Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Il codice della cortesia italiana

184520
Giuseppe Bortone 8 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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Però bisogna pur ammettere che la danza, specialmente la modernissima, è una grande occasione e maestra di seduzione; per cui non si raccomanda mai abbastanza di parteciparvi con assoluta onestà d'intenzioni e di propositi e di badare accuratissimamente agli ambienti in cui si va e alle persone con cui ci si troverà a contatto. Quanto ai primi, si sa che ce ne sono di privati e di pubblici, di popolari e di aristocratici; come ci sono inviti firmati da persone direttamente responsabili, e di quelli firmati da comitati e da enti piú o meno anonimi. Chi si assumerebbe la responsabilità per tutti coloro che intervengono a una festa pubblica? Purtroppo, una marsina può coprire tanto il gentiluomo quanto il mascalzone; né sono mascalzoni, sotto un certo punto di vista, soltanto quelli che non hanno a posto il certificato penale. Premessa questa raccomandazione - e dopo aver ricordato che la tenuta sarà quella richiesta dall'invito stesso, o dall'ambiente, dall'ora, dalla circostanza - ecco alcune buone norme da tenersi presenti: Chi non sa o non vuol ballare è meglio non intervenga; le signorine non portano i guanti; mentre gli uomini non li levano mai, durante il ballo: i guanti debbono essere candidi; nei balli pubblici non si invita a ballare una signorina a cui non si sia stati presentati: essa può, garbatamente rifiutarsi; si eviterà di dimenticare un invito fatto o ricevuto sebbene il grazioso libriccino, in cui si soleva prenderne nota, sia abolito; se non si sa ballar bene, è meglio risparmiare una brutta figura a una signora o a una signorina; per invitare a ballare, basta fare un inchino: se la signorina è con persone di famiglia, si chiede a queste il permesso; se è con altri a una tavola, si fa un inchino a tutti; se la signora è col marito, si chiede l'autorizzazione a lui; si eviteranno le coppie fisse; è prudente non fare anche due soli balli consecutivi con la stessa persona; grottesche le coppie fisse di coniugi; e un po' anche quelle di fidanzati; durante il ballo, non è scorretto parlare; ma si deve farlo con assoluta serietà; si devono evitare gli eccessi di allegria, gli atteggiamenti e gli abbandoni molli, le preziosità di movenze: badare piú che è possibile alla disciplina e alla compostezza del corpo, anche perché si è sotto gli sguardi indagatori di tutti; non si batte il tempo della musica, né la si rifà sottovoce; non è corretto invitar a ballare mentre si fuma; è scorrettissimo fumare mentre si balla; non si stringe troppo la compagna di ballo; è un po' prezioso, ma delicato, che i ballerini tengano la mano con la palma in fuori; comunque, la si tiene con le dita chiuse, non aperte a ventaglio; le signorine non s'incipriano durante il ballo, né si ravviano i capelli; la signorina appoggia la propria mano sul braccio non sulla spalla del compagno di ballo; una signora, una signorina possono andare sole al rinfresco; sole o accompagnate, non vi si indugeranno troppo; né abuseranno di liquori o di spumante; e accetteranno, se il rinfresco è a pagamento, che ve le accompagni soltanto un parente o un amico intimo; un ballerino accompagnerà al rinfresco una signora sconosciuta, soltanto nel caso che questa ne lo preghi; le signorine evitino di appartarsi con i ballerini sulle terrazze o nei vani delle finestre; una signora o signorina non permetterà la piú piccola indelicatezza; rifiuterà cortesemente un secondo ballo quando non è piaciuto il contegno del ballerino nel primo; non usa piú accompagnare la signorina al posto dove la si è andata ad invitare; è bello però farlo, inchinandosi anche ai familiari, ma non accompagnandovela al braccio; una signorina può presentare alle sue amiche quelli che hanno già ballato con lei. Come, poi, non è opportuno censurare il modo di danzare del ballerino, cosí non è opportuno perdersi in ammirazione di fronte alla sua arte « danzerina ». Le cosí dette « mattinate danzanti » durano dalle quattro alle otto. Le signorine ballano senza cappello: le madri lo tengono. È bene, nei balli di sera, non essere le ultime a lasciare la sala. Non posso dispensarmi, chiudendo questo argomento, dal raccomandare un po' di prudenza nei discorsi di alcune madri che accompagnano le figlie al ballo: « Che t'ha detto? ». « Gli hai fatto buona impressione ». « Questo sí che sarebbe un bel partito per te! ». « Cerca d'incoraggiarlo a dichiararsi! ». Comprendo la loro ansia e le loro preoccupazioni, specialmente se sono avanti negli anni e le note della serenata tardano a farsi udire; ma se sapessero quale turbamento questi discorsi possono determinare nell'animo delle figliuole!

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Questo modo di viaggiare non è ancora abbastanza diffuso, sia perché costa troppo, e sia perché molti mancano di coraggio. Alle signore sopra tutto si raccomanda di astenersene se non hanno il pieno dominio dei loro nervi, e se non hanno fatto almeno qualche piccolo volo di prova. Puntualità assoluta, trovandosi sul campo d'aviazione un po' prima dell'ora fissata per la partenza. Salire e prender posto nell'apparecchio soltanto quando si è autorizzati, e conservando il posto che non a caso è stato assegnato. E poiché lo spazio è piuttosto ristretto, sforzarsi di essere piú ch'è possibile discreti. I viaggiatori non debbono di propria iniziativa aprire porte e sportelli, né debbono gettare alcun che dai finestrini. Data la delicatezza delle manovre, ciascuno deve attenersi scrupolosamente alle prescrizioni, evitando specialmente ciò che possa provocare scosse improvvise o troppo forti all'apparecchio. Per l'acconciatura e per il vestiario, evitare tutto ciò che possa offrir presa al vento. Essendo, poi, impossibile, o quasi, la conversazione, a causa del frastuono dei motori, chi abbia bisogno di distrarsi porti con sé qualcosa di particolarmente interessante da leggere. E se dovessero verificarsi inconvenienti di stomaco, tener presenti le raccomandazioni per i viaggi per mare, servendosi, secondo le prescrizioni, dello speciale ricettacolo (col c, non col g!).

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Già: si balla anche in montagna; per quanto piú moderatamente che altrove, perché le gambe si sono abbastanza esercitate durante la giornata. Lo svago preferito è quello delle escursioni a piedi: dove gli uomini indossano un dignitoso e comodo vestito sportivo, con scarpe solide; chiodate, e bastone ferrato. Aboliti i guanti, il cappello, la veletta. Graziosissimi, per le brevi gite nei prati e nei boschi, i vestiti di cretonne a tinte vivaci, e quelli che hanno qualche simpatica nota di colore locale; né meno graziosi i vivaci fazzoletti sul capo, annodati sotto il mento o dietro la nuca. Chi organizza le escursioni deve evitare le dimenticanze e le esclusioni ingiustificate. E chi vi partecipa sia di buon umore, e allontani tutti quei piccoli « casi » che possano turbare l'allegria della comitiva, o che si possano prestare a commenti poco benevoli degli altri gitanti. Se si porta il sacco a spalla, qualche signora stanca potrà gradire, ma non chiederà di esser aiutata ; le difficoltà dell'escursione e le proprie forze vanno esaminate e valutate prima; tanto piú che, se il moto - in montagna specialmente - fa bene, lo strapazzo nuoce; senza dire che, quando si è affaticati, non si vede né si gusta piú nulla; e si diminuisce, con la propria stanchezza, la gioia di tutta la comitiva. I rifugi senza guardiani sono affidati alla buona educazione degli escursionisti, i quali li debbono lasciare come li desidererebbero trovare. In costume escursionistico si può girare per le sale dell'albergo; non in tutte, però, né, come ho detto, in tutte le ore. La quota di partecipazione si paga non piú tardi del giorno successivo: la delicatezza impone che le signore, come sono state riservate nell'accettare qualcosa loro offerta, cosí sieno piú puntuali anche degli uomini a pagare la loro quota. Uno degli inconvenienti piú frequenti della villeggiatura in montagna è il maltempo: e allora son dolori, perché bisogna restarsene tappati in casa. Fioriscono in queste occasioni, specialmente se si è in albergo, i cosí detti « giochi di società ». Se, per vincere la noia -e non avendo di meglio da fare - volete sforzarvi di prendervi gusto, fatelo pure; ma sarà bene non prenderne l'iniziativa, perché tali giochi, per lo piú, o trascendono i limiti della convenienza o sono infinitamente idioti. Ecco perché, in un angolino della valigia, dovrebbe « sempre » trovar posto qualche buon libro.

