi una disegnatrice dell' essere (giacchè tutto il resto non è Filosofia, ma sofistica), e l' essere, ordinato nella sua essenza, avendo principio, mezzo e fine, cioè sussistenza, intelligibilità, e amabilità, onde risulta la virtù, e, come sua appendice, la felicità; così essa, la Filosofia, dopo aver ritratto l' ente come principio, e l' ente come mezzo, dee terminare e riposarsi nella scienza della virtù e della felicità, dove pur l' ente, come in termine di sua perfezione, si riposa e si compie; nè la scienza della virtù si rivela a chi le è nemico. Chè, come accade delle sensazioni, le quali niuno potrebbe inventare o immaginare, qualora non ne avesse avuto esperienza, così del pari la sola osservazione ed esperienza è finalmente quella che in un modo positivo ed intimo fa conoscere i fenomeni morali che la natura e l' eccellenza della virtù spiegano e manifestano: il che non può dirsi, almeno in grado eguale, del vizio, il quale ha natura di negativo e di privativo, e però colla notizia del positivo, che è il suo contrario, sufficientemente s' intende. Di che di nuovo si raccoglie, che la disposizione più necessaria allo studio della filosofia consiste in questo, che l' uomo pratichi la virtù, come, nell' ordine d' una scienza e d' una sapienza più elevata, sta scritto: « « Figliuolo che desideri la sapienza, conserva la giustizia, e Iddio te la darà »(1). » E` dunque un distruggere l' uomo il separarne, come vuol fare la scuola tedesca, la parte intellettiva dalla parte attiva e morale, e in quella, cioè nella scienza pura, assorbire anche questa. I primi che fondarono questa scuola, il Kant ed il Fichte, non sapendo spiegare, a cagione del soggettivismo ingozzato a modo di pregiudizio dal loro secolo e non mai digerito, come l' intelligenza potesse conoscere cose diverse dall' uomo; su questa loro ignoranza fondarono il nuovo sistema, e sentenziarono, la ragione esser del tutto incapace di percepire il mondo esterno, e così la dichiararono incapace di fare quello che ella continuamente fa. Ma temendo che gli uomini si spaventassero di soverchio agli assurdi d' una dottrina che, come una Dea irata colla ragione , criticandola, la castigava e riduceva all' impotenza; ricorsero per temperamento all' azione , e in questa riconobbero una cotale comunicazione reale dell' uomo col mondo esterno: di che sotto il nome di ragione pratica restituirono allo spirito umano (però entro una sfera soggettiva) quello che avevano tolto al medesimo sotto il nome di ragione teoretica . Il ripiego non potea durare, chè le incoerenze non durano. Laonde il Schelling, l' Hegel e i loro discepoli abolirono quel dualismo che restava nell' uomo, e più fedeli al principio, che l' uomo non può uscire di sè (del che era prova concludentissima questa che la loro mente ne ignorava il modo, e il decoro d' un professore d' Università voleva ch' egli non ignorasse cosa alcuna, e che piuttosto di confessare la propria ignoranza, negasse imperterrito i fatti più comuni e più evidenti della natura), dissero, che l' azione durava fenomenalmente nell' uomo fino che questi non fosse giunto alla scienza , e propriamente all' idea che sola esiste e diventa uomo, azione, oggetto, soggetto, concetto, natura, Dio, ogni cosa. L' uomo non arriva a conoscere questa gran verità, che l' idea è tutto, fino che la coscienza di lui è ancora immersa e approfondita nel travaglio di pervenirvi, che è successivamente creazione ed annullazione (perocchè non vi ha requie, ma soltanto, come diceva Eraclito, continuo moto); pel qual travaglio l' uomo mai non è, ma sempre diventa , e diventa or pura idea, or nulla, ora dal nulla sorte novellamente uomo, [...OMISSIS...] per rientrare poi tosto nella natura materiale, o indiarsi, o idealizzarsi, o ripiombare di bel nuovo nel gran nulla. Così in questa scienza ogni azione, e con essa ogni moralità, non è più che una passaggera metamorfosi dell' idea, e l' Uomo7idea è a tutte cose superiore, anzi è tutte le cose, nè egli, il tutto, può più ricevere altronde alcuna legge. Sebbene poi disparisca nel nulla anche la coscienza di sè , tuttavia questa sola, appunto perchè non esce di sè, è verace, e la cognizione dell' altre cose, che in Germania si chiama coscienza senza più, deve esser vinta da quella. Perocchè la coscienza di sè , e la coscienza (cognizione dell' altre cose) lottano insieme, secondo la filosofia germanica, al modo degli antropofagi, e colla vittoria che spetta alla prima, questa si mangia saporitamente la seconda. Laonde la coscienza , ossia la cognizione di Dio e de' proprŒ simili, essendo divorata dalla rabbiosa fame della coscienza di sè stesso , che sola rimane soprastante, i doveri morali verso Dio e verso gli uomini sono divorati con essa, e di queste vecchie cose è sparita pur la notizia. Allora l' uomo, coscienza pura di sè stesso, nel che sta l' apice di sua grandezza, è liberato d' ogni obbligazione, salvo che gli resta, non il dovere certamente, ma il piacere di adorare se medesimo; come anche quel nulla , in cui poco stante farà un capitombolo, per riuscirne di nuovo, come dall' ovo primordiale. Le quali non sono conseguenze che noi caviamo: anzi il merito d' averle dedotte appartiene parte allo stesso Hegel, parte poi a' suoi discepoli, che non hanno ancora acquistato alcun merito di essere nominati. E così sotto il nome di scienza e di filosofia, la sofistica in Germania tolse a schernir l' uomo, palleggiandolo fra il nulla e il tutto , senza riposo: coll' uomo poi rimase uno scherno la scienza, la filosofia, la sapienza: tutte cose che di continuo escono dal gran mare del nulla, in cui rifluiscono. Niuna maraviglia, che la voce della filosofia ora in quel paese sembri ammutolita e confusa. Pure la dualità della cognizione e dell' azione che quei sofisti cotanto abborrono, non toglie l' unità dell' essere identico nell' idea e nell' atto, nè impedisce l' unità della sapienza, che dall' intima congiunzione, organata ed armonica, di que' due elementi risulta, vivente non morta, come è inevitabile che si rimanga l' uno, se si spoglia di qualunque pluralità. Nè fra la contemplazione e l' azione v' ha contrarietà di sorte, quasichè questa impedisca la pienezza di quella, come si suppone, chè la mente contempla ugualmente sì nell' uomo che opera, come nell' uomo che non fa nulla: nel primo contempla anche quello che egli stesso fa: niuna cosa rimane esclusa dalla contemplazione, benchè le cose contemplate abbiano poi un' altra forma d' essere che le pone fuori di essa; e questo stesso è la contemplazione che ce lo dice e ce l' accerta. Riassumendo dunque, noi dicevamo, che nella cogniziione della Verità, di cui la scienza è soltanto una forma riflessa, giace il primo elemento della Sapienza; ma questa stessa cognizione non principia ad essere elemento di Sapienza fino che è puramente speculativa, e non ancora assentita ed amata fino che l' uomo, non v' ha aggiunto del suo, fino che la cognizione non è divenuta azione libera; chè la stessa visione del vero è doppia, l' una necessaria, l' altra volontaria e amorosa, alla qual ultima spetta più propriamente il nome ora di contemplazione , ora di cognizione pratica . Laonde c' è una cognizione ed una scienza psicologicamente anteriore a quel punto in cui la Sapienza incomincia. Ora per non lasciare questo discorso imperfetto e l' immagine della sapienza senza capo, conviene che noi facciam passaggio dall' ordine naturale a quell' altro senza pari più sublime, cioè al soprannaturale. Prendiamo il ragionamento del suo principio. L' uomo arriva in due modi all' acquisto delle cognizioni: l' uno, difficile e lento, quand' egli abbandonato a se stesso, senza alcuna educazione ed istruzione, senza poter far uso d' alcun maestro, col proprio ingegno s' avanza, fin dove può, alla scoperta del vero: l' altro facile e spedito, quando sotto la disciplina di maestri apprende dalla loro parola non solo quelle poche verità ch' egli avrebbe potuto scoprire da se medesimo, ma per ordine una copia smisurata di notizie raccolte colle fatiche d' innumerevoli studiosi, e quasi ammassate e trasmesse di secolo in secolo alle successive generazioni, siccome eredità o patrimonio comune dell' umana famiglia. Tutti unanimamente convengono, che l' efficacia di questo secondo modo d' erudirsi sia infinitamente maggiore del primo: e però in tutti i tempi dopo i primissimi v' ebbero maestri e scuole, ne' tempi poi più civili, dove, essendo già maggiore lo sviluppo degl' ingegni individuali, sarebbero parute men necessarie, si riconobbero in quella vece più importanti; e crebbe fuor di misura la sollecitudine d' istituire Università e Licei ed ogni altra maniera di scuole, nelle quali dalla voce di sceltissimi precettori venissero a moltissimi quelle notizie comunicate e propagate. Chè la comunicazione della verità da una mente ad un' altra per mezzo della parola è la via di tutte e più fruttuosa e più spedita, per la quale, con leggera fatica, gli uomini trapassano dall' ignoranza al possesso del sapere. L' autorità dunque è il natural pedagogo, che incammina più direttamente e più pienamente alla scienza: ella inizia, eccita, dirige, arricchisce, rinforza, e quasi moltiplica l' umana intelligenza. Ma egli è evidente, che il maestro non può insegnare quello che non sa: quindi l' importanza che sia dotto. Nè ella è legger cosa al profitto la stima e la fiducia de' discepoli nel proprio istitutore. Che anzi in molti problemi difficili e di sommo momento, gli uomini il vorrebbero avere del tutto infallibile, e lo si augurano onnisciente. Il quale natural desiderio di sapere il vero e saperlo con certezza, che conduce le menti a comporsi l' ideale del maestro a cui appartengano le due doti, dell' infallibilità e dell' onniscienza, suol muovere l' affetto de' discepoli a celebrare con ogni esagerazione la dottrina e l' autorità de' loro precettori; e vediamo non pochi di questi avere in vari tempi conseguita l' appellazione di divini, od altra di pari eccesso: i discepoli poi aver sovente giurato nelle parole de' maestri ed essersi compiaciuti di risolvere le questioni tutte colla solennissima formola dell' ipse dixit . Ma Platone, a cui pure fu dato l' epiteto di divino, ogni qual volta ne' suoi ragionamenti s' abbatte in alcuno di que' rilevantissimi e misteriosi problemi, di cui tutti desiderano sapere la soluzione, perchè da essi dipende l' umana destinazione di que' problemi, pe' quali si coltiva la filosofia non altrimenti che si coltivi l' albero pel suo frutto non s' arrogò mai alcun divino sapere, ed anzi confessò la propria ignoranza, facendo voti che lo stesso Dio s' avvicinasse e rivelasse agli uomini, come quelle cose si stessero, e colla sua autorità infallibile ne desse loro una piena sicurezza (1); chè di queste due cose ad un tempo hanno gli uomini sommo bisogno, e di conoscere la verità di tali questioni, e di conoscerla senza titubanza bastando la sola titubanza a rendergli infelici. Che se Alessandro Magno ringraziava gli Dei dell' averlo fatto nascere in un tempo, in cui viveva Aristotile, quanto non si sarebb' egli tenuto più fortunato, se gli fosse toccato un Dio per maestro? E tutti quelli che conobbero tra i gentili a che caro prezzo di fatiche e di studŒ si prevenga alla verità, tutti quelli che per arrivarvi logorarono la propria vita in lunghi viaggi, in veglie, in privazioni d' ogni maniera, e dopo di tutto non riuscirono che ad opinioni contrastate, a congetture più o meno probabili, e mai alla sicurezza di possederla, tutti questi dico, qual contento, qual giubilo non avrebber provato, se avessero potuto anche un solo istante abboccarsi con Dio medesimo, e dalla sua propria bocca intendere quelle risposte infallibili, e quegli indubitabili ammaestramenti che desideravano! Ed anzi ell' è comune, naturale all' umanità, non declinabile a nessun uomo, ardentissima, inquietissima la brama di pur sapere quali sieno gli esiti finali della virtù e del vizio, e che cosa sarà dell' uomo dopo questa breve vita se sopravviverà l' anima alla dissoluzione del corpo, se sopravvivendo si rimarrà sempre dal corpo divisa; e che farà, che patirà in una eterna esistenza, se sarà felice, o infelice: questioni tutte sulle quali gli uomini nè possono vivere incerti, nè da se stessi con positiva sentenza, e d' alcuna titubanza non indebolita, pronunciare, onde quelle qualunque opinioni, che i filosofi intorno ad esse immaginarono, si rimasero vaghe nella forma, congetturali nella sostanza, molteplici, contraddittorie, prive poi d' autorità, e di stabilità di consenso: e sopra tutto ciò in dominio de' poeti, che favoleggiandole, vie più incredibili le resero, onde i più potenti ingegni per aver pure qualche cosa di positivo e di meno indeterminato s' appigliavano, siccome il naufrago che s' apprende ad ogni fuscello ad ogni foglia che nuota nell' onde, a certe voci antiche, di cui per una popolare tradizione giungea fino ad essi il lontano rumore (1). Qual cosa dunque più conforme al bisogno instante e al voto di tutti gli uomini, che il rinvenire un maestro così eccellente che tutte queste cose sappia egli stesso per iscienza indubitabile, e possa narrare altrui con piena autorità d' esser creduto e facoltà di persuadere? E quale può essere un maestro così fatto, se non Dio stesso? O chi potrebbe avere a dispetto un maestro di tal condizione, o provare rincrescimento, ch' egli discendesse in sulla terra per ammaestrare gli uomini? Chi arrossirebbe di farsene discepolo, chi si chiuderebbe gli orecchi per non udirlo? Certo nessuno, se non fosse venuto a tanta dissennatezza da odiare la luce, e a tanto pervertimento da soffocare in se medesimo il più vivo, l' immortale istinto della natura umana. E` dunque desiderabile a tutti quelli che amano la verità, e cercano la sapienza, che Iddio stesso si renda maestro degli uomini; ed è anco probabile, che, essendo Iddio ottimo e conoscitore de' bisogni e di tutte le tendenze di questa natura umana che è opera sua, l' abbia voluto; nè solo è probabile che l' abbia voluto, ma questo è oggimai il fatto più di tutti i fatti luminosissimo, il quale è risonato in tutti i secoli, ed ha empito della sua virtù tutta la terra. V' ha dunque una scienza soprannaturale e divina, conforme al desiderio dell' umana creatura, e all' esigenza della ragion vacillante, che, dopo aver tentato di scoprire e d' indicare all' uomo la via della felicità, confessava di non rinvenirne alcuna che fosse sicura tra i non prevedibili e fatali avvenimenti della presente vita, d' una vita di cui ella non potea penetrare il mistero, simile ad una catena di sogni, che certamente si dovea rompere, e in breve e in un istante sconosciuto: al quale istante condotta la ragione si vedeva fermata davanti alla ferrea porta della morte senza poterla aprire, e dentro traguardare che v' avesse al di là, quali sedi, quali dimore aspettassero l' anime intellettive, che si sentivano pure immortali. Che se la sapienza fu definita, non a torto, « « la scienza della felicità »(1) » conviene per fermo conchiudere, che quella cognizione soprannaturale, che fu insegnata agli uomini dallo stesso Iddio, fattosi loro maestro, questa cognizione, dico, che sola aperse ai mortali il segreto della morte, e della nuova ed eterna vita, a cui la stessa morte è varco, si meriti ella sola il titolo di sapienza. E via più, che da un tanto maestro l' uomo non impara solamente a conoscere quali beni gli stieno preparati oltre al confine del tempo, ma a quali condizioni egli possa venirne in possessione, e ne apprende l' arte, e ne acquista gli stromenti. E così in questa scuola soprannaturale fu sciolto col fatto un altro altissimo problema, che, nell' ordine naturale, venia proposto e discusso dai più sagaci intelletti, cioè « se la virtù si potesse insegnare. » Del qual problema Platone in più luoghi diede una risoluzione negativa, affermando che la virtù non è cosa che insegnar si possa, come s' insegna la scienza , nè si possano trovare fra gli uomini i maestri di essa, e di conseguente neppure i discepoli, e finalmente che il solo Iddio ne poteva essere e il maestro ad un tempo, e il donatore (1). Nuova potentissima ragione riconosciuta dalla naturale filosofia, per la quale era non pur desiderabile, ma necessario un maestro divino. E a Dio veramente è dato di comunicare ad un tempo e la verità alla mente, e la virtù all' umana volontà. Sapendo ora dunque l' umanità di possedere questo maestro, la scuola del quale non si racchiude in alcun' aula magnifica, o in uno spazioso portico, o in qualche ameno bosco o villa, nè in alcuna città, ma risuona per tutti i luoghi dove risplende il sole, e dove l' aria fa anelare il petto dell' uomo, noi dobbiamo, volendo in qualche modo abbozzare l' immagine della sapienza, accennare più distintamente, che cosa s' insegni, che cosa s' impari in questa scuola, dove entrambi que' due elementi di cui dicevamo risultar la sapienza, si danno gratis a tutti quelli che li desiderano, e così compiuti, come a un Dio che insegna è possibile e condecente. Consideriamo la nuova scienza , a cui in appresso si continuerà spontaneo il discorso della nuova virtù . Noi abbiamo distinto la verità dalle diverse forme , nelle quali ella si presenta alla vista degli uomini. Queste cangiano nelle varie età, e nel vario svolgimento delle facoltà intellettive, di modo che la verità prende delle forme infantili, dell' altre proprie della puerizia, e così dell' adolescenza, della virilità, della vecchiaia, altre nel comune degli uomini, altre ne' soli scienziati. Ma prima di tutte queste forme v' ha la stessa verità, ed ella è quell' essere ideale nel quale tutte le entità sono conoscibili. La verità anteriore alle forme comunica immediatamente coll' uomo, e lo costituisce intelligente. Ora anche qui domanderemo qual è il maestro che insegna all' uomo la verità pura, anteriore alle forme e di tutte poi suscettiva? Qual è il maestro che gli dice questa prima parola, colla quale l' uomo interpreta, ed intende tutte le altre? Nessuno de' mortali insegna a questo modo la verità e se un tale ci fosse, da chi l' avrebbe egli apparata? E come potrebbe comunicarla? colle parole? Ma queste non sono che suoni, che diventano poi segni, non tanto per la virtù e per l' opera di chi le pronuncia, ma assai più per l' opera di chi le ascolta, e le interpreta a se medesimo, e che non potrebbe interpretare ed intendere, se non potesse trasportare la sua mente da' suoni esteriori alla verità significata, che non è ne' suoni, ma che egli si trova dentro nell' anima. Ogni magistero umano dunque suppone prima di sè un magistero divino, il magistero di colui che fu chiamato « « luce vera, che illumina ogni uomo veniente in questo mondo »(1). » Al qual magistero l' uomo crede per natura e non per raziocinio, di manierachè anche nell' ordine naturale, non solo nel soprannaturale, la fede precede la ragione , e s' avvera la sentenza « « se non avrete creduto, non intenderete » ». Ecco il maestro primo, ecco il solo, a cui veramente s' appartenga un tal nome, perchè il solo che comunica la verità, quando gli altri non fanno che ammonire ed eccitare coloro, a cui la verità è già comunicata, a pensarvi, a riflettervi, a considerarla sotto forme speciali. E però a tutta ragione questo maestro represse la boria de' sapienti della terra, dicendo a' suoi discepoli: « « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro Maestro, e voi tutti siete fratelli »(2). » Il qual precetto fu dato quando Iddio, mostrandosi in forma di maestro visibile, alla prima parola colla quale illuminava l' umana specie nel giorno che la creò col darle ad intuire la verità, aggiunse una seconda parola più sublime assai della prima, ma interna come la prima, verità come la prima, anteriore anch' essa alle forme, come la prima efficace, come la prima ed insieme colla prima luce non bisognevole d' altra luce per vedersi, visibile per se stessa. E a quel modo che la prima parola fu porta che intromise l' uomo nel mondo dell' intelligenza naturale , la seconda è porta che lo introduce in un altro mondo più ampio dell' intelligenza soprannaturale . E quanto si rispondano questi due lumi, e come il metodo col quale viene illuminato l' uomo nell' ordine delle cose soprannaturali proceda identico a quello col quale egli viene illuminato nell' ordine delle cose naturali, ond' apparisce la scuola esser la stessa, lo stesso il maestro, fu da noi prima accennato e sarebbe lungo a pienamente descrivere. Ma osserveremo solamente, che quando Iddio, creando l' uomo, lo ammaestra col lume della ragione, allora in pari tempo egli lo rende atto e ad apprendere da sè più cose che sotto molte forme gli danno a vedere la stessa verità, che senza forme già vede, e a ricevere altresì ammaestramento dalla voce degli altri uomini, e ad ammaestrare altri egli stesso, loro comunicando le cose e le forme da lui conosciute; di che seguita, che la scuola del maestro divino che il primo e il solo comunica la luce del vero, è quella che rende possibili tutte l' altre scuole, o che l' uomo coll' aiuto di quella luce investighi da sè la verità ed ammaestri se stesso, o che sia ammaestrato da altri. Il primo maestro dunque forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli; chè e quelli e questi esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero. Ora il somigliante accade nell' ordine soprannaturale, dove il magistero divino che dà il lume all' anima rende questa idonea ad investigare, apprendere ed insegnare le cose che a quell' ordine appartengono, e così rende possibile anche in quest' ordine un magistero esterno ed umano. E a quegli uomini appunto che furono incaricati d' esercitare quest' umano magistero nell' ordine superiore a quello della natura, a quegli uomini che furono istituiti da Dio stesso maestri delle cose più eccellenti, a tutte le nazioni, e a tutti i secoli, fu detto: « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro maestro, e voi tutti siete fratelli. »Quest' ammonizione non poteva uscire dalla bocca d' alcuno, che non fosse Dio, e a quelli a cui era data, essa rammentava di continuo, onde derivasse la chiarezza e la potenza della loro parola, che sarebbe pur sempre echeggiata, e sempre intesa di generazione in generazione sino alla dissoluzione del globo: il tuono della quale al di sopra d' ogni vociolina, o ronzio terreno, già per lo spazio di diciannove secoli senz' alcuna interruzione, si propaga. Chè la rivelazione esterna e la predicazione nè sarebbe a sufficienza intesa, nè assentita dagli uomini, nè resa operativa dalla cooperazione della volontà umana, se non fosse a ciascuno di essi interpretata, illustrata ed avvalorata dalla luce interiore del carattere e della grazia . Laonde un dottore che colla mente penetrò più addentro di moltissimi in questo vero, venutegli a mano quelle parole in cui Cristo si chiama « principio che anche parla a voi », così ne scrisse: [...OMISSIS...] Laonde questo stesso uomo sapientissimo dalla cattedra dove sedeva maestro di altissimi veri co' suoi uditori usava un linguaggio nuovo e per umiltà inaudito nelle scuole dei filosofi, dicendo a tutto il suo popolo, ai dotti, e agl' indotti ugualmente: « « Egli è più sicuro, che e noi che parliamo, e voi che ascoltate riconosciamo di essere condiscepoli sotto un solo maestro. Al tutto ella è questa cosa più sicura e giovevole, che voi ascoltiate noi non come maestri, ma come condiscepoli »(2). » Di due parti dunque si compone l' insegnamento soprannaturale del lume interiore e della rivelazione esteriore che la predicazione e il magistero ecclesiastico perpetua nel mondo. E il divino Maestro entrambi le accennò quelle parti, quando interrogato chi fosse, rispose: «PRINCIPIUM, QUI » (ovvero propterea ) «ET LOQUOR VOBIS (1). » Dicendo principium egli espresse il lume interno, che è appunto il principio di ogni verità e cognizione, non potendo la voce corporea esser principio, o comunicare altrui il principio dell' intelligenza, come quella che ha bisogno per essere intesa di trovar già nell' uomo quel primo lume che è chiave ad aprire ed interpretare il significato d' ogni segno sensibile: dicendo poi, qui et loquor vobis , espresse quell' esteriore e sonoro ammaestramento, che all' interno risponde lo svolge, e che egli medesimo, Iddio fatto uomo, volle pure esercitare infra gli uomini, e commettere poi a' suoi Apostoli di tramandare le cose udite da lui, ed intese per lui, agli altri, a cui egli avrebbe continuato il lume, col quale avessero potuto intenderle. Laonde nella parola « principio »è indicata chiaramente la natura divina e il divino magistero: in quel che segue « e perciò parlo a voi », è indicata la natura umana e il magistero umano che dal primo dipende: l' una e l' altra natura nella identica divina persona, l' uno e l' altro magistero dalla stessa persona esercitato, e il secondo veniente come conseguenza dal primo: « « e perciò anche vi parlo; «oti kai lalo umin» (2) »: quasi dicesse: « Io ho la facoltà e il diritto di parlarvi, perchè sono il principio, che v' illumina: non vi potrei parlare esternamente queste cose, se io non fossi quello che ve le fa intendere internamente. » La Filosofia che è l' opera della riflessione , corre il pericolo d' impiccolirsi, come abbiam già osservato, restringendosi dentro la sfera del pensiero riflesso, e negando tutto ciò che è, e vive fuori di esso. Quindi a molti di quelli che la professano, chiusi nell' angustia di quel pensiero speciale col quale filosofeggiano, che essi scambiano col pensiero generale , riesce difficilissimo a riconoscere, che avanti alla stessa riflessione esiste un lume che tocca immediatamente l' anima, un lume comune a tutti gli uomini, non bisognevole di filosofia per risplendere, quando la filosofia ha pur bisogno di lui, siccome la lampada del fuoco, al quale s' accende. Una filosofia, così rannicchiata in se medesima, non può intendere quel magistero soprannaturale di cui parliamo, chè non intende nè manco qual sia la natura del magistero naturale della verità. Ma la scuola germanica impossessatasi, come abbiam detto, di questa cotale ignoranza filosofica, vi fabbricò sopra con tutta la forza e la profondità possibile all' ingegno che lavora sul falso, un compiuto sistema. I discepoli di Hegel intimarono esplicitamente la guerra più accanita a tutto ciò che essi denominarono l' immediato , intendendo sotto questo vocabolo qualche cosa di divino che elevi la mente dell' uomo più su della coscienza scientifica e determinata. Negarono Dio stesso per questa curiosa ragione che « l' idea di Dio non si riflette su di se stessa »; quasichè l' idea di Dio porgesse alla mente un Dio inconsapevole: tanto era loro divenuto invisibile tutto quello che rimanea fuori della riflessione, o che esiste senza di essa! Dicevamo dunque, che l' ordine in cui procede la cognizione delle cose soprannaturali è analogo, e, per così dire, dello stesso stile, all' ordine in cui procede la cognizione delle cose naturali. Nella notizia delle cose naturali c' è un primo lume interiore, e un primo lume interiore c' è pure nella notizia delle cose soprannaturali; quel primo lume è la verità che veste poi varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni che non eccedono la natura, scientifiche o no, comprese le ultime speculazioni della Filosofia; quest' altro primo lume è ancora la verità che veste varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni soprannaturali, comprese le più alte contemplazioni della Teologia: quel primo lume è il criterio della naturale certezza, lui si consulta dall' uomo in ogni dubitazione (1); quest' altro primo lume è il criterio prossimo della certezza soprannaturale, lui pure s' interroga da chi vuol conoscere d' una dottrina annunziata in nome di Dio, il vero ed il falso (1); quel primo lume si svolge e per le proprie meditazioni e per la parola altrui; quell' altro primo lume del pari si svolge e si moltiplica o col meditare che l' uomo faccia da sè, o ascoltando l' altrui parola: onde lo spirito di Dio come ancora la sua legge è detta molteplice (2). Nell' uno e nell' altro ordine dunque si riconosce lo stesso disegno, la stessa mano, lo stesso autore, lo stesso maestro, e questo divino. Ma ora in che sta poi la differenza fra le due verità primitive, fra i due ordini di cognizioni? Il primo lume che rende l' anima intelligente è l' essere ideale e indeterminato: l' altro primo lume è ancora l' essere , ma non puramente ideale, ma ben anco sussistente e vivente. L' essere sussistente è Iddio: egli stesso disse « « Io sono l' ESSERE »(3) » Avendo usato il pronome personale IO, egli si manifestò come persona , l' essere come oggetto è il Verbo, e quest' essere oggetto è persona, di cui pure è scritto: « « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo »(4). » E` quello stesso che altrove chiamò se stesso principio (5): principio d' ogni intelligenza, e d' ogni cognizione: perchè il principio della cognizione è l' oggetto primo, e il primo ed essenziale oggetto che contiene tutti gli oggetti è l' essere: gli altri oggetti del pensiero sono oggetti per l' essere, l' essere è oggetto per se stesso. L' idea dunque è l' essere intuito dall' uomo; ma non è il VERBO; chè non quella, ma questo è sussistenza; quella è l' essere che occulta la sua personalità , e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente, che intuisce l' idea non cade la personalità dell' essere, nè la sussistenza, e perciò ella non vede Iddio: ma chi vede il Verbo, ancorchè per ispecchio e in enimma, vede Iddio. Laonde se la naturale scienza termina, in qualche modo, in quella che Boezio chiama: « sola rerum PRIMAEVA RATIO; » la scienza soprannaturale giunge a quella che è ad un tempo stesso « nullius indigens VIVAX MENS (1). » L' uomo è un soggetto reale : quindi non può fermarsi all' idea, egli aspira a congiungersi col reale. Il reale dato all' uomo nella natura è finito, e l' idea conduce l' uomo a conoscere e ad amare questo reale finito, ma nello stesso tempo glielo mostra finito, ed essendo infinita l' idea gli mostra la possibilità, la necessità d' un altro reale infinito, che non è dato all' uomo. L' uomo a ciò che conosce, estende anche il suo desiderio: questo dunque va all' infinito, a quell' infinito che l' idea gl' indica dover essere, senza il quale nè la potenza dell' idea sarebbe esaurita, nè il conoscimento possibile all' uomo compito, nè il suo desiderio di conoscere, di congiungersi e di godere appagato. Ora questo infinito reale è dato inizialmente all' uomo nel lume soprannaturale, che Iddio gratuitamente gli aggiunge: la percezione di questo lume sostanziale e sussistente è la percezione del divino Verbo; quivi il desiderio riposa, quivi l' uomo, in un cotal modo, anche nella vita presente, si sazia. Il maestro dunque, di cui noi teniamo discorso, ha, fra le altre, questa singolarità che lo distingue da tutti gli altri maestri, che mentre a questi nel trasmettere che fanno a' loro discepoli le varie scienze e discipline ch' essi professano d' insegnare, non cade mai nella mente d' insegnar loro se stessi: e s' alcun d' essi, foss' anco un professore di qualche Università del Settentrione, invasato dal Demonio della vanità, prendesse seriamente ad annunziare dalla cattedra la materia del suo insegnamento in questo modo: « O giovani, io in quest' anno vi darò lezioni sopra me stesso, la scienza che v' insegnerò sarà la scienza della mia propria persona. »Probabilmente quegli uditori, benchè così generosi, così entusiasti de' loro professori, vinti questa volta non dall' ammirazione, ma dalla compassione, andrebbero mestamente ad avvisare il Rettor Magnifico della disgrazia accaduta a quel gran cervello. All' incontro il maestro unico, di cui noi parlavamo, non destò nè compassione, nè riso, dicendo espressamente agli uomini, che la scienza che insegnava, era quella che faceva loro conoscere lui stesso. Invano qualche professore tedesco mostrò dell' invidia di questo parlare divino (1). Gli uomini riconoscono, che quel maestro che loro così s' annunzia è anche il proprio e il massimo oggetto della cognizione e della scienza, un oggetto che nel momento che si comunica, è noto, come quello che per essenza è intelligibile. Quel maestro non ha che a dire: eccomi, vedetemi: e l' uomo è istruito: questa è la vera arte notoria. Chè essendo il maestro di cui parliamo, Iddio, e in Dio contenendosi tutte le cose, anche quelle che non sono Dio, ma create da Dio, poichè anche queste hanno una maniera d' essere in colui che « « porta tutte le cose colla parola della sua virtù »(2), » e tutte le cose essendo in Dio intelligibili, perchè Iddio è intelligibile per essenza, e, in quant' è così intelligibile, si chiama il Verbo; consegue che chi conosce Iddio, il Verbo di Dio, conosce il tutto, perchè il tutto in esso si trova. E niun altro può ascendere ad una scienza compiuta delle cose, se non ascende a colui, nel quale tutte s' accolgono, s' impernano, si collegano, si unificano: nè v' ebbe mai filosofo d' alta mente che non intendesse a sintesizzare le sue cognizioni, riferendo le cose conosciute all' Essere divino, o che credesse di dover aspettar altronde il compimento dello scibile umano, o questo riputasse ultimato e assoluto, finchè, speculando, non fosse siccome rigagnolo ricondotto nel mare dell' essere e della sapienza, ond' era quasi direi evaporato, e poscia condensato in acqua di scienza. L' idea è una forma v“ta, come dicevamo, non contiene l' essere completo , ma una cotal sua delineazione: indica all' uomo, soltanto l' enimma dell' essere completo, non glielo porge perchè non l' ha in se stessa: il Verbo all' opposto, che è il lume soprannaturale, è l' essere completo: ha il compimento di quell' essere, di cui nell' idea vedesi un languido abozzo. Il senso, cioè la facoltà di sentire le cose corporee ed altre incorporee, come l' anima, ma finite, nell' ordine naturale, viene in soccorso dell' intelletto, ossia della facoltà d' intuire l' idea. Ma quanto è povero questo soccorso! Come dice il poeta: [...OMISSIS...] E di vero non v' ha alcun organo o altra facoltà sensoria nella natura dell' uomo che senta Iddio, e perciò rispetto alle cose divine, che sole possono adempire l' idea, questa si riman vota ed impotente. Acciocchè l' opera della creazione acquistasse tutta la sua possibile perfezione, era uopo che nell' essere umano, fornito d' intelligenza per mezzo dell' idea, fosse aggiunto graziosamente un sentimento, il quale s' estendesse altrettanto, quanto l' idea; e come questa si stende al finito ugualmente e all' infinito, ella non poteva essere pienamente soccorsa, e quasi direi, contrabilanciata, se non da un sentimento di pari ampiezza. Ma non poteva Iddio esser contato fra gli enti della natura, di cui egli è il Creatore, e perciò egli rimane sempre distinto da essa, che ha per condizione il limite per la sua qualità di creata. Non potea dunque la natura dell' uomo avere un sentimento di Dio: ma neppure potea rimanere imperfetta l' opera di Dio. Quello dunque che non è racchiuso nella natura, nè alla natura è dovuto, Iddio l' aggiunse all' opera sua mosso unicamente dalla sua propria liberalità e infinita santità. La rivelazione fa conoscere, che Iddio costituì i primi padri del genere umano in istato soprannaturale di grazia. Se non si sapesse che questa rivelazione è vera, quanta sapienza si dovrebbe pure scorgere in essa! quant' armonia e convenienza colle divine perfezioni! Chi avrebbe potuto inventare, una notizia così profondamente ragionevole, così filosofica, che pur fu data agli uomini prima che filosofassero, prima che la scienza fosse trovata! Or poi ancora in questo tardo secolo, che si dice civile e filosofico, v' hanno di quelli, che non sono ancora arrivati ad intendere come sia stato conveniente, e conformissimo ai divini attributi, che il Creatore aggiungesse al natural lume, un altro lume soprannaturale, di quelli che ancora non comprendono come il primo non basti a tutti, perchè non vedono il rapporto tra l' idea e il naturale sentimento, e la sproporzione e insufficienza di questo a quella. E se nè pure adesso, colla natural sapienza, gli uomini giungono a tanto, chi mai in secoli meno colti avrebbe potuto inventare quella rivelazione? Troppo più ci voleva che l' umano ingegno. Ma chi o vede da sè, o gli è fatta vedere quella sproporzione che dicevamo, ben intende, siccome l' uomo, quest' opera sublime dell' essere perfettissimo, se Iddio l' avesse lasciato privo d' un senso soprannaturale, sarebbe riuscito, quasi direi, simile ad un figliuolo nato con una gamba assai lunga, e l' altra corta. La natura umana non aveva di più, non c' era di più nell' essenza di questa natura. Ma questo, che bastava alla natura umana, non bastava a colui, di cui è scritto: « « Tu facesti tutte le cose nella sapienza »(1). » E` dunque la natura dell' uomo quella che, non sapendolo e non pensandoci l' umano individuo, quasi direi, chiede per grazia il soprannaturale, come l' indigente dimanda colla sua sola indigenza: è la ragione, che, avendo un lume, questo le vale a conoscere la mancanza di qualche altro lume che le completi quel primo (benchè non sappia dire a se stessa che cosa quest' altro lume sarà), è il cuore umano che esige di possedere tanto di realità, quanta ne concepisce, e, avendo l' idea, ne concepisce un' infinità confusa, e si slancia nel v“to, con isforzo d' infrangere i termini della natura che gli sembrano angusti. Colui che così fece la natura umana, ne conoscea il voto misterioso, e inesplicabile a lei stessa, già fin da quando l' ebbe formata, e le spiegò egli stesso quel voto, e vi soddisfece: nè permise che l' avversario di questa natura che volea distruggerla, lusingandone l' amor proprio col persuaderla, che potea divenire simile a Dio da se stessa, rendesse inutile l' opera del Creatore. Permise sì che cadesse; ma caduta per la disubbidienza, spogliatasi colle sue mani de' soprannaturali ornamenti, resa di questi incapace ed indegna, vulnerata in tutte le sue potenze, egli la ristorò, e la ripose in una condizione assai più magnifica, e più sublime di prima. E questa fu l' opera non del primo lume della ragion naturale, non dell' idea, ma dell' altro primo lume della ragione soprannaturale, fu l' opera del VERBO di Dio. Quel maestro, che Platone desiderava venisse sopra la terra, per isvelare agli uomini le cose più necessarie e per arrecarne loro la certezza; quel maestro, Iddio, che è ad un tempo lume, oggetto unico ed essenziale dello scibile, persona, Verbo divino, si fece carne ed apparve in mezzo degli uomini, vero uomo anch' egli senza cessare d' esser vero Dio: GESU` Cristo ebbe nome, Salvatore, Unto di Dio. Egli insegnò a conoscere il Padre, avendo detto a chi prestava a lui fede: « « Niuno mai vide Iddio, l' Unigenito che è nel seno del Padre, egli l' enarrò »(1). » E ancora ad uno de' suoi discepoli: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre »(2). » Ancora, mandò lo Spirito della verità, secondo quello che avea promesso: « « E quando sarà venuto quello Spirito della verità, egli v' insegnerà ogni verità, poichè non parlerà da se stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà e vi annunzierà le cose avvenire. Egli mi chiarificherà, perocchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi »(3). » Così l' Iddio Uno e Trino fu disvelato agli uomini: il Maestro svelò se stesso, e compì lo scibile nell' umanità. La natura e la scienza aveano incamminato l' uomo all' essere infinito per una triplice via, ma così lunga, che per viaggiare che egli facesse non potea fornirla: si trovò improvvisamente trasportato a quel punto infinitamente distante, a cui implicitamente voleva andare: si trovò in quell' essere infinito che cercava: si trovò quivi per miracolo, non in virtù d' alcun suo ragionamento, ma in virtù della fede. Ei credette quell' Essere [...OMISSIS...] Credette lui ed in lui, ed a lui: e tutto ciò, senz' ancora avvertire qual relazione s' avesse il punto elevato in cui egli già era, colla triplice via per la quale s' era messo col suo ragionamento; ma di poi, lo stesso ragionamento si ripiegò sulla fede, e riconobbe che quel termine, che andava cercando, a cui le tre vie dell' intelligenza convergevano, quel punto unico per infinita distanza inarrivabile, era quello appunto in cui la fede, quasi di sbalzo, l' avea collocato. Per verità l' essere si fa presente all' uomo in una triplice forma, come reale , come idea , come virtù . Ciascuna di queste forme siccome in suo ultimo termine d' attuazione, si riduce nell' infinito essere. L' uomo quasi in un cotal sogno divino, cerca la realità infinita , che non trova in natura; ma ben intende, che se una realità fosse veramente infinita, con tutte le sue condizioni, ella dovrebbe essere lo stesso essere infinito; cerca uno scibile infinito , che nell' idea non ha se non in potenza, ma ancora intende del pari, che se un oggetto per se intelligibile fosse veramente ed attualmente infinito, con tutte le sue condizioni, di nuovo, non potrebbe esser altro che l' essere infinito; cerca finalmente quell' infinito amore , che in lui non è che una capacità d' amare delusa sempre, sempre tradita dalle lusinghe e dall' infedeltà di tutte le cose naturali; ma finalmente, a mente sana, vede quello non esser possibile, se non v' abbia un reale infinito, infinitamente conosciuto, che ne sia l' oggetto amabilissimo, ed intende, che un tale termine dell' amore qualora ci fosse, non potrebbe essere ancora che l' essere stesso infinito, che tutto l' essere, tutto il bene. Ciascuna delle tre forme conduce il pensiero allo stesso termine, all' identico essere infinito. E queste tre vie erano indicate dalle tre summentovate parti della filosofia. Platone sembra aver veduto, che ciascuna di esse dovea terminare in Dio, nel quale riconosceva la « « causa del sussistere delle cose, la ragion dell' intendere, l' ordine del vivere »(1). » Ma chi gliene dava l' accerto? O chi prestava fede alla parola vacillante d' un uomo, che confessava d' aspettar un maestro divino, il quale gli rivelasse di tai cose la verità? E chi, anche credendo o intendendo l' alto concetto di Platone, poteva appagarsi d' un bene di cui gli si rendeva ad un tempo e nota l' esistenza e sentita la privazione? Poichè quello non era più che un modo negativo e indicativo di conoscere Iddio, non un conoscerlo colla percezione, col sentimento, colla fruizione. E poi, sciolto un nodo, un altro ancora più difficile ne usciva: « Se quelle tre cose sono tanto differenti, come si riducono ad una? e se si riducono ad una, come appaiono tanto differenti? »La dottrina dunque della TRINITA`, la dottrina cioè dell' essere uno e trino profondamente, interamente scioglie quel problema dallo spirito umano sempre proposto come un enimma a se stesso, vinto non mai: comunica all' uomo la dottrina dell' essere in tutte le sue forme. La dottrina dunque dell' augustissimo de' misteri discende dal cielo come una cupola d' oro che si colloca in sull' edificio dello scibile naturale, il quale senz' essa resterebbesi discoperto e patente alle piogge ed ai venti, e l' uomo, anche il filosofo, sarebbe condannato a vivere mal pago di sè, siccome colui che cerca continuo quello che non trova giammai. Ecco il soprannaturale della scienza necessario altrettanto che il soprannaturale della vita . Come l' umana vita non è perpetua e felice, ma divien tale in virtù d' un dono soprannaturale, così la scienza umana non è finita ed assoluta, ma divien tale in grazia anch' essa d' un' illustrazione, d' una credenza soprannaturale. Abbiamo detto, che la sapienza ha per sua base una cognizione della verità. Dunque una cognizione nuova della verità porge la base ad una nuova sapienza, una cognizione maggiore ad una sapienza maggiore. La cognizione naturale, qualunque sia la sua forma, rimane imperfetta, unita colla soprannaturale riceve perfezione. Dunque la sapienza umana non può che riuscire imperfetta, un abozzo, una ricerca di sapienza come gli stessi filosofi confessarono (tra i quali il fondatore della scuola italica rifiutò quasi arrogantissimo il nome di sapiente, chiamandosi studioso della sapienza (1)): solo colla cognizione soprannaturale è stato posto il fondamento d' una sapienza nuova, perfetta, che non cerca la verità, ma la possiede e la gode. Veniamo al secondo e formale elemento della sapienza; il quale risiede nella volontà, quando questa, con tutte le sue forze, si volge, assente, aderisce, si conforma, e conforma tutte le potenze, su cui ha impero, alla verità conosciuta, nel che sta il concetto della virtù. Allora l' uomo è virtuoso e bene ordinato, quando distribuisce il suo volontario affetto e l' attività che ne deriva secondo l' ordine oggettivo degli enti, o, come dice S. Agostino: « Haec est perfecta iustitia quae potius potiora, minus minora diligimus (2). » Ora coll' ordine oggettivo , che è la verità, viene talora in contrasto l' ordine soggettivo e limitato della natura umana: in questa collisione l' uomo non può conservarsi giusto senza sacrificio: deve sacrificare ciò che è, o che pare il suo proprio bene all' ordine assoluto, buono e venerando in se medesimo, senza alcuna relazione precisamente soggettiva. Ma se noi esploriamo l' uomo racchiuso dentro i confini della natura, vediamo che l' ordine oggettivo nella sua integrità gli è presente nell' idea; ma non gli è dato nella realità. Chè della realità l' uomo della natura, non percepisce, come dicemmo di sopra, che una parte, la realità finita del Mondo (e neppur tutta, nè pur la maggior parte di questo), laddove nell' idea egli intuisce tutto l' essere ideale. Questo squilibrio fra l' ideale e il reale che rende incompleta la scienza, è quello altresì, che rende impossibile all' uomo la perfetta virtù. Poichè se d' una parte l' idea gli mostra l' ordine intero, universale, assoluto, come una necessità morale, onde non può dissentire senza rendersi ingiusto e colpevole, dall' altra non gli dà la forza operativa, colla quale effettivamente compirlo. Donde mai viene all' uomo la forza? Questa appartiene all' ordine delle cose reali, non a quello delle ideali: alla realità appartiene il fare, all' idealità solamente il mostrare come si convenga fare. Dunque è uopo, che l' uomo trovi la forza in se stesso, o nelle realità esteriori; in una parola in quella sfera di cose reali, che a lui è conceduta. Ma questa sfera di realità è limitatissima, da essa trovasi esclusa la realità infinita, e la maggior parte delle realità finite. La forza dunque, che può attignere l' uomo dalle entità reali a lui concedute per natura, non è proporzionata alla grandezza dell' ordine ideale, che gli sta davanti come legge inesorabile. Che anzi le cose finite percepite dall' uomo, cospirano talora, come dicevamo, contro quella legge, e invece d' aiutarlo a compirla, il tentano a violarla; appunto perchè l' ordine finito che esse presentano, riesce diverso, e perciò assai spesso contrario all' ordine infinito dell' idea. Per sopperire in qualche modo a questa deplorabile mancanza di forze reali, che rendono l' uomo deficiente a realizzare il grand' ordine morale, a cui esser chiamato forma l' alta sua dignità, che cosa fecero i filosofi più eccellenti? Perocchè non parlo di quelli, i quali disperati di poter mettere un accordo fra l' ordine reale e l' ideale, nè volendo, nè potendo rinunziare al primo, cancellarono il secondo, e decretarono che l' uomo si dovesse contentare d' esser materia o senso, e così contro la sua natura s' abbandonasse tranquillamente al piacere dell' oggi, stimolandovi se stesso col pensiero della morte dell' indomani. Non ragionando dunque di questi, domandavamo, come i filosofi più eccellenti s' ingegnassero d' aiutar l' uomo a trovar quelle forze, che a lui negava la natura reale, e che pur gli bisognavano per adempire alla legge dell' ordine ideale. Veramente questi savŒ amatori del bene fecero tutto ciò che potevano fare: accorti che l' uomo domandava in vano la forza morale, di cui abbisognava, a quella porzione d' essere reale, che gli era conceduta, e che questa in vece di somministrargli forze pel bene entrava spesso in contrasto coll' ordine oggettivo, ed accresceva le forze del limitato e cieco istinto soggettivo; s' industriarono d' allontanar l' uomo dalle stesse cose reali e di concentrarlo nell' idea: e questa essi celebrarono come cosa d' infinita bellezza, ed esortarono con tutta la loro eloquenza gli uomini a restringersi nella contemplazione di sì divino lume, e a contentarsi della maravigliosa sua vista, e chiamarsene felici. Acciocchè poi l' uomo non s' impaurisse dell' alto precetto, e non gli paresse, che in vece d' accrescergli le forze per adempire al dovere gli s' imponesse un dovere ancor maggiore; que' filosofi magnificarono le forze dell' umano arbitrio (di cui, con poca coerenza a dir vero, aveano prima temuta la debolezza, e promesso di rinfrancarla) asserendo, che niuna delle altre cose era in potere dell' uomo, ma quella virtù che essi gli prescrivevano, sì: Gli esseri, e i beni reali dunque, onde solo può venire la forza efficacemente pratica al soggetto umano, furono da' migliori filosofi giudicati insufficienti a dare all' uomo quel vigore morale che gli bisognava, anzi reputati causa della morale sua debolezza e degli ostacoli alla virtù; e non restò loro altro scampo, che di chiedere a quella stessa idea, che imponeva il dovere, anche la forza d' adempirlo. Socrate nel «Fedone » di Platone si dilunga a provare la necessità, che ha l' uomo che ama e cerca la sapienza, di ritirarsi del tutto dal reale sensibile , e ricoverarsi nelle idee , come in porto di salvezza, cioè di dividersi coll' astrazione filosofica dal corpo e dalle cose corporee, aspettando il felice momento d' esserne al tutto diviso colla morte. [...OMISSIS...] Tanto era il timore, che le menti più grandi, prive della luce cristiana, prendevano della sinistra influenza che esercitava sull' uomo quella porzione di ente reale, che alla sua percezione è conceduta dalla natura; chè non solo da essa non aspettavano aiuto alcuno all' esercizio della virtù ed all' acquisto della sapienza; ma fino che una tale porzione di ente reale non fosse sottratta all' uomo interamente colla morte, trovavano impossibile per lui l' acquistare quella sapienza che pur tanto desiderava; e quest' era la sapienza naturale , chè altra non ne conoscevano. Laonde lasciavano all' uomo in questa vita la sola speranza d' avvicinarvisi, e questa speranza, a qual condizione? A quella di rinunziare alla realità, quasi avvelenata, di comunicare il meno possibile, e soltanto per estrema necessità, con essa, cercando nelle sole idee un rifugio, un' abitazione segreta, dove vivere occulto, alienato e quasi già morto. E pure quest' era lo sforzo più ammirabile della ragione umana! Essa non poteva salire più in su nè poteva dir cosa nè più vera, nè più ardua; era l' unica soluzione possibile del gran problema. Certo le idee sono cose divine, il solo elemento divino che si rinvenga nella natura, quand' anco si percorra, cercando palmo a palmo, tutto l' universo: e le cose divine non si lasciano posporre a nulla, anzi nulla è ad esse comparabile, tutto vale per esse, tutto diventa spregevole ciò che è contrario ad esse. Questo legge l' intendimento nelle idee, ammira in esse l' autorità, ne contempla l' incomparabil bellezza. E che non hanno osato, che non hanno sofferto alcuni amatori delle idee? Lo abbiamo di sopra avvertito. Archimede non sente l' entrata de' Romani in Siracusa e dà l' esempio di quella forza della mente, che si toglie momentaneamente a tutte le cose presenti ai sensi: i viaggi e la povertà d' Anacarsi; le veglie e le fatiche di Aristotile (1); la dimenticanza del cibo di Carneade (2); le privazioni, le sofferenze di tant' altri, se provano che l' amore al sapere può acquistare al pari d' ogni altra passione una forza presso che infinita nell' uomo, non provano tuttavia che l' uomo abbia mai trovato una piena soddisfazione nè nell' altre ignobili, nè in questa passione del sapere nobilissima. Non può l' uomo mantenersi del continuo attuato nella contemplazione della mente: anzi quanto breve non è il tempo in cui egli valga a sostenersi così assorto? Quanto pochi poi sono coloro che vogliono o possono, postergate le cose sensibili, vivere innamorati unicamente delle idee impalpabili, e quasi in esse sospesi; od abbiano l' agio di cercare e di coltivare questo faticoso diletto della mente? Ed anche questi pochissimi, che con lodevole sforzo s' innalzano alla regione delle idee pure, e vi si mantengono qualche istante per ricader poscia nella regione naturale e ordinaria della realità (3), consegue forse, che, perchè contemplano le idee, secondo quelle regolino e dispongano tutte le azioni reali di cui ordiscono la loro vita? La realità sensibile finita gli aspetta per dar loro battaglia: ella li lascia viaggiare liberamente al mondo ideale, sicura che non gli scappano per questo, e che, dopo una breve lontananza, fanno ad essa ritorno. Come un pescatore che ha preso all' amo un enorme pesce, gli allenta ed allunga il filo, sì che esso può alquanto allargarsi dentro le acque; ma poi più sicuramente sel tira a sè quando è sfinito dalla ferita e dalla fuga; così accade troppo sovente che adoperi coll' uomo la lusinga della sensibile realità; coll' uomo, dico, il quale già fino dal suo nascimento porta seco il seme e il fomite della concupiscenza. Pare a costui di salvarsi dalla seduzione del mondo quando gli riesce di sollevare da esso la propria mente colle più pure astrazioni, e ne vaneggia e ne insuperbisce: ma gli altri uomini intanto ricevono da lui medesimo autorevoli esempi di molte azioni viziose e riprovevoli, e dalle verità, da lui speculate, pare loro che egli non abbia riportato se non quell' orgoglio che lo fa peccare più arditamente. Aveva dunque ragione Platone di confessare che nella presente vita si concepisce bensì una naturale sapienza, ma non si consegue appieno giammai; onde voleva che gli uomini migliori l' aspettassero dopo la morte. E gli stoici stessi, che cotanto esagerarono le forze del libero arbitrio, dubitarono poi o negarono al tutto, che fra gli uomini in alcun luogo, o in alcun tempo, si rinvenisse quel sapiente, che essi concepivano, e magnificamente descrivevano (1). La naturale filosofia rimane dunque convinta e confessa della sua impotenza a rendere l' uomo sapiente, anche di quella sola sapienza, che nel lume della natura si scorge ideata. Iddio maestro degli uomini fece l' una e l' altra cosa ad un tempo, cioè ampliò senza fine il concetto della sapienza, e diede agli uomini il vigore di attuarlo in se medesimi. Onde a buona ragione un Padre della Chiesa osserva, che quelli che furono aiutati dalla fede, poterono fare coll' opera assai più, che non potessero concepire e desiderare i filosofi, o insegnare colle parole (2). E questo, Iddio lo fece col produrre quell' equilibrio che manca nella natura dell' uomo, fra l' idea, e la realità. Perocchè abbiamo detto, che l' idea spazia all' infinito, dando a vedere l' essere universale, e così ancora indicando qual sia l' ordine compiuto dell' essere, al quale deve congiungersi la volontà potenza, che di natura sua segue quella dell' intelletto; e che all' incontro la realità naturale non porge all' uomo che una cotal briciola dell' essere stesso, dove non si trova più l' ordine compiuto ed assoluto, mostrato dall' idea, ma un ordine angusto, quale può racchiudersi in una così piccola parte dell' essere; abbiamo detto ancora che, essendo l' uomo un ente reale, non può esser mosso ad operare che da un reale, quindi non dall' idea, ma o dalla propria sua intima attività e da' suoi proprŒ istinti, o dall' eccitamento del reale esteriore; e che colla forza che ha in sè dell' arbitrio, può, fino a certo termine, attuare la sua mente nell' idea e invaghirsene, ma per breve tempo può stare così attuato, lasciando inerti l' altre potenze, e per uno sforzo difficile, quasi contro natura e di pochissimi; onde tantosto l' altre potenze inferiori rientrano in azione, e vi rientrano spesso irritate dallo stesso ozio in cui giacquero e quasi vogliose di ricattarsene, e allora il reale sensibile pare divenuto più acre stimolatore al disordine che prima non fosse. Se dunque potesse avvenire, che come l' uomo intuisce tutto l' essere ideale in un modo implicito e semplice, il quale in appresso si può esplicare indefinitamente, così pure gli fosse dato a percepire immediatamente tutto l' essere reale in un modo del pari implicito e semplice, atto poi ad esser pure esplicato e svolto all' indefinito, chiaro è che quella grande, immensa esigenza dell' idea, che impone il dovere morale, troverebbe nell' uomo un suo corrispondente, cioè troverebbe un fonte di potenza ugualmente grande ed immensa, idonea ad eseguire l' imposto dovere. Perocchè se ciò avesse luogo, tutte le realità finite si conoscerebbero, o potrebbero conoscersi e considerarsi come parti, ed anzi minime ed evanescenti particelle di tutto l' essere reale, nel quale, come gocce nel mare, si perdono, e allora nel reale dall' uomo posseduto vi avrebbe quell' identico ordine, che nell' idea; e quest' ordine reale darebbe all' uomo eccitamento e valore sufficiente a compiere quell' ideale coll' efficacia della volontà: fra i due ordini, l' ideale e il reale, non sarebbe più alcuna discrepanza, alcuno invincibile contrasto, ma l' uno chiamerebbe l' altro, l' uno coll' altro, quasi direi, si combacierebbe; e la volontà non più divisa infra due che la si contendono, potrebbe darsi tutta con un solo atto ad entrambi, i quali s' unificano nell' identità dell' essere , e quindi la giustizia perfetta, e la sapienza nella pace. Ora il Vangelo è stato pubblicato per far sapere agli uomini, che questa che noi indichiamo, non è una supposizione, non è quello che sarebbe stato solamente desiderabile che Dio facesse, nè tampoco quello, che, essendo conformissimo a' divini attributi, è presumibile che Dio abbia fatto; ma per far loro sapere, che è quello, che Iddio Creatore ed ottimo provvisore del genere umano ha positivamente fatto, e quello che il Vangelo fa in tutti coloro che liberamente lo ricevono: « « E diede loro la potestà di divenire figliuoli di Dio »(1). » Perocchè il Verbo « « è il carattere della sostanza del Padre »(2); » vale a dire è quello pel quale Iddio si rende percettibile, tale essendo la forza della parola greca carattere . Insegnò dunque il Cristianesimo, che il Verbo carattere o faccia di Dio, come vien anco sovente chiamato nelle scritture, s' imprime nelle anime di quelli, che colla fede ricevono il Battesimo di Cristo, a cui volgendosi la volontà e aderendovi, rimane e santificata e giustificata. Onde all' uomo, nel quale è impresso il Verbo e però n' ha la percezione, è con ciò comunicato l' essere nella sua realità totale ed infinita, quantunque in un modo implicito e semplicissimo; come ancor piccolo, ma fertilissimo seme consegnato all' anima da coltivare e da svolgere colla propria sua attività e cooperazione. E così l' uomo non solo ha la completa cognizione, ma ben anco la virtù necessaria per conformare se stesso alla medesima; e quindi non gli mancano più i due elementi della perfetta sapienza. Laonde coerentemente a questa sublime dottrina si trova scritto ne' libri divini: «FONS SAPIENTIAE, VERBUM DEI IN EXCELSIS (1) ». Vero è che nella vita presente, essendo data all' uomo questa realità totale assoluta ed infinita in un modo così implicito e potenziale, ed all' incontro la realità finita del mondo operando sull' uomo in un modo esplicito ed attuale; questa riceve dal modo d' agire un' efficienza maggiore di quella; onde rimane all' uomo la necessità di lottare contro le angustie e le limitazioni della realità finita, che vorrebbe captivarlo esclusivamente a se stessa, impedendolo di darsi al tutto: ma allora il contrasto e la lotta non è più immediatamente fra la realità e l' idea, ma fra la realità finita e la realità infinita, quella premendo l' uomo con un' urgenza maggiore, e questa avvalorandolo e allettandolo a sè con una maggiore dignità e grandezza. Nè senza ragione colui che provvede dall' alto al maggior vantaggio degli uomini, lasciò loro questa difficoltà da superare, acciocchè la virtù e la sapienza sieno un acquisto de' loro generosi sforzi, e non cosa apposta loro, senza loro consenso e cooperazione; consistendo appunto in questo l' apice dell' eccellenza e della gloria dell' uomo, l' essere egli medesimo, in quel modo che può essere, l' autore della propria sapienza e della propria virtù. Iddio dunque rese questo all' uomo, seco congiunto, possibile: lasciò poi a quest' uomo il dovere di ridurre all' atto quella potenza che gli ebbe conferita. Chè la percezione di quella realità infinita, cioè del Verbo divino, può ridursi per la grazia che ne emana; ad un' attualità sempre maggiore, esplicarsi senza misura, e prestare all' uomo tutta la forza morale che gli bisogna, anzi una forza senza alcun paragone superiore a tutto il dolore, a tutto il piacere, con cui la realità finita, ma vivace dell' universo, tenta sedurlo. E tutto ciò è posto in pienissimo potere dell' uomo unito a Dio e assistito da Dio: onde l' apostolo: « « Io posso tutto in quello che mi conforta »(2). » E di questa stessa assistenza di Dio una nuova e profonda dottrina ci recò il Cristianesimo non mai veduta, nè potuta vedere dai filosofi, e tuttavia così consentanea alla natura di Dio ad un tempo e a quella dell' uomo, così coerente a tutte le verità razionali e rivelate, che la ragione stessa non può a meno di approvarla, maravigliata che le sia dato quasi del suo, e pur tale che in se stessa non l' aveva, nè l' avrebbe mai scorto. Poichè, secondo la dottrina di Cristo, quando il Verbo è congiunto coll' uomo, egli vi emette il suo spirito, che santificando la volontà, qualora l' uomo stesso che rimane libero, non vi si opponga, santifica l' uomo. Questa è la prima santificazione, e chiede e rende possibile dopo di sè la cooperazione umana. E` santità , ma non si può ancora dire sapienza ; chè l' uso di questa parola pare riservato a significare un acquisto fatto dall' uomo col suo positivo e manifesto concorso; ma in quella santità sta la sapienza come nel germe. D' allora Iddio e l' uomo operano sempre insieme, qualora l' uomo non isfugga liberamente da così fortunata società. Iddio ha istituito de' mezzi positivi ed esterni che furono denominati sacramenti , ai quali è unita una grazia determinata. L' uomo anch' egli ha la facoltà di porre molti atti di virtù, e, fra questi, quelli del culto interiore ed esteriore, ai quali tutti risponde il frutto d' un accrescimento di grazia interiore. Nell' esercizio di tutta questa attività, in tutto questo lavoro di operazioni divine ed umane, s' aumenta continuamente nell' uomo la comunicazione dello Spirito del Verbo, che è lo spirito della santità e della perfezione. La parola spirito viene acconcissima ad esprimere non solo l' impellente, ma anche l' impulso e quell' istinto operativo d' una natura dotata d' intelletto, quand' ella prende l' impeto del suo operare dalla vivacità e dalla realità della luce che illustra il fondo della sua intelligenza. Nel caso nostro, questa luce è il Verbo, che nell' essenza intellettiva dell' anima dimora, e investe la volontà col suo Spirito, senza bisogno di passare pel mezzo d' alcuna riflessione. Ora questo Spirito del Verbo, abbiamo detto che è anch' egli l' Essere come il Verbo, ma l' Essere sotto un' altra forma, sotto la forma di essere amabile e per sè amato , quindi per se operativo e perfettivo: ha dunque per sua dimora la volontà e per suo effetto e condizione nell' uomo l' azione santa più o meno esplicata. E di più, è rivelato, che egli ha una sussistenza personale , che non si confonde colle altre due persone, onde questa terza procede. I due elementi dunque della sapienza , che abbiamo detto essere cognizione e virtù , quando dall' ordine naturale si trasportano nell' ordine soprannaturale, s' avverano e realizzano in modo così sublime, che l' uno e l' altro si trovano consistere in un cotal contatto e commercio di Dio medesimo: tien luogo della cognizione, il Verbo percepito; tien luogo della virtù lo Spirito Santo vivente ed operante nell' anima umana (1); onde della sapienza, di cui la virtù , come abbiamo detto, è la parte formale, sta scritto: « « Egli stesso » (il Creatore) «la creò nello Spirito Santo »(2); » ed è questo Spirito che combatte a favore dell' uomo e nell' uomo e coll' uomo contro la carne, cioè contro quella porzione di realità finita, che colla sua esclusività minaccia di perturbar l' ordine della realità intera ed infinita (3). Ora lo Spirito divino si esplica nell' uomo co' suoi effetti e doni, ed accompagna l' esplicazione della cognizione, ossia del lume soprannaturale, che ne' battezzati è il divin Verbo. Secondo le quali esplicazioni, i giusti nella Chiesa si dividono in quattro classi. Poichè v' hanno gli uomini manuali ed illetterati, i quali dalla riverenza e dal timore di Dio di cui, per un' intima cognizione, temono e riveriscono la maestà, sono guidati e conservati lontani dal male, e questa prima maniera di sapienza vale più d' ogni scienza di coloro che non ne traggono il frutto dell' onesta vita: onde leggiamo: « « E` migliore quell' uomo che sa meno, ed è men sensato, nel timore (di Dio), di colui che abbonda di senno, e trasgredisce la legge dell' Altissimo »(4). » In costoro non v' ha una cognizione teoretica consapevole e separata dalla pratica, v' ha una sola cognizione, luce ad un tempo ed istinto morale, e, quasi direi, v' ha solo l' arte di fare il bene. Ma quando alcuno di essi, coll' uso della riflessione, s' applica alle lettere, la teoria allora si separa, e comparisce una scienza ideale, che si distingue dalla pietà : quella è pura speculazione, questa azione: e benchè questa pietà derivi da quella scienza e ne riceva la norma, tuttavia non è la scienza che sia la prossima causa dell' azione, ma questa si appoggia immediatamente ad un pratico riconoscimento della verità nella scienza conosciuta. I quali uomini di scienza e di pietà formano una seconda classe di giusti, con una maniera di sapienza più esplicata che non era quella de' primi. Non basta però essere uomo scienziato e pio ad avere la prudenza nel governare spiritualmente gli uomini, ed a compire a loro vantaggio magnanime imprese. Per arrivare a questo più alto grado si esige una perspicacia di consiglio ed un ardire di fortezza : consiglio che consiste nella celerità e nella sicurezza della mente, colla quale si trovano le regole di giudicare ed ordinare le cose (1), e gli spedienti migliori per arrivare al fine, ne' quali spedienti tutte le innumerevoli circostanze di fatto sfuggenti alla vista comune sono già poste nel calcolo e comprese nella risoluzione: fortezza, che giace in una cotal disposizione, per la quale l' uomo si sente maggiore degli impedimenti, non li teme, confida di dominarli coll' altezza del pensiero santo, colla costanza dell' animo, soprattutto colla fiducia in colui che è l' arbitro di tutti i fatti onde colui è mosso ad operare, e onde ripete e il pensiero e la costanza. A questa terza classe di giusti, ne' quali risplende una maniera di sapienza via più esplicata ancora che nelle due precedenti (2), si continua la quarta, che si compone di que' rarissimi, i quali, sollevati su tutte le cose finite, vivono affissati nell' infinità di Dio: e in questa contemplazione della mente riflessamente comunicano con esso Dio, e in lui rifondono se stessi, e le cose dell' universo, e Iddio in essi e per essi nelle cose dell' universo si rifonde; ed indi derivano altresì per la via dell' astrazione, una scienza ideale altissima e nobilissima delle cose divine, ai