Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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I ragazzi della via Pal

208317
Molnar, Ferencz 4 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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PRESIDENTE — Ed io voglio far presente all'assemblea di volermi perdonare per questa volta in virtù di quel che ho fatto ieri, in campo, lottando come un leone, ed uscendo dalla trincea nell'istante più critico, ed il nemico mi ha gettato a terra ed ho quindi sofferto abbastanza per la patria per non dovere anche soffrire per lo stucco. BARABAS (socio) — La guerra non c'entra! PRESIDENE — Sì che c'entra! BARABAS (socio) — Non c'entra! PRESIDENTE — C'entra! BARABAS (socio) — Non c'entra! PRESIDENTE — Bene! L'ultima parola dev'essere tua! RITCHER (socio) — Chiedo che venga approvata la mia proposta. SOCI — Approvata! Approvata! ALTRI SOCI — Non approviamo! PRESIDENTE — Si faccia lo scrutinio! BARABAS (socio) — Esigo l'appello nominale. (Viene eseguito l'appello). PRESIDENTE — La Società delibera con la maggioranza di tre voti l'ammonimento al presidente Paolo Colnai. E' una vigliaccheria! BARABAS (socio) — II presidente non ha il diritto di insultare la maggioranza! PRESIDENTE — Non è vero! BARABAS (socio) — Sì, è vero! PRESIDENTE — No! BARABAS (socio) — Sì! PRESIDENTE — E va bene! L'ultima parola dev'essere tua! L'ordine del giorno essendo esaurito, il presidente toglie la seduta. Firmato: Lesik, cancelliere. Colnai, presidente continuo a sostenere che è una vigliaccheria.

Voi siete stati e diventate presidenti un dopo l'altro; a me tocca sempre di masticare lo stucco, la qual cosa è abbastanza schifosa. E' proprio necessario che io abbia sempre sotto i denti questa pasta attaccaticcia? Nemeciech voleva parlare. — Domando la parola — disse al presidente. — Il segretario chiede la parola — annunciò Vais con gravità; e suonò il campanellino da sedici soldi. Ma a Nemeciech, che nella Società dello Stucco occupava la carica di segretario, s'era strozzata la parola in bocca. Accanto ad una delle cataste di legna aveva intravisto Ghereb. Nessun altro sapeva di Ghereb quel che sapeva lui, quel che aveva veduto lui nella sera dell'impresa memorabile... Ghereb s'aggirava solitario tra le cataste di legname, poi si diresse verso la capanna dove abitava il cecoslovacco col suo cane. Nemeciech comprese che suo dovere era di tenere d'occhio il traditore, di stare attento ad ogni suo passo: egli aveva promesso di non dir nulla a nessuno, finchè Boka non fosse venuto al campo, che Ghereb era stato visto seduto insieme alle Camicie Rosse attorno al fuoco. Ma Ghereb ora era qui, si aggirava intorno a lui; Nemeciech doveva informarsi perchè mai fosse andato dal cecoslovacco. Per questo Nemeciech, ottenuta la parola, si limitò a dire: — Tante grazie, signor presidente, ma terrò il mio discorso un'altra volta. Mi sono ricordato d'avere altro da fare. Vais tornò a suonare il campanellino ed annunziò in forma solenne: . — Il signor segretario rimanda il suo discorso. II signor segretario intanto s'era messo a correre. Ma correva non per inseguire Ghereb, bensì per andargli incontro; infatti era uscito in via Pal e facendo il giro stava per entrare dalla porta della segheria in via Maria. Poco mancò che un enorme carro uscendo proprio allora dal cancello non lo investisse. Il piccolo fumaiolo di legno sbuffò emettendo del vapore bianco e le seghe nella casupola stridevano con voce dolorosa come se volessero dire: «Atteento! Atteento!» — Sicuro che sto attento — rispose Nemeciech e, passando accanto alla casupola, si diresse verso la capanna dello slovacco. Il tetto della capanna era in pendìo e vicinissimo ad una delle cataste. Nemeciech s'arrampicò in cima alla catasta e si mise carponi: spiava attraverso le fessure per vedere che sarebbe avvenuto. Che mai poteva volere Ghereb dallo slovacco? Era questo uno stratagemma delle Camicie Rosse? Decise di ascoltare questo colloquio a qualunque costo! Sarebbe stato fierissimo, dopo, di avere scoperto questo nuovo tradimento! Nell'attesa, guardava intorno a sè; ad un tratto vide Ghereb che si avvicinava cauto alla capanna voltandosi continuamente indietro per paura d'essere seguito. E soltanto quando parve ben sicuro che nessuno fosse sulle sue piste filò verso la meta. Lo slovacco se ne stava seduto tranquillamente sulla panchina davanti alla capanna e fumava dentro la pipa le cicche che i ragazzi gli portavano; poichè tutti provvedevano cicche a Giovanni. Il cane che era accovacciato ai suoi piedi sobbalzò: mugolò due o tre volte, ma quando vide che si trattava di uno dei ragazzi, tornò a sdraiarsi ed a chiuder gli occhi. Ghereb si accostò a Giovanni, ed ora il tetto della capanna li copriva entrambi agli occhi di Nemeciech; ma il biondino s'era fatto ardito. Il più piano che gli fosse possibile cominciò a strisciare sul tetto della capanna per raggiungere la sporgenza del tetto e poter metter fuori la testa. Varie volte le assi scricchiolarono sotto il suo peso: Nemeciech sentì gelarsi il sangue nelle vene... Ma continuò a strisciare e se Ghereb o lo slovacco avessero pensato a guardare in alto si sarebbero molto stupiti di vedere a un tratto sporgere la testolina bionda di Nemeciech con i suoi occhi spalancati ad osservare tutto quanto accadeva davanti alla capanna. Ghereb s'era avvicinato allo slovacco e gli aveva detto con cortesia: — Buon giorno, Giovanni! — Buongiorno! — aveva risposto lo slovacco senza cavarsi di bocca la pipa. Ghereb gli si avvicinò ancora di più e mormorò: — Vi ho portato dei sigari, Giovanni! A queste parole lo slovacco si decise a togliersi di bocca la pipa: i suoi occhi brillavano, poichè poche volte gli era capitato di vedere un sigaro intero. I sigari giungevano a lui quando altri ne aveva incenerito la parte migliore. Ghereb cavò di tasca tre sigari e li mise in mano a Giovanni. — Guarda, guarda! — disse tra sè Nemeciech — Ho fatto bene ad arrampicarmi quassù. Certo Ghereb ha bisogno di qualcosa dallo slovacco se incomincia con i sigari! E, tendendo l'orecchio, udì Ghereb che sussurrava allo slovacco: — Giovanni, entriamo dentro la capanna... Non voglio parlare qui fuori. Non vorrei che mi vedessero. Si tratta d'una cosa urgente. E si possono avere anche altri sigari, se volete! E trasse di tasca un pugno di sigari. Nemeciech, di lassù, scrollò la testa. — Se ha portato tanti sigari, la vigliaccheria dev'essere molto grande! Lo slovacco entrò nella capanna con aria soddisfatta e Ghereb lo seguì: ultimo venne il cane. — Non sentirò nulla di quanta diranno borbottò stizzito Nemeciech —. Tutto il mio piano e andato in fumo! E invidiò il cane che s'era potuto introdurre nella capanna prima che la porta fosse rinchiusa. Nemeciech ricordò quei racconti nei quali c'è una strega che trasforma il giovane principe in cane nero, ed in quel momento avrebbe sinceramente dato dieci o anche venti biglie di vetro perchè qualche brutta strega lo trasformasse in cane nero per qualche minuto, mettendo Ettore al posto del biondo Nemeciech. In fondo, erano soldati semplici tutti e due... Ma in vece d'una strega gli venne in aiuto un piccolo insetto... II povero tarlo che aveva bucato un asse del tetto e s'era saziato a suo tempo con tutta la sua famiglia di quel buon legno soffice certamente non poteva immaginare di rendere un giorno un grande servigio ai ragazzi della via Pal. Proprio nel punto rosicchiato dal tarlo il legno era sottile e Nemeciech potè applicarvi l'orecchio ed origliare. Le voci giungevano attutite ma le parole si distinguevano benissimo. Nemeciech gongolava. Ghereb parlava sottovoce come se avesse paura d'essere udito anche in quel luogo nascosto. Diceva: — Giovanni, siate pratico. Da me potrete avere quanti sigari vorrete. Ma bisogna far qualcosa per guadagnarli. E Giovanni chiedeva con un brontolìo: — Che cosa bisogna fare? — Bisogna scacciare i ragazzi dal campo. Non bisogna permettere loro di giocare alle palle e di ficcarsi tra il legname. Per qualche istante non si sentì più niente. Nemeciech immaginava che lo slovacco stesse riflettendo. Poi si sentì ancora la voce dello slovacco: — Scacciarli? — Sì. — Perchè? — Perchè vogliono venirci altri ragazzi, i quali sono tutti ragazzi ricchi. Ci saranno molti sigari, quanti ne volete... E ci sarà anche del danaro... Questo fece effetto. — Anche del denaro? — Sì. Biglietti. La parola biglietti decise lo slovacco. — Sta bene! — concluse — Li scacceremo. 