Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246969
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Lo stanzone era piuttosto un lungo corridoio, con l'impiantito di legno abbastanza sconnesso e dove, spesso, pigliavano delle storte i tacchetti di legno delle ballerine, che venivano da casa loro, correndo per l'ora tarda: mentre le scarpette di raso carnicino della danza, dalla suoletta leggiera, sugherigna vi si rovinavano: ma, all'impresario che poteva ciò importare, quando le scarpette erano a conto delle ballerine? Le mura di quello stanzone erano appena imbiancate e qua e là mostravano delle macchie di umido, oscure, verdastre, come le traccie di una ignobile lebbra del muro: tre fiammelle di gas sporgevano da una lunghezza del muro e divampavano, riscaldando l'ambiente come una fornace: ma la loro luce piombava sopra un lungo tavolone di legno che formava una toilette comune alle otto ballerine, e dove erano appoggiati degli specchi, delle catinelle, i vasetti del rossetto, le spazzole, i pettini, le forcinelle, un tavolone lungo quanto la parete dello stanzone e dinnanzi al quale stavano le ballerine seminude, semivestite, dandosi il rosso, ungendosi le braccia di cold-cream, provandosi qualche fiore artificiale, qualche fibbia di strassi nei capelli, stringendosi il bustino sino alla mancanza del respiro, per fare la vita piccina. E tutto vi si faceva in una promiscuità bizzarra, fra le smorfie delle più modeste o delle più mal fatte, che si vergognavano di spogliarsi innanzi alle altre, fra le audacie di quelle che restavano in camicia, un'ora, non avendo punto freddo in quel forno, con quel gas, con tutti quei respiri, con tutti quei profumi più o meno violenti dei cosmetici. Delle sedie sghangherate su cui erano gittati i costumi dell'Excelsior, alla rinfusa: lungo il muro vuoto, degli appiccapanni a cui erano sospesi i vestiti di città delle ballerine , per lo più assai poveri, alcune perchè non volevano sciupare la loro buona roba in quella stanzaccia, altre perchè non avevano nulla di decente per vestirsi, tormentate dalla misera paga, dal peso di famiglia, dagli amanti che non davano loro un soldo. Fra le otto ballerine della terza fila, solo Carlotta Musto e Marietta Sanges, che avevano degli amanti serii e relativamente generosi, avevano delle sottanine di seta e dei busti di colore: le altre sei avevano deposta della biancheria grossolana, delle calzette di cotone, dei busti da tre lire e cinquanta. Filomena Stoppa, poi, già famosa per la sua onestà e per la sua sudiceria aveva una sottana tutta infangata sospesa al chiodo e, per terra, delle calze, che facevano schifo: - Ma tu, ti lavi la faccia? - le gridava Checchina Cozzolino, tutta nauseata di quel suo viso gonfio e biancastro, simile a una vescica. - Pensa alle tue sudicerie! - le rispondeva insolentemente Filomena Scoppa. Erano tutte più o meno nervose, più o meno furiose, in quella giornata di carnevale, quando tutti si divertivano, o, almeno, tutti si riposavano ed esse erano costrette a ballare due volte, di giorno e di sera, non mangiando che un boccone, disperatamente, fra le due rappresentazioni o restando digiune sino alla una dopo mezzanotte, avendo dovuto lasciare gli amanti, la casa per venire a saltellare in cadenza: quelle rappresentazioni di giorno, fatte per i ragazzi condotti dalle loro bambinaie, fatte per le famiglie della piccola borghesia, per un pubblico odioso, che esse odiavano. Meno male, la sera, coi loro corteggiatori in poltrona, con tutti quei gentiluomini più o meno ricchi che ognuna di loro sperava di conquistare, di strappare alle ballerine fortunate delle prime file, di strappare alle duchesse, alle contesse, alle marchese della grande società: meno male! Varie, intanto, dalle prime file mancavano, erano restate a casa, facendosi multare, infischiandosene dell'impresa, sostenute da innamorati ricchi e superbi: l'Excelsior, di giorno, sarebbe stato irriconoscibile. - Concetta Giura non vi è - disse Carlotta Musto, rispondendo