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Se egli gentilmente vi ringrazia e vi dice che la parte di dolce che ha avuta gli basta, potete essere sicuri che mentisce; se non vuol mentire, dirà che non ne avrà mai abbastanza! Le impressioni che egli riceve, e alle quali con bella spontaneità ubbidisce, sono, generalmente, sensorie e, di conseguenza, superficiali: d'onde la necessità urgente di sviluppare la riflessione e di creare, cosi, nuove abitudini. Se parlate con uno studente - e, purtroppo, non soltanto delle prime classi! - egli vi dice, e con convinzione, che qualche sua sconfitta scolastica è dovuta ad antipatia dell'insegnante. Ora, questo dell'antipatia, come quello del suo contrario, è un fatto umano, spiegabilissimo; ma non definibile alla maniera dello studente. Se questo è poco rispettoso, arrogante, sopraffattore, molesto, svogliato, si capisce che è trattato « meno benevolmente » d'un altro che sia cortese, buono, modesto, diligente. A parità di condizioni intellettuali, - ed è giusto che sia - negativo il giudizio sul primo; positivo il giudizio sull'altro. Ond'è che lo studente, quando ha sviluppata la capacità riflessiva, invece di accusare l'insegnante di parzialità, si domanda perché non riesce a lui, se cosí vuol dirsi, simpatico. E allora, forse, trova che egli va a scuola poco pulito o poco ordinato nella persona e nelle cose: che, interrogato o ammonito, risponde con una spallucciata; che fa spesso dello spirito a carico dei compagni e, talora, anche dell'insegnante; che non sta attento e dà noia durante le lezioni. E il peggio non è tutto qui: il peggio sta nel fatto che, molto spesso, i genitori, con tanto di « povero Cocco! » di qua e « povero Tesorino! » di là, finiscono col dar ragione al Cocco e al Tesorino, e col pigliarsela essi pure con l'insegnante. Ma, di grazia, cotesti signori genitori non pensano che essi, implicitamente, hanno affidato agl'insegnanti il compito di educare e di istruire i propri figlioli? Ed è logico ed è onesto che essi medesimi screditino quelli presso di questi, o ne sminuiscano comunque la dignità e il prestigio? Gli studenti facciano, per quanto è possibile, quel che si richiede da loro, e si accorgeranno che le simpatie e le antipatie, le parzialità, le ingiustizie altro non sono che loro false impressioni o errate interpretazioni. Ho detto « per quanto è possibile », perché anche gl'insegnanti capiscono - certo, qual piú qual meno - che, in un periodo della vita in cui ogni cellula dell'organismo cresce e si moltiplica intensamente e incessantemente, sarebbe assurdo pretendere l'immobilità assoluta, l'assoluto silenzio, l'attenzione indefinitamente prolungata. C'è differenza fra gravità e serietà; e, mentre sarebbe balordo pretendere da ragazzi « sani » e «intelligenti » la gravità, si ha il diritto e il dovere - di pretender da loro almeno un certo grado di serietà! Ecco, dunque, la linea di massima che lo studente bene educato deve tenere: Contegno dignitoso tanto all'entrata nella scuola, quanto all'uscita; si salutano tutti gl'insegnanti, non s oltanto i propri; non si siede se non quando si è seduto l'insegnante; non si risponde con i monosillabi «si» e no », né si chiamano gl'insegnanti col loro solo cognome; non si sciupa in qualsiasi maniera l'arredamento scolastico o il materiale didattico; non si fanno atti che possano destare l'ilarità; non si ricorre a bugie e a sotterfugi per giustificare la propria impreparazione, né si copiano i lavori scolastici dai compagni; i quaderni puliti e i cómpiti scritti in modo leggibile; mancanza grave alterare il proprio diario, gravissima alterare la pagella o il diario di classe; non si deve suggerite, né invitare i compagni a farlo; si deve star comodi, ma composti, né si debbono disturbare gli altri; esser gentili, generosi, solidali con i compagni, ma solidali nel bene, non nelle marachelle; non si fa gli schifiltosi, come non si vantano le proprie ricchezze: nella scuola, tutti sono uguali, e il maggior merito dipende esclusivamente dal far meglio; non si prende a volo uno sbaglio che può essere sfuggito inavvertitamente all'insegnante, per ridere e farne ridere; né si riferisce fuori di scuola, inesattamente, quel che può esser stato detto nella scuola; né si denunziano sistematicamente i compagni. Non si gettano carte, né s'imbrattano comunque le aule. Si trattano con gentilezza i bidelli. Lo spreco della carta è una delle cose che gli scolari debbono evitare con la massima cura. Pensino che, raccogliendo quotidianamente i rifiuti di carta in tutte le scuole d'Italia, se ne mettono insieme parecchie tonnellate: il che equivale a un risparmio quotidiano di diecine di migliaia di lire del patrimonio nazionale. Dalla scuola, la bella abitudine si porterebbe in casa; dalla carta, si passerebbe ai rifiuti di ferro, di vetro, di legno, di stoffa; sí che, imparando a metter da parte qualsiasi avanzo, i nostri scolari potrebbero compiere una grande opera patriottica. Ugualmente, nel fornirsi del necessario - matite, gomme, pennini, colori, compassi, ecc. - dovrebbero dare la preferenza assoluta a prodotti nazionali, tenendo presente che ogni risparmio nell'interesse dell'erario e risparmio nell'interesse proprio. Quanto all'attenzione, è interesse dell'alunno prestarne piú che può, perché quanto si sta attenti a scuola, tanto meno s'ha da studiare a casa, pur senza dire che non è certo segno di buona educazione distratti, o attendere ad altro mentre l'insegnante spiega. Quindi, non si chiede sistematicamente di uscire, col pretesto di bisogni inesistenti, e dimostrandosi o svogliati o annoiati o malati, o comunque incapaci di comandare al proprio organismo. Il ragazzo bene educato provvede ai propri bisogni prima d'uscir di casa; e ragazzi sani debbono poter stare alcune ore senza sentir bisogni; come, del resto, stanno al cinema. Un vezzo, poi, e sommamente riprovevole - per quanto fin troppo frequente: quello di servirsi, talora dei muri, piú spesso delle carte murali, come di vere e proprie lavagne su cui si può vedere tutta una serie di botte e risposte di ragazzi... di spirito: ma non di tanto spirito da sottoscrivere! - È uno sconcio che basta da solo ad infamare un istituto. Tale sconcio è divenuto ormai generale, sí che non c'è palmo di muro, non c'è uscio - nelle città e nei villaggi - su cui non si vedano scritte col gesso, e talora addirittura con la vernice, le cose piú insulse o piú oscene. - Gl'insegnanti, specialmente elementari, dovrebbero fare una crociata contro questa pessima abitudine che ci infama di fronte agli stranieri e di fronte a noi stessi. Se la classe è mista, grande cortesia e vivo spirito di cameratismo, ma nessuna dimestichezza; gli alunni dànno prova di signorilità non chiamando mai le compagne per cognome soltanto; e queste dànno prova di serietà esigendo rispetto dai compagni, non presentandosi a scuola acconciate come per un ballo e, sopra tutto, non adoperando nella scuola il loro « armamentario - che è, spesso, rigatteria - di bellezza ». Finita la lezione, nessuno si alza prima dell'insegnante, e nessuno esce se non è uscito lui. Nelle scuole primarie d'America vien fatto pronunziare agli alunni il seguente giuramento civile: « Prometto di non danneggiare alberi o aiuole; di non sputare nelle carrozze pubbliche, nelle aule della scuola, in qualsiasi altro pubblico edifizio e né pure sulla via. M'impegno a non danneggiare o insudiciare alcun edifizio. Non getterò mai pezzi di carta o altri rifiuti nelle aule scolastiche o nei luoghi pubblici. Userò sempre e con tutti modi cortesi. Proteggerò gli uccelli. Proteggerò la proprietà degli altri come vorrei che fosse protetta la mia. Prometto di essere un cittadino sincero e leale ». Anche in molte nostre scuole c'era l'uso - non so se ci sia ancora - di un « premio di pulizia », di un «premio di gentilezza »: uso, a mio giudizio, lodevolissimo; giacché, se si premia in tanti modi la dote - interessata - della diligenza, non si capisce perché non si dovrebbero premiare altre doti, specialmente le piú disinteressate. Ho veduto in molte scolette di campagna rinnovati a gara, ogni giorno, i fiori silvestri sulla cattedra della giovine maestra, e ci commovemmo quanti assistevamo a una festicciola in una di tali scolette, vedendo a un posto vuoto... un gran mazzo di fiori, messo li spontaneamente dalle piccole compagne dell'assente. Gli scolari, poi, d'America giurano di proteggere gli uccelli: e perchè non gli altri animali? Suppongo si sappia che, da qualche anno, in tutto il mondo civile, v'è una giornata - il 4 di ottobre - consacrata alla propaganda in favore degli animali. Data sapientemente scelta, perché coincide con la festa del Santo d'Assisi, il quale viveva in mezzo agli animali, ne comprendeva il linguaggio e fu il loro piú fervente amico e protettore. Quanto allo studio e al profitto, non debbono dimenticare gli studenti che a scuola si va non per carpire con qualsiasi mezzo buono o cattivo, un voto, né pensando soltanto all'esame: a scuola si va per progredire ogni giorno nell'acquisto delle cognizioni, per formarsi una cultura, per prepararsi alla vita. Chi ci va con questo intento, diventa, senza accorgersene, ogni giorno piú abile e piú maturo, ed è sempre preparato e pronto agli esami; chi, invece, ci va soltanto per gli esami, il piú delle volte, fallisce e agli esami e alle altre prove, tanto piú ardue, della vita. Posso infine affermare, sulla scorta di una piú che sufficiente dose di esperienza - e se lo piantino bene in mente i candidati d'ogni ordine e grado! - che, molto spesso, anche l'esito degli esami dipende dalla loro dose maggiore o minore di garbo e di cortesia. Presentarsi male; buttarsi subito a sedere; accavallare le gambe; puntare i gomiti sul tavolo; qualche spallucciata; qualche atto d'impazienza; qualche secco « non è cosi! »...; si sommi tutto questo, e mi si sappia dire se anche l'esaminatore piú generoso può esser disposto benevolmente.

