Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Lo stralisco

208570
Piumini, Roberto 11 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Quando, dopo tre ore, ebbe un'idea abbastanza precisa di come avrebbe proceduto nel suo lavoro notturno, con gli occhi oppressi, ma non sazi, della bellezza di Amilah, ininterrottamente guardata, il pittore si alzò, raccolse la cassetta che non aveva nemmeno aperto, ed entrò nel boschetto di palme. Senza nessun cenno di obiezione o sorpresa, l'uomo vestito di nero lo segui per la porticina, che richiuse, e poi lungo il corridoio illuminato dalle lampade a boccia, e quelli, oltre la seconda porta segreta, tutti silenziosi. Nell'ampio letto, fra i cuscini dai colori solari, la bellissima ignara avverti tuttavia nel sonno una specie di leggerezza, un togliersi di qualcosa, un vago sgravamento: sospirando lentamente si voltò, mutò posizione, e forse sogno.

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. — Non c'è forse abbastanza luce, laggiù? — chiese Maometto. — I candelabri che bastano a me per contemplare Amilah nelle segrete visite notturne, non sono sufficienti alla tua opera preziosa? — La luce dei candelabri è sufficiente, signore, ma non il tempo, — disse Gentile. — Se potessi fermarmi più a lungo a ritrarre la tua prediletta, o se lei non si muovesse nel sonno come spesso fa, costringendomi ad attese e spostamenti, potrei certo procedere più celermente... Io rimango là poche ore, a causa del riposo che mi è necessario, e devo spesso interrompere il lavoro... Temo dunque che finirò molto prima il tuo ritratto del suo. — Credo di capire, — disse il Sultano. — Nessuno e nulla impedirebbe, naturalmente, che finito il mio ritratto tu possa trattenerti qualche tempo, a godere la mia ospitalità: ma la cosa potrebbe stupire. Renderemo dunque tutto più semplice in altro modo. Tutti sanno gli impegni di governo che mi toccano: troverò dunque assai difficile, da domani, concederti più di mezzora ogni mattino per il ritratto: e forse, qualche giorno, nemmeno quella. E poiché l'altra opera non può avvenire che di notte, avrai tutto il tempo, nella giornata, per riposare e prepararti. Per quanto dunque riguarda il mio ritratto, provvederemo con calma... C'è altro che tu voglia dirmi? Sei ben servito? Ti pesa forse la solitudine? — No, luminoso signore, — disse Gentile. — Tu mi concedi piú libertà, nel palazzo e fuori, di quanta io sia in grado di usare e desiderare: anche se ora, meno oppresso dall'urgenza del riposo, di piú ne approfitterò. Il Sultano si allontanò. Gentile rientrò nel suo alloggio turbato e contento insieme per quello che aveva ottenuto. Nel pomeriggio, per distrarsi da quell'eccitazione fastidiosa, si fece accompagnare da due servi a visitare la moschea di Costantinopoli; ammirò numerosi palazzi dei ricchi mercanti della città; scese al porto, al tramonto, a respirare l'aria degli imbarchi, delle spezie, della pece, del pesce fresco arrostito sotto i tendoni, vicino ai moletti. Erano sensazioni che conosceva fin da piccolo: eppure sapeva di trovarsi sulla sponda opposta dell'immenso catino dorato in cui avvenivano quei profumati trasporti: e questo lo stordiva, rendendo il suo momento simile a un sogno.

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Si avvicineranno abbastanza al cancello, si faranno vedere: nessuna ti parlerà. Avranno coperto il viso, come è uso, ma i loro occhi saranno scoperti, e ti guarderanno. E tu li guarderai. Un tremito improvviso prese Gentile. Nascondendolo, disse: — Potente signore, le tue favorite non indossano certo al mattino la veste della notte... Come potrò sapere quali sono gli occhi della bella Amilah? Maometto guardò perplesso il pittore, quasi ad un tratto Gentile gli avesse parlato nella lingua veneziana, e non nella sua. Poi sorrise, e con dolcezza disse: — Come potrai non saperlo, amico mio?