a una domanda di sua sorella Rosina. - Beata lei, che può farlo. - E tu, non potresti farlo? Che te ne importa di ballare? - Me ne importa... me ne importa - rispose con aria di segretezza, Rosina, che non voleva inni narrare i fatti suoi. - Intanto quella è a Sorrento col duca di Sanframondi... non ritorneranno che stassera. - Ci spende molto, Sanframondi? - Molto: ma non come una volta - replicò Carlotta che era sempre la meglio informata. Due o tre di esse sospirarono: Checchina Cozzolino, che non aveva mai due soldi in tasca, mormorò: - Malann'aggia la mia brutta sorte! Si bussò violentemente alla porta del camerone: era ora di uscire in iscena, pel primo quadro. Vi fu un clamore, nessuna era pronta, tutte si affannavano, scappavano una dietro l'altra, verso il palcoscenico, sollevando un'acre polvere, raggiustando le spalline del bustino con quel moto familiare delle ballerine, dandosi dei colpetti sulle gonnellino di velo troppo sbuffanti, assicurandosi le forcinelle nei capelli. Carmela Minino era stata una delle prime: taciturna, con la sua aria apatica, ella era sempre pronta, sempre al suo posto. Rientrarono tutte, in gran fretta per cambiarsi di vestito: quel dannato Excelsior porta sei cambiamenti di vesti, per tutto il corpo di ballo, una cosa da dannarsi, con la recita della sera, facevan dodici mutamenti! Avevano ballato assai male, trascuratamente, sapendo che tutto era buono, per il pubblico diurno, di festa, di carnevale. Ma il direttore del ballo, nelle quinte, le aveva strapazzate con ingiurie brutali, come faceva sempre, del resto, per ogni piccola cosa. Esse si lagnavano, strillavano: - Che vita da cani! - È una cosa da crepare! - Quando finisce, quando? - Vorrei andare a spazzare le vie e non fare la ballerina! - Felice chi può non farla! Carmela Minino taceva: ma il suo povero cuore soffocava i sospiri della tristezza, di una vana e vaga tristezza, in quel giorno festivo, in quel camerone ardente, fra quegli odori e quelle puzze, fra quei gridi, quelle voci roche, quelle parole talvolta laide, spesso oscene. Essa sentiva, sì, profondamente l'umiltà, la miseria, la limitazione gretta, la mancanza d'avvenire migliore della sua professione: ne sentiva tutta la gaiezza apparente e tutta la malinconia interiore: ne sentiva tutta la immancabile corruzione in cui la virtù, l'onore, il decoro, il pudore dovevano, un giorno più vicino o più lontano, necessariamente naufragare: ma non vedeva via di scampo; che altro avrebbe ella mai fatto, se non ballonzolare, in una delle ultime file della grande danza, vestita da giapponese, da almea, da paggio? Che altro sapeva ella mai fare, se non questa sola cosa e neanche benissimo, ma tanto da averne il pane e il tetto? Tutte sognavano o un gran matrimonio o un terno al lotto o più praticamente un amante dovizioso e largo: ma ella, Carmela Minino, nulla di nulla. - Neppure Emilia Tromba ci sta! esclamò Margherita De Santis, la sottilissima, sempre malata, che pareva sempre dovesse spezzarsi in due. - Sorrento, anche lei, con Concetta Giura - rispose subito Carlotta Mosto, che era la cronista meglio informata. - Con Ferdinanzo Terzi, naturalmente - mormorò Marietta Sanges, la biondona enorme, che odiava il suo mantenitore, un notaio sessantenne. Le palpebre di Carmela Minino batterono due o tre volte, vivamente: le mani che allacciavano il giubbetto di fattorino telegrafico, nel quadro dell'Ufficio telegrafico, tremarono e si fecero molli. - Che ti pare! - proruppe Checchina Cozzolino, la poverissima, la invidiosissima. - Quello non la lascia mai, - Emilia se lo mangia vivo. - Perchè lui vuoi farsi mangiare - soggiunse Carlotta Musto, che aveva una vecchia esperienza di uomini e a cui tutte chiedevano consiglio - ma non le vuol bene. - Ci spende l'osso del collo! - Ma non le vuol bene, vi dico. Vuol bene a una signora, maritata... con un marito geloso... un guaio... Carmela Minino si sedette un momento. Tutte queste cose ella le sapeva: le aveva intese dire, varie volte, sul palcoscenico: le aveva udite sempre avidamente, ricevendone sempre una grande emozione. Ma, ora, esse erano dette più spesso, con insistenza. - Con questo marito geloso, Ferdinando Terzi può anche avere qualche disgrazia... - soggiunse Carlotta Musto assicurandosi il berretto da fattorino sui capelli e pigliando il telegramma che doveva tenere in mano. - Ed Emilia Tromba resta sul lastrico - gridò trionfalmente Checchina Cozzolino. - Dio sia lodato! - strillarono due o tre altre. Non avevano bussato, per andare in iscena? Così parve a Carmela Minino che aprì la porta del camerone ed uscì: affogava, si sentiva svenire in quel caldo. Non avevano picchiato: si era ingannata. Respirò un po' meglio, sola, appoggiata a uno stipite, stringendo al petto il suo falso dispaccio, come se fosse una lettera amorosa. Del resto, bisognava correre di nuovo, dopo due o tre minuti, per ballare un grande galoppo furioso, insieme alla prima ballerina, Antonietta Bella, che aveva una stella elettrica nei capelli neri e che faceva sprigionare delle scintille elettriche dalla sua cintura: ma le gambe di Carmela Minino sempre poco svelte, in quel galoppo furono così deboli! Per poco, spinta dalla Mastracchio frettolosa, non cadde contro una quinta: si graffiò una mano, contro un chiodo.

Pagina 109

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247294
Matilde Serao 3 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
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. - Sì, sì, abbastanza - rispose lei, per non essere sgarbata. - Ci vogliamo far fare un magnifico arrosto di mozzarelle, Lina: alla Regina d'Italia lo cucinano splendidamente - soggiunse lui, con quel tono importante ed enfatico, con cui qualunque napoletano parla di culinaria. - Già, è vero. Vi sarà la mozzarella? - Vi è sempre. È una specialità. Ieri sera, quando ti lasciai, vi salii un momento, per vedere se vi erano amici... don Gabriele Scognamiglio se ne faceva dare una seconda portata. - Stava lì, eh? - Sicuro. Con una donnetta, una francese. È un vecchio impenitente. Ha denari... è scapolo... allora.... - cercò di spiegare lei, nella sua indulgenza. - Ti ha sempre fatto un po' la corte, non è vero - disse, ridendo, Roberto Gargiulo. - Oh! - esclamò lei e arrossì, sotto il belletto. - Come a tutte le altre... - E tu non gli hai dato retta, come le altre? - No, no - rispose lei, in fretta. - Te lo giuro - soggiuuse poi, guardandolo in viso, con una certa umiltà. - Non giurare. Ti credo. Lo so che sei una buona ragazza. Se no, non ti vorrei bene - concluse lui, fattosi un momento pensieroso. Ella guardò in cielo, mentre continuavano a camminare, in silenzio, verso la trattoria. Era una notte stellata di aprile, già tiepidissima: molta gente circolava per le vie, gli uomini con i soprabiti aperti, le donne avendo allentato le loro giacchette, le loro mantelline, al collo. Erano le ultime sere di spettacolo, al San Carlo: la stagione si era prolungata molto, quell'anno, e il ballo L'Avventura di carnevale aveva preso il posto dell'Excelsior, dato in febbraio. Presto Carmela Minino avrebbe avuto del riposo. Ella lo desiderava e lo temeva, anche, questo riposo; giacchè se rappresentava una vita più tranquilla, era la cessazione di quelle tre lire e cinquanta al giorno. Si parlava di una grande stagione di ballo, al teatro estivo delle Varietà, per giugno, luglio e agosto; qualche cosa avevano detto pure a lei, ma erano state parole in aria. - Fa caldo, stanotte - disse Roberto, mentre arrivavano. - Fa caldo - approvò lei. La loro conversazione, persino nei momenti di amore, si manteneva su questo tono modesto e monotono. Roberto Gargiulo, dotato di quel grossolano e falso brio di certi meridionali, non ne faceva mostra che fra amici, al caffè, al teatro, nella vita di notte: con Carmela Minino egli ridiventava il borghese placido, dall'ingegno lento e torpido: tanto più che la ragazza, piena di buon senso, incapace di dire una cosa scorretta, non aveva nessuno spirito. Ciò, in fondo, faceva piacere a Roberto