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Colpa, in gran parte, dei nostri sistemi educativi, anche i piú moderni, che non mirano ancora a una educazione gioiosa »: essi non dànno una parte abbastanza larga alla libertà e alla spontaneità; non suscitano sufficientemente l'interesse; non insegnano, in una parola, a conquistare e ad amare la vita. E tutto è lí: mettere della vita sana nel proprio insegnamento significa mettervi della gioia, gioia per il maestro e gioia per gli alunni. Chi ci si offre per essere educato che altro ci chiede se non d'insegnargli il modo migliore di aprirsi e di espandersi? E il raggio benefico che fa sbocciare questi teneri fiori umani è appunto il sorriso consapevole e cordiale: un insegnamento povero e scialbo; un umore tetro; un tono impaziente ed amaro fanno si ch'essi si chiudano in se stessi e sfuggano all'opera educativa. « Non s'impara che divertendosi. L'arte d'insegnare non è altro che l'arte di svegliare la curiosità per soddisfarla poi; e la curiosità non è viva e sana che negli spiriti felici ». Parlare, nella scuola, di serenità, di fiducia, di gioia non vuol dire fermarsi alle superficialità, perché altro è esser persona gioiosa e altro, invece, esser persona spensierata, superficiale. Ciò a cui si deve mirare, e che si deve ottenere, è che chi si affaccia alla vita non pensi di esser destinato all'infelicità perpetua, ma veda la via aperta e soleggiata davanti a sé, bella, in ogni caso, anche nelle sue ombre. Insegnare ad amare la vita significa, in fondo, insegnare ad amare il pensiero, il sentimento, l'azione; ossia tre meravigliose sorgenti di gioia che ci attaccano all'esistenza. Si prende gusto alla vita in misura proporzionale al senso di pienezza che l'accompagna: a mano a mano che tale senso diminuisce, la vita si scolora e s'intristisce. Per ogni attività che si perde, si producono dei vuoti nella vita interiore: se altre attività non sopraggiungono a sostituire quelle perdute, i vuoti si allargano e si approfondiscono, fin che s'inabissa in essi tutta la vita. Questo il fosco processo negativo, contro cui la scuola dovrebbe appuntare le proprie armi piú efficaci. Prima cura, quindi, dell'educatore sapiente dovrebbe essere di insegnare in laetitia: chi apre le anime alla bellezza dovrebbe esser sempre sereno e sorridente, felice della gioia che spande intorno a sé e del bene che fa: l'educazione - tanto quella che si dà a se stessi, quanto quella che si distribuisce agli altri - è una delle gioie piú grandi e piú pure della vita! Gioia negata a coloro i quali non aspirano che a dare delle nozioni, attuando solamente la parte meno importante e meno nobile del loro ufficio; mentre quel che bisogna, prima di tutto e sopra tutto, comunicare è una fede attiva e fattiva, l'ardore spirituale, la fiamma misteriosa accesa ed alimentata in sé da un ideale di verità, di virtú e di bellezza. L'insegnare è una prova eroica, un compito sacro di elevazione, il quale, piú che dagli studi di pedagogia, trae il suo alimento da ciò che di piú profondamente vivo ciascuna anima porta in sé. Se l'educazione è preparazione di vita, e ciascuno si augura, desidera e vuole vivere meglio che può, è chiaro che l'educazione non è tale se non comincia dal dare il gusto, il piacere della vita. Si capisce che questo insegnamento non possa trovar posto nei programmi ufficiali, per quanto ottima cosa sarebbe che un posticino ve lo trovasse; ma se ogni insegnante esamina i suoi ricordi piú o meno lontani, trova in se stesso l'indicazione e il comandamento; perché i suoi ricordi migliori son proprio quelli congiunti a una maggior dose di serenità e di gioia saputa dare a lui da chi lo educò durante l'infanzia. Dopo tante definizioni date dell'educazione, la piú saggia rimane sempre quella del grande Montaigne: « l'arte d'insegnare la vita ai fanciulli nella gioia ». Se volete esser felici, cominciate dall'avvicinarvi piú che potete alla natura, ed insegnate a quelli che vi sono affidati ad amare, prima di tutto e al di sopra di tutto, la natura, sorgente inesauribile di gioia. Essa ha una lieta voce materna per tutti: per alcuni, nel soffio del vento e nello stormire delle foglie, nei silenzi divini dei ghiacciai e nei misteri suggestivi delle foreste; per altri, nelle vette vertiginose delle montagne e nel flusso e riflusso dell'oceano, o nei prati fioriti a primavera e negli spazi infiniti del cielo stellato.... Pare retorica e sentimentalismo questo; ma, se voi avete mai avvicinato un « uomo del mare » o « un uomo dei monti », vi siete subito accorti che essi hanno una visione della vita molto serena; troppo piú serena di quella che avete voi, povere creature annegate nei rumori, nelle ansie, nelle ipocrisie della infernale vita cittadina. La scuola cesserà di essere quello strumento di tortura che è, il giorno in cui non avrà piú pareti, e le lezioni si svolgeranno all'aria aperta, nella piena luce del sole, sotto la volta serena e rasserenante del cielo. Un illustre antropologo, esaminando la vita dei piú grandi criminali, non ha trovato nella loro infanzia il lampo d'un sorriso: d'onde un progressivo intristimento, un vago rancore contro tutti e contro tutto; in fine, quasi il sinistro bisogno di compiere contro la società una vendetta feroce della propria vita senza tenerezze e senza gioie. Non è esagerato affermare che il bimbo triste di oggi sarà il tristo uomo di domani. L'espressione piú naturale, istintiva, dell'infanzia è il riso: un bimbo che non rida non è aperto, né fiducioso. Egli è necessariamente taciturno, irrequieto, sversato; sí che, alla piú piccola contrarietà, al piú piccolo rimprovero, diverrà musone e aggressivo. E siccome gli avvertimenti e i rimproveri si contano a centinaia nel corso d'un anno; e siccome il bimbo, nel suo interesse, dev'essere, purtroppo, rattristato dai genitori o dai maestri, se egli non ha una grande riserva di gaiezza, passerà una infanzia desolata: ciò che rappresenta, per lui, la cosa piú nefasta che si possa immaginare. È forse possibile concepire un bimbo che non rida mai? Nell'infanzia, il riso è piú salutare delle cosí dette cure ricostituenti. In quanto fattore di una buona educazione, esso è veramente necessario e insostituibile: dilata il cuore, apre lo spirito, distende l'organismo, predispone alla mitezza del carattere, alla disciplina degli organi servitori. La passività fisica, invece, incoraggia la passività morale; si dice spesso: « Resta lí come un ciocco, come un muro »; queste parole sono la rappresentazione esatta della situazione e dimostrano la verità di quel che dico. Quando il fanciullo si isola e si chiude in se stesso, rimane in una pericolosa compagnia: morde il freno, medita disegni di vendetta e si accinge alle rappresaglie. Un'ora di musoneria gli nuoce piú che non gli gioverebbero i buoni esempi di una intera settimana. La gioia, dunque, conserva la salute dei bimbi, fortificando l'organismo e impedendogli di sentire la fatica. Ma la gaiezza rappresenta, sopra tutto, la salute morale dell'anima infantile: essa la tiene in una dolce serenità e in una tranquillità sommamente benefica. piú un cuore è dilatato dalla gioia - e questo non nell'infanzia soltanto! - piú vi è posto per la bontà e per la tenerezza. Come può un educatore ignorar questo o non tenerne grandissimo conto? Né mi si rimproveri d'essermi indugiato un po' troppo sull'argomento: mi è parso doveroso anche perché, non ostante le molte cure da noi dedicate alla Scuola, non ancora si è fatto abbastanza per quel che si riferisce alla « gioia nell'insegnamento ». Dopo tutto, si tratta della « salute spirituale e della razza, non meno importante di quella fisica; ed anche in questo campo, non bisogna esser secondi a nessuno! Io, che seguo da vicino la evoluzione delle istituzioni scolastiche in tutti i Paesi, ho constatato che, sotto questo punto di vista, noi lasciamo ancora a desiderare; tanto che, si può dire, non abbiamo pubblicazioni sull'argomento, né vi sono esplicite e rigorose raccomandazioni governative al riguardo. Recentemente, il governo olandese ha inviato negli Stati Uniti una commissione per studiare se, nelle scuole americane, i bimbi sono piú felici di quelli europei nelle proprie scuole. La relazione è stata pubblicata recentemente, e merita di esser conosciuta e meditata; né soltanto per la larga messe di profonde osservazioni fatte nei differenti tipi di scuole di quarantotto Stati americani - dove, com'è noto, non esistono sistemi nazionali di educazione - ma anche per il raffronto fatto con le scuole di altri Paesi orientali ed occidentali. Di modo che, come dicevo, da nulla le norme che regolano il vivere cortese, generoso, buono zampillano cosí spontaneamente come da una concezione di vita equilibrata, serena, feconda, felice: concezione che si dà e si apprende specialmente nella scuola.