8 La maniglia stridè, la porta scricchiolò. Ghereb uscì dalla capanna. Ma Nemeciech non era già più sul tetto; era scivolato giù, s'era alzato, agile come un gatto, e via, era già corso tra le cataste di legname verso il campo. Il biondino era molto agitato e capiva che in quel momento il destino di tutti i ragazzi, l'avvenire del loro campo era nelle sue mani. Quando rivide il gruppo da lontano chiamò: — Boka! Ma nessuno rispose. Tornò a chiamare: — Boka! Signor presidente! Una voce disse: — Non è ancora venuto! Nemeciech si precipitò, di furia come la burrasca. Bisognava informare immediatamente Boka. Bisognava agire subito prima che avvenisse l'irreparabile, prima che fossero stati scacciati dal loro dominio. Quando egli passò accanto all'ultima catasta di legname s'accorse che i Soci della Società dello Stucco tenevano ancora seduta: Vais fungeva sempre da presidente con un viso seriissimo, e quando il biondino passò accanto all'assemblea, gli gridò: — Ehu! Signor segretario! Nemeciech correndo accennò che non poteva fermarsi. Vais allora, agitando il campanellino, urlò con maggior severità: — Signor segretario! — Non ho tempo! — rispose Nemeciech e proseguì per raggiungere Boka a casa sua. Vais allora si servì dell'ultima sua arma. Con voce stridula intimò: — Soldato! Alt! A quest'ordine bisognava ubbidire perchè Vais era tenente. Il biondino fremeva di rabbia, ma bisognava obbedire se Vais faceva appello al proprio grado. — Comandi, signor tenente! E si mise sull'attenti. — Riposo! — disse il presidente della Società per la Raccolta dello Stucco — Abbiamo deliberato proprio ora che la Società dello Stucco d'ora in poi sarà continuata come associazione segreta. Abbiamo anche eletto il nuovo presidente. E i ragazzi gridarono entusiasti il nome del nuovo presidente: — Evviva Colnai! Soltanto Barabas, ghignando, si dichiarò all'opposizione: — Abbasso Colnai! II presidente allora continuò: — Se il signor segretario vuol mantenere la carica di segretario deve fare con noi il giuramento dell'impegno segreto perchè se il professore Raz viene a sapere che... A questo punto Nemeciech s'accorse di Ghereb che stava aggirandosi fra le cataste di legname. «Quando Ghereb se ne sarà andato, pensò, tutto sarà finito... Finite le fortezze, finito il campo... Ma se Boka riuscisse a commuoverlo chissà che non abbia a pentirsi...» II biondino quasi piangeva di rabbia e si permise di interrompere il presidente: — Signor presidente, io non ho tempo. Devo andarmene. Vais allora gli domandò severo: — Il segretario avrebbe forse paura? II segretario teme forse che se veniamo scoperti, anch'egli sarà punito? Ma Nemeciech non lo ascoltava più. Era tutto intento a spiare Ghereb il quale appiattato dietro il legname aspettava il momento propizio per andarsene... Nemeciech allora senza rispondere una parola piantò in asso l'assemblea, strinse la giacca e via per il campo fino alla porticina. L'assemblea ammutolì. E nel silenzio sepolcrale il presidente disse con voce cupa: — I signori soci han tutti veduto il contegno di Ernesto Nemeciech! Io dichiaro Ernesto Nemeciech vigliacco! — Approvato! — disse in coro l'assemblea. Colnai anzi ribattè: — Traditore! Richter chiese agitato la parola: — Propongo che il vile traditore il quale lascia la società nel momento del pericolo, sia espulso e nel protocollo segreto venga qualificato come traditore! — Approvato! — dissero in coro i presenti. E il presidente emanò la sua sentenza nel silenzio generale: — L'assemblea dichiara Ernesto Nemeciech vigliacco e traditore, lo destituisce dalla carica di segretario e lo espelle dalla società! Signor conservatore del protocollo! — Presente! — rispose Lesik, — Segni nel protocollo che l'assemblea ha dichiarato traditore Ernesto Nemeciech scrivendo il suo nome tutto in lettere minuscole. Un mormorio corse fra gli intervenuti. Questa era, per statuto, la pena più grave che si potesse infliggere. Molti si raggrupparono attorno a Lesik che sedette in terra appoggiando il quaderno da dieci soldi sulle ginocchia: quel quaderno era il protocollo della società, e con enormi scarabocchi vi scrisse: «ernesto nemeciech è traditore». Così la Società dello Stucco ha privato del suo onore Ernesto Nemeciech. E intanto Ernesto Nemeciech, o se preferite, ernesto nemeciech, correva in via Chinorsi dove abitava Boka in un modesto appartamento a pianterreno. Entrò di galoppo sotto il portone e s'incontrò con Boka. — Oh, bella! — esclamò Boka — Che vieni a fare qui? Nemeciech raccontò ansimando quel che aveva scoperto e tirava Boka per la giacca perchè si affrettasse. E corsero entrambi al campo. — Hai visto e sentito tutto quanto mi racconti? — chiese Boka mentre correvano. — Visto e sentito. — E Ghereb c'è ancora? — Se facciamo presto, lo troviamo, spero. Vicino alle Cliniche dovettero fermarsi perchè Nemeciech prese a tossire. — Vai tu — disse —, vacci da solo... lo... devo tossire... E tossiva forte. — Sono raffreddato — disse a Boka che non si moveva —. Mi sono raffreddato al- l'Orto Botanico. Sono cascato nel lago, ma non sarebbe stato niente. Era l'acqua della piscina che era fredda. Mi sono gelato fino alle ossa. Svoltarono in via Pal e proprio allora la porticina si apriva e Ghereb ne usciva in fretta. Nemeciech afferrò Boka: — Eccolo! Boka fece portavoce della mano e gridò con voce squillante che rimbombò nella pace della viuzza: — Ghereb! Ghereb si fermò, voltandosi. Quando riconobbe Boka rise a lungo. E se la svignò, sempre ridendo. Tra le case di via Pal la risata risuonò stridula: Ghereb si beffava di loro. I due ragazzi rimasero come inchiodati. Ghereb era scomparso ed essi sentivano che tutto era perduto. Non dissero più una parola e s'avviarono verso la porticina del campo. Dal di dentro giungeva il frastuono allegro dei giocatori che si scambiavano le palle e l'evviva dei soci al nuovo presidente della Società dello Stucco! Nessuno lì dentro sospettava di non essere più in casa propria, nel proprio territorio. Quel breve tratto arido e scabro di terreno di Pest, quello spiazzo rinchiuso tra due case d'affitto, significava per la loro anima infantile la libertà, lo sconfinato, a mezzogiorno prateria americana; nel pomeriggio pianura magiara; sotto la pioggia, oceano; d'inverno, polo nord, insomma l'amico loro compiacente che si trasformava in quel che volevano per divertirli! — Vedi — disse Nemeciech —. Non sanno niente! Boka abbassò il capo e mormorò: — Non sanno niente! Nemeciech si fidava di Boka. Non disperava vedendosi vicino l'amico intelligente e prudente. Ma si spaventò quando scorse la prima lagrima negli occhi di Boka e quando sentì che il presidente, lo stesso presidente gli diceva con profonda tristezza e con voce esitante: — Ed ora che si fa?