quali appartiene la più perfetta maniera di sapienza , e alla scienza che ne estraggono, fu riserbato il nome d' intelletto . V' ha qualche cosa di analogo a queste quattro classi di sapienti anche nell' ordine naturale, e non senza ragione, anzi mostrando grande elevatezza d' intendimento, Platone (1), seguito poi nella sostanza da Aristotile (2), volle che cogitazione si chiamasse la scienza delle verità matematiche e delle altre somiglianti, che si deducono, ragionando, da certe supposizioni, ma intelletto la notizia del principio dell' universo, che non si suppone, ma è assolutamente, nel quale hanno il loro essere oggettivo tutte le cose. Tutte queste diverse maniere di Sapienza sono compartite agli uomini da uno stesso ed unico spirito, lo spirito del Verbo. Il qual verbo, essendo l' archetipo eterno dell' infinita sapienza, anzi la sapienza oggettiva ad un tempo e personale, Iddio volle che gli uomini in esso, come in uno individuo della propria specie, vedessero e toccassero, per così dire, sensibilmente l' ideale realizzato di quella sapienza, di cui è capevole l' umanità. Così soddisfece Iddio alla convenienza di aggiungere all' umana natura quel di più che non le poteva appartenere, perchè increato, e di cui tuttavia abbisognava, se doveva raggiungere compiutamente il fine di quella sapienza e di quella soddisfazione che gl' indicava l' idea. Coll' incarnazione del Verbo dunque fu soverchiato il desiderio dell' umana natura, a cui non si poteva affacciare pure il pensiero di tanto mistero: e se era da presumersi che il Creatore dell' uomo avrebbe riempiuto il v“to che restava nella sua idea, cui non empiva il finito; il fatto non solo avverò quella presunzione; ma alla comparsa dell' Uomo7Dio, l' idea stessa divenne la misura buona e pigiata e scossa e traboccante, di cui parla il Vangelo (1). Su quell' uomo dunque, di cui Dio stesso volle costituire la personalità, dovea « « riposare lo spirito del Signore, lo spirito della sapienza e dell' intelletto; lo spirito del consiglio e della fortezza, lo spirito della scienza e della pietà; e riempirlo, lo spirito del timore del Signore »(1). » Nelle quali parole pronunciate più di sette secoli prima della venuta di GESU` Cristo, l' espressione che lo Spirito del Signore si sarebbe riposato in su quell' uomo, trova la sua naturale ragione e compiuta spiegazione nell' unione ipostatica. Chè se il Verbo è la persona divina del Cristo, come il Verbo è divenuto indivisibile dall' assunta umanità, così lo Spirito del Verbo dovea in questa riposare con pienezza; non potendo esso andare e venire, aumentare i doni o diminuirli, siccome è concepibile che avvenga negli altri uomini, i quali rimangono persone umane, o sieno o no congiunte al Verbo, partecipino o no del suo Spirito. E come negli altri uomini, a cui la comunicazione del Verbo è la diffusione dello Spirito, si trova una scala di doni e di perfezioni; la quale principia col timore di Dio, chiamato nelle scritture l' inizio della Sapienza (2), chiamato anche sapienza, perchè n' è la prima maniera (3), e ascende alla scienza e alla pietà, poi al consiglio ed alla fortezza, e finalmente alla sapienza e all' intelletto; così in Cristo (parola che si riferisce appunto all' unzione dello Spirito Santo (4)), in cui tutti questi doni, divisi fra gli uomini, trovavansi uniti, tenevano un ordine logico inverso; per modo che si concepisce in lui prima la più perfetta ed ultimata sapienza, e da questa poi derivarsi l' intelletto, mediante la facoltà della mente umana di Cristo d' intuire in quella sapienza, a sua volontà, l' ordine delle essenze e delle idee; dalla sapienza poi e dall' intelletto derivarsi il consiglio e la fortezza, mediante la facoltà, che aveva pure l' anima di Cristo, di applicare la sapienza e l' intelletto agli ufficŒ del giudicare, dell' ordinare, del governare e dell' operare magnanimamente: da questi quattro doni poi scaturire la scienza e la pietà mediante la facoltà di conoscere le cose generiche e le speciali, e di rivolgerle all' onore ed al culto di Dio; e finalmente risultare da tutte queste cose insieme quell' immenso timore riverenziale della umana natura di Cristo, che, così limitata così angusta, vedevasi accompagnata, empiuta, posseduta, assunta, in una parola, da un ospite di tanta maestà, che, come sua propria persona, la reggeva, la santificava, assolutamente ne disponeva. Tale è il sapiente di Dio! Di quanto non vince egli colla realità il sapiente ideale dell' uomo? Iddio solo poteva esser quello e fu quello che lo ideò ad un tempo, e lo realizzò, lo pose nel mondo sotto gli occhi degli uomini. Il sapiente di Dio fu la sapienza incarnata. A questo sapiente, ossia a questa sapienza incarnata, nove secoli prima che comparisse sulla terra, furono poste in bocca queste parole: [...OMISSIS...] Così Iddio, qual maestro degli uomini parlava alcuni secoli prima che nascesse Platone in Atene ad esprimere il desiderio d' un tal maestro, e a dimostrarne il bisogno in nome della natura umana. E questo maestro, quest' uomo in pari tempo Dio, questo archetipo vivente e palpabile del Savio « « in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza »(2), » quest' incarnata sapienza; questo giusto e santo sin dalla doppia sua eterna e temporale origine, per la stessa sua natura e condizione, da diciannove secoli occupa manifestamente il primo posto fra gli uomini, acquistatolsi, a un nuovo titolo, col merito del suo compiuto sacrifizio. Egli è di necessità il capo dell' umana natura, il principe dell' uman genere, e quantunque principe, servì all' uman genere, e gli ministrò, e ne vinse di più l' ingratitudine col lasciarsi levar la vita, la quale egli depose e riprese da se stesso, per salire appresso a Dio Padre ed essere colassù l' avvocato de' suoi nemici (1). Così l' umanità divisa e sparpagliata dalla morte, effetto del peccato, che la privò del suo padre secondo natura, fu ricondotta all' unità dal vincitore della morte, che le diede per padre il suo proprio unico Padre Iddio, e fu ricostituita sotto il governo d' uno, « « a cui fu data ogni potestà in cielo ed in terra »(2) »: fu riunita ad un capo di tanta eccellenza, a cui non poteva ascendere il suo pensiero, nè estendersi il suo desiderio. Nè questo pensiero, o questo desiderio poteva tampoco ideare o indovinare il modo d' un tale raggiungimento. Chè questo modo (una delle tante invenzioni di Dio a beneficio degli uomini (3)), non fu soltanto un' amicizia, una società, una soggezione, una beneficenza, qual può essere fra uomo ed uomo, di cui l' uomo si forma il concetto; ma di tutt' altra guisa, inescogitabile, divina: fu un raggiungimento di percezione, suggellandosi il Verbo nell' anima, un raggiungimento d' inabitazione, diffondendosi per entro ad essa lo spirito, un raggiungimento fisico per via dell' umanità di Cristo, che con mistero opera ne' sacramenti, e si copre ella stessa d' un sacramento nel cibo eucaristico. Onde gli uomini possono divenire, ove lo vogliano, vere e vive membra di questo corpo, di cui Cristo è capo: e questo capo potè dire colla più rigorosa verità: « « Io sono la vite, voi i tralci: chi si tiene in me ed io in lui, questi porta molto frutto »(4): » su' quali fondamenti, quasi su monti santi innalzò la sua Chiesa. Ma poichè Iddio rispetta la libertà degli uomini, e vuole da essi il consenso e l' accettazione de' suoi benefizŒ, che divengono quasi oggetto d' un contratto gratuito; perciò rimane a loro stessi la scelta fra il nobilissimo posto di figliuoli che è loro offerto nella sua famiglia divina, e la condizione di stranieri o l' ignobilissima di schiavi. La mente dunque (per ricapitolare in parte quello che abbiamo detto) d' ogni cosa o artistica o morale si compone, più o meno perfettamente, un concetto ideale di perfezione; ma poi niun' opera di arte umana compiutamente lo realizza, e quella è molto lodata, che gli s' avvicina. Onde la realizzazione d' ogni ideale rimane sempre per l' uomo un desiderio penoso perchè non è mai soddisfatto: nuova prova che l' idea stende in lui troppo maggior ala, che non la potenza. Ma l' ideale più di tutti all' uomo desiderabile è quello di se stesso, e l' arte massima , quella che intende a realizzarlo. Se non che l' uomo si trova più insufficiente a quest' arte, che a tutte l' altre. L' autore di lui soccorse alla sua creatura così bisognosa per causa della sua stessa grandezza. Tenendo ad esemplare di tutte l' opere sue un ideale senza pari più perfetto di quello che possa cadere in mente umana, non fallisce mai, che non lo adempia. L' uomo ideale è l' ideale sapiente : questo, concepito dagli stoici e da altri filosofi, da nessuno fu realizzato; e secondo la celebre interpretazione data da Socrate all' oracolo di Delfo, il sapientissimo dovea esser colui, che questa sola cosa sapeva, « di non sapere ». L' ideale del sapiente nella mente di Dio fu dunque sulla terra effettuazione. In un sapiente7tipo apparve il tipo dell' uomo. L' umanità trovò in GESU` Cristo l' ideale di se medesima, ma divinizzato, e quest' ideale sollevato alla divinizzazione, lo trovò reale. Il Verbo e lo Spirito Santo tennero luogo in questo sapiente de' due elementi della sapienza, la cognizione , e la virtù . D' amendue fu fatta comunicazione agli uomini. GESU` Cristo disse: « « Io a questo son nato » (come uomo) «e a questo sono venuto nel mondo » (come Dio nell' incarnazione) «di prestare testimonianza alla verità »(1); » e la verità era lo stesso Verbo divino che così favellava, avendo anche detto: « « Io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per me »(2). » Come uomo egli prestava testimonianza in faccia degli uomini, al Verbo divino: come Verbo incarnato, ancora gli rendeva testimonianza, perchè le parole esteriori, con cui ammaestrava gli uomini, si riferivano al lume interiore, e lo esplicavano, lo rendevano accessibile alla riflessione: era la voce del Verbo che suonava per render testimonianza al Verbo, il quale senza suono interiormente illuminava (1). Questo Verbo interiore, a cui dovevano essere riscontrate le voci e le parole esteriori dello stesso Verbo, era il paragone, la riprova di tali parole, che ciascuno, a cui fosse dato quel lume, portava in se medesimo: onde Cristo dopo aver detto d' esser venuto a rendere testimonianza alla verità, immediatamente avea soggiunto: « chiunque trae il suo essere dalla verità, ascolta la mia voce. » [...OMISSIS...] (2). Perocchè la percezione, sebbene imperfetta, del Verbo dà un essere nuovo e più sublime all' uomo, di cui ella è una seconda nascita, nella quale gli uomini « « non nascono dai sangui o dalla volontà della carne o dalla volontà dell' uomo, ma da Dio »(3) »; onde quelli che sono rinati a questa guisa « « hanno la potestà di rendersi figliuoli di Dio »(4) » ascoltando la voce di Cristo. Le parole esterne dunque di Cristo testimoniano del Verbo interiore, e il Verbo interiore , per sè luce dimostra e conferma la verità di quelle parole. E poichè il Verbo è mandato dal Padre per tutto dove è mandato, anche nell' anime, perciò anche il Padre, la cui sussistenza si percepisce nel Verbo, coll' aver mandato questo nel mondo e nelle anime, gli rende testimonianza; onde Cristo disse: « « Io sono, che » (esternamente predicando) «rendo testimonianza di me stesso » (che internamente dimoro nelle anime); «e rende testimonianza di me quegli che mi ha mandato, il Padre »(5). » Perchè « « non può il Figliuolo far cosa alcuna da sè, se non quello che vede fare al Padre »(6), » e però le opere esterne ed interne che io fo, non le fo solo, ma col Padre; il che esprime la perfetta corrispondenza ed unità di natura fra l' intelligibile divino ed il reale divino , a cui è analoga quella che concepisce e desidera la mente umana fra l' idea ed il reale: in quella perfetta corrispondenza di forme, e identità di essere, colloca Cristo la testimonianza pienamente soddisfacente, ch' egli rende alla verità (1). Ma una somigliante corrispondenza che Cristo ci chiama a considerare fra le due prime divine persone, in un modo assoluto ed universale; egli l' annunzia altresì in se medesimo entro l' ordine delle cose morali con quest' altre parole: « « Io sono la via, la verità, e la vita. » » Perocchè la via è la cognizione, l' idea, a cui si riduce ogni legge e comando: i doveri morali tracciano all' uomo la via, per la quale egli arriva al suo fine. Ora nel Verbo stanno tutte le idee, le leggi, le morali necessità: queste sono l' intelletto , che, come dicemmo di sopra, giace nella sapienza , e per la riflessione e per la limitazione che gli viene aggiunta, da quella si separa. La verità poi qui si prende per la realizzazione dell' idea morale o della legge, nel qual senso pure è detto, che « « per Mosè fu data la legge , - per GESU` Cristo è stata fatta la verità »(2) » cioè il pieno adempimento di quella. Poichè GESU` Cristo non essendo venuto a sciogliere la legge, ma ad adempirla (1), fece quello che non avean saputo far gli uomini, pareggiò e superò, colla santità delle sue operazioni, l' ideale della virtù, quale nella legge mosaica era stato delineato davanti agli occhi degli Ebrei, acciocchè il realizzassero. Così, rispetto all' ordine morale, si vide in Cristo restituito l' equilibrio fra l' idea, non l' idea mosaica, ma la sua propria; onde non disse: « la legge mosaica è la via », ma: « Io sono la via », e sono pure la verità delle operazioni a quell' idea pienamente corrispondenti. E quest' equilibrio videsi del pari restituito in tutti quelli che credettero in lui ed a lui, poichè, avendo questi in sè il VERBO IMMANENTE, secondo l' espressione dello stesso Cristo (2) si trasformano, per così dire, in altrettanti Cristi: chè il Verbo anche in essi è via , manifestando ciò che si deve operare, ed è verità , dando loro valore di operarlo. Ed è poi anche vita: poichè consistendo la vita nella produzione d' un sentimento sostanziale o nell' atto di un tal sentimento il Verbo, coll' emettere il suo Spirito, produce un sentimento efficace nell' anima, che innalza questa ad una vita deiforme, la quale le fa riconoscere lo stesso Verbo e fruirne, e poi, di sua natura eterna, cresce e si perfeziona nel tempo e si rivela in beatitudine nell' eternità. Non v' ebbe certo alcun altro maestro fra gli uomini che esercitasse un magistero di tal fatta: tutto quello che insegna il cristianesimo intorno ad esso, è degno di Dio, e talmente n' è degno, che la mente umana, qualunque ideale del sapiente studiasse di comporsi, non potea nè pur da lontano pensarlo: pure se alcuno l' avesse pensato o proposto, sarebbe parso una stravaganza, e non inteso: l' uomo non conosceva a sufficienza Dio e se stesso per potere immaginare ciò che conveniva all' uno in relazione coll' altro: ma quando GESU` Cristo esercitò quel magistero, gli uomini credettero il fatto prima d' averne veduta, e creduta la possibilità (3); era cosa più facile a credersi esistente che possibile. Quando si cangiano profondamente le cose e di conseguente si cangiano profondamente i pensieri degli uomini, e fin anco la maniera del pensare, allora gli stessi vocaboli ammettono nuovi usi, e nuovi significati: si cangiano le lingue, ed anche a questo alluse forse GESU` Cristo, quando promise, che i credenti avrebbero parlato « « nuove lingue »(1), » espressione che pare dire ancora di più, che le lingue diverse dalla propria. Così mentre noi, parlando fin qui secondo l' uso degli uomini, dicevamo che la verità teoreticamente conosciuta, è un elemento di quella qualunque naturale sapienza che è accessibile all' uomo: secondo la nuova lingua, dobbiam dire che quella verità non è più un elemento della sapienza soprannaturale, ma la via che vi conduce, riserbando la parola Verità ad un nuovo e più sublime significato, al significato dell' idea , se si può dir così, realizzata , pienamente compiuta, vivente, non più impersonale, ma una divina persona, nella quale tuttavia si conserva sempre il suo carattere di oggetto, d' intelligibile, in cui si fonda l' analogia che passa fra l' idea , e il Verbo divino . Quindi nella Sapienza di Dio comunicata agli uomini dallo stesso Dio, fatto maestro dell' umanità, non si può più separare il primo elemento, la verità, dal secondo, cioè dalla virtù, benchè si possa mentalmente distinguere; perchè, separato, cambia natura, non è più quel di prima, non è più elemento di quella sapienza; chè separata la verità dalla sua realizzazione, rimane l' idea, e ciò che appartiene alla sapienza soprannaturale dell' uomo non è l' idea, ma il Verbo divino, nel quale però colla sola mente si distingue la via dalla verità . Pure, quantunque questa nuova sapienza sia così una ed indivisibile, ella presenta un doppio aspetto, essendo nella sua unità perfettissima biforme (e potremmo eziandio dire triniforme, se il dichiarare come ciò s' intenda, non ci menasse a lungo, senza che la necessità del ragionamento lo esiga), perocchè, guardata da un lato, ella s' assolve tutta nel nuovo significato che ha ricevuto la parola verità; guardato poi dall' altro lato pure si assolve e comprende tutta sotto il significato della nuova parola carità . Così sono indivisibili ed une nell' essere e nella natura le due persone distinte del Verbo e del suo Spirito. Laonde se la Verità nel nuovo significato esprime Dio nella persona del Verbo, come disse il Verbo stesso; la nuova parola Carità esprime il medesimo Dio nella persona dello Spirito, come è scritto: « « Dio è carità, e chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui »(1) ». E la Verità e la Carità in questo sublime significato si rendono reciprocamente testimonianza, perchè l' una è nell' altra, e niuna delle due fuori dell' altra si trova. Laonde chi ha questa Verità ha con essa la Carità che l' adempie, e chi ha questa Carità ha la Verità adempita. E come non si dà questa Verità alla persona umana, senza l' adempimento dell' opere, così, senza un tale adempimento, non si dà la carità. [...OMISSIS...] Onde quegli che opera il bene, ha la carità, e questi anche conosce la verità; poichè non può conoscerla appieno colui, che non la opera, e però non la sente, e però non ne ha lo spirito che solo fa conoscere una tale sostanziale e soprasostanziale verità; poichè « « lo Spirito è quegli che testifica che Cristo è la VERITA` »(3). » Nella verità dunque è la carità, che l' adempie; onde Cristo pregò il Padre: « « Santificali nella verità; il tuo sermone è la verità »(4) » nella carità poi è la verità adempita: « « Non amiamo colla parola e colla lingua, ma coll' opera e colla verità: da questo conosciamo, di trarre l' essere nostro dalla VERITA` »(5). » Sono dunque due le parole in cui si compendia la scuola di Dio, reso maestro degli uomini, VERITA` e CARITA`; e queste due parole significano cose diverse, ma ciascuna di esse comprende l' altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un' altra, e nella carità è la verità come un' altra: se ciascuna non avesse seco l' altra, non sarebbe più dessa. Come poi la Verità è lo stesso maestro GESU` Cristo, che si comunica all' essenza intellettiva dell' anima, e in pari tempo s' esplica tanto esternamente quanto internamente, cioè tanto al di fuori, nella rivelazione e nella predicazione evangelica che si continua coll' umanità sulla terra, e nella divisione de' ministerŒ; quanto al di dentro, in tutte quelle cognizioni divine che producon la scienza; così del pari la Carità, che è lo Spirito Santo, s' esplica ne' doni che abbiamo enumerati, ne' soprammodo molteplici affetti dell' amore, ne' frutti, nelle grazie, e nelle sante operazioni: di manierachè non è parte dell' attività del discepolo, non potenza, non atto, che non sia accompagnato dal Verbo e dal suo Spirito, e in cui quello e questo non si trovi. E qui si vede non solo il perchè la sapienza cristiana si riduca all' imitazione di Cristo, ma di più come questa imitazione sia possibile agli uomini, e possibile in un modo del tutto singolare e maraviglioso. Se il Maestro di cui si tratta, è di una natura così diversa dall' umana, che egli ha la potestà di entrare e quasi assidersi nell' anima stessa del discepolo , e quinci, come un auriga dal cocchio, guidarne tutte le potenze, ed anzi di più, del suo proprio spirito animarle, e di conseguente, se la sapienza de' discepoli non è che la stessa sapienza divina partecipata, lo stesso maestro, che, entrato in essi, ivi col loro consenso e colla loro adesione, inabita e li fa vivere di sè; quelle tre cose che noi toccavamo non hanno più alcuna difficultà ad essere intese; cioè diventa chiarissimo, come all' imitazione di Cristo si riduca la sapienza soprannaturale degli altri uomini, e come questa imitazione sia possibile, e possibile in una maravigliosa guisa, riscontrandosi una cotale identità di sapienza. Quale umano intelletto potea mai concepire una maniera così stupenda e così sublime d' effettuare quel precetto, che pur giunse a indicare la stessa filosofia: « « Imita Dio? »(1). » Che se l' eterna sapienza, una, semplicissima, sussistente e vivente, Dio e Verbo di Dio, è quella che, sempre identica, realmente è in tutti gli uomini che vi aderiscono (al che son tutti chiamati), e in essi ella vive e regna, volendolo essi medesimi; due conseguenti soprammodo lieti per l' umanità se ne raccolgono: il primo che con ciò questa umanità veramente s' organizza in un solo corpo, con un solo capo divino, e così rimane soddisfatto il profondo e misterioso desiderio col quale da noi s' aspira ad ottenere, senza sapersi poi come, che la moltitudine degl' individui umani imiti ed emuli, colla loro unificazione, la perfetta unità della specie: l' altro, che ogni individuo, essendo in lui Cristo, riceve la dignità di un cotal fine dell' universo, costituisce quasi un centro suo proprio, a cui tutte l' altre cose si riferiscono, reso simile ad un astro, che esercita su tutti gli altri, disseminati nell' immensità dello spazio celeste, come credono gli astronomi, la sua attrazione. Dal che procede ancora la stabilità e il continuo incremento della scuola di Cristo sopra la terra, il quale disse a' suoi discepoli, prima di dipartirsi da loro colla sua esterna presenza: « « Ecco io sono con voi tutti i giorni - fino alla consumazione del secolo »(1) » La propagazione della scuola, ossia della Chiesa di Cristo, di secolo in secolo, di nazione in nazione è l' opera del suo Spirito, l' opera della carità. Questa carità cominciò da Dio Padre: [...OMISSIS...] Il Verbo mandato nell' umanità che assunse, adempì la carità del Padre: [...OMISSIS...] Gli uomini che si fecero discepoli al Verbo incarnato, ricevendolo in se medesimi, ricevettero con esso il principio della stessa carità, e ciascuno, il Verbo in essi ed essi nel Verbo, la esercitano del continuo sopra la terra: [...OMISSIS...] E il discepolo dell' amore: « « Se ci amiamo reciprocamente, Iddio dimora in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Da questo conosciamo di dimorare in lui, ed egli in noi, che egli ci ha dato del suo spirito »(2). » Dimorando dunque il Verbo divino, sebbene invisibile, in terra, nell' anime de' suoi discepoli, e imprimendosi in esse di generazione in generazione, e diffondendovi il suo Spirito, l' opera della sua Chiesa è in ogni tempo nuova e fresca, non può mai invecchiare, ricominciando essa in ogni uomo reso in un cotal modo Cristo, e perciò giustamente questa dottrina non dismette mai il nome di novella buona , ossia d' Evangelio, datole la prima volta che fu annunziata. E se nella lotta che sostiene contro lo spirito del male e la debolezza degli uomini, sembra in alcuni tempi che ne soffra la Chiesa, ed a periodi di splendore succedono periodi di amarezze e d' umiliazioni, questi non sono che momentanei, e passaggeri; ch' ella è una società di tal natura che porta in se medesima la potenza di ristorarsi e di ringiovanirsi, mediante il governo de' pastori co' quali Cristo promise di essere per tutti i secoli, e mediante quella carità ch' egli esercita nell' anime de' suoi, colla quale la fondò da principio; e quindi ancora la potenza d' un incessante progresso. Onde tutti i discepoli di Cristo sono de' sapienti, che fanno di continuo quello che ha fatto Cristo, e che Cristo fa continuamente in essi, cioè proseguono l' opera della Chiesa, e in essa dell' unificazione del genere umano, e, secondo l' espressione di S. Giovanni, sono « « cooperatori della Verità »(3). » In questa carità esercitata nella verità consiste veramente l' opera della sapienza cristiana . Tutti vi sono chiamati: a quelli che rispondono alla chiamata son divisi i ministeri: a taluno è affidata una parte maggiore, ad altri una parte minore dell' opera comune. Presiedono a tutto il lavoro quelli, a cui Cristo ebbe detto: « « Pace a voi: Come il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(4). » Questi sono i sapienti de' sapienti, i maestri di coloro che sanno. Perocchè tutti i cristiani interiormente sanno; onde un Apostolo scrivea loro: « « Ma quant' è a voi, l' unzione, che avete ricevuta da lui, dimora in voi, e non avete mestieri ch' alcuno v' insegni. Ma come l' unzione di lui v' ammaestra di tutte le cose, e quel di che v' ammaestra è vero, e non menzogna, rimanete in esso, com' ella v' ha insegnato »(1). » E nulladimeno questo stesso Apostolo insegnava ed ammoniva, perocchè non tutti, eziandio che sappiano internamente, sanno anche esternamente, e il Verbo interiore ha bisogno d' essere esplicato dall' esteriore, ed oltracciò anche quegli che sa, può esser sedotto dall' errore, dal quale è difeso, attenendosi a coloro che Cristo mandò appunto, acciocchè insegnino e ministrino esternamente agli uomini lui medesimo. Quanto poi s' estenda questa carità della cristiana sapienza è maraviglioso a pensare. Perocchè ella s' estende appunto altrettanto, quanto la verità. La verità di questa sapienza non ha limiti, come abbiamo veduto: il Maestro dice a' suoi discepoli: « « Oggimai io non chiamerò voi servi, poichè il servo non sa che cosa faccia il suo padrone; ho chiamato voi amici, perchè io feci note a voi tutte quelle cose che io ho udito dal Padre mio »(2), » e di più promette loro il suo Spirito, che tutte queste cose, dette prima da lui, raccenderà loro in mente, e di nuovo insegnerà loro « « ogni verità »(3). » Come poi l' uomo così limitato possa portare tanta mole di verità, l' abbiamo detto, dove abbiamo avvertito, che tutta la verità gli è data in un modo implicito e potenziale, il che S. Giovanni esprime, dicendo che nel cristiano dimora « « il seme del Verbo »(4), » quel seme onde l' uomo è rinato. L' esplicazione poi di questo seme ne' diversi uomini è più o meno, sempre tuttavia, limitata, e si fa in ordine a tutto ciò che è necessario alla natura umana e da questa voluto, cioè alla perfezione morale ed alla felicità dell' uomo. Ora lo stesso ragionamento conviene applicarsi alla carità . Questa di natura sua è in ciascuno de' discepoli universale ed infinita, benchè limitata nella sua esplicazione ed attuazione. E così deve essere, se deve rispondere perfettamente a quella verità, di cui è il nostro discorso, dalla quale, come dicevamo, la carità è indisgiungibile. Poichè la carità non è altro che l' esecuzione e la sostanziazione della verità, onde nelle Scritture si nomina « « la carità della verità »(1), » e si esorta a « « fare la verità nella carità » (2) »: è una verità che si fa, non si conosce solo, come la verità naturale; e si fa colla carità. Or come abbiamo distinta dalla verità naturale e incompleta la verità soprannaturale e sussistente, così anche la carità che a questa corrisponde si distingue dal naturale amore . E non parlo dell' amore naturale soggettivo , vario di genere, e di forma e di costume, il quale non appartiene per sè solo all' ordine morale; ma dell' amore naturale oggettivo che costituisce la naturale virtù. Questo riceve tutte quelle limitazioni e imperfezioni che nella verità naturale e meramente ideale si trovano, ed è oltracciò combattuto e distrutto spesso dall' amore soggettivo che si fa reo con questo stesso combattimento. In fine, quand' anco l' amore naturale oggettivo potesse reggersi così debole e quasi aereo, com' egli è, di fronte a tale avversario violento e disordinato; nè soddisfarebbe al bisogno d' amare che sente il cuore umano, e che tanto si stende quanto l' idea, cioè all' infinito, perchè non v' ha nella natura alcun oggetto infinitamente amabile, nè un tale amore potrebbe esser principio di quell' infinita beneficenza, a cui di nuovo tende l' animo umano. Chè l' amare è voler bene, e non si può volere un bene infinito all' amato, se chi ama non conosce o non ha alcun bene infinito da comunicare. Non potendosi dunque la mente e il cuore umano fermare se non in ciò che è infinito, e perciò il suo fine compiuto potendosi trovar solo in un infinito reale, che l' amor naturale non trova; in questo come in suo fine compiuto non può essere esaurita compiutamente e tranquillamente quella capacità di affetto che il Creatore ha posta nella natura umana. La carità all' incontro trova e possiede il fine assoluto dell' amore che è Dio Uno e Trino. E come l' ama in sè stesso, positivamente e immediatamente conosciuto, così l' ama negli uomini ne' quali egli dimora, e, in un diverso modo, in quelli altresì, ne' quali egli può dimorare, e sono tutti quanti vivono in terra. Laonde la carità di Cristo prende le due forme, della fraternità e dell' umanità . La prima è quella « carità della fraternità »che venia tanto raccomandata a' primi fedeli dagli Apostoli (1), per la quale tutti quelli ne' quali già vive Cristo, si amano d' un amore indicibile, e quasi beatificante, e si prevengono in ogni onore ed aiuto con ogni sacrificio, perchè Cristo, che in essi abita, cresca ne' fratelli e in tutta la comunità. L' umanità poi è quella forma di carità, colla quale si amano gli uomini, non perchè abbiano in sè Cristo, ma perchè, non avendolo ancora, lo possono avere: e questa è il fonte di quello zelo infaticabile della salute delle anime, onde l' uomo desidera e fa quant' è da lui, che tutti quelli che sono fuori ancora della Chiesa di Cristo, vi si aggreghino, e si convertano i peccatori in modo; che, giustificati, Cristo possa di nuovo in essi diffondere il suo spirito, a cui hanno fatto contumelia. E questa è la filantropia cristiana, che tende a giovare in tutti i modi agli uomini, acciocchè vengano a possedere il bene vero, finale, assoluto, infinito, nel cui possesso solamente la natura umana chiama sè stessa soprammodo contenta, priva del quale, non è mai pienamente contenta per qualunque altro bene. Laonde è questa una filantropia ragionevole, non ingannatrice, chè per essa si vuole agli uomini il bene vero, desiderato confusamente per natura, e gli altri beni solo in ordine a questo, contro al qual ordine sarebber mali, eziandio che ritenessero le apparenze ingannevoli di beni: è appunto la filantropia o umanità di Cristo, di cui parla S. Paolo, ove dice: che « « quando apparve la benignità e l' umanità » [...OMISSIS...] «di Dio Salvator nostro, egli ci fece salvi, non per opere di giustizia fatte da noi, ma secondo la sua misericordia »(2) » e di cui parla S. Giovanni, ove pure dice: « « In questo è la carità, non quasi che noi abbiamo amato Dio, ma perchè egli stesso il primo amò noi, e mandò il Figliuol suo, propiziazione de' nostri peccati »(1) » I discepoli dunque che sanno d' essere stati amati da Cristo prima d' esserne degni e acciocchè degni ne divenissero, anch' essi amano gli uomini che non sono ancor degni d' essere cotanto amati, acciocchè diventino degni del soprannaturale amore com' essi, con acquistare la dignità di membra del corpo di Cristo viventi dello stesso spirito di Cristo. La carità dunque ha in sè necessariamente lo spirito di proselitismo, e, in altre parole, il principio d' associazione. S. Giovanni scriveva ai fedeli: « « Noi vi annunziamo quello che abbiamo veduto ed udito, acciocchè anche voi abbiate società con noi, e la nostra società sia col Padre e col Figliuolo di lui GESU` Cristo »(2) » Ed ancora: « « Che se noi camminiamo nella luce, come anch' esso è nella luce, abbiamo fra noi società, e il sangue di GESU` Cristo figliuolo di lui, ci monda da ogni peccato » (3) » La carità è sempre nella luce , perchè la luce è la verità, e la carità è la verità adempita. Abbiamo detto di sopra che la verità sussistente, cioè il Verbo divino, di natura sua associava gli uomini, essendo un identico principio reale e vitale da tutti quelli, che sono in lui, partecipato, e perciò gli uomini congiunti col Verbo rassomigliano quasi ad un grappolo d' uva, in cui tutti gli acini uniti, allo stesso racemo s' attengono, succhiandone coll' umore la vita. Ora la stessa cosa è a dirsi della carità . La quale per sua natura è unione, e unione la più perfetta e sublime, che può in qualche modo dirsi unificazione. Niuna maraviglia dunque, che tosto introdotta nel mondo la carità, l' umanità sentisse un insolito bisogno d' associarsi e incominciasse in essa un movimento, un lavoro tendente a produrre sempre nuove, ora meno, ora più perfette, associazioni. La società grande era stata costituita dallo stesso Maestro, che n' avea posto i due principŒ, della verità e della carità: quest' è la Chiesa cattolica, cioè universale. Come rispetto alla verità ella si compone di maestri e di discepoli in quel modo che abbiamo detto, così rispetto alla carità ella si compone di ministri che comunicano il Verbo e il suo Spirito, per certi mezzi instituiti dal Salvatore e avvalorati dalla sua onnipotenza, e che governano esteriormente tutto il corpo, e di quelli a cui amministrano , di quelli che tale grazia e tal governo ricevono. E poichè la verità e la carità è l' identico bene divino sotto due forme, così gli stessi che come Maestri viarŒ conservano e tramandano la verità, sono quelli altresì che come Vescovi e sacerdoti sacrificano, amministrano i sacramenti e governano: sono gli stessi con due potestà. Ma, come abbiamo detto, in ogni discepolo dimora il Verbo e vi effonde il suo Spirito, di maniera che ciascuno è un cotal centro e fine del tutto, benchè sia anche membro, maggiore o minore, esercente una funzione più o meno importante, del corpo di cui Cristo è il capo. Ciascuno dunque ha il suo lume di verità, e ciascuno ha il suo fuoco di carità: non v' ha pure il minimo cristiano che si tenga nella grazia, il quale non l' abbia. Quindi ciascuno e s' attiene più che mai stretto all' associazione grande essenziale e fondamentale della Chiesa, e ha in sè il principio e l' inclinazione ad altre associazioni benefiche: e più o meno v' inclina, secondo che più o meno egli coopera alla carità, e più o meno questa, per le cognizioni esteriori e pe' doni, in lui s' esplica. Di qui tutte quelle religiose associazioni , le quali si propongono d' esercitare, con più d' attività e d' estensione e di ordine, la carità e la beneficenza verso il prossimo: le quali non sono, come manifestamente apparisce, che propaggini della verità e della carità, radici sempre feconde, e conseguenti naturali e necessari della Scuola, di Dio fatto maestro, e redentore degli uomini, che è la sua Chiesa. Perocchè la carità può essere esercitata da ogni individuo, ma con più frutto da una collezione d' individui associati, cospiranti tutti d' accordo, come un cotale esercito pacifico ben ordinato, istrutto, e disciplinato, nello stesso esercizio. E veramente chi ama una cosa, la ama tutta e non una parte; e come la verità di cui parliamo non ha confini, così la carità pure è di natura sua infinita, nè può mai dire: basta, senza ripugnare a sè medesima: tende dunque al sommo, a fare tutto il bene che ella può. I confini di lei non sono che soggettivi: poichè s' ella si trova nell' uomo ancora implicata ed involta, non può spandersi nell' opere esteriori, e rimane così implicata quanto nell' uomo stesso rimane implicata la verità. Quell' ignoranza dunque, che può trovarsi anche nel cristiano in ordine a quel sapere che appartiene alla riflessione, e la scarsa cooperazione della libera volontà all' esplicazione della verità stessa, sono i due limiti che riceve ne' diversi uomini l' operosità della carità di Cristo. Ma questi limiti possono essere sempre più in là sospinti ed allontanati: e quindi l' indefinito e sempre nuovo svolgimento della carità nel Cristianesimo. Perocchè la carità giugne a far tutto, e con ogni sacrificio. Or tutti i beni, eziandio che temporali, possono inservire al fine de' beni , che è il fine stesso dell' uomo, sul quale, per conghietture o argomentazioni non autorevoli, fu tanto disputato da' filosofi prima di Cristo, senza che mai ne vedessero il chiaro, o convenisser fra loro; ma dopo Cristo a niuno può essere oscuro o dubbioso quale, quel fine, egli sia. Laonde la carità è uno amore, pel quale l' uomo, dimenticando se stesso pe' suoi simili, altro diletto non cerca a se medesimo che quello di procacciar loro ogni bene, con ogni suo studio, fatica e patimento, sia questo bene corporale, intellettuale, o morale: ordinando i due primi all' ultimo, che è il fine degli altri. I quali tre sommi generi di carità, se si considerano attentamente, ritornano alle tre forme dell' essere, la reale, l' ideale, e la morale: e spettano a quelle tre categorie supreme, in cui si riassumono tutte le cose concepibili dalla mente, le quali nelle tre forme primordiali dell' essere si fondano. Onde si vede, che l' ultimo intento della carità è di fare che gli uomini tutti partecipino dell' essere al maggior grado, e in tutt' e tre le sue forme. E come in quest' essere appunto uno e trino si assolve la verità, così nuovamente si raccoglie in che modo la carità termini nella verità, e come pure questa in quella si trasfonda. Ora la compiuta verità è ordinata, perchè l' essere è ordinato; di maniera chè, secondo l' ordine di generazione, precede l' essere reale all' ideale, ed entrambi al morale, che tutto l' essere seco congiunge e perfeziona. Così, allo stesso modo appunto, è ordinata altresì la carità. Di che, ogn' altro amore, che si diparta da quest' ordine, s' oppone all' ordine della verità , e di conseguente convien dire che è falso, ed anzi che benefico, dannoso. Cristo dunque portò il vero amore in terra, il quale non potè essere del tutto vero se non a condizione d' essere altresì sublimissimo e divino, come vi portò la vera sapienza, pure sublimissima e divina; ed a buon diritto egli potè dire, che questo precetto era il suo (1). Come poi la carità s' esercita dai discepoli o separati, o uniti in società; così ella s' esercita del pari a favore d' individui, e a favore di società, quantunque il termine umano della carità sia sempre l' individuo; che le società stesse hanno condizione di mezzi e non di fini, non potendo esse aver altro fine che o il bene degl' individui associati, o d' altri. Quindi nella carità v' ha il principio immortale della ristorazione e della riforma non solo della Chiesa, come abbiam detto parlando della verità, ma ancora della società domestica, essendo principalmente l' educazione opera gratissima alla carità, e della società civile, procacciando la carità, ove ne sieno animati i membri di lei, che essa si fondi sulla giustizia, di cui tempera il rigore, conciliando le opinioni e gl' interessi colla reciproca stima e colle vicendevoli concessioni e ragionevoli transazioni de' cittadini, e soprattutto spuntando l' orgoglio e il dispotismo tanto famigliare e quasi inseparabile da questa potente società, coll' insegnarle che cosa ella sia, cioè unicamente l' ancella, non punto la signora nè della Chiesa, nè della Famiglia, l' una e l' altra delle quali società pel loro concetto a lei precedenti, ella dee riverire come suo proprio fine, e rispettare e servire. Laonde anche la famiglia, e la nazione partecipano di quella immortalità, che la cristiana sapienza comunica a tutte le cose che ella tocca od affetta, e che prima di null' altro ella assicurò di sua propria bocca alla grande scuola da lei aperta, cioè alla Chiesa universale. Ma la carità non si ferma, come dicevamo, nell' uomo, ma termina in Dio; chè ella ama gli uomini o perchè partecipano della divina natura, o perchè ne possono partecipare. Onde come Iddio, maestro del mondo, è la Verità, e questa, nel suo movimento comunicativo agli uomini, termina alla Verità, di maniera che ella è il principio e ad un tempo il termine del divino insegnamento, che in un circolo non già vizioso, ma potente e vitale incessantemente si volge e dimora; così Iddio, Spirito di verità, è la Carità, la quale comunicandosi agli uomini ritorna continuamente in sè stessa, di maniera che, secondo l' osservazione di S. Agostino, si ama in fine lo stesso amore (1), e tutt' è amore, Dio Amore il principio, e Dio Amore il fine. E così disvelato, ed anzi comunicato all' uomo il fine de' beni , furono all' umanità assicurate quelle due cose supreme, ch' ella da sè va sempre, a tastone e nelle tenebre, ricercando, cioè la compiuta virtù e la beata vita . Perocchè quella maniera di vivere e d' operare che si limita, che si ferma per via, che non intende nel fine assoluto di tutte le cose, Iddio, può bene dimostrare in sè stessa qualche similitudine o piuttosto analogia colla virtù, a cui è avviata, e questa similitudine o analogia o avviamento, può esser preso dagli uomini in fallo per la virtù, ma essere la virtù, egli non può, « « nè, siccome dice S. Agostino, è vera sapienza quella, che nelle stesse cose da lei vedute con prudenza, operate con fortezza, raffrenate con temperanza, distribuite con giustizia, non indirizza la sua intenzione a quel fine, nel quale Iddio sarà tutto in tutti, con eternità certa, e con pace perfetta »(2). » Nella quale virtù completa l' uomo trova già su questa terra, in cui tutto è incipiente, nulla consumato, in cui la verità sussistente è percepita come un enigma, in cui la carità è operosa come un esercizio e uno sforzo, trova, dico, su questa terra la vita beata , ravvolta certo in fra quei veli della verità, e in fra quei patimenti della carità, ma pure verissima; chè l' uomo posto in tale condizione dichiara sè a se medesimo contento, e lo dichiara con ogni sincerità. Egli sa di possedere l' infinito, e nella volontà di lui, di cui sente l' infinita amabilità e maestà, come in luogo sicurissimo riposa, e confida d' una speranza, che non può confonderlo: chè anzi egli, educato da Dio medesimo alla generosità de' sentimenti, non si risolve tampoco di preferire l' eterno godere al temporaneo meritare, e o contrabilancia il valore di questi due egualmente infiniti tesori, come una femminella diceva: « o patire o morire », e lo stesso Apostolo mostra esitar nel dubbio, quale de' due gli deva esser più caro (3); ovvero antepone il merito alla stessa visione, come dicea un' altra femminella: « non morire, ma patire », e come il medesimo Apostolo Paolo in un altro luogo: « « Io desideravo di essere anatema da Cristo » (cioè separato dalla vista di lui) «pel bene de' miei fratelli »(1). » Ma se nel tempo della scuola, della palestra, del merito, basta a rendere felice l' umana vita « « quella speranza, » per usar le parole di S. Agostino, «della contemplazione di Dio, la quale ha pur seco dilettevole e certa intelligenza della verità » (2): » cessato il corso del tempo, la verità sussistente, che or è nell' uomo come principio , manifestandosi anche come termine , apre a lui davanti ed offre tutti i tesori eterni, che nella profondità dell' essere reale si nascondono, e così Cristo, secondo la frase ammirabile della Scrittura, restituisce il Regno al Padre già svelato agli uomini (3); e la Carità che alla Verità, da cui è spirata, s' accompagna e si proporziona, rompendo, per così dire, la fornace che comprimea le sue fiamme, innalza ed espande il corno dell' incendio che non consuma, ed avventandosi a tutto l' Essere discoperto, fa che l' uomo di lui viva, quasi d' una vita di fuoco divino ed immortale. La promessa, come chiaramente apparisce, è degna del Maestro, ella è consentanea alla sublimità della scuola: tutto s' attiene, se il maestro è Dio, dunque egli dovea essere tutt' insieme e l' oggetto della dottrina, la verità, e il fonte e l' oggetto della carità, e finalmente anche l' eterno oggetto della beatitudine: qualunque altra scienza, fuori di questa, sarebbe stata inferiore a un tale maestro e a una tale scuola, come qualunque altro fine del mondo sarebbe stato inferiore alla grandezza del Creatore. S. Agostino osserva che v' ha certe cose, l' aver le quali non è altro che il conoscerle; e queste non possono esser sottratte dagli uomini al nostro amore (1). Ma in pari tempo alcune di esse non possano esser conosciute a pieno, e però nè tampoco avute, da chi non ne fruisce, e la fruizione è un atto d' amore; non possono dunque essere avute se non sono conosciute, nè conosciute se non sono amate e godute. Il bene è appunto in tali condizioni: [...OMISSIS...] Dalla qual dottrina applicata alla beata vita si conferma quello che noi dicevamo, cioè: 1 Che nella cognizione della verità s' acchiude la carità , perchè quella essendo un bene, non può essere a pieno conosciuta, se non s' ami e fruisca, e viceversa nella carità s' acchiude necessariamente la cognizione della verità , perchè avere quell' oggetto amabile è un medesimo che conoscerlo. Il che non involge punto alcun vizio di circolo, ma bensì la necessità che verità e carità inabitino, quasi direi, l' una nell' altra, acciocchè possano reciprocamente comunicarsi e completarsi. 2 Che quelle due parole, a cui si riduce tutta la scuola di Cristo, Verità e Carità , non solo contengono la sapienza dell' uomo nella presente vita, ma altresì la beatitudine della futura: di maniera che questo riceve il discepolo da una tale scuola, d' avere in sè una sapienza, che, dopo averlo appagato in mezzo alle sofferenze presenti, e datogli una somma dignità e una somma pace in mezzo alle lotte che intorno a lui s' agitano o dalla natura in perpetui e fatali attriti, o dall' umanità in incessanti e volontari dissidŒ, si rivela colla morte temporale, e si cangia in eterna beatitudine. Laonde siccome il precetto del divino Maestro: « « Amerai il Signore Dio tuo in tutto il cuor tuo, e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(3) » non è solamente un documento di giustizia, ma ancora un avviso di prudenza dato all' uomo, acciocchè egli conosca dove possa rinvenire quella vita di eterna beatitudine, che è l' ultimo de' suoi voti e la somma de' suoi bisogni, e ciò perchè nella perfetta carità si rinviene la compiuta verità; così, simigliantemente, la stessa vita beata gli è mostrata, e quasi a dito indicata dallo stesso divino Maestro, nella perfetta cognizione della verità, la quale non può esser perfetta, se l' uomo ne ignori quella parte che la sola carità gli rivela, avendo egli favellato così: « « Ora questa è la vita eterna, che conoscano te, solo Dio vero, e colui che tu hai mandato, GESU` Cristo »(1). » Riassumendo dunque quello che per noi fu detto fin qui, noi abbiamo distinto la Filosofia come scienza dalla Sapienza ; abbiamo detto, che quella è puramente cognizione, e cognizione sotto la forma speciale di scienza , la qual forma è l' opera della libera riflessione: questa all' opposto risulta da due elementi, della cognizione e della virtù , che traduce la cognizione in azione reale e morale. Abbiam fatto vedere, che come la Filosofia ha per suo oggetto l' intera cognizione che nell' ultime ragioni delle cose si racchiude, così pure quella cognizione che costituisce il primo elemento della sapienza (qualunque forma ella si abbia) non è l' una o l' altra cognizione particolare, ma la cognizione della verità nella sua interezza ed universalità, benchè ella possa trovarsi nell' uomo più o meno ravvolta e quasi in germe, e più o meno svolta ed esplicata: ma che come all' esercizio della virtù, che è il secondo elemento della sapienza, si richiede l' uso della libertà umana, così alla cognizione a cui essa virtù s' appoggia, si richiede sempre qualche grado di riflessivo sviluppamento. Abbiamo veduto ancora, che la cognizione che serve di base alla sapienza, non essendo legata ad alcuna forma, e avendovi negli uomini una cognizione anteriore alla filosofia, e una cognizione scientifica, che è la filosofia stessa, forz' è che v' abbia una Sapienza anteriore alla Filosofia, che può esser posseduta da tutti gli uomini, quantunque illetterati; ed una Sapienza che accompagna la Filosofia, propria de' filosofi che alla verità conosciuta accordano la maniera del vivere e dell' operare, sapienza della prima più luminosa e più sviluppata. Ma dopo di tutto ciò, abbiamo osservato, quanto la cognizione naturale della verità, specialmente quella parte che riguardando gli ultimi destini dell' uomo ha un' importanza unica e incomparabile, rimangasi limitata, oscura, incerta, fallace, senza autorità di persuadere, e però sempre controversa; e come quindi essa non possa collocare un solido e sufficiente fondamento alla morale virtù: indi la necessaria imperfezione dell' umana sapienza. Abbiamo intese le voci della natura e della filosofia, che prima di Cristo, per bocca di Platone, domandava che venisse Dio stesso a disciogliere gli enimmi, da cui l' uomo, anche il più dotto, vedevasi circondato e confuso, e ad ammaestrare con certezza tutti i mortali sulle più importanti e necessarie questioni, disperati di trovarne mai il vero ed il certo, se non dalla bocca di un tal maestro. E dicemmo che Iddio, il quale avea già troppo innanzi veduto il bisogno, udito il voto della sua creatura, si degnò discendere in forma di maestro nel mezzo degli uomini, uomo anch' egli. Fece assai più di tutto quello che l' uomo avea saputo bramare o concepire: non operò secondo la misura dell' uomo, ma secondo la sublime via a lui tracciata da' suoi infiniti ed ininvestigabili attributi. In tutto quello che fece, vinse l' umana previsione coll' opera, col modo, coll' effetto: non si contentò di comunicare all' uomo la scienza , s' incarnò egli medesimo, eterna sapienza , vinse l' umana perversità e l' umana limitazione, che impediva all' uomo la compiuta sapienza: la vinse con quell' atto appunto di sapienza, col quale si lasciò uccidere, e col quale redense il genere umano, e lo incorporò seco, gli diede per vivere della sua propria vita, e per luce della sua propria luce: invitando gli uomini tutti al gran banchetto da lui loro imbandito di nuova ed inescogitabil sapienza, e pascendo quanti tennero il suo generosissimo invito di se medesimo. Platone, come abbiamo veduto, osservava, che chi ama una data cosa, l' ama tutta e dovunque ella sia, e se n' esclude dal suo amore una parte o l' ama in un luogo e non in un altro, non dice più il vero quando dice d' amarla. Onde anche la sapienza o si ama in ogni sua parte e dovunque si ricerca, o non è vero che s' ami. Che converrà dire di coloro, i quali, senza alcun serio esame, anzi disdegnando d' applicarsi allo studio di quanto insegna il Cristianesimo, in cui milioni d' uomini in tutti i secoli asseriscono contenersi una sapienza perfetta insegnata da Dio, limitano il proprio amore e studio a quella qualsiasi natural scienza o sapienza, la quale tostochè tocca il suo più alto punto e non mentisce, si confessa povera ed impotente? Diranno costoro il vero quando si dicono filosofi nel senso d' amatori e cercatori della sapienza? Chi n' è amatore veramente, l' ama tanto più, quant' ella apre e scuopre una maggiore e più eccellente parte di sè; chi n' è vero cercatore, la cerca per tutto e dove la trova, l' abbraccia; ma chi l' ama solo a condizione d' attignerla ad un torbido rigagnolo, e l' odia poi o non la cura nel limpidissimo e copiosissimo suo fonte, costui nè la cerca veramente, nè l' ama. Che se fu lodata la sentenza di Bione, il quale paragonava coloro che, postergata la Filosofia, s' applicavano all' altre scienze, agl' innamorati di Penelope, i quali repulsi dall' eroina sposavano le sue ancelle (1); dopo che nel mondo s' introdusse la Sapienza insegnata da Dio stesso tanto più eccellente della Filosofia, si dovette mutare la similitudine, e trovarne una nuova, riconoscendosi nella serva egiziana d' Abramo Agar il simbolo della Filosofia, e nella sua padrona Sara quello della cristiana Sapienza (2). Che se la serva insolentisce, Abramo la concede in balìa di Sara, ed anco giustamente la licenzia di casa sua. Ignobile cosa è dunque al contrario, per amor della serva a dimettere la padrona, dalla quale sola può nascere la prole della promessa. Nè dovrà mai dirsi amatore della Sapienza colui, che ama solamente quella disciplina che alla Sapienza è serva, e con questa, che spesso s' erige ed insuperbisce contro la sua padrona, adulterando, questa con gran viltà e bassezza d' animo trascura e dispregia. Questi opuscoli filosoficŒ sono stati scritti in diversi tempi e in diverse circostanze ne' momenti avanzati all' Autore dalle altre sue occupazioni. Non si può dunque esigere fra essi una rigorosa connessione, giacchè non furono lavorati sopra alcun disegno generale. Tuttavia sono essi privi al tutto d' una relazione che dia loro qualche unità? Non già; ella v' è: l' Autore non ve l' ha messa, ma ve l' ha trovata; e crede utile il farla osservare anche a' suoi leggitori. Si può dire che i primi quattro Saggi, i quali formano il primo Volume, riguardano tutti la divina Providenza, sebbene non sia ciò indicato dal loro titolo: questa almeno è l' idea dominante in essi, e quella intorno a cui si raggirano, come intorno a loro centro, tutte le altre. Nel primo Saggio si presenta l' uomo applicato al meditare, che dal vedere afflitti talora i buoni ed i pravi rallegrati, tituba quasi nella fede della divina Providenza circa la distribuzione de' beni e de' mali su questa terra: ma diffidando di se stesso, prima di passare ad una vera dubitazione, si fa ad esaminare le forze della propria intelligenza; a riconoscerne i limiti; e a considerare le strade diritte e sicure che il possono condurre alla verità in una ricerca sì spinosa e sì rilevante: le quali strade egli riconosce esser due; l' una più breve e più certa della Rivelazione; l' altra più lunga ed incerta della Ragione, la qual però rendesi luminosa e certa anch' essa, se dal lume rivelato venga irraggiata. Nel Saggio seguente l' uomo si mette in cammino per queste vie, non meno per quella della Rivelazione, che della Ragione; e discuopre, che la divina Sapienza doveva seguire nella dispensazione de' beni e de' mali terreni certe Leggi sublimi, che sfuggono al corto vedere della maggior parte degli uomini, ma che, dov' elle sono vedute, arrecano la più gran pace alla mente che prima titubava per la propria ignoranza, e temeva non forse mancasse un ordine degno di Dio nell' ampio governo del fisico e del morale universo. La Providenza comparisce nel terzo Saggio come quella che avendo educato l' umanità con un fine costante ed infinitamente sublime, e avendo a quest' unico fine tutti gli avvenimenti del mondo o sieno piccioli o sieno grandi preordinati e diretti, si è fatta esemplare, da cui ricopiar devono i pastori de' popoli, i principi delle nazioni, e tutti quelli che influiscono sull' educazione degli uomini, e che Dio chiama a parte della grande sua impresa di realizzare il sistema da lui disegnato ab eterno, e nella creazione cominciato (1). Dopo aver considerata la Providenza come l' esemplare della educazione umana, trapassa nel quarto Saggio (2) a contemplare l' opera della Providenza, cioè l' università di tutte le cose colle loro leggi e nell' immenso loro corso da quelle regolato, come il subbietto generale delle belle arti , quando queste sieno sollevate da terra mediante genŒ possenti e cristiani, e sieno chiamate a diffondere la virtù e la pace fra gli uomini, e la gloria intorno al trono dell' Altissimo. Queste belle arti riformate e battezzate per così dire anch' esse nelle acque della salute, depongono le ultime loro spoglie idolatre al piè della croce: e mutano la falsità nella verità, le passioni turbolente negli affetti celesti, l' ipocrisia nella virtù, e le favole mitologiche ne' grandi misterŒ della fede, dalla cui profonda oscurità tutte emanano le ragioni delle cose create. Egli è rivolto il quinto Saggio (1), col quale comincia il secondo Volume, e che s' intitola « Della Speranza , » a dimostrare le agitazioni del cuore umano, quando rifuggendo dalla patente luce del Cristianesimo, ritorna solitario indietro sui passi già fatti dall' uman genere, e si costituisce isolato fra nazioni pagane, s' abbandona alle loro illusioni, come alle loro abbominazioni: egli percorre tutta la serie degl' inganni; e finalmente cerca orribilmente la requie non mai trovata nell' inganno stesso, che perpetuamente rinasce e perpetuamente svanisce. Infelice! rinunziando alla verità egli avrebbe distrutto se stesso, se non dovesse sopravvivere per iscontrare un debito infinito che ha contratto colla medesima! Ma le illusioni che cominciano all' uomo quel corso che sempre più accelerando, lo precipita finalmente nel sistema omicida del rinascente inganno della Speranza, si nutrono coll' abuso delle cose esterne, ed il seguente Opuscolo si rivolge appunto ad additare i danni del lusso e della moda (2): di quel lusso nella proscrizione del quale l' Evangelio immutabile, che veniva poco fa contraddetto da una Economia politica poco avanzata, ricevette testimonianza dalla stessa scienza economica tosto che si perfezionò: testimonianza dico che conferma il detto di un uomo non parziale della religione « che il cristianesimo il quale sembra non pensare che alla felicità degli uomini nell' altra vita, fa ancora la loro felicità nella presente ». E giacchè i sofismi sul lusso cercano di sostenersi colla falsa definizione della ricchezza , nell' Opuscolo che succede l' autore parla dell' abuso di questa parola, che può servir d' esempio agli infiniti errori ingenerati dai diversi sensi, che gratuitamente si sogliono alle parole attribuire. Nè meno sono cagione d' errore le false definizioni che le inesatte classificazioni , come appare dall' ultimo Opuscolo rivolto ad additare il modo di distinguere con aggiustatezza i varŒ sistemi filosofici (1), perchè si possa parlare di essi con qualche ragione, e non formare perpetuamente di que' ragionamenti vaghi, che con un gran rombo di parole nulla significano, e riescono solo a partorire vane dispute e interminabili contrasti. E come v' ha qualche relazione naturale fra l' un Saggio e l' altro, così pure non sarà difficile scorgere in tutti uno stesso spirito, e quella formale unità che ricevono gli scritti d' un autore, sebbene d' argomenti varissimi, dall' unità indivisibile della mente, nella quale, quasi in una vasta regione dello spirito, tutte le idee si ritrovano e s' incontrano, e nello incontrarsi o sentono d' amarsi e s' uniscono, o di abborrirsi e si ripellono ed escludono scambievolmente. A me pare che i principŒ che noi abbiamo nello spirito, rassomiglino ad altrettanti centri d' attrazione, intorno a' quali s' aggirano un poco di tempo tutte le idee presentate innanzi alla nostra mente fino che si precipitano in essi e ad essi si rannodano: quelli dunque danno un moto regolare, per così dire, alle idee di qualunque maniera elle sieno, e con ciò queste idee si mettono da se stesse in qualche ordine nella mente fornita di principŒ, talora ben anco senza che l' uomo il voglia o il faccia con deliberazione, se pur esse abbiano il tempo bastevole d' essere attratte da que' centri e di finire il loro moto vorticoso unendosi ne' medesimi. Ma se questo avviene in tutti più o meno gli uomini, senza pure ch' essi se n' accorgano, molto più è necessario che ciò accada in chi non iscrive solo quanto a lui suggerisce l' animo all' istante in cui scrive, ma segue de' principŒ generali precedentemente esaminati, fermati, e resi famigliari. Nè egli sarà difficile che il leggitore scorga per questi Saggi le membra sparse del corpo di una Filosofia dall' autore seguita costantemente. Che se si chiede di che genere ella sia, parmi che si possa descrivere, non già nelle sue parti singole, ma nel suo spirito, con pochi cenni, dicendo ch' essa, in sull' orme di sant' Agostino e di san Tommaso, tutte le sue meditazioni rivolge al gran fine di far tornare indietro lo spirito umano da quella falsa strada, nella quale col peccato si mise, e per la quale, allontanandosi da Dio, centro di tutte le cose ed unità fondamentale onde tutto riceve ordine e perfezione, si divagò nella moltiplicità delle sostanze disordinate, quasi brani di un universo crollato, privi del glutine che tutti univa in un' opera sola maravigliosa. Ma chi volesse avere anche fermato con alcune parole lo stesso spirito e la forma di una simile filosofia, basterà ch' egli ritenga due vocaboli, i quali disegnano i suoi due generali caratteri, atti a farla conoscere e contraddistinguere, e questi sono UNITA`, e TOTALITA`. Nessuna filosofia può giammai pienamente conseguire l' uno di questi due caratteri senza l' altro; chè la piena unità delle cose non si può vedere se non da chi risale al loro gran tutto ; nè si abbraccia giammai il tutto , se non si sono concepiti ancora i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. Ma se pure v' avesse una filosofia a cui convenir paresse uno solo di questi due caratteri, non sarebb' ella ancora tale d' affidarsi al suo lume interamente; giacchè l' unità quando non abbraccia in se stessa le cose tutte, non è che una limitazione arbitraria, un timido ristringimento, una povertà di sapere. Ma dov' anco una filosofia aspiri a comprendere in se stessa tutte le cose, ella non sarà più atta per questo a produrre buon frutto, se le considera staccate dalla unità , ma solo varrà a stancare inutilmente l' umana ragione con un travaglio che la vince senza fortificarla, e che l' annoia senza istruirla. Le cose fisiche si raggiungono alle morali, ed è dall' osservazione di noi stessi , che siamo scorti alla filosofia professata dall' autore. L' uomo non ha che a dare uno sguardo sopra se stesso in un istante di calma dalle passioni, per riconoscere la propria debolezza e la propria naturale dipendenza da un altro essere fuori di lui. Così l' occhio se potesse riflettere sopra di se conoscerebbe d' avere una dipendenza naturale dalla luce, giacchè solo colla luce può fare l' atto pel quale egli fu ottimamente costruito. Come questa dipendenza, che l' uomo può conoscere in sè con tanta facilità, lo conduce a conghietturare almeno l' esistenza di quell' essere da cui essenzialmente dipende; così la propria debolezza ed insufficienza, senza quest' essere, lo conduce a riconoscere, che tutto ciò che di grande e di felice egli può desiderare, si riduce appunto al desiderio che quest' essere esista. Finalmente non saprei meglio accennare la dipendenza dell' uomo da altri esseri, che colle parole d' uno scrittore recente, che così si esprime: [...OMISSIS...] Come tale filosofia è l' interprete della natura, così è pure l' interprete dei voti del cuore umano. Ella medita da una parte di unire gli uomini al Creatore, e da un' altra di unirli fra loro. Se colla prima sua cura si fa ministra di pace e di felicità ad ogni individuo; la seconda sua cura è di spargere l' amore fra gli uomini; un amore pieno e profondo; un amore universale e permanente, perchè ha per guida la verità, e per fine la virtù. L' amore che non nasce dalla verità delle cose non è che parziale, e finisce coll' odio; e quello che non mira di condurre gli uomini alla virtù non è che momentaneo. Solo dunque quella filosofia che abbia per caratteri l' unità e la totalità delle cose è la madre di una vera benevolenza, perchè que' due caratteri sono la virtù e la verità! Parve all' autore che una tale teoria fosse quella dell' Evangelio, e che la pratica della medesima fosse l' opera della divina Providenza tendente a far di tutti gli uomini un cuor solo, ed un' anima sola; e di tutta la terra un solo ovile con un solo pastore. Dopo di ciò non sarà maraviglia se l' autore con quella sincerità e con quella gioia che all' uomo cristiano apporta la coscienza d' appartenere alla Chiesa universale che diverrà sempre più quest' ovile, e d' essere sottomesso al suo capo che diverrà vie più questo pastore, sottoponga quanto ha scritto in quest' opera ed in tutte quelle che ha precedentemente pubblicate, al giudicio supremo della santa romana Chiesa. Egli gode di ripetere ciò che altra volta ha stampato « ch' egli non riconosce altra gloria più bella che di professarsi a questa gran madre figliuolo ubbidiente e devoto; e che non credendo di potersi a pieno assicurare del proprio giudizio individuale, revoca già e condanna precedentemente quanto mai fosse per riprovare nella medesima il Sommo Pontefice, il maestro ed il giudice inappellabile costituito da Gesù Cristo, acciocchè tutti gli uomini sulla terra possano con ogni sicurezza ed in qualunque tempo distinguere nella Fede la verità dall' errore, e nella vita il bene dal male. » Questa egli crede che sia la tessera della grande fratellanza de' battezzati. Guai a coloro che seminando l' odio fra gli uomini, raccolgono la discordia e la distruzione! che ricusano di far parte con quelli, che sentendosi nati all' amore, fabbricano la casa comune in sulla pietra, e vi si riposano nella pace e nella unità! Nel Volume presente si contengono due Opuscoli sopra i promessi. Essi non prendono a trattare direttamente nessun nuovo punto di filosofia, ma sono più tosto indirizzati a sgombrare la via dagli ostacoli che si frappongono agli avanzamenti della vera filosofia. Uno di questi ostacoli, e non certo il meno dannoso, è la disacconcia maniera colla quale gli uomini dedicati allo studio talora comunicano insieme i pensieri e le diverse loro opinioni. Questa maniera vorrebbe pur essere serena e tranquilla, quale è necessario di conservare la mente e l' animo, acciocchè sieno idonei alla verità; ma in quella vece è bene spesso commossa, azzuffata e turbolenta; e in molte scritture che si pubblicano presso di noi di letterarie controversie, egli par di vedere anzi le idee sollevate in tumulto a difesa dello scrittore o a rovina dell' avversario, che lo scrittore stesso sorto alla propugnazione delle idee salutari e della verità. E a tor via un vizio così nocevole ai progressi del vero, a torlo via massimamente dalla italiana letteratura, che dovrebb' essere essenzialmente sincera, e gentile, tende uno dei due Opuscoli aggiunti, intitolato: « Galateo de' Letterati . » L' altro, che ha per titolo: « Breve esposizione della filosofia di Melchiorre Gioja (1), » procaccia di mostrare in tutta la sua nudità ed abbiezione la filosofia di Elvezio riprodotta sgraziatamente in veste italiana da tale, che se avesse, in vece di copiar servilmente il male dagli stranieri, ricercata liberamente col suo ingegno la verità, non avrebbe giammai prescelto d' estinguere, quant' era da lui, nell' uomo l' intelligenza riducendola alla sensazione, e la morale rivocandola tutta al piacere. Come tutto ciò che può render nobile la filosofia teoretica, si è la distinzione dell' idea dalla sensazione; così non v' ha nulla nella filosofia morale di elevato e di sublime, che non discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge che obbliga, ed una semplice inclinazione che alletta. Se non v' ha nulla nell' umano intelletto che differisca essenzialmente dalla sensazione, non v' ha nè pur nulla che costituisca una differenza essenziale dell' uomo da' bruti; e se non v' ha altra legge morale che l' inclinazione a ciò che è piacevole, è tolto via con questo ogni diritto , e non esiste che un fatto . Una tale filosofia distrugge dunque l' umanità , e non lascia per oggetto della filosofica investigazione che l' animale: ella è dunque falsa, perchè manca di uno de' due caratteri che distinguono la vera filosofia, cioè di