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. — Ora so abbastanza quello che dipingerò, Madurer, — disse dopo qualche tempo, — ma credo che dovremo prendere una decisione. — Una decisione? Quale? — Amico mio, noi abbiamo in mente le montagne, il mare... È certo che queste sono cose troppo grandi: ma non dobbiamo nemmeno accontentarci di immagini piccolissime. Se volessimo dipingere tutto su una sola parete, faremmo un mare ridicolo e delle montagne striminzite... Ci dovremmo logorare lo sguardo: io a dipingere, e tu a vedere... Allora propongo di dipingere tutte le pareti della stanza, in modo da avere piú spazio, e poter distendere lo sguardo su ampie figure. — Certo! — esclamò Madurer. — Anzi, perché non... Si interruppe confuso. — Non frenare le tue parole, — lo invitò Sakumat. — Ma temo che quello che vorrei sia un impegno troppo faticoso per te. — Parla liberamente, Madurer. Ascoltare parole non è faticoso. Per il resto, vedremo. — Ecco, io pensavo... se è vero quello che dici, perché non possiamo dipingere tutte le pareti delle mie stanze? Come se dappertutto ci fosse cielo, capisci? Cosí le figure potrebbero essere ancora piú grandi, e ricche di molte cose... Sakumat pensò, passandosi una mano sulla barba che ormai gli tingeva la faccia di un bruno striato d'argento. — Questa è una buona idea, Madurer. Quanto al tempo per farlo, non abbiamo fretta, vero? Il piccolo sorrise, e non aggiunse parole. — E ora dobbiamo mettere davvero un po' di ordine nel nostro progetto, — disse Sakumat. — Spiegami, Sakumat. Io non capisco di che ordine parli. — Madurer, — disse il pittore, — noi vogliamo dipingere il mondo. E allora occorre che, proprio come accade nel mondo, la pittura passi da una figura all'altra in modo naturale, senza confonderle come i fogli di un libro che il vento ha strappato e mescolato. Cosí lo sguardo sarà come un calmo viaggiatore che va da un paesaggio ad un altro, senza salti o fastidiose interruzioni. Madurer tacque a lungo, pensando. Poi disse: — A volte, Sakumat, io faccio dei sogni: e nei sogni le figure si mescolano stranamente, e si confondono una con l'altra, e si trasformano in continuazione... Dopo una pausa, Sakumat domandò: — Vuoi che dipingiamo le figure come nei sogni, Madurer? Il bambino restò in silenzio ancora. Poi sorrise e disse: — No. Dipingiamo il mondo. Ai sogni ci penso io. Cosí esplorarono le pareti delle stanze come fossero lo spazio dei cieli. Cominciarono a immaginare e distribuire i soggetti della pittura. — Qui faremo il pascolo pieno di fiori profumati... — Sí, Sakumat! Come quello della storia di Mutkul pastore! — Allora, ci metteremo la capanna di Mutkul pastore. Piccola piccola, con il gregge di capre rosse... Erano rosse, vero, le capre di Mutkul? — Si. E ci metteremo anche il cane zoppo, Sakumat? — Certo. — Sarà bellissimo! Però... come faremo a vedere che è zoppo, da lontano? — Forse non si potrà vedere, Madurer. Ma noi vedremo il cane, e sapremo che è il cane zoppo di Mutkul pastore. — E poi, da questa parte, ci saranno le montagne? — Sí. E sotto le montagne ci sarà un villaggio. Lo faremo grande o piccolo? — Non troppo piccolo, ma nemmeno troppo grande, Sakumat. Non troppo grande, perché se no ci prenderà tutto lo spazio. — Spazio ne abbiamo. Lo faremo della giusta grandezza. E ci metteremo anche il minareto. — Con sopra il muezzin che canta? — Naturalmente. Cos'è un minareto senza il muezzin in cima? Un piccolissimo muezzin col naso lungo. — E noi sapremo che ha il naso lungo, anche se sarà piccolissimo! — Dietro il villaggio, prima della roccia, ci vorrebbe un bosco, pieno di volpi e di orsi. — Sí! Ma, Sakumat... — Cosa c'è, piccolo amico? — Mi è venuto un pensiero. Tu hai detto, poco fa, che la pittura come il mondo non deve compiere salti. — Sí, se non vogliamo dipingere le immagini dei sogni... — No, dipingiamo il mondo. Ma allora guarda, Sakumat: qui la parete finisce, e il muro con uno spigolo duro si voha dall'altra parte! — Lo vedo, Madurer, — sorrise il pittore. — Ma allora qui le figure faranno per forza un passaggio brusco! Sarà come se il prato o le montagne, all'improvviso, cambiassero direzione nel cielo, e scomparissero... o come se il mare sprofondasse di là, capisci? — Ho capito, Madurer. Ma credo che a questo non possiamo rimediare. — Perché lo dici? Questi spigoli ci daranno molto fastidio! Io chiederò al burban, mio padre, di fare arrotondare gli spigoli dei muri! Cosí diventeranno morbidi, e le montagne curveranno lentamente, come quando un viaggiatore cammina, e lo sguardo non cadrà all'improvviso nel vuoto. E il mare non sprofonderà. Non sarà meglio, Sakumat? — Sí, sarebbe meglio, credo. Ma credi davvero che il burban accetterà di fare togliere tutti gli spigoli ai muri, Madurer? — Certo che accetterà. Noi abbiamo una buona ragione.

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Ma ho detto abbastanza: parla tu, adesso.