Gargiulo e lo seccava: privatamente era contento che Carmela fosse una creatura semplice e buona, ma, in pubblico, quando vi erano amici presenti, specie altre coppie di amanti, egli si annoiava che ella non facesse del chiasso, parlando forte, ridendo clamorosamente, dando del tu agli uomini, facendo saltare qualche bicchiere. Per lui, era, certo, un gran vanto e se ne ringalluzziva, di essere stato il primo amante di quella ragazza; avrebbe voluto, però, insegnarle il rumoroso gergo delle ballerine, delle chanteuses, delle altre donnette, quando sono in pubblico. Viceversa Carmela Minino ammutoliva innanzi alle persone e si contentava di sorridere cortesemente, dolcemente. Meno male che aveva un bel sorriso! La trattoria della Regina d'Italia è oltre la metà di Toledo, verso su: è a un primo alto, abbastanza alto, quello che si chiama pomposamente primo piano nobile, qui: ma l'entrata è da un portoncino, nel vicolo Speranzella, che sale verso i quartieri di Montecalvario, borghesissimi quartieri napoletani. È una trattoria di second'ordine, di molto second'ordine, quasi di terzo: essa è frequentata da studenti, quelli, però, che possono disporre di qualche ra, da impiegati, da viaggiatori di commercio, da provinciali di dimora breve o lunga, qui. Vi si paga una lira e cinquanta la colazione, due lire il pranzo: ma, per quel prezzo, dovuto alla concorrenza, vi si mangia bene, relativamente, con abbondanza, i signori studenti, impiegati , viaggiatori di commercio e provinciali essendo molto esigenti. La Regina d'Italia, dunque, è molto popolare e mentre altre trattorie allogate meglio, più nel centro della città, con gli stessi prezzi, languiscono e falliscono, essa mantiene la sua posizione, brillantemente. Giova molto alla sua popolarità l'essere aperta sino ad ora avanzata della notte, cosa che è rara, a Napoli: così che tutti i nottambuli, tutti quelli che hanno una ragazza da portare a cena, tutti i vitaiuoli, giuocatori che hanno vuotato le loro scarselle, giornalisti e reporters dei giornali notturni, delegati di pubblica sicurezza e agenti segreti, affiliati eleganti della mala vita, camorristi di qualità più fine, in soprabito e guanti chiari, tutti, nella sera, nella notte, dànno una capatina alla Regina d'Italia. Spesso, a ora tarda, vi si trova anche qualche gentiluomo elegantissimo, con qualche compagna molto chic: forse è per desiderio d'incanagliarsi un poco; forse, è per cambiare; forse, è per un celato criterio di economia; o, forse, perchè i grandi caffè, i grandi restaurants sono già chiusi. Carmela Minino e Roberto Gargiulo salirono per la scaletta di marmo, non assolutamente pulita, ma passabile, adorna di una striscia di tappeto, in cocco, che si era assai scolorita e sciupata, sotto i piedi degli avventori. Sulla soglia, un grosso e alto uomo si presentò a loro: - Ostricaro! Ostricaro! Volete ostriche? - Vuoi una dozzina d'ostriche, Lina? - chiese, magnificamente, Roberto Gargiulo, con un fare da ricco viveur. - No, no - diss'ella, subito, passando avanti. - Quattro fasolari, signorina; una dozzina di ancini... - diceva ancora, monotonamente, l'ostricaro. Nella prima stanzetta di entrata, che aveva una porta sulla cucina, erano esposte le vettovaglie, sovra una grande credenza di marmo bianco: delle costolette crude, in un piatto enorme; dei polli spiumati e già legati per essere arrostiti; in un grande piatto ovale dei pesci morti, crudi, una spinola, delle triglie, dei calamaretti. E, insieme, dei piatti contenenti un prosciutto cotto, roseo, tagliato a metà e delle salsiccie da cuocersi, contenenti dei latticini, cioè mozzarelle, formaggi freschi e secchi, contenenti frutta fresche e secche: una torta alla romana, cui mancava la metà, faceva mostra di sè, carica di zucchero, gocciolante di crema. Tutta quella roba cruda e cotta doveva eccitare la fame: ma Carmela Minino abbassò gli occhi, passandovi innanzi. - Hai visto, Linuccia? vi erano certe triglie grosse così, un amore. Ce le ordiniamo al pomodoro, eh? - Costeranno... - osò