quello della TOTALITA`. Ma il carattere della TOTALITA`, com' abbiamo osservato, è congiunto essenzialmente coll' altro della UNITA`; e non può avervi nè pur questo in una dottrina filosofica che si trovi priva di quello. Perciò una materiale filosofia non può congiungere le sue parti ad unità, appunto perchè ciò che rigetta dello scibile umano, ciò che ella non vede, sono « i più intimi, cioè, gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. » In fatti, riducendo essa alla sensazione corporea tutto ciò che è nello spirito umano, non le resta ad oggetto del suo sapere (benchè, a parlare con coerenza, questo stesso sarebbe impossibile), che la materia, o, per meglio dire, i puri accidenti della materia: e la materia è subbietto di divisione indefinita, e non può somministrare alla mente alcuna nozione di vera unità: gli accidenti perdono anche quella unità che aver potrebbero, ove vengano divisi dal subbietto nel quale esistono, o, per parlare più accuratamente, del quale formano il modo d' esistere (1). Solo lo spirito è il fonte della unità; e solo le essenze che allo spirito risplendono, sono quei legami intimi e spirituali che unizzano, per così dire, le cose, le essenze ond' aver possiamo un subbietto unico, indivisibile, e onde la materia stessa, che di natura sua indefinitamente si moltiplica e sperde, veste una forma semplice e costante, e rendesi idonea a farsi oggetto de' nostri intellettuali concetti e de' nostri ragionamenti. Quindi nella filosofia della sensazione (1) una contraddizione interna ed una pugna continua con se medesima; poichè mentre l' intelletto non può veder nulla se non semplificato nella unità, il filosofo della sensazione all' incontro fa tutti gli sforzi, col suo intelletto medesimo, a persuadervi che non esiste cosa alcuna che sia veramente semplice ed una, s' assottiglia per dimostrarvi di non veder ciò ch' egli vede, e per riuscire a sciogliervi le idee astratte in altrettante collezioni d' individui , e a spezzarvi le idee d' individui in replicate sensazioni . Nè la parte morale della filosofia che tocchiamo, è meno priva de' due caratteri che contraddistinguono una dottrina vera e accomodata a' bisogni della umanità: perocchè essa non può aver quello della TOTALITA` cominciando da una esclusione , cioè escludendo fino la vera idea della obbligazione, e non può aver quello della UNITA` stabilendo una regola della vita variabile, siccom' è il piacere, a seconda de' tempi, de' luoghi, delle abitudini e di accidenti innumerevoli, in una parola de' capricci e degli appetiti umani. E pur sembrerebbe che una filosofia, acciocchè dovesse essere dichiarata falsa e rigettata, bastasse l' averla dimostrata priva di due caratteri essenziali così patenti; e non rimanesse più dubbio in sul danno di lei, dopo aver conosciuto ch' essa da un lato è parziale , cioè tendente ad escludere una parte dell' umano sapere, e conduce all' idiotismo , e fino alla distruzione delle cose , se l' esistenza di queste fosse all' umana ragione abbandonata; e che dall' altro è priva essenzialmente di unità , giacchè non lascia che il senso e distrugge la mente , ed « « è solo colla mente, » come dice S. Agostino, «che si percepisce l' unità »(2). » Similmente pareva, che io non avessi dovuto trovare contraddizione affermando che una vera filosofia doveva essere imparziale , doveva amar tutto e odiar nulla , doveva abbracciare, quanto era da sè, in se medesima tutti gli enti ch' ella potesse conoscere, e tutte le idee che trovasse vere, senza prevenzioni e senza avversioni; e che quando non avesse rifiutato nulla della verità, allora essa sarebbe penetrata fino ne' più intimi e spirituali vincoli delle cose, e mediante questi sarebbe salita ad una sublime unità, per la quale solo le cose sono possibili, giacchè, per citar di nuovo uno de' due lumi che ho segnato per mia guida, « « essere non è altra cosa che essere uno »(1). » Ma non piacque altrui che io predicassi questa dottrina, che è la dottrina dell' amore ; e che altamente, quanto io sapevo, gridassi, che il bisogno presente ed urgente in questo miserabile stato della umanità, era quello di cooperare perchè « « si conducesse l' uomo ad assomigliare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non ostinarsi a tentar di conformar le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo »(2) » Nel che io non trovo d' avere peccato, se non forse in una cosa, che in vece di dire la filosofia fornita de' due caratteri summentovati esser quella che io avea tolto a seguire, avrei potuto dire assai meglio, esser quella a cui tende ed anela tutto il secolo nostro, che sembra affaticato e contendente a tornare indietro dalla falsa strada, per la quale correva abbandonato il secolo precedente, e fuggiva, quasi direi, dalla eccellenza della umana natura per rannicchiarsi e racchiudersi tutto nel senso del corpo « « che ignora Iddio »(3). » Perocchè a quelle sentenze che io scriveva nel primo Volume degli Opuscoli, e che provenivano dal desiderio, sebben fornito di poco potere, d' una universale ed immobil sapienza, concordavano i sentimenti di tutti i buoni; tocchi intimamente da tanti mali, e pensosi sui grandi bisogni della umanità. Io predicava TOTALITA` ed UNITA` nell' « Educazione: » e mentre io affermava trovarsi un' educazione fornita di tali caratteri risalendo al modello che Iddio ci presentava nella sua Providenza, la quale non era altro finalmente che una educazione data all' intera umanità (4); altrove assumevasi il concetto medesimo per farlo servire di base appunto ad un' opera rivolta alla riforma della educazione, opera che in Francia si coronava, ed in essa scrivevasi: « « L' opera del perfezionamento consiste per l' uomo nell' imitare il piano della Providenza nel complesso della creazione, e nel compirlo in se medesimo »(1). » Io riprovavo la dottrina de' sofisti, che limitava la coltura umana alle relazioni dell' uomo colla società (2), e lo aggravava d' un fardello di cognizioni positive tanto più pesante, quant' erano staccate fra loro; nè queste si pregiavano nell' armonia che dovea risultare dal lor complesso, ma ciascuna a parte, e per se medesima; e non era io solo che così pensavo, ma altrove pure si riconosceva il medesimo vero; chè forza a conoscerlo l' esperienza di un decadimento precipitoso, sofferto dall' umanità sotto l' educazione materiale de' sofisti, cioè sotto un' educazione parziale e priva di scopo; e così si diceva [...OMISSIS...] Io volevo TOTALITA` ed UNITA` nella enciclopedia delle scienze; e in vece d' un immenso campo sparso di scientifiche ruine, dicevo conforme allo spirito del Cristianesimo il pensiero di Bacone, che mirando nell' opera della divina Providenza, scrivea dell' unione delle scienze: « « Noi meditiamo di fondare nell' intelletto umano un sacro Tempio, il quale rappresenti ed esprima il Mondo »(5). » Questo che io dicevo, e il lamento che io facevo contro a' sofisti de' nostri tempi, i quali ostentando una falsa modestia (1), affermavano che l' uomo non può conoscere quegl' « intimi e spirituali vincoli delle cose », da' quali solo viene alla scienza una certa TOTALITA` ed UNITA`, e senza i quali l' uomo non si appaga della verità, ma cerca di diffondersi nella finzione e fino nella distruzione, è il fatto che si riconosce e si deplora; e anche fuori d' Italia si descrivono gli sforzi de' sofisti per impiccolire la verità. [...OMISSIS...] Come questo fatto non è da me solo veduto, così è veduto parimente quell' altro, che, all' opposto de' sofisti che cercano impoverire il sapere umano e introdurre la guerra delle scienze fisiche a distruzione delle morali, la religione cristiana nel tempo che tutte promuove le scienze, infonde altresì in esse il principio della pace e della UNITA` (2). [...OMISSIS...] Io chiedevo oltre a ciò TOTALITA` ed UNITA` nelle belle arti, e massimamente nella poesia: a tal fine io richiamavo questa a' suoi principŒ, perchè non vagasse più a caso a intrecciar fiori che le appassiscono in mano, ma si rendesse maestra insieme e sollievo di una vita intelligente e affaticata; e trovavo, i principŒ di essa essere stati la meditazione nella divina Providenza, della quale questo universo è un gioco sublime; e questo mio voto, questo mio sentimento si ritrovava poco fa vero, e si ripeteva presso di noi, così favellandosi del padre della greca poesia: [...OMISSIS...] Il poeta e l' artista, che s' innalza alla contemplazione della Providenza nelle opere della natura o ne' fatti degli uomini che egli esprime, in pari tempo ch' egli sublima i suoi concetti, perchè raggiunge la parte col TUTTO (3) e non resta nulla di piccolo o di lieve momento a lui che considera anche ciò che è piccolo per se stesso in una necessaria relazione con ciò che è grande; raccoglie ancora ogni moltiplice varietà in un ordine, in UNA cosa sola; conciossiachè egli ravvisa in checchè avvenga ed in checchè esista, l' opera di un solo autore, un solo disegno, una sola mente immensamente benefica, savia e potente. L' unità trovasi nell' uomo della natura: questi non è ancora diviso e sparso in infiniti oggetti e relazioni parziali; e l' ordine delle sue potenze, che conserva in se medesimo, lo rende atto a sentir l' ordine delle cose esteriori, ed a sollevarsi immediatamente e quasi d' un semplice volo alla prima causa: ma quest' uomo, in uno stato quasi individuale, è abbandonato a se stesso, e soggetto alle illusioni sensibili; dietro a quelle poi si spezza, si moltiplica, si disordina: indi il severo senno ne' primi artisti, e il progresso d' una crescente mollezza ne' posteriori (1). Ma intanto che l' individuo si corrompe, e che la poesia e le arti del bello da un grave carattere e da una elevatezza onde abbracciano l' universalità delle cose, discendono ad affezioni più singolari e arbitrarie, a sensi più minuti e più attenuati (2); i progressi più lenti della società umana (3), ma più costanti, riparano incessantemente alla corruzione individuale, e mentre questa ha percorso forse più volte il suo intero periodo, quella d' un passo uguale procede, senza ritorno, senza che niente valga a metterle intoppo, là dove la guida, sarei per dire, dall' alto cielo un infallibile auriga, cioè ad una meta ch' egli le ha fermato seco medesimo, e che non manifesta ai mortali se non coll' evento (1). Si trovano dunque due contrarŒ andamenti nelle belle arti, rappresentatrici dello stato dell' umanità: l' andamento dell' individuo inclinato a scadere dal totale al parziale, e l' andamento della società che continuamente si estende e si ammigliora per opera della Providenza, e mira a rialzar gl' individui nuovamente dal parziale al totale. Quindi ciò che v' ha di integro e di sapiente in Omero, è dovuto all' individuo della natura: e ciò che v' ha di spirituale e di puro in Virgilio, è dovuto ai progressi della società (2). La spiritualità di Virgilio è l' estremo che toccò giammai la società nel Paganesimo, ma è infinitamente lontana da quella a cui tende la società Cristiana: questa è essenzialmente spirituale e perciò essenzialmente universale, mentre quella non potea che manifestare una tendenza a questa, un desiderio dell' umana natura, un inesplicato bisogno. Perciò quando io dicevo, che le arti e la letteratura dovevano anch' esse ne' nostri tempi vestire quella grandezza e quella spiritualità che rende sì magnifica la società de' credenti (3); io non pronunziava una sentenza mia particolare, non facevo che dichiarare ciò che conviene al mio tempo, che essere l' interprete del mio secolo, il quale anche meglio de' precedenti pare che senta intimamente come il governo del Cristianesimo è una cosa stessa col governo che fa dell' Universo la divina Providenza. E se Virgilio, per esser caro alla maggiore società che fosse fino a quel tempo nel mondo stata, e anche ad una migliore, si partiva, quanto poteva il più, ne' suoi versi, da ciò che è basso e corporeo, e « cercava i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose »; noi vediamo che oggidì il sentimento umano via più sublime procede, e dimanda una purezza ed una estensione maggiore: e gli uomini non si appagano più tanto del mondo sensibile, ma esso pare che sia raffreddato al loro senso; e per vagheggiare una felicità, devono uscir co' pensieri dalla terra e dalle sfere degli astri, e cercarla nell' interminabile, nell' eterno, nell' assoluto, in quella UNITA` nella quale la TOTALITA` si contiene. La felicità più spirituale che Virgilio potè descrivere sollevandosi su tutte le ignoranze e le cupidigie umane, fu una quiete sicura, un' abbondanza di sostanze, una fuga dalla vita cittadina per riposare fra i greggi e in mezzo ai campi, ove egli diceva avere Giustizia impresso i suoi estremi vestigi quando abbandonava la terra: [...OMISSIS...] Ma inefficaci a soddisfare l' animo dei presenti uomini sono tali beni, e tali amenità della natura fisica: che dico l' animo? la fantasia medesima di questi non ne è saziata: ella stessa aspira a qualche cosa di morale, che la raggiunga ad un mondo invisibile, il quale contenga la spiegazione e il compimento del visibile. La spiritualità della poesia cristiana, dirò anche della poesia del secolo nostro, può sentirsi in questi versi, paragonandoli a quelli soprarrecati di Virgilio: [...OMISSIS...] Egli è quest' alienazione dalla natura materiale, o almeno questo bisogno di avvivar tutto ciò che è corporeo con legami che lo raggiungano a ciò che è spirituale; è quest' ambizione, direi quasi, di mostrarsi alto da terra, che sembra dover caratterizzare il secolo nel quale già siamo avviati, e che lo diparte dal precedente che ha fatto tutti gli sforzi per rendersi materiale, e non ha potuto. Egli non ha potuto che apparir tale; e perchè ogni apparenza è breve, bastò qualche lustro, acciocchè il mondo materiale ed incredulo, si ritrovasse, maravigliando di se medesimo, e spirituale di nuovo e cristiano. [...OMISSIS...] Quando il poeta o l' artista mira la natura e la storia come opera della Provvidenza, allora gli si dissipano innanzi tutte le irregolarità e le deformità che a primo scontro presenta la realtà delle cose. E` solamente considerando le parti nel tutto , che quelle ricevono un ordine ed una bellezza: indi come io predicavo il bisogno della VERITA` nelle arti cristiane, così additavo la via di trovare in essa una perfetta BELLEZZA: e affermavo, gli uomini non aver bisogno d' inventarne una artificiale e falsa, se non quando non sono ancora atti a vedere la reale e la vera nelle opere del Creatore (2). Ma sono io il solo, il primo a proclamare la verità nelle arti, o non è essa una voce fortissima, universale? non è questo il più manifesto bisogno del tempo così insaziabile di udire fatti, di leggere storie? e nel quale si vuole sommettere fino il Romanzo , opera essenzialmente menzognera, alla verità? e non si finirà forse anche coll' escluderlo dalla letteratura interamente? Non voglio dire che non v' abbia alcuno individuo nel nostro tempo, che a questi veri pur faccia mal viso: tutti quelli che si angustiano nelle cose particolari, senza allargarsi a considerar queste con uno sguardo universale, devono rinvenirle povere, a tale da rendere con esse basso lo stile; non possono che lamentarsi « della trista e fredda realtà delle cose (3), » e correre a racconsolarsi in vane creature della propria fantasia; ed uno di questi, un' anima ardente, che sentiva pure il bisogno di ampiezza, ma non avea trovata la via che il rallargasse nella verità, cercava di associare a questa la finzione, sperando di renderla, con tale giunta, più ampia e più bella; e così, non ha molto, scriveva: [...OMISSIS...] Dico che questa non è voce della presente società, ma voce di un individuo che abbandona i suoi contemporanei per retrogredire fra gli adoratori degl' idoli, senza che abbia però forza di strascinar seco gli uomini del suo tempo. Questi sono v“lti indeclinabilmente all' unità primitiva: l' analisi non parte che da una sintesi precedente; e mentre sembra da questa allontanarsi fino che non è ancora perfetta, a quella si avvicina più che acquista di perfezione, ed in quella ritorna e termina intieramente quando alla sua piena perfezione è pervenuta. Quindi l' arte dell' educazione quanto si farà più adulta, tanto più agognerà di ricondur l' uomo incivilito a que' pochi elementi che pose in esso Iddio con una prima rivelazione, quasi semi di un grande sviluppamento: allora le infinite suddivisioni delle scienze racquisteranno quei vincoli già spezzati con esse, che le ritornino ad una scienza unica, a quella unità di sapere che tanto era cara ai primi sapienti (3): e le arti del bello, queste lingue degli affetti, tenderanno via più ad un amore compiuto, da nessun odio limitato, ad un amore degno dell' uomo perchè figliuolo della verità, e che si sente profondo nei primi poeti (1). Finalmente io dicevo che l' UNITA` delle idee conduce all' UNIONE delle persone, e che la TOTALITA` di quelle può solo congregar queste in una SOCIETA` UNIVERSALE: che se la formazione di tale società travalica le forze degli uomini abbandonati a se stessi, essa non è superiore alle forze di Dio: che onde vien la sapienza, cioè la scienza completa (2), indi viene ancora la CATTOLICA UNITA`: e che quegli potè comandare l' AMORE DEL PROSSIMO, che potè rivelare la VERITA` (3). Ma tutto questo non fui io solo a dirlo; mentre da mille parti si ripetono i veri compresi nelle seguenti non mie parole (1) [...OMISSIS...] La filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Le ragioni ultime sono le risposte soddisfacenti che l' uomo dà agli ultimi perchè , coi quali la sua mente interroga se stessa. Vi ha due classi di ragioni ultime: le ragioni di tutto lo scibile, e le ragioni ultime di qualche parte speciale dello scibile. Le ragioni ultime di tutto lo scibile sono le sole veramente ultime, e però costituiscono lo scopo della filosofia generale . Le ragioni ultime di certe determinate parti dello scibile non sono ultime, se non rispetto a tali determinate parti, e costituiscono lo scopo delle filosofie speciali delle singole scienze: la filosofia delle matematiche, la filosofia della fisica, la filosofia della storia, la filosofia della politica, la filosofia dell' arte ecc.. L' uomo che si mette in cammino per investigare le ragioni ultime e soddisfare ai perchè, interrogazioni spontanee della sua mente, non può che cominciare dal riconoscere lo stato delle sue cognizioni e delle sue persuasioni, e quindi muovere all' opera di renderle compiute, a tale che soddisfacciano al bisogno dell' intelligenza, che non si appaga se non rendendosi ragione di tutto ciò che sa; se non rendendosene una ragione così evidente che non abbia bisogno di un' altra, ma ella stessa sia quella, in cui la mente trovi sua quiete. La quiete della mente di cui qui si parla non è che una quiete scientifica , una quiete ottenuta per via di scienza, la quiete che risponde al perchè, col quale interroga se stessa la mente inquisitrice. Ma non è a credersi, che la mente rivolga sempre a se stessa tali interrogazioni: molti uomini non se la fanno; o se ne fanno alcune, ma non tutte quelle che si potrebbero fare. La mente che non interroga se stessa, è quieta, e la mente che interroga se stessa fino a un certo segno e non più in là, è parimenti quieta e tranquilla; tostochè ella ha trovata la risposta a quel limitato numero d' interrogazioni, quantunque non sia pervenuta alle ragioni ultime, delle quali non ha bisogno a conseguire tranquillità. Quindi la scienza delle ragioni ultime, cioè la filosofia, non è necessaria alla quiete delle menti del maggior numero degli uomini, i quali s' appagano mediante una cognizione più limitata. Questa cognizione non ancor filosofica può essere vera e certa e quindi atta a produrre nell' uomo una ragionevolissima persuasione. Ma dato prima un uomo in possesso di persuasioni ferme e certe, senza che egli ancor senta il bisogno d' investigare le ragioni ultime di esse, può in appresso sorgere nella sua mente l' interrogazione degli ultimi perchè. Sarà egli allora inquieto, o in istato d' incertezza, fino che non ha trovate le bramate risposte? Convien qui distinguere fra il riposo della mente e il riposo dell' animo. Alla prima appartiene il ragionamento , alla seconda la persuasione . Queste sono due facoltà diverse grandemente fra loro. Il ragionamento ha qualche cosa di necessario e, per così dire, fatale; la persuasione ha molto del volontario. Laonde possono essere nell' uomo persuasioni fermissime, quantunque l' uomo non sappia darne a se stesso espressa ragione. Di più, fra le persuasioni di cui l' uomo non sa dare a se stesso ragione, ve n' hanno di cieche e di ragionevoli. Le persuasioni cieche sono così arbitrarie, che non s' appoggiano a ragione alcuna, e sono spesso erronee, ma possono anche per accidente esser vere. Le persuasioni ragionevoli, di cui l' uomo non sa dar ragione a se stesso, sono quelle che s' appoggiano ad una ragione solida, dall' uomo direttamente conosciuta e penetrata in modo che gli produce l' assenso, ma di cui egli non ha coscienza, perchè non sa rivolgere la sua riflessione sopra di essa, epperciò non sa esprimerla nè renderla o a se medesimo o agli altri, se ne lo interrogano. Manca dunque qualche cosa alla mente, al ragionamento di quest' uomo; gli manca lo sviluppo della riflessione; ma egli possiede nondimeno la verità e la ferma persuasione della verità, onde l' animo suo è quieto, e può altresì esser quieta la sua mente, se egli non dia alcuna importanza alle interrogazioni interiori di essa, ond' è come se la mente in tal caso non facesse interrogazione alcuna. Ma la mente, come tale, il ragionamento di quest' uomo considerato come ragionamento, e non in ordine alla persuasione e quiete dell' animo nè al possesso della verità e della certezza, non ha tuttavia soddisfatto a pieno a se medesimo, e in questo senso non ha trovato ancora il suo riposo. La filosofia è quella che conduce a ritrovare questo riposo scientifico della mente. Vi ha dunque una cognizione popolare che può essere sufficiente alle esigenze dell' uomo, e vi ha una cognizione filosofica che soddisfa alle esigenze del ragionamento: questa seconda è l' opera della riflessione , sviluppata fino all' invenzione delle ragioni ultime. Per arrivare a questa l' uomo parte dallo stato intellettivo in cui egli si trova. E la prima interrogazione ch' egli fa a se medesimo si è: « Io credo di conoscere molte cose, ma che cosa è questa mia cognizione? non potrei io ingannarmi? perchè mai non potrebb' essere un' illusione tutto ciò che io credo sapere? » Questa domanda lo conduce all' invenzione dell' Ideologia e della Logica , che sono scienze d' intuizione perchè hanno per loro oggetto le idee. IDEOLOGIA. - L' ideologia si propone d' investigare la natura del sapere umano; e la logica si propone di dimostrare che la natura del sapere umano è tale, che non ammette errore: di maniera che ogni errore è da cercarsi fuori della natura del sapere; l' errore non è sapere. Ecco in qual modo procede l' ideologia. Non si può conoscere la natura del sapere umano, se non si osserva tale qual è. L' osservazione adunque interna , quella che affissa l' attenzione nelle cognizioni nostre per rilevare esattamente che cosa sono, è l' istrumento dell' ideologia, è il metodo da tenersi in questa investigazione. A torto direbbesi, che, non essendosi ancor trovata la veracità dell' osservazione, ella non può esserci una scorta fedele; perocchè noi non adoperiamo a principio l' osservazione come mezzo di dimostrare, ma l' adoperiamo provvisoriamente, come mezzo di stabilire ciò che si dovrà poi dimostrare, quando il risultato dell' osservazione, assunto come una mera apparenza, ci si cangerà in vero e certo, perchè in lui stesso troveremo la prova indubitabile della sua verità e certezza, fino a non esser possibile il contrario. Osserviamo adunque attentamente le cognizioni umane. Queste sono innumerevoli. Volendo esaminarle ad una ad una, l' opera sarebbe infinita. D' altra parte noi non cerchiamo quello in cui esse differiscono l' una dall' altra, ma quello in cui esse convengono. Esse convengono nell' esser tutte cognizioni, e ciò che noi vogliamo osservare e meditare si è appunto la natura della cognizione. Egli è dunque uopo, prima di tutto, cercare ciò che abbiano tutte di comune; giacchè questo elemento comune sarà appunto l' essenza della cognizione. Ridotta e concentrata in questo punto la nostra ricerca, io vedo intanto che, per lo meno rispetto ad un numero grandissimo di cognizioni, si avvera che io non le ho se non mediante un atto, col quale io affermo qualche cosa. A ragion d' esempio, io so d' esistere, io so ch' esistono altri esseri simili a me, io so ch' esistono de' corpi estesi, larghi, lunghi e profondi. Non cerco ora se questo mio sapere m' inganni o no; io intanto so tutto questo e cerco di sapere come lo so. Ora io veggo che io non saprei che esiste un solo ente, se io non dicessi, se non avessi mai detto a me stesso, che quell' ente esiste. Sapere dunque che esiste un ente, e dire o pronunciare meco stesso che esiste, è il medesimo. La mia cognizione adunque degli enti reali non è che un' affermazione interna, un giudizio . Conosciuto questo, non mi rimane che ad analizzare un tale giudizio, ad osservarne l' intima sua costituzione: in tal modo avrò forse fatto un passo avanti nella scoperta della natura della stessa cognizione. Quando io dico meco stesso, che esiste un dato ente qualunque particolare e reale, io non intenderei me stesso, non intenderei ciò che dico, se non sapessi già che cosa è ente, che cosa è entità. La notizia dunque dell' entità in universale debb' essere in me, e precedere tutti quei giudizŒ, coi quali dico che qualche ente particolare e reale esiste. Mediante questa prima considerazione, io rilevo che altro è conoscere che cosa sia ente in universale, e altro è conoscere che esiste un ente particolare e reale. Per conoscere che esiste un ente particolare e reale, io ho bisogno di affermarlo a me stesso, come dicevo: ma per sapere semplicemente che cosa è ente, io non ho bisogno di nessuna affermazione , ma d' un altro atto dello spirito che chiamerò intuizione: questa maniera di conoscere per semplice intuizione è al tutto diversa dall' altra maniera di conoscere per affermazione. Sono due maniere di conoscere innegabili, l' una delle quali, cioè quella per intuizione, precede all' altra, cioè a quella per affermazione. Le cognizioni umane adunque si dividono in due grandi classi: cognizioni per affermazione , e cognizioni per intuizione . L' ordine di queste due classi di cognizioni risulta da ciò che è detto; le cognizioni per affermazione non si possono acquistare se non sono precedute da qualche cognizione per intuizione: queste dunque sono anteriori a quelle. Di nuovo dunque, prima di conoscere un ente particolare e reale si deve conoscere l' ente in universale. Esaminiamo la differenza che passa fra l' ente particolare e reale , e l' ente universale . Fin a tanto che io so soltanto che cosa è ente, non so ancora se un ente particolare o reale esista, ma però conosco che cosa è ente. Conoscere che cosa è ente si traduce in questa frase filosofica: conoscere l' essenza dell' ente . Coll' intuizione adunque si conosce l' essenza dell' ente . Ma se io, oltre conoscere l' essenza dell' ente, affermo anche meco stesso, e quindi so che un ente particolare esiste, che cosa so io allora più di prima? Per bene rispondere a questa domanda, debbo meditare sull' atto della mia affermazione, col quale io mi formo questa nuova cognizione, debbo perscrutare la natura e la ragione di essa. Perchè dunque affermo io che un ente esiste? che m' induce a ciò? che cosa è quest' esistere? Egli è certo, che, se non sempre, almeno molte volte, a pronunciare che un ente esiste, io son condotto da un sentimento . Così io son condotto a pronunciare che esistono i corpi esterni mosso dalle sensazioni che mi producono. Son condotto a pronunciare che esiste il mio proprio corpo dai sentimenti speciali che ho di esso. Finalmente son condotto a pronunciare che esisto io stesso pure da un intimo senso. In tutti questi casi adunque, ciò che mi fa dire che esiste un ente particolare e reale, è il sentimento; di maniera che ogni affermazione, ogni giudizio (ne' casi detti), col quale pronunzio e dico a me stesso che esiste un ente particolare e reale, si riduce a questa formola: vi è un sentimento; dunque esiste un ente . Questa formola merita di essere ben meditata ed analizzata. Intanto ella suppone che fra il sentimento e l' esistenza reale v' abbia un nesso necessario, a tal che non si possa dare sentimento senza che vi sia un ente reale: ella suppone dunque che nel sentimento si riscontri in qualche modo realizzata l' essenza dell' ente, che prima si conosceva solo in universale. Dato dunque uno spirito che prima conosca semplicemente l' essenza dell' ente senza sapere se l' ente esiste; e dato poscia che questo spirito riceva, provi, avverta un sentimento, tosto egli afferma che quell' ente di cui prima conosceva l' essenza, anche esiste. Il sentimento dunque è ciò che costituisce la realità degli enti . Ma qui nascono obbiezioni in folla. Primieramente si affaccia al pensiero, che la cognizione dell' ente che precede l' affermazione di un ente reale, riguarda un ente universale, mentre l' ente che si afferma è particolare. A questo si risponde che l' essenza dell' ente che si conosce non è punto universale, ma che la parola universale , che vi si aggiunge, altro non esprime che il modo col quale la si conosce; onde, quando si afferma che quell' essenza è realizzata, non si afferma già che sia realizzato il modo con cui quella essenza si conosce, ma che sia realizzata lei stessa. Insorgono altre difficoltà su ciò che abbiam detto, l' esistenza reale dell' essere trovarsi nel sentimento: primo perchè noi veggiamo che molti sentimenti si cangiano rimanendo identico l' ente subbietto de' medesimi: secondo, perchè i corpi esterni non hanno sentimento, e pure si affermano e si credono esistenti. Ma è da considerarsi quanto alla prima difficoltà, che il subbietto de' sentimenti che si cangiano, è un sentimento egli stesso, altramente non si conoscerebbe; o per evitare ogni discussione su di ciò, è almeno un principio senziente che si riferisce al sentimento, e che perciò da ogni sentimento non si può scompagnare. Quanto poi ai corpi esterni, non per altro si percepiscono, se non perchè agiscono nel nostro sentimento; onde anch' essi si conoscono unicamente per la relazione che hanno col sentimento, in quantochè sono principii attivi modificatori del sentimento, cadono dunque nel sentimento come agenti in esso. Ogni ente reale adunque a noi cognito per esperienza si riduce finalmente al sentimento, o al principio del sentimento, o a certe virtù che agiscono nel sentimento. Per comprendere tutto in una espressione ed evitare ogni lunga discussione, diremo, che ciò che nella percezione degli enti reali si afferma essere un ente, è sempre un' attività sentita . Or proseguiamo l' analisi dell' affermazione degli enti reali. Affermando noi dunque che l' essenza dell' ente è realizzata in un' attività sentita, noi affermiamo che esiste un ente reale. Conoscere adunque l' esistenza di un ente reale, è il medesimo che affermare una specie d' identità fra l' essenza dell' ente e l' attività che nel sentimento si manifesta. Tuttavia quest' identità non è perfetta; conciossiachè in una data attività sentita o senziente non si esaurisce l' essenza dell' ente: quindi innumerabili sentimenti, che ci fanno affermare l' esistenza di altrettanti enti reali, l' uno diverso dall' altro. Di ciascuno affermiamo che esiste, che è un ente: di ciascuno affermiamo la stessa cosa, in ciascuno riconosciamo l' essenza dell' ente. Riconoscere in ciascuno l' essenza dell' ente, è lo stesso che dire che l' essenza di ciascuno di questi enti che affermiamo, è identica coll' essenza dell' ente che conoscevamo prima: eppure sono tutti enti diversi. Dunque convien dire che, sebbene sieno diversi in altro, abbiano però qualche cosa di comune, e questa cosa di comune è l' essenza dell' ente, perocchè sono tutti enti. Si noti che in tutto ciò noi non facciamo che osservare il fatto della cognizione degli enti reali , ed analizzarlo, senza aggiungervi alcun ragionamento. Intanto, dal sapere che in tutta la realità degli enti reali che noi affermiamo, troviamo realizzata l' essenza dell' ente, possiamo meglio intendere in che senso abbiamo detto che l' essenza dell' ente è universale; è universale perchè è atta a realizzarsi in tanti enti particolari; quindi perchè con essa sola noi conosciamo tutti gli enti reali: questa universalità non è in essa, è una sua relazione cogli enti reali. Ma se gli enti che affermiamo, convengono nell' essere enti, ma poi differiscono in altre cose, queste altre cose in cui differiscono, non sono elleno altrettante entità? Certo, se non fossero entità, non sarebbero al tutto. Dunque l' essenza degli enti si realizza anche nelle differenze degli enti. Anche in queste differenze, in quel modo che sono, si scorge l' identica essenza dell' ente. Or come l' identica essenza dell' ente può riscontrarsi realizzata in tanti enti diversi? e non solo in ciò che questi enti hanno di comune, ma anche in ciò che hanno di proprio? Anche a rispondere a ciò altro non ci può aiutare che l' osservazione, la meditazione della cosa: dobbiamo anche qui vedere come la cosa è: non dobbiamo argomentare a priori com' ella possa o debba essere. Ora quest' osservazione filosofica ci dice, che ogni ente reale ed ogni differenza degli enti reali fra loro è sempre una realizzazione dell' essenza a noi conosciuta dell' ente. L' essenza dell' ente è identica, le sue realizzazioni sono molte e varie. Dunque L' essenza dell' ente ha vari gradi e modi di realizzazione; Nessuno di questi gradi e modi finiti di realizzazione esaurisce l' essenza dell' ente, sicchè ella può essere ancora realizzata in altri gradi e modi, non cerco ora se all' infinito. I gradi e modi diversi in cui si realizza l' essenza dell' ente sono limitati, perchè di questi soli parliamo, e queste limitazioni costituiscono la loro differenza. Ora queste limitazioni che cadono negli enti reali non appartengono già all' essenza dell' ente, che anzi sono non7enti. Quindi l' essenza dell' ente si trova realizzata nei vari enti in quanto sono enti, e non in quanto sono non7enti. Questa realizzazione è limitata, e in quanto è limitata cessa l' identità coll' essenza conosciuta dell' ente. L' essenza dunque dell' ente si realizza più o meno, ma in quanto si realizza, vi ha tutta (non totalmente), poichè ella è semplice e indivisibile, allo stesso modo come l' essenza del vino vi è tutta in una goccia di vino, e tutta egualmente in una gran botte. Ciò vuol dire che abbiamo bisogno di tutta l' essenza dell' ente o del vino per conoscere anche una piccola parte dell' ente reale, per esempio del vino. Dalle quali osservazioni si trae la conseguenza, che la quantità è cosa appartenente alla realizzazione dell' ente e non all' essenza dell' ente; ed è da osservarsi, che alla quantità si dee ricorrere per ispiegare le limitazioni, i modi diversi, i gradi, le differenze degli enti, il numero ecc.; cose tutte non appartenenti all' essenza dell' ente, ma alle leggi della sua realizzazione. Si dirà: Se tutte le cose si conoscono mediante l' essenza dell' ente, come poi si conoscono le accennate proprietà negative che non sono nell' essenza dell' ente? e non vi sono forse idee degli enti particolari, delle loro differenze ecc.? Rispondo, che l' essenza dell' ente è quella stessa che fa conoscere tutte le negazioni, perchè la cognizione di esse non consiste in altro, se non nel sapere che sono il contrario, sono negazioni dell' ente, e la negazione di una cosa si sa tostochè si conosce la cosa che si nega. Per altro è da notarsi, che il linguaggio indica con un segno positivo, con una parola tanto l' ente quanto la negazione dell' ente, e l' uomo dice il nulla, il limite, il modo ecc., come dice pure, l' ente. Di che avviene, che quelle cose si rappresentino alla nostra immaginazione come fossero altrettante entità, benchè non siano. Rispondo dunque, che le idee che hanno per oggetto la negazione dell' ente, altro non sono che l' idea dell' ente stesso; più l' atto di negazione che noi facciamo di esso. Quanto poi alle idee di enti particolari composti tutti di positivo e di negativo, cioè di realizzazione e di limitazione, altro esse non sono se non il rapporto fra l' ente reale (o la memoria che abbiamo di esso) e l' essenza dell' ente; di maniera che l' idea di un cavallo, a ragion d' esempio, non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un cavallo, l' idea di un uomo non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un uomo ecc.. Così il fondamento della cognizione di tutti questi esseri è sempre l' essenza dell' ente; le idee dunque degli enti particolari sono sempre l' idea dell' ente considerata in rapporto con un certo dato grado e modo di realizzazione, onde a propriamente parlare, non si dà che una idea sola, la quale alla mente nostra fa conoscere più enti particolari, e così si cangia in altrettanti concetti , diventa i concetti speciali di tutti questi enti. Ma oltre a tutto ciò, si debbono fare alcune altre considerazioni per coglier bene in che consista quest' identità imperfetta, che noi dicevamo riscontrarsi fra le entità da noi sentite, e l' essenza dell' ente da noi intuita. Dicevamo che le limitazioni non entrano in quest' identità. Or una di queste limitazioni è la contingenza delle cose finite. Quindi la contingenza non si riscontra nell' essenza dell' ente. Di che v' ha anzi sotto questo aspetto opposizione fra l' ente contingente e l' essenza dell' ente, la quale è da noi intuita come immutabile e necessaria. Di più: allorquando noi osserviamo l' identità dell' ente reale contingente coll' essenza dell' ente, noi osserviamo questa identità nella nostra percezione e cognizione, non già nell' ente diviso da essa cognizione, o percezione. Di vero, è nell' ente reale conosciuto che questa identità si trova, si forma; ed è anzi mediante la formazione di questa identità che l' attività sentita si percepisce e conosce. In fatti, fino a tanto che l' attività sentita non è identificata coll' essenza dell' ente, ella non è conosciuta, nè percepita; non è ancora un ente percettibile, un oggetto. Coll' atto dunque della percezione si aggiunge all' attività sentita qualche cosa, e così la si rende un ente percettibile, e quest' è appunto l' ente, di cui il sentimento o l' attività sentita contingente non è che un modo imperfetto, non percettibile in separato dall' ente, ma solo nell' ente oggettivo, come meglio dichiareremo più sotto parlando della percezione [92 7 94]. E sebbene in tal modo concorra la mente a costituire l' ente percepito , l' oggetto; non è men vero ciò che percepisce la mente, perchè la mente stessa sa ciò che vi aggiunge e ciò che le è dato: onde sa la cosa com' è. Da quest' analisi della cognizione nostra degli enti reali si spiega perchè gli uomini sono generalmente persuasi di non conoscere il fondo delle cose, ciò che le fa essere. La ragione di tale ignoranza si è, che nelle attività sentite questo fondo manca, e viene dato loro, per così dire, ad imprestito dalla stessa mente che le percepisce. La mente cioè suppone una radice delle cose contingenti, perchè senza di essa non le potrebbe percepire, ma non determina che cosa sia questa radice, perchè non la percepisce. Il mezzo adunque con cui noi conosciamo le cose reali è l' essenza dell' ente; e perciò l' essenza dell' ente, in quant' è mezzo di conoscere, è detta da noi essere ideale . Ma si noti bene che la parola ideale non significa l' essenza dell' ente, ma significa la dote che ha quest' essenza di farci conoscere le cose reali. Onde, quando noi affermiamo che esiste un ente reale, non affermiamo già l' idealità , non affermiamo ch' egli sia ideale, ma affermiamo che egli ha l' essenza di ente. Ma se noi conosciamo le cose reali coll' essenza, come poi conosciamo l' essenza stessa dell' ente? L' osservazione del fatto ci attesta, che la notizia dell' essenza dell' ente è data al nostro spirito prima di ogni altra cognizione; e se noi ne meditiamo la natura, troviamo di più che non può essere altrimenti, che una tale notizia non si può acquistare e formare per mezzo di alcun' altra, finalmente ch' ella è conoscibile per se stessa. E veramente il fatto ci dice, che l' uomo non comincia ad usare le facoltà del suo spirito, se non in occasione delle sensazioni esterne, e che il pensiero dell' uomo comincia dall' accorgersi che esistono de' corpi, che esiste egli stesso, che esiste qualche cosa di reale. Ora questo primo pensiero non è, come abbiam detto, se non una affermazione, è affermare un ente; il che suppone che si conosca innanzi l' essenza dell' ente [14]. Dunque l' essenza dell' ente è nota all' uomo prima di tutti gli atti del suo pensiero: dunque ella non è acquistata cogli atti del pensiero: ma è data precedentemente dall' autore della natura. Di più, supponiamo che l' uomo non sapesse che cosa è ente; egli non potrebbe mai, per quanti piaceri o dolori sentisse, dire che c' è un ente. Non potrebbe riconoscere che la sensazione suppone un ente, perocchè appunto non saprebbe che cosa sia ente: dunque non conoscerebbe nulla, e non conoscendo nulla, non avrebbe alcuna cosa nota che gli facesse la via a conoscere l' essenza dell' ente. Dunque l' essenza dell' ente non può essere conosciuta per mezzo di altra notizia, ma per se stessa: l' essenza dell' ente adunque è conoscibile per sè ed è il mezzo che fa conoscere tutte le altre cose ; ella è dunque il lume della ragione . In questo senso si dice che l' idea dell' ente è innata , e che è quella forma che dà l' intelligenza. Ma questa parola forma abbisogna di essere chiarita, perchè riceve diversi significati. La parola forma si prende a significare « ciò per cui un ente ha un atto suo proprio primitivo, che lo fa essere quello che è ». Così l' essenza dell' essere conoscibile per se stesso si dice forma dell' anima intelligente , perchè ella è ciò che dà all' anima quell' atto pel quale ella è intelligente. Ma dopo di ciò è da osservarsi che due specie di forme si possono distinguere. Ciò che dà il suo atto primitivo ed essenziale ad un essere, quanto alla nozione della mente, è cosa diversa dall' atto stesso; ma talora ciò che dà l' atto essenziale ad un essere, è parte dell' essere stesso, o si confonde collo stesso atto, rimanendo diviso dall' atto solo mentalmente e per via di astrazione; altre volte è cosa diversa realmente dall' atto, e dall' essere che viene informato. Così la forma di una cosa tagliente, per esempio di un coltello, non è che lo stesso taglio o filo del coltello, e appartiene al coltello, non è cosa da lui diversa. All' incontro la forma di un ferro rovente è il fuoco, cosa diversa dal ferro, e ogni qualvolta due enti si mettono in comunicazione, l' uno diventa la forma dell' altro, in quanto agisce ed entra nella sfera di essere dell' altro. Ora in quale dei due sensi l' essere ideale dicesi forma dell' intelligenza? Convien anche qui osservare e meditare il fatto della cosa. Attentamente osservando troveremo che l' essere ideale è forma dello spirito intelligente solo nel secondo significato e non nel primo. E veramente, sebbene noi arriviamo ad intendere che non siamo esseri intelligenti se non in virtù dell' essenza dell' essere che ci sta presente; tuttavia è impossibile che crediamo, che l' essenza dell' essere sia noi stessi, o che ella formi una parte di noi stessi. Trattasi dunque di una forma diversa da noi. Ciò che mette nell' atto d' intendere il nostro spirito è cosa grandemente da noi distinta, benchè sia in noi (sia a noi presente). Ma non basta. Anche presa la parola forma in questo significato, ella non si applica all' essere ideale, se non in un modo tutto suo proprio, in un modo tutto diverso da quello, in cui due esseri reali che esercitano fra loro reciproche azioni, come il fuoco e il ferro, si possono dire l' un forma o materia dell' altro. E` dunque ben da notarsi che il modo nel quale l' essenza dell' essere diviene forma del nostro spirito, non è punto nè poco simile a quella onde un essere reale diventa forma di un altro essere reale per via di azioni e di reazioni. L' essenza dell' essere diventa forma del nostro spirito unicamente col farsi conoscere, col rivelare la sua naturale conoscibilità; quindi dalla parte del nostro spirito non v' ha niuna reazione. Questo non fa che ricevere: il lume, la notizia che riceve, è ciò che lo rende intelligente: l' essenza dell' essere è semplice, inalterabile, immodificabile, non si può confondere o mescolare con altro: così si rivela, nè si può rivelare altramente. Lo spirito che la intuisce e l' atto dell' intuizione rimane fuori di lei. Lo spirito, intuendo lei, non intuisce se stesso. Quindi è che l' essenza dell' ente prende il nome di oggetto , che è quanto dire cosa contrapposta allo spirito intuente, al quale è riserbato il nome di soggetto . Dal che si vede che quando noi diciamo che l' essere ideale è forma dello spirito, usiamo la parola forma in un significato intieramente diverso ed opposto alle forme kantiane; perocchè le forme di Kant sono tutte soggettive, e la nostra è una forma oggettiva, e anzi oggetto per essenza. L' essenza dunque dell' essere col solo rendersi conoscibile allo spirito lo informa per modo da renderlo intelligente, ossia produce la facoltà d' intendere , perocchè ogni atto d' intendere ha sempre per oggetto l' entità. Tutto l' intendere si riduce ad intuire le essenze degli enti, e a pensare l' ente di cui si conosce l' essenza, realizzato in un dato modo, con certi limiti. L' essenza dell' ente fu da noi chiamata essere ideale : le sue realizzazioni enti reali . Se l' ente ideale si considera in relazione alle possibili sue realizzazioni, chiamasi anche ente possibile . La parola possibile non si applica all' ente come una sua propria qualità, ma unicamente per esprimere ch' egli può essere realizzato. Il che è da osservare attentamente, acciocchè forse non si creda che l' essenza dell' ente sia ella stessa una mera possibilità e nulla più. No: ella è una vera essenza, non è una possibilità di essenza; ma questa essenza può essere realizzata; se non è realizzata, è possibile la sua realizzazione: ecco ciò che significa ente possibile. Essendo poi molti gli esseri reali, e ciascuno di essi avendo un rapporto coll' ente possibile, l' ente possibile, considerato solo in rapporto coi diversi enti reali o realizzabili, diviene l' idea o per dir meglio il concetto di essi: quindi si dice che i concetti , le idee, gli enti ideali, gli enti possibili sono molti, perchè appunto sono tanti quanti sono i modi nei quali l' essenza dell' ente si può realizzare. Cerchiamo ora qual sia la relazione fra gli enti ideali e gli enti reali . Dato che io mi abbia l' ente ideale, io conosco l' essenza dell' ente, ma nulla più: non so ancora se quell' ente di cui conosco l' essenza, sia realizzato. Ciò viene a dire che io non ho ancora verun sentimento o almeno non vi rifletto, perocchè se riflettessi d' aver un sentimento, tosto conoscerei una realità. Ma rimossa da me ogni cognizione di ente reale, e supposto che io sappia solo che cosa è l' ente, senza sapere se è realizzato, l' oggetto della mia mente è forse il nulla? No certo; perocchè in tal caso la mia mente non conoscerebbe nulla, laddove pur conosce l' essenza dell' ente. Se in quel caso l' oggetto della mia mente non è il nulla, sono forse quest' oggetto io stesso? Neppure; perocchè io sono un ente reale, e la mia mente, nel caso posto, ha per oggetto solo l' ente ideale senza alcuna realizzazione; senza che io so troppo bene di non essere l' essenza dell' ente in universale; come pure so che l' essenza dell' ente è l' oggetto che intuisco , mentre io sono il soggetto intuente , e fra intuito e intuente vi ha opposizione: dunque l' uno non è l' altro. Convien dunque dire che non essendo un nulla l' essere ideale intuito dalla mente, e non essendo un ente reale vi abbia un' altra maniera di essere oltre quella della realità, e quindi è forza stabilire che i modi dell' essere sono due, il modo dell' essere ideale , e il modo dell' essere reale . Or posciachè l' uno e l' altro è un vero modo di essere, si possono applicare ad entrambi le parole esistere ed esistenza ; laonde per comodità di parlare giova riserbare al solo modo dell' essere reale le parole sussistere, sussistenza . Egli è chiaro che l' essere ideale, in relazione coll' essere reale, prende la natura di disegno, modello, esemplare, tipo, tutte le quali parole altro finalmente non significano se non mezzi di conoscere, conoscibilità dell' ente idea. Ora se gli enti reali sono limitati e contingenti, egli è chiaro che la loro realità è distinta dall' idea, la quale è immutabile e inalterabile, mentre gli enti reali possono essere e non essere. Quindi altra è la cognizione della loro essenza, altra la cognizione della loro sussistenza. Quella si ha coll' idea , questa coll' affermazione in occasione del sentimento (o di qualche segno che tenga luogo del sentimento). Ma la cognizione della sussistenza di un tal ente suppone che si conosca l' essenza dell' ente almeno in universale. Dato dunque il sentimento in un essere che non conosce che cosa è ente, il sentimento rimane cieco ed inintelligibile perchè non ha ancora ricevuta l' essenza [2.] che lo fa conoscere; l' essere che lo avesse, non affermerebbe un ente reale, perchè non potrebbe riferire il sentimento all' essenza, non direbbe a se stesso che cosa quel sentimento è. Tale è la condizion delle bestie fornite di sentimento, ma prive dell' intuizione dell' essere; perciò incapaci d' interpretare a se stesse i propri sentimenti, di completarli, di affermare, di dire a se stesse che vi sono enti reali. L' uomo all' incontro avendo la notizia dell' ente, tostochè prova i sentimenti, dice subito, che vi sono enti reali. Ma poichè il sentimento è una realità distinta dall' essere che lo fa conoscere, rimane a vedere come l' uomo possa congiungere questi due elementi dell' ente percepito. Affine d' intender ciò, convien ricorrere all' unità dell' uomo , alla semplicità dello spirito umano . Quell' io, quel principio stesso che sa che cosa è ente, è quello che ne prova in se stesso l' azione, giacchè il sentimento è un' azione dell' ente. Fin a tanto che quest' azione o questo sentimento si tiene separato dalla notizia dell' ente, esso è incognito, ma il principio semplicissimo intelligente7senziente non permette, per la sua semplicità, che il sentimento e la notizia dell' ente rimangano separati; l' uomo dunque vede l' ente operare in sè , il che è quanto dire produrre il sentimento. E` l' ente stesso identico che da una parte si manifesta all' uomo come conoscibile , dall' altra come attivo producente il sentimento. Nel che si osservi bene che tutta l' attività dell' ente si riduce alla sua entità; in questa si trova come nel suo fonte; è l' ente stesso attivo, e come tutto l' ente è conoscibile, così tutta l' attività sua in lui è conoscibile; dunque anche il sentimento, che è questa attività, è conoscibile nell' ente. Prima che l' ente operi, tale attività è conoscibile solo in potenza, perchè essa non esiste che in potenza; prima che l' ente operi in un determinato modo (producendo il sentimento), esiste in potenza il modo di tale attività, e non è determinato piuttosto un modo che un altro di essa, quindi l' attività potenziale che si conosce è indeterminata; per questo l' essere ideale si dice essere indeterminato . Taluno potrebbe qui fare la seguente obbiezione. Quando l' uomo afferma un ente, fa un giudizio. Ora per fare un giudizio si debbono conoscere i due termini del giudizio, il predicato ed il soggetto. Ma l' uno dei due termini cioè il sentimento, la realità, nel caso nostro, non si conosce. Dunque non si può fare il giudizio, che si suppone. La qual obbiezione chi ben la consideri, non può aver altra forza se non quella di negare l' appellazion di giudizio all' affermazione, colla quale si affermano, ed affermando si conoscono gli enti reali. Ora quand' anco si togliesse con ragione l' appellazione di giudizio alla detta affermazione, questo non distruggerebbe punto la teoria sopra esposta, cavata dall' osservazione; quand' anco adunque l' obbiezione si ammettesse, riman sempre fermo che sapere che un ente sussiste è un dire, un affermare dentro di sè che quell' ente sussiste, e quindi rimane egualmente ferma l' analisi fatta di questa affermazione, e le conseguenze dedottene. Tuttavia per soddisfare in tutto all' obbiettatore, esaminiamo altresì la nuova questione; se l' affermazione interiore con cui noi conosciamo la sussistenza di un ente, si possa chiamare un giudizio . Egli è certo che fino a tanto che i due elementi della detta affermazione, cioè l' essenza dell' ente e l' attività sentita , si considerano separati l' uno dall' altro, essi non presentano i due elementi necessarŒ alla formazione del giudizio, perocchè l' uno di essi è ancora incognito; di che procede l' obbiezione. Ma se questa obbiezione valesse, non si potrebbe ella fare contro ogni altro giudizio? In fatti in ogni giudizio si avvera, che il giudizio non vi è, e non vi può essere, fino a tanto che i termini del giudizio rimangono separati; e che egli non comincia ad essere, se non allora che i due termini sono già fra loro congiunti. Dunque basta, che i due termini sieno atti a formare un giudizio quando sono già uniti, e non importa se prima di unirsi non sieno termini idonei al giudizio. Convien dunque esaminare nel caso nostro se quei termini che prima del giudizio non sono idonei, coll' unirsi divengano tali; il che non è possibile a concepirsi. E questo è appunto ciò che avviene. Ma prima di dimostrarlo, facciamo alcune altre considerazioni. Perchè si dice, che il predicato ed il soggetto non si possono unire in giudizio, se prima entrambi non sono conosciuti? Perchè si suppone, che il principio che gli unisce, sia l' intelligenza, ossia la volontà intelligente, come avviene nella massima parte de' giudizŒ: ed è indubitato che l' intelligenza non unisce due termini, se non a condizione di prima conoscerli. Ma non potrebbe egli essere, che quello che unisce i due termini non fosse l' intelligenza, ma fosse la stessa natura? Questo è appunto quello che avviene nel caso di cui si tratta, perocchè l' essenza dell' ente , e l' attività sentita non vengono già unite dalla nostra intelligenza, ma dalla nostra natura, come abbiam detto: quella unione dipende dall' unità del soggetto e dall' identità dell' essere conoscibile e dell' essere attivo (sentito). Ora, se la natura unisce questi due elementi, resta a vedere se coll' averli uniti, ella gli abbia resi idonei ad esser termini del giudizio. Per veder ciò, convien prendere la formola di un tal giudizio, e analizzarla nei suoi termini, e considerare se questi termini abbiano la detta idoneità. La formola possiamo enunciarla così: L' ente (di cui io ho notizia) è realizzato in questo sentimento (in quest' attività sentita). Pronunziata dentro me quell' affermazione, io già conosco l' ente reale, conosco che cosa è il sentimento, l' attività sentita, conosco cioè che è un ente: l' elemento dunque che mi era incognito prima di conchiudere l' affermazione, mi è cognito tostochè l' affermazione è chiusa. Dunque, sebbene il sentimento prima dell' unione coll' ente ideale mi fosse incognito e però non atto ancora a divenire uno dei termini del giudizio; tosto che la natura lo mise insieme e lo congiunse coll' ente ideale mediante l' affermazione spontanea, egli è divenuto cognito e quindi idoneo ad essere uno dei termini del giudizio. Se noi vogliamo chiamar soggetto il sentimento o sia la realità, s' intenderà la ragione per la quale abbiamo più volte detto che questa primitiva affermazione, questo primitivo giudizio produce il suo proprio soggetto. Dunque l' affermazione di un ente reale merita l' appellazione di giudizio quand' ella è formata e non prima. Ora la riflessione distingue il predicato ed il soggetto in un giudizio qualunque, analizzando il giudizio già formato, perocchè se non fosse formato, non potrebbe analizzarlo e scomporlo. Mediante questa analisi o scomposizione, colla quale si distingue il predicato dal soggetto, si giugne altresì a formare la definizione del giudizio, dicendo che il giudizio è l' unione logica di un predicato con un soggetto . Ora questa definizione è analitica, è l' opera della riflessione sopra l' affermazione. Perciò la qualificazione di giudizio che si dà ad una affermazione qualunque, è una qualificazione posteriore ad essa, non esprime la sua primitiva origine, ma esprime la sua natura quale apparisce all' analisi ed alla riflessione: queste concepiscono l' affermazione al loro modo, con certa modificazione che viene dalle leggi del loro operare; e questa modificazione è ciò che fa acquistare all' affermazione l' appellazion di giudizio. Ciò che qui diciamo si renderà ancor più chiaro, se si considera, che quando la riflessione, analizzando un giudizio qualunque, distingue in esso il predicato ed il soggetto, ella non separa veramente questi due termini d' infra loro, non li disunisce; perocchè disuniti che fossero, essi perderebbero la qualità di predicato e di soggetto, non sarebbero più termini del giudizio, il giudizio stesso sarebbe distrutto. La riflessione dunque non fa che distinguere i due termini, distinguerli mentalmente; ma sempre lasciandoli congiunti nel giudizio formato e conchiuso appieno; perocchè, solo restando così congiunti, si possono dire predicato e soggetto . E veramente, pigliamo a considerare un giudizio qualunque: per esempio: quest' essere che io veggo è un uomo . Che cosa questo giudizio mi fa conoscere? Che questo essere che io veggo è un uomo. Prima che io avessi pronunciato dentro di me un tal giudizio, io non sapevo che questo essere ch' io veggo, fosse un uomo, poichè il saperlo e il dirlo a me stesso è perfettamente il medesimo. Ebbene, ora analizziamo colla riflessione questo giudizio. Quest' essere è il soggetto, e un uomo è il predicato. Mi si dica: se io considerassi da una parte quest' essere , dall' altra l' uomo in separato, senza punto nè poco badare alla loro relazione, saprei io che quest' essere è il soggetto e che l' uomo è il predicato? No certamente, io nol saprei: quest' essere e l' uomo cesserebbero dall' essere i termini di un giudizio, cesserebbero affatto dall' esser predicato e soggetto. Come diventano dunque predicato e soggetto? Per mezzo del giudizio stesso. Il predicato e il soggetto adunque non esistono prima del giudizio; è il giudizio che li forma, e, dopo che il giudizio gli ha formati, la riflessione li trova nel giudizio. Applichiamo il medesimo ragionamento all' affermazione nostra: l' ente è realizzato in questo sentimento , ossia l' attività di questo sentimento è un ente . Analizzandola, dico che il sentimento è il soggetto, l' esistenza è il predicato: lo dico perchè nel giudizio vi è compresa tale notizia, è il giudizio stesso che me la dà. Ma certamente che se io prendo il sentimento fuori del giudizio, e così distruggo il giudizio, il sentimento non è più soggetto, perchè mi è del tutto incognito. L' obbiezione dunque che si fa, benchè speciosa in apparenza, è priva di valore, partendo dal falso supposto, che il soggetto come soggetto debba esistere prima che si faccia il giudizio, mentre anzi è il giudizio stesso che sempre lo produce. L' unica differenza che passa tra l' affermazione con cui si conoscono gli enti reali e gli altri giudizŒ tutti, si è che negli altri giudizŒ il predicato ed il soggetto, benchè prima del giudizio non siano conosciuti come predicato e come soggetto, pure sono conosciuti dalla mente in altro modo; laddove il soggetto sentimento prima dell' affermazione dell' ente reale non è conosciuto in modo alcuno. Ma questa differenza non fa che il giudizio primitivo sia di diversa natura da tutti gli altri giudizŒ; perocchè la cognizione che negli altri giudizŒ si ha di ciò che poscia diventa soggetto, non è già quella che produce la cognizione che ci apporta il giudizio, anzi su questa cognizione che ci dà il giudizio, niente affatto influisce. Mi spiegherò coll' esempio. Quando io giudico che l' ente che veggo è un uomo, qual è la cognizione che mi apporta questo giudizio? Ella è, che sia un uomo l' ente che veggo. Prima di giudicare mi è dunque affatto incognito che l' ente che veggo, sia un uomo. L' ente che veggo, non lo conosco affatto come uomo; lo conosco come ente veduto. Ora il conoscerlo semplicemente come ente veduto non ha a far niente col conoscerlo siccome uomo: di maniera che io potrei conoscerlo come ente veduto per migliaia d' anni senza mai conoscerlo come uomo: e così avverrebbe, poniamo, se io non avessi alcuna notizia dell' uomo. L' ente dunque da me veduto, benchè cognito sotto un aspetto, è cosa per me affatto incognita prima del giudizio relativamente al predicato uomo ; e però in ogni giudizio avviene che il soggetto come tale, cioè in relazione al predicato, sia incognito prima della formazion del giudizio: l' effetto di ogni giudizio è sempre quello di rendermi cognito ciò che è incognito: il soggetto dunque del giudizio come tale è sempre un incognito che si dee render cognito. Ma nell' affermazione degli enti reali la cognizione che si vuole acquistare, è la primitiva, innanzi alla quale non ve ne può essere un' altra. Quindi in questo giudizio accade che il soggetto considerato prima di formare il giudizio stesso, sia incognito non solo come soggetto e in relazione al predicato, ma ben anco sotto ogni altro rispetto, sia incognito del tutto; perocchè se in qualche modo si conoscesse, già non sarebbe più vero che la cognizione degli enti reali, che s' acquista coll' affermarli, fosse la prima di tutte le cognizioni reali, giacchè precederebbe ad essa quella certa cognizione di ciò che diviene poscia soggetto. Se dunque è vero che ogni giudizio produce una cognizione che prima in noi non era, e se è vero che le cognizioni discendono l' una dall' altra di maniera, che, riascendendo per la scala di esse, se ne dee trovare una prima, la quale non può essere altro che l' affermazione dell' esistenza, necessariamente consegue: 1 che i soggetti di tutti i giudizŒ sono sempre incogniti come soggetti, cioè in relazione al predicato, prima che sia formato il giudizio: 2 che, sebbene prima che sia formato il giudizio, i detti soggetti sieno incogniti come tali, tuttavia si può conoscere di essi qualche altra cosa: 3 che quest' altra cosa che si conosce di essi, è stata conosciuta anch' essa con un giudizio precedente: 4 che risalendo così al primo di tutti i giudizŒ, egli dee avere necessariamente un soggetto, di cui, prima di esso giudizio, non si conosceva nulla affatto, giacchè mancava un giudizio precedente che ce n' avesse potuto dare qualche notizia: 5 che il primo di tutti i giudizŒ è quello con cui conosciamo che esiste qualche ente reale; giacchè tutto ciò che possiamo mai conoscere di un ente reale, suppone sempre che noi prima conosciamo che egli esista: 6 che dunque l' affermazione prima dee formare un soggetto, che prima di essa sia affatto incognito per una legge comune a tutti i giudizŒ. Attesa questa proprietà dell' affermazione degli enti reali, noi abbiamo dato a questo giudizio il nome di sintesi primitiva , e la facoltà dello spirito umano che la forma, l' abbiamo chiamata ragione , la quale è quella forza unica dello spirito che unisce insieme l' essere e il sentimento, e poscia vi usa sopra la riflessione. Noi abbiamo detto che nella sintesi primitiva si può considerare il sentimento come soggetto e l' esistenza come predicato. Non di meno si potrebbe anche dire il contrario considerandosi l' essenza dell' essere come soggetto e la sua realizzazione come predicato. La ragione di questa convertibilità del soggetto e del predicato nella sintesi primitiva si è, perchè ella è un giudizio d' identità [23 7 2.], nel quale si fa un' equazione fra il sentimento e l' essenza dell' essere, mediante l' idea (la conoscibilità di questa). Da tutte le cose dette rimane spiegato che cosa sia la ragione , che cosa sia il lume della ragione , la forma che rende intelligente lo spirito , la facoltà di conoscere . Rimane dunque sciolta altresì la questione dell' origine delle idee. Vi ha un' idea primitiva, quella dell' essere. Con questa si formano i giudizŒ primitivi, si affermano gli esseri reali sentiti, e così si conoscono. I rapporti dell' idea dell' essere cogli enti reali sono i concetti, ossia le idee specifiche degli enti particolari. Su queste idee si esercita l' analisi, la riflessione, l' astrazione ecc., quindi gli astratti e i diversi enti di ragione. Chi vuol seguire la deduzione più divisata delle idee o concetti speciali e generali e di tutte le cognizioni umane, potrà ricorrere al « Nuovo saggio sull' origine delle idee , » e al « Rinnovamento della filosofia in Italia » ecc.. Nelle quali opere si svolge ed applica la teoria ideologica sovra esposta. LOGICA. - La logica è la scienza dell' arte di ragionare. Lo scopo del ragionamento è la certezza: e la certezza è una persuasione ferma, conforme alla verità conosciuta. La logica dunque ha due uffizŒ: dee difendere l' esistenza della verità in generale, e quindi l' efficacia del ragionamento; dee poscia insegnare ad usar il ragionamento in modo, che metta l' uomo in possesso della verità e gliene dia la persuasione, in una parola che gli produca la certezza. Queste sono le due parti della logica, difesa della verità, mezzi di giungere alla verità ed alla certezza. La verità è una qualità della cognizione. La cognizione è vera quando ciò che si conosce, è. Si consideri bene questa definizione della verità. Se la cosa che si conosce, è, ella è vera; dunque la verità si riduce all' essere della cosa che si conosce. L' essere dunque che si conosce, è la verità della cognizione. Ma la forma dell' intelligenza è l' essere , come c' insegna l' ideologia. Dunque la forma dell' intelligenza è la verità. La prima verità dunque è posseduta dallo spirito umano per natura. Questo argomento semplicissimo abbatte quella classe di scettici che negano ogni verità e quell' altra che, o ammettendo o lasciando in dubbio che esista qualche verità, pure negano all' uomo il possesso di ogni verità. Lo stesso argomento si può esporre in altre parole così: Se ciò che conosco, è, io conosco la verità. Ma per natura io intuisco l' essenza dell' essere. Ora l' essenza dell' essere non è altro che l' essere stesso, giacchè il dire essere esclude il non essere. L' essere dunque che io conosco per natura, è: dunque la mia cognizione prima è vera: possiedo una prima verità, poichè ciò che conosco, è. Qui si fa avanti l' idealista trascendentale, e ci dice: La vostra è un' illusione. A voi pare di sapere che cosa sia essere, ma forse nol sapete . Rispondo: L' obbiezione che mi fate, prova chiaramente, che voi non avete inteso la maniera colla quale io testè dimostrai che l' uomo possiede la prima verità; prova che non avete inteso che cosa sia la prima verità di cui si parla, poichè l' obbiezione che voi fate della possibilità di una illusione non cade affatto sulla prima verità. In fatti che cosa significa essere illuso? Significa parere una cosa che non è, o parere una cosa in un modo diverso da quello che è. Ora nè l' una nè l' altra di queste due illusioni può cadere sulla cognizione prima di cui parliamo; ma tutt' al più potranno cadere tali illusioni sulle cognizioni seconde che si vengono formando, per