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. — Io ti conosco abbastanza, e le cose che vedo nel tuo cuore, a saperle leggere bene, sono eccellenti. — Vera santità è la tua, Diamante: di quel tipo assai raro, che sa e vuole conoscere e vedere in ogni cosa il buono, — diceva Filippo. — Ma pure mi spiace d'esserti capitato io per esercizio... Su molte cose, in verità, il pio uomo doveva allora chiudere gli occhi, o faticare per trovarne il valore, o praticare pazienza, giacché non mancavano a Prato, come in nessun luogo del mondo per chi le vada cercando, donne da guardare e da desiderare, e a cui lanciare con gli occhi complimenti ed elogi, domande infocate, giuramenti di desiderio, promesse di piacere: e non mancavano quelle che, per scarso calore della vita o di chi la doveva loro scaldare, a tali sguardi esitavan poco a rispondere, incendiate: e da sguardi a messaggi, a incontri, ad abbracci, con Filippo si disponevano a correre, per qualche tratto almeno, la bella via della passione: e poiché quella via assai di rado passava vicina ai luoghi delle pitture, con lento piede avanzavano pale ed affreschi, e lunghe ore di preghiere e di attesa toccavano a Diamante, incerto e pauroso a proseguire da solo i santi e gli angeli che Filippo trascurava. E poiché le cose del piacere restan segrete e protette meglio finché il piacere dura, accadde presto che in Prato si sapesse e dicesse delle gran gioie e corse del frate: e pure se la notizia non nasceva da favorevoli labbra, né si riferiva a cose commendabili, per la misteriosa natura della fama per niente nuoceva, anzi qualcosa aggiungeva al nome del nostro pittore. Né mancarono casi in cui, curiose delle diverse arti, piacenti madonne chiamarono il frate, o convinsero ignari mariti a chiamarlo, per opere previste o impreviste in casa loro: di quelle doti facendo in breve sazievole prova. Ma dall'opera del monastero, come si è detto, Filippo si teneva lontano: certo per una tenace antipatia verso l'aria conventuale, e per propensione di lui a non cacciare in boschi prossimi, quel lavoro era sempre rimandato: sempre si mandava a dire che sarebbe fatto alla fine del corrente, e poi invece si spostava oltre uno nuovo, generato per questa o quella bravura del pittore. Finché accadde che un giorno, di ritorno dalla chiesa di San Domenico, dove eran finite due tavole, andando verso il Ceppo, casa di un certo Francesco di Marco, per accordarsi su un ritratto, Filippo e Diamante furono sorpresi da un temporale di quelli che non si crederebbero se non si vedessero: quelli che si raccontano a lungo, fino ad uno peggiore: che sembrano mandati da Dio per avvertire gli uomini che il gran diluvio non è passato ma solo sospeso, e dunque siano preparati. Colpiti da quel crollo fresco del cielo in mezzo a una piazza, i due frati corsero a tonache alzate a ripararsi sotto uno sporto di bottega, largo abbastanza da proteggere il grosso, mentre vi arrivavano dalla parte opposta, cieche nell'acqua, tre monache in corsa: e ci fu un mezzo scontro, un arruffío di stoffe brune, un ridi e grida da ragazzi sotto quella tettoia. Ma poiché sembrò ai convenuti che l'acqua di fuori fosse peggio che stare lì stretti, e alle monache di non dover temere nulla da quei due servi di Cristo, ridivisi alla meglio in partibus generis, i cinque se ne restarono là sotto, mentre il cielo precipitava a scrosci sul largo selciato, e il mondo si bagnava. Un rimbombo fresco, totale, avvolgeva quella nicchia del creato: un'intimità struggente, da pulcini intanati, mescolandosi ai reciproci odori sollecitati dalla pioggia, regnava nel riparo. Tutti tacevano, senza guardare altro che il fosco sciacquar dell'aria davanti: ma il complessivo respiro, adeguato a ritmo comune, univa i corpi piú di un pieno toccamento: e certo quel contatto sentiva piú chi di corpo ancora era fatto: meno chi, almeno in parte, lo aveva perso o scordato nel passeggio dei chiostri. - Se continuerà abbastanza, - disse Filippo a voce alta per farsi sentire sopra il fruscio violento, rivolto alle teste chine delle monache, - se continuerà abbastanza, tutta quest'acqua se ne andrà per passi e caverne, e scenderà all'inferno, e lo spegnerà! Frate Diamante, alla destra di Filippo, il quale chissà come aveva nel mischio iniziale trovato posizione piú esposta alle donne, abituato alle uscite del compagno, rise in modo convenevole e discreto. Delle tre rifugiate, rise un po' quella vicina a Filippo, però tenendo la testa abbassata, come ridendo d'altro. Quella al centro si chinò a farsi riparo, oltre che del potente sgocciare, del sapore eretico che usciva di bocca al frate sconosciuto. La terza, che nella tresca d'inizio era finita, o stata spinta, piú lontana dai frati, alzò invece la testa a guardare Filippo: e lui la guardò, per nessun'altra ragione che non c'è al mondo cosa migliore da guardare che un volto di donna. Ora v'è chi crede che un uomo da donne, nel senso in cui Filippo era, di quelle senta e prenda comunque e sempre il facile e il leggero: cose degli occhi, di pelle, di polpe, di ventraia: non sappia insomma vedere e desiderare altro che corpo di piacere: il quale, per quanto bene se ne pensi e dica, è delle donne una parte soltanto. Senza discutere troppo questa opinione, diciamo che ogni cosa dipende da quanto quell'uomo sia rimasto uomo, e non divenuto solo, ormai, vogliosa bestia automatica. Filippo era pittore, un poeta d'immagini: quanto basta per mantenere mente ed anima capaci di viste e desideri alti, complessi, e