dire lei. - Questo non ti deve importare - replicò lui, subito, un po' sdegnato. - Questa sera si fa festa. - E sì, sì, ordina pure - soggiunse presto, lei, che non voleva contraddirlo. Le sale della Regina d'Italia sono come un budello, una dopo altra, quattro o cinque sino all'ultima, più grande, che sbuca su Toledo. Roberto Gargiulo lasciava andare avanti, per galanteria, la sua amante e la seguiva, col suo passo elastico di uomo abituato a quei posti, a quelle compagnie, a quelle cene; attraverso quelle sale, tutte stuccate di bianco, mobigliate di reps rosso, con certi divani, lungo il muro, innanzi ai quali erano collocate le tavole, divani lunghi e stretti, molto duri e, insieme, molto sfiancati per le migliaia di persone che vi si erano sedute da anni, con certi specchi dalle sbiadite cornici di oro, Gargiulo sogguardava, qua e là, se vi fossero altri vitaiuoli, sue conoscenze, se la gente lo guardasse e lo ammirasse, con la sua aria di finto gran signore, il suo panciotto bianco sotto il thait, la sua catena di oro, e la catenella di argento, dalla tasca del panciotto in quella dei pantaloni, per sostenere le chiavi e il lapis, ultima moda inglese. Nella prima sala, non vi era nessuno. Nella seconda, un solo tavolino occupato, da un marito e una moglie, certo, di provincia, che dovevano aver assistito a uno spettacolo teatrale; il marito aveva condotto la moglie colà, per darle un'idea delle ebbrezze cittadine; nella seconda, due tavolini occupati, da un giovanotto biondo e fine, venticinquenne, con una ragazza vestita vistosamente, la gonna di un colore, il busto di un altro, un fiocco di un terzo colore al collo, un cappello bizzarro, e le mani rosse e nude, una sartina, o una modista, certo, di quelle che si acconciano coi ritagli delle stoffe che rubacchiano alle clienti - l'altro tavolino da Rosina Musto, la zitellona quarantenne, brutta ma simpatica, goffa ma ballerina provetta, col suo antico e costante amatore, don Pasquale Sambrini, il negoziante di generi coloniali. Mentre Carmela passava, Rosina Musto le fece un cenno affettuoso di saluto. - Sta sempre con Sambrini - mormorò Roberto Gargiulo. - Si dice... si dice che siano sposati, in chiesa - osservò Carmela Minino. - Oh! - esclamò lui diventato freddissimo. Eran fermi, nel salone , l'ultimo, il più vasto, che formava angolo, avendo una finestra sul vicolo Speranzella e due balconi sulla via Toledo. Roberto non cenava che lì. Egli cercava, con gli occhi, quale tavola dovesse prescegliere. Si decise per una, situata giustamente nell'angolo, fra la finestra e il balcone. Mentre si sedevano, il cameriere rianimò i becchi del gas. Carmela, macchinalmente, si tolse la giacchetta di panno, a taglio maschile: apparve con un vestito di casimiro lilla, guarnito di velluto lilla alla cintura, al collo e alle maniche: un dono di Roberto, stoffa, guarnizione, fodera, ella avendone pagato solo la manifattura, giacchè non accettava mai un soldo, in denaro, da lui. Anzi, quelle dodici lire di manifattura le erano pesate abbastanza: ma non aveva detto nulla, poichè egli era stato così gentile e generoso! - Perchè non hai messo il cappello nuovo? - chiese lui, che la esaminava attentamente. - Si sciupa tutto, in quel teatro... - ella rispose, vagamente. - Qui non siamo in teatro - osservò l'amante. - Non sapevo... non sapevo che saremmo venuti. Ella era alquanto cambiata, nell'aspetto. Anzi tutto, un tempo, prima di uscire da teatro ella si strofinava sempre il volto per toglierne le traccie del rossetto e dei cold cream; ora, per desiderio di Roberto, espresso più volte, ella si rifaceva il viso, prima di venir via, giacchè egli odiava le facce pallide e opache come la sua: pure gli occhi erano sottolineati dal kohl, sebbene non ne avessero bisogno e le labbra erano vivificate dal lapis di carminio. A lui piaceva, perversamente, di mostrarsi con una giovane molto imbellettata, sempre tendendo a far prendere la povera, semplice timida corifea di terza fila, per qualche donna