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La visita era appena cominciata, con la guida del rettore, quando la visitatrice si fermò, dicendo di aver veduto abbastanza. Abbastanza per recedere dal suo proposito: aveva veduto ad alcune porte lo spioncino... La maggior parte dei giovani convittori non s'è, forse, mai chiesto perché sia in convitto; o, pur sapendolo, molto spesso lo dimentica: essi si trovano in convitto, per esservi «istruiti ed educati »; anzi, educati prima, poi istruiti; perché, senza uomini dotti, la società civile si potrebbe reggere ancora; andrebbe, invece, in rovina senza uomini educati, senza gentiluomini. Chi tenga costantemente presente questo fine, e ad esso conformi la propria condotta, non può che trovarsi bene, e finir meglio. Certo che, data l'età e dato il bisogno, nella prima giovinezza, di moto e di libertà, la vita « regolata » del convitto riesce un po' pesante; ma bisogna pur ricordare che nulla, per lo piú, diede la vita ai mortali senza lavoro e senza qualche sacrifizio. E bisogna ricordare altresí, piaccia o non piaccia, che la pianta si piega e si adatta quando è tenera ; non si piega né si adatta piú quando è sviluppata e cresciuta; e che noi siamo, da uomini, quali fummo formati e plasmati da fanciulli. D'onde la necessità assoluta di sottostare a una regola, di ubbidire a una disciplina, di conformarsi, cioè, a tutto quello che esiste al mondo, perché nulla esiste al mondo che non abbia una sua legge e ad essa non ubbidisca. Chi si guardi intorno con occhio sapiente osserva l'ordine e l'armonia da per tutto; e ordine e armonia significano disciplina. Nulla è impossibile, nessuna mèta è irraggiungibile per l'uomo disciplinato; mentre tutto è incerto, tutto in balía del caso per l'uomo che non abbia saputo o voluto disciplinarsi. Ciò premesso, ne consegue che la disciplina non è una norma astratta, fuori della vita; ma quasi una linea di condotta perfettamente e costantemente aderente alla vita; una regola che non è fuori di noi, ma deve essere un nostro proposito fermo; anzi, piú che proposito, un sentimento profondo, che domini ogni nostro atto, si sia o non si sia osservati, ci sia o non ci sia una sanzione. Diversamente, la disciplina sarebbe null'altro che finzione, contraffazione, ipocrisia. Né essa si discute: è un principio che obbliga tutti; e tutti ugualmente; e da chiunque rappresentato: « è cosi, perché è cosí»; « questo si fa o non si fa, perché si deve o non si deve fare! ». La vita interna. È regolata, si può dire, ora per ora, e quasi minuto per minuto. C'è il tempo fissato per il riposo, per lo studio, per la ricreazione, e a nessuno dev'esser lecito protrarlo o accorciarlo secondo il proprio gusto: si pensi a quel che accadrebbe, se ciascuno facesse a suo piacere! Quindi, i vari segnali obbligano tutti, e immediatamente; l'ubbidienza « immediata » ai segnali è il fondamento della disciplina interna ; e non della interna soltanto, ma anche della interiore. È assolutamente errata l'osservazione che questa violenza fatta alla volontà dà poco buoni risultati, perché impone lo studio quando si preferisce la ricreazione, e il riposo quando si preferirebbe lo studio. Si confonde la « violenza » con l'« educazione » della volontà; educazione che, come ho detto, è la base di ogni successo e di ogni benessere della vita. E poi, sarebbe in parte vera, quando si trattasse di volontà consapevole, non di volontà giovanile, quasi ancora istintiva, la quale si capisce che preferirebbe il gioco allo studio, il letto alla scuola. Il convittore deve, dunque, tener presente che, mentre gli altri giovani della sua età sono educati in famiglia - in una società, cioè, molto ristretta - egli viene educato - e, a mio giudizio, per sua fortuna - in una società piú ampia, dove piú presto si sviluppano e si apprendono le nozioni di dovere e di diritto; dove non vi sono le condiscendenze parentali, che talora guastano l'opera educativa; dove, in fine, si sviluppa piú presto il senso della responsabilità - che è il piú grave e il piú importante della vita - essendo affidato al contegno del convittore il prestigio, la dignità, il buon nome non soltanto suo e della sua famiglia, ma anche della istituzione a cui egli appartiene. Pertanto, le norme della cortesia avanti esposte valgono per lui come per tutti; però s'impongono, per cosí dire, al convittore pin strettamente che agli altri. Un giovinetto che vada in giro con le scarpe polverose, con la giacca frittellosa, con dei bottoni pendenti o addirittura mancanti, può anche non esser notato o, al piú al piú, sarà sfavorevolmente giudicato, per quanto sconosciuto; se nelle medesime condizioni si trovasse un convittore, l'identificazione è presto fatta; e il nostro prossimo - disposto, per lo piú, a sentenziare all'ingrosso e poco benevolmente - da un convittore disordinato, giudica male il convitto; e il discredito ricade fatalmente dal convitto su tutti i convittori. Io conosco tanti i quali, pur alla distanza di decenni, si vantano d'essere stati educati in questo o in quel convitto: in convitti si capisce, che godevano e godono eccellente reputazione. Quindi, prima dote di un buon convittore dev'essere l'ordine; e ripeto qui che l'ordine non riguarda soltanto l'esteriore, ma tutte le nostre attività, tutti i nostri aspetti, dai piú effimeri ed apparenti ai piú spirituali e profondi: l'ordine, in una parola, è il primo passo per la educazione della volontà. Osservando come un convittore lascia il suo posto nel dormitorio o nello studio, come lascia la cameretta, come cura la tenuta, come sta a scuola, come partecipa ai giochi, si nota subito se egli è « ordinato ». È opportuno scendere a qualche particolare: Nel dormitorio, si rimane solamente nelle ore destinate al sonno, salvo che non sia altrimenti stabilito. Durante la notte, non si fanno cose che possano, comunque, disturbare il riposo degli altri. Le operazioni dello svestirsi, del vestirsi, della pulizia vanno eseguite con decenza e con sveltezza; beninteso che la sveltezza non deve giustificare la benché minima trascuratezza. La cameretta va tenuta pulita e ordinata, con ogni cosa al suo posto. Non si ricevono compagni nelle ore, o nelle maniere vietate; né vi si fa qualsiasi altra cosa non consentita dal regolamento interno. Non si fuma; né si tengono cose mangerecce che emanino odori sgradevoli, vini o liquori. È anche prudente non prepararsi il caffè con le enormi macchine a spirito, sia per lo sgradevole odore che questo lascia, sia per i pericoli che tali macchine presentano. Alla preghiera del mattino e della sera, si partecipa con la massima serietà; e con serietà non minore si partecipa al rito dell' alzabandiera. È il modo migliore di cominciar la propria giornata questo d'innalzare il pensiero a Dio e alla Patria. E si tenga presente che, presso alcuni popoli - l'americano, per esempio - piú grave castigo che si possa infliggere a un convittore o a uno scolaro è quello di escluderlo dal saluto collettivo alla bandiera! A studio: ci sono, si sa, quelli che studiano di piú e quelli che studiano di meno: quelli che evitano ogni distrazione, e quelli per i quali ogni occasione è buona per distrarsi. I primi hanno diritto a non essere in alcun modo disturbati; mentre il dovere dello studio dovrebbe esser sentito da tutti indistintamente. Studiar poco significa far brutta figura a scuola e in convitto; significa procurar noie - e dolore - alle famiglie, ai superiori e a se stessi; significa, quindi, scarsa sensibilità, scarso amor proprio. E che di buono si può attendere da un giovinetto che non abbia « amor proprio »? I convittori poco diligenti pensano mai alla vergogna, quasi alla tragedia e al lutto, del loro ritorno in famiglia: ritorno che dovrebbe, invece, essere una gioia per tutti? Anche i fratelli, anche le sorelline, che aspettano a braccia aperte chi ritorna vittorioso esprimono, con la loro accoglienza fredda, il proprio risentimento per l'ingratitudine dimostrata verso i genitori, per il dolore loro procurato, per le piccole bugie che si dovran dire, arrossendo, ai parenti e agli amici. E le vacanze? Si aspettano per lunghi dieci mesi; e poi quei giorni che sarebber dovuti essere di spensieratezza e di svago si convertiranno in giorni di preoccupazione, di amarezza, di tormento. C'è, è vero, chi non disturba gli altri durante le ore di studio perché dorme, o legge libri di viaggi e di avventure; ma costoro non sono meno riprovevoli; appunto perché dormono o leggono, invece di studiare; ossia perché non compiono il loro dovere e ingannano i genitori, i superiori e se stessi; se stessi, sopra tutto. Prima, però, di denunziare i disturbatori, è bene avvertirli e riavvertirli amichevolmente. Il posto a studio dev'esser lasciato in ordine, come quello del dormitorio, come la cameretta: al suo posto, e sempre al medesimo posto, ogni libro, ogni quaderno, ogni oggetto da scrittoio. È il solo modo di non perder tempo per cercar questo e per cercar quell'altro, e di ubbidire prontamente ai segnali. Al refettorio: che si vada a tavola con eccellente appetito è, senza dubbio, ottima cosa; ma cosa non altrettanto ottima è lanciarsi come lupi sulla preda, dimenticando ogni regola fondamentale di buona educazione. È, anche qui, mancanza di amor proprio costringere il superiore presente a ricordare le norme del ben stare a tavola. A chi può far piacere questo? Perciò, è indispensabile tener presenti le norme indicate, e attenervisi scrupolosamente. C'e anche da fare qualche raccomandazione in piú: siccome le tavole sono lunghe, e, spesso, accostate alle pareti, non precipitarsi al proprio posto, ma attendere che sieno prima entrati coloro che stanno dalla parte opposta a quella d'onde si entra. Se si legge qualche cosa, non disturbare; evitando sopra tutto, e in ogni, caso, di produrre, con i piatti o con la posata, quel frastuono che è caratteristico delle osterie d'infimo ordine. Poiché i commensali sono numerosi e gli ambienti non sempre vasti, è assolutamente necessario parlare sottovoce e non produrre rumore con le sedie, sia nel sedere a tavola, sia nell'alzarsi. Se si va a tavola con la tenuta di parata, e la minestra è brodosa, è lecito - ma soltanto eccezionalmente e ai piú piccini - di fermare il tovagliolo al colletto o fra i bottoni della giubba. Per qualsiasi reclamo non brontolare contro i servitori, né richiamare l'attenzione dei compagni, o fare con loro sfavorevoli apprezzamenti, ma - a tempo e luogo opportuni - esporre le proprie ragioni ai superiori. A ricreazione: il moto, la gioia piacciono a tutti; per la gioventú, sono l'espressione della vita: chi, in questa bella e cara età, non « esplodesse » dimostrerebbe di essere ammalato nell'organismo e nell'anima. Ma, per carità, che non si somigli a tanti veltri che escan di catena! Est modus in rebus: ci vuole una misura in tutto; anche nel passare dalla noia e dalla fatica dello studio, al sollievo e al giubilo della ricreazione. Se qualcuno vuol continuare a studiare non deve essere molestato o deriso dagli altri. Come egli non può pretendere che si parli sottovoce o che non si suoni il grammofono, cosí gli altri debbono rispettare il suo desiderio. Quante volte si suol ripetere, con tono canzonatorio, la parola sgobbone! Si è illogici e crudeli senza, forse, saperlo; perché, per lo piú, si dà quell'epiteto a compagni di volontà tenace che intendono di riuscire ad ogni costo, o a compagni che non hanno da spendere per « sussidiari » o per ripetizioni. Nei giochi, il convittore deve dimostrarsi di modi particolarmente signorili, evitando ogni atto di volgarità, di violenza, di frode, di sopraffazione: non deve deridere i compagni che hanno perduto; e, se gli si fa qualche scherzo, bisogna che ci sappia stare, che non si dimostri permaloso, quando, beninteso, lo scherzo sia sobrio e non offensivo; quando, in altri termini, sia contenuto entro certi limiti. Chi non desidera che si scherzi con lui non deve scherzare con gli altri. Arrangiarsi: è una brutta parola, venutaci dal francese, e che sa di caserma. Nei convitti, la si ripete piuttosto spesso e, purtroppo, la si pratica anche. Essa vuol dire « provvedere nel modo piú spiccio e piú comodo ai propri casi ». E scomparso un libro dallo scaffalino? Si provvede subito, prendendo lo stesso libro a un altro: si è improvvisamente spezzata una stringa? La si sostituisce con una portata via a un compagno. Per l'alta considerazione in cui ho i convitti, mi limito ad accennare al libro e alla stringsa; ma, talora, l'arrangiarsi va al di là delle piccole cose. Or mi domando come si faccia a non capire che, se l'arrangiarsi è uno scherzo, uno scherzo di pessimo genere, assolutamente da evitarsi; e, se non è uno scherzo, è qualcosa che si avvicina di molto al furto. Francamente, il convittore bene educato non si arrangia; e se si accorge che altri lo fanno sistematicamente a suo danno, deve denunziare il fatto ai superiori. Per i lestofanti ci son altri convitti! E, sia detto una volta per sempre, in questo caso, come in altri di qualche gravità, non si tratta di « far la spia », ma di salvare le proprie cose dll'istinto razziatore di altri; si tratta di salvare il buon nome del convitto: non farlo significherebbe complicità. Al piú al piú, per eccesso di generosità, si può denunziare il fatto, tacendo il nome degli arrangiatori sistematici, lasciando ai superiori la cura di identificarli. A ripetizione: questo delle cosí dette ripetizioni è divenuto, un bisogno quasi generale. E non se ne capisce la ragione; perché, fino a qualche decennio addietro - e quando i programmi erano piú vasti e piú complessi - la scuola bastava a tutti, e si ricorreva alle lezioni private soltanto nel caso di scarsa intelligenza o quando si voleva guadagnare qualche anno. Ci pensino, dunque, i convittori, e facciano del loro meglio per risparmiare questa spesa alle famiglie. A ogni modo, se lo credono necessario o opportuno, prendano pure lezioni; però tengano presente che esse debbono servire a colmare eventuali lacune, a completare il lavoro scolastico; in nessun caso, si deve ricorrere all'insegnante privato per farsi preparare da lui i cómpiti di scuola. Se cosí si facesse, il maggior lavoro e la maggiore spesa, invece di giovare, si convertirebbe in danno, perché si eviterebbe lo sforzo, che è il piú sicuro e piú efficace maestro dell'apprendimento. E si tenga altresí presente che l'insegnante privato è un insegnante come tutti gli altri, a cui si deve il massimo rispetto, e che non si può far venire o non venire secondo che piaccia o non piaccia, secondo che se n'abbia o non se n'abbia bisogno. La corrispondenza: è bene sia ridotta al minimo indispensabile. È doveroso scrivere almeno una volta per settimana alla famiglia. Si dice sempre la verità; si conferma che si sta di buon animo in convitto o, per lo meno, che ci si sta non troppo malvolentieri; non si fanno apprezzamenti poco benevoli sul trattamento o sui superiori, dando, come si suol dire, corpo alle ombre, ossia presentando come andamento generale quel che può essere stato uno sporadico e trascurabile caso particolare; si comunicano le piccole soddisfazioni ed anche le piccole sconfitte; si fa cenno dei timori, delle speranze e, sopra tutto, dei buoni propositi. Le lettere si fanno partire nei modi prescritti: se si ricorre ad altri mezzi, vuol dire che si ha qualcosa da nascondere; qualcosa, cioè, che non risponde a verità o che non è consentita dalle norme disciplinari. La vita esterna. Mi par quasi superfluo ripetere che, quando si è fuori, non si è il signorino Tizio o il signorino Caio, ma si è « un convittore», « uno di questo o quel convitto », per cui, qualsiasi cosa si faccia, di bene o di male, non ridonda tanto a merito o demerito della persona, quanto a merito o demerito della qualità specifica che si riveste, della istituzione di cui si fa parte. A scuola: il convittore dev'esser modello di diligenza, di contegno, di ordine. Se, per nessun alunno, è scusabile che gli manchi un libro, un quaderno, un foglio, la penna, lo è ancor meno per il convittore ; perché il convittore, anche in questo, si deve sorvegliare ed esaminare scrupolosamente prima di avviarsi a scuola. E sono riprovevolissimi quei convittori che « si rifanno » nella scuola del silenzio e della disciplina dovuti mantenere in convitto; com'è colpa gravissima obbligare un insegnante o un Preside a lamentarsi col Rettore della negligenza, del contegno poco corretto, del disordine dei dipendenti. Con i compagni esterni, i rapporti di buon cameratismo, e non oltre: se la classe è mista, uno squisito tratto cavalleresco con l'elemento femminile, ma nessuna smanceria o cascamortaggine. E, quando le lezioni sono finite, poiché l'istitutore è già lí ad attendere, allontanarsi sollecitamente e ordinatamente con lui, senza indugiarsi, con futili pretesti, per i corridoi, e magari a bocca aperta, per veder passare « le ragazze ». È bene non dimenticar mai che altro è « affermare - ed orgogliosamente anche! - di appartenere a un convitto » ed altro è « far la figura del collegiale ». A passeggio. Mai si è cosí sotto gli sguardi di tutti come quando si è a passeggio. Fa piacere all'occhio e allo spirito vedere dei giovinetti eleganti, che incedano marzialmente, composti e disciplinati, senza la piú piccola sguaiataggine nella voce, nel riso, nel gesto; senza dar noia ai passanti; senza volger il capo in giro, come un arcolaio, quasi alla ricerca ansiosa di una persona che interessi. Specialmente per le vie della città, né pur ci dovrebbe essere bisogno della vigilanza dell'istitutore, poiché ogni convittore dovrebbe esser animato da tale un senso di responsabilità da non permettersi cosa alcuna che possa, in qualsiasi modo, compromettere la reputazione dell'Istituto. Al teatro, al cinema, ai trattenimenti pubblici: la solita raccomandazione: presentarsi irreprensibilmente; e sempre tenere un contegno irreprensibile; come se esclusivamente dal contegno proprio dipendessero il buon nome e il prestigio del convitto. Da osservare in piú che, ai convittori in tenuta di parata e « in corpo », non sono consentite alcune piccole libertà permesse ai singoli: come lo scegliersi o il cambiar posto; il portare o il cavarsi i guanti, ecc.: per questo, attenersi scrupolosamente agli ordini ricevuti; anche per risparmiare al superiore presente il poco gradito compito di dover fare dei richiami in pubblico. Alle gare: signorilità nei modi, lealtà nello spirito; e impegnarsi a fondo perché trionfi il gruppo al quale si appartiene. Qui, come altrove, ora come sempre, esser animato da quello che, in gergo militare, si chiama « spirito di corpo ». I superiori: sono quelli che, implicitamente, hanno ricevuto dalle famiglie il delicato incarico di sostituirle nella educazione dei figlioli. Quando s'è detto questo, s'è detto tutto; e il convittore che questo comprende - e sente- sa anche quale debba costantemente essere il suo contegno verso di loro. Tale contegno si compendia in poche parole: rispetto assoluto ; ubbidienza incondizionata ; fiducia illimitata! Il buon convittore dimostra il suo rispetto per i superiori non in presenza loro e nelle forme soltanto. Parla con loro modestamente, stando composto, senza arroganza o presunzione; s'interessa vivamente a ciò che essi dicono o raccomandano; non risponde alzando le spalle ; non ne sparla, né si associa a chi ne sparla; se si vede trattato da loro con familiarità, non ne abusa; ubbidisce ed eseguisce anche quando par errato o eccessivo ciò che gli si chiede; subisce rimproveri e punizioni, anche se sembrano ingiusti; farà valer dopo le sue ragioni, se ne ha. In una parola, s'adopera piú e meglio che può per guadagnarsi la loro stima e la loro benevolenza. Il Rettore: è il Capo del convitto; colui che provvede e sovraintende a tutto ; colui che risponde di tutto, e su cui, di conseguenza, gravano tutte le responsabilità. Egli vuol bene ai convittori come a figlioli proprii, s'interessa piú che può alla loro salute, e meglio che può ai loro studi, alla loro formazione, a gettar le basi del loro avvenire. Comprende i disagi e i piccoli sacrifizi di ciascuno e ricorre a ogni mezzo e a ogni modo per attenuarli, per tener su lo spirito, per incoraggiare. E se, talora, par ch'egli prenda cura di alcuni piú che di altri, ciò dipende dal fatto che quelli hanno saputo, come poc'anzi ho detto, guadagnarsi piú degli altri la sua stima e la sua benevolenza, o perché dimostrano di aver maggior bisogno di sprone e di aiuto. Il che accade dovunque: ed è spiegabilissimo; ed è giusto - e doveroso - che, da un superiore, non si trattino alla stessa maniera quelli che fanno bene e quelli che fanno male. Invece, dunque, di mormorare, come spesso accade, meglio è mettersi in condizioni di farsi apprezzare e benvolere. Qualche volta - per fortuna, raramente! - il Rettore è costretto a mostrarsi un po' « duro ». È costretto, dico; perché ha anche lui una norma a cui sottostare, e piú rigorosa di quelle dei convittori; perché la vita e la dignità dell'istituto sono al di sopra del piccolo e povero interesse individuale e privato. Se nota, per es., una... pecora zoppa, egli, in quanto uomo, può anche compatirla; ma, come capo di un Istituto di educazione, deve energicamente cercar di guarirla ; e se nota un ramo insensibile e morto, deve inesorabilmente tagliarlo. Ciò può anche dispiacergli; anzi, si può esser sicuri che gli dispiace senz'altro; però, ripeto, nell'interesse della collettività, è suo stretto dovere farlo. Il Rettore, dunque, vive della vita di tutti, e singoli, i convittori - è quella la sua famiglia: - egli è accanto a loro, in mezzo a loro, anche quando ne è lontano; il suo spirito, vigilante e paterno, si sente da per tutto, a tutte le ore. Dato ciò, come non aver fiducia in lui, non rispettarlo, non volergli bene? Un convittore mi confessava candidamente d'aver conosciuto parecchi Rettori, ma nessuno piú severo del babbo. Il Vice-Rettore. Poiché il Rettore deve attendere a tutte le esigenze della vita del convitto, è giusto che, in qualcuna di esse, sia sostituito da un Vice-Rettore, il quale cura, specialmente, l'andamento disciplinare. E siccome c'è, anche nei convitti, una via gerarchica, il Vice-Rettore rappresenta, per cosí dire, l'ultimo gradino per il quale si accede al Rettore. È logico che questi sia informato di tutto; ma non sarebbe altrettanto logico che i convittori si presentassero a lui direttamente, facendogli affluire tutte quelle minuscole beghe che, nella vita collegiale, non mancano mai. Il Vice-Rettore esamina e vaglia e, quando lo creda opportuno, mette i subordinati a contatto diretto col suo superiore. Di modo che, dal momento che egli sovraintende immediatamente all'andamento disciplinare, e dal momento che questo è l'aspetto piú importante della vita collegiale, ognun vede quanto sieno laboriosi, ardui e delicati il suo compito e il suo ufficio. E chiunque tenti, in qualsiasi maniera, di sottrarsi alla disciplina tenga presente che gli procura un grande dispiacere, obbligandolo a ricorrere a sanzioni disciplinari. Gl'Istitutori: sono i piú vicini ai convittori: coloro che, per primi e meglio, ne conoscono i desideri, i bisogni, le ansie; coloro a cui piú spesso si ricorre, per chiarimenti ed aiuti; coloro che ne condividono la vita di tutte le ore. Le relazioni fra convittori ed Istitutori dovrebbero esser quali tra fratelli minori e maggiori; senza eccessive pretese o sciocche albagie da una parte; senza « arie », o colpevoli condiscendenze, dall'altra. Gli uni e gli altri dovrebbero essere legati da un sentimento di mutua benevola comprensione, basata sulla stima e sulla cortesia reciproca. Se non deve trascendere l'Istitutore, ancor meno deve trascendere il convittore. E non sono nel giusto quei convittori che giudicano buoni gl'istitutori solamente se e quando si rendono quasi complici delle loro eventuali marachelle, e permettono eccessiva intimità e libertà: familiarità, sí; ma, ripeto, non troppa, per non esser costretti, da un momento all'altro, a tirarsi indietro e far dare un giudizio poco lusinghiero sul modo di assolvere il proprio compito. I compagni. I compagni di convitto si ricordano per tutta la vita. Quando questa ci avrà avvolti nelle sue spire, ogni tanto, nelle piccole soste della varia attività quotidiana, affiora dal cumulo delle memorie qualche figura che visse con noi negli anni piú belli della prima giovinezza. E a chi non piacerebbe di esser ricordato dai compagni avvolto in una luce di cortesia, di amicizia, di fratellanza? Scaturisce da questa considerazione il modo di comportarsi del convittore con i compagni. Essere animato verso tutti da un sincero spirito di solidarietà e di cameratismo, che escluda ogni invidia e ogni gelosia: familiarità con pochissimi. Dimostrare della gratitudine per chi gli usi cortesia o, nel suo interesse, lo abbia trattenuto da qualche passo sbagliato, o lo consigli intorno a suoi eventuali difetti. Non essere avaro nel far piccoli favori, specialmente in cose che riguardano la scuola. Passar sopra a delle piccole offese, ed evitare ogni astio o desiderio di vendetta. Non millantare ricchezze, nobiltà, o altro, sopra tutto con chi non si trovi nelle medesime condizioni. Evitare lo stupido vezzo dei soprannomi. Non rivolgere mai la parola a chicchessia in dialetto, sforzandosi piú ch'è possibile di parlare l'italiano correttamente e con accento puro, specialmente quando questa è una delle ragioni principali per cui è stato messo in convitto. Non fare discorsi volgari, né dello spirito a spese di chicchessia. Non burlare i compagni per il paese d'onde provengono; per eventuali irregolarità nella loro famiglia; per la loro religione; per il loro modo di parlare; per qualche loro difetto fisico; per i natali poco nobili; per la poca intelligenza. In una parola, trattare tutti come si vorrebbe esser trattati da loro. È prudente, in fine, non invitare i compagni a casa propria per le vacanze, senza il permesso dei genitori; e non accettare con facilità e leggerezza inviti del genere. Gl' inferiori. Il convittore bene educato non tratta dall'alto al basso il personale di servizio, né usa con essa modi arroganti o poco cortesi. La cortesia autentica non si smentisce mai; anzi, s'afferma e spicca di piú specialmente nelle relazioni con gl'inferiori; perché, dopo tutto, non c'è merito ad esser cortesi con i superiori, e né pur con gli uguali, che, provocati, ci potrebbero energicamente rintuzzare. Qui, oltre alle raccomandazioni già fatte, mi sembra opportune ricordare al convittore ch'egli si deve guardare dall'indurre i servitori a trasgredire i loro doveri, scendendo con loro a pettegolezzi, o incaricandoli di commissioni che si vogliono sottrarre al controllo. Deve guardarsene, anche perché il servitore compiacente potrebbe esser sorpreso e vedersi applicare quelle multe, o addirittura potrebb'esser licenziato, con non grande soddisfazione di chi ne sarebbe stata la causa. CONCHIUDENDO: Se i giovinetti « sapranno » stare in convitto, ricorderanno sempre con piacere questo periodo della loro vita; e si accorgeranno che, nel convitto appunto, essi ricevettero la buona semente che, fruttificando, avrà fatto di loro degli ottimi cittadini.