anche sublimi. Persino in quelle sue opere giovanili meno destinate alla Musa che alla foia dei guardatori, pur accettando la regola triviale dei soggetti, egli l'aveva giocata con tali arguzie e qualità di figura, che se quei lavori, nati nascosti e poi chissà come dispersi, fossero ancora noti, non nutrirebbero meno degli ufficiali le sapienti chiacchiere dei critici d'arte. Dopo la premessa, il fatto: sotto quella tettoia di bottega, davanti a quel diluvio di Calvana, in quel fumo d'acqua saltante e monaci avvaporati, ciò che Filippo vide nel volto della novizia non fu cosa che potesse dimenticare né subito né mai: e lo lasciò a bocca proprio aperta, occhi fissi, respiro interrotto e cuore in capriola. Piú che la sola bellezza, straordinaria davvero, non avendo lei alzato lo sguardo per vedere che tempo faceva, ma curiosa di colui che pronunciava simili frasi sull'inferno, e parlava del suo spegnimento, gli occhi verdi e la bocca tornita mostrarono un sorriso, piú annunciato che vero, subito spento alla vista dello sguardo del frate: ma non talmente in fretta che lui non lo cogliesse, e diventasse innamorato. Giacché se all'uomo comune basta a volte un lungo sguardo per farsi invadere l'anima da una donna, a un pittore come Filippo assai meno occorreva: e fu lei a respingere il getto d'estasi meravigliata di lui, abbassando faccia e capo come avevano le ritrose sorelle. Fu un breve scroscio, ma un attimo assai lungo. Fra Diamante sotto il cappuccio; Filippo a guardare, sopra due simili, una testa velata di nero, che conservava nella posizione china un tremolio di fuggitiva, l'ostinazione allertata di chi si nasconde. Poi l'acqua d'improvviso calò. Prima fra tutte la monaca piú alta allungò il piede e si avviò fra le pozzanghere, mentre le altre due, sorprese da quella solerzia che loro toccava, dopo un'incertezza la seguirono, sollevando con le mani solo di mezza spanna i lembi della tonaca. Filippo lasciò passare un momento, poi uscì allo scoperto e prese la strada dietro a quelle. — Fratello mio, — disse Diamante, arrivando con passo affannato a toccargli il braccio. — Buon Filippo, non era dall'altra parte che stavamo andando? — Prima sì, — disse il pittore. — Ma ora, dovunque sia, si va da questa parte.

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Al centro, ancora abbastanza lontano e in posizione raccolta, un villaggio di pietra bianca godeva la freschezza di un boschetto di cedri che spiccava come un dono di Dio alle sue spalle. Tra villaggio e bosco, piú bianco ancora del resto delle costruzioni, sbalzava un esteso palazzo, grande come il maggior palazzo di Malatya, e forse anche di più. Attraversata la zona coltivata e le strade del villaggio, Sakumat fu condotto all'interno del palazzo. Ammirò il ricco silenzio che vi regnava, le porte in legno di cedro con disegni dorati e le giubbe di velluto perlato dei servi. Fu poi accompagnato in una stanza fresca e spaziosa, con la grande finestra a strapiombo sulla muraglia dalla parte del villaggio: da li, con un solo sguardo, si dominava la conca semifertile dell'altopiano, fino al cerchio di cime che lo chiudeva. Fu annunciato il signore di Nactumal. Entrò un uomo alto, della stessa età, apparentemente, del pittore, ma dai capelli corti e quasi bianchi. Folti baffi scuri gli spiccavano sul volto come il frutto di un'altra seminagione. — Tu sei il benvenuto nella mia terra e nella mia casa, — disse il burban. — Ti ringrazio di aver accettato l'invito, cedendo all'insistenza del mio uomo. Se io fossi buon ospite, come dovrei, ti avrei lasciato riposare questa sera, e tutta la notte, preoccupandomi soltanto del tuo benessere... Avrei rimandato a domattina questa conversazione. Ma l'ansia mi preme nel petto, e la domanda che devo farti non vuole stare quieta, come un cavallo giovane e forte. E io credo che mi ballerà nel cuore tutta la notte, se non avrà il fieno della tua risposta. Sakumat sorrise e si inchinò lievemente. — La tua ospitalità è perfetta, signore, — disse. - Quanto alla tua domanda, avrà da me una risposta leale. E se proprio mi sarà impossibile dartela subito, avrò in questo modo la notte per pensarci: e avremo dunque guadagnato tempo. Ora fai la tua richiesta, signore, perché dal modo in cui si annuncia mi sembra diversa da quelle che di solito ricevo, e muove un poco la mia curiosità. Anche il burban sorrise, e sedette sul tappeto della stanza, grande come quello di una moschea. Davanti a lui sedette Sakumat. — Io ho un solo figlio, molto giovane, di nome Madurer, — disse il burban lentamente. — Egli è malato di una strana malattia: ogni parte di sole e di polvere gli è nociva. Gli occhi si gonfiano, il respiro si fa affannoso, la pelle si riempie di chiazze e addirittura si piaga. Egli non può vivere all'aria aperta, e correre e giocare nel giardino del palazzo, come fanno i figli dei miei servi. Non soltanto: non può abitare una stanza come questa, per la cui finestra passa libera ed abbondante la luce e l'aria delle montagne. Tutti i medici di Turchia che possono vantare scienza e sapienza sono venuti in questa casa: tutti mi hanno spiegato, superandosi in bravura, la natura misteriosa e incurabile del malanno. Alcuni hanno sentito di simili casi in altri luoghi, o altri tempi. Alcuni parlano di sostanze nocive che il corpo di mio figlio assorbe dall'aria, e che la luce rende piú potenti. Ma quali siano queste sostanze, e come si possa difendere il mio figliolo, non sanno. Tutti hanno consigliato fermamente che Madurer