di grande vita di piacere, carica di cosmetici: ed egli stesso le portava tutte quelle pomate, quegli unguenti, quelle polveri. Ella aveva un paio di guanti portabili, una catenina d'oro con la crocetta, al collo, un paio di orecchini, falsi - ma bene imitati - di brillanti, alle orecchie. Tutto lui, le aveva dato, man mano, dispiacendosi di vederla con le mani nude, senza un ornamento al collo, senza orecchini: erano guanti di fondo di bottega, a una e cinquanta il paio, la crocetta con la catenina era di argento dorato, gli orecchini costavano quindici lire: ma egli se ne teneva, come se accompagnasse una donna coperta da mezzo milione di diamanti. E al lume del gas Carmela Minino si mostrava sotto il suo nuovo aspetto: bizzarramente imbellettata, meno brutta, un po' più piacente, conservando di sincero solo i suoi ricchi capelli neri e un sorriso dolce, assai dolce: le mani, malgrado la glicerina, erano restate brunastre, magre, con le traccie delle fatiche materiali che ella compiva, da anni, in casa sua. Roberto l'aveva pregata di togliersi i guanti meno che poteva; tanto più che non aveva potuto ancora regalarle nessun anello. Erano appena seduti, che entrò una altra coppia, nel salone: era un giovane signore dell'aristocrazia napoletana, un transfuga e un degenerato, veramente, che aveva mangiato al giuoco e con le donne tutta la sua proprietà; egli aveva dato l'ultimo colpo alla sua fortuna con Lodoiska, una chanteuse che portava un nome russo, ma che era genovese: ora, senza un soldo, egli viveva sempre con Lodoiska, alle spalle di lei, anzi si annunziava, dappertutto, il loro matrimonio. I suoi parenti lontani, poiché Placido Massamormile non aveva parenti vicini, facevan di tutto, perché egli lasciasse Napoli, non potendo sopportare tanto obbrobrio. Placido Massamormile era piccolo, asciutto, molto ben fatto, bruno, con capelli e baffi nerissimi, una fisonomia orientale, ma senza mollezze di linee: Lodoiska era alta, bionda, formosa, rosea, con certi begli occhi celesti, ma di cui uno, disgraziatamente, era storto. Ella vestiva di rosso, con un gran cappello bianco, coperto di piume bianche, sulla testa, e aveva un paio di orecchini, almeno di duemila lire, alle orecchie. Roberto Gargiulo e Massamormile si salutarono: Roberto arrossì dal piacere, tanto teneva al saluto delle persone nobili, anche se fossero corrotte e perdute come Placido Massamormile. Carmela e Roberto mangiavano in silenzio un piccolo antipasto banale, di sottaceti, burro e alici: Lodoiska, al solito, con voce bassa, sorda e roca, si disputava con Placido. Ella lo sopportava, adesso, anche povero in canna, anche squalificato, messo al bando da tutte le persone per bene, lo sopportava perchè Placido Massamormile era sempre una buona insegna per una donna come lei, perchè non aveva altri in vista, in quel momento, e perchè, forse, lo amava un poco. Ma si litigavano sempre, irritati ognuno dalla propria condizione, non sapendo come uscirne, Placido col suo fare beffardo e sprezzante, sprezzante anche di sè stesso, Lodoiska con la sua trivialità di chanteuse grottesca, abituata alle smorfie, agli urli, ai salti. Si vedeva che Placido Massamormile sotto quella bella maschera di arabo smarrito in Italia, sotto quell'aria ironica e superba, soffriva di quel contatto, di quei litigi, di quelle scene: e lei ne godeva, invece, più rotonda, più rosea che mai, col suo terribile occhio azzurro che guardava da una parte, mentre l'altr'occhio guardava dall'altra. Invero Roberto Gargiulo invidiava Placido: che era mai quella piccola pecora taciturna di Carmela Minino, innanzi a quella chanteuse che possedea, dicevano, trecentomila lire non guadagnate col canto e che, forse, si sarebbe fatta sposare da un nobile? La meschinità, la grettezza della sua conquista amorosa, ogni tanto, umiliavano profondamente Roberto Gargiulo e gli facevano gittare degli sguardi indifferenti, talvolta astiosi, su Carmela Minino. Comprendeva ella? Forse. Da che Lodoiska era entrata, ella aveva curvato