esempio, sulla affermazione degli esseri reali, il che esamineremo a suo tempo. E certo, in generale parlando, quand' io affermo un certo essere reale, non è impossibile la doppia illusione che si obbietta. Io posso cioè affermare un certo essere reale, e questo pure non essere, non sussistere. Posso affermare che un certo essere reale sia in un dato modo, e il medesimo essere in un altro modo. Ma niente di ciò ha luogo rispetto a quella cognizione per la quale io so che cosa sia essere senza più. Dimostriamolo relativamente alla prima illusione. Il sapere semplicemente che cosa è essere, senza aggiungervi alcuna determinazione, e il credere di saperlo, è la medesima cosa: credere di sapere che cosa è essere, è sapere che cosa è essere; e sapere che cosa è essere, è sapere la verità perchè l' essere essenzialmente è. In fatti, riteniamo che sapere che cosa è essere, è sapere la verità. Ciò posto, l' illusione che si oppone, si fa consistere in questo, che si creda forse di sapere, ma che non si sappia che cosa è essere. Ora si consideri bene che sapere che cosa è essere, è la semplice concezione dell' essere, non è affermazione di alcun essere sussistente. E considerato questo, si può egli mover dubbio, che la concezione dell' essere si abbia o non si abbia, senza averla questa concezione? Dubitare che ci sia la concezione dell' essere suppone per data la concezione dell' essere, di cui si dubita. Medesimamente, credere d' aver la concezione dell' essere suppone la concezione dell' essere che è l' oggetto a cui si riferisce quella credenza. L' illusione adunque che si obbietta non è possibile, giacchè non si può favellare della illusorietà della concezione dell' essere senza ammettere già questa concezione di cui si disputa. Tale è la natura delle semplici concezioni, che si hanno o non si hanno; e se non si hanno, non si può credere d' averle, poichè col credere d' averle già si hanno. Veniamo alla seconda illusione, e dimostriamo che neppur essa può cadere nella notizia prima dell' essere. « Voi » si dice « intuite l' essere, ma sapete voi d' intuirlo com' egli è? L' essere non potrebbe essere in un modo diverso da quello in cui vi apparisce? »Questa obbiezione suppone che l' essere abbia modi diversi. Ma per ciò stesso ella non può attaccare la prima intuizione, perocchè in questa prima intuizione l' essere è senza modi. Di nuovo, l' obbiezione adunque non può valere, se non applicata a quelle cognizioni, per le quali l' uomo conosce l' essere vestito di qualche modo particolare. Può allora darsi che l' uomo s' illuda, e che l' essere gli apparisca in un modo, quando in se stesso esiste in un altro modo. Se ciò sia possibile, e fin dove sia possibile, questo si dee esaminare quando si toglie a parlare della verità delle cognizioni speciali, che hanno per loro oggetto esseri determinati. Ma qui nel discorso presente si tratta dell' essere privo al tutto di modi, si tratta della pura e semplice essenza dell' essere stesso; le illusioni adunque che cader possono sui modi dell' essere qui rimangono del tutto escluse, sono impossibili. Per questo dissi in qualche luogo, che la verità evidente ed essenziale dell' essere luce nella sua universalità . Quest' universalità distrugge affatto lo scetticismo trascendentale, il quale suppone gratuitamente che l' intendimento umano abbia delle forme ristrettive e modali, mentre egli ha una sola forma universale, e priva affatto di modi che hanno la loro esistenza solo nel mondo reale. Risulta parimenti da ciò non solo gratuito, ma evidentemente falso e contradittorio, che l' essere nella sua universalità e semplicità sia una produzione soggettiva, cioè una produzione del soggetto uomo; che anzi l' uomo stesso non è che una ristretta, modale e contingente realizzazione dell' essenza dell' essere. Ed ecco che, dopo aver noi stabilito, che lo spirito umano sa che cosa è essere mediante l' osservazione , ignorando tuttavia che questa osservazione fosse un testimonio certo della verità; ora veniamo a giustificare e riconoscere valida l' osservazione, poichè avendo trovato che il risultato dell' osservazione è l' intuizione dell' ente, noi siamo giunti a tale da convincerci della veracità della stessa osservazione, poichè nell' ente intuito abbiamo trovato la luce evidente della verità che esclude ogni possibilità che in tale osservazione entri inganno, errore od illusione di sorte [11]. Le ragioni, colle quali abbiamo disciolte le obbiezioni scettiche degli idealisti trascendentali, e abbiamo provato, che la semplice concezione dell' essere non ci può al tutto ingannare, valgono medesimamente a provare che non può cadere errore di sorta nè meno nei concetti o idee speciali. Perocchè l' errore non potrebbe cadere che o nell' essere ch' esse ci mostrano o nei modi ne' quali ci mostrano l' essere limitato. Ma già vedemmo che nell' essere, se si prescinda dai modi, non ci ha possibilità alcuna d' errore; resta dunque a vedere se potesse avercene nei modi de' medesimi concetti. Or che cosa vuol dire esserci errore ne' modi dell' essere? Vuol dire apparirci un essere vestito di un modo, mentre in se stesso ne ha un altro. La possibilità dunque dell' errore nasce da questo, che un solo essere non può avere nello stesso tempo che un solo modo; onde se noi giudichiamo che ne abbia un altro, il modo che gli attribuiamo, non è; e perciò il nostro è un giudizio falso, un errore. Questa falsità di giudizio accade spesso negli esseri reali, i quali sono limitati ad un solo modo; per esempio, io posso giudicare falsamente che un dato ente sia un uomo mentre egli è una bestia ovvero un ceppo; erro, perchè gli attribuisco un modo non suo. Ma se non si tratta di esseri reali, ma dell' essere semplicemente ideale, la detta condizion dell' errore manca del tutto. Poichè l' essere ideale non è limitato ad un solo modo; ma egli ha potenzialmente tutti i modi, in tutti i modi può esser realizzato: quindi ogni modo che io concepisca dell' essere ideale, è immune da errore, perchè è un modo suo proprio. Questi modi dell' essere ideale sono i concetti, le idee specifiche e generiche: dunque tutte le idee specifiche e generiche sono affatto immuni da errore. Quindi giustamente gli antichi insegnarono che l' errore non può mai stare nell' idee, ma risiede nei giudizi; e che le notizie così dette di semplice intelligenza , sono scevre affatto da ogni errore. Per questo si dice ancora, che le idee sono le verità esemplari, e che le cose (gli enti reali) ricevono la loro verità dalla conformità che hanno colle idee. Se io giudico, a ragion d' esempio, che un dato ente reale è un cavallo, ed è un cavallo, si dice che è un cavallo vero , per dire che corrisponde a quell' idea di cavallo, a quel modo che io gli attribuisco e col quale lo giudico. Ma dicendo noi che nelle semplici idee non può cadere errore, non intendiamo di estender ciò anche alle relazioni delle idee , nelle quali può cadere certamente errore, perchè si affermano con un giudizio che può esser vero o falso. Così, a ragion d' esempio, io erro se giudico che un' idea è inchiusa in un' altra, quand' ella non è; che il due, poniamo, stia tre volte nette nel cinque, quando non vi sta che due e mezzo. Insomma non vi può essere errore, se non v' è giudizio: l' intuizione semplice non ammette errore. E tuttavia non consegue, che in ogni giudizio vi possa essere errore: v' ha anco de' giudizi, ne' quali l' errore è assolutamente impossibile. In fatti, trovato che nell' intuizione dell' essere, universale o speciale, non cade errore, io posso esprimere ciò in forma di giudizio, dicendo appunto non cade errore nelle idee : ho formato con ciò un giudizio immune da errore appunto perchè ciò che esprimo con esso è immune da errore. Allo stesso modo sono immuni da errore tutti que' giudizŒ che altro non esprimono, se non ciò che la mente intuisce; per esempio questi due: l' oggetto del conoscere è l' ente; l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di cognizione . Queste proposizioni, questi giudizŒ altro non dicono se non ciò che mostra a noi l' intuizione dell' essere. Il primo equivale ad esprimere il fatto che l' essere è l' oggetto essenziale, la forma dell' intelligenza; il secondo altro non significa, se non che se l' essere, oggetto dell' intelligenza, mi è levato via, egli non può ad un tempo esser presente: è ancora la semplice intuizione dell' ente che si dichiara necessaria per conoscere. Quando ciò che si contiene nell' idea si pronunzia in forma di giudizio e s' esprime in una proposizione, allora l' idea, così espressa, prende nome di principio . L' idea è sempre universale in questo senso, che ella può essere realizzata (salve alcune eccezioni che qui si ommettono) più volte. L' idea dell' essere può realizzarsi in tutti i modi; le idee generiche, in molti modi, e così pure le idee specifiche astratte; se l' idea specifica non è astratta, ma piena, di maniera che contenga anche gli accidenti tutti dell' ente, ella può esser realizzata in un modo solo, ma in più individui (salve le dette eccezioni). Perciò le idee si dicono tutte universali . Quindi anche i principii sono giudizi universali, i quali si applicano a molti casi . Per esempio, il principio che dice: l' ente è l' oggetto del conoscere , si applica e si avvera non già in un solo atto del conoscere, ma in tutti affatto gli atti conoscitivi. Il principio di contraddizione: l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di conoscere , esprime l' assurdo di tutte le proposizioni contradittorie. Assurdo vuol dire inettitudine della proposizione ad essere oggetto di conoscenza. I principii dunque non essendo che le idee intuite, il cui oggetto si pronunzia in forma di giudizio, sono immuni da errore altrettanto quanto le idee stesse. Ma se le idee e i principii dell' umano sapere sono superiori alla sfera dell' errore, che cosa è a dirsi della sintesi primitiva, colla quale si affermano le cose reali che a noi si comunicano nel sentimento? E` ella immune da errore la percezione delle cose reali, per la quale intendiamo appunto un' attività da noi sentita ed affermata come un ente? Nella percezione di un ente reale si debbono distinguere due cose: l' affermazione dell' ente, e l' affermazione del modo dell' ente determinato dal sentimento. Nell' affermazione dell' ente, prescindendo dal suo modo, non può cadere errore, appunto perchè non può cadere errore nell' essenza dell' ente da noi intuita. Affermare l' ente è affermare l' essenza intuita nella sua realizzazione: quest' essenza la conosciamo con evidenza senza possibilità di errore; dunque dobbiamo altresì riconoscerla senza errore, presentandosi ella a noi realizzata. Il modo poi dell' ente è determinato dal sentimento e non dalla nostra intelligenza. Ora è da osservarsi attentamente, che il bambino nelle sue prime percezioni, non afferma già il modo dell' ente, ma si accontenta di affermar l' ente, lasciando che il sentimento lo determini senza occuparsi a misurare questo sentimento, senza dargli un' attenzione intellettiva, senza affermarne i limiti, la forma, le differenze. Non pronunziando dunque nulla sul sentimento che costituisce la realità dell' essere, ma prendendolo solo per una realizzazione modale dell' essere senza più, qualunque ella sia, l' uomo non s' espone a pericolo di alcun errore. Tali percezioni adunque fatte dal bambino o da chicchessia, nelle quali il sentimento non si prende se non come la realizzazione dell' essere senza fermar l' attenzione al suo modo e a' suoi limiti, son tali, che l' errore ne è affatto escluso. Il giudizio adunque che afferma l' esistenza degli esseri reali è immune da errore. Rimane a vedere se sia immune da errore il giudizio che afferma il modo determinato degli esseri reali, cioè che afferma in conseguenza di un dato sentimento che sussista piuttosto un essere che un altro. Si dirà, che l' essenza dell' ente viene da noi aggiunta al sentimento per poterlo affermare e conoscere come ente, e però noi conosciamo nel sentimento ciò che in esso non vi è. Ma si osservi che quest' obbiezione sarebbe assai forte quando fosse vero che noi affermassimo che il sentimento stesso fosse l' essenza dell' ente. Ma noi non facciamo già questo: aggiungiamo bensì l' essenza dell' ente all' attività sentita, per renderla un ente percettibile e conoscibile; ma sappiamo nello stesso tempo, che l' attività sentita da se sola non è l' essenza dell' ente, ma è una sua realizzazione contingente, un suo modo, il termine della sua azione: sicchè l' essenza dell' ente che gli aggiungiamo, non è altro che il mezzo di conoscerla; perocchè l' attività sentita non è conoscibile se non veduta nell' ente. Allo stesso modo, cioè in un modo simile benchè non uguale, noi non possiamo percepire l' accidente senza percepirlo nella sostanza , e tuttavia non c' inganniamo, perchè sappiamo bene che l' accidente non è la sostanza che a lui pure aggiungiamo in percependolo. Dall' istante, che abbiamo detto, che l' attività sentita è l' essere realizzato, egli è chiaro, che in quel modo che è l' attività sentita, in quel modo stesso è realizzato l' essere. Dunque, qualora si verifichi che io, col mio giudizio sul modo dell' essere, altro non fo che pronunciare ed affermare quell' attività che veramente sento nè più nè meno, in tal caso il mio giudizio non può che esser vero. Qui dunque ho trovata la condizione, adempiuta la quale non posso ingannarmi, nè anche nel giudizio che porto circa il modo dell' essere percepito: la condizione si è, che io non affermi altro, se non quello che sento nè più nè meno. Rimane a vedere se questa condizione si avveri sempre necessariamente in tali miei giudizŒ; o per lo contrario non si possa mai avverare; o finalmente se si possa bensì sempre avverare, ma non sempre si avveri. Nel primo caso il mio giudizio sarebbe necessariamente vero: nel secondo sarebbe necessariamente falso: nel terzo potrebbe sempre esser vero se io voglio, se io procedo colle necessarie cautele; ma potrebbe anche esser falso, se io non voglio o procedo incautamente. Ora è manifesto che io non sono necessitato a dir sempre a me stesso precisamente quel che sento. Posso mentire a me stesso; posso dire di sentir più o di sentir meno, di sentire in un modo o di sentire in un altro. Posso prendere un sentimento per un altro, un' immagine, a ragion d' esempio, per una sensione esterna; posso dunque ingannarmi. Ma egli è ancor manifesto che non sono necessitato ad ingannarmi. Chi mi costringe a dire quel che non sento, o a dire di sentir più o di sentir meno o in altro modo da quel che sento? Anzi, se non avessi sperimentato mai che un solo sentimento, mi sarebbe impossibile di fingermene un altro, o di alterarmelo a volontà. Dunque in me vi è la facoltà di affermare il sentimento tale quale lo provo; questa è la facoltà naturale. Se io m' inganno adunque, è perchè non uso della facoltà naturale, ma mi servo anzi di un' altra a turbare e confondere quella. E io posso provare di avere la facoltà naturale di attestare a me stesso nè più nè meno quello che sento, considerando che questa facoltà non è poi ancora che un nuovo uso, un' altra funzione della facoltà che ho detto infallibile, di affermare l' essere senza i suoi modi. Poichè affermare l' essere è riconoscere l' identità fra il sentimento e l' essenza dell' essere: ora, poichè in tutte le attività anche minime del sentimento è realizzato l' essere, dunque posso affermarlo in tutte con infallibil certezza. Ma affermare l' essere in tutte le attività anche minime del sentimento è lo stesso che affermare tutto intero il modo del sentimento nè più nè meno. Dunque non mi manca la facoltà naturale di affermare con sicurezza anche il modo dell' essere, anzi questa facoltà è infallibile, e se m' inganno, il mio errore dee procedere non da questa facoltà, ma da un' altra che ad essa io sostituisco, e che per ora chiamerò semplicemente la facoltà dell' errore . Esclusi dunque i due estremi della verità necessaria e dell' error necessario nel giudizio che io fo intorno al modo dell' essere da me percepito, rimane che qui trattisi di un errore possibile a sfuggirsi, ma possibile anche ad incorrersi. Si può dunque un tale errore evitar sempre? Sì, noi diciamo, purchè vogliamo ed usiamo le cautele a ciò necessarie: ma prima di parlare di queste cautele, facciamo un' osservazione. L' errore di cui qui parliamo, non cade propriamente sulla percezione dell' ente reale. La percezione dell' ente reale è fatta, tostochè noi all' occasione del sentimento l' abbiamo affermato. Sopravviene la riflessione sopra l' ente percepito, che vuol determinare, vuol pronunziare il modo preciso, l' estensione precisa dell' ente percepito: al che fare, oltre portare l' attenzione sul sentimento e su tutte le sue parti, è uopo ricorrere altresì al confronto con altri sentimenti, con altri esseri. La percezione dunque degli enti reali è infallibile; l' errore comincia solo colla riflessione sulla percezione , e s' apre tanto maggior campo all' errore, tanta maggior facilità di errare, quant' è maggiore la riflessione, più elevata, più complicata. Dicevo, che per determinare da noi stessi il modo e la quantità del sentimento, non basta l' osservazione accurata sul medesimo, ma è necessario ricorrere a confronti con altri sentimenti, con esseri altre volte percepiti. La ragione si è, che i giudizŒ che trattano di misura , non cadono mai sulla misura assoluta, ma sempre sulle misure relative. Se l' uomo non percepisse che una data quantità, e non n' avesse un' altra a cui confrontarla, egli non pronuncierebbe su di essa giudizio alcuno, non inventerebbe neppure il vocabolo di quantità per nominarla. Laonde, se si prescinde interamente dalla riflessione che tende a misurare il sentimento mediante confronti, può benissimo concepirsi un' osservazione o attenzione intellettiva portata sul sentimento; ma tale, che non pronunzia niente in separato dalla percezione, e che è tanto infallibile quanto la percezione stessa di cui è parte, onde la percezione può avere due forme che, se vogliamo esprimere con parole, potremo così enunciare: « percezione che pronunzia l' esistenza di un essere reale determinato dal sentimento senza più »; e « percezione che pronunzia la presenza di un essere reale e il sentimento che lo determina senza riferirlo a niun altro sentimento. » L' aver dimostrato, che l' uomo ha una facoltà infallibile della percezione, è bastante contro gli scettici. Quanto poi all' ordine della riflessione, dove l' errore è possibile, posciachè la riflessione è verace o mendace secondo la maniera onde se ne fa uso, perciò appunto fu inventata la Logica, acciocchè ella insegni tal maniera di far uso della riflessione, che ci conduca alla verità, e ci additi come conoscere ed evitare l' errore. Se ben si considera, l' errore è sempre arbitrario, e quindi non è mai il prodotto delle semplici facoltà di conoscere. La riflessione stessa non produce l' errore per sè, ma perchè le si fa dire quello che ella non dice. E veramente la riflessione ha per suo primo oggetto le percezioni, le quali, come vedemmo, non ammettono errore. Questa prima riflessione altro non fa se non dire ciò che si contiene in una o più percezioni; quindi le analizza e le compone: ma se la riflessione dicesse che nella percezione v' è quel che non v' è, in tal caso non sarebbe, propriamente parlando, riflessione, perchè non rifletterebbe sulle percezioni; sarebbe un' altra potenza, che simulerebbe la riflessione; vi avrebbe un mentitore, che direbbe che la riflessione dice quel che non dice. Questo mentitore è certamente l' uomo stesso: egli ha la facoltà di affermare a se stesso ciò che la ragione non gli dice. Questa è la facoltà della persuasione , che si dee distinguere affatto dalla facoltà del ragionamento . Il ragionamento è e debb' essere mezzo di persuasione. Ma la persuasione si forma anche senza ragionamento: si forma una persuasione nel seno dell' uomo che vi sia un ragionamento quando non c' è, che il ragionamento dica una cosa quando non la dice: l' uomo si persuade, dà il suo assenso, giudica non sempre mosso dalla ragione, ma talora dall' istinto, dall' abitudine, dal pregiudizio, dall' affezione, dalla passione. Quindi l' errore s' intromette nell' essere ragionevole, non perchè egli sia ragionevole; chè se fosse solamente ragionevole, non potrebbe mai prendere errore; ma perchè, oltr' essere ragionevole, egli ha altresì la facoltà di giudicare ad arbitrio. Per questo si dice, che la natura dell' errore è di essere volontario. Non avviene tuttavia da questo che l' errore sia sempre peccaminoso o colpevole; ma egli ritiene di quella condizione morale che hanno le cause che lo hanno prodotto. Alla logica appartiene enumerare le cause occasionali ed incentive dell' errore, ed insegnare ad evitarle. Egli è qui chiaro, che per evitare gli errori colpevoli convien ricorrere a rimedŒ morali, convien sanare la volontà disordinata che influisce sulla facoltà della persuasione, traviandola ai suoi colpevoli fini. Le cause fisiche dell' errore, come i morbosi istinti, l' alterazione dell' immaginativa ecc. debbono levarsi con rimedŒ fisici. Se l' errore proviene finalmente da precipitazione ed imprudenza, conviene opporvi de' mezzi prudenziali, delle regole logiche precisamente espresse. La logica non si contenta d' indicare le diverse maniere di rimovere la causa degli errori, ma ella insegna altresì a riconoscerli quando sono già formati e ad emendarli. I sintomi degli errori sono moltissimi. Una specie di questi sintomi si riscontra nella forma verbale dei ragionamenti; e quella parte di logica che addita questa specie di sintomi degli errori, è quella che si chiama sofistica . Ma torniamo alla percezione, che è il solido fondamento di tutto quello scibile che riguarda gli enti reali. Basta qualsivoglia attività sentita acciocchè lo spirito intelligente affermi che sussiste un ente reale. Attività (sentita) e realità è il medesimo: è una forma dell' essere, non è l' essere, il quale vi si aggiunge nella percezione. Le prime attività da noi sentite, dalle quali si suscita la nostra facoltà di giudicare e di affermare la sussistenza di alcuni enti, sono le sensioni corporee. Se noi analizziamo queste sensioni, troviamo in ciascuna di esse tre attività: 1 l' attività che ci modifica senza nostro volere, verso cui noi siamo passivi: 2 la sensione che è l' effetto di quella attività che ci modifica: e 3 noi stessi che siamo modificati. Tuttavia l' attenzione nostra intellettiva non si porta da prima egualmente sopra queste tre attività, ma innanzi tratto su quella che ci modifica, e ad essa si ferma: perciò noi affermiamo prima di tutto i corpi esterni. Quando noi affermiamo i corpi esterni, nella nostra sensione v' ha certamente di più dei corpi esterni, cioè dell' agente che ci modifica; ma noi non ci badiamo. Si deve qui osservare la legge dell' attenzione dello spirito. L' attenzione intellettiva è la forza che dirige ed applica il nostro intendimento, ed ha per suo carattere di poterlo applicare a quell' oggetto che vuole, restringerlo a un solo oggetto, ad una sola parte del sentimento, affermare un oggetto solo alla volta, trascurando tutti gli altri. Non è però a credere, che l' attenzione nell' applicare e concentrare l' intendimento nostro in una sfera più o meno ristretta proceda a caso: ella segue certe leggi costanti, che le vengono imposte in gran parte dalla natura dell' essere; ma non è qui luogo di esporre queste leggi. E` bensì importante ritenere, che per questa proprietà dell' attenzione accade, che la percezione si ristringa ad un solo oggetto, quantunque molti altri possano essere con quello connessi anche necessariamente. Il nesso necessario di due oggetti fra loro non entra nella percezione, e neppure in quel concetto dell' essere che immediatamente si cava dalla percezione. Così quando l' uomo afferma un corpo esterno e quindi lo percepisce, è del tutto falso che colla stessa percezione affermi se stesso, come è falso del pari che la percezione de' corpi esterni debba necessariamente aver seco congiunta la percezione di se stesso. E` dunque un sofisma quello di Fichte che l' uomo percepisca l' io e il non io contemporaneamente e con un solo atto. Onde provenne l' errore di Fichte? Dal non aver egli ben distinto ciò che accade nel sentimento , e ciò che accade nella percezione intellettiva . E` vero verissimo, che nella nostra sensione non vi ha solo l' agente esterno (il mondo esterno), ma ci siamo anche noi stessi che veniamo modificati e limitati: tale è la natura del sentimento corporeo, sempre duplice, risultante dal senziente e dal sentito. Ma altra è la natura del sentimento, ed altra quella della percezione intellettiva. Sebbene nel sentimento concorrano due enti, tuttavia la percezione si restringe ad un solo alla volta, ed è per questo che ella distingue l' uno dall' altro: la percezione termina in ciò che afferma: quando afferma il mondo esterno, termina in esso; se non terminasse in esso, lo confonderebbe con noi stessi, e non lo separerebbe, come lo separa. Dico lo separa , non dico lo distingue : poichè per separarlo basta percepire lui stesso e nulla più; per distinguerlo da noi si dovrebbe negare noi, e quindi aver percepito noi, giacchè non si può negare ciò che non si conosce. E fu appunto l' abuso della parola distinguere che rese specioso il sofisma di Fichte. All' incontro quando si percepisce una cosa sola, ignorando affatto tutte le altre, ella è già separata da tutte le altre senza bisogno che noi positivamente le neghiamo, e da essa le distinguiamo. L' errore di Fichte nacque adunque dall' aver confuso il sentimento colla percezione sensitiva: è ancora un errore dovuto al sensismo. La natura della percezione ben considerata rovescia parimenti il principio di Schelling, che fu rimpastato e riprodotto anche poco fa. Schelling ammise il doppio oggetto della percezione di Fichte, e gliene aggiunse un terzo. L' oggetto della percezione di Fichte, benchè duplice, era finito. Schelling disse che non si potea percepire il finito senza l' infinito , a cui quello si riferiva. Or come Fichte attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del sentimento ; così Schelling attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del ragionamento : nè l' uno nè l' altro filosofo conobbe la natura della percezione , la quale si è di limitarsi ad un solo oggetto, senza esser necessitata a distendersi agli oggetti connessi con quello. La percezione termina nell' oggetto finito senza pure considerare che egli sia finito, e che quindi addimandi, per esistere, d' un infinito; termina in esso, senza punto nè poco considerare che sia un effetto, e senza conchiudere ch' egli quindi non può esistere senza una causa: lo considera per un ente, vi aggiunge l' essenza dell' ente senza punto considerare che non sarebbe, diviso dall' essenza dell' ente. Tutte queste sono riflessioni posteriori, sono ragionamenti, che hanno per oggetto la percezione, ma che non sono la stessa percezione. Rimane bensì a vedere, perchè, quantunque nella percezione s' apprenda un oggetto in separato da tutti gli altri, tuttavia poscia il ragionamento conosca che quel dato oggetto, quel reale non può sussistere da se solo, e se è finito, è condizionato necessariamente ad un infinito, se è contingente, ad un necessario che gli sia causa ecc.. Questo avviene perchè la riflessione rivolgendosi sull' oggetto percepito , lo paragona all' essenza dell' essere che è il lume della mente, e a questo paragone tosto conosce, che in quell' ente non è realizzata appieno l' essenza dell' essere; quindi conosce altresì, che il suo sussistere è condizionato ad un altro essere maggiore. Risulta da tutto ciò, che l' ultimo filosofo tedesco di cui abbiam parlato, travide qualche cosa di vero senza poterlo significare con precisione. Si acc“rse, che la mente umana dovea aver presente fin da principio di tutti i suoi ragionari qualche cosa di pieno, di completo, di universale, a cui come a tipo riportasse ciò che è modale, incompleto, relativo; perocchè altrimenti sarebbe stato inesplicabile come l' uomo si fosse accorto che il mondo, a ragion d' esempio, sia contingente, e che domandi una causa, che sia finito, cioè discosto immensamente dall' infinito ecc.. Certo, per conoscere tutto ciò, doveva esistere nella mente umana il tipo perfetto dell' essere che presiedesse a tutti questi giudizŒ. Ma il filosofo tedesco non ha poi saputo distinguere l' intuizione dalla percezione , il modo ideale dell' essere dal modo reale , l' essenza dell' essere dalla sua realizzazione , la ragione della sussistenza dalla sussistenza medesima , ciò che ha l' essere perchè la percezione gliel dà, da ciò che è l' essere . Attribuì dunque alla percezione ciò che appartiene all' intuizione , ossia al confronto del percepito coll' intuìto , confronto che è opera del ragionamento. Conchiuse che lo spirito umano percepiva naturalmente l' assoluto , quando solamente intuiva la ragione assoluta , l' essere ideale. E posciachè nella percezione si hanno gli enti distinti, poichè la distinzione limitante appartiene all' ordine delle realità, perciò volle che nella percezione da lui supposta primitiva e naturale si trovassero già distinti l' io il non io , e l' assoluto essere; laddove nell' essere ideale nulla è distinto, non cade alcuna limitazione, alcun modo: egli è l' essere in una sola forma illimitata. Eppure quest' essere ideale basta alla mente, non solo perchè le si renda possibile la percezione delle cose particolari, ma ben anco per dar le ali al ragionamento, col quale conosca i limiti degli oggetti della percezione e la necessità dell' illimitato e dell' assoluto. Ma noi dobbiamo chiarir meglio le leggi della percezione e del ragionamento, e giustificarle in modo che riescano sufficientemente difese contro alle obbiezioni degli scettici. Cominciamo dalla percezione dei corpi esterni. Quando noi proviamo una sensione che non avevamo prima, la nostra attenzione intellettiva si porta sull' agente, sulla forza che ci modifica. Egli è certo in fatti, che sentiamo in noi stessi una forza la quale non siamo noi: anzi ella è opposta a noi. Noi siamo passivi, ella è attiva. Intanto si osservi qui, che questo fatto basta perchè noi possiamo affermare che esiste un ente, senza che perciò diciamo che quest' ente sia noi. Noi siamo ancora incogniti a noi stessi. E se questo non si vuole ammettere, si prenda pure per una mera supposizione. Dico che, anche supposto che l' attenzione nostra intellettiva non si fermi, non si porti punto sopra noi stessi, ma si concentri nell' agente che opera nel nostro sentimento, noi affermeremo che quell' agente è un ente reale e non lo confonderemo perciò con noi, poichè, quantunque abbiamo il sentimento di noi stessi, tuttavia su questo sentimento, secondo la supposizione fatta, non posiamo la nostra attenzione. Dunque supporre il contrario non è necessario. Or questa natura della percezione limitata sempre ad un solo ente, che perciò appunto non resta mai confuso cogli altri perchè è solo, basta a spiegare come noi conosciamo il mondo corporeo. Le difficoltà che mossero gl' idealisti, nascevano tutte dal considerare i corpi fuori della percezione; nascevano dal non conoscere la natura della percezione, e dall' averne trascurata l' analisi. Certo che se si considera il mondo senza relazione alcuna alla percezione, non potremo saper che esista, perchè è tolto via (mi servirò d' una celebre frase) il ponte di comunicazione fra noi e lui. Questo ponte di comunicazione è la percezione. La percezione ben meditata ed analizzata ci somministra altresì una verità ontologica della più alta importanza, affatto sconosciuta ai sensisti; la quale si è, che un ente entra in un altro colla sua azione, che gli enti in quanto sono agenti, possono benissimo inesistere l' uno nell' altro senza mescolarsi e confondersi insieme, rimanendo essi al tutto distinti, mediante i rapporti contrarŒ d' azione e di passione. Nella percezione dei corpi sentiamo un agente che non siamo noi, e verso il quale noi siamo passivi. Quest' è il fondamento della dimostrazione dell' esistenza d' un essere esteso, il quale non è noi, cioè del corpo. Viene poi un tempo, in cui noi percepiamo anche noi stessi. Io sono persuaso che, sebbene il sentimento ci accompagni sempre, tuttavia noi non abbiamo la percezione intellettiva di noi stessi se non dopo la percezione intellettiva dei corpi. Ma checchessia del tempo in cui ci formiamo la percezione intellettiva di noi stessi, ciò che è importante per la filosofia, si è il ben intendere, che la percezione di noi stessi è una percezione diversa da quella de' corpi; appunto perchè noi stessi siamo diversi dai corpi; una percezione non è l' altra, altrettanto quanto un ente non è l' altro; nè la percezione di un ente ha bisogno per esser tale di negare positivamente gli altri enti, ma solo di affermare l' ente che costituisce il suo oggetto, il quale esclude gli altri per natura, cioè perchè egli non è gli altri, senza bisogno che lo spirito umano si affatichi egli con una negazione ad escluderli. Vero è che noi, dopo che abbiamo percepito il mondo corporeo e noi stessi, possiamo riflettere su queste due percezioni, paragonare fra loro i due enti percepiti, e rilevarne i rapporti. Il paragone non si potrebbe fare se noi non avessimo presente allo spirito l' ente universale, che è la misura di tutti gli enti. Riferendo l' ente reale particolare, limitato, all' essenza dell' ente (sua ragione e principio), noi intendiamo ch' esso non è una realizzazione completa di questa; e riferendo alla medesima altri enti reali particolari, limitati, intendiamo se essi siano una realizzazione d' ugual modo e quantità della precedente, o di modo e di quantità diversa. Se un secondo ente che noi riferiamo all' essenza dell' ente, è una realizzazione uguale di modo e di quantità, lo diciamo ente della medesima specie. Quantunque però fosse uguale in tutto al precedente, tuttavia possiamo accorgerci che egli è un individuo diverso, dall' essere egli oggetto d' un' altra percezione contemporanea alla prima, principio della discernibilità degl' individui . Se fosse oggetto della medesima identica percezione, non sarebbero due individui, ma un solo. Noi conosciamo adunque il numero delle percezioni contemporanee, quando in tutto il resto gli enti individuali sieno affatto uguali (supposizione logicamente possibile): e ciò perchè noi in tal caso possiamo riferire all' ente universale i due o più individui contemporaneamente, al qual lume veggiamo che la realizzazione di due è più che la realizzazione di uno. Così si originano le idee de' numeri , riferendo all' essere ideale più enti contemporaneamente; ben inteso che sopravviene poi l' astrazione (attenzione riflessa limitata a certi elementi osservabili dell' ente), la quale cava i numeri puri . Ma se due enti percepiti si riconoscono differenti non solo perchè si percepiscono con diverse percezioni contemporanee, ma ben anco perchè hanno qualche diversità fra loro o nel modo o nella quantità della loro realizzazione, in tal caso si riconoscono differenti di specie, o, se la specie è la medesima, differenti per qualche diversità accidentale. Il modo diverso della realizzazione costituisce la diversità di specie: la quantità o anche l' attualità diversa è cagione di differenze accidentali. Quando adunque noi riferiamo all' essere universale la percezione dei corpi e di noi stessi, e quindi paragoniamo gli oggetti delle due percezioni, allora troviamo i rapporti di limitazione scambievole fra l' uno e l' altro, e il nostro spirito aggiunge le negazioni e le distinzioni. Allora il mondo corporeo si potrà chiamare un non7io (benchè il concetto dell' io è molto più complicato; ma non vogliamo qui entrare a spiegarne minutamente la formazione); allora si potrà dire, che l' io e il non7io si limitano scambievolmente, e insieme colla percezione dell' io negheremo il corpo, insieme colla percezione del corpo negheremo l' io. Sarà poi necessario, che sopravvenga una riflessione, qualora dal finito intenderemo di argomentare all' infinito. Converrà, che l' attenzione della mente non si fermi più a ciò che hanno di proprio l' io e il non7io; ma piuttosto che consideri ciò che hanno di comune, cioè la limitazione, e dal pensiero del limitato, del contingente ecc. ascenda all' illimitato, al necessario ecc.. Dunque per ascendere al pensiero dell' illimitato, del necessario, dell' assoluto, io non ho bisogno delle due percezioni, ma posso ascendervi ugualmente partendo da ciascuna di esse; perchè ciascuna è limitata, ciascuna contingente, ciascuna relativa. Dunque quell' atto della mente con cui ascendo all' infinito, non è la prima percezione; neppure è quella riflessione con cui paragono la percezione dell' io alla percezione del non7io; ma è una riflessione con cui dai limiti dell' io, o dai limiti del non7io mi slancio ugualmente nell' infinito. Le relazioni adunque degli enti percepiti si conoscono colla riflessione , riferendoli all' ente universale, e avvertendo quanto alla sua pienezza s' accostano, e quanto dalla sua pienezza si discostano. Così è discoperto il fonte di tutti i ragionamenti e il principio supremo sul quale essi si fondano. Se noi vogliamo formolare questo principio, esso si ridurrà al seguente: « Conoscendo lo spirito umano l' essenza dell' ente, egli afferma l' ente nel sentimento; e poscia paragonando e riferendo l' ente affermato all' essenza dell' ente, conosce le sue condizioni, i suoi limiti, le sue relazioni: e quindi mediante nuove riflessioni, riferendo medesimamente all' essenza dell' ente le cognizioni avute, ne cava sempre di nuove. » Fermiamoci a considerare le condizioni degli enti percepiti. Le condizioni alle quali sussistono gli enti reali, sono di due maniere: quelle che cadono nella percezione , e quelle che si rilevano col ragionamento . Per condizioni che cadono nella percezione intendo quelle che rendono l' ente reale atto ad essere percepito. A queste condizioni appartiene il principio di sostanza , che ora noi dobbiamo spiegare. Vedemmo, che in ogni sensione corporea da noi acquistata cadono tre attività: 1 l' attività che ci modifica, 2 la modificazione nostra, e 3 noi stessi modificati. La prima attività è l' oggetto della percezione del corpo: la terza attività è l' oggetto della percezione di noi stessi: riman dunque a considerarsi la seconda attività, la modificazione nostra, che è la sensione medesima. La sensione o modificazion di noi stessi è certo quella che stimola la nostra attenzione intellettiva a percepire i corpi e noi stessi. Ma pure la sensione nostra non è il corpo che la produce. Neppure ella è noi stessi. Che cosa è dunque? La percepiamo noi? Se noi ne consideriamo la natura, ben veggiamo che ella è un atto passivo del nostro sentimento; e che noi stessi siamo un sentimento suscettibile di varie modificazioni. Noi veggiamo ancora, che questa modificazione di noi7sentimento è prodotta dall' azione d' un agente esterno. Ma tutte queste cognizioni intorno alla sensione noi le abbiamo ora per via di riflessione : non cade ella dunque nella percezione? Anche qui è da esaminarsi il fatto per non inventare a capriccio, ossia fingerci la natura delle cose. Ora il fatto ci dice, ch' ella non ci cade e non ci può cader sola . E veramente che cosa è la percezione se non l' affermazione di un ente reale? Ora la sensione sola è ella forse un ente? No certo. Ella non è se non una certa attualità passiva o qualità di un ente. Quindi è, che in occasione delle sensioni noi non percepiamo giammai la sensione sola; percepiamo noi stessi che siamo un ente, e solo unitamente a noi percepiamo la sensione come una modificazione di noi stessi. Quindi si può sciogliere la questione non poco difficile che movono i filosofi; se la percezione degli enti si faccia immediatamente, o per via di ragionamento . La risposta che noi diamo si è, che la percezione degli enti si fa immediatamente, cioè mediante un semplice giudizio , senza ragionamento alcuno. Ma dopo di ciò noi diciamo, che la nostra riflessione che sopravviene, scioglie la percezione in un ragionamento che è creato dalla riflessione stessa, e che non entra a dir vero nella percezione, ma che fa sì, che noi ci persuadiamo, essersi operato un secreto ragionamento nell' atto del percepire, benchè veramente ciò non sia. Il ragionamento nel quale la riflessione traduce la percezione di noi stessi, si è il seguente: Quando lo spirito umano riceve una sensione, tosto s' accorge che v' ha una realità. Ma la realità è sempre un' entità che dee appartenere ad un ente. Ora la mera realità della sensione non è ella stessa un ente. Dunque se v' è questa realità che non può appartenere che ad un ente, ed ella stessa non è un ente, necessariamente dee sussistere un ente a cui essa appartenga, di cui sia un' attualità. Dunque sussiste l' ente. Tale è il ragionamento che sembra formarsi in ogni percezione; ma propriamente parlando esso non è che l' opera della riflessione, che vi pone del suo senza accorgersi. In fatti la percezione è affermazione di un ente. Dunque non v' è percezione se non quando lo spirito ha detto a se stesso che v' ha un ente, ha proferita l' ultima delle proposizioni dell' esposto ragionamento: sussiste l' ente. Le precedenti proposizioni sarebbero adunque precedenti alla percezione. Ma avanti la percezione non si dà ragionamento alcuno; poichè il pensare umano intorno alle realità comincia colla percezione. Dunque l' accennato ragionamento non appartiene propriamente alla percezione, ma è l' opera della riflessione. Come adunque accade la percezione? forse alla cieca? No certamente; anzi in piena luce: tostochè l' uomo sente modificato se stesso, pronunzia l' esistenza di se stesso, perchè altro egli non può pronunziare che l' esistenza di un ente: la prima cosa che vede lo spirito umano, data la sensione, è l' ente in cui sta la sensione, l' ente modificato: prima di percepir l' ente, la sensione non è che sentimento: dato questo sentimento, l' uomo afferma direttamente il suo principio del sentimento, inseparabile dal sentimento, e così inseparabile, che il sentimento non può essere conosciuto come non può esistere senza di lui, che è l' ente nel quale è. Il sentimento adunque move lo spirito umano ad affermare, non il sentimento solo, ma l' essere in cui è il sentimento , e a percepire quindi l' ente e il sentimento nell' ente contemporaneamente. Questa necessità di percepire intellettivamente la sensione nell' ente senziente, e non la sensione sola, formolata in un principio generale, dicesi principio di sostanza , e può esprimersi così: Ogniqualvolta il sentimento è una realità che non costituisce da se sola un ente percettibile, la percezione intellettiva non si limita a quella realità, ma afferma l' ente a cui quella realità appartiene . La realità che non costituisce da se sola un ente percepibile, dicesi accidente; l' ente a cui quella realità appartiene, dicesi rispettivamente sostanza , in quanto è il sostegno prossimo dell' accidente, cioè ciò in cui si conosce e si afferma sussistere l' accidente. Prima di proceder oltre, rispondiamo ad una difficoltà accessoria, che qui può nascere ragionevolmente nella mente del lettore. Questi dirà: voi avete supposto che, date le sensioni, l' uomo percepisca se stesso e le sensioni sue come modificazioni di se stesso. Ma il fatto non va così. Il bambino alle prime sensazioni che riceve, percepisce i corpi piuttosto che se stesso; e le sue stesse sensioni egli attribuisce ai corpi, onde crede che i corpi sieno colorati, saporosi, sonori ecc.. Tale è certamente, rispondo io, il fatto del bambino; e questo stesso è riprova che nel bambino la percezione de' corpi, come ho già detto, precede la percezione di se stesso; ma il principio di sostanza rimane inconcusso. Appunto perchè il bambino non ha ancora la percezion di se stesso, egli è condotto dalla legge del suo intendimento, che ubbidisce al principio di sostanza, ad attribuire a' corpi le sue proprie sensioni; poichè in virtù di questo principio, egli non può percepire le sensioni senza attribuirle ad un ente. Non potendo adunque attribuirle a se stesso, perchè non si è ancor percepito, le attribuisce ai corpi, all' agente straniero, a questo agente che opera in lui e di cui percepisce la forza, l' attività, colà appunto dove sente, nelle stesse sue sensioni, le quali perciò difficilissimamente si posson dividere dall' agente che le produce, richiedendosi a ciò la più attenta riflessione. Si replicherà: dunque il principio di sostanza è fallace, inducendo l' uomo ad attribuire ai corpi come loro accidenti le sue proprie sensioni. Ma la cosa non va così: non è il principio di sostanza che induca l' uomo ad attribuire piuttosto ai corpi che a se stesso le sensioni. Questo principio obbliga solamente l' uomo ad affermare una sostanza, quando egli ha il sentimento degli accidenti, ma non ad affermare una sostanza piuttosto che un' altra. Tocca dunque all' uomo a mettersi in guardia, che la sostanza che afferma, sia quella propria degli accidenti. E se l' uomo commette errore, egli può correggerlo, perchè n' ha la facoltà. Così noi con un' attenta riflessione veniamo a conoscere più tardi, che le sensioni sono accidenti nostri e non accidenti de' corpi, benchè queste sensioni siano da noi sentite insieme e nello stesso luogo dei corpi, in quanto questi corpi sono agenti nel nostro sentimento, che è finalmente il solo concetto che di essi abbiamo. Or basta che noi abbiamo la facoltà di correggere gli errori nei quali incappiamo, perchè restino confutati gli scettici e assicurato a noi stessi il possesso del vero. Che cosa è dunque il principio di sostanza? Non altro che l' applicazione dell' idea dell' ente a quelle realità sentite che da se sole non bastano a formare un ente percettibile: è la legge della percezione. Ma la percezione è infallibile: dunque anche il principio di sostanza è infallibile. Noi diciamo che una data realità sentita, per se stessa non costituisce talora un ente percettibile. Per dir questo egli è necessario che noi sappiamo che cosa costituisca un ente percettibile. Il sapere che cosa costituisce un ente percettibile, è lo stesso che sapere che cosa sia l' essenza dell' ente che si afferma nel sentimento, e ciò noi sappiam per natura. Dunque il principio di sostanza non è altro che l' intuizione che abbiamo dell' essenza dell' ente applicata alle realità: noi possiamo affermarla, date certe realità (sostanze); non possiamo affermarla di altre realità (accidenti), se non unite a quelle prime: siamo guidati a ciò dalla stessa essenza dell' ente che non può essere realizzata in queste seconde senza le prime (il che ci dimostra che l' ente ha un ordine intrinseco). Ma l' intuizione dell' essenza dell' ente non ammette errore, è l' intuizione della verità stessa. Dunque il principio di sostanza non ammette errore, è vero essenzialmente. La condizione adunque della percezione si è che ella non può affermare nel sentimento, se non un ente. La riflessione ha troppe altre condizioni che ella tende ad avverare, ed una di queste condizioni si è il principio di causa , di cui pure dobbiam dimostrare la natura e la veracità. Già abbiam detto in che consiste la riflessione. Ella è un atto, col quale la mente considera gli oggetti della percezione o di riflessioni precedenti, in rispetto all' essenza dell' ente. Parliamo della riflessione di primo ordine, cioè di quella che si rivolge sugli oggetti delle percezioni, e non sugli oggetti di riflessioni precedenti. Quando la riflessione riferisce gli enti percepiti all' essenza dell' ente, allora vede quanto sono limitati, quanto poco prendono dell' essenza dell' ente, quanto loro manca ad avere in sè esaurita l' essenza dell' ente, vede che hanno l' essenza dell' ente, ma non sono questa essenza. Così anche discopre la loro mutua dipendenza; poichè la dipendenza che uno ha da un altro, non è che una specie di limitazione. Altro è dunque ciò che fa sì che gli enti contingenti e limitati sieno enti separati , distinti, altro è ciò che li rende indipendenti . Possono esser enti separati e distinti, quantunque sieno poi dipendenti. Quindi ciascuno di essi, come ente separato, può essere oggetto di una speciale percezione. La sua dipendenza non è l' oggetto della percezione, ma della riflessione. Allora quando si vede cominciare un essere che non esisteva prima, allora quando si vede cominciare una realità, un modo, un accidente nuovo, la riflessione del nostro spirito dice incontanente che dee esservi una causa che ha prodotto quell' ente, quella realità, quel modo, quell' accidente; e chiama effetto tale produzione. Considerando questa operazione dello spirito, si vede che il concetto e il nome di effetto è posteriore al nome di causa. E` solamente dopo che si è conosciuto che un dato ente non potrebbe esistere senza una causa, che egli riceve il nome di effetto. Che cosa vuol dire riconoscere che un ente ebbe una causa? Non vuol dir altro se non riconoscere che quell' ente (la sua essenza) non ha in se stesso la propria sussistenza, e però gli viene di altronde. Venire la sussistenza di un ente non dall' ente stesso ma altronde, è lo stesso che avere una causa. Quando dunque si giudica che un ente dee avere una causa, altro non si fa se non riconoscere che l' ente per sua essenza non ha la sussistenza. Riconoscere che un ente (o una realità spettante ad un ente) non ha la sussistenza per sua propria essenza non è altro che confrontare l' ente reale percepito coll' essenza dell' ente, il che è l' opera, come dicevamo, della riflessione. Una delle condizioni adunque, alle quali opera la riflessione, una delle sue regole impreteribili si è il principio di causa. Dal detto risulta ancora che il principio di causa non è che un' applicazione che fa la riflessione dell' idea dell' essere ad un ente percepito, mediante la quale applicazione rileva, che l' essenza dell' ente percepito non ha in sè la sussistenza, la quale gli viene d' altronde. Dunque il principio di causa è per se stesso infallibile, perchè l' oggetto della percezione è immune da errore, e l' essenza dell' ente a cui lo confronta, è la stessa verità; e altro non trattasi se non di riconoscere, se nell' essenza dell' ente percepito sia compresa o no la realità. Dire che l' essenza di un ente non comprende la sua sussistenza, è quanto dire che l' ente percepito non ha la ragione del proprio esistere in se medesimo, e che è contingente . Col principio di causa l' uomo percorre la serie delle cause seconde; ma poichè le trova tutte contingenti, egli non può fermarsi in esse: la sua riflessione non riposa, se non giunge ad una causa prima, nell' essenza della quale sia compreso il sussistere, e questa è Dio. Il principio di causa che così si svolge e giugne all' ultima sua operazione, fu anche detto da noi principio d' integrazione . L' umanità tutta intiera, per un bisogno della riflessione intelligente, usa del principio d' integrazione con gran celerità, percorre le cause seconde in globo, e per un istinto razionale irresistibile giugne alla cognizione di Dio. Perciò l' esistenza di Dio fu ammessa in tutti i tempi, da tutti i popoli del mondo. La riflessione è guidata ancora da altri principii: ma ogni sua operazione finalmente si riduce al confronto che ella fa di un oggetto conosciuto coll' essere ideale, per vedere quanto e in che modo partecipa dell' essenza dell' essere, e quanto ne ha difetto. Quindi ogni riflessione per se stessa è un istrumento idoneo alla verità, perchè ha per misura delle cose tutte e per tipo la verità. Dimostrata così l' efficacia dell' umano ragionamento, la logica dee insegnarne l' arte. L' arte di ragionare fa sì primieramente che si evitino gli errori; e in secondo luogo, che si giunga con ragionamento a quello scopo che si propone. Si evitano gli errori, quando si procede in modo che la mente nulla affermi gratuitamente, ma la facoltà della persuasione sia sempre guidata dalla ragione , di maniera che ciò che l' uomo dice a se stesso sia sempre per via di puro ragionamento , senza che intervenga l' arbitrio. A questo tendono le quattro regole cartesiane del metodo. Lo scopo che s' intende di ottenere col ragionare è triplice, perchè si può ragionare: 1 per dimostrare la verità e difenderla; 2 per ritrovare nuove verità; 3 per insegnare la verità ad altri. Quindi tre metodi, il metodo dimostrativo , il metodo inquisitivo o inventivo, e il metodo didascalico , ciascuno de' quali ha le sue speciali regole. Il metodo dimostrativo usa di varie forme d' argomentare, ma tutte si riducono a quella del sillogismo. L' artifizio del sillogismo consiste in far vedere che la proposizione che si vuol dimostrare, è già contenuta in un' altra proposizione o evidente, o almeno certa. Il sillogismo si compone di tre proposizioni, l' ultima delle quali si chiama la conclusione o la tesi, e si chiamano premesse le due precedenti. L' una delle due premesse contiene implicitamente la tesi, e l' altra prova che veramente la contiene. La proposizione che si vuol dimostrare esser contenuta nell' altra dee avere identico con questa o il subietto o il predicato. Se il subietto è identico nelle due proposizioni, basta dimostrare che il predicato della tesi è contenuto nel predicato della proposizione assunta. Se è identico il predicato, basta dimostrare che il subietto della tesi è contenuto nel subietto della proposizione assunta. A dimostrare che il predicato o il subietto della tesi è contenuto nel predicato o nel subietto della proposizione assunta, si prende un concetto, che si chiama termine medio, e si mostra che questo s' identifica coll' uno e coll' altro predicato, ovvero coll' uno e coll' altro subietto; con che è dimostrato, che i due subietti pure, ovvero i due predicati s' identificano pel principio: « che due o più cose uguali ad una terza sono uguali fra di loro. » A vedere se un sillogismo sia efficace o abbia qualche vizio, si può applicare questa regola universale: « Il termine medio dee essere d' una comprensione almeno pari a quella del predicato, e d' una estensione almeno pari a quella del subietto della tesi. » Quando non si trova un solo termine medio, che si possa identificare coi due subietti o coi due predicati, se ne può prendere due o più, i quali s' identifichino fra di loro, e il primo d' essi s' identifichi con uno de' due predicati o de' due subietti, e l' ultimo di essi s' identifichi coll' altro de' due predicati o de' due subietti. Allora invece della seconda premessa si ha due o più proposizioni; forma che si chiama sorite . Le premesse devono esser certe acciocchè la conclusione sia necessaria e quindi v' abbia dimostrazione. Se sono soltanto probabili, la conclusione è pure probabile; se sono ipotetiche, tale è pure la conclusione. La dottrina della probabilità è importantissima e moltiplice. Il metodo inquisitivo della verità insegna la maniera di attignerla ai diversi fonti che sono in potere dell' uomo e che si riducono sommariamente a tre: 1 l' autorità e la tradizione; 2 l' osservazione e l' esperienza; 3 il raziocinio; ciascuno dei quali fonti si suddivide in molti. La maniera di applicare le diverse facoltà umane a questi fonti di notizie per attignerle pure ed abbondanti, e la maniera d' adoperare certi mezzi esteriori, che dirigono ed aiutano le facoltà, somministrano una abbondantissima materia a questa parte della logica. Il metodo didascalico è generale o particolare, secondo che contiene i principŒ generali che dirigono quelli che vogliono comunicare altrui la verità, o le regole particolari per insegnare le speciali scienze. Ciascuno de' tre metodi ha un principio supremo che lo dirige. Il principio del metodo dimostrativo è: « data una proposizione certa, è certa anche quella che in essa è implicitamente contenuta. » Il principio del metodo inquisitivo è: « l' idea dell' essere che è il lume della ragione applicato a' nuovi sentimenti, e a notizie già ricevute nel debito modo, produce all' uomo nuove cognizioni. » Il principio del metodo didascalico è: « le verità che si vogliono insegnare, si dispongano in una serie ordinata in guisa, che quelle che precedono, non abbiano bisogno per esser intese di quelle che seguono. » L' Ideologia e la Logica furono da noi dette scienze d' intuizione , perchè trattano del mezzo di conoscere, che è l' essere ideale che s' intuisce. L' uomo, venuto in possesso del mezzo di conoscere, rimane che lo applichi agli enti diversi, e ne cerchi le ultime loro ragioni. Ma la prima di tutte le applicazioni che l' uomo possa fare del mezzo di conoscere agli enti, è mediante la percezione. Conciossiachè se l' intelletto ha per unica sua funzione l' intuire , le funzioni della ragione umana si riducono a queste due percepire e riflettere . Ora l' uomo non può riflettere su cosa alcuna che riguardi gli enti reali, se la percezione non gliene somministra la materia. Tutte le scienze astratte non possono adunque esser legittimamente cavate, se non da ragionamenti , che abbiano per materia gli enti percepiti. Ora, quali sono gli enti che si possono percepire dall' uomo? Tutti quelli e quelli soli, che cadono nel suo sentimento, dove egli trova la realità: se stesso, e il mondo esterno. Le scienze filosofiche adunque di percezione, sono la Psicologia e la Cosmologia . La dottrina cristiana c' insegna, che l' uomo per una comunicazione graziosa riceve anche il sentimento di Dio, col quale egli viene levato all' ordine soprannaturale. La scienza che tratta di questa percezione deiforme, è da noi detta Antropologia soprannaturale: ella eccede i confini della semplice filosofia. PSICOLOGIA. - La Psicologia è la dottrina dell' anima umana. Essa fa tre cose: 1 dichiara qual sia l' essenza dell' anima; 2 descrive il suo sviluppo; 3 ragiona dei destini dell' anima. L' essenza dell' anima si conosce per via di percezione. Se l' anima non si sentisse , non si potrebbe percepire: ma questo è un fatto primitivo, da cui muove il ragionamento dell' anima, che ciascuno sente e percepisce l' anima propria. Lo stesso fatto, enunciato in tutta quella estensione in cui lo porge l' esperienza e la ragione della cosa, è, che senza sentimento nulla si percepisce. In fatti i corpi stessi non si percepirebbero dall' intendimento, se prima non fossero sentiti. Ma fra il sentimento de' corpi e quello che ha ciascuno dell' anima propria, v' ha una gran differenza; chè i corpi si sentono come una cosa straniera, e l' anima come una cosa propria, anzi come noi stessi: i corpi si sentono dall' anima e l' anima si sente da se stessa e per se stessa. Da questa osservazione si ricava tosto una prima definizione dell' anima: perocchè se l' anima si sente per se stessa; dunque ella è per essenza sua sentimento, poichè è il solo sentimento che si sente per se stesso, e se i corpi si sentono dall' anima, e l' anima si sente per se stessa, l' anima è il principio di sentire: « l' anima dunque è un principio di sentire insito nel sentimento. » Ma l' anima umana non sente solamente, ma anche percepisce intellettivamente, percepisce i corpi sentiti, e percepisce se stessa. L' anima umana dunque è un principio ad un tempo sensitivo ed intellettivo. Questo principio sensitivo quando pronuncia se stesso, adopera il vocabolo IO. L' IO dunque è un vocabolo, che esprime l' anima, ma la esprime in quanto pronuncia se stessa, e quindi non l' anima pura, ma l' anima vestita di certe relazioni con se stessa, l' anima in uno stato di sviluppo. Volendo dunque formarci il concetto dell' anima pura, conviene meditare ciò che si contiene nell' IO, e separare nello stesso tempo tutta quella parte che si riconosce come sopraggiunta ed acquisita colle operazioni dell' anima stessa. In questo senso l' IO è il principio e il subietto della Psicologia. Procedendo per questa via il Psicologo, trova coll' aiuto dell' Ideologia una definizione più compiuta dell' anima umana, che si può esprimer così: « L' anima umana è un soggetto o principio intellettivo e sensitivo, che ha per sua natura l' intuizione dell' essere, e un sentimento, il cui termine è esteso; e certe attività conseguenti all' intelligenza ed alla sensitività. » Dalla quale definizione, che ne esprime l' essenza, si deducono le sue proprietà, delle quali sono nobilissime le seguenti: 1) La semplicità , la quale si prova da questo appunto, che l' anima è un principio unico e immune dallo spazio, perchè l' identico principio che sente, è anche quello che intende: perchè l' atto del sentire in opposizione all' esteso sentito, esclude l' estensione per la medesima opposizione: finalmente perchè il principio intelligente riceve la forma dall' idea, cosa immune affatto dallo spazio e dal tempo. 2) L' immortalità , la quale si prova: 1 dall' esser l' anima il principio che dà la vita al corpo; ora l' anima essendo quella che dà la vita, è vita ella stessa; perciò non può cessar d' esser vita se non coll' annullamento, onde da se stessa non può morire, è per sè immortale; e 2 perchè la forma dell' anima intelligente è l' idea eterna ed immutabile. E` vero che, essendo l' anima di natura contingente, potrebb' essere annullata, ma ciò non potrebbe fare che Dio, il quale solo ha virtù di creare e quindi anche d' annullare. Ora Dio niente annulla di quanto ha creato, ripugnando ciò a' suoi attributi, come si dimostra nella Teologia naturale . Abbiamo detto che l' anima è un principio intellettivo e sensitivo, che ha per natura l' intuizione dell' essere e un sentimento il cui termine è esteso. L' essere intuito dall' anima è del tutto indeterminato; quindi, qualora ella non avesse che questo solo, non potrebbe avere alcuna cognizione di cosa determinata, e il suo sviluppo intellettivo sarebbe stato impossibile, non per mancanza di potenza, ma per mancanza di materia. Il creatore vi provvide, dando all' anima quel sentimento il cui termine è l' esteso, dandogli lo spazio ed un corpo. Quel sentimento dell' anima, che ha un termine ossia un sentito esteso, termine che subisce diverse modificazioni, somministra dunque all' anima la materia prima di tutte le sue operazioni intellettive, dalle quali ella poi trae tutte le sue cognizioni: quindi lo svolgersi dello scibile umano. E` dunque un errore quella sentenza di Platone, che considerava il corpo come un impedimento al volo dell' anima: egli è anzi, considerato per sè, lo strumento dello sviluppo e del perfezionamento della medesima. Ma la sentenza di Platone ha la sua verità, se, invece di applicarla alla natura del corpo, s' applica alla corruzione entrata nell' animalità colla prima colpa. Consideriamo ora più attentamente questo termine esteso. Egli è duplice, lo spazio ed il corpo , che è una forza che si diffonde in una parte limitata dello spazio. Lo spazio per sè è immobile, semplice, illimitabile, indivisibile. Ma il corpo è mobile, limitato, divisibile e quindi anche composto. Mediante queste varietà, che subisce di continuo il corpo, accade una continua variazione del termine del sentimento, e quindi la moltiplicità immensa delle sensazioni e delle percezioni, e l' abbondanza della materia prima data all' umano conoscimento. Ma qui nasce da sè la questione, come un sentito esteso possa darsi all' anima, la quale è un principio semplice. E prima di risolvere questa questione, conviene osservare, che i due estremi della proposizione, cioè, che l' anima sia un principio semplice e che essa abbia per termine del suo sentire un esteso, sono un fatto indubitabile; onde, quand' anche l' uomo non potesse giungere a intenderne il come, non per questo se ne potrebbe negare la verità, ma converrebbe confessare anche qui uno di que' molti misterŒ, in cui o niuno degli uomini o pochi sanno penetrare. Venendo dunque alla questione del come, e non parlando che de' corpi, egli è manifesto che quel fatto che si deve spiegare, è duplice anch' esso, perchè l' uomo sente due maniere di corpi ben distinte: sente in primo luogo quel corpo, ch' egli chiama suo proprio, e che l' anima accompagna sempre, in qualunque luogo dello spazio esso si trasporti; e sente i corpi diversi dal suo, ma questi li sente appunto come stranieri; e li sente, perchè modificano con violenza il corpo suo proprio, che solo è continuamente sentito. Qualora dunque fosse spiegato, come l' anima sente continuamente il corpo suo proprio, non sarebbe più tanto difficile a spiegare, come senta i corpi esterni, che modificano lo stesso corpo suo proprio. Infatti è da osservarsi la maniera con cui il principio sensitivo sente il corpo suo proprio. Egli nol sente con una semplice passività, ma con una passività mescolata di molta azione, non solo perchè il sentimento è un atto del principio senziente, e un atto continuo rispetto al corpo suo proprio, ma perchè di più è un atto così potente, che per mezzo di esso il principio senziente, cioè l' anima, modifica ed atteggia continuamente il proprio corpo, e produce in esso molti movimenti e cangiamenti; e il corpo suo proprio come inerte, subisce quest' azione del principio sensitivo, nella quale consiste l' intima unione del detto principio con esso corpo. Ciò posto s' intende come, se in quel corpo, che è in podestà dell' anima, nasca un cangiamento indipendente dall' anima, ed anzi opposto alla sua continua azione, ella senta un contrasto, una violenza, e questo è quanto dire sente un corpo straniero. Dal qual fatto si può raccogliere un principio ontologico, ed è, che un principio senziente oltre il sentire suo proprio e spontaneo, sente anche e riceve in sè una forza straniera, che si oppone all' azione sua istintiva e spontanea, e anche l' aiuta, e ciò senza perdere punto della sua semplicità. Quando poi sia stato spiegato come l' anima senta in sè qualche cosa di straniero a se stessa, il che è quanto dire un' attività, che lotta contro la sua propria, ovvero anche, che stimola la sua propria, allora non sono più difficili a spiegarsi le qualità seconde de' corpi esterni, quali sono i colori, i sapori, gli odori ecc.. Perocchè tutte queste cose appartengono al corpo proprio dell' anima in quanto è termine del suo sentire, e non rimane altra difficoltà, che quella dell' estensione de' corpi; rimane cioè la sola questione che abbiamo prima proposto, come l' anima, essendo un principio semplice, possa aver per termine l' estensione. Ora questa questione, quando si consideri intimamente, non presenta più quella ripugnanza che dimostra nell' apparenza, ed anzi si prova che non può esser altro che così; di maniera che se n' ha infine questo risultato, che « l' esteso continuo non può esistere che in un principio semplice, come termine del suo atto. »Perocchè se così non fosse, non ci sarebbe una ragione della continuità delle parti, che si possono assegnare in tale esteso, giacchè l' esistenza di una parte finisce in lei, e non contiene la ragione dell' altra parte che gli sta aderente. La ragione del continuo non istà dunque nelle singole parti, ma in un principio che abbraccia tutte le parti insieme, e questo semplice. Oltrediciò, le parti stesse, delle quali si supponesse formato il continuo, svanirebbero davanti a chi le cercasse, perchè, essendo l' esteso divisibile all' indefinito, non si possono trovar mai le prime parti, anzi al tutto non esistono. Non è dunque possibile considerare il continuo come un aggregato di parti, eppure ciascuna parte in esso assegnabile col pensiero, è fuori dell' altra, e ha un essere indipendente dall' altra. Convien dunque che tutto insieme il continuo esista con un atto solo nel semplice che lo sente. Proseguendo le ricerche su questa via si riesce ai seguenti risultati: 1 Che il principio senziente, ossia l' anima sensitiva, ha per suo primo termine l' estensione pura, ossia lo spazio immisurato . 