viva nella parte interna e piú riparata del palazzo, che respiri un'aria filtrata da strati di garza umida, non abbia finestre o luce diretta, ma solo quella mandata nelle sue stanze da lucernari. Cosí accade: da più di cinque anni, da quando si manifestò la sciagura, mio figlio non, è mai uscito da questa casa, né gli è dato godere da una finestra lo spazio della vallata e la luce del sole. Nemmeno è consentito che nelle sue stanze siano messi piante o fiori, o semplici tralci di vite per ornamento, perché terra e pollini o la sostanza stessa dei vegetali gli sono nocivi. Dopo aver parlato guardando negli occhi Sakumat, il burban abbassò il capo e tacque a lungo. Anche il pittore taceva, e aspettava. Ganuan alzò la faccia, e disse: — Ora ho pensato di abbellire le stanze di mio figlio con figure e colori. Ho sentito parlare di te da mercanti e cacciatori di passaggio: per questo ti ho mandato a chiamare. Non avrai da lamentarti della mia ospitalità e del compenso, quando te ne andrai. Ti prego di accettare. Il burban guardava di nuovo gli occhi di Sakumat, e respirava profondamente. La sua mano destra, forte e scura, stringeva la cintura di pelle borchiata come si stringe la briglia di un cavallo ribelle. — Posso farti una domanda, signore? — disse il pittore. — Tutta la mia attenzione è tua, e tutta la verità che conosco sarà nelle mie risposte, — disse il burban. — Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? — A questo non ho pensato, con precisione, — disse il burban, — lo decideranno la tua arte e il tuo pensiero. — Ecco un'altra domanda. Come è l'anima del tuo figliolo? La sua sorte, dura per un bambino, lo rende infelice? E il suo volto e il suo corpo, come si potrebbe immaginare, sono inerti e chiusi, simili alle piante che non ricevono luce? Il burban socchiuse gli occhi per un istante. La mano sulla cintura si rilassò. — A queste domande non risponderò, amico mio, — disse, — non perché non voglia: ma le parole di un padre non sono le piú adatte per parlare del figlio. Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto è grande l'illusione, e quanto è bugiardo l'affetto. Ma poiché, se non mi inganno, hai generosamente accettato la mia preghiera, la risposta te la daranno direttamente il corpo e il volto e l'anima del mio figliolo. Tu stesso vedrai.

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Io li maneggio con molta attenzione, ma forse non abbastanza per la sua delicatezza. — Non temerlo, amico mio, — rispose il burban, — non ci sono segni diversi in questo suo malore, e nemmeno è precoce: anzi è questo il piú lungo intervallo tra le crisi che abbiamo potuto misurare. Del resto, a suo tempo mi informai su questa possibilità, e tutti l'hanno esclusa. I tuoi colori sono per mio figlio solo fonte di contentezza. Fu come il burban aveva previsto. Nei giorni seguenti, pur restando a letto senza forze, Madurer non mostrò piú segni di sofferenza. Negli intervalli dei lunghi sonni quieti, in cui passava quasi metà del giorno, riprese i suoi colloqui con il pittore. — Ora c'è da dipingere la terza stanza, Sakumat... — Sí. Come la dipingeremo? — Ci penso molto. Sto prendendo una decisione. — Ma non c'è fretta, piccolo amico. Tu sei stanco, e un poco anch'io. Non ci sarà nessuna conseguenza cattiva se interrompiamo per qualche tempo il lavoro. — Sí, certo. Ma il pensiero non mi costa troppa fatica: e allora ci penso. Il bambino chiese di trasportare il suo letto nella terza stanza, dalle pareti ancora intatte. Le guardava a lungo, in silenzio, tenendosi una mano davanti alla bocca con atteggiamento grave. — Posso conoscere un po' dei tuoi pensieri, Madurer? — chiese Sakumat qualche tempo dopo. — Ecco, io... Non sono proprio dei pensieri, Sakumat: sono come dei desideri, dei desideri di immagini che lottano fra loro... Immagini in contrasto nel mio pensiero. So che una vincerà, ma è ancora presto per sapere quale. — Non vuoi parlarmi di queste immagini, Madurer? Forse, con le parole, sarà piú facile decidere. Ma il bambino si era di nuovo addormentato. I suoi riposi, densi come possono essere solo quelli che seguono le grandi stanchezze, non duravano meno di un paio d'ore. Sakumat usciva allora da palazzo e montava il suo vecchio cavallo. Attraversava al passo il villaggio, guardato con mutissima curiosità dalla gente, che sapeva qualcosa della sua presenza presso il burban. Quando il pittore, a quelli che piú arditamente sollevavano verso di lui la faccia, accennava un saluto, provocava inchini e timide ritirate. Fuori dal villaggio lanciava il cavallo ad una andatura piú energica, senza mai spingerlo alla corsa. Sentiva, piú che nel corpo consumato della bestia, nel proprio la pesantezza dei mesi passati a dipingere, e faticava a ritrovare l'agilità e il gusto della cavalcata, che sempre aveva avuto. Tuttavia insisteva, lasciando che lo sguardo corresse attorno molto piú veloce del cavallo, a urtare in silenzio i larghi fianchi pietrosi della vallata, la cui immagine tornava come un'eco spogliata, continua e nitida. E gli sembrava di notare pietre e spazi e tinte con nuova precisione: di sapere, in qualche modo, prevedere le cose che il paesaggio poco a poco svelava... Al ritorno trovava quasi sempre il bambino addormentato, e attendeva accanto al letto il suo risveglio. Se Madurer tardava a svegliarsi, camminava a lungo accanto alle pareti delle stanze dipinte e con lo sguardo ripassava ogni ricchezza delle pitture, ogni segno lasciato dai giochi pensosi fatti assieme al bambino.