il capo, teneva gli occhi abbassati sul piatto, faceva meccanicamente delle pallottole di mollica: giungendo, così, a irritare sempre più il suo amante che avrebbe voluto vederla tutta lieta, scintillante negli occhi, brillante nella voce e nella parola. - Che hai? Che ti è successo? - le domandò, duramente. - Niente... niente - ella disse, levando gli occhi, un poco sgomenta. - Tu mi sembri un convoglio funebre - soggiunse lui, anche più annoiato dal vederle gli occhi pieni di lacrime. - Era meglio che ti avessi condotta a casa. - Io... io non volevo venire - balbettò lei, soffocando un singulto che le rompeva il petto. - Ci penserò bene, un'altra volta - concluse lui, con secchezza, dandosi accuratamente a liberare la triglia dalle sue spine. Tacquero. Per frenare le lacrime, le palpebre di Carmela battettero, due o tre volte: ella giunse a comporre il suo viso: finse di mangiare, disinvoltamente. Del resto, altra gente entrava. Era Carlo Altamura, un usuraio a giorni, a ore, che esercitava il suo ufficio strozzatorio nelle case da giuoco, dove faceva firmare delle cambiali di ventiquattr'ore ai giuocatori, facendo mettere firme false, facendo firmare delle implicite dichiarazioni di truffa, di furto, tendendo, infine, ogni tranello ai poveri giuocatori disperati e appassionati: era Gaetano d'Amora, un grosso e grasso reporter di giornale notturno, una figura di monaco sfratato; era, infine, tutto solo, senza compagnia di donne, don Gabriele Scognamiglio, il galante, ricco e popolare farmacista di via Pignasecca. Questi tre erano giunti insieme: Altamura, perchè i suoi tetri lavori notturni erano compiuti, per quella notte: Gaetano d'Amora fra una gita e l'altra alla questura e al giornale: e don Gabriele per abitudine, per vizio, non potendo andare a dormire senza cena, senza veder donnette a cenare, magari non con lui, preferendo reggere il moccolo alle coppie degli innamorati, anzi che non avere lo spettacolo dell'amore. Con la sua barbetta bianca bene tagliata e profumata, con le sue guancie colorite e i suoi occhietti maliziosi, elegantemente vestito, col fiore all'occhiello, con due fulgidi anelli di brillanti alle mani, con un bastone dal manico d'argento cesellato, col suo passo ancora fermo malgrado i cinquantacinque anni molto suonati, egli godeva, nei teatri, nei caffè, nei ritrovi notturni, presso donne giovani e vecchie, attrici, ballerine, chanteuses, creature dallo stato civile impreciso, una popolarità, invincibile. Appena entrato, egli aveva salutato affettuosamente Roberto Gargiulo e Carmela Minino, inviando loro quasi un cenno di benedizione. Poi, vi fu un cambio. Gaetano d'Amora aveva chiamato un minuto, in disparte, Roberto Gargiulo e man mano lo aveva condotto fuori il secondo balcone di Toledo, a parlottare: cortesemente, don Gabriele Scognamiglio si era subito avvicinato a Carmela Minino, per non lasciarla sola. - Oh donna Carmelina nostra, voi diventate sempre più bella - le disse, a voce bassa, con un sorriso sulle labbra. - Sono belli gli occhi vostri - rispose, con la frase consuetudinaria simbolica napoletana, Carmela. - Oh io son vecchio, son vecchio, donna Carmelina! nessuno vuole più saperne di me. - Non dite questo... non è vero, cavaliere. - E voi, forse, mi volete? Non mi avete sempre detto no? E invece, come tutte le altre, avete preferito il giovanotto. Egli sogguardava verso il balcone, cautamente, con finezza, parlando piano, con un amabile sorriso. Ella lo guardava, arrossendo, impallidendo, non avendo il coraggio d'interromperlo, poichè quel vecchio ricco, generoso, bene educato, dalle avventure fantastiche, le faceva soggezione. - Che ci trovate, in quel giovanotto? Gli volete molto bene, proprio molto? - chiese don Gabriele, sempre più aggressivo. - Oh! - esclamò lei senz'altro, turbatissima. - Vi dà molto danaro forse? E dove lo piglia? - Niente danaro, niente! - replicò lei, subito, con un moto d'ira e di fierezza. - Non vi offendete, perdonatemi donna Carmelina. Allora vi fa morir di fame? Per i