2 Che ha per suo secondo termine una forza limitata diffusa nello spazio, la quale perciò è una misura limitata dello spazio, che non rimane tuttavia scisso o discontinuo. Questo è il corpo proprio dell' anima, che viene da lei informato, ed è la sede di tutti i suoi sentimenti corporei. 3 Il corpo proprio dell' anima è sentito da lei con un sentimento fondamentale e sempre identico, benchè sia suscettivo di variazioni ne' suoi accidenti. Il corpo proprio sentito con un tal sentimento fondamentale non ha ancora distinti confini, e perciò non ha figura distinta nel sentimento dell' anima. 4 Questo corpo viene modificato dall' azione di altri corpi esteriori e stranieri all' anima, e queste modificazioni in quanto sono sentite si chiamano sensazioni esterne e sono di diverso genere, secondo i varŒ organi del corpo. Ma tutte queste sensazioni presentano un sentimento esteso solamente in superficie, e mediante queste sensazioni superficiali, il corpo proprio acquista dei limiti ed una figura determinata sentita dall' anima. 5 Il corpo proprio, come pure i corpi esteriori, occupano una sola parte dello spazio, e si possono muovere in esso, cioè cangiar di luogo. Questi movimenti diventano la misura di altrettante parti dello spazio e così si presenta al sentimento, date certe condizioni, uno spazio misurato , che può essere sempre più ingrandito indefinitamente, giacchè v' ha un' indefinita possibilità di movimento. Il principio sensitivo, rispetto al primo de' suoi termini, cioè allo spazio immisurato, non esercita alcuna attività, se non quella di semplicemente averlo per termine senza potergli cagionare alcuna modificazione. Ma rispetto al suo secondo termine, cioè al corpo proprio, egli non è soltanto ricettivo o passivo, ma ben anco attivo; e questa passività e questa attività, reciproca e moltiplice, è diretta da mirabilissime leggi. In quanto il principio, ossia l' anima sensitiva è passiva, si suol dire che è dotata della facoltà di sentire, ossia della sensitività ; in quanto poi è attiva, si suol dire che è dotata dell' istinto . Il primo atto dell' istinto è quello che produce il sentimento, e dicesi istinto vitale ; ma ogni sentimento, suscitato nell' anima, vi produce una nuova attività, e questa seconda attività, che succede ai sentimenti, si chiama istinto sensuale . Mediante questi principŒ, cioè, 1 l' istinto vitale, 2 la sensitività, 3 l' istinto sensuale, si spiegano mirabilmente i fenomeni fisiologici, patologici, e terapeutici dell' animale: onde ha origine la medicina. L' unione del principio animale col suo termine corporeo è così intima, che non si concepisce il principio senza il termine, nè il termine senza il principio; e però quantunque l' uno non sia l' altro, l' uno anzi sia opposto all' altro, tuttavia formano un ente solo, un solo animato, e quando del termine si fa un ente a parte e intieramente separato, non si ha per risultato che un prodotto dell' astrazione. Tuttavia conviene nel termine dell' animale distinguere tre cose, che danno luogo a tre specie di sentimenti: 1 il continuo corporeo , termine del sentimento dell' esteso corporeo ; 2 il movimento intestino degli atomi, o delle molecole, o delle parti dell' esteso corporeo, termine del sentimento d' eccitazione ; 3 la continuazione armonica del detto movimento, termine del sentimento organico . Ora il principio sensitivo può esser privo delle due ultime maniere di sentimento, ma non della prima. Se egli ha soltanto la prima e la seconda maniera di sentire può dirsi animato , ma non animale: il carattere distintivo dell' animale è il sentimento organico, al quale è necessaria una congrua organizzazione. Si può dunque dire che l' animale muore, ma l' animato non muore. Nulladimeno questo subisce delle mutazioni essenziali rispetto alla sua individualità. Le quali si riassumono nelle seguenti leggi: 1 Ogni esteso continuo ha un solo principio sensitivo del continuo. - Dal qual principio procede che qualora più atomi vengano al contatto in modo da formare un solo continuo, i principŒ sensitivi s' unificano, riducendosi in un solo, che ha in sè l' attività di tutti i precedenti non distrutta ma accentrata, e quando il continuo si spezza in più continui, il principio si moltiplica in più principŒ sensitivi. Qui non v' ha divisione o composizione , ma unicamente moltiplicazione e unificazione . 2 Che se il movimento intestino in un dato continuo è parziale, il principio del continuo rimane uno, ma i principŒ del sentimento eccitato si moltiplicano quanti sono i sistemi di movimenti continui. 3 Che se il movimento armonico intestino nelle parti d' un continuo, abbraccia tutto il continuo, v' ha un solo principio senziente di quest' unica armonia, ma se i sistemi de' movimenti armonici nello stesso continuo sono più, v' hanno più principŒ senzienti, cioè tanti quanti sono que' diversi sistemi, benchè tutti abbiano per base, ossia per primo atto, il principio, che abbraccia tutto il continuo. Ma l' anima umana non è soltanto sensitiva, ma ancora intellettiva. Ella è un principio intellettivo e sensitivo ad un tempo. In quanto è un principio sensitivo ha per termine il proprio corpo; ma poichè il principio intellettivo è unificato col sensitivo, di maniera che è un principio solo con due attività, perciò l' anima intellettiva e sensitiva, o in una sola parola l' anima razionale , ha per suo termine il corpo. In quanto è sensitiva, l' ha come termine sentito , in quanto è intellettiva, l' ha come termine inteso: il corpo dunque è un termine dell' anima umana sentito7inteso. V' ha dunque una percezione intellettiva del proprio corpo, primigenia ed immanente, e in questa percezione consiste il nesso fra l' anima umana ed il corpo. Così s' intende il reciproco influsso dell' anima e del corpo; perocchè qualunque realità che abbia natura di principio, è di natura sua attiva, e però agisce secondo certe leggi nel suo termine. Ma poichè per agire in esso, conviene che lo abbia per termine, e non lo può avere se non gli è dato, quindi anche il principio è ricettivo e passivo rispetto al termine, e a quella virtù che gli dà il termine e a quell' altra virtù che gli modifica il termine. Egli è dunque chiaro, che fra l' anima umana e il suo corpo vi ha un commercio o fisico influsso. Come poi il principio intellettivo e il sensitivo sieno un solo principio, non sarà del tutto impossibile il concepirlo, ove, per una semplice supposizione, si considerino prima separati, e poi si supponga che il principio sensitivo, indivisibile dal suo termine, sia dato a percepire al principio intellettivo, e si domandi, che cosa ne dovrà avvenire. Converrà rispondere che il principio intellettivo non potrà percepire il principio sensitivo, se non unendosi strettamente con lui, cioè percependo tutto quello che egli sente, chè la stessa natura del principio sensitivo risulta unicamente da quello che sente. Così i due principŒ diventano un principio solo senza che si distruggano le loro attività. Perocchè due principŒ non possono essere termini l' uno dell' altro, senza che l' uno, cioè il percipiente, acquisti l' attività del percepito; chè la percezione è un nesso fisico, e un' attività non può avere un nesso fisico con un' altra attività che sia principio, senza congiungere a sè la detta attività e il detto principio. Infatti un termine rimane separato dal suo principio unicamente per la loro diversa natura, cioè perchè il termine è esteso, e il principio è semplice; perchè il termine è oggetto, e il principio soggetto; ma se la natura è la stessa, e sono entrambi due principŒ soggettivi, non si può intendere altra congiunzione fisica se non questa, che il percipiente riceva o congiunga a sè l' attività dell' altro principio senziente da lui percepito. Nè viene già per questo, che le due attività si confondano in una terza, ma soltanto, che le due attività, restando distinte, acquistino un solo principio da cui incominciano, benchè l' una subordinata all' altra. Che se dal principio intellettivo, che è il percipiente, si distacca l' attività sensitiva, il che suol avvenire quando il corpo, termine di questo, si disorganizza, e quindi il suo principio sensitivo rimane senza il termine organato che gli è proprio, ond' egli vien meno, allora succede la morte dell' uomo. La Psicologia dopo avere così ragionato dell' essenza dell' anima e della costituzione dell' uomo, passa a ragionare del movimento e dello sviluppo dell' essenza medesima, che dirama la sua attività nelle diverse potenze ed operazioni. E venuta su questo argomento ella fa due lavori, l' uno analitico , col quale deriva dall' essenza dell' anima le facoltà, e distinguendole prima dalla stessa essenza, poscia tra loro e sempre più quasi rami d' un albero, che si moltiplicano quanto più si producono, le enumera e le definisce tutte ordinatamente; l' altro sintetico , col quale raccoglie le leggi , ossia i modi costanti di operare delle dette facoltà. Nel derivare le potenze dall' essenza stessa dell' anima si presentano inevitabilmente delle gravissime questioni ontologiche, a ragion d' esempio: « come si concilii l' unità dell' essenza, e la moltiplicità delle potenze »: - « in che modo v' abbia successione nelle potenze, e permanenza o immutabilità nell' essenza »: - « come l' essenza medesima possa sostenere diversi stati accidentali » - ed altre somiglianti. Mirabili poi sono le leggi colle quali opera l' anima, o immediatamente, o col mezzo delle sue varie potenze. E l' anima essendo una, e questa razionale, dal principio razionale in relazione co' suoi termini devono emanare tutte quelle facoltà che si dicono umane, e le leggi altresì del loro operare. Quindi altre di queste leggi sono psicologiche , e son quelle che procedono dalla natura stessa dell' anima come principio attivo; altre sono ontologiche , e sono quelle che vengono imposte all' anima umana dal suo termine superiore intellettivo, il qual termine è l' ente; altre finalmente sono cosmologiche , e son quelle che vengon imposte all' anima dal suo termine inferiore, cioè dal mondo sensibile. La suprema fra le leggi ontologiche è il principio di cognizione, che si esprime così: « il termine del pensiero è l' ente. » E` incredibile quanto sia feconda e meravigliosa questa legge nelle sue applicazioni. Le leggi cosmologiche altre sono quelle che presiedono al movimento, che dà il termine sensibile allo spirito umano, altre in quelle che determinano la qualità di questo movimento. Le prime si chiamano leggi della mozione , le seconde leggi dell' armonia . Le leggi psicologiche finalmente, cioè quelle che nascono dalla stessa forza dell' animo, si dividono in due classi, perchè altre rispondono alle ontologiche, altre rispondono alle cosmologiche. La Psicologia finalmente tenta di scoprire la destinazione dell' anima umana. Ma ella non può compire questa scoperta coll' uso della sola ragione naturale, ovvero col semplice esame della natura umana. Ella può bensì mediante quest' esame rilevare dove tenda questa natura, ma le rimane ignoto quel di più, che le ha destinato la gratuita liberalità e magnificenza dell' infinito Essere che la creò. Quel solo adunque che risulta dall' esame della natura umana è questo: la prima parte di questa natura è l' intelligenza, e l' intelligenza è fatta per la verità. La seconda parte di questa natura è la volontà, e la volontà è fatta per la virtù: con essa l' uomo aderisce alla verità, la ama in tutte le cose, e così ama tutte le cose secondo la loro verità. Ma questo amore che cerca soddisfarsi negli enti, secondo la verità, vorrebbe pienamente possedere quello che ama, e che gli è bene appunto perchè l' ama. Vi è dunque una terza parte nell' uomo, e questo è il sentimento in tutta l' estensione di questa parola. Il sentimento è una tendenza a godere. La volontà dunque che aderisce alla verità, e però che è virtuosa, la volontà che di conseguente ama tutti gli enti secondo la verità, desidera altresì che tutti questi enti le si dieno a godere, giacchè col godimento si compie il suo conoscimento e il suo amore di essi. Questo è quanto dire che cerca la felicità. Di che si raccoglie, che l' anima tende di sua natura ed è destinata alla sua perfezione, e che questa perfezione consiste nella piena vista della verità, nel pieno esercizio della virtù e nel pieno conseguimento della felicità, triplice fine, triplice destinazione, in cui si trova tuttavia una perfetta unità, poichè non ci può essere un solo di questi tre elementi in modo completo, senza che ci sieno gli altri due: la verità non è veduta ne' suoi intimi visceri, se non da chi l' ama e la gode; nessuno ama pienamente la verità negli enti in cui è attuata, senza che ce la veda e ne goda; nessuno ne gode pienamente ed è felice, se pienamente non l' ama, ed è virtuoso, e pienamente non la vede ed è sapiente. L' uno di questi tre beni implica gli altri due: non sono che tre forme d' un solo ed unico bene. Ma se dall' esame della natura umana risulta che questa è la sua destinazione, come l' uomo ci arriva? Qui ammutolisce l' umana ragione, anzi rimane confusa al vedere, che non trova mai nella vita presente uno stato dell' uomo, che corrisponda pienamente a quel fine, a cui aspira. Da una parte la natura delle umane potenze diligentemente investigata, e i voti incessanti del cuore umano, fanno conoscere alla ragione l' altissimo scopo, a cui è rivolta l' umanità: dall' altra la ragione medesima vede l' umanità in sulla terra ravvolta di continuo nell' ignoranza, ludibrio delle passioni e de' vizŒ, guasta dappertutto e da per tutto infelice; la vita fuggevole siccome un lampo, incerta sempre, sempre una lotta, sempre un sacrificio, la morte di tutti quelli che nascono, chiudere tutto questo dramma. A un tale spettacolo la ragione stessa vacilla, crede d' aver sognato, perde la confidenza in sè medesima. Finalmente quasi facendo uno sforzo si ristora con un' ipotesi consolante, quella della vita futura. Ma l' umana ragione non viene da Dio abbandonata nelle sue esitazioni. Ecco, Iddio rivela all' uomo il secreto della sua bontà creatrice: l' assicura che la teoria ispirata dal sentimento, trovata dalla ragione collo studio e la meditazione dell' umana natura, non mentisce e non l' inganna: sarà adempita, ad essa risponderà fedelmente il fatto in un modo ancor più sublime della stessa teoria: tuttociò, che si manifesta sopra la terra, come un ostacolo e come una smentita data alla ragione, rimane spiegato dalla manifestazione dell' intero disegno del Creatore: diventa in questo disegno un mezzo necessario ed una conferma di quanto insegnò la ragione medesima. L' ipotesi d' un' altra vita è convertita in certezza da una testimonianza infallibile. Quest' altra vita che non ha fine, in cui l' uomo più non muore, ha in se stessa tanta copia di beni e di mali da colmare tutte le disuguaglianze e correggere tutte le irregolarità della vita temporale: in questa stessa Iddio pose i segni di quell' ordine futuro ed eterno: consegnò all' uomo de' mezzi eccellenti e al tutto divini, coll' uso dei quali egli può, volendolo, conseguire quella sublime destinazione, che la ragione soltanto da lontano e imperfettamente indicava. Questa parte dunque della destinazione dell' anima e dell' intero uomo non può essere esaurita nella Psicologia, o nell' Antropologia naturale, ma in un' altra Psicologia o Antropologia, che attigne le sue dottrine dalla bocca di Dio medesimo. COSMOLOGIA. - Questa scienza è la dottrina del mondo. L' abbiamo posta fra le scienze di percezione, perchè sono oggetti di percezione lo spirito umano ed i corpi di cui si compone il mondo. Tuttavia nel gran sistema della creazione v' ha degli altri esseri che non cadono sotto l' esperienza sensibile, e s' inducono per ragionamento; tali sono gli spiriti puri, gli angeli. La cosmologia considera il mondo 1 nel suo tutto, 2 nelle sue parti, in quanto si riferiscono al tutto, 3 nel suo ordine. La cosmologia come dottrina del tutto contingente, tratta 1 della natura dell' essere reale contingente, 2 della sua causa. L' essere contingente non ha in se stesso la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa; e poichè niuna parte dell' essere contingente, nè sostanziale nè accidentale, ha in sè la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa creatrice: l' essere contingente è dunque tratto ogni istante dal nulla. Altra prova della creazione del mondo si ha dall' analisi della percezione; la quale analisi ci mostra, che tutto ciò che cade nel sentimento (noi stessi e il mondo), non potrebbe esser percepito, il che è quanto dire non sarebbe ente, se la mente stessa non lo vedesse unito all' essenza dell' ente: onde è questa essenza che gli dà l' atto dell' essere quasi a prestito; lo crea. Nella coscienza di noi stessi e di ogni nostra sensione o percezione troviamo una terza prova che l' ente contingente è creato, perchè noi sentiamo di sussistere, ma non sentiamo la forza che ci fa sussistere; perciò sentiamo di non sussistere per noi stessi. La natura dell' essere contingente maggiormente si illustra coll' esposizione delle sue essenziali limitazioni . Dallo studio di queste procedono importantissimi corollarŒ, un de' quali si è la dottrina intorno alla possibilità del male. Dalla dottrina delle limitazioni essenziali dell' universo, la scienza passa a quistioni più elevate. I creabili, ossia i possibili esistono distinti in Dio? e se no, come vengono distinti fuori di Dio? sono essi finiti ovvero infiniti? onde fu mosso Iddio a creare? Egli è impossibile dare una compendiosa esposizione di sì alte questioni colla soluzione delle difficoltà ch' esse ingenerano nella mente. La seconda parte della cosmologia distingue le parti dell' universo, 1 in ispiriti puri, 2 anime, 3 corpi; e tratta di ciascuna di queste parti considerate come parti dell' universo. Finalmente nella terza, in cui si parla dell' ordine dell' universo, si vengono esponendo le leggi cosmiche cioè universali a tutte le cose contingenti; e quindi si compie il discorso, incominciato già nelle parti precedenti, intorno alla bontà del mondo ed a' suoi destini. Ma questi soli cenni bastevolmente dimostrano che la Cosmologia non si può trattare compiutamente, separandola dall' Ontologia e specialmente dalla Teologia. Imperocchè come si può trattare della natura dell' ente in quant' è contingente e limitato, senza trattare ad un tempo o aver trattato dell' ente necessario e illimitato? Come si può trattare della maniera, in cui il mondo cominciò ad esistere, se non si tratta della natura e dell' operare del suo autore? Come si possono intendere le cose in quanto sono temporanee, senza l' intendimento delle cose eterne? Come si può dar ragione degli atti transeunti, senza ricorrere agli atti immanenti? Noi dunque riputiamo impossibile il fare della Cosmologia una scienza compiuta stante da sè; ma crediamo, ch' ella non possa esser altro che una parte d' un' altra scienza superiore, che dà la dottrina dell' ente, sia in astratto ed universale, e sia nel suo atto compiuto ed assoluto. L' intuizione somministra il mezzo del ragionamento; l' intuizione e la percezione somministrano al ragionamento la sua materia . Non si dà ragionamento che non prenda in fine la materia da questi due fonti. Le scienze d' intuizione e di percezione sono scienze di osservazione: osservano ciò che si presenta allo spirito da intuire, ciò che avviene nello stesso spirito, e ciò che avviene nel corpo in quanto egli è un agente nel sentimento. Su queste osservazioni si volge e si rivolge la riflessione, e seguendo la guida di que' principŒ che le somministra il lume dell' essere a cui riferisce ogni cosa, discopre nuove verità, e fin anco argomenta all' esistenza di enti che si sottraggono all' intuizione ed alla percezione. Le scienze filosofiche di ragionamento si dividono in due classi. Le une trattano degli enti come sono, e si dicono ontologiche; le altre trattano degli enti come devono essere, e si dicono deontologiche . SCIENZE ONTOLOGICHE. - Le scienze ontologiche sono due: l' Ontologia propriamente detta, e la Teologia naturale . ONTOLOGIA. - L' ontologia tratta dell' ente considerato in tutta la sua estensione come è all' uomo conosciuto; tratta dell' ente nella sua essenza e nelle tre forme in cui è l' essenza dell' ente, la forma ideale , la forma reale , e la forma morale . L' essenza è identica in tutte e tre queste forme; ma le forme sono distintissime fra loro ed incomunicabili. La forma ideale non può concepirsi senza l' essenza dell' essere, perchè ella è appunto essenza dall' essere, in quant' è conoscibile ; ma la forma reale si concepisce anche priva per sè dell' essenza dell' essere. In tal caso, la forma reale non acquista il nome di ente, nè d' oggetto, e non è concepibile se non perchè vi s' aggiunge l' essenza dell' essere, la quale le dà quell' atto di essere che le mancherebbe. Indi in parte si spiega l' origine dell' essere contingente, la creazione di quest' essere. La forma morale è il rapporto che ha l' essere reale con se stesso mediante l' essere ideale. In quanto l' ente è ideale , in tanto ha la proprietà di esser lume, e di essere oggetto . In quanto l' ente è reale , in tanto ha la proprietà di esser forza e di esser sentimento attivo e individuo, e quindi soggetto . Ma il principio senziente, ossia il soggetto, può avere per suo termine tal cosa che non è lui stesso, come sarebbe l' estensione e il corpo, e questo termine non è oggetto , e non è neppure soggetto , ed è fuori del soggetto, onde si chiama estrasoggetto . Ma questo estrasoggetto, come tale, ha un' esistenza solamente relativa al soggetto, di cui è termine. I modi dunque dell' ente reale sono due, il soggettivo , e l' estrasoggettivo . In quanto l' ente è morale , in tanto ha la proprietà di essere l' atto che mette in armonia il soggetto coll' oggetto, di esser virtù perfezionatrice, compimento del soggetto mediante l' unione e l' adeguamento all' oggetto7beatitudine dell' ente. Qualora gli enti limitati che cadono nella cognizione umana si vogliano classificare nel modo più sommario, tutti si riducono a queste tre ultime classi di enti ideali, enti reali , ed enti morali: di maniera che le tre primordiali forme dell' ente sono anche il fondamento delle categorie . Le categorie sono classi più estese di tutti i generi, e non sono generi e molto meno specie, poichè lo stesso ente che si divide in generi, e in ispecie, appartiene a tutte e tre le categorie. Quando si considera l' ente in tutta la sua estenzione, allora si scorge ch' egli ha un ordine interno , ammirando ed immutabile, di cui l' ontologia copiosamente ragiona. Da quest' ordine si raccoglie, fra le altre, la legge del sintesismo dell' ente ; la quale si manifesta in mille modi; ma principalmente mediante questa verità, che « l' ente non può esistere sotto una sola delle tre forme, se non esiste anche sotto l' altre due, quantunque al pensiero umano l' ente, anche sotto una sola forma, si rappresenti come stante da sè e percettibile in un modo distinto. » L' Ontologia non solo dà la teoria delle tre forme primordiali dell' ente e dell' identità dell' ente in esse, ma distribuisce l' ente medesimo identico sotto le tre forme in generi, specie e individui , e cerca la ragione di questa distribuzione ne' visceri dello stesso ente, colla quale investigazione va trovando in che modo l' ente sia suscettivo di limitazioni, e così spiana la via alla dottrina intorno all' origine dell' ente limitato e contingente, la quale appartiene alla Cosmologia. Ella medesimamente tratta delle proprietà essenziali all' ente, deducendole dal principio di cognizione: « l' ente è l' oggetto del pensiero », applicandolo al ragionamento, mediante quest' altro principio: « quando rimossa una data proprietà, l' ente non si può più pensare, quella proprietà gli è essenziale », che è il principio stesso di cognizione espresso in forma ontologica. Quindi deduce le proprietà ontologiche di cui deve necessariamente partecipare l' ente limitato e contingente, acciocchè sia possibile: dottrina anche questa necessaria alla Cosmologia. TEOLOGIA NATURALE. - Ma il pensiero umano non comprende totalmente l' ente come è in sè: di questo tratta la Teologia. La Teologia dunque è quella scienza che tratta dell' ente come è in sè, in quanto la mente nostra s' accorge che l' ente, oltre quella parte che a noi si manifesta, via più si stende: tratta in somma dell' Essere assoluto, di Dio. L' ente che cade naturalmente sotto l' intuizione dello spirito umano è illimitato, perchè è l' essenza stessa dell' ente, ma non è tuttavia l' ente assoluto, perchè l' intuizione non coglie l' essenza dell' ente, se non sotto una sola delle sue tre forme, sotto la forma ideale. L' ente che cade sotto la percezione dell' uomo non è che la realizzazione parziale dell' ente, realizzazione per sè distinta dall' essenza dell' ente; e il sentimento, materia della percezione, non è che la forma reale dell' ente, di maniera che l' intendimento è costretto, se vuol percepirlo, di comporlo insieme coll' essenza dell' ente, benchè quest' essenza non appartenga propriamente al sentimento contingente, come quella che è eterna. Dunque i materiali che ha l' uomo, su cui appoggiare il suo ragionamento, affine di cavarne una dottrina compiuta dell' ente, sono imperfetti e manchevoli. L' ente dunque nella sua totalità e pienezza non è dato naturalmente all' esperienza dell' uomo, e l' uomo non può sapere come egli sia , benchè egli possa sapere che è in una guisa travalicante l' umana intelligenza. Questa maniera di cognizione dicesi negativa , e tal è la cognizione spettante alla Teologia naturale che tratta dell' ente nella sua assolutezza, dell' ente non come è conosciuto all' uomo, ma come è in se stesso. La Teologia naturale dimostra primieramente l' esistenza di Dio, e ciò per molte vie, fra le quali, le principali si possono ridurre a quattro. La prima dall' essenza dell' ente che si intuisce; dimostrando, ch' ella non è nulla, ma è cosa eterna e necessaria. Ora non potrebbe esser tale s' ella non sussistesse identica anche sotto la forma di realità e di moralità. Ma l' essenza dell' ente è infinita; ed essa esistente sotto le tre forme è l' essere da ogni parte infinito, assoluto, Dio. La seconda dimostrazione dell' esistenza di Dio si trae dalla forma ideale . Questa forma ideale è luce che crea le intelligenze, ed è luce eterna, e oggetto eterno: dunque dev' esserci una mente, un soggetto eterno . Questa luce è illimitata: dunque questo soggetto dee avere una sapienza infinita, e il suo conoscere non dev' essere un atto transeunte, ma in lui tutto deve essere conosciuto per se stesso. Un soggetto che nello stesso tempo esiste come oggetto infinito , ha l' unione massima di lui coll' oggetto, onde è l' atto infinito della bontà o perfezione morale che costituisce la terza forma primordiale dell' essere. Quest' essere è dunque assoluto, è Dio. La terza dimostrazione si trae dall' essere reale percepito dall' uomo, ed è quella che abbiamo accennata, con cui la mente sale dal contingente al necessario, alla prima causa e ragione di tutto [104]. La quarta dimostrazione si deduce dalla forma morale conosciuta all' uomo. Infinita e insuperabile è l' autorità della legge morale, infinito il pregio della virtù e l' ignobilità del vizio. Questa forza obbligante, questa dignità del bene morale, non è nulla, dunque ella è eterna, necessaria, assoluta. Ma nulla sarebbe, se ella non esistesse in un essere assoluto. L' essenza della santità appartiene all' essenza dell' essere, di cui è l' ultimo compimento; come all' essenza dell' essere appartengono l' altre due forme. Vi ha dunque un essere assoluto, Dio. Dimostrata l' esistenza di Dio, la Teologia naturale deve occuparsi a determinare con precisione in che modo l' uomo possa, rimanendo nell' ordine della natura, conoscere Iddio. Ella dimostra che l' uomo non può conoscere Iddio, se non col ragionamento. Non potendo nè intuire nè percepire Iddio naturalmente in questa vita, si rende necessario il ragionamento a discoprirne l' esistenza. Ne discopre l' esistenza, come abbiamo veduto, paragonando l' uomo gli enti che intuisce e che percepisce coll' essenza dell' ente, ed osservando che essi non la esauriscono, e che dall' altra parte ella dev' essere esaurita, realizzata appieno, completata, e ciò per l' esigenza dell' essenza stessa dell' ente che noi intuiamo. Ma di quest' essere assoluto che non intuiamo, che non percepiamo, nulla possiamo sapere di più di quanto ci mostra la stessa esigenza dell' essenza dell' ente, oggetto dell' idea. Questo è il confine della cognizione che possiamo aver di Dio nell' ordine naturale: e perciò la cognizione nostra della divina natura si potrebbe anche chiamare negativa ideale. E una tale esigenza ci dimostra due cose. La prima che non possono appartenere a Dio nè i difetti, nè le limitazioni degli enti che conosciamo. La seconda, che tutti i pregi degli enti che conosciamo devono appartenere a Dio, ma non in quel modo che sono negli enti da noi conosciuti, perchè in tali enti questi pregi sono o contingenti, o limitati, o divisi, e, in una parola, essenzialmente forniti di qualche limitazione o divisione; quando nell' essere supremo devono esistere necessariamente senza divisione e limite, e insomma in tutt' altro modo, o anzi senza modo. Queste due maniere di conoscere la natura dell' ente assoluto si sogliono chiamare via exclusionis , e via eminentiae . Conosciute le maniere per le quali il pensier nostro si forma la dottrina intorno a Dio, convien passare all' esposizione di questa dottrina, la quale considera Iddio in se stesso, e in relazione alle creature come autore del mondo, completando in questa seconda parte ciò che delle operazioni divine ad extra fu detto nella Cosmologia. Iddio considerato in sè è argomento di quella parte della Teologia naturale che tratta dell' essenza divina, della quale prima si espongono gli attributi. Di poi si esamina se l' intelligenza umana, sviluppata e resa potente dalla rivelazione, possa conoscere che l' essenza divina deva essere in tre persone: questione che si risolve affermativamente, come affermativamente fu sciolta da due teologi moderni, il P. Ermenegildo Pini, ed il Mastrofini. Rimane tuttavia ben fermo, che anche la dottrina intorno la Trinità, a cui può giungere la ragione, non è appunto altro che negativa ideale. Trattandosi di Dio come autore delle cose, si ragiona principalmente sulla relazione che ha l' atto creatore coll' atto dell' essenza divina e coll' atto delle stesse creature esistenti. Applicando poi al creatore dell' universo gli attributi dell' infinita potenza, scienza e bontà, di cui s' era parlato, s' entra nell' amplissima dottrina della conservazione e del governo dell' universo, come pure del fine assegnatogli, il cui adempimento non può fallire; e questa parte della Teologia, che contempla nel mondo i vestigi degli attributi di Dio, cioè la Provvidenza che regola gli avvenimenti secondo un eterno disegno, la potenza che li conduce all' adempimento di quel disegno senza vincolare la libertà delle creature intelligenti, e la bontà, la santità e la beatitudine partecipata a queste nature in una misura massima fra le possibili (salvi i divini attributi), che ne è lo scopo finale, forma quello speciale trattato che acconciamente si denomina Teodicea. SCIENZE DEONTOLOGICHE. - Le scienze deontologiche sono tutte quelle che trattano della perfezione dell' ente , e del modo di acquistare o produrre questa perfezione o di perderla. Si può trattare della perfezione degli enti in generale, onde nasce una Deontologia generale , e si può trattare della perfezione propria di ciascuna specie di enti, onde nasce la Deontologia speciale , che in più scienze si divide. DEONTOLOGIA GENERALE. - Gli enti possono considerarsi nella grande unità che formano mediante le loro relazioni scambievoli, di perfezione. Se queste relazioni si classificano secondo le categorie, si avranno tre grandi classi di relazioni: relazioni di perfezione proprie degli enti morali, relazioni di perfezione proprie degli enti intelligenti, relazioni di perfezione proprie degli enti reali, sieno sensitivi, sieno estrasoggettivi . E dissi relazioni proprie degli enti intelligenti, anzichè degli enti ideali, perchè l' ente ideale è propriamente un solo e semplicissimo, onde, quando si prescinde dai soggetti intelligenti e dagli enti reali, egli non ha intrinseche relazioni. Le relazioni di perfezione , disposte nelle accennate tre classi, sono immutabili se si considerano nell' essere supremo, ma, se si considerano nell' essere contingente, possono essere più e meno, e più e meno realizzate. Il loro realizzamento maggiore o minore trae seco altresì la maggiore o minor perfezione degli enti fra cui passano le accennate relazioni. Quindi nell' essere supremo c' è la somma ed immutabile perfezione, perchè le dette relazioni di perfezione sono immutabilmente e compiutamente avverate. L' essere contingente all' opposto è suscettibile d' imperfezione, e di più o men perfezione secondo l' avveramento delle accennate relazioni. Se le relazioni proprie degli enti reali sono appieno avverate, vi ha una perfezione reale: Se sono pienamente avverate le relazioni proprie degli enti intelligenti, vi ha una perfezione intellettuale: Se sono avverate le relazioni proprie degli enti morali, vi ha una perfezione morale. Queste relazioni, nel cui avveramento sta la perfezione dell' essere, hanno dunque un' esigenza sì in se stesse (oggettivamente considerate) che relativamente agli enti che sono i soggetti della perfezione e dell' imperfezione (soggettivamente considerate). Per esigenza oggettiva s' intende quella che concepisce la mente considerando l' essere in se stesso, senza fermarsi alla relazione con un soggetto particolare e reale. L' esigenza soggettiva è quella che concepisce la mente nel soggetto particolare e reale, osservando che la perfezione di questi esige l' avveramento di quella data relazione. La parola esigenza esprime quella necessità che è propria delle condizioni necessarie all' ottenimento di un fine, e che prende natura dal fine stesso. Ora v' ha una necessità reale o fisica, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti reali di essere avverate, acciocchè gli enti reali o fisici ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità intellettuale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti intellettuali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità morale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti morali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la propria perfezione. Queste sono le tre necessità deontologiche , diverse dalle necessità ontologiche ; poichè le prime sono necessarie alla perfezione degli enti, le seconde alla loro esistenza. V' ha dunque una necessità fisica ontologica, e una necessità fisica deontologica; una necessità intellettuale ontologica (a cui si riduce anche la necessità logica), ed una necessità intellettuale deontologica; una necessità morale ontologica, ed una necessità morale deontologica. In Dio non cade questa distinzione, perocchè la necessità deontologica è ontologica per l' eccellenza della sua natura. Ma giacchè la perfezione è una forma, e, come abbiam veduto, ci sono forme soggettive e forme oggettive , perciò ci sono pure perfezioni soggettive e perfezioni oggettive . Di più, le forme soggettive, altre hanno una realità distinta dal soggeto informato, altre non sono che un elemento costitutivo dello stesso soggetto informato. Ora la stessa distinzione è da farsi delle perfezioni degli enti. In fatti gli enti reali hanno una perfezione propria, e ne hanno una che ricevono dall' azione scambievole fra loro, conveniente alla loro natura. Da questa scambievole unione ed azione risulta sempre la perfezione degli enti composti. Come la forma che fa esistere le intelligenze è un oggetto, così pure è oggettiva la forma che le perfeziona. Ma la forma che perfeziona gli enti morali, cioè dotati di volontà e di affetto razionale, è soggettiva7oggettiva , poichè la perfezione della volontà sta nel voler bene a tutti gli enti, alla totalità dell' ente, ma distribuendo questo affetto secondo la norma dell' oggetto, ossia, che è il medesimo, secondo il quantitativo di entità misurato negli enti coll' essenza dell' ente, che risplende allo spirito, e che è l' oggetto dello spirito, e la misura universale . L' ente intuito misura i diversi enti; e la volontà sente l' esigenza loro di essere riconosciuti per quel che sono. La volontà non dee opporsi all' intendimento, ma dee compiacersi del vero conosciuto dall' intendimento. Tutti gli enti sono per loro natura beni alla volontà, sono a lei amabili. Ma la volontà, essendo libera, può opporsi a questa legge di natura, e alle entità vere opporre delle entità false, come oggetti del suo amore; può accrescere e diminuire a se stessa le entità, e quindi i beni in opposizione al vero loro essere. Ora così facendo, ella contraddice alla verità, mentisce, fa guerra all' entità, è dunque ingiusta; altera la legge naturale che sta fra lei e gli enti reali, è dunque disordinata, snaturata. La menzogna interna, l' ingiustizia, il disordine volontario è il male morale: il contrario a tutto questo, è il bene. Il male si deve evitare, e il bene seguire. L' obbligazione non è altro che il concetto del male e del bene morale che dimostra all' anima la sua necessità. Fra i beni quello che si presenta più chiaro e più compiuto alla mente è l' ubbidienza all' essere supremo : tra i mali la disubbidienza al medesimo. La verità dunque e l' entità è il primo fonte e il primo nunzio dell' obbligazione; gli enti hanno, rispetto alla volontà, l' esigenza morale. L' esigenza ossia la necessità morale , è dunque diversa grandemente dall' esigenza che traggono seco le relazioni di perfezione degli enti reali e intellettuali; poichè la perfezione degli enti semplicemente reali e degli enti intellettuali non è la perfezione d' una volontà. La perfezione morale all' incontro è la perfezione d' una volontà, e dalla volontà è operata. Ora nella volontà consiste la persona , e la sola persona è vera causa delle azioni, a cui si possono imputare. Sebbene dunque l' ente reale possa essere più o meno perfetto, tuttavia questa perfezione non s' imputa all' ente reale, che n' è il soggetto e non la causa; ma solo si contempla dall' intelletto come una perfezione dell' ente. Lo stesso è a dirsi circa la perfezione dell' essere intellettivo. Sono perfezioni di natura, e non di persona. Quindi, rispetto alla perfezione degli esseri reali ed intellettuali, vi ha una sola esigenza; quella che dice: « acciocchè gli enti reali ed intellettuali siano perfetti, devono essere così e così. » Ma rispetto alla perfezione dell' ente morale concorrono due esigenze, l' una che nasce dall' ente in sè considerato e che dice: « l' entità, la verità dev' essere riconosciuta dalla volontà »: l' altra nasce dalla natura della stessa volontà e dice così: « se la volontà non riconosce l' entità e la verità, essa non ha la perfezione ». La prima è l' obbligazione imposta alla persona dall' esigenza degli enti da lei conosciuti (esigenza oggettiva); la seconda è l' esigenza della volontà stessa considerata come natura suscettibile di perfezione (esigenza soggettiva). La dottrina della perfezione degli enti può dividersi in tre gran parti. La prima descrive l' archetipo di ogni ente, cioè lo stato dell' ente che ha toccato la sua somma perfezione. La seconda descrive le azioni , colle quali si può produrre le perfezioni degli enti. La terza descrive i mezzi , coi quali si può acquistar l' arte delle dette azioni. L' archetipo dell' ente, ossia la perfezione ideale, è l' esemplare e la guida di tutte le arti; le azioni , colle quali si producono le perfezioni degli enti, sono comprese in tutte le arti meccaniche, liberali, intellettuali, morali; i mezzi che conducono a queste arti, costituiscono l' educazione speciale, ossia la scuola delle dette arti. Quindi apparisce l' immensa vastità della Deontologia generale . La Deontologia speciale è più vasta ancora, poichè ce n' è una per ogni specie di enti. E non solo per gli enti naturali , ma ben anco per gli artificiali . E se si parla di quelli di cui è artefice l' uomo, si fanno avanti, tra le arti più nobili, quelle che hanno per iscopo di produrre degli oggetti belli. Ciascuna delle belle arti ha la sua scienza propria; e tutte queste scienze suppongono una scienza del bello in universale, che chiamiamo Callologia, della quale è una parte speciale l' Estetica, che tratta del bello nel sensibile . Ma la Callologia e l' Estetica appartengono prima di tutto alla Deontologia generale, e massimamente a quella parte che descrive gli archetipi degli enti. Noi non ci fermeremo a classificare tutte le scienze deontologiche speciali, ma restringeremo il nostro discorso alla deontologia umana, cioè alla scienza della umana perfezione. L' uomo è un essere reale, intellettuale e morale; quindi partecipa della perfezione propria dei tre modi dell' essere. Ma poichè la perfezione morale è completiva dell' altre, ed ella sola è perfezione personale; perciò la dottrina della perfezione morale è quella che riassume in sè la dottrina dell' umana perfezione. La dottrina dell' umana perfezione presenta alla mente quelle tre stesse parti in cui abbiamo detto dividersi la Deontologia generale, cioè 1 la dottrina dell' archetipo umano , a cui ogni uomo deve procurare di avvicinarsi; 2 la dottrina di quelle azioni, colle quali l' uomo avvicina e conforma se stesso a quell' archetipo; 3 la dottrina de' mezzi ed aiuti, co' quali è stimolato e avvalorato a tali azioni. La prima di queste dottrine dicesi Teletica , la seconda Etica , la terza, cioè la dottrina dei mezzi, si parte in più scienze, perchè l' uomo può acquistare ed applicare questi mezzi a se stesso, e questa scienza dicesi Ascetica; ovvero può applicargli a' suoi simili, eccitandogli e aiutandogli all' acquisto della perfezione umana, e la scienza che insegna ad applicargli all' individuo, dicesi Educazione o Pedagogica; quella che insegna ad applicargli alla società famigliare, acciocchè questa, resa buona, influisca a render buoni gl' individui che la compongono, chiamasi Iconomia; quella che insegna ad applicargli alla società civile, acciocchè anche questa, resa buona, abbonisca i suoi membri, dicesi Politica; quella finalmente che insegna ad applicargli alla società teocratica del genere umano, dicesi Cosmopolitica . TELETICA. - La scienza che descrive l' uomo perfetto come un archetipo, non fu ancora scritta nè tentata, ed ella non potrebbe essere prima che tutte l' altre scienze intorno all' uomo giungano alla loro perfezione; e neppur allora questa scienza sarà mai compiuta. Massimamente che l' uomo al presente è decaduto e la sua natura non fu pura giammai, nè era conveniente che tale fosse lasciata, onde fu sempre mista col divino e col soprannaturale; e ciò che può divenir l' uomo più perfetto in quest' ordine doppio, voglio dire naturale e soprannaturale, è cosa che vince o sfugge il pensiero stesso dell' uomo, e però non può essere compiutamente raggiunto dall' umana filosofia. Ma invece d' avere questo archetipo descritto in parole e consegnato alla morta lettera de' libri, Iddio stesso pose innanzi all' uomo il suo archetipo vivente, e questi è GESU` Cristo, Capo e Signore dell' uman genere. ETICA. - L' uomo dee esser buono e non cattivo: la bontà dell' uomo consiste nella bontà della sua volontà; poichè egli è evidente, che colui che ha una volontà pienamente buona, è uomo buono. Ora la bontà dell' uomo, e non delle cose sue, dicesi bontà morale , e quella qualità della volontà umana, per la quale l' uomo è buono, dicesi bene morale , ovvero bene onesto; e di questo bene tratta l' Etica. L' Etica dunque è la scienza che tratta del bene onesto . Il filosofo morale fa tre cose; 1 analizza il concetto del bene onesto, distinguendone gli elementi, e poi li raccoglie tutti in una definizione scientifica; 2 cerca di conoscere in che modo, cioè con quali atti volontarŒ e liberi e con quali abiti l' uomo il possa conseguire, e per lo contrario in che modo e con quali azioni lo perda, rendendosi malvagio; 3 quanta sia l' eccellenza e la preziosità del bene onesto, senza del quale gli altri non sono veri beni per l' uomo. Quindi l' Etica si divide in tre parti. La prima tratta della natura del bene onesto , e dicesi Etica generale , perchè non discende a nessuno di quegli abiti o atti speciali, ne' quali il bene onesto si trasfonde; ma parla di quella condizione che tutti gli abiti e tutti gli atti devono avere per essere onesti. La seconda tratta de' modi del bene onesto ; e dicesi Etica speciale , perchè lo considera negli abiti ed atti speciali che lo partecipano. La terza tratta dell' eccellenza del bene onesto; e dicesi Eudemonologia dell' Etica , perchè l' eccellenza del bene onesto si scorge singolarmente nel vedere resa da lui perfetta e felice la natura intelligente e volitiva. Etica generale . - Dovendo dunque la prima parte dell' Etica trattare del bene onesto, ella ne investiga gli elementi, i quali sono tre, la volontà e libertà , la legge , e la conformità della volontà e libertà colla legge . Trattando della volontà, l' Etica s' appropria una parte dell' Antropologia o della Psicologia, trattando del potere della volontà sulle altre potenze dell' uomo, de' confini di questo potere e della libertà di cui è fornita, per la quale diventa causa responsabile delle azioni. Parlando della legge (Nomologia), la definisce da principio in un senso larghissimo, come il principio dell' obbligazione . Cerca in appresso quale sia la prima di tutte le leggi, cioè quale il primo principio dell' obbligazione espresso in una formola logicamente anteriore a tutte le altre, di modochè ella esprima l' essenza stessa dell' obbligazione, nel primo atto in cui all' uomo si manifesta, senza che questi abbia bisogno di cercarne una ragione ulteriore. E poichè il lume della ragione e della volontà umana è l' essere ; quindi apparisce, che la prima formola dell' obbligazione evidente per se medesima, si è: « Segui il lume della ragione », ovvero: « Riconosci l' essere »Conoscere è l' atto della ragione, ed appartiene sempre all' ordine teoretico ; riconoscere spesso è l' atto corrispondente della volontà, ed appartiene all' ordine pratico . Ma l' essere ha un ordine in se medesimo, onde avviene che certi esseri sieno maggiori e più eccellenti di altri ed abbiano maggior dignità, e quest' ordine è quello che deve essere riconosciuto dalla volontà, onde la formola dell' obbligazione universale, ossia il principio dell' Etica può anche esprimersi così: « riconosci l' essere qual' è nel suo ordine ». L' atto della ricognizione pratica è quello in cui nasce la stima proporzionata al grado dell' essere, e alla stima tien dietro un' eguale quantità di amore, che si diffonde anch' egli proporzionatamente su tutti gli enti, e all' amore tengon dietro, o per mezzo di decreti della volontà, o senza decreti espressi, le operazioni esteriori ordinate in conformità di quell' amore, le quali rendono decente e armoniosa tutta la vita dell' uomo virtuoso. Ma fra gli esseri, Iddio è assoluto principio e fine di tutti gli altri: egli dunque è il fine ultimo altresì della volontà e de' suoi atti nell' uomo onesto, il fine ultimo in cui tende ogni ricognizione, ogni stima, ogni amore, ogni azione umana: indi la Religione, come morale ultimata e sollevata all' ultimo suo stato di compitezza, nel quale ogni dovere diventa sacro, ogni virtù diventa santità. Come dunque tutti gli esseri procedono da Dio per la creazione e da lui dipendono per la conservazione, così a lui tutti devono riferirsi, e alla volontà divina tutte le volontà conformarsi. E la volontà divina diviene altresì il fonte della legislazione positiva, cioè di quelle leggi che sono positivamente manifestate da Dio agli uomini. L' Etica indica la differenza fra la legge naturale e la positiva , e mostra come il rispetto dovuto a questa procede da quella. Dopo i doveri verso Dio, vengono i doveri verso le create intelligenze, i doveri che ciascun uomo ha verso i suoi simili, quantunque questi sieno subordinati ai doveri verso Dio, come i creati sono subordinati al creante; tuttavia anche gli uomini sono oggetti di doveri morali, come quelli che hanno ragione di fine, ed hanno ragione di fine, perchè sono forniti d' intelligenza e nell' intelligenza c' è l' essere ideale, il quale è un elemento divino. Infatti la volontà che è la facoltà attiva dell' intelligenza, non può avere per suo fine e per suo bene, se non qualche cosa d' infinito e di divino: onde procede quella sentenza che « la morale abbraccia sempre in qualche modo l' essere nel suo tutto. » Svolgendo il secondo elemento del bene morale cioè la legge, l' Etica insegna ancora ad applicarla ai casi speciali, onde la logica speciale sua propria che tratta principalmente della coscienza morale. Quivi si danno le regole per applicare le leggi alle azioni particolari, e specialmente al caso, in cui si dubiti della legge. La regola principale da applicarsi a questo caso è la seguente: « se si dubita dell' esistenza della legge positiva e non si può sciogliere il dubbio, la legge non obbliga, se poi si dubita in una materia appartenente alla legge naturale in modo che il dubbio cada sopra un male intrinseco all' azione, deve evitarsi il pericolo di questo male. » Venendo poi al terzo elemento, cioè alla relazione fra la volontà e la legge, l' Etica espone tutti i modi, in cui questa relazione può variare, e descrive i diversi stati buoni o rei in cui entra la volontà e la libertà umana, e l' uomo stesso mediante tali variazioni. Etica speciale . - Trattando questa seconda parte dell' Etica delle forme speciali del bene e del male morale, comincia dal distinguere l' atto e l' abito , mostrando la varia moralità di cui l' uno e l' altro è suscettivo. Quindi passa ad esporre gli officŒ speciali verso la divinità e verso l' umanità. Riguardo a questi ultimi, l' uomo deve rispettare ed onorare la natura umana in se stesso e ne' suoi simili: deve rispettarla negli individui e nelle diverse società o naturali o artificiali, nelle quali gli uomini si uniscono. Tutte le relazioni sociali prestano occasione all' esistenza di officŒ morali. Tratta in appresso degli abiti , e quindi di tutte le speciali virtù e di tutti i speciali vizŒ . Ragiona ancora de' mezzi co' quali può evitarsi il male e procacciarsi il bene morale, alla qual parte come abbiam veduto, si suol dare il nome d' Ascetica. Eudemonologia dell' Etica . - Questa terza parte finalmente considera l' eccellenza del bene morale e la turpitudine del male morale: mostra che l' una e l' altra è infinita: descrive la dignità e la gioia dell' anima virtuosa, l' ignobilità e la miseria della viziosa: prova che niun uomo veramente virtuoso è infelice, niun malvagio felice: apre quindi la fiducia e l' aspettazione, che giace nel cuor umano, che la virtù abbia premio eterno, il vizio eterno castigo: lo prova co' divini attributi: e dopo aver condotto l' uomo fin qui, quasi pedagogo, il savio filosofo consegna il suo alunno nelle mani d' una maestra più sublime, la Rivelazione. DIRITTO RAZIONALE. - Dall' Etica procede l' amplissima scienza del Diritto razionale: questo nasce dalla protezione, che l' Etica, ossia la legge morale, dà al bene utile , e più generalmente a tutti i beni eudemonologici, di cui possono fruire gli uomini. Infatti uno dei doveri etici è quello che l' uomo non noccia al suo simile: i giureconsulti romani l' espressero colla formola neminem laedere . Nessun uomo dunque può pregiudicare al bene che ha il suo simile. Ora l' uomo che ha questo bene, il quale, in virtù della legge morale non può esser toccato da nissuno, dicesi che ha un diritto . Se l' uomo che ha questo diritto, non avesse la facoltà di cavarne dell' utilità a se stesso, non ci sarebbe più nè il bene, oggetto del diritto, nè il diritto stesso. Il diritto dunque subiettivamente, cioè in rispetto al subietto che lo possiede, è una facoltà eudemonologica, protetta dalla legge morale. E dall' esser questo bene eudemonologico protetto dalla legge morale, egli acquista una certa dignità morale, e colui che lo possiede acquista la potestà di difenderlo contro quelli che glielo volessero rapire, o comechessia deteriorare. La scienza del Diritto quindi si occupa 1 In classificare tutti que' beni che possono esser oggetto o materia di diritto: 2 In determinare qual sia la protezione che la legge morale loro accorda, fin dove s' estenda e a quali condizioni: 3 In decidere i casi dubbŒ, cioè quelli che nascono per la collizione apparente dei diritti: 4 In determinare altresì fin dove sia autorizzata la difesa de' diritti dalla stessa legge morale, e in quali circostanze e condizioni ella sia legittima: 5 Finalmente tratta della soddisfazione e del risarcimento de' diritti violati, e però de' danni e delle ingiurie. Tutti i beni ed i diritti che ha l' uomo in relazione co' suoi simili, ricevono due forme, che diventano la base della suprema classificazione dei diritti medesimi: la libertà , e la proprietà . La libertà è quella potestà che ciascuno ha d' usare di tutte le sue potenze, fino a tanto che non entra nella sfera de' diritti altrui, cioè che non tocca i beni che hanno già i suoi simili. La proprietà è l' unione de' beni coll' uomo: questa unione riposa sopra una legge psicologica, la quale fa sì che l' uomo possa unire a sè delle cose diverse da sè, quasi a somiglianza di quell' unione che ha il suo corpo coll' anima sua. Quest' unione permanente si fa per via di sentimento e per via d' intelligenza; per via di sentimento anche le bestie uniscono a sè delle cose esteriori: così sono uniti i figliuoli alla madre, i cibi che hanno presenti o che raccolgono, i nidi e le abitazioni ed altre cose che talora si contendono tra loro a morte, e così hanno una certa proprietà, ma non morale nè giuridica. L' uomo unisce a sè le cose per vincolo naturale e di sentimento ed anche pel vincolo che vi soprappone l' intelligenza, per mezzo della quale l' uomo fa assegnamento su molte cose esterne e le riserva agli usi futuri. Questa ancora è una certa proprietà, ma non quella proprietà che costituisce il diritto. Ma quando al vincolo del sentimento e a quello dell' intelligenza s' aggiunge il vincolo morale , allora la proprietà è convertita in diritto. Ora questo vincolo consiste, come dicevamo, nella protezione che la legge morale accorda ai due primi vincoli, imponendo agli altri uomini l' obbligazione di rispettarli: la ragion morale poi impone questa obbligazione, quando que' due primi vincoli fra l' uomo e le cose sono stati stretti mediante la libertà giuridica, cioè senza dividere le cose appropriatesi da altri uomini, a cui fossero già unite. E una tale obbligazione nasce da questo: il dividere ciò che l' uomo ha seco unito d' affetto e d' intelligenza, è un cagionarli dolore, un fargli male; ma non si può far male altrui per far bene a se stesso; dunque la ragion morale vieta di offendere l' altrui proprietà. Il subietto dei diritti può essere l' uomo individuo considerato in relazione co' suoi simili, e l' uomo sociale . Quindi la scienza del diritto ha due parti, che sono il diritto individuale e il diritto sociale . Il diritto individuale ragiona di tre cose, cioè: 1 De' diritti connaturali e de' diritti acquisiti, descrivendone la natura e le condizioni, i titoli e i modi d' acquisto: 2 Della trasmissione de' diritti e delle modificazioni che ad essi derivano: 3 Delle alterazioni de' diritti altrui e delle obbligazioni e modificazioni de' diritti scambievoli che ne conseguono. Il diritto sociale nasce dall' individuale , perchè nasce dal fatto dell' associazione, e la facoltà di associarsi onestamente fra loro è un diritto connaturale di tutti gl' individui umani, il quale non viene limitato se non dalla circostanza, che la nuova associazione entri a perturbare un' altra associazione precedente e già in attuale possesso. Il diritto sociale è universale , e particolare . Il diritto sociale universale considera i diritti e i doveri che nascono dal fatto di un' associazione qualunque, e questo è interno fra i membri della società, o esterno tra la società di cui si tratta e le altre società, o anche tra essa e gl' individui che sono fuori della medesima. Il diritto interno si divide naturalmente in tre parti, le quali trattano: 1 Del diritto signorile , in quanto si mescola col diritto governativo. 2 Del diritto politico o governativo, che è quanto dire de' diritti e delle obbligazioni di chi governa e amministra la società. 3 Del diritto comunale , che espone i diritti e le obbligazioni comuni a tutti i membri della società. Questa stessa divisione s' applica al diritto sociale particolare , essendoci in ogni società quelle tre maniere di diritti e di obbligazioni sociali. E ci possono essere innumerevoli società, ciascuna delle quali ha il suo diritto che risulta da un' applicazione de' principŒ esposti nel diritto sociale universale ; ma v' hanno tre società che sono necessarie al genere umano e l' organizzano, la perfezione delle quali dee ricondurre il genere umano alla sua primitiva unità e renderlo come una sola famiglia ordinatissima. Queste tre società sono la Teocratica , che è naturale7divina; la Domestica che è naturale umana, e si biparte nella Coniugale e nella Parentale; e la Civile che è una società artificiale, ma necessaria al bene dell' umana specie. Il diritto particolare di queste tre società dà luogo a tre trattati di altissima rilevanza. La società Teocratica è o iniziale, e avvincola gli uomini per via della morale e della religione naturale; ovvero perfetta, ed è la Chiesa Cattolica che avvincola oltracciò e stringe gli uomini con de' legami positivi d' una religione e d' una morale rivelata e soprannaturale. Anche qui c' è un diritto signorile , un diritto governativo , e un diritto comunale . Il diritto della società domestica è duplice, come dicevamo, quello che riguarda i coniugi , e tratta della natura del matrimonio e delle sue condizioni, della maniera di stringerlo e dei diritti e delle obbligazioni de' coniugi: e quello che riguarda i genitori e i figliuoli , e tratta pure de' diritti reciproci e delle obbligazioni reciproche che vi corrispondono, avuto riguardo altresì alle morali. Il diritto particolare della società civile ne espone la natura e l' origine, e quindi le tre parti della signoria , del governo e della cittadinanza , assegnando i diritti e le obbligazioni di ciascheduna, e, rispetto a questo diritto, potendo la società civile essere costituita a varie forme e provveduta di varŒ organi e funzioni, può darsi una teoria generale di diritto nazionale per tutte le società civili, avuto riguardo solo a ciò che è a queste essenziale e comune, e una teoria di diritto per ogni forma diversa che potesse prendere il corpo civile. Ma a tutto ciò sopravvanza ancora una ricerca più elevata, quando si domanda: « data che fosse una moltitudine, e questa non costituita ancora a società civile, la quale avesse incaricato un filosofo di darle una costituzione, quale sarebbe la costituzione che se le dovesse prescrivere, traendola dai soli principŒ di giustizia e fatta interamente astrazione da ogni riguardo politico ». Perocchè tale e tanta è la virtù e la fecondità dei principŒ della giustizia, che quando si deducono da essi le illazioni che ne procedono (al che si richiede certamente una mente costante), queste sole ci darebbero tutte le leggi anche politiche, colle quali si può organare internamente una nazione, colla massima probabilità di concordia e di prosperità. E sta qui la congiunzione fra le scienze giuridiche e le politiche . Finalmente il diritto esterno , o comune ad ogni società, o particolare di ciascuna di esse, non è che un' applicazione del diritto individuale, considerandosi le società come altrettanti individui. DOTTRINA DE' MEZZI. - Ascetica . - L' Ascetica non può fare una scienza separata dall' Etica, perchè argomento dell' Etica è l' obbligazione morale e la virtù non solo ne' loro concetti universali, ma anche ne' loro atti più speciali; ed è manifesto, che i mezzi e gli aiuti alla virtù sono materia d' obbligazione per l' uomo, e il procacciarsegli e l' usarli convenevolmente sono atti virtuosi, a cui certe virtù si riferiscono. Pedagogica . - Questa scienza tratta dell' arte dell' educazione umana. L' uomo è educato parte da se stesso, parte dalla società domestica, a cui riduciamo ancora l' educazione che riceve da' precettori che suppliscono all' ufficio dei genitori o cooperano con essi, parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società civile in cui nasce e cresce, e parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società teocratica. Onde questa scienza s' estende a molti trattati, e tali sono quello dell' educazione di se stesso , dell' educazione domestica , della magistrale , dell' educazione civile , e dell' educazione ecclesiastica . E a tutti questi si dee aggiungere un trattato che ha subietto magnifico, vogliam dire il trattato dell' Educazione provvidenziale , cioè di quella con cui Iddio, ordinando e disponendo gli avvenimenti, educò il genere umano e l' educa di continuo e gl' individui stessi. Ciascuno di questi trattati naturalmente si divide in tre parti, potendo l' uomo ricevere educazione rispetto alla sua parte morale, alla sua parte intellettuale e alla sua parte fisica. Ma l' educazione dell' individuo umano dee avere una perfetta unità, ed è un grand' errore il credere che l' educazione fisica, intellettuale e morale sieno tre cose separate e indipendenti. Quindi la prima regola dell' arte pedagogica, che è quella dell' unità . Uno è il bene umano a cui dee tendere l' educazione, e questo è il morale. Tale è il fine. Non conviene dunque che si dia un' educazione intellettuale o fisica disgiunta dalla morale, ma conviene che si dieno queste come mezzi di quella, per modo che niuna cognizione o dote intellettiva e niuna abilità corporale si promova in colui che s' educa, se in pari tempo non si subordina alla sua morale perfezione. E tutto ciò che fa l' educatore, tutti i mezzi che impiega nell' educare devono con una perfetta coerenza e costanza a questo fine ordinarsi. Tale è il principio della pedagogica. Iconomia - L' Iconomia tratta del governo della famiglia, ne indica la costituzione e le leggi reali e quasi direi meccaniche del suo movimento, sia verso la perfezione, sia a ritroso di questa, leggi che nascono dalla sua naturale costituzione. La famiglia ha dei costitutivi essenziali: oltre di questi ne ha di quelli che sono necessarŒ alla sua prosperità e che fluiscono dalle stesse leggi reali che accennavamo. Uno di questi è il principio seguente: « dee esservi equilibrio fra il numero delle persone che la compongono e i mezzi di sostentamento ». Di poi espone i principŒ dell' arte di governarla in modo che prosperi. E questa stessa prosperità vuol essere ordinata ad avvicinare gl' individui che la compongono, alla perfezione e felicità umana. Il governo della famiglia che si descrive, è quello che nasce dall' uso de' mezzi che presta la società domestica, e principalmente del potere proprio del governo famigliare. Il governatore, cioè il padre di famiglia, dee stendere le sue vedute fuori della famiglia stessa formando tali individui che sappiano mantenere la concordia e l' armonia colle altre società domestiche, colla civile e colla teocratica. Una delle malattie proprie di questa società è l' egoismo famigliare : la malattia opposta è l' individualismo . La famiglia, affetta dal primo di questi due morbi, si rende guerriera e s' espone al rischio delle guerre, onde può esser distrutta per violenza o divenire dominante: la famiglia affetta dal secondo si discioglie, o perisce per interna discordia. L' Iconomia addita i caratteri di tali malattie proprie della famiglia, e insegna il modo di preservarnela. Politica - E` la scienza dell' arte del governo civile. Si devono distinguere le scienze politiche particolari dalla Filosofia della politica . Ciascuna di quelle tratta d' un elemento o d' uno de' mezzi , con cui si governa la società civile; ma questa cerca l' ultime ragioni dell' arte. Le ultime ragioni sono primieramente i criterŒ politici , cioè quelle regole supreme che insegnano a valutare il vero valore di tutti i mezzi ed espedienti a cui ricorre l' uomo di stato nel governo della società civile. I criterŒ politici si dividono in quattro classi, che scaturiscono dal considerare la società civile come un corpo che si dee sospingere verso un termine dato. La teoria di questa operazione risulta: Dal considerarsi il termine , a cui si dee sospingere il detto corpo - Così la Filosofia della Politica dee prima di tutto investigare, qual sia il fine verso al quale dee muoversi incessantemente la civil società; e questo è la prosperità pubblica, che risulta come da cause, dalla giustizia e dalla concordia de' cittadini . Quindi i criterŒ tratti dal fine della società civile, i quali si riducono a questi due: a) Rivolgere il governo a mantenere e convalidare quella forza prevalente, a cui è appoggiata l' esistenza della società; e questa forza prevalente, cangia secondo i diversi periodi di vita che la società civile percorre. Quindi la teoria di questi cangiamenti. In altre parole, questo criterio s' esprime brevemente così: « aver cura della sostanza della società civile e trascurare gli accidenti ». b) Rivolgere il governo a fare che i cittadini ottengano la prosperità temporale nella moralità, ossia a fare che la prosperità temporale produca il bene proprio della natura umana, del quale solo l' uomo s' appaga. I cittadini appagati sono tranquilli e concordi. Dal considerarsi la natura dello stesso corpo. - Così la Filosofia della Politica dee investigare la natura della società civile e la sua natural costruzione e dedurne questa regola: « quella politica che avvicina la società civile alla sua costruzione naturale e regolare, è buona, quella che ne l' allontana, è cattiva ». La natural costruzione della società civile risulta da alcuni equilibrŒ che sono i seguenti: a) Equilibrio fra la popolazione e la ricchezza. b) Equilibrio fra la ricchezza e il potere civile. c) Equilibrio fra il potere civile e la forza materiale. d) Equilibrio fra il potere civile e militare, e la scienza. e) Equilibrio fra la scienza e la virtù. I criterŒ politici di questa classe si riassumono in questa formola: « tutti i mezzi politici che avvicinano la società civile ai cinque equilibrŒ sopra indicati, sono buoni, quelli che ne l' allontanano, sono cattivi ». Dal considerarsi le leggi del movimento . - Così la Filosofia della Politica deve considerare nella storia le leggi, secondo le quali si muovono le società civili; pensiero dovuto a Giovambattista Vico, che potè indicarlo, non isvolgerlo a sufficienza, per la profondità delle meditazioni che si richiede a colorirlo e incarnarlo mediante sagaci osservazioni sulle diverse trasformazioni subìte da ciascun popolo della terra. Quindi de' criterŒ politici che si riducono a questa formola: « i mezzi politici che stanno in armonia colle leggi del movimento naturale delle società civili, sono buoni; gli altri come contrari alla natura, sono cattivi. » Dal considerarsi le forze atte a spingere i corpi. - Così la Filosofia della Politica dee valutare le forze, per le quali la società civile è sospinta verso il bene. Questa valutazione esige molta sagacità e una gran potenza d' astrazione, perchè ci sono delle forze dirette e delle indirette , e queste ultime sfuggono alla attenzione, e sono quelle che