Le Camicie Rosse non potevano ancora riaversi dallo stupore e fissavano immobili il piccolo biondino caduto dal cielo che aveva il coraggio di gridare in faccia a tutti, a quel modo, come se fosse forte abbastanza da battere tutti, Franco Ats compreso. I primi a riprendersi furono i fratelli Pastor. Si accostarono al piccolo Nemeciech e lo presero per i polsi, uno a destra, l'altro a sinistra. Il minore dei due aveva preso la mano di Nemeciech che teneva lo stendardo ed era pronto a torcergliela quando si udì Franco Ats dire: — Fermi! Non fategli male! I due pastor guardarono stupiti il loro comandante. — Non fategli male! Questo ragazzo mi piace! Sei coraggioso, Nameciech o come ti chiami! Eccoti la mia mano. Fatti Camicia Rossa! Nemeciech scosse la testa negando. — Io no! — disse fieramente. La sua vocina tremava, ma non di paura, di furore. Era pallido, lo sguardo cupo e ripetè: — Io no! Franco Ats sorrise. Disse: — Se non vieni con noi, per me fa lo stesso. Io non ho mai detto a nessuno di venire con noi. Tutti quelli che son presenti han sempre chiesto loro di venire ammessi. Tu sei il primo che abbia invitato io. Ma se non vuoi venire, resta... E gli voltò le spalle. — Che ne facciamo? — chiesero i due Pastor. II comandante fece un cenno del capo. Il maggiore dei Pastor strappò con una 9 storta la bandiera rossa e verde dalla mano del piccino. La storta faceva male; i Pastor avevano i pugni terribilmente duri, ma il biondino strinse i denti e non lasciò sfuggire neanche un lamento. — Fatto! — annunciò Pastor. Tutti erano ansiosi di sapere quel che sarebbe capitato ora, quale tremenda punizione avrebbe inventata il feroce Ats! Nemeciech se ne stava fiero ed immobile, le labbra serrate. Franco Ats si rivolse a lui, fece un cenno ai due Pastor: — E'troppo debole — disse —. Non conviene picchiarlo. Fategli fare un piccolo bagno... Le Camicie Rosse scoppiarono in una grande risata. Rideva anche Franco Ats, anche i due Pastor. Sèbeni gettò in aria il berretto e Vendauer si mise a saltellare come un matto e in tanta allegria un solo viso rimase serio, quello di Nemeciech. Era raffreddato e tossiva già da vari giorni. La mamma gli aveva proibito di uscire, ma il biondino non aveva obbedito. Alle tre era scappato e dalle tre e mezzo fino a sera era rimasto accoccolato in mezzo ai rami in cima ad un albero sull'isola. Doveva forse dire di essere raffreddato? L'avrebbero deriso anche di più e forse anche Ghereb l'avrebbe schernito come già stava facendo: gli si vedevano tutti i denti mentre spalancava la bocca per sghignazzare! Tra le risa generali fu condotto alla riva dell'isola e i due Pastor lo immersero nel lago, dov'era poco profondo. Erano tremendi quei due Pastor! Uno lo teneva per le mani, l'altro per la testa! Lo spinsero nell'acqua fino al collo, e in quel momento tutti esultavano sull'isoletta. Le Camicie Rosse ballavano sulla riva una danza d'allegria, e gettavano in aria i berretti gridando a squarciagola: — Uja op! Uja op! Era il loro grido. E i molti gridi di «Uja op!» si mescolarono alle grandi risate, tutto uno schiamazzo che turbò il silenzio serale dell'isola e della riva. Con occhi tristi Nemeciech guardò dall'acqua Ghereb che sulla riva se ne stava con le gambe allargate, ghignando e tentennando il capo verso il biondino. Poi i due Pastor lasciarono andare Nemeciech e questi uscì dall'acqua, ed ora l'allegrezza generale divenne frenetica alla vista del vestito gocciolante e infangato. Dalla giacchettina l'acqua colava e quando scosse il braccio zampillò fuori un getto come da una grondaia. Tutti si scostarono quando egli si scrollò come un cagnolino bagnato; e parole beffarde volarono verso di lui. — Ranocchia! — Hai bevuto? — Perchè non ti sei messo a nuotare? Non rispose. Sorrideva amaramente accarezzandosi la giacca inzuppata. Ma quando Ghereb gli si parò davanti e facendogli le boccacce gli chiese se il bagno gli fosse piaciuto, Nemeciech sollevò verso di lui i grandi occhi celesti e rispose: — Sì. Mi è piaciuto di più, molto di più che non starmene sulla riva a sbeffeggiare! Preferirei starmene nell'acqua fino al nuovo anno piuttosto che mettermi d'accordo con i nemici dei miei amici. Non m'importa niente che m'abbiate fatto fare un bagno. Già una volta ero caduto in quest'acqua, per caso allora, ma anche allora t'avevo visto qui, fra i nemici. Ma in quanto a me, potete invitarmi, darmi regali quanti volete, non mi farebbe niente lo stesso. E anche se mi metteste in acqua un'altra volta, e poi ancora cento e mille volte, ebbene io verrei qui sempre, ancora domani e dopodomani. E mi nasconderò dove non mi potrete vedere, perchè io non ho paura di nessuno di voi! E se volete venire in via Pal per usurpare il nostro campo, ci saremo noi! E vedrete che quando siamo in dieci anche noi, sarete trattati come si deve! Bella bravura vincermi! Chi è più forte, vince! I Pastor mi hanno rubato le biglie nel Giardino del Museo perchè erano i più forti. E ora mi avete buttato in acqua perchè siete i più forti! E' facile in dieci battere uno! Ma a me non importa! Potete anche picchiarmi, se volete! Bastava che io volessi ed avrei evitato d'andare in acqua e tutto! Ma io non ho voluto passare dalla vostra parte. Affogatemi pure o picchiatemi a morte, io non sarò mai un traditore come quello lì. Tese il braccio e indicò Ghereb al quale il riso s'illividiva in faccia. La luce della lampadina cadde sulla bella testolina bionda di Nemeciech e sul vestito luccicante d'umidità. Egli fissava coraggioso e fiero e col cuore gonfio gli occhi di Ghereb e Ghereb sentì l'anima diventargli pesante sotto quello sguardo. Si fece grave ed abbassò il viso. Tutti tacevano ed il silenzio era tale che pareva d'essere in chiesa e si sentivano cadere in terra, le goccie d'acqua dal vestito di Nemeciech. Nemeciech gridò, nel grande silenzio: — Posso andarmene? Nessuno rispose. Chiese di nuovo: — Non mi picchiate a morte, allora? Posso andarmene? E poichè nessuno gli rispose neanche adesso, egli si avviò lentamente verso il ponte. Nessuna mano si alzò: nessun ragazzo fiatava. Tutti sentivano che quel piccino biondo era un vero eroe, un vero uomo che meritava d'essere grande... Le guardie del ponte che erano state ad ascoltare quel che accadeva, lo fissarono senza osare di toccarlo. E quando Nemeciech salì sul ponticello, la voce profonda di Franco Ats risuonò imperiosa: — Attenti! Le due guardie s'irrigidirono, sollevando nell'aria le lancie con le cuspidi inargentate. E tutti i ragazzi sollevarono le loro lancie e batterono i tacchi. Nessuno parlò: il chiaro di luna risplendeva sulle punte delle lancie. I passi di Nemeciech risuonarono sul ponte mentre egli si allontanava. Poi si udì soltanto il tonfo di due scarpe piene d'acqua. Poi più niente. Sull'isoletta le Camicie Rosse si guardavano impacciate. Franco Ats era in mezzo alla radura, a testa bassa. Allora Ghereb gli si avvicinò ed era bianco come la calce. Balbettò: — Devi sapere... Ma Franco Ats gli voltò le spalle. Allora Ghereb si volse ai ragazzi che erano presenti; si fermò davanti al maggiore dei Pastor: — Devi... sapere... — balbettò. Ma Pastor seguì l'esempio del suo comandante, ed anch'egli voltò le spalle a Ghereb che rimase immobile e perplesso. Non sapeva che cosa fare. Poi disse con voce strozzata: — Mi pare che posso andarmene... Nessuno rispose. E s'avviò lui ora per la strada che poco prima aveva preso il piccolo Nemeciech. Ma nessuno lo salutava. Le guardie si appoggiarono al parapetto e si misero a fissare l'acqua. I passi di Ghereb si smorzarono nel silenzio dell'Orto Botanico.. Quando le Camicie Rosse furono sole, Franco Ats venne davanti al maggiore dei Pastor. E gli stava così vicino che il suo viso quasi toccava il viso del Pastor. Gli chiese sottovoce: — Sei stato tu a prendere le biglie a quel ragazzo nel Giardino del Museo? — Sì — rispose piano il Pastor. — C'era anche tuo fratello? — Sì. — Avete fatto «einstandt»? — Sì. — Non avevo proibito alle Camicie Rosse di rubare le biglie ai ragazzi più deboli? I Pastor tacevano. Nessuno osava contraddire Franco Ats. Il comandante li squadrò severo, poi disse con voce implacabile ma calma: — Prendete un bagno! I Pastor lo fissarono sbalorditi. — Non mi avete capito? Così, come siete: vestiti! Ora bagnatevi voi! — E quando s'accorse che qualcuno sorrideva, avvertì: — E chi ride, prenderà un bagno alla sua volta! Questo fece scomparire a tutti la voglia di ridere. Ats fissò i due Pastor e disse: — Su, bagnatevi! Fino al collo! Avanti! — E rivolgendosi alla truppa: — E voi, dietro front! Nessuno guardi! Le Camicie Rosse fecero un giro sui propri tacchi e voltarono le spalle al lago. Nemmeno Franco Ats guardò come i Pastor mettevano in esecuzione la pena su sè stessi. I Pastor s'incamminarono, avviliti e in silenzio fino al lago dove s'immersero fino al collo. I ragazzi non guardavano: udivano soltanto il loro diguazzare. Franco Ats si voltò, vide che i due avevano eseguiti gli ordini, ed allora disse: — Giù le armi! Partenza! E guidò la truppa via dall'isola. Le guardie spensero la lampadina e si accodarono alla truppa che passò con passi cadenzati per il ponte e si perdette nell'oscurità dell'Orto Botanico. I due Pastor uscirono allora dall'acqua. Si guardarono l'un l'altro, poi, come facevano sempre, si misero le mani in tasca e s'avviarono alla lor volta. Non dissero una parola ed erano molto vergognosi. L'isoletta rimase deserta nel plenilunio silenzioso della sera primaverile.