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. — Sai, Sakumat, prima avevo pensato di fare il mare anche nella terza stanza, — disse Madurer, descrivendo con la mano una linea orizzontale, — perché il mare è grandissimo, e non ce n'è mai abbastanza. Pensavo che ci avremmo messo qualche isola, e altre navi: era un progetto che mi piaceva. Avremmo potuto metterci anche i delfini e i pesci spada, e anche il balzo della balena. Avremmo potuto fare un mare cosí, non è vero? — Certo. — Poi però, immaginandomi la figura, mi veniva una specie di insoddisfazione, e pensavo che, non so come, anche se di mare non ce n'è mai abbastanza, tutto quel mare sarebbe stato troppo. Il mare ha... troppa lontananza. È troppo pieno di lontananza, capisci? — Credo di sí, Madurer. Davanti al mare gli occhi non sanno stare fermi; il piede si stanca dell'immobilità. Credo di capire che cosa sentivi. E allora? — Allora mi è venuto all'improvviso, cosí, un pensiero nuovo: un'immagine di qualcosa come il mare, ma con meno lontananza. Una cosa grande, ma vicina. — E qual è l'immagine, Madurer? — È un prato. Con l'erba e i fiori. Non come quelli che abbiamo fatto sulle montagne e le colline, però. Quelli sono visti da lontano. Io vedevo un prato con erba e fiori molto vicino. — Un prato grande e vicino, — ripeté Sakumat. — Si, come un mare, ma vicino, capisci? Tutto intorno, in modo da esserci in mezzo. Di essere dentro. — Cosí dipingeremo un prato, Madurer. — Ma c'è una cosa. C'è una cosa che ti devo dire... Però ora ho molto sonno. Te la dico dopo, Sakumat. Qualche volta, durante le attese, il pittore non uscva dal palazzo. Percorrendo corridoi e scale, per i quali aveva assoluta libertà di movimento, raggiungeva una torre non altissima ma decisamente piú elevata di ogni altra costruzione del villaggio, e guardava il volo degli uccelli. Li guardava cosí a lungo e attentamente che, tornando nelle stanze di Madurer, e trovandolo ancora addormentato, disegnava su grandi fogli di pergamena la traccia di quei voli, in larghi scarabocchi a nessun altro comprensibili. Poi piegava i fogli, e li riponeva nel basso scaffale della prima stanza. Spesso, al risveglio, come se durante il sonno avesse vissuto una curiosità, Madurer chiedeva che il letto fosse spostato da una all'altra delle stanze dipinte, oppure orientato diversamente, in modo da aver di fronte ora le montagne, ora la pianura e la città assediata, o le colline deserte, o la nave pirata nel suo mare cangiante, o il puro orizzonte marino. — Cosa mi volevi dire sul nuovo prato, Madurer? - chiese Sakumat. — Sarà bellissimo, vero? Io lo penso bellissimo. — Credo che sarà bello. Facciamo buone cose, di solito, tu ed io. Ma avevi qualche altra cosa da dirmi, ricordi? — Sí. Non è molto facile. Non vorrei che fosse troppo faticoso, per te. Sakumat sorrise e aspettò senza parlare. Il bambino riuní le mani sulla coperta, appoggiandole quietamente sul ventre. Era uno degli atteggiamenti di Sakumat, e spesso, volendo o no, Madurer li imitava. — Ricordi la nave, quando arrivò? — disse. — Certo che la ricordo. — Voglio dire, ricordi che si fece vicina a poco a poco? Al principio c'era quel puntino lontano, e non sapevamo nemmeno che era una nave... Sí, ricordo bene. — Poi diventò grande, e cosí si vedeva che era una nave. — Sí. Prima viaggiava