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Si sarà già messo abbastanza alla prova il loro sentimento a nostro riguardo, accettando di prendere parte alla vita di famiglia per parecchie ore della giornata. Per chi è ospitato: Accettare soltanto se si è sicurissimi che l'invito è stato fatto con la massima cordialità; non c'è di peggio che accorgersi, anche dal piú lieve indizio, che si è giunti inopportuni, o che si è tollerati. Rifiutare garbatamente se si sa di essere nervosi, se si è malaticci, se si ha bisogno di cure speciali, se si è di gusti difficili. Non condurre seco bimbi o bestie care, salvo che non se ne sia esplicitamente autorizzati, e solo nel caso si sia sicuri che gli uni o le altre non daranno fastidio. Portar seco biancheria sufficiente e della migliore, con qualche vestito elegante per eventuali occasioni. Non dimenticare di mettere nella valigia qualche gradita novità per le persone della famiglia che ci ospita; preferibilmente per la signora e per i bimbi. Preannunziare il giorno dell'arrivo, scegliendo le ore piú comode. Evitare di chieder cose che possano non esserci in casa. Non esser sempre, come si suol dire, tra i piedi, né chiamare continuamente le persone di servizio. Non eccedere nel mangiare e nel bere; né essere avari di ammirazione e di complimenti per ciò che si capisce stare particolarmente a cuore alla famiglia. Lasciar sempre la propria camera quanto piú è possibile in ordine. Non servirsi di tutte le cose nuove messe a disposizione. Avere l'aria soddisfatta e l'umore allegro: sempre pronto a conversare piacevolmente o a tacere; a prender parte ai giochi o a passeggiare o a leggere il giornale all'aria aperta; rifuggendo dai pettegolezzi con altri ospiti, da curiosità e chiacchiere con le persone di servizio ; praticando costantemente le due virtú indispensabili dell'ospite: la condiscendenza e la discrezione. Se « qualcosa » fa comprendere che è tempo di partire, congedarsi abilmente: in ogni caso, un po' prima del termine stabilito. Prima di allontanarsi, non dimenticare le mance: ringraziare con calore della ospitalità; ringraziare ancora per lettera entro otto giorni; e - non subito - ma appena se ne presenterà l'occasione, dimostrare in qualche modo degno la propria gratitudine. Per chi ospita: Invitare soltanto persone sane di corpo e di spirito, giovevoli, la cui compagnia faccia in tutto e per tutto piacere, e le cui condizioni non sieno tali che esse si debbano adattare. Invitare soltanto se si può degnamente ospitare: è mortificante ripetere e sentir ripetere spesso la parola «adattamento ». E opportuno, nell'invito, accennare al periodo: « una settimana », « una diecina di giorni ». Far preparare una delle migliori camere della casa. Andare a ricevere l'ospite alla stazione: soltanto quando non si possa far diversamente, mandare una persona di servizio. Mettere in ordine perfetto la camera; che sia riscaldata, se d'inverno ; che non vi manchi il necessario: asciugamani, sapone, spazzola, spazzolino, candeliere, fiammiferi, bottiglia con acqua e relativo bicchiere, penna e calamaio, carta, qualche cartolina illustrata del posto. Che sieno vuoti e pulitissimi i cassetti dell'armadio: in uno di essi, mettere una camicia per la notte; in un altro, una coperta per il letto. Che vi sieno grucce sufficienti per attaccare i vestiti; e che questi sieno subito fatti stirare, se sono spiegazzati. Mettere a disposizione il bagno, se c'è. Indicare le porte dei singoli ambienti della casa, e gl'interruttori della luce. Prima che l'ospite vada a letto, gli si chiede se desidera che gli sia servita la colazione in camera, e a che ora. Gli si manda l'acqua calda per le pulizie, a meno che, in camera, non ci sia la vaschetta con i rubinetti per l'acqua fredda e calda. Farlo consapevole delle abitudini della casa. Assegnargli il posto d'onore a tavola. Non obbligarlo a mangiare o bere troppo. Lasciargli le ore di libertà. In una parola, disporre ogni cosa in modo che l'ospite capisca che si è pensato a tutto, e che non abbia bisogno di chiedere nulla ; e il trattamento sia tale ch'egli si possa trovare a suo agio, e sia persuaso che la sua presenza non è di fastidio. Lo si accompagna alla stazione, lo si ringrazia della eccellente compagnia fatta, e si esprime l'augurio di poterlo presto rivedere in casa. A queste norme generali vanno aggiunte, tanto per chi è ospitato quanto per chi ospita, quelle particolari di delicatezza, riguardanti i rapporti fra uomini e signore, giovanotti e signorine. In fatto di ospitalità, le leggi e le persone sono sacre: violare comunque le prime, o comunque offendere le altre non è da gentiluomo. E un'ultima raccomandazione va fatta tanto a chi ospita quanto a chi è ospitato: oggi si parla un po' troppo e un po' da tutti - né sempre con competenza e serenità - di politica, di religione, di sociologia, di economia. Ora, questi argomenti vanno toccati con molta discrezione; specialmente se sappiamo o ci accorgiamo che le opinioni non concordano eccessivamente.