. — Ora ho fischiato abbastanza — concluse felice — E per oggi mi può bastare. Boka si rivolse a Ciele: — E tu non vieni? — Come faccio? — disse avvilito Ciele — Alle cinque e mezza devo essere a casa. La mia mamma sta attenta quando finisco la lezione di stenografia. E se arrivo in ritardo, non mi lascia più venire da nessuna parte. Questo lo spaventava molto. Tutto sarebbe finito per lui: il campo, la carica di tenente, tutto. — Allora rimani. Condurrò con me Cionacos e Nemeciech. E domattina in classe saprete quel che sarà accaduto. Si strinsero le mani. A Boka venne un'idea: — Oggi Ghereb non era alla stenografia? — No. — E' malato? — A mezzogiorno siamo usciti insieme. Stava benissimo. A Boka il contegno di Ghereb non piaceva; Ghereb gli era molto sospetto. Anche ieri lo aveva fissato in modo così curioso! Certamente Ghereb aveva compreso che, fino a tanto che Boka rimaneva nella compagnia, egli non avrebbe mai avuto compiti preminenti. Era geloso di Boka. Egli aveva più audacia, più impeto; ed il carattere serio e riflessivo di Boka lo irritava. Egli si credeva un ragazzo molto superiore. — Dio solo sa! — disse piano Boka; e s'avviò con i due compagni. Cionacos camminava serio serio accanto a lui. Nemeciech invece era tutto felice di poter prendere parte ad un'avventura cosi interessante, e la sua gioia era tanto esuberante che Boka dovette contenerla: — Non fare il bambino, Nemeciech! Credi forse che andiamo a divertirci? La nostra incursione è più pericolosa di quanto credi! Ricorda i Pastor! All'udire quel nome, la parola si strozzò in bocca al biondino. Anche Franco Ats era un ragazzo forte, anzi correva voce che l'avessero espulso dal liceo. Ma aveva negli occhi qualcosa di gentile e di simpatico; i Pastor invece camminavano sempre a testa bassa, avevano uno sguardo cupo e penetrante, erano bruni, abbronzati dal sole e nessuno li aveva mai visti ridere. Dei Pastor sì, si poteva aver paura. E i tre ragazzi andarono in fretta lungo il viale interminabile. Era già buio; la sera era calata presto. I fanali eran già tutti accesi e quell'ora insolita rendeva inquieti i ragazzi: essi eran abituati a giocare il dopopranzo, con la luce. A quell'ora di solito non erano per la strada, ma in casa, curvi sopra i loro libri. Camminarono muti, l'uno accanto all'altro e dopo un quarto d'ora giunsero all'Orto Botanico. Di dietro al muro s'ergevano minacciosi grandi alberi che cominciavano a riempirsi di foglie. II vento sibilava tra rami rinverditi; era scuro e di fronte all'enorme Orto Botanico, con la misteriosa porta chiusa e col fruscìo strano delle sue piante, i tre compagni si sentirono palpitare il cuore. Nemeciech si accostò al portone e fece l'atto di suonare. — Per l'amor di Dio, non suonare! — disse Boka. Ci riconoscerebbero. E poi... nessuno ci aprirebbe il portone, ora. — Come faremo per entrare allora? Boka accennò al muro di cinta. — Scavalcando il muro? — Sì. — Qui sul viale? — Macchè! Gireremo dietro l'Orto. In fondo il muro è più basso. Dopo di che svoltarono in una viuzza oscura, lungo la quale il muro di pietra presto si cambiava in uno steccato di legno. Trotterellavano lungo lo steccato cercando un posto adatto per tentare di scavalcarlo. Si fermarono in un punto dove la luce dei fanali non giungeva. Dietro lo steccato, di dentro, ma vicino allo steccato, si levava una grande acacia. — Se ci arrampichiamo qui — mormorò Boka — l'acacia ci aiuterà a scivolar giù dall'altra parte. E ci aiuterà anche come osservatorio per guardare se gli altri non siano nelle vicinanze. I due compagni approvarono il piano. E subito si misero al lavoro. Cionacos si appoggiò con le mani allo steccato: Boka si inerpicò sulle sue spalle e guardò dentro il recinto. Erano silenziosissimi: non fiatavano. Quando Boka fu certo che nelle vicinanze non c'era nessuno, fece un cenno con la mano: Nemeciech sussurrò allora a Cionacos: — Sollevalo! E Cionacos sollevò il presidente issandolo in cima allo steccato; e il presidente stava scavalcandolo quando le assi fradicie cominciarono a scricchiolare sotto il suo peso. — Salta giù! — sibillò Cionacos. Si udirono pochi crepitii e poi un tonfo sordo: Boka era in mezzo ad un'aiuola. Dietro a lui venne Nemeciech ed ultimo Cionacos, ma questi s'arrampicò prima sull'acacia poichè, come ragazzo di campagna, era un ottimo arrampicatore. Gli altri due gli chiesero di sotto: — Vedi qualcosa? Dall'alto rispose una voce soffocata: — Pochissimo. Fa troppo scuro. — L'isola, la vedi? — La vedo. — C'è qualcuno? Cionacos si sporse dai rami scrutando prima a destra e poi a sinistra il lago nell' oscurità: — Sull'isola ci son troppi alberi e cespugli... Non si vede niente... Ma sul ponte... S'interruppe. Salì sur un ramo anche più alto. Continuò di lassù: — Ora vedo bene. Sul ponte ve n'è due... Boka disse piano: — Allora ci sono. Quei due sul ponte sono le sentinelle. I rami scricchiolarono di nuovo e Cionacos si lasciò scivolar giù. In gran silenzio i tre rifletterono a quel che bisognava fare. Si rifugiarono dietro un cespuglio, in modo che nessuno potesse vederli, e tennero consiglio a basso voce: — II meglio sarebbe — disse Boka — se lungo i cespugli cercassimo di raggiungere le rovine artificiali del castello... Sapete, c'è un castello verso destra, sotto l'altura. Gli altri due accennarono di conoscere il luogo. — Alle rovine si giunge facilmente, procedendo di cespuglio in cespuglio. Lì qualcuno di noi s'arrampicherà sull'altura e guarderà intorno. Se non c'è nessuno ci stendiamo per terra e strisciamo giù: la strada per il lago è quella. Ci nasconderemo tra i giunchi e vedremo quel che si potrà fare. Quattro occhi luccicanti fissarono Boka. Per Nemeciech e Cionacos tutte le sue parole erano vangelo. Boka domandò: — Sta bene cosi? — Sta bene! — risposero gli altri due. — E allora, avanti! Seguitemi! Io conosco la strada! E si mise a camminare con le mani e coi piedi, tra i bassi cespugli. Non appena tutti e tre s'erano messi in ginocchio, venne di lontano un lungo fischio acuto. — Si sono accorti di noi! — disse Nemeciech balzando in piedi. — Giù! Giù! A terra! — comandò Boka. Tutti e tre rimasero immobili, bocconi nell'erba. Attesero il seguito degli avvenimenti con il fiato sospeso. S'erano veramente accorti di loro? Ma nessuno venne. II vento sibilò tra gli alberi. Boka mormorò: — Niente! Ma subito dopo un altro fischio acuto tagliò l'aria. Rimasero di nuovo in ascolto; ma nessuno venne. Nemeciech, tremando, di sotto un cespuglio, propose: — Si dovrebbe esplorare dall'albero! — Giusto! Cionacos, sali sull'albero! E Cionacos, arrampicandosi come un gatto, già era in cima alla grande acacia. — Che vedi? — Sul ponte si muovono... Ora sono in quattro... Due vanno sull'i'sola! — Allora tutto va bene — disse rassicurato Boka — Scendi. Il fischio significava il mutamento delle sentinelle sul ponte. Cionacos discese dall'albero e tutti e tre s'avviarono carponi verso l'altura. Nel grande e misterioso Orto Botanico regnava ora il silenzio. Al segnale della campana di chiusura tutt'i visitatori s'erano allontanati e nessun altro estraneo era rimasto se non chi aveva dei doveri da compiere o dei