producono i maggiori effetti. Da questo fonte si deducono de' criterŒ politici che tutti si riassumono in questa formola: « I mezzi politici, che con minor dispendio e con minor azione ottengono un effetto più grande di bene sociale, sono i migliori. » Scoperti così i sommi criterŒ politici, che sono le ultime ragioni di quest' arte e costituiscono la Filosofia civile , rimane a farne l' applicazione, cioè a valutare con essi il vero valore rispettivo di tutti i mezzi politici somministrati dalle particolari scienze politiche, ricerca che conduce a questo risultato: « La Religione e propriamente il Cattolicismo è il mezzo politico di maggior valore, quello che tempera ed armoneggia tutti gli altri. » Cosmopolitica . - Questa scienza è la teoria del governo della società teocratica, come quella da cui sola può venire l' unità del genere umano e la sua organizzazione compiuta. La filosofia spinge avanti tutte queste ricerche fino a tanto che la mente umana trovi il suo pieno soddisfacimento, il suo riposo. La mente trova questo riposo, quando ella è giunta a discoprire le ultime ragioni a cui ella possa giungere, e s' è persuasa ad evidenza, ch' esse sono veramente le ultime, ch' ella non può in alcun modo andare al di là. Ora poi queste ragioni ultime, rinvenute che siano, rispondono altresì ai supremi bisogni dell' animo umano. E tale è il frutto della filosofia. Se il fine della filosofia è di trovar quiete e riposo alla curiosità della mente, il suo frutto più prezioso ancora è di assicurare l' animo umano della possibilità che egli giunga al compimento di tutti i suoi desiderŒ, di togliergli intorno a ciò ogni incertezza, e di additargli quella sicura via, per la quale egli giunga alla cima a cui tende. La qual via lo conduce a Dio, a cui il consumato filosofo si dà ad ammaestrare come discepolo, ed a perfezionare come creatura. Tale è il fine della filosofia, tale il suo frutto. Ma se invece di considerare la scienza , si vuol considerare la scuola della filosofia , ella in tal caso diventa la vera pedagogia dello spirito umano , della mente cui manoduce alla scienza più compiuta, e dell' animo a' cui affetti svela innanzi il più compiuto bene. Sotto il quale aspetto d' una pedagogica dell' umanità la filosofia è concepita da Platone. Mi parrebbe essere troppo scortese, se non ringraziassi V. S. del dono, che non posso dubitare venirmi da lei, del primo dei suoi discorsi sulla necessità di restaurare nelle scuole italiane la clinica Ippocratica , e del suo « Saggio intorno al fondamento, al progresso ed al sistema dell' umana conoscenza »; ma la sola stima, che m' ha ingenerato della sua persona la lettura di queste sue produzioni scientifiche, è quella che mi muove, non dirò a scriverle il mio giudizio di quest' ultima, com' ella mi chiede nella scritta appostavi, ma piuttosto a sottometterle qualche osservazione su di ciò che tanto gentilmente ella dice del mio sistema filosofico. Prima però non posso tacerle il grato sentimento, che in me cagionò la lettura del suo discorso contro la dottrina eccitabilistica, persuasissimo, come sono, che anche in medicina, del pari che nelle altre scienze tutte, la presunzione de' moderni abbia ingiustamente dispregiata l' antica sapienza, o, a dir meglio, la sapienza tradizionale de' secoli. E riconoscendo l' acutezza delle sue vedute e il suo modo complessivo di pensare, più volte nacque in me il desiderio, che ella, come giudice competente, vedesse ed esaminasse quelle cose, che io dissi nell' « Antropologia » sull' animalità, certo che dal suo giudizio se ne potrebbe vantaggiare la scienza. Io ho sempre avuto in sospetto la teoria browniana, qualunque fosse la foggia ch' ella vestisse dopo il primo suo autore, parendomi che quella teoria supponga troppo men complicata la natura ch' essa non è, e troppo facil cosa l' arte medica. Quanto poi alla sua sentenza sulla natura della vita, penso che ella dovesse riscontrare qualche cosa di analogo al suo concetto in quella mia « Antropologia . » Nella quale tuttavia io proposi due maniere di definire la vita che mi sembrano necessarie indispensabilmente a distinguersi, per trovare l' anello di congiunzione fra la Fisiologia e la Metafisica: l' una delle quali tende a definire la vita da' fenomeni soggettivi (di sentimento), e l' altra da' fenomeni estrasoggettivi (d' osservazione esterna); nè so, che questa doppia maniera di concepire e definire la vita sia stata da altri notata o svolta a quel modo che io ho procurato di fare; e molto mi piacerebbe, se ella si compiacesse di considerarla. Ora eccomi ad esporle le osservazioni che le dicevo sulla maniera, ond' ella, nel suo « Saggio » intorno all' umana conoscenza, concepisce il mio sistema filosofico. Mi permetta che affin di procedere con chiarezza maggiore io richiami le sue parole. Dopo aver ella dichiarato di trovarsi meco d' accordo in « riconoscere nella origine dell' umano sapere la concorrenza di elementi sperimentali ed intellettuali insieme », soggiunge così: « Se non che, rispetto alla teorica da lui esposta, dobbiamo dichiarare, non esserci stato possibile di convincerci che tutto il dato, che vien posto dall' intelligenza nella formazione delle conoscenze, si riduca all' idea dell' ente in universale: siccome egli fermamente mantiene in tutti i suoi trattati. » Da queste parole potrebbe credersi, che nella formazione della conoscenza il soggetto uomo, secondo me, non mettesse del suo, se non l' idea dell' ente in universale, il quale dicesi suo solo perchè lo possiede e ne fa uso, benchè non costituisca alcuna parte del soggetto medesimo. Ma qualora si dovessero intendere a questo modo le sue parole, esse non renderebbero la mia mente, anzi se ne dipartirebbero d' assai. Perocchè, io fo risultare la conoscenza (non però ogni conoscenza) da tre, e non da due sole specie ben distinte di elementi, cioè 1 da elementi esterni, estrasoggettivi ; 2 da elementi soggettivi , che sono le leggi venienti dalla natura del soggetto conoscente; 3 da elementi oggettivi , che si riducono poi all' essere , di cui abbiamo, com' io penso, un' immanente intuizione. Vede ella dunque che alle leggi che emanano dalla natura del soggetto , io fo assai volentieri una buona parte nell' opera della formazione della conoscenza umana; e che da queste leggi soggettive io distinguo al tutto l' oggetto , cioè l' essere , il quale non emana punto dall' uomo, soggetto; nè può ricevere da lui alcuna vera passione, ma vien dato all' uomo dal di fuori, cioè da Dio, viene mostrato all' uomo, e il mostrarglielo è il medesimo che dargli il lume d' intendere tutte le cose, in una parola renderlo un essere intelligente. Per me, niuna mente può intendere mai altro che essere, non può ragionare d' altro che di essere, non può affermare altro che essere, sicchè l' essere è essenzialmente l' oggetto intuibile, e perciò il lume dell' intelligenza, tolto il quale essa non può più nè intendere, nè affermare, nè giudicar cosa alcuna, e però ella stessa non esiste oggimai più. L' intuizione dell' essere dunque non forma solo l' intelligenza umana, ma tutte le intelligenze che sono o sono possibili. All' incontro le leggi soggettive , che procedono dalla nostra natura umana e che costituiscono la seconda specie d' elementi che entrano nella formazione del sapere, sono quelle che determinano la conoscenza umana , ossia che danno alla nostra conoscenza quel carattere distintivo, che la separa da quella di tutti gli altri esseri intelligenti che sussistono o possono sussistere d' altra fatta diversa dall' uomo. Sono queste leggi soggettive, che mettono que' limiti alla conoscenza, di cui io ho parlato nel « Saggio sui confini dell' umana ragione » ecc.; e son pur esse quelle, che danno alla conoscenza dell' uomo una conformazione speciale, configurando, per così dire, e insieme concorrendo a produrre la materia del conoscere, e il contenuto stesso della conoscenza, di che ho parlato nel « Nuovo saggio , » nel « Rinnovamento » e nell' « Antropologia . » Mi sono poi occupato in queste stesse opere a dimostrare, che questa parte soggettiva che entra nella conoscenza dell' uomo, non toglie punto a questa la sua veracità; perchè rimane sempre in fondo d' ogni conoscimento un elemento assoluto che è l' essere, il quale è sincerissima luce, che aiuta l' uomo stesso a distinguere la parte oggettiva dalla soggettiva della sua propria cognizione, e dichiara quella assolutamente vera, e questa vera relativamente. Dalle quali cose, ella può in parte rilevare, com' io la senta di quanto dice in appresso, cioè che l' idea dell' essere in universale non costituisca un elemento positivo della intelligenza: « ma invece ci è sembrato, continua, che la suddetta idea (se pure idea nel nostro senso può essere appellata) si risolva nella legge fondamentale dello spirito, per la quale siamo costretti, indipendentemente da ogni principio logico, di congiungere universalmente all' ideale il reale (sussistente o possibile), come termini correlativi intra loro per modo, che il primo non può essere senza il secondo: talchè l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause e de' loro fini colle idee delle medesime ». Su queste parole, devo primieramente avvertire, ch' io non potrei dividere il reale, come par ch' ella faccia, in sussistente e possibile ; conciossiachè, alla mia maniera di concepire, il reale in se stesso non è altro che il sussistente, e l' ideale non è altro che il possibile, benchè io accordi che nella mente fra questi due modi di essere passi una relazione, per la quale il reale si può considerare nel possibile e viceversa, relazione che io chiamo inesistenza . La possibilità della cosa non è dunque altro agli occhi miei che la cosa stessa intuita dalla mente nella sua essenza , quando la mente non giudica ancora, che la cosa intuìta realmente sussista. Vero è, che quando la mente contempla l' essenza d' una cosa, nè pur vi aggiunge necessariamente un espresso giudizio sulla sua possibilità; e però accordo, che, chiamando io poi la cosa stessa possibile , aggiungo, con questa denominazione posteriore, una relazione all' essenza della cosa: ma questa però è una relazione, che non ha bisogno d' altro che dell' essenza della cosa intuita, è una di quelle relazioni che sono in se stesse negative e che acquistano una forma positiva soltanto dalle leggi soggettive del pensare. Quanto poi al chiamare l' ideale e il reale « termini correlativi intra loro per modo che il primo non può essere senza il secondo », io l' ammetto nel modo che dirò appresso: ma io aggiungo di più, che la correlazione di que' termini è tanto necessaria, che nè pure il secondo può essere senza il primo, cioè il reale non può essere senza l' ideale. Il che è vero ogni qualvolta per reale s' intenda un oggetto e non un mero soggetto; perchè l' esistenza soggettiva non richiede per immediata necessità l' oggettiva, benchè tuttavia si dimostri con un ragionamento ontologico, che finalmente la richiede. Dicevo dunque, che un reale non può esistere come oggetto, se non a condizione che ci sia una mente, la quale lo riferisca all' idea, e così gli dia l' oggettività. Se ella considera, che l' idea e il possibile sono appunto il medesimo, per usare una frase scolastica re sed non ratione , troverà innegabile questa mia proposizione; conciossiachè egli è innegabile che niente può sussistere, se non a condizione che sia possibile. Vengo a dire in che senso io ammetta, che neppure l' essere ideale possa stare senza un reale. L' essere ideale è l' essere possibile in quant' è intuito, o, se si vuol meglio, è l' essenza dell' essere non necessario. Lo stesso concetto dunque dell' essere ideale involge il termine correlativo d' una mente che lo intuisca. Ora la mente è un soggetto reale; dunque l' ideale non può stare senza il reale. Per questo modo, io ho dimostrato nel « Nuovo saggio » l' esistenza di Dio, cioè d' una Mente Eterna, in cui sia l' essere ideale o, più pienamente, l' essere oggettivo , parimente eterno. Ella vede oggimai in qual senso io faccia strettamente correlativi l' essere ideale e l' essere reale , e d' una relazione al tutto scambievole: di più, avrà osservato che nelle mie opere, io ammetto una terza forma primordiale dell' essere, che chiamo essere morale , e che fo correlativa anch' essa alle due prime. Ciascuno di questi tre termini è correlativo reciprocamente agli altri due, di maniera che, se tutti e tre s' ammettono, ciascuno esiste dagli altri distinto; se uno solo si toglie, nè pur gli altri due sono più, cessano tutti a un tratto. In una parola, l' essere non può essere che uno e trino. In qual maniera poi lungamente diversa questa unità e trinità dell' essere s' applichi al Creatore ed alle creature, ella è cosa che io tratto nell' Ontologia e nella Teologia naturale. Che se poi ella mi chieda, se indi forse non ne venga una legge fondamentale dello spirito, per la quale esso spirito sia necessitato di congiungere que' termini correlativi, rispondo di sì; ma questa legge è imposta allo spirito dal sintesismo di que' termini; e non è già, che il sintesismo di que' termini venga da una legge dello spirito, che ad essi preceda: lo spirito riceve le leggi dalla natura dell' ente che intuisce, e non viceversa la natura dell' ente intuìto è determinata dalle leggi dello spirito. A questa sola condizione, secondo quello che a me pare, ci possiamo salvare dallo scetticismo, e perciò appunto tentai di dimostrare rigorosamente quella proposizione in più scritti, fra' quali nel Dialogo intitolato: «il Moschini , » che mi prendo la libertà d' inviarle insieme con due altri opuscoli. Finalmente ella definisce l' essere così: « l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause, e de' loro fini colle idee delle medesime. »Ma tutt' all' incontro, io dico, le cose sono essere, le sostanze sono essere, le cause sono essere, i fini delle cose, qualora si parli de' fini interni cioè della perfezion delle cose, sono parimente essere: dunque l' essere non può dirsi la relazione delle cose ec. colle idee; chè ne uscirebbe questo, che l' essere fosse la relazione dell' essere coll' essere, definizione mostruosa, e tuttavia, in tutt' altro senso, vera. V' ha di più: che cosa sono le idee? Ecco la gran questione: sta qui a mio avviso, il problema della filosofia. L' idea per me è lo stesso essere contemplato dalla mente nella sua idealità: ella è dunque di nuovo, l' essere: per me l' essere in quanto luce alla mente umana, prende il nome d' idea , e in quanto opera nel sentimento, prende il nome di realità , o se si vuole di cosa in senso stretto. La definizione dunque dell' essere, che ella dà con benevolo intendimento d' interpetrare in senso plausibile la mia mente, non potrebbe da me accettarsi secondo la mia maniera di concepire e di parlare, giacchè tradotte quelle sue parole nel mio linguaggio verrebbero a suonare che l' essere è la relazione dell' essere coll' essere. E tuttavia io non ricuso di ricever per buono il detto da lei citato degli scolastici, che il vero e l' ente sono tra lor convertibili, purchè un tal detto convenientemente si spieghi. Per me la verità è lo stesso essere ideale in quanto egli rende conoscibili le cose reali, e però in quant' è lume, tipo od esemplare all' artefice che ha virtù di produrle, ed è regola o norma al critico che vuol giudicare, se sono bene prodotte. Il vero adunque si converte coll' ente , perchè il vero non è altro che l' ente stesso ideale assunto agli indicati ufficŒ. Nè si vuol da questo menomamente inferire, che l' essere intuito dalla mente sia un' astrazione: perocchè l' atto dell' astrazione non si può fare che sopra enti già concepiti: e però la concezione degli enti è manifestamente anteriore all' astrazione che si fa su di essi, e la concezione degli enti suppone che l' uomo sappia già che cosa sia essere . Io stabilisco dunque che l' intuizione dell' essere privo di determinazioni generali e speciali preceda alla concezione degli enti, e questa all' astrazione; benchè da principio quell' intuizione sia in noi senza che n' abbiamo coscienza. Conciossiachè io stimo, che di nessuna cosa che passa in noi, abbiamo coscienza, se non per un atto di riflessione che noi facciamo sopra di quella; il qual atto nol facciamo sempre, e però assai cose ci rimangono nell' animo senza che n' abbiamo coscienza alcuna, e in tale stato ci restano o per sempre, o per molto tempo. Laonde, acciocchè io mi renda consapevole d' intuire l' essere, devo certamente riflettere sopra questa intuizione. E perchè i concetti delle cose a me venuti coll' uso delle sensazioni non contengono puramente l' essere, ma il contengono vestito di certe determinazioni, riflettendo sopra di quelli, io non posso trovare l' essere puro, se non astraggo dalle determinazioni che il limitano; e così avviene, che l' astrazione mi sia necessaria, non acciocchè io mi abbia l' intuizione dell' essere puro che precede a tutto, ma acciocchè io mi renda consapevole d' averla. Di che posi per motto del « Nuovo saggio » quelle parole di S. Agostino: « commonebo, si potero, ut videre te videas . » So per altro benissimo qual sia la difficoltà maggiore, che incontra questa teoria. Ella si è il non potersi da molti concepire, che l' oggetto ideale non sia una produzione della mente, ma qualche cos' altro. Che la cosa ideale sia altro dalla cosa reale, questo s' intende; ma che essendo diversa dalla cosa reale, non sia poi una produzione della mente, questo pare a molti inesplicabile. E pure io sostengo, che la cosa ideale non è certamente la cosa reale , e non è neppure una produzione della mente. - Che cosa è dunque? - E` una cosa eterna, dico io, che illumina la mente, è un modo primitivo dell' essere che in Dio stesso ha la sua sede; questo modo primitivo dell' essere intuibile dalle menti è lume essenziale , è ciò che forma l' essenza del conoscere: tutto ciò mi dà il fatto della cosa bene osservato, ed io non mi posso dipartire dal fatto. L' essere in quanto è ideale, esiste in un modo così diverso dall' essere in quant' è reale, che fra l' un modo e l' altro non v' ha nulla di comune , ma tutto è differenza; il che io esprimo dicendo, che sono categoricamente differenti, e tuttavia l' essere è il medesimo. La difficoltà d' entrare in queste sentenze, nasce dall' estrema malagevolezza che si prova in ammettere, che oltre il reale, v' abbia un altro modo di essere; si vorrebbe ridur tutto al reale e a modificazioni o produzioni del reale; e ciò che non si riduce a questo, credesi doversi chiamar nulla; pregiudizio veniente dal trovarsi la mente umana tanto impacciata colle realità corporee. Per altro, voglia ella considerare, mio chiarissimo signor Dottore, quello che le dicevo, che l' essere ideale, solo ammesso in questo modo, spiega l' essenza del conoscere . E` appunto il conoscere, che si suppone sempre per dato, e si crede che questo gran fatto del conoscere non abbia bisogno di spiegazione. All' incontro devo ripetere che il gran problema della filosofia sta tutto in questa domanda: « Che cosa è il conoscere? »La quale si riduce a quest' altra: « Che cosa è l' idea? »; che è appunto ciò che fa conoscere. E avverta bene, che non trattasi di spiegar questo o quell' altro atto di conoscere, ma semplicemente il conoscere. All' incontro i filosofi nostri si occupano a spiegare gli atti particolari del conoscere, senza che essi s' addieno del bisogno di spiegare il conoscere stesso che essi suppongono come cosa naturalissima ed evidente. Suppongono, così facendo, quello che è in questione, quello che contiene tutta la difficoltà della filosofia, e dopo di ciò hanno un bel fare; perocchè si spacciano certo più o meno agevolmente dall' altre difficoltà che non appartengono alla questione principale. Questo schizzar di mano a' filosofi la vera questione apparisce ugualmente, osservando, ch' essi non muovono discorso che non suppongano fino a principio per belli e dati gli oggetti della conoscenza. A chi mai viene in mente di trattenersi a spiegare, come si dieno oggetti di conoscere? E dati oggetti di conoscere, è data certamente la conoscenza, perocchè sono essi che la fanno; ma resta a vedersi, come una cosa può essere oggetto di conoscere. Ci toglie l' intelligenza di questo problema la stessa natura del linguaggio, che suppone sempre il conoscere, essendo esso stesso una conseguenza e una produzione del conoscere, e però quando si formò il linguaggio, gli oggetti di conoscere già esistevano. Il linguaggio dunque parla di oggetti di conoscere già formati, e però col suo aiuto non si può trovar via da spiegare come si formino; e per giungere a questo, è uopo ricorrere alla tacitissima meditazione della mente. Mi spiegherò con un esempio. Di sopra dicevo: il problema della filosofia consistere in ispiegare, come una cosa possa essere oggetto di conoscere. Ora ecco, che l' imperfezion del linguaggio non m' aiutò tampoco ad esprimere ciò che volevo con precisione, perocchè dicendo cosa , ho già detto oggetto; e se una cosa è un oggetto, non v' ha certo più difficoltà a spiegare come un oggetto possa essere un oggetto . Ma io volevo parlare di una cosa in quel modo di essere, ch' ella si ha, prima che sia fatta oggetto di conoscere, ossia prescindendo al tutto dalla sua oggettività. E per esprimere la cosa secondo tal sua maniera d' esistere non oggettiva, niuna lingua fornisce parola alcuna, perocchè tutte le parole sono state imposte alle cose in quanto queste erano già divenute oggetti di conoscere, nè potea farsi altramente. Laonde solo colla mente che medita e trova, dovere aver le cose un modo diverso dall' oggettivo, si può giungere a vedere quanto sia necessario e difficile lo spiegare, come ciò che non è in se stesso oggetto della mente, divenga poi tale. Ben mi persuado, che ella colla perspicacia della sua mente, pensandovi seriamente, conoscerà quanto tutto questo sia vero; e quindi s' accorgerà come la questione primaria non viene affrontata, ma supposta e trapassata anche nelle parole che ella dice al II (del) suo « Saggio . » « Per questa legge primordiale che governa l' attività della intelligenza, lo spirito umano è costretto di ricercare in qualunque oggetto sperimentale, ed in un modo non accidentale, ma preordinato ed immutabile, la sua causa ed il suo fine ». Cominciando così la teoria della conoscenza col dire, che lo spirito umano è costretto di ricercare queste cose, ella suppone che le possa ricercare e conoscere: quando tutto il nodo della questione sta veramente in definire come ciò sia possibile, a quali condizioni lo spirito possa conoscere, e più brevemente, che cosa sia il conoscere. Perocchè se mi si dà già a principio il conoscere, in tal caso certo non mi resterà più altro carico, che quel solo di definire le leggi, che lo spirito segue ne' suoi varŒ conoscimenti, che è un problema secondario, e non mai il primario. - Ancora, quando ella ammette fin da principio oggetti sperimentali , il gran problema è trapassato via; perocchè questo, come dicevo, riducesi tutto a mostrare come il reale diventi oggetto . Poichè il reale non è oggetto per se stesso, ma è solo soggetto o appartenenza del soggetto ; ma a noi sembra oggetto per sè, perchè sogliamo parlare sempre del reale conosciuto , e pensiamo quello che parliamo. E qui le dirò di più, che senza ascendere alla prima questione, che investiga che cosa sia il lume della mente, e che trova e ravvisa un modo d' esister dell' essere, diverso dal reale, un modo essenzialmente oggettivo e che oggettivizza il reale quando a lui mentalmente si congiunge, non si può, a parer mio, difendersi dallo scetticismo. Non è sufficiente il dire, che la legge preordinata e immutabile colla quale la mente in ogni cosa cerca sostanza, causa e fine, non inganna l' uomo, ma il conduce alla verità e a concepir le cose così come sono, essendo ella posta da Dio. Lo scettico risponde: provatemelo; e con questa sola parola atterra l' argomento; perocchè se per provarlo si ricorre al fatto, questo ci dice bene, che la mente opera così, ma non ci può mica dire, se ella, così operando, non sia avvolta forse in un' illusione trascendentale. Nè pure si può ricorrere alla veracità e bontà di Dio; perocchè lo scettico replica tosto: provatemi prima che si possa conoscere che Dio esiste. Egli è dunque necessario di mostrare agli scettici prima di tutto in che consista l' essenza del conoscere , e dimostrare che questa essenza non può essere impugnata, perocchè coll' atto dell' impugnarsi la si pone. E questa è sola proprietà dell' essere possibile ; perocchè se quest' essere si nega, dunque è possibile, conciossiachè non si nega mai l' impossibile, e se si negasse, resterebbe il possibile, in virtù della doppia negazione. Su questo punto fermo a me è paruto di dover piantare la certezza dello scibile umano. Ogni legge soggettiva, se emana dal soggetto, non può avere le proprietà del vero; e se è preordinata da Dio, non può essere il primo vero, giacchè prima di essa si dee provare questa sua preordinazione, la quale non può esser provata per essa, senza cadere in un circolo: si dee dunque ricorrere ad un altro principio più evidente. Finalmente, le osserverò ancora, che la legge da lei ingegnosamente annunziata, onde lo spirito cerca in tutto sostanza, causa e fine, suppone la cognizione dell' essere . Perocchè quando io dico: « dato l' accidente, vi dee essere la sostanza, »traducendo queste parole in altre vengo a dire: « tale è la natura dell' essere che se fosse semplicemente accidente, non sarebbe essere, e perciò: non v' è essere se non a condizione che vi sia sostanza ». Quando dico: « ciò che comincia ha avuto una causa »; io non fo che affermare di nuovo, essere impossibile un ente cominciante senza causa. Affermo che ciò ripugna alla natura dell' essere; nè potrei dir ciò se non conoscessi la natura dell' essere. Quando poi dico: « ogni ente dee avere un fine »; di nuovo la mia asserzione suppone, che io sappia che cosa deva aver l' ente, ossia suppone, che la natura dell' ente mi sia nota a segno, che io possa dire che cosa egli deva avere. La necessità dunque di causa, di sostanza e di fine emana dalla natura dell' ente a me preconosciuta; nè l' uomo potrebbe sentire quella necessità, se egli non conoscesse questa natura, se non conoscesse quello che io chiamo l' ordine intrinseco dell' essere , il quale ci si rileva nell' essere stesso e coll' essere stesso, quando questo si applica alla realità. Se dunque lo spirito è costretto di cercare in ogni cosa sostanza, causa e fine, io conchiudo: dunque conosce l' essere immediatamente, e, conoscendolo, ne sa le esigenze; dunque anteriormente alla legge che costringe lo spirito a cercar quelle cose nell' essere, è l' intuizione dell' essere stesso; dunque la legge dell' intelligenza sagacemente da lei sviluppata è natural conseguenza di quella notizia dell' essere , senza la quale lo spirito umano niente può vedere, niente pronunciare. Le quali mie osservazioni ella vorrà, spero, chiarissimo sig. Dottore, ricevere cortesemente e come un monumento dell' alta stima che le professo e colla quale sono ec.. Una filosofia la quale non tenda al miglioramento dell' uomo, è vana. Ed oseremo anche dire di più, essa è falsa; poichè la verità migliora sempre l' uomo. Vero è, che l' uomo abusa delle stesse verità: egli fa servire la verità all' errore ed alla propria perversione. Ma ciò nasce da questo, che la verità di cui fa sì deplorabile abuso, non è intera; poichè la verità, quando è intera, esclude necessariamente ogni errore; e però si può odiarla, ma non abusare di essa, non farla servire alla distruzione di alcuna altra verità; conciossiachè essa le comprende tutte e le comprende fornite di una cotal luce di evidenza. Egli è dunque necessario che la filosofia presenti una verità intera; cioè un complesso di verità ben ordinate; dappoichè anche l' ordine è una verità. E non si vuol già dire con questo che un tale adunamento di verità comprenda tutti i veri, tratti fuori, l' un dopo l' altro, per singulo; il che ognun vede essere impossibile: ma bensì che i veri singolari sieno virtualmente compresi nella università de' principŒ che tutti li portano in sè; e di sè all' uopo ingenerano le innumerabili conseguenze, ove sieno alla diversità delle cose applicati. Ma s' abbia pure il filosofo messo nell' animo il nobile proponimento di volere abbracciarsi a tutta intera la verità e di essa far subbietto alla sua filosofia; e d' acconciarla in ogni modo migliore che egli possa, al conoscimento ed al miglioramento dell' uomo. Egli deve ancora conoscere le sue forze, affinchè non gli accada di presumere: egli deve sapere che la filosofia non basta a conseguire che l' uomo veramente si ammigliori. La filosofia non può essere che una parte degli aiuti che si prestano all' uomo, perchè egli si ammigliori e perfezioni. Quand' anche la filosofia sia resa una esposizione della verità nella sua universalità e interezza, ancora, come dicevamo, la verità può essere odiata dall' uomo; e l' uomo può trovare in quest' odio, l' estremo del suo corrompimento. Perocchè la verità appartiene alla intelligenza, ma la virtù appartiene alla volontà; ed è a quest' ultima potenza che spetta il vero miglioramento e perfezionamento umano. Ora della volontà è proprio l' operare e dell' intelletto il conoscere. Egli convien dunque che l' educazione nel tempo stesso che illustra l' intelletto, dandogli il pascolo di una sana filosofia, allevi e pieghi altresì al bene la volontà coll' esercizio delle buone azioni, le quali si cangiano in buone abitudini che pigliano nome di virtù. Di qui è che gli antichi, non sofferendo che queste due cose stessero scompagnate, le congiungevano insieme, applicando all' una e all' altra il solo nome di filosofia che poi definivano « lo studio e l' amore della sapienza ». Ma l' uso ha poscia ristretto il significato della parola filosofia alla sola prima di queste due cose, cioè a significare il complesso delle verità generali e supreme che debbono illustrare e annobilire l' umano intendimento. E non basta sola questa riflessione a conoscere ed a definire l' ufficio della filosofia, e la parte che essa può avere nel miglioramento dell' uomo. Conviene di più considerare la scienza filosofica nel sistema cattolico. E diciamo nel sistema cattolico, poichè supponiamo di parlare a' cattolici. Che se dovessimo parlare ad altri, noi dovremmo condurre il discorso assai più dalla lunga; perocchè ci sarebbe necessario a far intendere il nostro concetto, di provar prima la verità della Cattolica Religione, e solo di poi scendere a vedere che parte si abbia la filosofia nel tutto dell' umano perfezionamento. Conciossiachè nel solo vero Cristianesimo l' uomo viene considerato nel suo intero, e non parzialmente. E dove l' uomo non si consideri nella sua integrità; cioè fornito di tutte le sue reali condizioni e relazioni, non è possibile il determinare la ragione di una sua parte al tutto; perocchè egli è sempre uopo conoscere il tutto, onde conoscere la ragione comparativa della parte. Il perchè, in ragione di metodo, noi così avvisiamo, che non si possa assegnare il suo posto e il suo ufficio alla filosofia, se non si considera l' uomo del Cattolicismo; cioè di quel sistema religioso che determina pienamente i rapporti di esso uomo con Dio, che è l' essere assoluto, da cui l' uomo con tutte insieme le cose ha l' esistere; e da una continua provvidenza del quale viene, senza alcuna posa o rallentamento, condotto e governato. Poniamo dunque vero il Cattolicismo: il che tanto più si conviene a noi, che viviamo in una nazione eminentemente cattolica, e che della fede e della pietà ha fatto il suo più nobile vanto. Or, secondo i principŒ di questo sistema, cerchiamo di definire qual parte aver debba la filosofia nel miglioramento e perfezionamento dell' uomo. Fu innanzi detto che la buona filosofia presenta all' intendimento la Verità nel suo modo intera: ma ciò vuolsi intendere con certa limitazione: perocchè anche la Rivelazione parla all' uomo di verità; e la Grazia stessa, secondo la cattolica dottrina, è lume che vien dato alla mente. Il perfezionamento dell' uomo adunque, anche considerato solo dalla parte dell' intelletto, non viene compiuto, secondo i principŒ del Cristianesimo, se non dalla Religione. La filosofia si limita ad illustrare l' intelletto umano nell' ordine naturale; ma la parola del Cristo è quella che trasporta l' uomo in un ordine soprannaturale, in una regione al tutto divina; e che per tal modo consuma la sua perfezione. Egli è dunque a vedere che cosa sia l' ordine naturale e che cosa sia l' ordine soprannaturale ; e quale relazione si abbia l' uno all' altro; e quindi medesimo, di che fatta miglioramento possa aver l' uomo dal sapere, nell' ordine della natura, e di che fatta perfezionamento possa aver dalla Fede, nell' ordine della Grazia. Ora ecco brevemente questo rapporto: noi lo esponiamo come un risultamento datoci dalla propria indole della filosofia e della Religione. Il principio della filosofia, siccome abbiam detto, è la VERITA`, e il principio della Grazia è pure la VERITA`. Ma la filosofia, parlando della verità, non ce ne parla come di un essere reale e sussistente; ce ne parla solo come di un essere mentale, di un' idea, o, vogliasi ancora, di un' astrazione. Vero è che i filosofi che si levarono più alto nella contemplazione, rimasero sommamente maravigliati e stupiti in considerando la forza delle idee, le quali pure al comune degli uomini, occupati delle sensazioni e delle entità materiali, non sembrano che tenuissime forme e non degne di speciale meditazione: e nella forza delle idee videro contenersi le ragioni e i principŒ eterni di tutte le cose, le basi invariabili, per così dire, dell' universo variabile; sicchè giunsero a dire che le idee sole erano cose realissime, e, trapassando ogni confine, le divinizzarono. Ma lasciando da parte questa sciaurata idolatria delle idee, che fu lo scoglio a cui ruppero tutti i più grandi ingegni che navigarono senza la guida del Cristo, non esclusi quelli de' nostri tempi (1), e fermandosi là dove dissero che le idee sono le cose realissime (2), noi osserviamo che essi però non poterono mai negare la diversità fra le idee e le sostanze sussistenti; e non poterono dare a quelle l' efficacia propria di queste; come, a ragion d' esempio, non poteron mai sostenere che l' idea di un cibo tolga la fame siccome fa un cibo reale e sostanziale. Laonde, checchè dicessero e speculassero nobilmente i filosofi sulla natura delle idee, esse rimasero però idee; e non poterono essere sollevate, con tutti i loro sforzi, a stato di cosa reale. Di che avviene che non potendosi concepire la verità de' filosofi se non come un' idea indeterminata, egli è manifesto che il principio della filosofia non è, e non può esser più di un essere ideale . Ma anche la Religione del Cristo parlò alla terra, come dicevamo, di Verità: ed ella anzi si annunzia come quella che sola comprende la pienezza della verità (3): la Verità è finalmente il fonte, il principio immediato, da cui dice scaturire la sua dottrina. Ma la Religione Cristiana ci parla della verità ben in altro modo da quello in che ci parla di lei la filosofia: essa non ci presenta la Verità come un essere meramente ideale; essa ci dice anzi che la Verità, da cui ella nasce come da suo prossimo principio, è una cosa reale, una sostanza, una persona; la quale persona di più si è congiunta in un modo ineffabile, e per non dividersi quindi giammai, colla natura umana. Questa maniera di parlare è certamente misteriosa e arcana alla ragione nostra, che non è avvezza di considerare la Verità, se non come una astrazione, o certo come una idea, e che non trova modo alcuno da vedere come ciò che è un essere ideale possa anche sussistere in se medesimo, essere una sostanziale e reale persona. Ma questo che è superiore al concepimento naturale dell' uomo, è appunto il mistero della Fede ; ed il solido fondamento, in cui l' edificio tutto intero della Cristiana Religione posa e si eleva. Or ecco dunque ciò che hanno di comune e ciò che hanno di diverso i principŒ della filosofia e della Religione di GESU` Cristo: hanno di comune che l' uno e l' altro principio è la Verità; ma hanno di diverso questo, che la Verità, in quanto è lume naturale dell' uomo e serve di principio alla filosofia, non si presenta a noi che sotto una forma puramente ideale; là dove la Verità, in quanto è lume soprannaturale e principio della Religione Cristiana, si presenta sotto una forma anche reale e compiuta. E volendosi da noi cercare quale sia quella prima ed essenziale Verità che si fa principio alle filosofiche cognizioni, che è quanto dire, a tutto il sapere naturale, egli è evidente che questa non può essere nessun vero particolare; poichè nessun vero particolare è il primo vero, ed ha la ragione sua in un altro vero a lui anteriore e più di lui universale. Di che viene che la prima verità esser debba universalissima; che è quanto dire la verità stessa, e questa indeterminata, ossia l' essere ideale il più universale e indeterminato. L' essere stesso adunque intuìto naturalmente dall' anima, è il principio della filosofia, come con più altri ragionamenti si potrebbe chiaramente dimostrare (1). Ed ora l' essere è anche il nome che esprime l' essenza di Dio nelle divine Scritture: « « Io sono l' ENTE, » dice Dio nell' Esodo: «Ego eimi o on» », secondo la traduzione dei Settanta. Si veda coerenza! il principio della filosofia è il lume della ragione; il principio della Fede è Dio stesso; quello è la Verità, ma solo ideale; questo è la Verità, ma sussistente. La Verità della filosofia è l' Essere , e la Scrittura dice che Iddio è appunto l' Essere . L' essere della filosofia è ideale e indeterminato; l' essere della Fede è anche reale e d' ogni lato completo. Considerando la natura dell' essere ideale , si trova che egli è bensì l' essere , ma veduto imperfettamente; veduto senza i suoi termini, e solo nel suo principio. All' incontro Iddio è l' Essere assoluto e d' ogni lato compiuto. Questo ci scorge a vedere la relazione della filosofia colla Dottrina rivelata, deducendola dalla relazione che hanno infra loro il principio dell' una e il principio dell' altra. Tale relazione consiste in ciò che il lume naturale è un cotal cominciamento di quel lume che si ha completo solo nella Rivelazione. Giacchè quell' essere stesso che, come dicemmo, perfetto è il grande Oggetto della Fede, veduto inizialmente e imperfettamente come il vediamo per natura, è ciò che costituisce il lume della ragione. Egli è perciò che le divine Scritture, parlando del Verbo di Dio, Verità sussistente, Essere completo, dicono che è desso: « « Quegli che illumina ogni uomo veniente in questo mondo » » Il che è quanto dire che il lume naturale è una imperfetta partecipazione dello stesso Verbo divino. Questa dottrina si trova da un capo all' altro de' Sacri Libri; e non sarebbe difficile raccogliere una quantità di testimonianze, cavate dagli scrittori ecclesiastici di tutti i secoli, i quali si tramandarono da uno in altro come un vero tradizionale, che « la verità naturalmente veduta dagli uomini, è una parte, un riflesso, un raggio della Verità, che è Dio medesimo »(1). Una filosofia dunque sana e vera la quale possa adempiere l' ufficio di migliorare gli uomini: primo, non potrà mai venire in collisione colla Religione del divino Maestro; secondo, dovrà riguardare la Fede, come quella che compisce ciò che a lei manca, e riverirla, come sua maggiore; terzo, dovrà preparare la via alla Fede, abbozzando, per così dire, nell' uomo quel disegno di perfezione che alla sola Fede e alla sola Grazia è possibile di condurre a finimento. Ora rimane a vedere come possa la filosofia procedere, volendo por mano a tale opra che a lei è commessa. Noi abbiamo detto che la Verità è sempre di sua natura perfezionatrice dell' uomo; ma che solo la Verità intera chiude al tutto le porte all' errore. Una filosofia adunque salutare deve allargarsi, deve esser mossa da un amore, da una tendenza ad abbracciare la Verità tutta quanta ella è ampia. Egli è solo con questo vastissimo ed onestissimo desiderio che la filosofia si rende giusta verso la Verità: perocchè il rendersi esclusiva e il rifiutare l' una o l' altra parte di verità, è già una ingiustizia che si commette contro l' essenza della Verità: e il cominciare da un' ingiustizia non è migliorarsi. Tutta la Verità è tutto l' Essere, in quanto è concepito dalla mente. Ora l' Essere ha tre forme primordiali: perocchè ci si presenta sotto la forma d' idea ; sotto quella di realtà : e finalmente sotto forma di congiunzione fra la realtà e l' idea . A queste tre forme, noi diamo i nomi di Essere ideale, Essere reale ed Essere morale . Ora, l' Essere contemplato in ciascuna di queste sue forme si fa subbietto alle prime tre scienze filosofiche, le quali si possono nominare Ideologia, Dinamilogia (1) e Agatologia . Queste tre scienze debbono formare un' ampia e solida base di tutto l' edificio filosofico. Ma sia che si consideri l' essere prescindendo dalle sue forme, sia che lo si consideri in ciascuna di esse, egli si presenta alla considerazione della mente sotto due rispetti distintissimi. Poichè la mente, o lo riguarda in universale e ne rinviene una teoria, a cui dà il nome di ONTOLOGIA, ovvero cerca l' archetipo dell' essere stesso, ed allora rinviene un' altra teoria, che è quella dell' essere assoluto, a cui dà il nome di TEOLOGIA (1). Tutte due queste grandi teorie trattano dell' essere, tanto nella sua unità, quanto nella sua trinità, cioè in ciascuna delle sue tre forme; ma l' Ontologia considera l' essere a quel modo che può, cercandone la natura unicamente nell' idea o concetto del medesimo; laddove la Teologia, investiga l' essere, quasi direi, concretato e attuato fino all' ultima sua perfezione, onde tratta di Dio. Queste due teorie abbracciano in se stesse le tre scienze nominate, nelle quali come in altrettante loro parti si dividono; laonde c' è una Ideologia, una Dinamilogia ed una Agatologia Ontologica , ed un' altra Ideologia, un' altra Dinamilogia e un' altra Agatologia Teologica . Convien considerare qui l' ordine di queste tre scienze. E` manifesto che non si può ragionare di quella forma che dà all' Essere l' atto suo perfettissimo, di che tratta l' Agatologia , senza che si conosca prima l' Essere in quanto è reale e in quanto è ideale; conciossiachè la perfezione dell' atto dell' Essere nasce dall' individua e perfetta congiunzione di queste due forme della idealità e della realtà: che perciò di queste si deve aver parlato prima che della loro relazione o unione. Ma egli non è difficile ancora a conoscere che dell' Essere reale , del quale tratta la Dinamilogia , non si può tenere alcun ragionamento, se non dopo aver messa fuori la dottrina intorno all' Essere ideale , che è contenuta nella Ideologia; perocchè nessun Essere ideale da noi si conosce se non coll' aiuto delle idee . E perciò il discorso delle idee è indubitatamente quello, da che dee muovere tutta la filosofia, ed, anzi meglio, tutto il sapere umano. E anche, vi ha egli sapere senza idee? e se ogni sapere dipende dalle idee, qual valore avrà egli, ove restasse il dubbio che le idee c' ingannassero? Conviene dunque sapere prima di tutto: « se le idee che sono il mezzo del saper nostro c' ingannano o ci dicono il vero ». E per sapere se le idee non c' ingannino, ma s' abbiano quella autorità che gli uomini sogliono attribuire loro, a cui dover credere sempre, conviene disaminarne la natura; e la natura delle idee non si mette ad esame e non si conosce se non investigandone l' origine, del che principalmente tratta l' Ideologia . La quale scienza nelle sue ricerche giunge ultimamente a conoscere che non avvi, propriamente parlando, nella mente umana, se non un' idea sola, colla quale e nella quale si vedono tutte le cose; e questa è l' idea dell' Essere in universale ; ed è il proprio lume della mente, e in essa si trova l' evidenza e la necessità della cognizione; sicchè ella costituisce finalmente un tal criterio di certezza , che rende impossibile ogni dubitazione. Con che è posta la pietra fondamentale della Logica che distrugge ogni maniera di scetticismo, e insegna l' arte di ragionare, o sia, di applicar l' idea ad ogni maniera di cose; perocchè il ragionare non è che una continua applicazione dell' idea dell' Essere in universale; e così la Logica nasce figlia primogenita alla Ideologia; e occupar deve il secondo posto nell' albero delle scienze. Conciossiachè è tale l' incatenamento del sapere umano, che una scienza ci rimanda a cercare il suo perchè nella scienza ad essa anteriore. Or la ragione di una cognizione non è che un' altra cognizione, un' idea più generale; di che la prima ragione di tutte le cognizioni non è che l' idea più universale di tutte. Per la qual cosa l' Ideologia e la Logica che trattano dell' idea dell' Essere universale, la prima considerandola come il Fonte delle idee, e la seconda, come il Criterio della certezza, sono di loro natura le prime scienze. E per la medesima cagione definendosi da noi la Filosofia per la scienza delle prime ragioni , egli è manifesto che quelle scienze che trattano della primissima ragione, debbono essere quelle, onde la filosofia stessa incominci. Egli è vero che in ogni disciplina c' è quella idea che ne forma la prima ragione, e che per conseguente c' è la filosofia di ogni genere di sapere. Così c' è una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della giurisprudenza, una filosofia della politica, e via dicendo. Ma le ragioni prime di queste scienze non sono prime che relativamente ai particolari complessi di cognizioni che costituiscono esse scienze; laddove l' idea dell' Essere in universale che si fa subbietto alla Ideologia ed alla Logica , è la ragione prima relativamente a tutto lo scibile. Il perchè questa parte si potrebbe anche acconciamente chiamare la filosofia della filosofia. Ad essa poi continuar si deve la Dinamilogia e l' Agatologia , perchè la dottrina dell' Essere si spieghi sotto tutte le sue forme primigenie. Egli è evidente che se non si premette la teoria dell' Essere universale, non si può parlare con sicurezza di nessun essere particolare; e che perciò non si può neppur conoscere l' uomo; poichè anch' egli non è più di un essere particolare. E in vero, chi sottilmente considera, vedrà che i principali e più perniciosi errori presi da' filosofi intorno all' umana natura, ebbero origine dal non aver essi considerata prima nell' uomo la natura dell' Essere universale. Perocchè di qui avvenne che non conobbero il rapporto che ha l' uomo con tutto l' Essere; di che il collocarono in posto non suo; come segnatamente accade a coloro che fecero dell' uomo il centro dell' universo. Con che introdussero nella filosofia teoretica il Panteismo e l' Ateismo, e nella pratica il Filantropismo e l' Epicureismo (1). Or la scienza della natura umana si può chiamare acconciamente Antropologia , la quale deve considerare l' uomo non meno nella sua parte animale, che relativamente al suo spirito, e finalmente nel soggetto in cui convengono l' animalità e l' intelligenza. E questa dottrina dell' uomo egli è manifesto che deve essere la prima nell' ordine delle scienze particolari; chè, come dicevamo a principio, tutto ciò che noi cerchiamo colla filosofia non è finalmente che il miglioramento di noi stessi . Sicchè non c' è altra cagione per la quale noi differiamo a parlar dell' uomo fin dopo aver compiuto il discorso dell' Essere in universale, se non questa, che ci era impossibile il parlarne prima convenevolmente; poichè a chi vuole investigare la natura d' un essere particolare, conviene che sia prima venuto in possesso de' principŒ che scaturiscono dalla dottrina dell' Essere in universale per siffatto modo, che si possono considerare quelle scienze nelle quali viene ordinata una tale dottrina, quasi come una cotal grande Prefazione al trattato dell' uomo. Ora dunque venuti noi a parlare dell' uomo, e della sua perfezione, scopo della scienza, la prima cosa conviene sicuramente conoscerne la natura , come detto è, ciò che fa l' Antropologia: ma tosto appresso conviene cavare dalla teoria della sua natura la scienza delle sue tendenze , la quale noi chiamiamo Eudemonologia , che viene a dire « discorso della felicità »; poichè tutte le tendenze umane vanno finalmente a parare nel desiderio d' essere felice; sicchè la teoria della felicità comprende naturalmente quella delle tendenze dell' uomo. Incontro alle quali tendenze, quasi freno, o, a dir meglio, regolamento, stanno i doveri morali scritti nel cuore dell' uomo, e raccolti dall' Etica ; dalla quale noi pensiamo util cosa, che si derivasse e cavasse poi a parte un trattato de' diritti naturali che sia fondamento alla civile legislazione (1). Ma non basta aver veduta la natura umana, le sue tendenze , i doveri , i diritti , e aver considerato tutte queste cose ne' brevi ed angusti fatti dell' individuo; è necessario di più vederli, quasi riportati sopra una scala maggiore, ne' fatti del genere umano: il che dà luogo ad una Storia filosofica della Umanità; nella quale apparisca principalmente quali sieno le leggi immutabili venienti dalle proprietà della natura umana, alle quali è soggetto tutto lo sviluppo e il perfezionamento successivo della umanità (2). La qual cognizione ci lastrica ultimamente la via a poter entrare sicuramente nel trattato de' mezzi pe' quali l' umanità si viene sviluppando e perfezionando, i quali mezzi, ridotti ai sommi ed universali, sono tre (diciamo de' principali, che non si possono del tutto omettere in un corso scolastico), cioè a dire la società domestica , la società civile , e l' educazione , che, sebbene sia anche l' ufficio dell' una e dell' altra società, tuttavia si può anche considerare come un magistero che sta da sè; poichè non è nuovo, che uomini amatori de' loro simili abbiano allevati i fanciulli altrui con amore di padri, e senza averne ricevuto commessione o eccitamento o mercede da nessuna umana potestà. I quali tre sommi mezzi si rendono per tal guisa argomento di tre nobilissimi trattati filosofici che si volgono intorno all' ottimo ordinamento della società domestica, e all' ottimo ordinamento della società civile, e finalmente all' ottima educazione; trattati si possono acconciamente denominare, come furono denominati dagli antichi, Iconomia , o con altro simile nome migliore (1), Politica , e Pedagogica . Or così assolvesi il corso delle principali scienze filosofiche, v“lte all' umano miglioramento le quali dovrebbero entrare nell' istituzione filosofica, da darsi alla nostra gioventù nell' Accademia. Le quali, riassumendole qui brevemente, si compongono di due serie, cioè; La serie di quelle scienze filosofiche che trattano dell' ESSERE stesso; e La serie di quelle scienze che trattano in particolare dell' UOMO. La prima serie ne contiene quattro: primo, l' Ideologia; secondo, la Logica; terzo, l' Ontologia; quarto la Teologia naturale. La seconda ne contiene otto: primo, l' Antropologia; secondo, l' Eudemonologia; terzo, l' Etica; quarto, il Diritto razionale; quinto, la Storia dell' umanità; sesto, l' Iconomia; settimo, la Politica; ottavo, la Pedagogica. La quale distribuzione può essere facilmente variata, nè certo comprende tutto il ciclo delle scienze filosofiche (2); ma solo ci parve sufficiente e ad un tempo necessaria, acciocchè la facoltà filosofica acquisti nelle nostre Università quella dignità e quell' ampiezza, che le è dovuta, e da cui siamo cotanto lontani, dignità ed ampiezza, mancando la quale lo spirito della gioventù studiosa non si può elevare, ne' tempi nostri, ad un alto sentire e ad un generoso pensare, nè trovarsi a sufficienza armata contro il sofisma, nè bene intendere quale ha il cammino pel quale la scienza conduce alla virtù. Fra le molte obbligazioni, che mi legano a Monsignor Ostini, non è picciola questa d' avere eccitato Lei a scrivermi, e così dato a me l' occasione d' entrare in corrispondenza colla sua rispettabile e dotta persona. Se non che in questo stesso non mi manca cagione di muovere qualche lagno coll' egregio Ostini. La gentilezza di Monsignore me le debbe aver dipinto troppo altra cosa da quel ch' io sono, e fors' anco per un qualche gran baccalare in filosofia: il vedo dalla sua lettera troppo cortese e vantaggiata pe' pari miei. E però La prego prima di tutto di smettere sì falsa opinione, venutale dall' altrui amicizia, e dalla sua propria bontà, non solo per ben mio, acciocchè io non m' abbia poi a vergognare d' essere conosciuto molto diverso alle prove; ma ancora per ben suo, acciocchè Ella non s' abbia a trovare ingannato in sul meglio; ciò che a ciascuno dispiace. Ed ora sono con Lei. Le questioni filosofiche che mi propone nella sua lettera, come Ella medesima ben vede, potrebbero essere soggetto non che di una lettera famigliare, ma di un libro, anzi di molti. Ella sa quanto le varie parti della filosofia sieno connesse tra loro, come ciascuna riceva lume da tutte l' altre; ed appena che io mi creda potersi rendere al tutto chiara qualche verità, quand' ella non si mostra a suo luogo, non s' espone insieme con tutto il sistema delle verità, a cui quella appartiene: ciascuna di queste verità, è piccolo membro a un gran tutto; nè s' intende a fondo, se non si concepisce non solo la sua natura, dirò così, ma ben anche le sue relazioni, que' veri che la precedono e quelli che la susseguono, e de' quali essa o è la ragione, o la conseguenza. E tuttavia non posso negarmele a esporle con brevità alcune cose che io penserei sulle questioni proposte, pregandola, non già a ricevere queste mie considerazioni, come quelle che a me soddisfacciano compiutamente, e molto meno come quelle che esauriscano le importantissime risposte da Lei desiderate, ma solamente come quelle, che mi concede una lettera famigliare e la brevità del tempo. La sua prima dimanda riguarda la classificazione dei sistemi filosofici. Mi sembra, a questo proposito, che i sistemi filosofici si possano classificare in due maniere: 1 o col nome de' loro inventori, 2 o colla diversità de' principŒ che pongono. Ella mostra nella sua lettera di seguire il primo metodo. Ma sebbene io al tutto non lo rigetti, tuttavia mi pare ch' esso non potrà mai essere recato a quella esattezza, e fornito di quella distinzione precisa che nelle dottrine filosofiche è desiderabile e necessaria. E` bensì semplice, e, come il primo che viene alla mente, fu comunemente adoperato. Ma questa divisione mi pare che riposi, se le debbo dire il vero, in quel soverchio d' autorità, che in altri tempi fu conceduto ad alcuni maestri, i quali per le loro dottrine essendosi partiti dal comune degli uomini, furono dagli uomini, veggendoli sì alti, venerati quasi altrettante deità. E di questo soverchio d' autorità dubito non forse ancora si ritenga l' effetto nel tempo nostro, senza che noi pure ce ne avvediamo, e bene spesso anche maritando questo difetto col suo opposto, cioè con quello di una franchezza soverchia in portare giudizio d' uomini grandissimi certamente, e delle dottrine loro, giacchè nello spirito umano simili contraddizioni non sono rare. E veramente questo modo di partire e contrassegnare le filosofie co' nomi degli inventori, suppone che i diversi maestri ed inventori di esse sieno sempre coerenti con se medesimi per tal maniera, che l' uno s' abbia un corpo di dottrine al tutto compaginato e perfetto, e diviso da tutti gli altri corpi o sistemi di dottrine. E comunemente quelli che hanno voce di fondatori di cotesti sistemi, procedono così alti nelle loro promesse, almeno in tutta quella parte nella quale confutano le dottrine altrui, che mostrano di non volere aver nulla di comune cogli altri, e presumono di avere cavata tutta intera da sè soli, quasi facendola esister dal nulla, la filosofia. Promesse di presunzione umana! Se noi gli esaminiamo imparzialmente, massimamente là dove, dopo aver distrutti gli altrui sistemi, cominciano a edificare i proprŒ, vediamo che, per quanto procurino di dividersi dagli altri con una nuova disposizione di cose, vengono però sempre (negandolo essi) presso a poco negli stessi sentimenti: e talora ponendo alcun principio diverso, non consentanee al principio deducono le conseguenze, ed entrano, senza pure avvedersene, nel sistema altrui. Per quanto io abbia riflettuto, non mi è occorso giammai di vedere un sistema al tutto compaginato e stretto con se medesimo e perfetto: almeno mi riesce impossibile il credermi in caso di affermare, che questo sistema ci sia: per dir ciò dovrei credere, che ci sia qualche libro, il quale contenga tutti i principŒ necessarŒ per isciogliere qualunque problema di filosofia. Come dunque i nomi di due filosofi sono totalmente diversi l' uno dall' altro; così venendo a classificare i sistemi secondo questi nomi, sembra che si supponga, i sistemi stessi essere interamente l' uno dall' altro diversi, ciò che non si avvera o difficilmente si può verificare, essendo tanto vasta la filosofia. Di vero la filosofia, e anche, se vogliamo, la sola metafisica è un aggregato di più scienze (1); e quando anche due filosofi in alcuna di queste scienze realmente e non di sole parole discordassero, potrebbero concordare in qualche altra: laonde co' nomi degli autori potrò bensì distinguere materialmente i libri delle filosofie, ma non mai formalmente le stesse filosofie. Poichè quando si vogliono dividere le specie, non deve entrare nell' una quello che nell' altra; altrimenti non sono ben divise. Però sono venuto più volte in questo pensiero, che non si possa aver giammai una classificazione perfetta ed una storia della filosofia, fino a che non è stata fermata la perfezione stessa della filosofia. Allora raffrontando alla perfetta filosofia le altre non perfette o false, si potrà determinare in quali parti discordino: e di ciascuna discordanza si potrà formare la base d' un sistema falso, e quasi il germe di tutto il sistema (1). Ma perchè queste cose sieno chiarite di alcuno esempio, prendiamo non già tutta la filosofia, poichè non è stata ancora ridotta ad un semplice principio, e non viene significata con questa parola una scienza sola; ma prendiamo una parte della filosofia, che da un solo principio, o da una sola questione dipenda. E sia quella di cui più si occupa oggidì il mondo, e che Ella mi tocca nella sua lettera, dell' origine delle idee. Questa si riduce ad un solo principio, o per dir meglio ad una sola dimanda: In che modo lo spirito nostro venga in possesso delle idee . Le farò una classificazione di alcune delle principali opinioni tenute sulla questione. Queste opinioni diverse o questi principŒ diversi, riducendosi ad un solo oggetto, diventano naturalmente germi di varŒ sistemi, i quali, sieno o non sieno abbracciati dagli autori, sono però fra di loro totalmente diversi, perchè sono figli di un principio solo, totalmente diverso. E primieramente osservo che alcuni filosofi si sono il più occupati ad esaminare la potenza di produrre o d' avere le cognizioni delle cose e le idee: altri hanno fermata maggiormente la loro attenzione sui mezzi o aiuti esterni di cui quella potenza ha bisogno per operare. I sistemi dunque sull' origine delle idee si possono dividere da questi due capi di divergenti opinioni; A. dalla differenza delle opinioni de' filosofi intorno la potenza di conoscere; B. e dalla differenza delle opinioni intorno gli aiuti esterni dalla potenza di conoscere. - Cominciando dal primo capo. Alcuni pensarono che bastasse dare all' anima una potenza o facoltà, e per oggetto di questa potenza le sensazioni ricevute per gli organi corporei. Così prima delle sensazioni, non posero nello spirito umano nessuna traccia di cognizione. Di questi, Ella vede, è il Locke, il Condillac ecc.. Altri dissero che la facoltà di pensare non bastava concepirla nell' uomo prima del suo sviluppo, come una mera potenza, ma bisognava darle qualche traccia di cognizione non ricevuta da' sensi, lasciando poi d' esaminare se questa cognizione innata formasse parte essenziale e s' immedesimasse colla stessa facoltà di pensare, e si dovesse distinguere fra la facoltà di pensare e questa innata cognizione. Ad ogni modo costoro, non si appagavano di considerare la facoltà di pensare come una potenza in genere e quasi diremo di natura incognita, come i Lockiani; ma volevano protrarre più innanzi la loro investigazione (1), e non sembrava loro di essere ancor giunti a spiegare l' origine delle idee coll' ammettere semplicemente una facoltà di conoscere nell' anima umana; a loro pareva necessario a tal uopo di entrare ancora a determinarne la natura e le leggi, ricercando quale ella doveva essere questa facoltà per poter servire all' ufficio, che le si attribuiva, di pensare alle cose e quindi averne le idee. Ora a taluno parve che in nessuna maniera si poteva spiegare come sì fatta potenza fosse atta al suo fine, se non se la immaginava d' una natura particolare, e tale ch' ella portasse in qualche maniera seco gli oggetti suoi fino dall' istante ch' ella cominciava ad esistere. Ed in questo risultato convenivano moltissimi ingegni di gran valore, i quali avevano profondamente pensato al modo onde questa potenza di conoscere potesse fare le operazioni che fa, e l' avevano seguita col pensiero in tutti i suoi passi. Ma sebbene tutti questi convenissero che non si sapeva intendere in nessun modo come la facoltà di pensare potesse fare le operazioni ch' ella fa, se gli oggetti suoi ella non portasse in qualche maniera già seco fino dal suo esistere; tuttavia questi si dividevano di parere quando si trattava di definire quale fosse questa maniera , ond' essa avea seco uniti i suoi oggetti immobilmente ed originariamente. Quindi altri dicevano necessario ch' ella avesse a dirittura unite, o per sè o per una cotal giunta, le idee medesime delle cose: sia poi che ciò pensassero veramente, o piuttosto che così dicessero parlando impropriamente per non trovare la via d' esprimere con più esattezza ciò che concepivano nell' animo. E qui ella ravvisa Cartesio e molti Cartesiani. Ma ad alcun altro, parendo da una parte necessarie queste idee innate a spiegare i fatti del pensiero, dall' altra non sapendo come ammetterle al modo di Cartesio, perchè la coscienza non ne somministra argomento, sembrò più ragionevole di ridurre queste idee innate a piccolissimi sentimenti non avvertiti dall' anima, che riceve però impulso da essi ad operare secondo quelle forme quasi solo delineate in essa con lievissimi vestigi, e credettero costoro, che intravedesse questo vero Platone in quella sua reminiscenza, e che solamente a lui mancasse di aggiungere alla reminiscenza il presentimento . Spiegavano l' esistenza di queste idee non avvertite nell' anima nostra colla similitudine d' una statua, la quale esiste in un pezzo di marmo ancora rozzo, tracciata in esso dalle vene naturali del medesimo (1): e facevano poi che il pensiero tutto si creasse per una forza dell' anima determinata col presentimento o coll' instinto alle idee. E parmi questo il sistema di Leibnizio. Kant può avere avuto da questi instinti, onde Leibnizio faceva l' anima mossa alle idee (1) (quasi queste idee stesse fossero potenze separate che si riducessero all' atto per una forza loro intrinseca), il primo concetto delle sue forme innate, le quali non sono altro che determinazioni dello spirito venute a lui dalla sua propria natura, per le quali egli è costretto a veder le cose in un determinato modo subbiettivo, vestendo tutti gli oggetti sì del senso esterno che del senso interno, come dell' intelletto e della ragione (secondo la divisione ch' egli fa delle facoltà dell' anima), di queste forme, o per dir meglio considerando tutte le cognizioni come fenomeni dello spirito. A questo viene Kant; e finalmente Ella comprende come abbia chiamato filosofia trascendentale la sua dottrina, giacchè parla della forma di cui tutte le nostre possibili cognizioni necessariamente sono vestite, della quale perciò non le possiamo giammai svestire; sicchè il parlare di esse piglia un oggetto che transcende lo stesso conoscere; e vede ancora perchè la sua principale opera egli la denomini: « Critica della ragione pura; » assumendo a fare la critica alla stessa ragione, e a sciorre la questione, prima di tutto, se questa stessa critica sia possibile. Questi quattro sistemi differiscono, come dicevamo, dal diverso modo onde considerano la facoltà di conoscere: il primo restrigendosi a considerarla come una mera potenza di conoscere, senza esiger più oltre; gli altri tre giudicando necessario di considerare altresì questa potenza nella sua peculiar natura: e fra questi il primo pretendendo che in essa sia necessario di supporre ancora delle idee al tutto formate; il secondo insegnando che bastino certe potenze che si attuano quasi per via di certi instinti primitivi; il terzo finalmente trovando necessario concepire la ragione fornita di modi o forme venienti dalla sua stessa natura; e dicendo questi tre d' accordo, che non può spiegarsi come l' uomo si procuri le cognizioni col solo immaginare una potenza conoscitiva, se anche non se ne disamina la natura. B - L' altra classe d' ideologi si divide non tanto per la diversità nella quale considerano la stessa facoltà di pensare, quanto per la diversità, nella quale considerano la necessità d' oggetti primitivi, su cui operando la facoltà di conoscere, ecciti o formi o crei a se medesima le cognizioni. E di questi alcuno vuole che non bastino le sensazioni ricevute per gli organi corporei; ma gli oggetti da cui viene affetta la facoltà di conoscere, e da' quali colla sua attività crea a se medesima la scienza, sieno, oltre le sensazioni, tutti i sentimenti interni: ed Ella riconoscerà in questo, per nominare alcun recente, il Laromiguiere. Altri esigono, oltre gli esterni sensibili influenti sull' animo, un continuo lume della divinità che a lei risplenda: e qui vede l' italiano cappuccino Giovenale della Valle di Non, il Tomassino e il Malebranche ec.. E Platone aveva certo veduto il sistema di Malebranche, e travalicatolo, aggiungendo i molti lumi delle sue idee eterne sussistenti quasi esseri al di fuori della divinità, emendato in questo da S. Agostino, che fece la via a tre nominati filosofi. Alcuni poi (massimamente tra' moderni) non contenti di questi varŒ pensamenti, giunsero a credere che alla facoltà di conoscere, oltre le sensazioni, ci voleva un altro aiuto anch' esso esteriore fra il sensibile , dirò così, e l' intelligibile , cioè una favella , e dissero che l' uomo non poteva accorgersi del suo pensare giammai, senz' avere l' espression del pensare. Di cui nacque al visconte di Bonald il suo sistema. E si avvicinano a lui alcune sentenze di Platone e di Socrate; e molti altri lo avevano già prima intravveduto. Tra' quali il vide, prima del Bonald, un Italiano che ne fece pur troppo abuso [...OMISSIS...] Tutti e due conoscono l' assoluto bisogno del parlare per dar origine al pensiero: se non che il secondo non vede da questo di necessità assoluta, che il parlare sia venuto all' uomo dalla tradizione; mentre il Bonald crede con ciò stesso definito, che come la facoltà di parlare è in noi nativa, così l' arte di parlare sia in noi acquistata: quantunque poi dica: [...OMISSIS...] Questi altri quattro sistemi dunque differiscono dalla varietà degli oggetti ed aiuti, da cui credono che debba essere assistita la facoltà nostra di pensare, perchè ella giunga all' atto del pensare. Ora essendo questa questione dell' origine delle idee unica e semplice, si possono benissimo, com' Ella vede, classificare con tutta esattezza i diversi sistemi sulla medesima anche per mezzo de' nomi degli autori, senza dare loro una soverchia