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Per questo appunto, non le si raccomanda mai abbastanza di essere, sí, affettuosa, ma di saper anche esser ferma; di non intervenire inopportunamente, ossia, di non render vana la parte severa, e talora inesorabile, che spetta particolarmente all'uomo nella formazione del carattere. Giacché, purtroppo, vi sono delle madri le quali, mentre sono appena condiscendenti col marito, agiscono con i figli come se fossero le loro donne di servizio, facendosi in quattro per risparmiar loro il piú piccolo fastidio. Meno male quando son piccini; ma è grave - e deplorevole - che, anche quando hanno venti anni, vadano a cercar per loro il fazzolettino, e lo sistemino nel taschino della giacca, e mettano i bottoni ai polsini, e facciano il nodo alla cravatta; o, peggio ancora, accomodino la piega di qua, il ricciolino di là, uno spillo a destra, un fiochettino a sinistra..., quando, addirittura, non aiutino a lavarsi collo ed orecchi, a sistemarsi le unghie, a farsi la scriminatura e finanche, a incipriarsi e a truccarsi. Dovrebbero comprendere queste madri che non cosí si formano i figli per la vita, e che, se vogliono risparmiare delusioni ai figli e rimorsi a se stesse, debbono sforzarsi di comprimere ogni eccesso nei loro slanci di tenerezza e di abnegazione. Infine, porti nella vita domestica intelligenza quanto basta: ma molta delicatezza e moltissimo cuore; ricordando che l'esperienza dei secoli ha dimostrato che la sicurezza, la tranquillità, la pace delle famiglie dipendono molto piú dalla moglie che dal marito. Tutto questo costituisce la « signorilità femminile » nella casa: signorilità, aggiungo, che non viene sminuita dal frequentare la cucina - segreto prezioso per le donne!; - e, quando si è signore in casa, lo si è da per tutto!

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Cosima

243706
Grazia Deledda 6 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Era abbastanza vanitosa per non pensar neppure di mandare quel cupo ritratto di se stessa ad affacciarsi all'apertura del suo libro di sogni: ma farne un altro era un po' difficile, ed anche dispendioso. Forza e coraggio, e sopra tutto astuzia: altri mezzi litri di olio e di vino furono sottratti al bilancio domestico: fu combinata una gita ad un orto di proprietà della famiglia, vicino alla casa del fotografo, e tutto, questa volta, riuscí bene; la testa di Cosima emergeva da un grande ventaglio di piume di struzzo nere, ch'ella aveva con arte aperto sul suo scarno petto; emergeva come da un'ala, che poteva anche avere un simbolo; e gli occhi avevano il loro languore orientale, un po' esagerato, il viso tutto dolce, sornione, un po' per volontà di lei, un po' per abilità del fotografo intelligente, che aveva capito a modo suo di che si trattava. Aveva capito che quell'immagine era destinata a un amatore, a qualcuno che Cosima voleva attirare per passione, ma anche per arte: e questo primo innamorato lontano, ricco come un re e forse anche piú potente, era il pubblico dei lettori, specialmente giovani, intelligenti e affini all'anima e alle fantasie di lei. Il libro invece ebbe un successo femminile: lo lessero le fanciulle, e vi si ritrovarono, coi loro amori piú libreschi che reali, coi loro convegni notturni immaginari, con le loro finte ali di struzzo che non possono volare. L'editore mandò cento copie del volume, per tutto compenso dell'opera: il valore non superava quello dell'olio e del vino rubati in cantina; e il grosso pacco piombò in casa come un bolide sconquassatore. Là madre ne fu atterrita, la sera gli girò attorno con la diffidenza spaventata di un cane che vede un animale sconosciuto: per fortuna Cosima ricordò che un suo cugino in terzo grado aveva una bottega di barbiere e spacciava giornali e riviste. Era un intellettuale anche lui, a modo suo, perché mandava la corrispondenza locale al giornale del capoluogo: e la proposta di Cosima, di spacciar qualche copia del romanzo, fu da lui accolta con disinteresse assoluto. Ma per la scrittrice fu un disastro morale completo: non solo le zie inacidite, ma i ben pensanti del paese, e le donne che non sapevano leggere ma consideravano i romanzi come libri proibiti, tutti si rivoltarono contro la fanciulla: fu un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine: la voce del Battista che dalla prigione opaca della sua selvaggia castità urlava contro Erodiade era meno inesorabile. Lo stesso Andrea era scontento: non cosí aveva sognato la gloria della sorella: della sorella che si vedeva minacciata dal pericolo di non trovare marito.