piani di guerra da svolgere come quei tre temerari che rannicchiati a palla procedevano di cespuglio in cespuglio. Non dicevano una parola: sentivano l'importanza della loro missione. E per dire la verità anche un poco di timore li opprimeva. Ci voleva un grande coraggio per tentar di penetrare nel castello munito delle camicie rosse, per tentar di raggiungere un'isoletta in mezzo a un piccolo lago, quando sull'unico ponte c'erano le sentinelle. Chissà, fors'anche i Pastor in persona! Questo pensava Nemeciech e ricordava le belle, fini biglie colorate ed al ricordo tornò ad arrabbiarsi pensando che il terribile einstandt era risuonato proprio quando egli aveva giocato e vinto tutte quelle biglie! — Ahi! — gemè Nemeciech. Gli altri due si fermarono spaventati. — Che c'è? Nemeciech era già in piedi e si stava succhiando un dito. — Che ti è capitato? Senza levare il dito di bocca: — Son capitato sur un'ortica! — rispose. — Succhia! Succhia, ragazzo! — disse Cionacos che aveva avuto l'accortezza di fasciarsi la mano con un fazzoletto. Giunsero presto all'altura. Ai piedi della collinetta era stata costruita la rovina d'un castello artificiale, come si trova nei grandi parchi signorili, e con lo stile esatto dei vecchi castelli, e le screpolature dei muri erano piene di musco. — Queste sono le rovine — spiegò Boka — Bisogna stare attenti perchè ho sentito dire che le camicie rosse vengono anche qui.. — Che castello è questo? — chiese Cionacos — Noi non abbiamo studiato nella storia che nell'Orto Botanico ci fosse un castello! — Non è un castello. Sono soltanto rovine. Sono state costruite già come rovine! Nemeciech trovò la cosa poco intelligente: — Già che costruivano, potevano costruire un castello nuovo. Dopo cent'anni sarebbe diventato da solo una rovina! — Hai voglia di scherzare, tu — ammonì Boka —. Ma se i due Pastor fossero qui a guardarti negli occhi ti passerebbe subito! A queste parole Nemeciech si rabbuiò. Egli era un ragazzo che dimenticava facilmente il pericolo, e bisognava di continuo ricordarglielo. Continuarono a procedere tra i cespugli di sambuco, inoltrandosi tra le pietre delle rovine. Cionacos era in testa: d'un tratto si fermò. Alzò il braccio destro. Si voltò e con voce strangolata: — Qui c'è qualcuno! — disse. Si nascosero tra le alte erbe che coprivano completamente i loro piccoli corpi. Gli occhi soltanto brillavano nel buio. Erano intenti. — Metti l'orecchio a terra, Cionacos! — comandò a bassa voce Boka — Anche i pellirossa fanno così per sentire se qualcuno cammina nelle vicinanze. Cionacos obbedì: si mise bocconi e pose l'orecchio per terra in un posto sgombro di erbe. — Vengono! — sussurrò spaventato. Ora si sentiva anche senza i metodi dei pellirossa che qualcuno marciava tra i cespugli. Ed il misterioso essere del quale per ora non si sapeva nemmeno se era uomo o animale, avanzava proprio nella loro direzione. I ragazzi, atterriti, nascosero anche le teste fra l'erbaccia. E Nemeciech diceva con voce piagnucolosa: — Io vorrei andare a casa! Cionacos gli disse: — Mettiti disteso, bamboccio! Ma poichè Nemeciech non si mostrava più coraggioso per questo, Boka alzando la testa fuor dall'erba, gli ordinò, a bassa voce ma con tono imperativo, mentre gli occhi gli brillavano severi: — Fante, stendetevi in terra! A questo comando bisognò obbedire: Nemeciech si mise bocconi. Lo sconosciuto procedeva fragorosamente ma pareva che ora avesse mutato direzione e non venisse più contro di loro. Boka rialzò la testa dall'erbaccia e si guardò in giro. Vide una figura nera che stava scendendo l'altura frugando i cespugli con un bastone. — E' andato via — disse ai ragazzi che erano distesi nell'erba — Era il guardiano. — Guardiano delle camicie rosse? — No. Dell'Orto Botanico. Respirarono liberati: non avevano paura degli uomini grandi. Per esempio il vecchio guardiano del Giardino del Museo, un invalido di guerra col naso rosso, non riusciva mai a domarli. Continuarono la loro avanzata. Ma il guardiano, ora, doveva essersi accorto di qualcosa, perchè si fermò, stette in ascolto. — Si sono accorti di noi! — balbettò Nemeciech. Tutt'e due fissarono Boka, aspettando i suoi ordini. - Dentro le rovine! — comandò Boka. E tutt'e tre corsero a capofitto, inciampando molte volte, giù per l'altura. Le rovine avevano delle finestrine ogivali. Ma la prima aveva l'inferriata. Corsero spaventati alla seconda: anche questa aveva l'inferriata. Più in Ià trovarono una fenditura nel muro per la quale a stento poterono introdursi. Si nascosero nel rifugio oscuro e trattennero il fiato. II guardiano passò davanti alle finestre. Di qui si potè vedere che se ne andava definitivamente verso il viale dov'era la sua casupola. — Grazie al cielo — disse Cionacos — abbiamo passato anche questa! E si guardarono in giro, nell'oscurità. L'aria era umida e sapeva di muffa come se quella fosse davvero la cantina di un vecchio castello. Boka si moveva brancicando: si fermò. Aveva inciampato in qualcosa. Si chinò e sollevò da terra un oggetto. Gli altri due gli furono accanto e si scoperse che si trattava di un... tomahawk! Una specie di ascia con la quale i pellirossa, secondo i romanzieri, vanno in guerra. Il tomahawk era formato da un pezzo di legno ricoperto di stagnola. Nel buio brillava in modo impressionante. — Appartiene ai nemici — disse con reverenza Nemeciech. — Precisamente! — rispose Boka — E se c'è quest'uno, devono esserci anche gli altri. Si misero a cercare e in un angolo ne trovarono sette altri. Si poteva dunque concludere che le camicie rosse erano otto e che questo era il loro arsenale segreto. Il primo pensiero di Cionacos fu che bisognava portar via due tomahawk come preda di guerra. — No! — disse Boka — Non lo si può fare. Sarebbe un furto comune. E Cionacos arrossì di vergogna, ma era buffo e nessuno lo vide. — Non perdiamo del tempo inutilmente. Non bisogna arrivare all'isola quando non c'è più nessuno! 5 Queste parole ardite infiammarono di nuovo gli animi. I tre ragazzi sparpagliarono i tomahawk per far ben capire che c'era stato qualcuno, nell'arsenale, poi scivolarono fuori dalla fenditura e salirono in cima all'altura. Di lassù si poteva vedere lontano. Si fermarono uno accanto all'altro e si guardarono attorno. Boka cavò di tasca un pacchettino: srotoló dalla carta di giornale che l'avvolgeva un binoccolo incrostato di madreperla. — E' il binoccolo da teatro della sorella di Ciele — disse puntandolo per guardare. Per la verità l'isola si poteva vedere benissimo anche ad occhio nudo: attorno all'isola scintillava l'acqua di un piccolo lago che serve per coltivare le piante acquatiche sulla riva del quale cresceva un rigoglioso giuncheto. Tra gli alberi frondosi e gli alti cespugli dell'isoletta brillava un puntino luminoso. I ragazzi sussultarono. — Eccoli! — disse con voce strozzata Cionacos — Sono lì. E Nemeciech disse con un tono di invidia ammirativa: — Hanno anche la lampadina! Il puntino luminoso oscillava qua e là sull'isoletta; scomparve dietro un cespuglio, risplendè sulla riva. Qualcuno portava la lampadina su e giù. — Mi pare — disse Boka che a nessun costo si sarebbe tolto il binoccolo dagli occhi — mi pare che preparino qualcosa. 