solo di notte, — sorrise Sakumat, — poi decidemmo di incoraggiare la ciurma... Il bambino aveva la fronte corrugata, come per uno sforzo. Sakumat tacque, e aspettò. — Io vorrei che anche per il prato fosse cosí, — disse Madurer tutto d'un fiato, aprendo un poco le dita sulla coperta. Sakumat alzò un sopracciglio. — Se penso che vuoi una nave che arriva lentamente sul prato, penso giusto o sbagliato? — disse. Madurer rise. Si sollevò nel letto e si appoggiò ai cuscini. Ormai era tornato abbastanza in forze, e la carnagione, naturalmente non troppo colorita, aveva perso tuttavia il pallore della malattia. — Sbagliato! Volevo dire che mi piaceva moltissimo vedere la nave avvicinarsi. E anche il prato, mi piacerebbe vederlo crescere piano piano. — Vuoi che lo dipinga lentamente? — No... Vorrei proprio che fosse un prato che cresce. Prima con l'erba corta, poi più lunga... Prima i fiori, come si dice, acerbi? E poi maturi. Capisci? — Adesso ho capito, — disse Sakumat. — E si può fare? — Sí. Ma ci vorrà tempo. — Prima delle montagne dicevi: «Abbiamo tutto il tempo, Madurer!» — fece il bambino, tentando di imitare la voce del pittore. — È vero. Abbiamo tempo, — disse adagio Sakumat, — tutto il tempo che ci è dato, l'abbiamo. — Puoi chiamare i servi, per favore? Vorrei far portare il letto nella terza stanza. Voglio dormire li, mentre cresce il prato. Anche tu ci dormirai? — Mmh... Alla mia età, un prato può essere troppo umido, di notte, Madurer! — fece Sakumat. — Ma visto che il prato crescerà lentamente, forse mi potrò abituare. Quando, piú tardi, venne il burban a trovarlo, il bambino parlò a lungo con lui del nuovo progetto. Il padre disse che era una splendida idea. — Nemmeno il burban di Ankara ha un prato in casa! — disse. Poi Madurer si addormentò. — Amico mio, quanto tempo occorrerà per dipingere il prato, come lui vuole? — chiese il burban a Sakumat. — Come vuole lui... almeno quattro mesi, signore. Forse cinque. — E questa è l'ultima stanza. Quattro mesi sono sufficienti... — disse Ganuan. — Posso chiedere sufficienti a cosa, signore? — Ad allargare l'alloggio di mio figlio. Chiudere le finestre, abbattere i muri delle stanze vicine. Non rom- però il prato. L'ingresso potrà essere nella stanza delle montagne. Ah, tuttavia... Il burban si interruppe, confuso, e guardò il pittore. — Scusami, amico mio, — disse, — parlo come se il tuo corpo e la tua mente fossero i miei. Sakumat sorrise. — Il mio corpo e la mia mente sono ben vivi, e in mio possesso, signore. Non c'è un solo istante del tempo che passo in questa casa che non sia da me voluto ed amato. Ci fu un breve silenzio. — Ho notato, amico mio, che da quando sei giunto, ed è ormai molto più di un anno, hai lasciato crescere la tua barba, — notò il burban in tono leggero. — Quando arrivasti eri poco più di un giovanotto dal volto liscio. Ora la barba ti fa piú solenne. Per quanto tempo ancora crescerà? Non temi che i tuoi amici non ti riconoscano, quando ti presenterai a loro? — Signore, io dirò loro: «Eccomi qui, sono Sakumat! Sono io, il vostro amico! Vi piace la mia lunga barba?» E ai miei amici piacerà. E forse, il piú scherzoso di loro me la tirerà con affetto. Ganuan sorrise. — Il tuo cuore è grande, amico mio e fratello. — Signore, — si inchinò Sakumat, — io te l'ho detto: sono qui per la mia gioia.