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La sua stessa ambigua qualità di scrittrice le attirava, dopo tutto, l'attenzione di un intero paese, e di gente piú lontana ancora: e Fortunio era abbastanza intelligente per capire ch'ella giocava una carta: poteva perdere ma poteva anche vincere. Lui sapeva benissimo, meglio di quelli del paese, che un vero artista non manca mai al suo avvenire. E in Cosima egli sentiva l'artista; mentre lui era diseredato in tutto, anche nelle sue velleità di intellettuale. La passione che egli cominciò a provare sul serio per lei era in parte sincera, in parte avida e interessata. Le lettere che cominciò arditamente a scriverle, facendogliele pervenire incollate nelle copertine dei libri che si scambiavano apertamente, erano belle, poetiche, sensuali; forse le cose migliori che egli scrisse in tutta la sua, d'altronde breve, carriera di scrittore: Cosima se le sorbiva con avidità, e le nascondeva ben bene per il terrore che venissero scoperte da Andrea: se Andrea le avesse scoperte sarebbero successi certamente dei guai. Poiché Fortunio era per lui un essere assolutamente inferiore, socialmente e fisicamente; era peggio di un servo, peggio di un suonatore ambulante, e come tale gli perdonava, anche perché nulla ancora di sospetto gli passava nella mente, le serenate che, con chitarra e relative appassionate canzoni dialettali, il giovane zoppo, con altri suoi amici, si permetteva di eseguire sotto le finestre di casa. Era un uso locale, abbastanza antico sebbene del tutto diverso da quello delle vere serenate popolari composte di cori vocali e di canzoni arcaiche, quello delle serenate diremo borghesi, combinate da studenti e giovanotti della classe non esclusivamente paesana. Canzoni semi-dotte accompagnate dalla musica della chitarra, del mandolino, anche della fisarmonica, facevano sollevare la testa dai loro guanciali quasi monastici, alle fanciulle sognanti: ma era un po' difficile identificare a chi la voce appassionata che rompeva il silenzio notturno coi suoi richiami d'amore, era diretta: poiché l'amatore, per lo piú ostacolato nelle sue aspirazioni amorose, per crearsi una specie di impunità non si fermava, con la sua compagnia solo sotto le finestre dell'amata, ma sotto molte altre dove c'erano fanciulle: cosí che il suo sfogo poteva passare per quello di un dilettante di serenate, di uno spirito innamorato del suo universale sogno di amore: o anche di un artista in esercizio di canto e di notturne melodie. Cosima non si ingannò un istante quando una notte sentí, dapprima lontana, poi sempre piú vicina e quasi tempestosa e tiepida, quasi palpabile, come appunto il levarsi del vento dalle lontananze del mare e poi dalla valle, nelle notti di marzo, il vento che porta dalle terre d'Oriente l'annunzio della primavera, la voce di Fortunio. Bisogna dirlo, era una voce potente, calda, un po' raffreddata come quella di un vero tenore, e anche su questa le sorelle di Fortunio contavano, sperando di far di lui un cantante; ed egli sapeva scegliere, aggiustandole con anelli di sua invenzione, le poesie piú adatte a penetrare come in sogno nel letto delle fanciulle, ad avvolgerle con ali d'angelo sempre piú calde, sempre piú strette, fino a tramutarsi in un abbraccio umano appassionato. Cosima tenta di reagire; in fondo non è romantica e già, per tante prove crudeli, conosce la vita; ma la monotonia dei giorni senza speranza di notevole mutamento le gravava intorno come una ingiusta condanna - antica condanna delle donne della sua stirpe - e lei ardeva tutta di desideri di volo, di piú vasti orizzonti, di vita movimentata. Cosí diede ascolto alla voce lusingatrice, sebbene Fortunio le destasse diffidenza e quasi disprezzo. Un giorno, in maggio, quando le prime ebbrezze della sua avventura letteraria erano dileguate, per lasciar posto, in lei, ad uno scoraggiamento pesante, per colmo di disdetta, le arriva una lunga critica, manoscritta, della sua povera ma sincera fatica: il romanzo, la novella, persino un timido racconto per bambini pubblicato in una rivistina per ragazzi, tutto è stroncato, e non con debole malizia, ma a vigorosi colpi di accetta: tutto, con logica, con coscienza: tutto ridotto a scheggie, buone - conclude il critico - per accendere il fuoco del forno ove la madre di Cosima cuoce il pane. Torni, torni, la piccola grafomane, nel limite dell'orticello paterno, a coltivare i garofani e la madreselva; torni a fare la calza, a crescere, ad aspettare un buon marito, a prepararsi ad un avvenire sano di affetti famigliari e di maternità. Cosima piange; di rabbia, di umiliazione: piange, ma in fondo si sente tutta scossa, ha coscienza di aver sbagliato strada, decide di ritornare davvero al chiuso esilio del suo vero destino. Strappa il foglio di condanna, e riprende i suoi lavori di ricamo, di cucina, le passeggiate con le sorelle, le gite confortevoli nelle belle campagne rallegrate dalla fastosa primavera. Ad una di queste gite presero parte anche le sorelle di Fortunio; anzi furono loro che portarono le provviste per fare una merenda sull'erba, accanto alla sorgente dell'acqua che scaturiva da una roccia alle falde del monte. E furono ore di schietta, innocente allegria; e Cosima poté anche, contemplando il tramonto sulle cime opposte della valle, sopra gli oliveti sognanti, mettere da parte i tenebrosi propositi di abbandonare i suoi sogni di poesia; la ferita si chiudeva, ed ella provava come una gioia di convalescenza, quando, a stendere un'ombra sulla luce del suo cuore - la sola luce ch'ella sentiva di essere vera, limpida e dissetante come la sorgente della roccia - apparve, sulla strada sovrastante, la figura di Fortunio. Al solito, pareva che egli fosse sopraggiunto per caso. Dall'alto dei paracarri si affacciò e parlamentò con le sorelle, che lo invitavano ad avvicinarsi, a prendere parte alla merenda, con un certo diritto, poiché la roba l'avevano portata loro; ma egli rifiutò, severo e triste, conscio, anche lui, del posto che gli spettava: affacciato al parapetto dello stradone in modo che la sua gamba storta non si vedesse, e risaltasse la bella testa con gli occhi e le vivide fresche labbra lucenti al riflesso del tramonto, guardava con tristezza lontano, e appoggiava la guancia alla mano fina, dalle unghie che parevano di alabastro rosa. A Cosima pareva una di quelle figure romantiche che le piacevano nelle vignette di qualche antica edizione di Chateaubriand, possedute da Santus; cosí, un giovine sventurato, preso da una segreta passione, che si smarrisce nella solitudine di un tramonto campestre e appoggiato al riparo di un precipizio, o seduto sul tronco abbattuto di una quercia, fra tralci d'edera e rupi coperte dal fiore del muschio, medita sulla sua triste sorte. Triste, certo, era la sorte del giovine Fortunio, e il cuore di Cosima non poteva non accoglierne l'eco, fra le voci poetiche che le raccontavano l'eterna poesia del dolore umano: e cosí, quando la comitiva prese la via del ritorno, lasciando lo sventurato poeta solo appoggiato alla roccia della sorgente, intento a sentirne anche lui il mormorio melanconico, fra le ombre già dorate del crepuscolo, ella si sbandava, a capo chino, mentre le compagne si rincorrevano nello stradone e cantavano e ridevano come figlie di contadini, al ritorno dal lavoro dei campi. Sorge la luna, fra i denti del monte, sopra i macigni che dànno l'illusione delle rovine di un castello: il suo chiarore lilla si fonde con quello arancione dell'orizzonte; l'odore della vegetazione inumidisce l'aria tiepida; canti lontani rispondono a quelli delle fanciulle che accompagnano e trasportano sull'ala del loro coro la tristezza indistinta di Cosima. Che cosa vuole, Cosima? Non lo sa bene neppure lei: vorrebbe fermarsi, non tornare nella sua casa soffocante, appoggiarsi anche lei al parapetto dello stradone, sopra la valle piena di mistero, seguire il corso della luna sul cielo sempre piú chiaro e luminoso. Le compagne non badavano a lei: le sorelle, stordite dall'allegria delle amiche, si lasciavano trascinare avanti, e lei rimaneva sola, sperduta, come dimenticata nella strada e nel mondo. Sopraggiungeva qualche carro di contadini, trainato dai buoi sonnolenti, qualche uomo a cavallo, qualche tarda donnicciuola che ritornava dall'aver lavato i panni al torrente: le ombre si allungavano di traverso sulla strada bianca, le voci e i passi risonavano dolci nell'aria molle e profumata. Ed ecco un passo diverso dagli altri, con qualche cosa di ambiguo, come il passo di un essere fantastico, uno gnomo, un gigante che tenta di non far rumore, o un Belfagor fatale, o un arcangelo che con un batter d'ali può trasportarti fra le torri d'argento e gli spalti lunari della montagna. È Fortunio: sarebbe stato piú in carattere con la chitarra a tracolla, come un trovatore sceso appunto dai boschi d'elci che circondavano gli illusorii castelli dell'orizzonte: ad ogni buon fine aveva ancora un libro in mano; un libro che biancheggiava alla luna, con le parole magiche che aprono la porta dei sogni. Versi; versi d'amore. Raggiunse Cosima e le si mise a fianco, silenzioso. Ella non si stupí: tutto doveva procedere cosí; e quando egli le cinse lievemente le spalle col braccio che tremava ella non protestò, non cercò di liberarsi. Tutto doveva procedere cosí: era una cosa ordita dalle sorelle maliziose di Fortunio, ma pareva anche un incantesimo prodotto dall'ora, dal luogo, dalla sorte che protegge gl'innamorati. Anche l'ombra folta che si stendeva al margine dello stradone, in una svolta ove le rocce scendevano fino al paracarri, parve una tenda di velluto, che avvolse i due giovani poeti e permise ai loro freschi volti di formarne uno solo il volto dell'amore. Tutto sembrava proteggerli: il modo facile di scambiarsi le lettere, la strada in comune, la vicinanza dei loro orti. E dell'orto di Cosima, di notte, quando si sapeva che la madre e le sorelle riposavano, la prima avvolta anche nel sonno dal suo velo di sofferenza e di preghiere, le seconde nei loro sogni ancora bianchi di innocenza, Fortunio riusciva, nonostante la sua infermità, a scavalcare il muricciuolo, e ritrovare, sinceramente ansante e appassionato, all'ombra di un angolo protettore, la sua piccola amica che sembrava, cosí sbalordita e silenziosa, il fantasma di se stessa. Ella si lasciava baciare da lui, ne sentiva il calore della persona, i fremiti e gli ansiti di eroe incatenato, la violenza impotente con la quale egli avrebbe voluto portarsela via: ma una fredda, quasi malvagia potenza di analisi la sosteneva in quella specie di lotta dei sensi contro se stessa e contro l'altro; e ne usciva stanca, disgustata, amara di umiliazione e di rimorso. Anche di rimorso: poiché credeva, fra le altre cose, di commettere peccato: ella non avrebbe mai sposato Fortunio. Finché la vicenda non trapelò, destando una nuova ondata di scandalo fra la gente per bene del luogo. Eh! si capiva; Cosima sola era capace di quelle avventure, con uno storpio, un bastardo, un rinnegato dalla sorte. E un giorno Andrea disse, in pubblica piazza, che avrebbe fracassato col bastone l'altra gamba del «suonatore di chitarra»; e a Cosima somministrò una dose di schiaffi e pugni che oltre le membra le pestarono l'anima come il sale nel mortaio.

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Le case sono abbastanza civili; appartengono quasi tutte ai parenti del signor Antonio. Quella in fondo è del fratello prete, don Ignazio tabaccone e trasandato; poi viene quella di zia Paolina, vedova benestante con i figli pastori e agricoltori; poi anche quella di zia Tonia, anche lei benestante, con un figlio che studia per droghiere. Il padre di questo ragazzo è morto, tuttavia zia Tonia non è vedova: poiché ha preso un secondo marito, ma dopo un mese di matrimonio lo ha cacciato via di casa, e infine si è separata legalmente da lui; è una donna simpatica, energica, intelligente, e le persone piú gioviali del quartiere la visitano giornalmente, nelle ore di riposo; giocano a carte, discutono, combinano burle, mascherate di carnevale, tengono allegro tutto il vicinato. La casa piú importante è però quella abitata dal canonico, di fronte: un vero fortilizio, con cortili e giardini interni, uno dei quali, quasi pensile, pieno di rose, di melograni, con un gelso alto carico di piccoli frutti violetti. Di là si stende un panorama di case e casupole che formano il quartiere piú caratteristico e popolare della piccola città, e il campanile bianco della chiesa del Rosario emerge sopra i tetti bassi e scuri come un faro tra gli scogli.