0 fanno esercizi notturni o... S'interruppe. — Ebbene? — chiesero inquieti gli altri due. — Santo Iddio! — esclamò Boka fissando sempre col binoccolo — Quello che porta la lampadina è... — Chi è? — Mi pare di riconoscerlo... Spero di no... Si mosse di qualche passo per vedere meglio, ma la luce della lampadina era già sparita dietro un cespuglio. Boka abbassò il binoccolo. — Sparito! — disse con un fil di voce. — Ma chi era? — Non posso dire. Non ho visto bene e proprio quando volevo osservare meglio è sparito. Finchè non sia certo, non voglio incolpare nessuno... — Forse... uno dei nostri...? Il presidente rispose triste: — Mi pare. — Ma questo è alto tradimento! — esclamò Cionacos dimenticando ogni prudenza! — Taci! Se riusciamo ad avvicinarci sapremo tutto! Abbi pazienza fino allora! Ora anche la curiosità li sospingeva: Boka non voleva confessare a chi somigliasse il ragazzo con la lampadina. Tirarono a indovinare, ma il presidente vietò loro anche questo affermando che non bisognava incolpare nessuno. Scesero dall'altura e proseguirono carponi nell'erbaccia. Giunsero in riva al laghetto: qui potevano alzarsi in piedi perchè i giunchi ed i cespugli erano così alti che coprivano le loro stature. Boka impartì gli ordini con sangue freddo: — Da qualche parte ci deve essere una barchetta. Io esplorerò la riva destra, con Nemeciech. Tu, Cionacos, esplora la sinistra. Chi primo trova la barchetta si ferma ed aspetta. Si avviarono in gran silenzio. Ma dopo pochi passi Boka trovò la barchetta tra i giunchi. — Aspettiamo qui — disse. Aspettarono che Cionacos fatto il giro completo del laghetto, giungesse dall'altra parte. Sedettero sulla riva e si misero a fissare il cielo stellato. Poi si misero ad ascoltare se riuscissero ad afferrare qualche parola dall'isola. Nemeciech volle fare sfoggio d'intelligenza: - Ora metto l'orecchio per terra — disse — e... — Lascia in pace l'orecchio — disse Boka —. Non sentiresti niente. Ma se ci curviamo vicino alla superficie dell'acqua, forse udremo. Ho visto dei pescatori discorrere tra loro da una riva all'altra del Danubio, a questo modo. Alla sera l'acqua porta bene la voce. Si curvarono sullo specchio dell'acqua ma non riuscirono a distinguere altro che voci confuse. Intanto Cionacos era giunto. — La barchetta non c'è! — Non ti spaventare — disse Nemeciech —; noi l'abbiamo trovata! E si diressero verso la barchetta. — Saliamo? — Non qui — disse Boka —. Rimorchiamo la barchetta molto lontano dal ponte, dall'altra parte. Se ci vedono e vogliono raggiungerci, che abbiano un percorso lungo da fare. Questa prudenza piacque molto agli altri due. Si sentirono rinfrancati dalla presenza di un capo così intelligente e così preveggente. — Chi ha dello spago? — chiese il presidente. Cionacos ne aveva. Nelle tasche di Cionacos c'era sempre un po' di tutto. Non esiste bazar che possieda tale varietà di oggetti quanti trovano posto nelle tasche di Cionacos: temperino, spago, biglie, maniglia di porta, chiodi, stracci, taccuino, cacciavite e Dio sa cos'altro ancora! Cionacos trasse lo spago di tasca e Boka legò con questo l'anello che c'era a prua della barchetta. Quindi si misero a rimorchiare l'imbarcazione, tenendo però gli occhi sempre fissi all'isoletta. Quando giunsero al posto scelto per tentare la spedizione a bordo della carcassa, udirono ancora i fischi di prima; ma non se ne spaventarono più. Oramai sapevano che questo non significava se non il cambio delle sentinelle sul ponte. E non avevano più paura anche perchè sentivano d'essere in pieno combattimento. Questo accade anche ai veri soldati nelle vere battaglie: finchè non hanno incontrato il nemico, ogni ombra li impaurisce. Ma quando la prima palla ha fischiato all'orecchio, prendono coraggio, si esaltano e dimenticano di correre forse verso la morte. Primo salì Boka, sulla barchetta; secondo Cionacos. Nemeciech camminava sulla riva melmosa. — Sali, marmocchio! — Salgo — disse Nemeciech, ma sdrucciolò; s'afferrò a una canna di giunco che non lo sorresse e piombò nell'acqua senza una parola. S'immerse fino alla gola, ma si contenne dal gridare. Si rialzò in piedi sgocciolante d'acqua, s'aggrappò ad un'altra canna. Cionacos, ridendo, chiese: — Hai bevuto, marmocchio? — No, non ho bevuto — rispose il biondino con viso spaventato e, inzuppato e infangato com'era, montò sulla barchetta. Era ancor bianco dalla paura. — Non credevo di dover fare un bagno, oggi — disse piano. Non c'era tempo da perdere: Boka e Cionacos afferrarono i remi e staccarono la barca dalla riva. La barca pesante scivolò pigra sull'acqua e mosse lo specchio dello stagno. I remi si tuffarono silenziosi e la pace era così completa che si udiva il batter dei denti del piccolo Nemeciech rannicchiato a prua. La barchetta approdò alla riva dell'isola. I ragazzi scesero in fretta e si nascosero dietro un cespuglio. — Fin qui ci siamo — disse Boka —. Ed iniziò l'ultima avanzata; gli altri due, dietro. — Non possiamo abbandonare la barchetta — disse il presidente —. Se la scoprono non c'è via di ritirata. Sul ponte ci sono le sentinelle. Cionacos, tu rimani alla barchetta. Se qualcuno s'accorge della barchetta, due dita in bocca ed un fischio de' tuoi! Allora noi ripiegheremo di corsa, saltando nella barchetta. Cionacos tornò, carponi, fino alla barca e in cuor suo si rallegrava della probabile occasione di emettere un fischio, de' suoi! Boka e il biondino continuarono l'avanzata, lungo la riva. I cespugli erano più alti; i due poterono alzarsi in piedi. Si fermarono e scostarono le fronde degli arbusti; scorsero così il centro dell'isoletta, una radura dove stava seduto l'esercito delle camicie rosse. Il cuore di Nemeciech si mise a galoppare. Il biondino si strinse a Boka. — Non aver paura! — gli sussurrò il presidente. Nel mezzo della radura c'era una grande pietra sopra la quale era stata posata la lampadina. Attorno alla lampada erano accovacciate le Camicie Rosse. Accanto a Franco Ats c'erano i due Pastor ed accanto al minore dei Pastor c'era qualcuno che non aveva la camicia rossa... Boka sentì che il biondino cominciava a tremare accanto a lui. — Vedi? — chiese. — Vedo — rispose Boka con tristezza. Accanto alle camicie rosse stava seduto Ghereb! Non si era sbagliato dunque, osservando dall'altura! Era proprio Ghereb che camminava in su e in giù con la lampadina. I due fissavano con raddoppiata attenzione la compagnia delle camicie rosse. La lampada illuminava stranamente i Pastor, i loro visi cupi. Tutti tacevano: il solo Ghereb parlava. Doveva riferire qualcosa che interessava molto gli altri perchè tutti erano curvi verso di lui. Nel gran silenzio serale anche i due ragazzi della via Pal poterono percepire le parole di Ghereb: — ...al campo si accede da due parti... Si può entrare dalla via Pal, ma è difficile perchè i regolamenti prescrivono che chi entra deve sprangare la porta dietro di sè. L'altro ingresso è dalla via Maria. La porta della segheria è sempre spalancata; e di lì, attraverso le cataste di legname, si può giungere al campo. Ma lì, tra le viuzze, ci sono le fortezze... — Lo so — disse Franco