autorità, e presupporli infallibili nel tirare le conseguenze dai diversi principii. E` dunque necessario, prima di classificare i sistemi della filosofia, o di qualunque altra scienza, di ridur quelli ad un principio solo, o se questo non si può, di ridurli a quel minor numero di principii che è possibile, e poi per ogni principio fare una diversa classificazione. In tal caso poichè da un semplice principio nasce un sistema di conseguenze direi quasi infinite, quando io ho classificati i principii, vengo ad avere ancora classificato accuratamente i sistemi che o sono stati giustamente tirati da tali principii, ovvero si possono tirare da quelli. Non m' allungo con altri esempi per non essere infinito: ma dirò solo, che chi volesse classificare i sistemi secondo i sommi criterii della certezza, allora avrebbe un' altra questione pure semplice onde potrebbe cavare una esatta classificazione. Che se poi dimostrasse, che tanto la questione dell' origine delle idee, come la questione del sommo criterio della certezza dipendono da un solo principio antecedente, allora avrebbe trovato il modo di distinguere con una classificazione i sistemi che vengono dalle due proposte questioni, non formando esse in questo caso se non due parti di un altro sistema maggiore. E facilmente Ella da questo intende, come, se tutta la filosofia potesse ridursi ad un solo principio, allora si potrebbe ben classificare tutta la filosofia con una sola classificazione, bastando distinguere accuratamente le diverse opinioni sul principio da cui dipende. Ma è tempo che io passi a dire una parola sulla seconda richiesta che Ella mi fa, colla quale aspetta la mia opinione sopra i vari sistemi della filosofia. Ella vede, che la risposta che io le posso fare, dipende strettamente dalla prima che le ho fatto. Sarebbe forse possibile rispondere bene o male sopra qualche punto della filosofia particolare; ma sopra i vari sistemi di tutta la filosofia, non mi pare che si possa dir nulla di fermo e senza equivoco, mentre trovo, come dissi, tanta difficoltà solo in convenire in che differiscano questi sistemi. D' altra parte, per mio credere, non si può giudicare con sicurezza e senza presunzione degli altrui sistemi, se non per mezzo di un altro sistema già formato, pel quale sia venuta in animo grandissima persuasione di aver conseguito la verità che è sola giudice dell' errore: e quand' anche alcuno fosse venuto a questo, sarebbe cosa assai ardua esporlo chiaramente nelle angustie di una lettera. Mi conceda dunque che in luogo di risposta io attenda piuttosto l' indicazione di qualche questione particolare, sopra la quale Ella desiderasse sentire quello che mai mi riuscisse dirle: e per questa le faccio una sola osservazione generale. Io credo giovevole e modesta cosa considerare i sistemi de' filosofi coll' occhio più favorevole. Mi è paruto di vedere che quasi sempre essi sieno caduti in errore per imperfezione d' idee, non per isbaglio nel ragionamento: e però che tante volte bastasse aggiungere in luogo di mutare, e ricondurre alla naturale interezza i germi che essi hanno posti in luogo di distruggerli e gettarli di nuovo. Molte volte ancora due filosofi trattano di un argomento diverso e credono di trattare lo stesso argomento, e vengono alle mani come inimici; mentre che l' uno batte una strada e l' altro ne batte un' altra, senza incontrarsi: l' uno chiarisce un punto dell' umano sapere, l' altro ne chiarisce un altro a quello contiguo bensì, ma che non è quello: e perchè sono nello stesso territorio, ma sopra un' altra parte di esso, si avvisano di combattere insieme per lo stesso punto di terra. Li conduce a questo, confessiamolo ingenuamente, mio caro signore ed amico, quella presunzione e quella baldanza che tanto insensatamente entra nell' animo dell' uomo che aspira al conquisto della scienza, senza aver ricevuto e portato il soave giogo della verità. Però mi riesce dolorosa cosa e importevole il vedere come tutti quasi i filosofi si assaliscano e mordano scambievolmente, vogliano che tutto sia nuovo ne' loro libri; e basta che rinvengano nuove vesti ad un antico pensiero, per dichiararsi creatori di un nuovo sistema, e scopritori di una verità non isplenduta giammai agli occhi degli uomini che gli hanno in terra preceduti. E queste male disposizioni sì proprie de' mortali non è a dire quanto impediscano i progressi del vero sapere, e colla discordia delle sette, quante verità venute all' aperto non rimettano forse per secoli novellamente sotterra colla derisione e collo spregio del sistema nel quale erano contenute. Cosa lontanissima dal dolce e concorde spirito che mette in noi sola la Religione della verità! E così non facevano il grande Agostino ed il gran Tommaso, nè alcuno de' sommi splendori della Chiesa, che appunto per questo sono dalla piccolezza infinita degli uomini tenuti meno in pregio di filosofi e men seguìti perchè non hanno spacciato se stessi a fondatori di sistemi, paghi di contemplare l' intero e illimitato corpo bellissimo della verità. Ed Ella vede che con questo stesso io ho cominciato a rispondere alla sua terza interrogazione: Come arrivare alla scoperta del vero. La bella forma dell' animo, mi pare senza alcun dubbio, la migliore di tutte le disposizioni: di poi l' elevatezza della mente: la perpetua coerenza e profonda cognizione della Religione cristiana, che quanto più si studia, più fa crescer l' ali all' ingegno e spiegarle ai metafisici voli: nel medesimo tempo la libertà dai ceppi tutti che mette al progresso dell' ingegno la piccolezza degli uomini: avvezzarsi a contemplare le idee stesse prive dell' involucro delle parole, degli schemi, de' metodi: sapere avvisare la verità sotto qualunque forma e colore; amarla sotto tutti: abborrire la setta e il sistema in quanto limita queste forme della verità, e studiare assai nelle parole. Nelle parole (questo vero discende dalle osservazioni di Bonald, e prima sonava alto nel Vico) nelle parole sono contenute le scienze delle nazioni: però guardarsi dall' alterarne il senso fisso loro dai popoli, dirò di più dalla Provvidenza, da Dio: la proprietà delle parole strettamente conservata è l' unico mezzo alla chiarezza delle idee, a fissarle, a concordarle. Di questa proprietà fu sottilissimo investigatore, e fermissimo mantenitore S. Tommaso. Il volere alterare il valore delle parole fu l' arte di molti antichi e moderni sofisti, e di molti filosofi profani: appena s' inganna il mondo se non con questa alterazione: di quasi tutte le parole filosofiche e politiche si abusò, e a mostramento di ciò furon fatti molti scritti. Chi osservasse gli errori venuti dall' abuso della parola NATURA nella scienza del diritto e della morale, delle parole SENSAZIONE, PIACERE, DOLORE nella metafisica, delle parole UGUAGLIANZA e LIBERTA` nella politica, della parola RICCHEZZA nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso più esteso del senso dato loro dal comune uso, avrebbe raccolto le origini d' incredibili inganni alla mente, e d' incredibili guai alla Umanità. Ella poi non sarà pago a queste generali avvertenze, già troppo a Lei note, per lo conseguimento del vero: vorrà di più, che io le additi qualche grave scrittore da mettersi innanzi quasi scorta ai passi nel malagevole ed inviluppato cammino. E lo farei ben volentieri, ma voglio riservarmi questa cosa dopo che Ella mi avrà appagato sopra i concetti di S. Tommaso intorno all' origine delle idee: perocchè non essendo giusto che un solo sia quello che spende, m' aspetto in cambio di questo povero scritto, questa moneta da Lei. Avrò allora di ciò occasione più opportuna. Hegel è il bisnipote di Kant, patriarca della moderna filosofia tedesca. Il filosofo di Koenisberga dalla meditazione di un principio noto avanti di lui, che lo spirito umano pensa in modo conforme alle sue proprie leggi, ne trasse quella filosofia che egli denomina critica , perchè assume di portar giudizio della stessa ragione umana; e il giudizio riuscì a dichiarare questa ragione impotente a conoscere, se gli oggetti del pensiero sieno tali in sè stessi, quali col pensiero appariscono. Egli sostenne che, se la mente umana li concepisce secondo le proprie leggi soggettive, ella dunque non può pronunciare che sieno quali le appariscono, ma nè pur negarlo. All' incontro Fichte, suo discepolo dallo stesso principio che la mente opera secondo le proprie leggi dedusse, che tutto ciò che conosceva la mente doveva essere produzione della mente stessa; e quindi assolutamente negò, che gli oggetti concepiti fossero in sè stessi quali appariscono. Il qual sistema veniva da lui rappresentato come la genuina interpretazione della dottrina del suo maestro. Ma il suo maestro Kant disdisse l' interpretazione; poichè infatti altra cosa è che le conclusioni della mente, dipendendo dalle leggi della mente stessa, non abbiano valor di conchiudere su quell' essere che gli oggetti possono avere in se stessi, ed altro è l' affermare a dirittura, che in se stessi non abbiano essere alcuno, ma sieno mere produzioni e modificazioni soggettive. Così il sistema di Fichte fu diverso da quello di Kant, come figlio che traligna dal padre. Ma venne Schelling, e allevato alla scuola di Fichte argomentò che se l' oggetto era produzion del soggetto, dovea col soggetto stesso identificarsi; giacchè niuna cosa genera altra natura da sè diversa; e poi facil cosa è conoscere, che nè il soggetto può stare senza l' oggetto, nè l' oggetto senza il soggetto, onde d' entrambi fece una cosa sola: di più, a lui parve impossibile immaginare un soggetto, che non fosse a un tempo stesso oggetto, e immaginare un oggetto che non fosse a un tempo stesso soggetto, onde diede al suo sistema il titolo di Teoria della identità assoluta . Così questo filosofo tedesco, che a Kant quasi è nipote, si trovò pervenuto a quella tesi, colla quale aveva esordito la filosofia eleatica in Italia per mezzo di Parmenide. Ma qui non ristette il movimento filosofico impresso da Kant nella Germania; poichè, ridotte le cose tutte, che posson essere oggetto della mente, all' unità ed alla identità, fu facile ad Hegel dedurre che quest' unica ed identica cosa, a cui tutte le cose riduconsi, altro non poteva essere che l' idea. E l' argomento di Hegel, considerato in suo fondo e ristretto in poco, riducesi a questo: L' uomo non può pensare nè parlare di cosa alcuna che non sia oggetto del pensiero. Ma l' oggetto del pensiero è l' idea: dunque tutte le cose si riducono all' idea. Ma posciacchè le cose sono varie ed opposte ed anche contrarie fra loro; quindi l' idea è quella stessa che prende diverse forme anche opposte e contrarie, e che va trasformandosi con leggi a lei intrinseche, in tutte le cose. Ella diventa soggetto ed oggetto, realità ed idealità, ente e nulla, relativo ed assoluto, tempo ed eternità; e in questo diventare appunto, che è il mezzo fra il nulla e l' essere, consiste la propria sua essenza. Ella ha quindi due movimenti, per l' uno dei quali s' accosta continuamente al nulla, per l' altro de' quali s' accosta continuamente all' infinito ed all' assoluto. Lo sviluppo della virtù intrinseca di quest' idea è ciò che forma l' argomento di tutta la dottrina hegeliana. In questo quarto discendente di Kant ora dorme il suo sonno la germanica filosofia. Approfittando della licenza, ch' Ella mi dà di sottoporle alcune osservazioni sulla storia della Filosofia da Lei trattata ne' Supplementi al Manuale del Tennemann, non mi sta nell' animo nè di rilevare le bellezze del suo lavoro, nè i difetti. Solamente è mio intendimento di toccare qua e colà alcune pochissime cose, quasi a modo di questione o di domanda, le quali quando ben si chiarissero, crederei poter giovare a condurre una storia della Filosofia, se non anco essere alla perfezione di essa indispensabili. E a ciò fare muovemi il desiderio di veder uscire dalla sua penna una storia degli sforzi, che fecero gl' Italiani al nobilissimo fine di fondare una costante, vera e salutare filosofia, di che già Ella mostrò al pubblico un tentativo col quarto de' suoi Supplementi. E questo mio patrio desiderio non toglie, che io non sappia esser la filosofia universale come la verità che contempla: e però dover essere universale, e non circoscritta da monti e da mari, da costumi e da idiomi, anche la storia completa delle filosofiche investigazioni. Ma questa è tal' opera, alla quale fin quì le forze di molti dottissimi si mostrarono inferiori; e credo che allora solo e non prima potrà avvicinare il suo perfezionamento, quando sarà resa perfetta la stessa filosofia. D' altra parte la Storia della Filosofia Italiana, che io desidererei vedere scritta con somma imparzialità e diligenza, vien da me concepita per nulla più, che per una cotale esortazione a' nostri concittadini di coltivare la sana filosofia col lume de' patri esempi. Al qual fine certo dovrebbesi vedere in questa istoria e i pericoli de' viaggi filosofici tentati dall' ingegno umano, e gli ardiri e i naufragi e le felici scoperte. Conciossiachè se alla storia manca questo, e se, senza alcuno discernimento, essa accozza gli uomini grandi ed originali col minuto volgo de' filosofi, se non divide la buon' audacia delle investigazioni dalla temerità, se non insegna chi furono quelli che pervennero al vero, e quelli che perirono sul cammino prima di giungervi, quali altresì ordinarono il regno della filosofia, e quali lo scomposero, quali finalmente con nuove e più savie leggi il riordinarono; non solo riesce essa fredda e inutile, ma perniciosa. Di che Ella vede come la storia della filosofia patria, che da Lei o da' suoi pari desidero, non è lavoro meramente erudito, ma sapiente e morale. E ad aiutare questo lavoro sian volte le poche osservazioni, che io intendo proporle, le quali a un tempo tendono a rettificare alcuni concetti filosofici, senza i quali parrebbe senz' occhi una storia della filosofia. E le dirò che prima posi l' occhio sulla maniera, secondo la quale Ella classifica i sistemi filosofici (1). Qui veramente mi nasce dubbio, se volendosi che tutto il compartimento della storia sia guidato e ordinato secondo una classificazione de' sistemi, non sarebbe stato più spediente di esporre quella classificazione e dichiararla a principio, anzichè nella fine della storia. Perocchè intervenendo di continuo il bisogno nella storica narrazione di richiamarsi a quella classificazione, egli par richiesto dal metodo che il lettore n' abbia ricevuta già da prima la notizia. Ma lasciando io ciò, mi cade di proporle un' altra questione. « Se egli si stia bene ad uno storico della filosofia, volendo distribuire in varie classi i filosofi, il dar loro un nome ch' essi non diedero a sè medesimi. » Io accordo pienamente, che v' abbia luogo a far ciò, ma ad una condizione; ed è, che quando pongo un nome ad un filosofo non datosi da sè stesso, io provi altresì con argomenti irrefragabili, e co' luoghi delle sue opere, che gli appartiene quel nome. Conciossiachè se il nome sistematico che s' impone ad un filosofo, non garbasse per avventura al filosofo stesso, questi avrebbe buona ragione di querelarsi allo storico, vedendosi dato gratuitamente un' appellazione, che non crede convenirsegli. E qui, mio stimatissimo Professore, io stesso debbo far querela con lei, essendole piaciuto di collocarmi nella setta o classe de' Razionalisti , e degl' Idealisti , quand' io non so per avventura di essere nè razionalista, nè idealista: e sarebbe un po' strano il caso, che io stesso ignorassi il mio nome, e che altri lo si sapesse. Il che se fosse, parrebbemi esser divenuto simile a colui, a cui degli solazzevoli uomini diedero a intendere, ch' egli non si chiamava Pietro, com' ei sosteneva, ma si chiamava Paolo, come non s' era fino allora udito mai appellar da veruno. E vedo io bene, ch' Ella mi viene poscia scusando e difendendo dalla mala impressione, che potrebbero dare que' nomi appostimi, attribuendo loro un cotal nuovo significato (1); ma ciò appunto mi dà occasione di proporle una terza quistione. E la questione si è « Se uno storico della filosofia possa mutare il significato ai nomi, che contradistinguono i sistemi nell' uso comune. » A ragion d' esempio: che cosa s' intende di significare oggidì nell' uso comune colla voce Razionalismo , se non quel sistema, che non pure esige una ragion chiara prima di dare l' assenso (il che non eccede il voluto dalla buona logica), ma che esige oltracciò una ragione riflessa? Di più, che esige oltre la prova, che una cosa sia, anche di comprendere la cosa stessa, prima di ammettere semplicemente che ella sia? O se si vuole definirlo in modo più elevato, quel sistema, che non riconosce alcun elemento che s' appareggi in altezza alle idee , di maniera che ad esse sieno inferiori e sottomesse tutte le cose? (2) Sicchè dicesi Razionalismo teologico quello di molti moderni protestanti, che rifiutano ogni misterio superiore alla ragione umana: e dicesi Razionalismo filosofico quello di Hegel, a ragion di esempio, che tutto dà all' elemento razionale. Ma da ciò appunto si vede come il mio sistema non solo differisca dal Razionalismo , ma di più come sia fors' anche il solo che l' abbatte fino dalle radici: perocchè il mio sistema pone ad una stessa altezza colle idee due elementi diversi dalle idee, e altrettanto supremi quanto le idee medesime; avendo io stabilito (nè so chi altri il facesse prima di me esplicitamente) l' Essere aver tre forme, o modi primordiali, l' idealità , la realtà e la moralità , nessun de' quali sottostà all' altro, ma ciascuno è primo, ciascuno incomunicabile, sebbene si leghino tuttavia nell' essere sempre il medesimo e identico in tutti e tre que' modi. I quali sono poi le tre mie somme categorie , a cui richiamo tutte le cose. Laonde tanto è lungi che io riduca tutto alla ragione, che anzi sono forse l' unico che abbia trovato qualche cosa che l' altezza della ragione possa emulare, e con essa per così dire aver comune l' impero. Quanto poi alla parola Idealismo , che Ella applica al mio sistema, e chi non sa, ch' essa fu sempre adoperata a indicare quei sistemi che negano la realità esteriore od anche l' esterior valore de' concetti della ragione? In che guisa adunque può darsi un idealista oggettivo7reale , come le piace chiamar me, quando quella denominazione nell' uso comune equivalerebbe a quest' altra d' Idealista7non7Idealista? La quale mia osservazione, parmi, rendesi degna di maggiore attenzione, quando Ella voglia considerare il pericolo, nel quale facilmente incappa colui, che aggiunge alle parole delle arbitrarie definizioni. E il pericolo che io noto, è quello appunto di contradirsi. Gliene darò, se mi permette, un altro esempio. Qual' è la definizione ch' Ella propone dell' Empirismo? La seguente. « « L' Empirismo è il sistema, che fonda la cognizione filosofica sull' esperienza sì esterna che interna, ovvero sul semplice fenomeno, o sulla sola apparenza delle cose »(1). » Or quì chiaramente Ella stabilisce, che l' Empirismo è quel sistema, che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, di maniera che se vi avesse un sistema, il qual fondasse la conoscenza filosofica sopra qualche altra cosa, oltre la sola apparenza delle cose, questo sistema non sarebbe più Empirismo. Bene stà: e che cosa è, secondo Lei, il Razionalismo ? Ella lo definisce. « « Il Razionalismo nel senso più largo od esteso è il sistema, che pretende la ragione umana capace per sè sola di conoscere l' essenza od i principii delle cose »(1). » Di questa definizione si vede, che il Razionalismo, secondo Lei, usa della sola ragione a conoscere l' essenza od i principii delle cose: di maniera che se vi avesse un sistema che usasse di qualche altra cosa a conoscere l' essenza ed i principii delle cose, non si potrebbe più chiamare Razionalismo. Or bene riteniamo queste sue definizioni, e vediamo come si accordino coll' altra definizione ch' Ella dà dell' Eccletismo in senso esteso ed universale. « « L' Eccletismo, Ella dice, nel senso più esteso ed universale è il sistema che fonda la cognizione filosofica sull' Empirismo e sul Razionalismo »(2). » Ma se l' Empirismo fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, e se il Razionalismo non adopera che la sola ragione, che cosa sarà l' Eccletismo? L' Eccletismo sarà in questo caso « il sistema che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza, e nello stesso tempo che non contento dell' apparenza delle cose, cerca d' investigarne l' essenza e i principii colla sola ragione. » Vede Ella a che si riduce questo suo Eccletismo? Quello poi ch' Ella aggiunge al paragrafo 474, dove pare che voglia conciliare il Razionalismo coll' Empirismo, non fa che intricare maggiormente la matassa. Perocchè Ella dice che nell' Empirismo tagliasi fuori di botto ogni razionalismo, cessando a rigore di termini l' Empirismo dal momento che si trapassa il fenomeno, o s' inoltra nelle speculazioni della ragione. Di che consegue esser giusto il seguente ragionamento. « O nel suo Eccletismo si trapassa il fenomeno o no. Se si trapassa il fenomeno, non c' è più Empirismo; se non si trapassa, rimane l' Empirismo solo senza il Razionalismo. »Dunque il suo Eccletismo è un Sincretismo che raccozza dogmi contradicenti, e il Sincretismo è nulla. Non voglio io attribuire a Lei questi assurdi, ma li attribuisco bensì alle sue definizioni. E io penso che il suo buon giudizio, meditandovi un poco, ne converrà meco pienamente. E perchè Ella vi mediti, non aggiungo di più a queste poche cose, che ho voluto esporle pel desiderio grande che ho, che si chiarisca la verità, e che ci avviciniamo, se possibil fosse, all' unanimità del sentire: al che è mezzo efficace la libera discussione, e dirò anche una censura severa e santa, che per amore e non per odio l' uno all' altro ci facciamo. Laonde Ella voglia ricevere con benignità questi cenni, e voglia liberamente ammonirmi se sono in errore. Voi volete saper da me, che cosa mi paia di quell' articolo intorno al « Saggio sull' origine delle idee , » che fu inserito tempo fa nel « Tiroler7Bothe , » e che ora ricomparisce nel « Messaggiere Tirolese , » tradotto in italiano dal professore Stoffella. E` cosa dilicata, mio caro maestro, il parlare d' un articolo di giornale, che fa la critica ad un proprio libro, chè nella materia de' nostri biasimi, e meno ancora in quella delle nostre lodi, non ci concede l' equità, nè la prudenza, nè la modestia, che noi c' intromettiamo, essendo gli altri i giudici nostri e noi le parti. Vero è, che ove la causa non è personale, ma è quella grave e comune della verità, non dobbiamo nè anco ritirarci dal più oltre agitarla per una falsa dilicatezza o soverchio timore, non forse altri attribuisca all' amor proprio nostro quello che pur ci viene suggerito da zelo buono del santissimo vero. E questa considerazione appunto mi move a contentarvi, e dirvi schiettamente ciò che io penso su alcun tratto di quell' articolo; perocchè, lasciate al tutto da parte le lodi di cui mi è largo il suo autore, e le quali vere o false che sieno, danno però mostra di animo inclinato alla benevolenza, come quelle che sono verso uno incognito (chè da un animo maligno nè anco la verità colla sua infinita bellezza sa riscotere una parola di approvazione, e un cenno gentile), io non vi dirò se non ciò, che mi sia paruto di quella parte, che tocca la questione delle idee, e la scienza filosofica, a cui tale questione appartiene. Sebbene io non dirò forse cosa, che voi non possiate aver detto prima a voi stesso, come quegli che siete entrato assai dentro e fattovi domestico nelle dottrine del « Saggio , » al trovamento delle quali voi stesso mi avviaste in que' begli anni, ne' quali mi aveste a discepolo nelle filosofiche scienze. Ben mi duole, che il dotto estensore dell' articolo non siasi potuto mettere in un esame dell' opera, e gli sia convenuto restringersi a darne solo un cenno, e gittare un solo dubbio sulla sostanza di essa; chè un cenno, un dubbio non mi dà buona presa da poterne io parlare con sicurezza, dovendomi rimanere in forse, se io pur intenda il concetto che l' estensore voleva al pubblico manifestare. Vi dirò bensì, che mi produsse un grato sentimento l' equità dello scrittore tedesco, ove, parendogli riuscire chiara l' elocuzione del « Nuovo Saggio » anche a svolgere questioni difficili e astratte, egli non dubitò di proporre quella chiarezza come un esempio imitabile ai filosofi della Germania. E veramente mi è avviso, che questo sia un punto principalissimo, se si vuole venire mai in accordo e consension di pareri, l' esser chiaro: e quel poco studio che io ho fatto nelle filosofie m' ha pienamente convinto, che il battagliare de' filosofi tra loro nasce le gran volte dal non intendersi; e che non ci può essere cura e diligenza tanto ben posta, quanto nell' usare parole e locuzioni chiarissime; nè si perverrà a trovare questa chiarissima sposizione, senza che ad un tempo non si pervenga a chiarire a se medesimo le proprie idee, o laddove non vi si giunga, varrà ciò a far conoscere, dalla fatica insormontabile che s' incontra a riuscir chiari, che le idee nostre sono sì implicate ed oscure, che non le possiamo a noi medesimi decifrare; il che avventurosamente insegnerebbe a molti scrittori di por giù la penna, e questa loro prudenza libererebbe il mondo d' un gran numero di noie e di errori, che si pescano sempre dove ci ha un fondo più scuro. E` però sfuggita una parola all' autore dell' articolo che contraddice senza ch' egli punto se ne avveda, al desiderio di questa bella chiarezza di stile, voglio dire quella colla quale afferma, che ogni astratto pensatore « dee da se stesso crearsi un peculiar linguaggio »: opinione pur troppo comunemente invalsa nella Germania, ma, ove senza pregiudizio si consideri, al tutto erronea. Che anzi il vezzo, che hanno preso que' filosofi di voler ciascuno riformare il linguaggio della filosofia è, a non dubitarsi, la principale cagione di quella tanta oscurità, che da' loro stessi nazionali è riconosciuta e confessata. Dovremo dunque nella nostra propria terra per essere filosofi farci barbari e forestieri? In questo dividerci dal comune modo di favellare, e farci una lingua o anzi un gergo da noi, più errori, o anche segreti suggerimenti delle nostre passioni, ci covano. Primieramente un errore, un suggerimento, per dirlo aperto, del nostro orgoglio è quello, che ci mette in cuore la lusinga vana di doverci sollevar noi tanto colle nostre speculazioni al di sopra della linea comune degli altri uomini, da potere, anzi da essere in necessità di rinunziare alla comune favella e perciò medesimo alle comuni idee, e di crearci una cotal lingua divina da noi medesimi, fatti simili agli Dei d' Omero, che chiamavano le cose con nomi diversi da quelli, con cui le chiamavano i mortali. Eh! non ci ha questa sì grande differenza da uomo a uomo, se la nostra vanità non ce la pone, che l' uno sia una divinità all' altro; ed è proverbio italiano e bello quello che dice, che tanto sa altri quanto altri . Riflettete ancora, che le idee, che ciascuno di noi ha ricevute per tradizione, dalla società umana in cui è nato e fu educato, col mezzo della comune favella e con essa stanno individuamente congiunte, sono quelle, colle quali, come con istrumenti, ciascuno di noi pensa, sono la materia, oltre alla quale i pensieri nostri finalmente non escono, e quindi sono tutto il fondo della filosofia. Sicchè le grandi e fondamentali verità il filosofo non fa che analizzarle, e trarle in maggior lume; ma esse non compariscono già al mondo la prima volta ne' libri de' filosofi, sì bene stanno depositate nelle tradizioni e nelle lingue, e i filosofi le prendono dal tesoro comune; e sfido qualsiasi de' filosofi tanto tedeschi, quanto italiani o d' altra nazione, a indicarmi d' aver egli il primo fatta comparire ne' suoi libri una sola verità fondamentale veramente nuova, e incognita prima di lui: sicchè altro sono le parole, altro i fatti di que' filosofi, che tutto vogliono innovare; altro ciò che promettono, e altro ciò che mantengono. E voi ben sapete, che io non ispingo però questa dottrina in quell' eccesso, nel quale la spinsero alcuni recenti filosofi francesi, ma che solamente io sostengo, che tanto di verità noi dobbiamo ricevere dalla società, o più in generale parlando, da un maestro al di fuori di noi per poter filosofare, quanto di lingua per poter favellare; e quanto sia questo tanto di lingua l' ho mostrato e definito nel « N. Saggio (1) » come ho mostrato nell' opera stessa in che modo io intenda e ristringa la dottrina del senso comune (2). Ma questo tanto di sapere e di lingua ciascuno di noi il riceviamo, come seme che feconda il nostro intelletto, dalla società degli uomini; e la società umana l' ha ricevuto da Dio, che le ha incumbenza di conservare e di travasare d' una in altra generazione questo deposito preziosissimo delle prime ed elementari verità. Ed acciocchè l' umanità, come debole ch' ella è, non manchi a questo suo ufficio, acciocchè le verità supreme sieno immobilmente fisse nel genere umano, e sieno anche sviluppate incessantemente, e rese fruttifere, la Provvidenza ne ha dato una speciale missione al Cristianesimo, che l' adempie da tanti secoli. Dal che si vede, che non furono bene comprese quelle mie parole, colle quali io ho dichiarato, che l' « Opera sulle idee » non intendevo che appartenesse ad una filosofia « inquisitiva di nuove verità, ma più tosto a quel genere che travaglia d' aggiungere chiarezza e sviluppamento a delle verità già universalmente conosciute. »Volevo io mostrare con quelle parole la poca fede, che io ponevo in una filosofia che fosse nuova e tutta invenzione d' un individuo; e come io non riconoscevo altra dottrina vera, autorevole e salutare, se non quella, che ha le sue radici, cioè le sue prime verità, nel senso comune degli uomini, e nel deposito dell' ereditaria sapienza, di cui l' umanità è e fu sempre in possesso, a cui non si può aggiungere se non ciò, che ci dà l' analisi e la riflessione, un più alto grado di luce, delle nuove conseguenze, delle nuove applicazioni. Il perchè io venivo con quelle parole a dire, che il far altro non era possibile nè a me, nè a chicchessia de' mortali, e il commentario e la prova di questa mia sentenza è sparsa in tutta l' opera (1). Oltre di ciò sulla lingua, che è essenzialmente l' espressione della società e non mai dell' individuo, se pure un individuo non vuol parlare con solo se stesso, ha diritto la sola società, e solo essa conserva e modifica il valore de' vocaboli, e perciò il valore d' un vocabolo non sancito dall' uso, quem penes , come fu detto sempre, est arbitrium et ius et norma loquendi , è un valore nullo, come di moneta, che non ha corso. Indi è che anche una menoma deviazione dal valor corrente della parola si reputa a peccato negli scrittori, e che l' usare tutte le parole diligentissimamente in quel significato, che l' uso comune loro stabilisce, forma quell' altissima lode delle scritture, che dicesi della proprietà , colla quale solo si ottiene la chiarezza e si tocca l' eccellenza dello scrivere. Ma quanti mali all' incontro non nascono dall' improprietà nell' uso delle parole? In prima le ambiguità, gli equivoci, un dettato incerto e vago, che non rende l' idea nell' altrui mente, se pure chi scrive in tal modo ebbe egli stesso mai in capo un' idea precisa da potere comunicare altrui. Poichè, come diceva Socrate, e questo il batteva fortemente contro a' Sofisti del suo tempo, chi pensa bene, parla bene, chi ha chiarite a se stesso le cose, sa metterle altresì in parole chiare e proprie: chè il nesso delle parole colle idee è sì stretto, che senza aver le parole, cioè senza averle ricevute dalla società, non si possono a mala pena avere le corrispondenti idee. Di che era divenuto fermissima legge anche appresso gli scolastici il dover conservare la proprietà delle parole, vedendo essi, che da questo dipendeva il potersi ben riuscire a insegnare, e fermare la verità e por termine alle questioni. E quel grande ingegno italiano, cui commenda l' autore dell' articolo, S. Tommaso d' Aquino, in più luoghi insegna e stabilisce come importantissimo principio per venire alla verità, e poterla mantenere e difendere, quello di osservare l' uso corrente delle parole e fedelissimamente seguirlo: « Significatio nominis » dic' egli, « accipienda est ab eo quod intendunt communiter loquentes (1) » Il perchè credo di poter dire, che il vedere uno scrittore che usa delle parole con tutt' altro significato da quello, nel quale le prendono gli uomini (2), e che con queste, come note magiche, vi parla da oracolo, e non consente, che alcuno sia con lui d' accordo, ma tutti hanno avuto torto, nè vi fu alcuno che abbia saputo un acca prima di lui, a cui avvenne il primo di trovar le vere basi della filosofia, e ricostruirla dall' imo al sommo; un tale, dico, ha tutto l' aspetto di essere un prestigiatore, o un cantambanco, o certo un uomo, che scoppia di boria, e che è voto di vero sapere. Veramente a certi volghi, e non però al volgo italiano, fa grande impressione il sentire un ardito pronunziare dal tripode, e spacciarsi per qualchecosa di più che tutti insieme gli altri uomini, per da più dell' intero genere umano, e a cui perciò si convenga anche d' avere lingua nuova, originale, e non imbrattare le sapientissime labbra col parlare comune della mandra umana; ma quest' impressione di stupore che fa in alcuni volghi, come dicevo, e nella parte superficiale de' letterati, la qual si guida non a stima di giudizio, ma di rumore, che si leva appunto per cotali stranezze di filosofi; è però tale, che il tempo la cancella, e la cancella per sempre, e con derisione di chi ne fu il zimbello, e del ventoso filosofante, che da tanto alto mandò fuori i vocaboli misteriosi, e nulla veramente di chiaro significanti a chi ebbe la semplicità di ascoltarlo e stupirsene. Il perchè se un uomo, il quale non si lascia imporre dall' apparenza, e che abbia digerito l' ebbrezza della maraviglia che gli avea cagionato da prima uno stile arcano, e promettitore di secreti inauditi, venga fuor di cerimonia e di contegno a fare metter giù il pallio filosofico e la barba, per così dire, a que' sistemi e snudarli e interrogarli a voler dire in latino chiaro ciò ch' essi si vogliano, ciò che essi s' intendano; riesce questi a cavarne di sotto a quelli enimmi delle verità non già arcane e peregrine, ma anzi volgari e notissime, mescolate pure con dei volgarissimi errori, con infinite inesattezze, e con una buona parte di sentenze senza significato, a tale, che l' autore medesimo non seppe ciò che s' abbia voluto dire con esse. L' affettazione dunque d' usar parole nuove o di nuovo significato il più delle volte è un' arte di coprire la propria ignoranza, e d' eccitare maraviglia in altrui, e trarne nome di originalità con pochissimo di sapere e con una testa oltre modo confusa. E non è quindi difficile a' filosofi di una tal mena inventare sempre de' nuovi e nuovi sistemi, i quali, a sentir essi, ve li danno per cosa, di che non s' ebbe mai al mondo sentore, giacchè basta arzigogolare colle parole per venirne a capo, e dei nuovi arbitrŒ, delle nuove improprietà, in somma un impasto nuovo di linguaggio, e se fa bisogno un nuovo rafel maì amech zabi almi , ed eccovi un sistema. E dopo ciò non vi farà maraviglia, se io oso dirvi, che de' tanti sistemi filosofici, che sono usciti in Germania questi ultimi sessanta o settant' anni, da che questa nazione ha preso un nuovo modo di filosofare, ognun dei quali vuol esser unico; appena che due o tre ve n' abbiano, i quali differiscano realmente fra di sè nelle basi, e non di sole parole (1). Ma v' ha di più ancora: un nuovo linguaggio individuale, arbitrario, non solo è il più sovente l' espressione propria di alcun di coloro, a cui si potrebbe rivolgere quel, o anima confusa , che rivolge Dante a Nembrotte; non solo è lo stromento dell' orgoglio sempre solennissimo ciurmadore degli uomini, il qual coi misterŒ e col prometter d' occultare sotto a' misterŒ de' tesori di peregrina sapienza e non mai trarli all' aperto, tenta di preoccupar gli animi della moltitudine e ingenerare in essi un gran concetto di sè; non solo è l' unico stromento acconcio alla fondazione di sette filosofiche (e di sette a dir vero la stagione dovrebbe esser finita); ma egli è qualche cosa di più pericoloso , e di più sospetto ancora: il debbo io dire? debbo io dire ciò che l' esperienza ci ha insegnato a nostro sì grande costo? il dirò spacciatamente a voi, mio caro amico, ed è questo, che il tramutar senso a' vocaboli e un fraseggiar nuovo fu un' arte di fare smarrire, e rimescolare nelle menti degli uomini le antiche e giuste nozioni delle cose, di alterare i costumi, di turbare le cose pubbliche, di distruggere la religione, quella religione, che antica come il mondo, gode pure di un linguaggio antichissimo, e nella sua sostanza, almeno ne' suoi solenni vocaboli e maniere, inalterabile. E non è egli così? Date uno sguardo alle cose de' nostri tempi, e vedrete, che tutte le sette politiche come tutte le sette religiose adoperarono per farsi largo un linguaggio inaudito, loro proprio, e senza di questo non avrebbero certamente potuto ingannare tanto, e tanto universalmente ed infelicemente gli uomini (1). Chiarezza adunque, chiarezza, da lungi i misteri filosofici, da lungi i detti da oracolo, e quel parlar in calmone, che i fiorentini sogliono anche dire furbesco. E per seguitare della chiarezza necessaria nelle trattazioni filosofiche, una cagione di oscurità e del fraintendersi è ancora l' uso soverchio di maniere metaforiche là dove farebbe bisogno un parlar piano e proprio. E a dirvi il vero, per questo appunto è, che io non posso con sicurezza intendere, che cosa voglia dire l' estensore dell' articolo quando parlando del « Nuovo Saggio » mette dubbio; « se il punto di vista, al quale si leva l' autore trovisi veramente a quell' altezza speculativa, dalla quale soltanto si può aspettare una soluzione del tutto soddisfacente. »Quel punto di vista , quell' altezza speculativa , quel del tutto soddisfacente sono altrettante espressioni, che m' imbarazzano. Se egli mi avesse detto: « questa proposizione è vera, o questa è falsa »: io avrei inteso perfettamente ciò che egli voleva dirmi, ed allora io avrei potuto cavar profitto studiando di verificar meglio quella parte, che mi veniva additata come dubbiosa; ma parlandomi di altezza speculativa , io confesso di non saper più che mi si voglia dire; e perciò non sono in caso di approfittare della censura. Farà maraviglia questa mia osservazione, come quella che va a toccare delle espressioni assai frequentemente usate, ma non è egli da credere, che tanto sieno usate da taluni appunto perchè non contengono nessuno ben certo significato? Esse valgono a far credere ai lettori che si dica molto, perchè presentano un senso ravvolto in una nube, dentro la quale l' amor proprio di ciascuno spera di dovervi trovare qualche cosa di prezioso, e non ha coraggio di confessare a se stesso la propria incapacità di trovarci pur niente di solido. E` però vero, che quel passo sembra ricevere qualche lume dalle parole che seguono, e sono queste: [...OMISSIS...] Ma anche queste parole essendo così sfornite d' ogni prova, e così nudamente dette, non mi lasciano assicurare di bene entrare io nella mente di chi le disse. Tuttavia tenterò d' interpretarle a me stesso, e di farci sopra alcune osservazioni, prese in quel senso, che a me rendono. In primo luogo sembra da queste ultime parole, che l' estensore metta per cosa risoluta, e oggimai così certa da non dubitarsene, che la facoltà di percepire le cose particolari e la facoltà di percepire (com' egli dice) le cose universali non sieno punto due facoltà, ma una facoltà sola. Ma d' altro lato non sembra impossibile, ch' egli voglia torre ogni distinzione e diversità fra la facoltà de' particolari, e quella degli universali? Onde si distinguono le facoltà tra di loro? Fu sempre detto, dai loro oggetti, i quali se sono distinti, conviene che sieno distinte anche le facoltà, che a quegli oggetti si riferiscono. Converrebbe dunque dimostrare, che tra il particolare e l' universale, non v' avesse alcuna distinzione, non passasse alcuna differenza a poter dire, che le loro facoltà non sieno diverse, ma una facoltà sola. E se il particolare e l' universale fossero la medesima cosa, ne verrebbe, che si potrebbe l' uno prendere per l' altro, e dire che il particolare sia l' universale, e che l' universale sia il particolare, cosa mostruosa e contraddittoria ne' termini, perocchè solo a osservar la nozione che rendono alla nostra mente queste due parole, ognun vede, che la voce particolare esprime un concetto che è in opposizione appunto a quello della voce universale, e viceversa; sicchè l' una non è solo diversa, ma ben anche contraria dell' altra. Non posso dunque credere, che l' estensore abbia voluto negarmi ogni qualsiasi distinzione e diversità fra le facoltà dei particolari e degli universali. M' ingegnerò dunque di prendere le sue parole in altro senso, e di temperarle da quella sentenza rigorosa che pure proferiscono, e penserò che egli voglia dire, che il particolare e l' universale, sebbene opposti fra loro, hanno un cotal rapporto, sicchè l' uno viene dall' altro, o tutti due da un terzo elemento. Dove questo sia il suo pensiero, io gli propongo le osservazioni seguenti. Egli in prima non può dedurre l' universale dal particolare; chè così facendo si aggregherebbe alla fazione de' sensisti e de' materialisti; tutto l' errore de' quali consiste nell' imaginarsi di poter dedurre dalle particolari sensazioni gli oggetti essenzialmente universali della mente, giacchè la facoltà prima de' particolari non è che il senso, e la facoltà degli universali non è che l' intelletto: due facoltà che i sensisti confondono in una. Ma di questa fazione mostra già l' estensore di non avere alcuna stima, e però non posso attribuirgli un tal sentimento. Non credo nè pure di potergli attribuire il pensiero, col quale egli voglia dedurre dagli universali i particolari, chè non mi è noto, che nella mente di alcun filosofo sia mai caduta una stranezza simile di affermare, che l' uomo percepisca i particolari, non con un senso che ad essi presieda, ma deducendoli per astratto ragionamento, e quasi indovinandoli dalle idee universali della sua mente. Conciossiachè conviene osservare, che qui parliamo de' particolari e degli universali solo in quanto sono gli oggetti delle percezioni dello spirito umano. Troverò io meglio il suo concetto, se supporrò, che egli voglia dire, che tanto gli universali, quanto i particolari scaturiscano da un terzo elemento, come da una fonte comune? Ma questo terzo elemento, mi si dica, sarà egli un universale, o sarà un particolare? perocchè non so che cosa ci possa avere di mezzo fra il particolare e l' universale, nè posso in alcuna maniera concepire un oggetto, che non sia nè particolare nè universale. S' egli dunque è un particolare che produce l' universale, ricaderemo nel sistema dei sensisti, e s' egli è un universale che produce un particolare, verremo ad abbandonarci ad un sistema così assurdo, che non ha bisogno di confutazione. Ma forse egli voleva dire, che considerando noi in questo ragionamento il particolare e l' universale in quanto sono oggetti, o anzi termini dello spirito umano (1), egli non è però assurdo il supporre, e non è impossibile il pensare, che tutti e due questi termini dello spirito sieno prodotti da un terzo elemento, non oggetto e non termine dello spirito, e perciò non apparente allo spirito. In tal caso noi siamo usciti oggimai dall' ordine logico , e siamo entrati nell' ordine ontologico , cioè a dire, siamo usciti dagli oggetti del pensiere umano, e siamo venuti ad un che incognito, che li produce: ora una cosa incognita, una cosa fuori del nostro spirito, fuori della nostra sensitività e della nostra intelligenza, non può in alcun modo costituire una facoltà dello spirito stesso; e perciò questo terzo elemento, questa entità, quand' anco ci fosse, non potrebbe costituire una facoltà superiore a quelle degli universali e de' particolari, sicchè queste da quella uscissero e in quella si unificassero. Vado bensì meco medesimo indovinando che questo terzo elemento sia per l' estensore dell' Articolo la coscienza (noi diremmo il sentimento), i fatti della quale pare a lui non essersi da me considerati quanto sarebbe bisognato nella loro connessione e nella loro più elevata unità; volendo così dall' ordine logico trasportarci all' ordine psicologico , cioè a cercare la spiegazione delle facoltà nel fondo dell' anima stessa, come molti filosofi, massime della scuola tedesca, vanno dicendo. Ma se a questa schiera egli pensa d' aggiungersi, non mi sarebbe punto difficile il fargli osservare i luoghi del « Nuovo Saggio , » dove si dimostra, che un tale pensamento è insostenibile in se medesimo, e scettico nelle sue conseguenze (1). Ma in luogo di ciò, a me basterà di eccitarlo a fare la seguente riflessione. La coscienza, come si suol prendere da' tedeschi, è un sentimento , appartiene quindi alla facoltà di sentire, o anzi, è ella stessa la grande e universale facoltà di sentire dello spirito umano. Ora, se noi consideriamo il sentire come tale, egli non è nulla più che la facoltà de' particolari, giacchè il soggetto senziente uomo è un particolare, e ogni sensazione è una modificazione di questo soggetto particolare, che a suo tempo si chiama IO, e perciò essa è particolare. Perchè adunque la facoltà di sentire passi agli universali, conviene, che le si sopraggiunga qualche cosa, cioè che gli venga posto un oggetto in contrapposizione di lei, soggetto. In tal caso essa non è oggimai pura e semplice facoltà di sentire , ma è divenuta facoltà intellettiva , ed è questa appunto la maniera, ond' io faccio nascere nell' uomo l' intelligenza, cioè col sopraggiungersi d' un oggetto al soggetto , coll' esser dato alla facoltà di sentire universale dell' uomo un termine diverso dal soggetto stesso e da lui indipendente, e quindi coll' acquistare che fa il principio sensitivo dell' uomo una modificazione essenziale, in virtù della quale estende la sua forza fuori di tutto ciò, che racchiude la nozione d' un sentimento puramente soggettivo. La coscienza dunque, a parlare con proprietà, un sentimento puramente soggettivo, appartiene solo alla facoltà de' particolari, e chi volesse da questo trarne la percezione degli universali ricaderebbe in quel sistema, che trae l' universale dal particolare, che è quanto dire, l' idea dalla sensazione, sistema sensistico e materiale (1). Egli è bensì vero, che alcuni filosofi danno alla forza primitiva dell' anima un atto creatore, col quale il soggetto stesso pone il suo oggetto, lo spinge e, quasi direi, lo slancia fuori di sè senza preciderlo da sè, ma mettendolo in opposizione a sè, come termine della sua contemplazione. Ma, oltre che questo sistema è panteistico , ed io l' ho già confutato a lungo (2), non se ne può dare la minima prova, che abbia pur solo del verisimile, e in qualunque caso, egli non può tener luogo, che di una ipotesi, conciossiachè i fatti appunto della coscienza, sieno esterni, sieno interni, non dicono nulla di questo, ma dicono anzi tutto il contrario, poichè la coscienza ci dice, che nella percezione degli oggetti noi siamo i passivi , e gli oggetti sono gli attivi , noi siamo dipendenti, quelli a cui viene imposta la legge; e gli oggetti sono indipendenti, e quelli che impongono la legge. Nè si dica che il concetto di passività involge una specie sua propria di attività; poichè questa attività non è finalmente che quella, per la quale il soggetto paziente esiste e patisce. Ci perderemmo dunque in una filosofia puramente fantastica, se, abbandonato il filo dell' esperienza interna ed esterna e le deposizioni chiare della coscienza, noi volessimo supporre un' operazione arcana nell' intimo dell' anima senza averne la minima prova, ed il minimo reale indizio. Concludiamo dunque da tutto ciò, che non c' è alcuna via da identificare nell' uomo la facoltà di percepire i particolari e la facoltà di percepire gli universali, e che non si può negare che queste non abbiano una diversità reale fra loro. Ma dopo di ciò, se queste facoltà, cioè il senso e l' intelletto, sono diverse, e non si possono confondere; saranno esse anche prive d' ogni rapporto fra loro? non hanno forse una comune radice? non si rassomigliano in cosa alcuna? A tutte queste domande ho risposto lungamente nell' opera, e voi bene vi ricorderete d' averci trovate le seguenti dottrine. In primo luogo, tutte le facoltà, ove le consideriamo dalla parte del soggetto, si unificano, ed hanno per radice comune, il soggetto, il quale è perfettamente uno e il medesimo (1). Quindi c' è un' attività radicale nel soggetto uomo, la quale è identica in tutte le facoltà, che traggono da lei, come altrettante attuazioni d' una medesima potenza; e quest' attività è l' anima stessa, che, come dice Dante, [...OMISSIS...] In secondo luogo, l' attività d' un soggetto, considerata da sola, è un sentimento , pel quale il soggetto sente se stesso, o a dir più vero, sente il modo del proprio essere, sicchè essendo moltiplici i modi dell' essere d' un soggetto senziente, anche quella facoltà da una si fa più, secondo i diversi termini delle sue operazioni: indi si partono non formalmente, ma per la diversa materia, quelli che si chiamano i cinque sensi del corpo, e queste attuazioni diverse della sensitività radicale si possono considerare bensì come altrettante facoltà, ma non però così distinte, che non abbiano sempre il soggetto per loro termine ne' suoi varŒ modi (3). All' opposto questa attività di sentire riceve una nuova funzione, infinitamente più nobile di tutte queste, quand' ella non termina più, come dicea, nel soggetto ; ma un oggetto le è dato da contemplare. Ella allora è maravigliosamente nobilitata da questo suo termine distinto essenzialmente da lei, e che non si può intuire se non distinto; di che al sentimento accade una preclara trasformazione, cioè quella di rendersi intelligente. Questa intelligenza, che viene aggiunta al soggetto col pur presentarsi e giungersi a lui come termine un oggetto, è tale, che il soggetto non potea mai darla a se stesso, perchè l' intelligenza richiede qualche cosa di essenzialmente diverso dal soggetto: e quindi il soggetto dovea ricevere l' intelligenza da qualche cosa diversa e maggiore di sè, da una cosa, che fosse per la propria essenza intelligibile, la quale perciò non potea esser sentita senza esser ad un tempo intesa, il che facea sì che resa termine dell' attività sensitiva, ella traeva quella attività ad una nuovissima e maravigliosissima operazione. Per tal modo è che io faccio nascere, ed uscire l' intelligenza umana dal senso universale, ma non dal senso solo, bensì da una operazione, che viene fatta dall' esterno del soggetto uomo, da una virtù, a cui l' uomo non può resistere, e che nel rendersi recettivo, nel cedere, nel darsi vinto, forma, e crea in lui ciò che aver ci può di più elevato, e di più sublime (1). Dalla parte dunque del soggetto le facoltà si unificano e radicano tutte nel medesimo, e anzi rimarrebbero una facoltà sola specificamente, se al soggetto null' altro si aggiungesse, e tutto terminasse in lui. Ma se questa universale facoltà di sentire che costituisce il soggetto stesso, esce dal soggetto, e l' abbandona per l' oggetto, qual forza ne la trae fuori? che cosa è questo oggetto, che a lei si presenta? questo termine, che, essendo egli essenzialmente conoscibile, dà l' intelligenza coll' esser sentito, e quindi egli, il primo inteso da questa intelligenza da lui per tal modo creata, rende intelligibile, per partecipazione della sua luce, anche tutte l' altre cose solo sensibili? Questa ricerca ho fatto in tutta l' opera sulle idee, ed il risultato si fu, che questo termine dello spirito umano è l' ENTE; e che prima l' uomo vede quest' ente in universale, e in uno stato puramente ideale. Indi col mezzo suo intende anche le altre cose, perocchè l' intelligibilità di queste non consiste se non nel rapporto che esse hanno appunto coll' ente stesso (1). Il risultato si fu ancora, che quest' azione che soffre dall' esterno lo spirito umano, è irresistibile e superiore a qualunque forza: che l' oggetto, l' ente è la stessa VERITA`, l' unica forma della ragione, il fonte della morale , cioè la legge suprema non solo de' pensieri, ma anche delle azioni umane (2), il criterio della « certezza (3), » il principio della « bellezza (4), » e ciò che il volgo chiama assai propriamente il « lume della ragione (5). » Risultò medesimamente dalle mie ricerche, che quest' ente è la causa esemplare delle cose, è l' universale, il necessario, e quindi il fonte di ogni universalità, e di ogni necessità (6); che egli finalmente è immutabile, eterno, infinito (7); e tutto questo che egli mostra non è apparenza ingannevole, poichè quest' ente non può apparirci diverso da quello che è, ed è essenzialmente ed evidentemente veritiero, appunto perchè è la verità; e per ultimo risultò, che sebbene da noi non si veda l' ente nella sua sussistenza , ma solo nell' idea tuttavia non può non sussistere anche in se medesimo, e in questa sua sussistenza considerato è la causa efficiente del tutto, l' ente degli enti, l' unico assoluto, Iddio (.). Così l' Ideologìa mi condusse a mano fuori della mente, e fece che mi ritrovassi sul limitare dell' Ontologìa, ove il discorso non cade più sulle idee , ma sulle stesse cose . Ed è nell' Ontologìa , non ancora da me pubblicata, che io richiamo alla sua vera ed altissima unità anche il mondo reale, come coll' Ideologìa ho richiamato all' unità sua il mondo ideale, per dover poi nella Teologìa naturale congiungere, cioè, far dipendere i due mondi reale e ideale da un solo e medesimo punto, cioè da quell' ente degli enti, nel quale la verità , ossia l' essere mentale, diventa una persona indivisa dalla divina sostanza. Non so, se forse l' Estensore dell' Articolo alludeva a qualche cosa di simile a questo, quando egli desiderava, che io avessi considerati i fatti della coscienza nella loro più elevata unità ; ma in tal caso, come abbiamo veduto di sopra, questa unità è fuori della coscienza, è fuori dell' ambito della ideologìa , ed appartiene all' ontologìa , e si consuma nella teologìa naturale . Per tornare dunque a quella unità di sentimento, che solo è ragionevole di cercare nel « Saggio sull' origine delle Idee , » voi certamente, che molto addentro siete entrato nello studio di esso, vi sarete avveduto di questa strettissima connessione soggettiva, che io pongo tra la facoltà dell' intelletto , e del senso preso in generale , e non solamente preso per quel ramo del sentire corporeo. Ma oltre di ciò ci avrete ancora trovato di più, che io riduco alla unità medesima anche la terza delle facoltà fondamentali dell' uomo, cioè la ragione , facoltà media fra l' intelletto ed il senso . Non vi sarà sfuggito, che anzi non altrove io fondo la possibilità e la propria natura della ragione , se non nell' identità del sentimento e della coscienza del soggetto sensitivo ad un tempo ed intellettivo , sicchè la funzione della ragione io la riduco ad essere la visione delle relazioni fra le sensazioni e le intellezioni; e l' indole propria di ogni idea, che non sia la suprema, semplicissima di sua natura e tutta forma, in quella d' essere un rapporto veduto fra la sensazione stessa, materia , e l' essere in universale, forma , e lume della mente (1). Tre dunque sono le facoltà specificamente diverse nell' uomo, il senso , l' intelletto , e la ragione ; ma l' uomo non è già una facoltà, ma il soggetto unico di quelle tre facoltà: ecco l' unità , a cui si richiamano tutti i fatti della coscienza. Vi risovverrete, che questa dottrina sparsa per tutta l' opera, viene in fine d' essa riepilogata nel seguente passo: « « Nella coscienza esistono tutte queste potenze avanti le loro operazioni, cioè il sentimento di me col mio corpo (sensitività) e l' intelletto . Questa coscienza, perfettamente una, unisce la sensitività, e l' intelletto. Ella ha altresì un' attività, quasi direi, una vista spirituale, colla quale ne vede il rapporto: quest' attività è ciò che costituisce la sintesi primitiva . Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dall' unità della coscienza, in quanto cioè ella è atta a vedere i rapporti in generale, ella è la ragione , e la sintesi primitiva diventa la prima operazione della ragione »(1). » Una unità maggiore di coscienza e di sentimento dell' identità non si può dare, e questa è quella semplicità, a cui mi sembra d' aver richiamata con evidenza la scienza del pensiero. Io aggradirò, che voi mi diciate schiettamente il vostro parere su queste mie osservazioni, che vi mando per ubbidirvi. Addio. La ringrazio della pregiata sua piena di sagacità, e di quello spirito conciliatore; che se fosse in tutti gli studianti, tanto gioverebbe ai progressi della filosofia, della sapienza e della stessa virtù. Cercherò di chiarire in breve alcune cose ch' Ella mi propone. Prima di tutto è da porre attenzione al senso, nel quale io uso il vocabolo reale o realità. Io mi accorgo che molti intendono per cosa reale una cosa vera o veramente esistente. Ma non è questo il senso che io aggiungo a quella parola. Il reale per me non è che un modo dell' essere , non è l' essere stesso. Io sostengo che l' essere identico è in tre modi o maniere diverse, che io denomino ideale, reale, morale . Lasciamo da canto il morale a fine di semplificare il discorso; dico che l' essere identico si trova tanto nell' idealità quanto nella realità, ma in altro modo. Sia dunque che l' essere si prenda nella sua forma ideale, o che si prenda nella sua forma reale, egli è verissimamente ed è sempre lo stesso essere. Convien dunque con somma diligenza meditare sulla diversità che ha l' essere in queste due forme, nelle quali si presenta, e nell' una delle quali non è più nè meno che nell' altra. Una delle diversità estrinseche, per così dire, che separa l' essere ideale dal reale , si è che l' essere ideale è sempre necessario , laddove l' essere reale non è sempre necessario, ma ora è contingente, ora è necessario. E` facile il dimostrare che l' essere ideale è sempre necessario, sol che si faccia osservare che anche l' idea del contingente è necessaria ed eterna. Ella vede dunque che, secondo la mia maniera di parlare (dalla quale a dir vero non trovo che si possa prescindere), quantunque l' essere ideale sia verissimamente ed anco necessariamente, non si può inferirne che sia reale; chè sarebbe contraddizione il dire che ciò che è ideale, è reale, o viceversa, essendo queste due forme incomunicabili, o inconfusibili. Ella mi domanderà qual sia il carattere, che distingue queste due forme l' una dall' altra. Rispondo, che queste due forme si distinguono come l' idea si distingue dal sentimento , o sia che il carattere dell' essere ideale è quello di far conoscere semplicemente, senza aver alcun' altra azione di sorte; quando il carattere dell' essere reale è quello di agire , producendo o modificando il sentimento. Ancora: l' essere reale è soggettivo , l' ideale sempre oggettivo: l' oggetto si può unire col soggetto, anzi si deve; ma non si può mai confondere con esso. Avverta che per me un soggetto è sempre un sentimento, e il reale è sempre anch' esso il sentimento, o ciò che agisce nel sentimento: l' idea non è mai un sentimento, e qualora si voglia dire che modifichi il soggetto che la intuisce e produca in essa qualche sentimento, tuttavia questa modificazione, di natura sua propria, distinta da tutte le altre, non è l' idea. Del resto, ripeto, che nell' ideale c' è tutto ciò che nel reale, meno la realtà; e nel reale c' è, o ci può essere tutto ciò che nell' ideale, meno la idealità: le sole forme, i modi soli si escludono: il contenuto di esse è l' essere identico . I filosofi tedeschi, e specialmente Hegel, hanno fatti sforzi maravigliosi per trovare un punto, che congiungesse l' oggettivo col soggettivo, cui chiamarono punto d' indifferenza [...OMISSIS...] di cui quest' ultimo filosofo volle fare il fondamento e l' origine di tutte le cose. Vani sforzi! Non videro que' pensatori, che avanti l' oggettivo e il soggettivo, l' ideale e il reale, non c' è nulla, nulla affatto; che, l' essere è l' essenza identica d' entrambi. Ella avrà forse colto questa teoria nelle mie opere, ed esige, parmi, attentissima meditazione a concepirla sì nettamente da non falsarla con alcun' altra, e da poter trovarvi le conseguenze di cui va gravida. Ora venendo più da vicino alla nostra quistione: se d' innanzi alla mente umana stia sempre Iddio collocato, l' essere assoluto; rispondo facendo primieramente osservare, che stare presente alla mente umana non vuol dir altro se non esser dalla mente intuìto , di maniera che ciò che non fosse dalla mente intuìto si dovrebbe dire che non le è presente. In secondo luogo osservo che la parola Dio nel comune significato non indica solamente un essere necessario, ma indica di più un essere reale, indica l' essere reale infinito; epperò necessario. Ora che stia d' innanzi alla mente nostra di continuo l' essere necessario è quello che io sempre sostengo in tutte le opere mie; ma che stia presente alla mente, cioè che sia intuìto continuamente dalla mente quest' essere necessario nella sua forma di realità, questo è quello che nego non solo per l' assurdo teologico che ne verrebbe, ammettendolo; giacchè in tal guisa noi vedremmo Iddio per natura; ma di più per la semplicissima ragione che l' osservazione interna del fatto del nostro spirito ci dichiara che noi non abbiamo quella percezione della realità divina; la quale d' altra parte non è necessaria a spiegare l' origine delle nostre idee, al che ci bisogna solo l' essere ideale per sè noto, per sè lume: e finalmente per una terza ragione, cioè perchè la realtà divina non appartiene all' ordine delle idee, ma all' ordine de' sentimenti, ne' quali solo comunicandosi a noi, si può da noi percepire e dalla facoltà nostra del giudizio affermare. Nulladimeno dall' essere , che sta innanzi alla mente nostra nella sua forma ideale , possiamo passare per via di argomentazione a conchiudere, che quell' essere identico che a noi si comunica come ideale, dev' essere in se stesso anche reale, e un reale necessario e infinito altrettanto che ideale, benchè questa sua realità a noi sia nascosta nell' ordine della natura; conciossiachè nel semplice ordine naturale noi non possiamo percepire che una realità finita; e la percezione della realità infinita è poi ciò che costituisce l' ordine soprannaturale . Trovando mediante tale argomentazione la necessità d' un reale infinito, noi abbiamo dimostrato l' esistenza di Dio a priori; perocchè gli uomini in tutte le lingue intendono ed hanno sempre inteso di significare colla parola Dio non l' essere ideale, ma l' essere reale infinito. Di che ella vede che il non poter applicarsi il nome di Dio all' essere ideale, che noi naturalmente vediamo, non fa sì ch' egli sia perciò diverso da Dio, in se stesso, ma solo che a noi appaia diverso, attesa la limitazione nostra, e il modo parziale con cui ci viene comunicato. Mi spiegherò con un esempio: io vedo da lungi una piccola macchia nera; questa macchia si muove: mi si avvicina: finalmente scorgo che è uomo. Quando io vedea la macchia nera, ma non distinguevo ancora che fosse un uomo, io non potea dire di vedere un uomo, poichè ciò che a me appariva non era punto un uomo; era una macchia nera; ma in quel punto in cui ho cominciato a distinguere le forme umane in quella macchia, io ho potuto dire: vedo un uomo. L' oggetto in se stesso era sempre il medesimo; ma non così l' oggetto a me apparente; prima era una macchia, poi era un uomo. Applichi la similitudine: l' essere infinito è identico tanto nella sua forma ideale quanto nella sua forma reale; ma fino che io lo vedo nella sua forma ideale solamente, non vedo Iddio: vedo Iddio tosto che lo vedo nella sua forma reale: ma non è tanto l' oggetto che varia, quanto la visione dell' oggetto. Questa similitudine non è adequata da tutti i suoi lati; ma fa intendere bastantemente il mio pensiero....... Ricondottomi a Stresa dopo lunga assenza, vi ho trovato la sua « Introduzione alla Filosofia razionale » da Lei gentilmente speditami, e poco stante ebbi la cortese sua lettera, in cui mi chiede qualche parere sulla medesima. Ho letto con piacere non piccolo quella sua operetta, scorgendovi da per tutto la penetrazione del suo ingegno e i vestigi di una non leggera meditazione. Laonde devo sinceramente congratularmi con essolei d' un lavoro che le dee far grande onore. Non le parlerò delle osservazioni che Ella fa sul sistema ideologico contenuto nel « Nuovo Saggio » e che tutte mostrano la rettitudine dell' animo suo e la persuasione sincera di ciò che dice, ma non posso tacere del tutto del sospetto di Panteismo ch' ella mostra di prenderne e dell' accusa ch' ella gli dà d' impotenza a dimostrare l' esistenza reale de' corpi. L' amor suo sincerissimo alla verità dee liberarla a mio credere da ogni timore, che, nella conseguenza del sistema, possa uscirne un panteismo sol che consideri quanto segue. Niun altro sistema, a me pare, pone più gran divisione fra l' essere ideale e l' essere reale . Ora l' essere ideale è necessario ed eterno, quando all' opposto l' essere reale non è essenzialmente necessario ed eterno, avendovi un mondo contingente e soggetto alla limitazione del tempo. Ora essendo l' essere ideale essenzialmente necessario ed eterno, ne viene ch' egli debba ridursi in Dio, ed essendovi in Dio un' unità perfetta, niuna maraviglia è, che anche nell' essere ideale si trovi un' unità perfettissima, cioè che tutte le idee si riducano ad una sola. Se fra le idee ci fosse una real distinzione, una real distinzione ci sarebbe in Dio, il che pregiudicherebbe alla divina semplicità. All' incontro l' essere reale contingente non potendosi ridurre in Dio, nè pure esige l' unità e la semplicità propria del mondo ideale e divino. E tutto ciò è confermato dall' osservazione interna ed esterna; poichè è l' osservazione interna che ci persuade le molte idee non esser altro, che lo stesso lume applicato a conoscere cose diverse: la moltiplicità delle cose reali moltiplica le idee in questo senso, che moltiplica i rapporti fra essi e l' unica idea; avendo io già dimostrato che tutte l' altre idee, eccetto quella dell' essere, non sono che rapporti delle cose con essa idea unica dell' essere ( « Rinnovam . » L. III c. LII). L' osservazione poi esterna ci dimostra la moltiplicità e la limitazione delle cose esteriori, le quali per ciò stesso non si possono in alcun modo confondere con Dio. Di qui risulta, che dall' unicità, che si trova nelle idee, non si può argomentare all' unicità delle cose esterne contingenti, perocchè l' essere ideale è tanto distinto dall' essere reale e contingente, quanto è distinto Iddio dalle creature. All' incontro il vedersi che quell' unica idea si moltiplica, secondochè fa conoscere ora una cosa ora l' altra, dimostra manifestamente la moltiplicità delle cose reali, moltiplicità e limitazione che si trova così dimostrata nel seno stesso del mio sistema. Venendo ora alla obbiezione, che ella fa alla dimostrazione dell' esistenza reale de' corpi , devo confessare che la riflession sua sarebbe giusta qualora quella dimostrazione si appoggiasse, come Ella suppone, all' erroneo principio che un essere illimitato non possa mai produrre effetti limitati . Ma se ella attentamente considera, vedrà che la dimostrazion mia fondasi anzi interamente sull' analisi del concetto di corpo, per la quale io stabilisco che il corpo è quell' agente