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La corrispondenza riguarda quasi tutti affari abbastanza ingenti; una delle lettere è indirizzata a uno spedizioniere della costa, che si occupa di caricare su un battello mercantile partite di carbone vegetale e di cenere spedite dal signor Antonio; un'altra è per la Casa di Livorno che compra la merce; un'altra per un proprietario che vuol vendere un bosco, appunto per il taglio da ridurre a carbone e cenere; un'altra ad un capomacchia dell'Appennino pistoiese, che deve arrivare con un nucleo di operai sul posto, specializzati per la lavorazione delle carbonaie. Ma c'è anche una lettera di amicizia, per il signor Francesco, possidente, di un paese distante cinque ore di viaggio a cavallo dalla piccola città. Da tanti anni il signor Antonio e il signor Francesco sono amici, anzi compari, poiché il secondo ha tenuto a battesimo la piccola Cosima; adesso l'amico gli scrive per annunziargli la nascita dell'ultima bambina, e lo invita per la nuova festa battesimale. Poi cominciarono ad arrivare le visite. Dapprima fu don Sebastiano, il fratello della puerpera. In quel tempo i preti sceglievano la loro carriera per non saper che altro fare; ma lo zio Sebastiano, sebbene di famiglia povera, aveva scelta la sua per vocazione sincera. Era un uomo intelligente e anche colto, che sapeva di lettere e di latino, tanto che una volta, essendo stato a Roma, con un sacerdote polacco che non conosceva l'italiano si erano perfettamente intesi nella lingua di Cicerone. Al contrario dell'altro prete di famiglia, don Ignazio, fratello del signor Antonio, egli amava la povertà, era di umore allegro, e l'unica sua debolezza era di mandar giú, fin dalla mattina, bicchierini di acquavite e di vino buono. Fu Cosima a riceverlo, poiché il padre finiva le sue lettere: egli sedette a gambe aperte, nella stanza da pranzo, tirando su la sottana sui pantaloni neri sui quali pendevano due larghe tasche colme di carte, di libri e di altre cose; mise il cappello sulla sedia accanto e il suo viso roseo e sodo, col caso corto, s'illuminò di gioia quando la serva gli portò un calice di vino bianco. Anche la bambina piccola gli si era avvicinata con confidenza, e tirava una di quelle tasche misteriose che attiravano a lui i fanciulli come comandava Gesú: anzi, la manina di lei s'introdusse nella spaccatura di quella specie di bisaccia, e ne trasse un piccolo dolce schiacciato nel suo involucro di carta velina. Cosima volle sgridarla; le diede un colpettino sulla mano, ma avrebbe voluto frugare anche lei, e piú a fondo, nelle tasche dello zio. Egli lasciava fare, ridendo; poi prese entrambe le bambine fra le sue gambe e le strinse piuttosto forte, mentre traeva dolci, frutta secche e giuggiole dalla profondità delle saccocce. Ne trasse anche due numeri della Unità cattolica, il giornale listato a nero per il lutto del perduto potere temporale del pontefice, e li porse al signor Antonio, entrato in quel momento. Era il solo giornale che essi leggevano, passandoselo uno con l'altro; e anche quella mattina discussero l'articolo di fondo di don Margotti, e poi la critica acerba che si faceva alla moglie di un ministro del Governo usurpatore; poiché la signora era intervenuta ad una festa da ballo con un vestito che si diceva costasse la favolosa somma di venti mila lire. Poi andarono tutti, comprese le bambine che si attaccavano alla sottana dello zio come a quella di una donna, a vedere la puerpera.

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Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull'orto e da uno sportello mobile dell'uscio sul cortile. Nell'angolo vicino alla finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull'orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po' di brace, e sotto l'acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po' di carbone; ma per lo piú le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, su grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; le padelle di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d'orzo e il companatico per i servi. Gli oggetti piú caratteristici erano sulla scansia; ecco una fila di lumi di ottone, e accanto l'oliera per riempirli, col lungo becco e simile a un arnese di alchimista: e il piccolo orcio di terra con l'olio buono, e un armamento di caffettiere, e le antiche tazze rosse e gialle, e i piatti di stagno che parevano anch'essi venuti da qualche scavo delle età preistoriche: e infine il tagliere pastorale, cioè un vassoio di legno, con l'incavo, in un angolo, per il sale. Altri oggetti paesani davano all'ambiente un colore inconfondibile: ecco una sella attaccata alla parete accanto alla porta, e accanto un lungo sacco di tessuto grezzo di lana, che serviva da mantello e da coperta al servo: e la bisaccia anch'essa di lana, e nell'angolo del camino una stuoia di giunchi, arrotolata, sulla quale alla notte dormiva, quando era in paese, lo stesso servo, pastore o contadino che fosse. Sull'acquaio non mancava mai un paiolino di rame pieno d'acqua attinta al pozzo del cortile, e su una panca l'anfora di creta con l'acqua potabile, faticosamente portata dalla fontana distante dall'abitato. L'acqua era allora un problema, e se ne misurava, d'estate, ogni stilla; a meno che non sopraggiungesse un buon acquazzone a riempire la tinozza collocata sotto il tubo di scolo dei tetti: eppure la pulizia piú diligente, praticata a secco, rendeva piacevole tutta la casa. Dalla finestra, munita d'inferriata, come tutte le altre del piano terreno, si vedeva il verde dell'orto; e fra questo verde il grigio e l'azzurro dei monti. La porta invece, come si è detto, dava sul cortile triangolare, piuttosto lungo e occupato quasi a metà da una rustica tettoia dalla quale, per un usciolino, si andava nell'orto. In fondo c'era il pozzo, e, sotto il muro alto di cinta, una catasta di legna da ardere, rifugio di numerosi gatti e delle galline che vi nascondevano il nido delle uova. Un'asse appoggiata su due ceppi, accanto al muro laterale della casa, ancora grezzo e sul quale, al primo piano, si apriva una sola finestra (le finestre erano tutte senza persiane), serviva da sedile. E un grande portone fermato anch'esso da ganci e stanghe, tinto di un color marrone scuro, dava sulla strada. Di giorno era quasi sempre socchiuso, e, piú che il portoncino della facciata, serviva per il passaggio degli abitanti e degli amici di casa. A questo portone, una mattina di maggio, si affaccia una bambina bruna, seria, con gli occhi castanei, limpidi e grandi, le mani e i piedi minuscoli, vestita di un grembiale grigiastro con le tasche, con le calze di grosso cotone grezzo e le scarpe rustiche a lacci, piú paesana che borghese, e aspetta, dondolandosi, che passi qualcuno o qualcuno si affacci a una finestra di fronte, per comunicare una notizia importante. Ma la strada, stretta e sterrata, in quell'ora fresca del mattino è ancora deserta come un sentiero di campagna, e nella vecchia casa di contro, anch'essa con l'alto muro di un cortile a fianco e un portone rossastro, non si vede nessuno. Questa casa è abitata da un canonico, un lungo e nero asceta taciturno, e da una sua giovane nipote intelligente, che avrebbe voluto farsi suora, ma dopo qualche mese di noviziato è stata rimandata a casa per la sua cagionevole salute. Gente per bene, semplice e austera. Il canonico si lamenta che nessuno, per la strada, lo saluti: è lui, invece, che cammina sempre ad occhi bassi e assorto nelle sue speculazioni religiose: la nipote, visto che Dio non l'ha voluta per sposa, si compiace della corte discreta di un bel giovane ebanista, decisa però a non sposarlo perché non è un proprietario o un funzionario come converrebbe a lei. La bambina sul portone, sa queste cose, e considera i suoi vicini di casa come personaggi straordinarî. Tutto, del resto, è straordinario per lei: pare venuta da un mondo diverso da quello dove vive, e la sua fantasia è piena di ricordi confusi di quel mondo di sogno, mentre la realtà di questo non le dispiace, se la guarda a modo suo, cioè anch'esso coi colori della fantasia. Odori di campagna vengono dal fondo della strada; il silenzio è profondo, e solo il rintocco delle ore e dei quarti suonati dall'orologio della cattedrale, lo interrompono. Passano le rondini a volo, sul cielo azzurro denso, un po' basso come nei paesaggi di pittori spagnuoli, ma anche le rondini sono silenziose. Finalmente una finestra si apre nella casa di fronte, e un viso bruno, coi grandi occhi velati dei miopi, si sporge a guardare qua e là negli sfondi della strada. È la signorina Peppina, la nipote del canonico. La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima: «Abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino.» Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.

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Intanto, fuori, il servo di zia Paola costruiva una capanna di frasche, abbastanza alta e larga, che doveva servire da cucina. Avevano portato un fornello a mano e un sacco di carbone; ma la serva volle dietro la capanna, in un angolo riparato, una specie di focolare di pietre e dichiarò che avrebbe cucinato col fuoco di legna. E queste non mancavano davvero a portata di mano, quali erano e pronte ad accendersi come torcie. Anche alcune sedie e un tavolo erano stati portati sul carro; e il tavolo avrebbe dovuto servire per i pasti e per scrittoio a prete Ignazio, ma egli non intendeva perdere neppure un minuto per impugnare la penna; e cosí il tavolo fu collocato nella stanza grande, accanto alla luce della porta e serví, sí, per i pasti, ma anche da scrittoio a Cosima. Oh, e ben il calamaio ella aveva portato, avvolto in uno straccio nero e ficcato dentro una scarpa perché nel transito non si rovesciasse; e trovò anche, nella primordiale dimora, una specie di nicchia, che avrebbe dovuto servire per qualche lumino e qualche immagine sacra, e della quale, invece, ella si serví per deporvi il calamaio, la penna, il suo scartafaccio e alcuni libri, formandone cosí un altarino per i suoi misteri d'arte. Poi raggiunse le sorelle nel bosco; e furono ore e poi giorni di appassionata gioia. Non fu tutto un sogno? Uno di quei sogni che bastano a illuminare una vita, anche negli angoli piú ombrosi, come il sole e la luna illuminavano, in quei favolosi giorni di agosto, la boscaglia di elci intorno alla miracolosa chiesetta. Che importava l'umiltà e la rozza accoglienza della capanna? Serviva di rifugio solo nella notte, e a Cosima nelle ore delle sue scritture; il rumorio del bosco la copriva col suo suono di organo, e la luna col suo drappo d'argento. E le ragazze dormivano cullate da quella musica che non aveva l'eguale poiché era la musica della fanciullezza che risuona una sola volta nella vita. Ma per Cosima era qualche cosa di piú grande e trepido: era tutta una rete di mistero, uno svolgersi di cose sorprendenti, come se ella galleggiasse in un fondo oceanico, circondata, non dal selvaggio bosco di elci e dalle roccie fantastiche, ma da tutte le meraviglie delle foreste sottomarine. E tutto questo, oltre la reale dolcezza del soggiorno, allietato dalla libertà e dallo spazio del luogo, dalla bellezza del paesaggio e delle lontananze e dai semplici svaghi della poca gente che dimorava intorno alla chiesetta, dipendeva dalla presenza, in una delle stanze verso la parte opposta di quelle del cappellano, della famiglia di Antonino. Egli non c'era, ma doveva pure qualche giorno venirci, come tutti gli altri giovani della città, che anche se i loro parenti non erano lassú, combinavano gite e passavano anche la notte nel luogo incantevole, accendendo grandi fuochi, combinando cene e balli, bivaccando sotto gli alberi e facendo la corte alle ragazze; doveva arrivare; e la sola speranza di vederlo, anche alla sfuggita, in quello sfondo che era lo sfondo stesso della Poesia, riempiva l'animo di Cosima di una gioia senza limiti. Ma ella non andava mai dalla parte ove la famiglia di lui abitava, e ne sfuggiva le sorelle come per paura che indovinassero il suo segreto e la sbeffeggiassero, o semplicemente perché il suo segreto era per lei grande e sacro come un tabernacolo che nessuno doveva profanare. Ed ecco egli arriva davvero, un giorno; è solo, a piedi, con una fronda in una mano e il cappello di paglia nell'altra. Cosima, che vigilava sempre sul sentiero dall'alto di una roccia, lo vede salire un po' stanco, frustando le felci con la sua fronda: le sembra scontento e disincantato, e pensa che, certo, il luogo, per quanto pittoresco, non è degno di lui: per lui occorrono i parchi coi viali lisci come il velluto, le scalee e le terrazze delle ville principesche, le fontane e le grotte artificiali dei giardini settecenteschi, come ella li ammirava nelle riviste illustrate. E sentí quasi pietà di lui, decisa a nascondersi per non aumentargli il malumore che doveva provare. Eppure la sola idea che egli era lí, nell'umile portico dove le sorelle gli servivano il caffè, illuminava ancora di piú, se era possibile, il paesaggio intorno: e le felci toccate da lui scintillavano come palme dorate, e il cielo era piú vasto e azzurro. Incantesimi della fanciullezza, che nel ricordo dànno un'idea di quello che debba essere un giorno, per l'anima che ci crede e lo aspetta in ricompensa degli innumerevoli disinganni della vita, il regno di Dio sulla terra.

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