Ats a voce bassa e con un tono che fece rabbrividire quei della via Pal. — Infatti, tu ci sei stato — continuava Ghereb —. Nelle fortezze ci sono le vedette che danno subito l'allarme se qualcuno si avvicina per le viuzze tra il legname. E non mi pare prudente entrare da quella parte.... Si trattava dunque di invasionse! Le camicie rosse volevano entrare nel campo! Ghereb diceva: — La miglior cosa sarebbe che ci mettessimo d'accordo prima. Stabilito quando venite, io entro per ultimo sul campo e lascio aperta la porta: non la sprango. — Sta bene — concluse Franco Ats —. — In nessun modo vorrei occupare il campo quando è deserto. Faremo la guerra con tutte le regole. Se saranno capaci di difendere il campo, benissimo. Se non riescono a difenderlo, l'occuperemo noi, issando la nostra bandiera rossa. Non lo facciamo per avidità, lo sapete bene... Intervenne uno dei Pastor: — Lo facciamo per avere un luogo dove giocare alla palla. Qui non si può e in via della Libertà bisogna sempre leticare per il posto. A noi occorre un campo di giuoco e niente altro! Avevano decisa la guerra per motivi simili a quelli dei veri soldati. Ai russi occorreva il mare; e fecero la guerra ai giapponesi per questo! Le Camicie Rosse avevano bisogno di un campo dove giocare alla palla e poichè non potevano averlo in altro modo, intendevano conquistarlo con la guerra. — Allora siamo d'accordo, — disse Franco Ats, capitano delle camicie rosse — che tu dimenticherai di chiudere la porta sulla via Pal. D'accordo? — Sì! — disse Ghereb. Al povero piccolo Nemeciech doleva il cuore. Se ne stava lì, col suo abito fradicio, fissando con occhi spalancati le camicie rosse sedute attorno al lume e tra loro «il traditore»! Il suo strazio era così grande che quando dalla bocca di Ghereb uscì il «sì» definitivo che chiudeva ogni speranza, Nemeciech si mise a piangere. Piangeva sommessamente e mormorava: — Signor presidente... Signor presidente... Signor presidente... Boka volle calmarlo: — Andiamo! Col pianto non si conclude niente! Ma anche la sua voce era strangolata: era pur una cosa dolorosa questa di Ghereb! D'un tratto, ad un cenno di Franco Ats, le camicie rosse balzarono in piedi. — A casa! — disse il capitano. Avete tutti le vostre armi? — Sì! — risposero tutti ad una voce e sollevarono da terra le loro lunghe lancie di legno che portavano in cima una sottile bandieruola rossa. — Avanti! — comandò Franco Ats. Le armi in fascio, tra i cespugli. E s'avviarono tutti, con Franco Ats alla testa, verso l'interno dell'isola. E anche Ghereb andò con essi. La radura rimase deserta con nel centro la pietra e sulla pietra la lampadina accesa. Si udivano i loro passi che s'allontanavano sempre più, perdendosi nel folto. Boka si mosse: — E' il momento! — disse, e cavò di tasca il cartone rosso nel quale già era infilata una puntina da disegno. Scostò i rami del cespuglio e disse al biondino: — Aspettami qui! Non ti muovere! E balzò nella radura dove poco prima erano state le camicie rosse. Nemeciech trattenne il fiato. Boka s'accostò al grande albero che era sul margine della radura e che copriva col suo ampio fogliame tutta l'isoletta: attaccò il cartone al tronco e poi s'avvicinò alla lampadina. Aperse la finestrina e soffiò sulla candela. La Luce si spense e in quel momento Nemeciech perse di vista anche Boka; ma i suoi occhi non s'erano ancora abituati all'oscurità quando Boka gli era già tornato vicino: — Via! Corrimi dietro, più presto che puoi! E si misero a galoppare verso la riva, verso la barchetta. Quando Cionacos li vide, montò a bordo e appoggiò il remo contro la riva per essere pronto a staccare di colpo l'imbarcazione. I due ragazzi saltarono pronti nella barchetta. — Via! — ordinò Boka. Cionacos puntò il remo e spinse ma la barchetta non si mosse. Giungendo, avevano approdato con troppo impeto e la barchetta era per metà in secca. Bisognava scendere, sollevare la prua e spingerla in acqua. Intanto le camicie rosse eran tornate sulla radura ed avevano trovata spenta la loro lampadina. Sulle prime credettero che l'avesse spenta il vento, ma quando Franco Ats s'accorse che lo sportello era aperto: — Qui c'è stato qualcuno! — esclamò, e la sua voce fu così forte che la intesero anche i ragazzi nella barchetta. La lampada fu riaccesa ed allora si trovò anche il cartello appeso al tronco: I RAGAZZI DI VIA PAL SONO STATI QUI! Le camicie rosse rimasero allibite; ma Franco Ats gridò: — Se sono stati qui, ci devono essere ancora! Inseguiteli! Emise un lungo fischio. Le sentinelle accorsero dal ponte e riferirono che di lì nessuno era passato. — Allora sono venuti con la barchetta! disse il Pastor più piccolo. E mentre i tre ragazzi si affaticavano per smuovere la barchetta; udirono il comando che si riferiva ad essi: — Inseguiteli! Proprio quando risonò questa parola, Cionacos riuscì a spingere in acqua la barchetta: con un balzo fu a bordo anche lui. Afferrarono immediatamente i remi e remarono a gran forza verso la riva. Franco Ats dava a gran voce i suoi ordini: — Vender, sull'albero: osservazione e informazione! Fratelli Pastor, via per il ponte e aggirateli, da destra e da sinistra! Circondati! Prima che essi abbiano fatte le loro cinque o sei remate, certo i Pastor campioni di corsa, avranno già fatto il giro del lago, ed allora non c'è scampo nè a destra nè a sinistra. E se giungono prima dei Pastor, la vedetta in cima all'albero può seguirli con lo sguardo e comunicare la direzione presa! Dalla barchetta si vedeva il fanalino, in mano a Franco Ats, muoversi sulla riva dell'isoletta. Poi uno scalpiccio sul ponte: i Pastor che lo varcavano di corsa! Quando la barchetta giunse all'altra sponda, la vedetta raggiungeva il suo posto d'osservazione in cima all'albero: — Approdano! — urlò la voce dall'albero — E la voce del capitano rispose pronta : — All'attacco! Tutti! Ma già i tre ragazzi della via Pal galoppavano disperatamente: — Non devono raggiungerci — disse pur mentre correva Boka —. Sono in molti più di noi! Corsero a precipizio, attraverso strade, praterie, girando boschetti: Boka in testa, gli altri due dietro. Erano diretti alla serra. — Dentro, nella serra! — rantolò Boka, e corse alla porticina. Per fortuna era aperta. Scivolarono dentro e si nascosero. Fuori era silenzio. Forse gli inseguitori avevano perdute le traccie. I tre ragazzi ora riposavano un poco. Si guardavano attorno: le pareti e il tetto di vetro dell'edificio strano lasciavano trapelare il lontano chiarore della città. La grande serra era un luogo nuovo ed interessante! Si trovavano nell'ala sinistra della costruzione: c'erano alberi piantati dentro gran vasi verdi, alberi con larghe foglie. Dentro lunghi cassoni vegetavano mimose e felci. Sotto la cupola del corpo centrale s'ergevano palmizi con fronde a ventaglio e tutta una foresta di flora tropicale. In mezzo a questa foresta c'era una piscina con dentro dei pesciolini dorati, e vicino una panchina. Poi magnolie, lauri, aranci, ed enormi felci. Un profumo intenso carico d'aromi, rendeva pesante l'aria. E nell'altra ala, quella riscaldata a calorifero, l'acqua gocciolava sempre. Le goccie colavano sulle larghe foglie