sull' anima, che l' anima sente nello spazio : e la sostanza corporea non è nè più nè meno di quest' agente. Ora quest' agente sentito immediatamente dall' anima e nell' anima, e avente il modo della estensione, è una sostanza limitata , e perciò non può essere Dio. Merita nome di sostanza , perocchè si concepisce da sè solo senza che il pensiero nostro per concepirlo debba far ricorso ad altro; e questa sostanza è limitata , perchè in tanto è sostanza, in quanto agisce, e in quanto agisce è limitata ed estesa, onde non è Dio. Conviene formarsi una giusta idea della sostanza, riducendola sempre ad un atto, il quale, qualor si considera sotto l' aspetto di principio , dicesi agente , e qualora si considera come cosa che si lascia concepire da se stessa senza bisogno d' altro, dicesi sostanza . La prego di dare la sua attenzione a tutto ciò, e mi persuado, ch' Ella, cercatore della sola verità, rimarrà soddisfatta. Così pure io credo ch' Ella si persuaderà, che non ci sono nè idee nè cose essenzialmente contrarie fra loro; giacchè tutte le idee convengono nell' essere ideale, e tutte le cose partecipano dell' essere reale, e però in quanto sono, non sono contrarie. Finalmente bramerei ch' ella facesse uso dell' edizione milanese del « Nuovo Saggio , » parendomi dal passo ch' ella cita a faccia 124 7 125, ch' ella adoperi l' edizione romana. Veramente dee essere corso errore di citazione, e però non ho potuto riscontrare il passo citato; ma ritengo che nella edizione milanese sia stampato extrasoggettiva in vece di oggettiva , giacchè sensazione oggettiva , a dir vero, non è una frase propria. Non tardo a ubbidire al suo desiderio d' avere qualche dichiarazione intorno all' opinione da me professata in quel luogo del « Nuovo Saggio , » dove dico, che niuna cosa si predica di Dio univocamente, eccetto l' essere. E prima mi compiaccio che a Lei già non sia sfuggita la ragione di quella sentenza, che privilegia l' essere così fuori di tutti gli altri predicati; poichè, com' Ella dice, qui trattasi dell' essere comunissimo ammesso da tutte le scuole, il quale non sarebbe più comunissimo, se non si applicasse sì bene all' essere necessario, come al contingente. Il che apparisce vieppiù chiaro, se si considera che l' esistenza delle cose non si conosce in alcun altro modo, che con una sola idea, quella dell' esistenza; e quest' idea dell' esistenza è quella nè più nè meno, che chiamiamo anche idea dell' essere, come ci siamo già dichiarati. O sarà egli vero che l' esistenza di Dio non si conosca coll' idea di esistenza, colla quale conosciamo l' esistenza delle cose? Se non conoscessimo l' esistenza di Dio coll' idea d' esistenza, in qual altro modo la potremmo conoscere? O non è egli evidentemente assurdo il dire che senza l' idea di esistenza conosciamo l' esistenza di Dio? Se dunque è per lo contrario manifesto, che conosciamo l' esistenza di Dio coll' idea di esistenza, e coll' idea di esistenza conosciamo pure l' esistenza delle creature; non è egli vero che predichiamo l' esistenza dell' uno e dell' altre, mediante un' identica idea? Dove si noti, che l' idea di esistenza è semplicissima, non acchiudendo alcuno dei modi dell' essere, e però non può avere che un solo e semplicissimo significato la parola che la esprime: ond' è manifestamente assurdo ch' ella possa essere equivocamente predicata di checchessia. Ogni cosa qualsiasi o è o non è, senza mezzo. Rispondere che una cosa può essere in un modo e tal' altra in un altro è non aver intesa la questione; Chè non trattasi del modo dell' essere , ma dell' essere stesso separato da tutti i suoi modi e da tutti i suoi termini; di quell' essere che noi pronunciamo, affermando che una cosa è. Voi dunque siete scotista, mi si dirà - Il dir questo sarebbe un tirare conseguenze a precipizio. Le confesso che entro assai di mala voglia nelle questioni storiche, bramando che queste sieno tenute affatto in disparte dalle filosofiche. Io amo assai più di cercare la verità in filosofia e di studiarmi di attenermi ad essa, di quello che sia d' investigare se il tale o il tal altro autore, la tale o la tal' altra scuola la tiene con me, o contro di me. D' altra parte la quistione filosofica è semplice; e i passi che si fanno in essa, se pur si fanno, possono assicurarsi per via di giusto raziocinio. La questione storica è laboriosissima e può divenire interminabile, se si tratta d' interpretare autori, che hanno scritto un gran numero di volumi nelle diverse età di loro vita, e più ancora se si tratta di sapere che cosa tiene un' intera scuola composta d' un gran numero di scrittori che si esprimono diversamente, e che molte volte fra loro stessi dividonsi. Ed è per questo che io non amo chiamarmi piuttosto scotista che tomista o con altra tale denominazione che agli occhi miei non ha un preciso valore. Tuttavia confesso, che molte ragioni mi traggono talora in quistioni che appartengono alla storia delle opinioni e delle sentenze de' grandi filosofi o teologi. Ma quando sono a ciò fare o condotto o sedotto, allora io procuro d' interpretare la mente de' grandi uomini, che sembrano battagliare fra loro, in modo da conciliarli insieme quant' è mai possibile, standomi soprattutto ferma questa persuasione nell' animo, che difficilmente i sani e sommi intelletti vanno discordi fra loro, in ciò che sicuramente affermano, più che nell' apparenza. E parmi che i tentativi da me fatti in ciò sieno riusciti così, che mi confermarono in quel mio sentire. Adunque io credo che nella questione presente « se l' essere ideale si predichi di Dio e delle creature in un modo univoco od equivoco »ci abbia tra la scuola degli scotisti e de' tomisti una facile concilazione. Io gliela proporrò ed ella ne giudichi. Primieramente è da considerare, che il predicare l' essere di Dio e delle creature è operazione della mente umana, la quale distingue il predicato dal soggetto e quindi gli accoppia insieme. Questo modo di fare viene dalla limitazione della ragione umana: chè certa cosa è, che in Dio non c' è alcuna reale distinzione tra ciò che esprime il nostro predicato e ciò che esprime il nostro soggetto. La questione dunque è tutta racchiusa nella sfera del predicare e del concepire umano. Onde se ne avessimo la soluzione affermativa, cioè se risultasse che l' uomo predica di Dio e della creatura l' essere unicamente, non ne verrebbe mica da questo che l' essere in Dio e nella creatura fosse il medesimo, ma ne verrebbe solo la conseguenza, che l' uomo per la sua limitazione predicherebbe dell' uno e dell' altro il medesimo essere, o per dir meglio, l' essere in un medesimo senso, quantunque lo stesso uomo poi sapesse che una tale predicazione è difettosa, e che la mente umana l' adopera per non averne altra. La questione dunque si riduce tutta a sapere, se quando l' uomo dice: « Esiste Iddio », e quando dice: « Esiste il mondo », egli, l' uomo, intenda di esprimere colla parola esiste la stessa cosa o una cosa diversa. Se dunque egli è certo, come dicevamo, che l' idea di esistenza non determina punto i modi della esistenza stessa, ma è l' esistenza precisa da tutti i suoi modi; è manifesto altresì, che l' uomo in quelle due proposizioni intende di predicare di Dio e delle creature l' istessa cosa, cioè la pura e nuda esistenza. Ora la differenza fra l' essere di Dio e quello delle creature riguarda il modo di essere e non l' essere puramente preso nella sua astratta universalità. L' uomo dunque, legato com' è ad un modo di concepire suo proprio, predica questo essere puro di Dio e delle creature univocamente, appunto perchè, quando dice che Iddio esiste, lascia affatto da parte la questione del modo di sua esistenza. Si opporrà che l' uomo, facendo così, erra, perchè attribuisce a Dio un' esistenza astratta, quando in Dio non c' è distinzione alcuna tra l' essere e la natura. Ma quantunque sia vero, che in Dio non ci sia distinzione alcuna fra l' essere e la natura; tuttavia non è mica vero che l' uomo erri, quando predica di Dio l' esistenza, perchè in tal caso sarebbe falsa la proposizione: « Iddio esiste », o vero « Iddio è », la quale è manifestamente vera. E che l' uomo non erri formando questa proposizione, si vede da questo. Acciocchè l' uomo errasse, egli dovrebbe negare il vero. Ma l' uomo pronunziando che « Iddio è »ovvero « esiste », non nega mica il vero, cioè non nega con questa sua proposizione, che l' essere di Dio sia identico colla sua natura, ma altro non fa, che lasciare al tutto da parte la questione di questa identità, restringendo la sua attenzione all' esistenza senza più. E` dunque quello dell' uomo un modo limitato e imperfetto di concepire le cose divine, ma non erroneo. Poichè se l' uomo stesso, dopo aver detto che « Iddio è », s' inoltra colle sue ricerche e va investigando la maniera nella quale Iddio è, arriva ben presto a trovare quest' altra proposizione: « l' essere di Dio è la stessa sua natura »; e questa proposizione non è punto contraddittoria colla prima; che anzi ne è il compimento ed il perfezionamento: il che dimostra che anche la prima è vera, benchè sia insufficiente ad esprimere la dottrina intorno all' essere divino. Ora Ella ben si accorge, che tutta questa è dottrina bellissima di S. Tommaso, e che perciò è al tutto secondo la mente dell' angelico dottore il dire, che si predica univocamente l' essere di Dio e delle creature, quando per essere s' intenda l' essere comunissimo ossia la pura esistenza, come noi intendiamo. Ella vede che la verità della proposizione « Iddio è »o « Iddio esiste », è da desumersi dal puro fatto del significato che l' uomo aggiunge alla parola è , secondo il principio dello stesso Acquinate che « ad veritatem locutionum non solum oportet considerare res significatas, sed etiam modum significandi (S. I, XXXIX, v.) » Ella vede dunque che la conciliazione fra S. Tommaso e Scoto su questo punto non è difficile. Cerchiamo di metterla ancora più in chiaro. S. Tommaso dà due significati alla parola ente: egli dice che con questa parola talora s' intende l' essenza delle cose , e in tal caso si parte ne' dieci predicamenti d' Aristotele; e talora significa un concetto formato dall' anima stessa (S. I, III, IV, ad 2, XLVIII, II ad 2, in I Sent. D. XIX, q. V a I, ad 1 e in molti altri luoghi). Dice ancora, che l' ente, preso nel primo significato, appartiene alla questione che ricerca; quid est? Ma l' ente preso nel secondo significato appartiene alla questione che ricerca; an est? (in II Sent. D. XXXIV, I, in III D. VI, q. II a II). Dunque l' essere si può predicare di Dio nel primo significato, in quanto l' essere esprime il quid est di Dio, come nella proposizione; Deus est ens; e in questo significato l' essere si predica di Dio e delle creature equivocamente, o, se vuolsi, soltanto analogicamente, onde traducendo la proposizione in italiano riuscirebbe a questa forma: « Iddio è l' ente ». Il che non potrebbe mai dirsi della creatura, della quale potrebbesi dire solamente: « la creatura è un ente ». Ma l' essere si può predicare di Dio anche nel secondo significato, in quanto l' essere esprime; an est , come nella proposizione: Deus est; e in questo significato che esprime un concetto della mente, una maniera umana ma vera di concepire, l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente. E che questa sia la vera dottrina dell' Angelico, Ella potrà rilevarlo altresì dal considerare semplicemente, che l' acutissimo nostro Dottore sostiene, che l' uomo possa benissimo conoscere; an Deus sit , ma che non possa mica conoscere positivamente; quid Deus sit , ovvero quomodo sit . Il che dimostra, che quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di pura esistenza, che è concetto e lume della mente, allora l' uomo conosce benissimo il predicato che egli dà a Dio: laddove quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di essenza, l' uomo non sa positivamente, ma solo negativamente ciò che predica di Dio. E perchè questa differenza? Certo perchè quando diciamo semplicemente che Iddio è od esiste , predichiamo di Dio l' essere che non supera l' ordine della natura, nè eccede il lume della ragione; e però è quell' essere che si pronuncia egualmente di Dio e delle cose naturali; laddove quando, predicando di Dio l' essere intendiamo di affermare la sua essenza, e non meramente la sua esistenza, allora parliamo dell' essere proprio di lui, e non comune alle creature; perciò non predicabile di queste nel senso stesso. Ella vede dunque che quando gli Scotisti sostengono che l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente, essi hanno ragione, e sono d' accordo con S. Tommaso, purchè intendano dell' essere nel significato di pura esistenza, come l' intendiamo noi. Ed è perciò che nel « Nuovo Saggio , » quando professai questa sentenza, mi sono dato cura di esprimere, che intendevo dell' essere puro senza i suoi termini, acciocchè non nascesse equivoco, o io sembrassi in ciò contraddire all' Angelico Dottore. E certo sarebbe errore gravissimo il dire, che l' essere, in quanto esprime essenza, e non semplice e pura esistenza, si predicasse univocamente di Dio e delle creature; perciocchè in tal modo l' essenza di Dio e l' essenza delle creature sarebbe la stessa, il che è quanto dire, noi cadremmo nel mostruosissimo panteismo. Affine di combattere questo errore, che corrode le moderne filosofie, io scrissi il « Nuovo Saggio »; dove, prendendo il male dalla radice, dimostrai, che il mezzo, col quale l' uomo conosce tutte le cose, è l' essere purissimo e comunissimo, il quale forma il lume della ragione umana. Quest' essere purissimo e comunissimo è appunto l' ente preso nel secondo dei due significati di S. Tommaso, esprimente, come S. Tommaso dice, un concetto della mente. Con quest' idea o concetto l' uomo afferma la semplice esistenza, e non ancora l' essenza propria delle cose. Ora poniamo che invece di stabilire questo vero datomi anche dall' esperienza interna, io avessi stabilito, che il mezzo, con cui l' uomo conosce ed afferma le cose, fosse Iddio stesso, cioè l' essere inteso nel primo significato di S. Tommaso, che esprime la natura divina: in tal caso il panteismo sarebbe stato inevitabile, poichè ogniqualvolta l' uomo avesse predicato delle cose contingenti l' essere, egli avrebbe dato la natura divina alle cose; avrebbe affermato tutte le cose esser Dio, appunto perchè avrebbe predicato univocamente di Dio e delle cose l' essere preso nel primo significato di S. Tommaso. Il che se avesse considerato attentamente il signor Abate Gioberti, non avrebbe sostituito l' intuito di Dio all' intuito dell' essere ideale ed universale, aprendo così la porta amplissima al panteismo, con tutta la buona volontà di combatterlo. Non è facile il dire con brevi parole, in che differisca la filosofia da me proposta da quella del signor Cousin. Tuttavia, lasciando quanto n' ho già detto, e che voi avrete probabilmente letto (1), noterò alcune delle principali differenze, in che le due filosofie grandemente si dispaiono. E, per avere un confine al mio dire, io mi propongo di non uscire dal libro poco fa pubblicato dal Garnier, che contiene il Corso delle Lezioni date dal signor Cousin nel 1.1., e che fu pubblicato coll' approvazione dello stesso chiarissimo professore (2). In questo libro ci sono de' brani, dove il signor Cousin compendia se stesso; i quali, raccogliendo in breve e fedelmente la sua dottrina, potranno servire di solido fondamento alle nostre osservazioni. E appunto in uno di tali sunti, che il professore fa del proprio sistema, io mi scontro alla Lezione VI; e da esso incomincerò; udiamone, senza perder tempo, le prime parole. « Noi siamo partiti dai presenti dati della coscienza umana, e colle indicazioni forniteci da tali dati, noi ci siam provati a raccapezzare l' origine di que' dati, cioè a dire lo stato primitivo dell' intelligenza. » Questo è il vero, anzi l' unico metodo di filosofare sullo spirito umano: egli è quello, a cui io mi sono sempre attenuto, e dove vi ha unanimità nelle due filosofie. La differenza fra noi non principia se non quando si viene ad applicare il metodo; e i risultamenti che se n' hanno, non poco diversano fra di loro. « Noi abbiamo fermato, continua il professore, che il primo fatto della coscienza si compone di due elementi variabili, e d' un terzo reale come gli altri due, ma invariabile, cioè a dire del ME, della natura esteriore (1), e dell' essere universale e assoluto. Noi abbiamo detto, che la filosofia si pone al punto di veduta riflesso, e comincia per conseguente dalla riflessione; ma che la vita intellettuale dell' umanità è tratta in moto dalla spontaneità, e che la spontaneità e la riflessione non contengono nè più nè meno elementi l' una che l' altra. » Ora noi siamo d' accordo in ammettere che la filosofia comincia dalla riflessione, e che alla riflessione precede una vita intellettiva spontanea. Ma già cominciamo a differire circa la natura della spontaneità , e circa il numero e la qualità degli elementi onde si vuol composto il suo oggetto. A sporre con chiarezza queste differenze è uopo che noi riprendiamo quel primo fatto della coscienza, onde il professore muove il suo ragionare. Che cosa è dunque la coscienza pel professor Cousin? Udiamo lui stesso a definircela: [...OMISSIS...] Secondo il professore dunque non si può dare alcun atto intellettivo, senza che esso abbia la coscienza di sè. La mia opinione si allontana grandemente da questa dottrina: io convengo con lui in affermare che la coscienza non è una facoltà speciale, e che ogni coscienza è un prodotto dell' attività intellettiva; ma io nego al tutto, che ciascun atto dell' intelletto involga una veduta inevitabile di se stesso, e però la coscienza di se stesso. Io dico, che la coscienza si produce in noi a due condizioni; cioè 1 a condizione che noi abbiamo un sentimento (chè per me il sentimento è sempre diverso dalla coscienza), 2 a condizione che noi facciamo un atto intellettivo, il quale abbia per oggetto quel sentimento. Se io ho un dolore, e se io penso a questo dolore, tostochè io ci penso, ho coscienza del dolore; ma se io non ci pensassi punto nè poco, avrei bensì il sentimento, non ancora la coscienza del dolore. Ma poichè è sommamente naturale nell' uomo, massime già sviluppato, che il dolore attragga subitamente a sè il pensiero, perciò si confonde assai facilmente il sentimento del dolore colla coscienza del dolore, e si crede che una cosa sia l' altra. Ne' bruti all' incontro, ne' quali non si dà pensiero , ma solo senso , può concedersi il sentimento doloroso, ma in nessuna maniera la coscienza del dolore. Quello che dissi del dolore, dicasi di ogni altra operazione umana. Qualsivoglia operazione umana, o appartenga ella all' ordine sensitivo, o a quello dell' intelligenza, involge un sentimento nell' umano soggetto che la fa; poichè l' uomo è un soggetto essenzialmente sensitivo, e ogni modificazione di un tal soggetto è sensibile. Perciò anche tutti gli atti dell' intelligenza involgono un sentimento, sebbene talora tenuissimo e non avvertibile di leggieri; ma non avviene per questo, che involgano la coscienza di se stessi. La coscienza di un atto nostro intellettivo non è dunque contemporanea all' atto stesso, ma posteriore ad esso: s' acquista, e s' acquista non col medesimo atto intellettivo che è l' oggetto della coscienza, ma con un altro atto pure intellettivo, che si volge sopra il primo. Quando io penso a' miei pensieri, allora io acquisto la coscienza de' miei pensieri; ma io posso avere de' pensieri in me, senza che io punto nè poco ci rifletta, e però senza che io m' abbia di essi coscienza. Egli parrà bene strano a noi questo fatto; ci ha la sua ragione, perchè a noi paia strano. Per altro la natura, per misteriosa che sia, è fatta così, e bisogna pigliarla come è fatta. Egli è vero che molte volte a me torna facilissimo il riflettere a' miei pensieri, e che, riflettendovi, io n' acquisto immantinente coscienza. Acciocchè io faccia ciò, basta la più lieve cagione che mi richiami sopra me stesso. Ma appunto per ciò, che questa coscienza de' proprŒ pensieri s' acquista in un istante impercettibile, s' acquista quando si voglia, purchè si voglia; appunto perciò avviene che si trascuri la distinzione fra un atto dell' intelligenza e la coscienza del medesimo atto, che tien dietro a lui così celere e a lui legasi così stretta, e che vengasi a credere falsamente, che ogni atto dell' intelligenza per sua propria natura conosca se stesso. All' incontro io ho stabilito in molti luoghi delle mie opere la proposizione direttamente contraria, cioè che « ogni atto dell' intelligenza mi fa conoscere il suo oggetto, ma è incognito a se medesimo. » Dissi, che molte volte è facile ed istantaneo l' acquistare la coscienza de' nostri pensieri e de' nostri sentimenti; ma qui devo limitare anche più questa mia affermazione. E certo, molte e molte volte sono in noi de' pensieri, sono de' sentimenti, e fin anco delle sensazioni corporee, di cui ci è difficilissimo aver coscienza. La prova di ciò si è quella sentenza, « Conosci te stesso »; che fu riputato da tutta l' antichità il più importante e il più difficile precetto della morale filosofia. Se la coscienza di tutto ciò che passa in noi, fosse sempre facile ad acquistarsi, se ogni nostro pensamento racchiudesse la coscienza di se stesso, niuno avrebbe bisogno di studiare gran fatto per discoprire a se stesso le proprie propensioni e tutto ciò che passa nella sua mente: non direbbesi che il cuore umano racchiude dei profondi secreti, che l' uomo è un mistero a se stesso: la filosofia, almeno in quella parte che riguarda l' uomo, non sarebbe più una scienza; nè potrebbe cader mai discrepanza nelle opinioni risguardanti le origini de' nostri pensieri e quelle delle nostre affezioni, la qual discrepanza pure è tanta. Ma il fatto si è, che, per aver coscienza di ciò che passa nell' intendimento nostro e nel nostro cuore, c' è bisogno assai sovente di una lunga riflessione, e non ne veniamo tuttavia a capo perfettamente. Pure quelli che acquistarono l' abito di dirigere la propria riflessione sopra di sè, quelli che più costantemente s' applicano all' esame del loro interno, trovano meglio degli altri, e ogni dì s' accorgono di qualche nuovo fenomeno, di qualche nuovo pensiero, di qualche nuova legge del proprio sentire e del proprio pensare, di cui prima non avean preso sentore. Ora, se fa bisogno tanta attenzione e tanta riflessione sopra di noi, a renderci consapevoli di quanto ci passa nella mente e nel cuore, non è dunque vero, che la ragione per la quale la coscienza nostra è spesso vaga e indeterminata, sia, perchè, come vuole il signor Cousin, l' attività stessa intellettuale è indeterminata e vaga; e che ogni qualvolta l' azione dell' intelligenza è chiara e precisa, n' è pure precisa e chiara la coscienza. Questo è un errore, che viene dal precedente. L' uomo, cominciando a ragionare, muove dallo stato in cui si trova. Egli comincia a riflettere sopra di sè. E queste prime riflessioni gli danno una coscienza ancora indeterminata e vaga dei proprŒ pensieri. Da questo egli tosto conchiude, che i suoi pensieri sono vaghi e indeterminati. Ma questa conclusione è sbagliata. Egli prende la coscienza de' suoi pensieri pe' pensieri stessi: egli prende la coscienza dello stato della sua intelligenza, per lo stato medesimo dell' intelligenza. E un tale sbaglio gli è ben naturale; chè l' uomo non conosce i proprŒ pensieri, se non per la coscienza de' medesimi, ottenuta mediante riflessione. Egli parla dunque de' pensieri, solamente in quanto gli sono noti mediante la coscienza ch' egli ne ha. Ora se la riflessione è imperfetta, la coscienza di que' pensieri rimansi imperfetta, vaga, indeterminata; conchiude dunque, che i suoi pensieri realmente sono vaghi e indeterminati. Ma porti quest' uomo più oltre le sue riflessioni: continui a meditare sopra i proprŒ pensieri: egli ci vede quello che prima non ci vedea: ci trova un ordine: ci trova delle leggi: vede che gli uni nascono dagli altri, alcuni esser derivati, altri primitivi: segna le differenze fra loro, le differenze degli oggetti stessi de' pensieri. Tutti questi studŒ sopra qual libro li fece egli un tal uomo? Sopra se stesso, sopra la pagina scritta, per così dire, della propria mente. Se ci ha osservate tante cose, se ci ha trovato un ordine così distinto, così preciso, così luminoso, potea trovarcelo egli, se non ci fosse stato? Dunque c' era già ne' suoi pensieri primitivi tutto ciò che ci ha poscia trovato colla riflessione; c' era certamente; ma tutto ciò era privo di coscienza, appunto perchè non era sopravvenuta la riflessione a formare la coscienza. E bene, quest' uomo, dopo aver tanto riflettuto sopra se stesso, dopo essere stato sì a lungo spettatore di ciò che passa nell' anima sua, che cosa dice? che conchiude? Ora sì, dice egli a se medesimo, io ho chiariti i miei pensieri: la mia intelligenza si è resa determinata e precisa; ed è perciò, che anche la mia coscienza di essa è piena di lume e di precisione. Quest' ultima conclusione ch' egli ne tira, è lo stesso sbaglio ch' egli commise quando giudicò i suoi pensieri oscuri, perchè oscura ne avea la coscienza. La coscienza non si è resa chiara perchè i suoi pensieri si sieno chiariti e distinti: i pensieri anteriori alla coscienza erano già distinti e chiari altrettanto quanto dopo la formazione di essa; ma la loro distinzione, la loro chiarezza non era passata ancora nella coscienza, e però non era avvertita dall' uomo, il quale, non avvertendola, la negava. Dunque, se quest' uomo voglia considerare che tutta quella chiarezza e quella luce, che dice d' aver guadagnato, non è che l' effetto dell' attenzione e della riflession sua posta sui primi suoi pensieri, egli si accorgerà facilmente, che la luce era precedente alla sua coscienza, sebbene egli non se ne potea accorgere prima che la coscienza stessa se ne fosse formata. Così colui che volge gli occhi alla chiarezza del sole, non giudica temerariamente, se dice che il sole esisteva prima che fosse da lui riguardato: e a chi gli dimandasse: « Come potete sapere che il sole sia prima di quell' istante nel quale voi lo vedeste, quando prima di quell' istante voi non l' avete veduto? »: può rispondere ragionevolmente: « Io so che il sole è precedente all' atto con cui io lo vidi, non perchè io prima il vedessi, ma per la natura di quest' atto stesso, che suppone precedente il sole, giacchè non si può vedere ciò che non è ». Concludiamo circa la dottrina intorno alla coscienza: le differenze fra il signor Cousin e me sono due: 1 Egli suppone, ciò che non prova, che l' attività intellettuale involga seco inevitabilmente la coscienza; quando io dico che l' attività intellettuale, come ogni altra attività umana, involge bensì un sentimento , ma non la coscienza . 2 Egli dice che i gradi d' indeterminato e di vago che ha la coscienza de' nostri pensieri, dipendono unicamente dall' indeterminato e dal vago che hanno i nostri pensieri; là dove io dico, che la chiarezza e la determinazione di quelli e di questa dipendono da cagioni al tutto diverse; dico che i pensieri anteriori alla coscienza possono essere chiari e distintissimi, e questa tuttavia esser vaga, indistinta e fin anche nulla; e che la chiarezza e la distinzione della coscienza si vanno aumentando mediante l' opera della riflessione, quando i pensieri primitivi non dipendono dalla riflessione, ma dalla intelligenza spontanea, o diretta. Il signor Cousin sembra venire con noi, là dove definisce la coscienza così « « La vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, costituisce ciò che si chiama coscienza »(1) » Questo è appunto ciò che diciamo noi: da cui ne induciamo la conseguenza, che dunque la coscienza non c' è, prima che la vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, la costituisca. Ma con una contraddizione egli ne deduce in quella vece tutto l' opposto, continuandosi a dire così: « « Come questa vita è doppia, si può dire che ci abbiano due coscienze, la coscienza spontanea e la coscienza volontaria e riflessa »(2). » Ora noi con sua buona pace replichiamo, che se ciò che costituisce la coscienza è il raddoppiamento della vita intellettuale sopra di sè, com' egli stesso afferma; a costituire due coscienze sarebbe bisogno non già solo una doppia vita, ma un doppio raddoppiamento della vita, e perciò una quadruplice vita. Ma io voglio spingere più avanti questa osservazione; voglio mostrare, come questo primo errore intorno la coscienza ne conduca dietro a sè necessariamente degli altri: e tanta è la forza dell' errore, tanta è la violenza che esercita negl' ingegni più conseguenti, che li trascina ove vuole, che li caccia anche là dov' essi meno bramerebbero di pervenire. Quale spettacolo più strano, che il vedere il signor Cousin ritornato Condillachiano? So bene, che al solo annunziare una cosa simigliante, ciascuno esclama al paradosso; ma per dirlo di nuovo, a quali passi un error solo non sa condurre la mente d' un filosofo? Consideriamo bene l' errore del signor Cousin da noi accennato; consiste nel confondere due elementi in uno solo, cioè il sentimento colla coscienza . Il signor Cousin vide che ogni atto intellettivo involge un sentimento; dunque, conchiuse, non si dà un atto intellettivo senza la coscienza di sè; dunque ci sarà una coscienza spontanea e una coscienza riflessa, come ci sono degli atti intellettivi spontanei e degli atti intellettivi riflessi: questo è l' error primo. Ma se il sentimento si confonde colla coscienza , la conseguenza è irrepugnabile: dappertutto dove c' è sentimento, ci sarà coscienza. Dunque anche nella sensazione animale ci sarà coscienza. Ma la coscienza appartiene alla vita intellettiva, anzi è un raddoppiamento della vita intellettiva; dunque anche nella sensazione animale ci sarà vita intellettiva, ci sarà un raddoppiamento di vita intellettiva. Non siamo noi arrivati sul territorio di Condillac? Che cosa è il Condillachismo nel suo fondo, se non il sistema che confonde il sentire coll' intendere ? o che se non li confonde, non li distingue essenzialmente? Che cos' è, se non il sistema che dà allo stesso senso corporeo il potere di giudicare? Abbiamo dunque detto una cosa troppo lontana dal vero, quando abbiamo paragonato Cousin a Condillac? Il professore di Parigi non si fa indietro da tutte le accennate conseguenze, anzi le confessa, le riceve espressamente: udiamo le sue proprie parole: « « La sensazione è ella l' impressione organica? Non contiene ella un elemento intellettivo? »(1). » Ecco fatto entrare nella stessa essenza del sentire un principio, che appartiene all' intelletto: proseguiamo: « « Se non ci fosse stato movimento organico, senza dubbio non ci avrebbe nè piacere nè dolore; ma se il ME non pigliasse cognizione di questo movimento, il piacere e il dolore non esisterebbe »(2). » Ecco come il professor di Parigi, non diversamente dal Condillac, insegna, che non si dà nè piacere nè dolore senza cognizione. Di che viene il conseguente, che anche alle bestie è uopo dare intelletto, quando non voglia adunarsi co' Cartesiani, facendole macchine. Continua ancora: « « Egli è dunque mestieri che il fenomeno passivo dell' irritazione organica faccia giocare l' attività del ME, in altre parole svegli la coscienza , acciocchè si produca la sensazione »(1). » Ecco come coscienza e sensazione o è il medesimo, o almeno sono indivisamente associate, di guisa che la sensazione non si può produrre senza la coscienza, a malgrado che il professore abbia dichiarato, che la coscienza appartiene alla vita intellettiva. Di più ancora (s' oda bene, non è il Condillac che parla, ma il Cousin): « « Conoscere è giudicare; e come sentire è conoscere che si sente, così sentire può dirsi che sia giudicare »(2). » E se vogliasi udire il Cousin divenuto più condillachiano di Condillac medesimo, continuiamo tuttavia: « « Il giudizio è l' elemento intellettuale della sensazione; e non è un giudizio solo, ma molti che figurano nel fenomeno sensibile; io potrei mostrare che non ci ha sensazione senza un giudizio sul tempo, sulla sostanza, sullo spazio, sulla causa, ecc. »(3). » La confusione, cioè l' assorbimento de' due elementi è completo; tutto ciò che si trova nell' intelletto di più sublime, avvi già precedentemente, secondo il professore, nel fenomeno della sensazione. Il Condillac non è mai stato tanto sensista: poichè sebbene attribuisca tutto alla sensazione, tuttavia non seppe riconoscere così espressamente nella sensazione le più nobili parti della intelligenza: il Cousin fece una più piena indagine di questa sublime facoltà, innalzonne i pregi fino alle stelle, ma tutto ciò per farne poi un omaggio, un sacrifizio al fenomeno della sensazione corporea! Dopo di ciò, non ci sarà più difficile a formarci il concetto di quella facoltà che il signor Cousin appella spontaneità . Essa non può esser per lui, se non quell' attività del ME, che viene tratta in movimento dall' irritazione organica, e che così produce la sensazione , quella sensazione che si confonde colla coscienza, e che chiude nel suo seno i giudizŒ intorno al tempo, alla sostanza, allo spazio, alla causa e a tutte l' altre categorie. Sicchè dopo aver parlato della sensazione, dopo aver detto che sentire è giudicare di tutte queste cose, conchiude: [...OMISSIS...] Che cosa dunque è a dirsi? Che tutta la differenza fra quelli che si chiamavano sensisti ed il signor Cousin consisterà in questo, che per quelli la sensazione è un fatto passivo , quando per il signor Cousin è un fatto attivo (2). Se abbiano ragione i primi o il secondo in questa questione, o se forse agli uni e all' altro manchi qualche cosa, io non vo' qui ricercare; ben dico, che i così detti sensisti, sotto le antiche forme, ed il signor Cousin convengono finalmente in questo, di riconoscere la sensazione corporea come il principio di tutta l' umana cognizione e di tutta l' umana intelligenza. Che se questa parola, sensista , segna un filosofo che riduce tutta l' umana conoscenza alla sensazione, non so come questo stesso nome non appartenga al signor Cousin; chè egli non ha già tolto via a questa maniera il principio del sensismo, ma solo modificatolo, vestitolo di nuove forme più ricche e maestose; non ha stabilito un principio del conoscere diverso da quello del sentire; ma riducendo ogni cosa al principio del sentire, s' è contentato di osservare, che il sentire procede dall' attività del ME, e che non è un fenomeno meramente passivo. Coscienza adunque e sensazione, sensazione e intelligenza si confondono nel sistema del signor Cousin, e la spontaneità per lui non è che il principio della sensazione, e perciò della cognizione, principio attivo, che somministra tutti i dati sopra i quali poi si rivolge e lavora la riflessione. Ma qui, dopo che noi abbiamo raffrontato il signor Cousin al Condillac, possiamo medesimamente avvicinarlo al Cartesio. Il Condillac comincia dal sentire , e il Cousin pure comincia dal sentire. Il Cartesio all' incontro comincia dal pensare: « « Io penso; dunque esisto. » » Ma il Cousin non ricusa; si accompagna tosto con Renato Cartesio: e gli è tanto più facile, quanto che se n' è già preparata la strada, dicendo, che nel sentire c' è il pensare , che chi sente giudica, e giudica del tempo, della sostanza, dello spazio, della causa, ec.. Il Cartesio non dimanda pur tanto; ma a fine di non perdere una sì buona compagnia com' è quella del Cartesio, il signor Cousin riterrà anche un poco i suoi passi, e si comporrà con lui. Udiamolo: [...OMISSIS...] Riceve dunque il signor Cousin per buono il principio di partenza cartesiano, cioè il giudizio , senza aver bisogno per questo di rinunziare al principio di partenza de' sensisti, ciò è la sensazione: poichè nel seno della sensazione egli colloca il giudizio, imitando il Condillac. Solamente che a questo giudizio sensitivo trova di dovere attribuire assai più che non facesse il Condillac medesimo, cominciando il movimento dello spirito umano pel Cousin da un giudizio assai più complicato che non fosse quello del Cartesio. L' editore delle sue lezioni, Garnier, così espone il pensiero di lui: « « Il professore mostra che le idee ci vengono simultaneamente e in correlazione le une colle altre, e che così il giudizio trovasi al cominciamento delle operazioni intellettive »(2). » Questo sistema de' correlativi è quello che in Germania si chiama sintetismo; e il professor Cousin cel fa diventare uno sviluppo del principio del Condillac. Dopo di tutto ciò, voi stesso direte quanto da queste sentenze del signor Cousin si allontani la mia maniera di pensare. Io non riconosco nella sensazione corporea alcun elemento intellettivo; e l' anello che unisce i due ordini della sensazione e della intelligenza per me non è che il soggetto unico, e ad un tempo sensitivo ed intellettivo. L' unità del soggetto , cioè l' unità del ME, è il ponte di comunicazione, se volete che così mi esprima, fra il mondo dell' intelligenza e quello de' sensi. Ma sentire ed intendere rimangono sempre nella mia filosofia due essenze separate, com' è separato l' essere reale e l' essere ideale , quantunque la realità e l' idealità siano forme fra loro incomunicabili d' un medesimo essere. Quanto poi alla spontaneità , questa parola per me non esprime una facoltà, ma un modo di operare delle facoltà. Questo modo spontaneo può appartenere tanto alle facoltà sensitive, quanto alle facoltà intellettive, ed è il contrario del violento. Quando noi operiamo senza un motivo preconcepito e predeterminato, diciamo di operare spontaneamente: la nostra natura è quella che opera; l' attività di questa natura o è attuata da una legge intrinseca costitutiva di lei, come avviene in quello che noi sogliamo chiamare sentimento fondamentale e nell' intuizione primitiva dell' essere ; ovvero è invitata all' atto da qualche esteriore cagione, come avviene nelle sensazioni acquisite, e ne' primi pensieri che costituiscono quella che noi chiamiamo cognizione diretta . Nell' uno e nell' altro caso c' è la spontaneità , cioè l' operare spontaneo della natura umana. Distinguiamo dunque due spontaneità; l' una originaria , e costituisce l' atto immanente del soggetto sensitivo e intellettivo, col qual atto questo soggetto è posto; l' altra avventizia , e sempre parziale, che muove i primi passi dell' umano sviluppamento. Di più, tanto la spontaneità originaria, quanto l' avventizia, è sensitiva e intellettiva; chè così il senso, come l' intendimento, hanno spesso un movimento spontaneo, date le condizioni richieste. Pel professore Cousin all' incontro, non c' è che una spontaneità sola, sensitiva per essenza e insieme necessariamente intellettiva, e questa spontaneità non ha alcun atto originario e immanente, ma opera all' occasione dell' irritazione organica, non senza somiglianza all' operare della statua del Condillac. Era necessario di premettersi tutto questo, a spiegare chiaramente che cosa voglia dire il signor Cousin, quando nomina il primo fatto della coscienza . Noi dobbiamo ora parlar di proposito di questo primo fatto della coscienza: dobbiamo vedere come egli lo trova, questo primo fatto, come lo analizza, e se giustifica bene tutte le cose che afferma contenersi in esso. Già l' ho detto: egli arriva al primo fatto della coscienza spontanea, partendo dal punto di vista riflesso. Ma come dalla riflessione discende egli al fatto della coscienza spontanea? Come giustifica questo passaggio? Lo giustifica appoggiandosi al seguente ragionamento: Avanti la riflessione « « c' è la vita umana, la vita non distinta, oscura, spontanea. La riflessione presuppone l' esistenza d' un oggetto sul quale ella cade, e che per conseguente è anteriore. - Così lo stato primitivo dell' intelligenza non contiene niente di più dello stato attuale, ma nè anche contiene niente di meno »(1). » Ed è verissimo, che la riflessione non potrebbe operare se non avesse un oggetto sul quale rivolgersi, e che quest' oggetto dee essere in noi precedente a quell' atto della riflessione; ma ne viene forse, che la riflessione possa cogliere tutto ciò che c' è in noi di precedente ad essa? non possono rimanere in noi delle cose che spesso sfuggono alla nostra riflessione? Se ciò può essere (ed ognuno può attestarlo, per poco che consideri come avvengano le cose in se medesimo), non è dunque vero che nell' ordine della riflessione debba trovarsi tutto ciò che c' è nello stato primitivo, e niente di meno. In secondo luogo, quando io rifletto sopra di me medesimo, cioè sopra i miei pensieri e sopra le mie affezioni, non è mica necessario che gli oggetti, a cui volgo la riflessione, si trovino tutti nello stato primitivo della mia mente; poichè questi oggetti, a cui io rifletto, possono essere essi stessi prodotti da altre riflessioni. Non conviene dunque parlare d' uno stato di riflessione solo; chè ci hanno diversi stati riflessi della nostra mente, come ci hanno diversi ordini di riflessioni. Egli è dunque solamente vero questo, che nel primo ordine di riflessione, prossimo all' ordine della cognizione diretta e spontanea, non ci può esser niente di nuovo, che precedentemente non si trovi in essa cognizione primitiva o diretta; senza però che si possa dire il medesimo degli altri ordini superiori di riflessione; posciachè gli oggetti di queste riflessioni ulteriori sono in gran parte anch' essi delle cognizioni già riflesse. Questa avvertenza dimostra che per conoscere ciò che appartenga allo stato primitivo, non si può partire dal principio, che tutto ciò che abbiamo nello stato presente della mente nostra sia contenuto nello stato primitivo; perchè lo stato nostro presente è il prodotto d' un gran numero di riflessioni. In terzo luogo, a qual condizione si può egli passare dallo stato presente di riflessione allo stato primitivo? Il signor Cousin dice, che noi possiamo passarvi, a condizione di far uso delle induzioni logiche le più legittime. [...OMISSIS...] Ma qui il professore si avvolge manifestamente in un circolo. Poichè a qual fine cerca egli il fatto spontaneo? Al fine di cominciare da esso la filosofia: e però al fine d' indurre da esso anche le regole logiche. L' abbiamo già innanzi udito accordare a Cartesio, che il principio di contraddizione, il primo di tutti i principŒ logici, è posteriore alla percezione dell' IO; e che: l' IO penso, dunque esisto, non suppone prima la proposizione generale: Tutto ciò che pensa, esiste ». Ora come dunque per trovare e raggiungere il fatto spontaneo, ricorre poi alle regole logiche e ne fa uso come fossero già trovate? Da una parte, egli fa partire la filosofia dal fatto spontaneo, perchè, dice, « « non si tratta più oggidì di porre degli assiomi e delle formole logiche, di cui non si verificò ancora la legittimità e di produrre, componendole insieme, una filosofia nominale; bisogna partire dalle realità stesse »(1) » dall' altra parte, per arrivare alle realità, egli non ha più scrupolo di passare per le regole logiche. Egli è bensì vero, che il signor Cousin immediatamente parte dalla realità del pensiero riflesso; ma ciò fa unicamente per arrivare col mezzo di logiche induzioni alla realità del pensiero spontaneo: ed è in questa realità del pensiero spontaneo, che pone il fondamento delle regole logiche e la legittimità delle logiche induzioni! Non è questo un circolo manifesto? All' incontro, voi potrete, esaminando il sistema da me proposto, convincervi, ch' esso non involge mai somiglianti petizioni di principŒ, da cui non so veramente qual altro sistema vada interamente esente. Finalmente, è vero che il signor Cousin nomina spesso fatto spontaneo, stato primitivo, ecc.; ma egli poi non si cura di darcene una descrizione diligente e determinata. Quindi riman difficile il conoscere che cosa intenda precisamente colla espressione di stato primitivo. Se si considera che stato primitivo è per lui lo stato della spontaneità, e che la sua spontaneità è l' opposto della riflessione, conchiuderebbesi che il suo stato primitivo fosse quello in cui la mente umana si trova prima di ogni riflessione. Ma primieramente lo stato della mente anteriore al movimento della riflessione, non è mica uno stato unico e semplice, ma uno stato vario e molteplice; giacchè l' uomo può fare più e meno degli atti diretti colle sue facoltà, prima ancora che sopravvenga nessuna riflessione. Converrebbe dunque sapere, se l' analisi del signor Cousin cada sopra ciascun atto spontaneo, ovvero se cada sopra il complesso degli atti spontanei, che possono precedere la riflessione. In questo secondo caso, l' oggetto da analizzarsi è vago e molteplice, come dicevo; nè ci si può applicare l' analisi, prima di determinarlo. Se poi intende di parlare di ciascun atto spontaneo, ell' è manifesta l' improprietà di chiamare stato primitivo un atto; conciossiachè un atto non è uno stato . Ma via, lasciando l' improprietà della parola, il contesto dimostra bene, che trattasi di analizzare un atto della spontaneità, e non uno stato . Ora a raggiungere questo atto che si dee analizzare, si pretende di pervenire mediante induzioni logiche. Abbiamo notato, che un filosofo che vuol dedurre dall' analisi del fatto spontaneo le stesse regole logiche, non ha diritto a questo passaggio, non potendo usare di quelle regole che ancora non ha dedotto; ma il professore non si contenta d' usurparsi questo diritto, non è pago di passare dalla riflessione all' atto della spontaneità, pretende di più di passare anco dall' atto spontaneo allo stato dell' uomo anteriore a quest' atto. Io credo che molto più difficile gli sarà il legittimare questo secondo passaggio, che non il primo. E in fatto, io non trovo ch' egli in niun luogo s' adoperi a rigorosamente dimostrare, come dovrebbe, la possibilità e la legittimità di un tal passaggio; ma trovo anzi, che colla più grande confidenza mette avanti alcune affermazioni generali, e, com' elle fossero indubitabili e non bisognose di prove, ci fabbrica sopra quello che più gli piace. Una di queste affermazioni gratuite è la definizione della vita intellettiva , tratta dalla definizione della vita organica; dove si vede, per dirlo di nuovo, la base sensistica del sistema di questo filosofo, che tanto si piace delle frasi platoniche. Si oda attentamente tutto il brano, al quale noi facciamo allusione. [...OMISSIS...] In questo brano dunque il signor Cousin non contento di esser passato dallo stato di riflessione allo stato spontaneo, ci assicura di conoscere anche lo stato dell' uomo che ha preceduto lo stato spontaneo. Ci assicura che l' uomo, nello stato in cui fu per lungo tempo innanzi alla spontaneità, era un essere fisiologico e nulla più; la sua vita era per lungo tempo non diversa dalla vita del mondo; i suoi movimenti erano quelli della natura materiale; il mondo non era per lui se non in quel modo che è per la pianta! Ci sia permesso di fare qui un' osservazione su questo sistema eclettico . Il signor Cousin distingue tre stati nell' uomo: 1 lo stato anteriore alla spontaneità, 2 lo stato spontaneo, 3 lo stato riflesso. Se il signor Cousin parla dello stato anteriore alla spontaneità, egli applica all' uomo le frasi stesse che gli applicano i materialisti . Se egli parla dello stato spontaneo, e del principio della vita intellettiva, egli applica all' uomo le frasi colle quali ne parlano i sensisti . Se poi parla dello stato riflesso , o anche se fa l' analisi del fatto spontaneo, egli adopera la lingua di Cartesio e di Platone. Io stimo che sarebbe troppo difficile al signor Cousin evitare la taccia di quel sincretismo , che è certamente diverso dall' eclettismo , sebbene da questo non sia difficile lo sdrucciolo a quello. Ma lasciando ciò, io torno a dire che tutto il ragionamento del signor Cousin intorno allo stato dell' uomo anteriore alla spontaneità e intorno alla natura della vita intellettiva, è interamente gratuito. Questo solo esser gratuito è motivo sufficiente a doversi logicamente rigettare perchè mancano appunto quelle induzioni logiche a cui si appella. Che se bramate di più, lo potete vedere nel « Nuovo Saggio , » e negli altri miei scritti filosofici direttamente combattuto. L' errore principale consiste nella confusione delle due vite sensitiva e intellettiva . Io lascio da parte la vita della natura materiale e quella della pianta, che supponendosi del tutto insensitiva non merita il nome di vita. Ora quanto alla vita sensitiva, egli è vero che in essa trovasi una specie di lotta e di opposizione. Se dunque si confonde con essa la vita intellettiva, cadesi di necessità nell' errore di trovare una lotta anche intellettiva. Il sensismo dunque di Cousin, cioè la confusione della sensitività coll' intelligenza, è la base erronea su cui fabbrica l' ipotesi d' uno stato puramente fisiologico dell' uomo anteriore alla spontaneità, stato privo non solo d' intelligenza, ma ancora di sensazione, come quel della pianta, nel quale il signor Cousin afferma che passi e si agiti lungo tempo l' UOMO! Voi sapete, che, secondo il mio sistema, l' essenza dell' uomo è riposta nel sentimento che chiamo fondamentale, e che come non ci fu mai tempo in cui l' uomo non sentisse, dopo che fu generato, così non ci fu mai tempo in cui non avesse la vita intellettiva, fatta da me consistere nell' intuizione immanente dell' essere. Nel sistema del signor Cousin supponesi (poichè siamo sempre nel regno delle supposizioni ), che dopo essere stato generato l' uomo, ed esser vissuto lungamente della vita della materia (cioè della vita di ciò che non ha vita); dopo essere stato lungamente privo di senso come la pianta, e per ciò stesso privo del ME (che è quanto dire privo di SE` stesso!), finalmente fosse sonata un' ora, un' ora da vero solenne, in cui quest' uomo tolse a muoversi del proprio movimento, a porre se stesso, ad opporsi alla natura. Se questo fatto fosse vero, sarebbe l' avvenimento il più nuovo e il più straordinario che si potesse concepire; e per dare a credere un avvenimento così nuovo, così straordinario, converrebbe (in mancanza di testimonŒ oculari) addurre almeno una ragione del perchè l' uomo, dopo essersi agitato lungamente nel seno dell' universo senza conoscerlo, si sia risoluto a muoversi del proprio movimento, e a porre se stesso. Che almeno di un fatto così portentoso ci sia mostrata la possibilità; che almeno ci sia espresso con maniere di dire sì chiare da poter noi concepirlo. Da vero che questo non s' è fatto. Dicesi che quest' uomo senza senso si è agitato lungamente nell' universo: ma se il senso non c' è, non può intendersi che d' una agitazione di particelle materiali: e se qui si tratta unicamente di un' agitazione di particelle materiali, non trattasi adunque più dell' agitazione di un uomo, quando non vogliasi dire che delle particelle materiali siano un uomo. In tal caso resta a vedere come queste particelle materiali, dopo essersi agitate senza sentirsi e senza conoscersi, finalmente si sieno risolute di moversi del loro proprio movimento; e come commovendosi del loro proprio movimento, sieno diventate ad un tempo senzienti ed intelligenti . Nè pure è chiara ed atta a concepirsi quella frase, che « l' uomo abbia mosso se stesso », quando se stesso ancora non era, poichè il SE` di quest' uomo è pronome personale altrettanto quanto il ME, il qual ME si dice che non era ancora in quell' uomo, ma che cominciò ad esistere col movimento e col combattimento contro la natura. Moversi, combattere , ed altrettali vocaboli metaforici non s' intendono, se non si suppone un ME che si muove e che combatte; e in questo caso la vita sta nel ME e non nel moto, o nel combattimento di un ME che fosse morto. Tutte queste frasi dunque involgono seco assurdi manifesti, e però non sono concepibili. Ora egli è ben evidente, che una dottrina filosofica prima di tutto dee esser atta a concepirsi, e poscia dee esser provata; due condizioni che mancano alla filosofia del signor Cousin. Ma egli è uopo, che, dopo aver noi parlato dello stato dell' uomo supposto dal signor Cousin anteriore alla spontaneità, ci fermiamo a udire la descrizione che egli ci dà dello stato spontaneo, detto da lui anche stato primitivo . « « Da prima, dice, il ME per la sua natural forza compie un atto ch' egli non ha nè preveduto, nè voluto; e in quest' atto il ME non può non appercepire se stesso, ma egli si trova senza cercarsi »(1). » Da queste parole vedesi, che l' atto spontaneo è un atto del ME: il ME agisce per la forza sua naturale (or non si sa come stia tanto tempo senza agire, se la forza gli è naturale), e agendo trova se stesso senza cercarsi. Il ME dunque esisteva prima di agire, poichè non avrebbe potuto agire se non fosse esistito; non avrebbe potuto trovarsi, se non fosse stato. Come dunque farà il signor Cousin a conciliarsi seco stesso, a conciliare queste sue parole con quelle altre, nelle quali insegnò che l' uomo prima di agire sta per lungo tempo nella condizion della pianta, « « e che il ME non esiste che pel combattimento, cioè per l' atto con cui oppone la natura a se stesso? »(1) » Seguita a descrivere l' atto della spontaneità: « « Il ME, trovando se stesso, trova anche la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguente la natura esteriore, ch' egli reputa NON7ME; ed egli appercepisce il ME e il NON7ME come limitantisi mutuamente: in fine travede un essere nel quale il suo pensiero s' affonda, senza trovarvi limite »(2) » Qui il signor Cousin ha bisogno di nuove conciliazioni con se stesso. Dice che il ME trova la sensazione; dunque la sensazione esisteva prima dell' atto spontaneo: come dunque dice altrove, che l' uomo prima di quest' atto non sente, e che fa bisogno « « che si svegli la coscienza (propria dell' ordine intellettuale) acciocchè la sensazione si produca? »(3) » Dice che il ME trova la sensazione, ch' egli non ha fatta: come dunque s' accorda con ciò che dice altrove, che « « la sensazione stessa è un fatto attivo? »(4) » Come l' attribuisce alla forza attiva del ME, dichiarando fin anco, che è uopo che ci abbia cognizione, acciocchè ci abbia sensazione, piacere, dolore? (5) Di più, il ME agisce; il ME si trova; il ME trova la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguenza trova la natura esteriore. Ma se trova la natura esteriore per conseguenza , dunque la deduce per ragionamento; la trova perchè egli trova la sensazione che non ha fatta; e perchè non l' ha fatta, giudica che la natura esteriore è NON7ME. Ora questo è un ragionamento: qui si dà successione; si danno principŒ, induzioni, conseguenze. Non è dunque vero che quest' atto della spontaneità sia un atto solo, ma egli si compone d' una successione di atti parte sensitivi e parte intellettivi. Questi atti si succederanno rapidamente quanto si voglia; alcuni di essi coesisteranno; ma egli sarà sempre proprio del filosofo il distinguerli accuratamente, il separare i primi dai secondi e dai terzi, e non farne un atto solo, come pretende il signor Cousin. E non è egli medesimo che dice: « « L' idea della causa ME precede l' idea della causa NON7ME; poichè niente precede l' idea del ME: ella è il centro, onde tutte l' altre sono raggi? »(6) » Se dunque le altre idee sono raggi che escono dall' idea del ME come da centro, devono essere a quella posteriori. Di più, io vedo bene, come non vi possano essere i raggi se non vi è il centro; ma io posso concepire, in qualche modo, il centro senza i raggi. Non è dunque vero che l' idea del ME e del NON7ME siano al tutto correlative. Io accordo che una correlazione si trovi, ove si consideri il ME semplicemente come il principio della sensitività animale; ma nego ch' ella si trovi nel ME considerato come un essere intelligente: anche questo errore dunque del signor Cousin nasce a lui dall' aver adunate insieme la sensitività e l' intelligenza , e parlato di questa colle frasi che non convengono che a quella sola. Per altro ripeto, che la mente del signor Cousin non essendo fatta per radere il terreno co' sensisti, se il fa talora, è costretto di espiare il fallo con una felice contraddizione. Tale io stimo esser quella dove, dopo aver analizzato il fatto della spontaneità come fosse un atto solo, avvolgente tre idee correlative, fa poi che queste idee sieno figlie di tre facoltà diverse, quasichè se sono diverse tra loro le facoltà che a quell' atto concorrono, non sia per sè evidente, che non trattasi più d' un atto solo, ma di molti specificamente distinti e aventi un ordine fra essi (1). Egli è appunto quest' ordine che hanno tra loro i fatti primitivi dello sviluppo umano, che gli sarebbe bisognato attentamente considerare, e che l' avrebbe potuto guardare da molti sbagli: ne accennerò uno de' più importanti. Avendo egli confusi questi atti diversi in un atto solo avente un triplice oggetto, cioè il ME, la natura e l' infinito, egli ne trasse per conseguenza, che niuno di questi oggetti potea stare senza gli altri due. Veramente tale conseguenza non sarebbe stata neppure necessaria, quand' anche quei tre oggetti fossero contemporanei, e condizioni all' atto della spontaneità. Ma riprenderemo poscia questo mancamento logico: or ci basti di far osservare l' errore. Consideriamolo nelle sue stesse parole. « « L' appercezione di quest' ultimo termine (cioè dell' infinito) rende sola possibile l' appercezione del finito, come alla sua volta la veduta del finito è la condizione indispensabile della veduta dell' infinito. - Ogni fatto intellettuale riflesso può dunque esporsi sotto questa formola: Non si dà finito senza infinito, e reciprocamente; e nel seno del finito non si dà ME senza il NON7ME, e non si dà il NON7ME senza il ME: tale è il cominciamento e la fine della vita filosofica »(1) » Questi tre elementi trovati nell' atto riflesso, li pone anche nell' atto spontaneo, e dal trovarsi uniti nel pensiero, com' egli crede, passa ad una conclusione ontologica, affermando che sono indivisamente congiunti anche in se stessi. Quindi l' immenso errore che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere, il necessario del contingente, la sostanza dell' accidente, ec.. « « Noi abbiamo veduto, dice, che la causa suppone la sostanza , e che la sostanza non ci è manifestata che per l' accidente. La loro apparizione nella coscienza è dunque simultanea, e la loro simultaneità nella coscienza non è che il riflesso della loro coesistenza reale al di fuori di noi: in effetto, se la causalità suppone l' essere, l' essere alla sua volta non esiste che a condizione d' agire, cioè a dire d' esser causa. Così, tanto in ontologia, quanto in psicologia, l' essere e la causa sono inseparabili, poichè l' accidente o il modo implica l' intervenzion della causa, ed egli è impossibile di concepire o l' accidente senza l' essere, o l' essere senza l' accidente »(2) » Ma qui primieramente ci ha un salto mortale dall' ordine psicologico all' ordine ontologico . Dall' essere due cose nella nostra coscienza simultanee, non si può inferire logicamente, che sieno simultanee anche in fatto. « La loro simultaneità nella coscienza, dice il professore, non è che il riflesso della loro coesistenza reale fuori di noi. »Questa parola riflesso è una metafora e non più: e una metafora non ha valore in filosofia. Perchè l' argomentazione del signor Cousin fosse efficace, essa non dovrebbe essere appoggiata sul semplice fatto della simultaneità di quelle due idee nella nostra coscienza (fatto d' altra parte non provato), ma dovrebbe avere per sostegno la necessità logica, cioè dovrebbe dimostrarsi che il concetto dell' infinito racchiude o più tosto chiama od esige come correlativo il concetto del finito . Ora primieramente il signor Cousin non ha diritto di usare delle regole logiche, pretendendo egli di dedurle da fatti reali. Perciò non può, senza petizione di principio, ammetterle già in principio della sua filosofia. In secondo luogo, egli potrà provare bensì che il finito ha bisogno dell' infinito per essere concepito; ma in niuna maniera potrà logicamente provare che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere. Se mi dirà che l' uomo non si forma l' idea dell' infinito che levando i limiti alle cose finite, egli prima di tutto dovrà abbandonare il suo sistema, facendo che l' idea dell' infinito sia un' idea ben posteriore a quella del finito. In secondo luogo, egli non avrà risposto punto nè poco alla questione. Poichè egli mi avrà ben detto come l' uomo, intelligenza limitata com' è, proceda nel formarsi l' idea dell' infinito; ma non mi avrà mica dimostrato con questo, essere assurdo il pensare, che l' infinito sussista senza aver a fronte il finito, quasichè non sia più tosto assurdo il dire, che l' infinito sia condizionato nella sua esistenza dal finito, o quasichè non cessasse d' essere infinito ciò che dipende necessariamente dal finito. Dice il professore, che « l' essere non esiste se non a condizione di agire, cioè di esser causa. »Ma egli confonde due cose ben diverse, l' agire e l' esser causa . L' esser causa è quanto un produrre qualche cosa diverso da sè; ma l' essere può agire , senza produr nulla da sè diverso: lo stesso esistere è un' azione, lo stesso concetto dell' essere è quello di un atto primo; e i teologi assai acconciamente dicono, che Iddio è atto purissimo appunto perchè è purissimo essere; e tuttavia non l' obbligano per questo a produrre nulla fuori di sè, nulla di contingente e di finito. Se il concetto dell' essere involgesse quello di causa, come vuole il signor Cousin, se l' essere non fosse se non a condizione di produrre qualche cosa da sè diverso, niun ente potrebbe esistere nè anche un istante senza produrre, poichè ciò che è assurdo non può aver luogo nè pure per un istante. Il sostenere che fa il nostro professore, che non si può dar l' essere senza che si dia l' accidente, è un errore che lo conduce alle più strane conseguenze: dopo avere reso coeterno all' essere infinito il finito, cosa che conduce a stabilire l' eternità del mondo, egli arriva fino ad ammettere degli accidenti in Dio, proposizione non meno erronea in teologia che in filosofia (1). Tutte queste stranezze, chè con altro nome non saprei chiamarle, sono inevitabili, dopo aversi posto per base della filosofia quell' atto della spontaneità, concepito alla foggia del signor Cousin. Egli è vero, che nel mio sistema s' annunzia un fatto simile; ma questo fatto non è per me primitivo, non è unico e semplice, non involge in se stesso la necessità che vi suppone il signor Cousin. Il fatto di cui parlo, che corrisponde al fatto spontaneo del signor Cousin, e che forse fu quello che, male osservandolo, l' ha traviato, è la percezione . Noi abbiamo analizzata lungamente la percezione intellettiva , e abbiamo mostrato ch' ella si compone delle seguenti parti: 1 della sensazione animale (lasciando ora da parte l' irritazione organica, che non è che una circostanza concomitante fuori del fatto della sensazione); 2 dell' intuizione dell' essere in universale; 3 dell' affermazione , o giudizio di una realità agente in noi. Abbiamo veduto che queste tre parti sono tre atti distinti dello spirito umano appartenenti a tre distinte potenze. Il loro ordine si è, che ciascuno de' due primi è indipendente dagli altri due; ma il terzo non può compirsi senza i due primi, perchè pone una relazione fra i due primi: cioè vi può essere sensazione animale senza intuizione e senza giudizio; vi può essere intuizione senza sensazione e senza giudizio; ma non vi può essere giudizio senza che v' abbia prima sensazione e intuizione, che costituiscono la materia e la forma del giudizio e della percezione stessa. Io ho poi analizzata ciascuna di queste tre parti della percezione intellettiva. Nella sensazione ho trovato qualche cosa di permanente e qualche cosa di variabile . Ciò che è permanente nella sensazione fu appellato da me sentimento fondamentale: le modificazioni del sentimento fondamentale, che è la parte variabile, furono dette sensazioni acquisite , o semplicemente, sensazioni . Di più, tanto nel sentimento fondamentale, quanto nelle sue modificazioni, ho trovato un principio senziente, il quale viene appellato poscia dall' intelletto, che lo concepisce, col monosillabo IO. Ho trovato una passività di questo IO, un agente diverso dall' IO, un NON7IO. Ho dunque riconosciuto nell' ordine della sensazione una opposizione dell' IO e del NON7IO, e, se si vuole, anco una specie di lotta fra loro. La sensazione dunque per noi è duplice; ma non è niente più che duplice. Ma ora si applichi alla sensazione l' intelligenza. Questa giudica tantosto, data la sensazione acquisita, che ci sia una realità, o un agente, che è quanto dire, percepisce la realità esterna. Ma questo giudizio, o sia percezione, non prende già per oggetto il ME, ma il solo NON7ME, di cui così acquista l' idea . Ora a qual condizione può l' intelligenza acquistare quest' idea, formare questo giudizio? Questo giudizio non è se non l' affermazione che esiste una realità. Esso non può dunque farsi se non a condizione che l' intelligenza abbia l' intuizione dell' essere , ossia dell' esistenza; a condizione cioè ch' ella riconosca un essere in quel principio che agisce nella sensazione. Ora io provai che quest' essere che ella intuisce antecedentemente alle sensazioni acquisite, è universale, e perciò infinito , sebbene non gli appartenga propriamente il titolo di essere assoluto (1). La percezione dunque della realità esterna non si ha se non a condizione dell' IO e del NON7IO, del finito e dell' infinito. Ma l' IO non è in questa percezione un' idea , ma un sentimento: il NON7IO è prima un sentimento, di cui poscia l' uomo si forma l' idea compiendo il giudizio, e con esso la percezione. L' intuizione dell' essere è idea , ma non più; non è idea dell' essere assoluto. Di più, questo fatto complesso della percezione spontanea, oltre non esser semplice, non prova in alcun modo, che il finito e l' infinito siano condizioni uno dell' altro; e se un fatto potesse essere fondamento d' una necessità, proverebbe unicamente, che il finito non si può concepire senza l' infinito, non viceversa. Finalmente io ho mostrato che questo fatto della percezione, sebbene sia quello onde comincia a svolgersi l' umano intendimento, e perciò corrisponda al fatto spontaneo del Cousin, tuttavia non è primitivo assolutamente. Antecedentemente alla percezione , l' uomo non è un essere fisiologico come la pianta, non vive della sola vita della materia: anche allora egli ha una doppia vita, una vita sensitiva e una vita intellettiva. Questa doppia vita è ciò che lo costituisce, ciò che forma la sua propria essenza. L' uomo è sentimento ed intelligenza; egli dunque sempre sente e sempre intende; ma nel suo primo stato il suo sentire è equabile e senza variazione. Un tal sentire non può tirare a sè l' attenzione intellettiva: egli dunque non ha coscienza del suo sentire. Questa maniera di sentire la chiamo sentimento fondamentale . L' uomo anche intende tosto che è; che anzi questo intendere è il suo essere; ma questo intendere non ha oggetti finiti, non ha moltiplicità, non ha differenze: ha solo un oggetto equabile e senza limiti. Un tale oggetto, che non subisce variazione, non può eccitare la curiosità, nè muovere la riflessione. Non può che costituire una contemplazione immobile, uniforme, senza gradi e senza moto. Questo intendere dunque dee essere privo di coscienza , e non può cagionare nell' uomo niuna attività parziale. Il pensiero, equabilmente e immobilmente sparso nell' infinito, non può concentrarsi in cosa alcuna distinta. L' intelligenza insomma essenziale all' uomo è formata dall' intuizione dell' essere in universale . Da tutto ciò voi potete vedere in che differisca il mio sistema filosofico da quello dell' eloquente professore di Parigi, il signor Cousin.

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