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Cioè, abbastanza stanco. Madurer alzò la faccia e disse con aria solenne: — Il tempo passa per tutti, padre mio. — Certo, — disse Ganuan, e levò lo sguardo dal figlio, per osservare altre parti del paesaggio. — Vedo laggiú un'altra novità, — disse, — non c'era neve su quelle montagne, mi pare... — Infatti. Si avvicina l'inverno, — rispose Madurer, — gli orsi sono già entrati nelle grotte per dormire. Con la mano mostrava al padre i mutamenti. Indicò il colore del bosco, meno verde di prima: vaste zone erano coperte da una tinta giallo bruna, e piú in basso l'erba dei prati era a tratti bruciacchiata dal freddo notturno. — Lassú, vedi la caverna, sotto la roccia? Sí. È nuova anche questa? — Prima era coperta dagli alberi. E vedi il testone dell'orso? — Questo? — No, quella è la roccia. Un po' piú in basso... Ecco! — Sí, questo è l'orso. Bisogna guardare attentamente, per vederlo. — E l'ultimo orso che va in letargo. Ha mangiato moltissimo, negli ultimi due mesi: bacche, noci, miele, frutta, e persino formiche! — Persino formiche? — Sí, padre. Gli orsi mangiano tutto. — Allora ha la pancia piena. — Grossa cosí! — e Madurer imitava ridendo la gonfia andatura dell'orso ghiottone. Poi sedette sui cuscini e continuò: — Lo ha preso una grande sonnolenza, capisci? Ora va nella grotta a dormire per tutto l'inverno. — Però adesso è ancora sveglio, — disse il burban, sfiorando con le dita l'ombra dell'orso nella caverna. — Non dorme ancora. Ogni tanto fa due passi fuori, e sgranocchia qualche ramoscello. Ma soltanto per golosità, perché ha già la pancia pienissima. Respira, e fiuta l'inverno. Poi, fra poco, entrerà nella tana e ci resterà per molti mesi. Ma prima farà un bel mucchio di rami secchi davanti all'ingresso, per ripararsi dal vento, mentre dorme. Il burban guardò intorno, stordito. Disse: — Non fa freddo qui, vero? Vuoi che faccia accendere il fuoco? — No, padre. Non fa freddo, — rispose Madurer, — è solo un po' meno caldo, perché l'estate è passata. Ma non occorre il fuoco. Tutto il paesaggio della prima stanza era mutato: non in modo vistoso, ma in ogni particolare. Al posto del carro di Talya che andava con la sua tenda azzurra verso la pianura, c'era adesso un carro dalla tenda marrone che due buoi trascinavano verso la montagna. Nessun cavallo era legato dietro il carro, ma due grossi cani pelosi trotterellavano accanto alle ruote. La città nella pianura non era più assediata. Attorno alle mura, presso il grande portale spalancato, si vedevano piccole baracche di mercanti. Rimpicciolito, vicino ad una tenda azzurra da nomadi, c'era il carro di Talya: e la piccola, quasi invisibile, che si esercitava ai salti acrobatici. — Come è finito l'assedio, Madurer? Il bambino invitò il padre a sedersi accanto a lui. Poi prese a raccontare: — È finito in un modo abbastanza strano, e anche divertente. Devi sapere che il capo degli assedianti, il re Ras-Patay, si ammalò d'impazienza dopo tre anni di assedio: si ammalò tanto che mori. Alla sua morte non c'era più motivo di assediare la città, e cosí le truppe dovevano andarsene: però diventò Re il principe Njulabey, figlio del morto. Il principe, ricordi?, era quello che mandava con il piccione il messaggio d'amore alla principessa assediata, che si chiamava Mutihah, e ora che era Re non se ne voleva andare, perché se partiva l'avrebbe persa. Però non poteva nemmeno restare li senza combattere, senza continuare l'assedio, perché i suoi generali, a stare con le mani in mano, si sarebbero offesi. Allora cosa fece Njulabey? Si incontrò di nascosto sotto un albero di prugne con la principessa Mutihah, e si misero d'accordo per fare un bambino. Il giorno dopo il principe, che adesso era Re, chiama i suoi generali e dice: «Chi mi può impedire di rinunciare ad essere Re?» «Nessuno, Re Njulabey: ma ci vuole un erede!» «L'erede c'è». «Dov'è?» «È nella pancia della madre, la principessa Mutihah, bella come il sole di maggio e mia eletta, al caldo e al comodo. Uscirà fra nove mesi, e credete voi che sarà contento, quando nascerà, di nascere in una città assediata dai propri generali?» Cosí, padre mio, quei generali furono messi a tacere, e l'assedio fini. — Un trucco davvero astuto, — sorrise il burban, — e poi nacque il bambino? O fu una bambina? — Un bambino: eccolo lassù! — indicò Madurer. - Lo vedi, sulla torre più alta della città? Si chiama Nakutad. — Ma è già un bambino grande. — Certo. E nato da più di dieci anni. Ha un cannocchiale, vedi? È per guardare le stelle. — Lo vedo. Ma le stelle dove sono? Madurer mise un dito davanti alla bocca, come per rivelare un segreto. — Presto Sakumat dipingerà la notte, padre, come sopra il prato, — disse a voce fervida. — Ora il sole, laggiù, sta tramontando. Poi faremo il buio, piano piano, e poi le stelle. Cosí il piccolo Re le potrà guardare. Potrà guardarle quanto vorrà, anche fino al mattino, perché è un Re e nessuno può mandarlo a dormire.

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. — Qui ogni cosa è tua, né io conosco questa casa abbastanza da saperti offrire qualcosa, come ad un ospite conviene... — Godiamoci dunque senza altre preoccupazioni la stupenda luna, che non appartiene a nessuno, eppure si mostra a tutti con la meravigliosa intimità di una sposa, — disse Maometto, avvicinandosi al pittore, e voltandosi accanto a lui verso il quieto e vasto luccichío dei Dardanelli. L'uomo vestito di nero, ombra silenziosa, rimase alle loro spalle, immoto. — Il mio accompagnatore non è muto, — disse l'Imperatore, — ma è come se lo fosse. Non è sordo, ma è come se lo fosse. È piú fedele a me di quanto sia la mia stessa mano: e della mia mano è anche piú saggio e preciso. Non inquietarti per la sua presenza: egli è solo in certo modo presente. Gentile tornò a guardare la luna. Anche Maometto, accanto a lui, la guardò per un lungo momento: come se lassú ci fosse, svelabile allo sguardo, il modo giusto per dire le parole.

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