carnose e quando una foglia di palma si mosse sotto il peso di queste goccie ai ragazzi parve di scorgere qualche strano mostro equatoriale sbucare da questa foresta calda ed umida, in mezzo ai vasi verdi. Si sentivano al sicuro e cominciavano a pensare al modo di uscire. — Purchè non ci chiudano dentro! — mormorò Nemeciech che s'era seduto ai piedi d'una grande palma e si sentiva bene nella località riscaldata perchè era inzuppato fino alle ossa. Boka lo rassicurò: — Se non hanno chiuso ancora la porta, non la chiuderanno più. Stavano seduti ed ascoltavano: nessun rumore. Certo a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarli qui. Si alzarono e si mossero a tastoni tra gli alti scaffali, zeppi di piante, di erbe odorose e di grandi fiori. Cionacos andò a cozzare contro uno scaffale e inciampò. Nemeciech volle essere premuroso: — Fermati — disse — ti faccio luce! E prima che Boka avesse potuto impedirglielo aveva cavato di tasca i fiammiferi, ancora asciutti malgrado il bagno, e ne aveva acceso uno. La fiammella divampò ma si spense subito perchè Boka l'aveva strappata dalla mano dell'imprudente. — Merlo! — diceva Boka furioso — Non sai che sei in una serra? Che qui anche le pareti sono di vetro...? Di certo avranno visto la luce. Si fermarono e si posero in ascolto. Boka aveva ragione: le camicie rosse 6 avevano veduto la luce divampare, rischiarare per un istante tutta la serra. Ed ecco si udivano già i loro passi sui ciottoli. Anch'essi si dirigevano alla porta dell'ala sinistra. Franco Ats diede gli ordini: — I Pastor per la porta di destra — gridò — Sebeni per quella di mezzo, io per di qui! I te della via Pal si nascosero in un baleno. Cionacos si mise disteso sotto uno scaffale, Nemeciech, con la scusa ch'era bagnato di già, fu mandato nella piscina. II biondino si calò nell'acqua fino al mento e nascose la testa sotto una grande felce. Boka fece appena in tempo a ritirarsi dietro il battente che si apriva. Franco Ats entrò col suo seguito: teneva in mano il fanalino. La luce di questo cadde sulla porta vetrata in modo che Boka poteva vedere benissimo Franco Ats, ma questi non poteva vedere Boka nascosto dietro la porta. E Boka osservò bene il capitano avversario, ch'egli aveva veduto soltanto una volta da vicino, nel giardino del Museo: bel ragazzo, Franco Ats, col viso tutto acceso dall'ardore del combattimento. Ma subito si allontanò: percorse con gli altri le stradicciuole della serra e nell'ala di destra guardarono anche sotto gli scaffali; ma a nessuno veniva in mente di cercar nella piscina. Cionacos poi scampò dal pericolo d'essere scoperto perchè quando stavano per esaminare anche sotto lo scaffale dov'egli si trovava, il ragazzo che Franco Ats aveva chiamato Sebeni, disse: — Se ne sono andati da un pezzo, per la porta di destra... E poichè si avviava in quella direzione, tutti gli altri, nel fervore della ricerca, lo seguirono. Attraversarono la serra, ed alcuni sordi tonfi dissero che anch'essi non avevano troppi riguardi per le terraglie. Uscirono. Nuovo silenzio. Cionacos sbucò fuori: — Un vaso m'è capitato in testa e sono pieno di terra! E si mise a sputare con molto zelo la terra che gli era entrata in bocca. Secondo apparve Nemeciech: uscì dalla piscina come un mostro acquatico. Era bagnato come un cencio e gocciolava tutto: — Passerò tutta la vita in acqua? — diceva — Cosa sono? Una rana? Si scosse tutto come un cagnolino bagnato. — Non ti lamentare — disse Boka —. Almeno ora non potrai più accendere fiammiferi di certo. Ma andiamo... Nemeciech sospirò: — Come vorrei già essere a casa! Ma, pensando alle accoglienze che avrebbe avuto a casa vedendo il suo vestito in quello stato, corresse: — No. Non vorrei essere neanche a casa! Ritornarono correndo verso l'acacia dove avevano scavalcato lo steccato. Cionacos s'arrampicò sull'albero, ma prima di mettere il piede sullo steccato si rivolse verso il giardino: — Vengono! — esclamò. — Su, all'albero! — ordinò Boka. Cionacos tornò sull'albero ed aiutò anche i compagni a salire. S'arrampicarono quanto più in alto riuscirono e quanto la resistenza dei rami consentiva. Sarebbe stato seccante essere presi quando stavano per essere in salvo. La banda delle camicie rosse giunse sotto l'albero con corsa rumorosa. I ragazzi si rannicchiarono tra le foglie come tre uccellini spaventati. Tornò a parlare quel Sebeni che nella serra aveva guidato i suoi sopra una falsa pista: — Li ho visti scavalcare lo steccato! Questo Sebeni doveva essere il più stupido fra i nemici, e perchè era il più stupido era anche il più turbolento ed era lui che parlava e gridava di continuo. Le camicie rosse che eran tutti ottimi ginnasti, in pochi balzi, sono al di là dello steccato. Franco Ats è rimasto per ultimo e prima di uscire spegne la lampada. Mentre si arrampica sull'acacia per poi passare sullo steccato, gli cadono addosso, da Nemeciech fradicio, alcune goccie d'acqua. — Piove — disse; e si asciugò il collo. — Eccoli laggiù! — disse Sebeni; e tutti si misero a correre. — Se non ci fosse stato questo Sebeni ad aiutarci — disse Boka — ci avrebbero presi da un pezzo. Ora sentivano d'essere definitivamente scampati da ogni pericolo. Avevano creduto di riconoscerli in due ragazzi che se n'andavano pacificamente per i fatti loro e s'erano messi ad inseguirli: quei due, spaventati, s'eran dati a scappare. E allora le camicie rosse, urlando selvaggiamente, via, all'inseguimento. II rumore della corsa si perdette lontano. Scesero dallo steccato e respirarono di soddisfazione quando tornarono a sentire la pietra del marciapiede sotto le loro scarpe. Incontrarono una vecchietta barcollante; poi altri passanti. Erano di nuovo in città: ogni pericolo era scomparso. Erano stanchi ed affamati. Passarono davanti all'orfanotrofio le cui finestre illuminate guardavano verso la sera buia: una campanella annunciò che là dentro si stava per andare a cena. Nemeciech batteva i denti. — Facciamo presto — disse. — Aspetta — disse Boka —. Tu prendi il tram per andare a casa. Ti do i soldi. Mise la mano in tasca. Ma il presidente non aveva che sette soldi. Nella sua tasca non c'erano che sette soldi di rame e l'elegante calamaio tascabile ricoperto di pelle, dal quale colava un filo d'inchiostro azzurro. Cavò i sette soldi macchiati d'inchiostro e li diede a Nemeciech: — Non ne ho altri! Ma Cionacos cavò fuori due soldi; e il biondino aveva un soldo portafortuna che aveva con sè in una scatoletta per pillole. Tutto sommato si arrivava a dieci soldi. Con questi, il biondino salì sul tram. Boka si fermò in mezzo alla strada: aveva ancora il cuore gonfio per il tradimento di Ghereb. Se ne rimaneva triste e taceva. Ma Cionacos che non sapeva ancora niente era allegro e disse: — Attenzione, signor presidente! — e quando Boka lo guardò, mise due dita in bocca e fischiò da rompere i timpani. Poi si guardò attorno come uno che si sia finalmente sfogato. — L'ho tenuto finchè ho potuto, ma ora non ne potevo più! Prese a braccetto il malinconico Boka e, dopo tante avventure, s'avviarono stanchi verso la città, lungo il grande viale...

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