suoi belli occhi? Qualche regaluccio, null'altro, ho capito! E voi ci rimettete anche qualche soldo... Ella tremava di sgomento, poichè tutto quello che don Gabriele diceva era crudele, ma vero, poichè le sembrava un delitto non difendere Roberto Gargiulo, poichè le pareva ben brutale che le si potesse parlare così, da quel peccatore che non si voleva pentire; tutto era vero e tutto era così doloroso, per lei, che ella si appoggiò alla sedia, come se mancasse. - Non vi affliggete, donna Carmelina, non vi voglio vedere così triste - soggiunse il farmacista. - Ma ve lo dico da vero amico, quale vi sono, perchè vi ho conosciuta da bambina e perchè siete una brava ragazza... Ella gli rivolse uno sguardo supplichevole. Don Gabriele ebbe l'aria di non notarlo e proseguì: - Ve lo dico schietto: un giorno o l'altro, Roberto Gargiulo vi lascia. Forse il giorno non è lontano... - Forse il giorno non è lontano... - ripetè lei, macchinalmente, come se ciò rispondesse a un suo intimo pensiero. - E che fate, allora? Chi vi trovate? Chi chiamate, donna Carmelina? - Chi trovo? Chi chiamo? - replicò lei, smarrita. - Vi trovate il vostro vecchio amico Gabriele, che non ha ventott'anni, che non ha i baffetti in aria e la scrima all'imperatore, ma è una persona seria, donna Carmelina. Chiamate don Gabriele e don Gabriele vi risponde, col saluto militare: presente! E coronò con una bella risata il suo discorso, poichè Roberto Gargiulo si riavvicinava, con la sua aria d'importanza. Anzi, osservando che Carmela era scomposta nel viso, evidentemente commossa, don Gabriele si lanciò in un discorso, frammezzato da risate: - Caro, caro Gargiulo, giacchè scortesemente avevate lasciata sola questa bella ragazza, io, da fedel cavaliere, sono venuto a tenerle compagnia... - E le avete fatto la corte? - disse, briosamente, Roberto, ricominciando a cenare. - Già, gliela faccio sempre. Stasera più che mai. - E con che risultato, cavaliere? - A mia vergogna, lo confesso, con nessun risultato - disse, sghignazzando, l'antico peccatore. - Voi mi mortificate, cavaliere... - mormorò Carmela che era già rimessa dall'emozione, ma restava imbarazzata. - Tenetevela cara, questa donnetta, Gargiulo, vi vuol bene: vi adora: è un mostro di fedeltà. Nulla ha potuto smuoverla. Io sono un vecchio birbante, ma lei è un angelo! E malgrado il leggiero tono d'ironia che era in queste parole, malgrado la loro esagerazione, Roberto Gargiulo si ringalluzzì. Quando don Gabriele Scognamiglio si fu allontanato per andare a cenare, soddisfatto di quel che era riescito a dire a Carmela, Roberto le stese la mano sulla tavola e le toccò, con una carezza, la mano. - Ti chiedo scusa, se sono stato maleducato, poco fa. - Non importa, non importa - diss'ella, di nuovo molto commossa. Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, tutta sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l'accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz'ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, purtroppo, lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne, alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, cRollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano, sul teatro e via: e infine il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant'Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto, per paura che si burlasse di lei; ma si ostinava a non volerlo, in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all'idea che il suo amante, così pretenzioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz'ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto. - No, no, no - aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi. Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un'altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Garginlo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio del giovane cassiere: e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino, sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità - non le faceva sempre dei regalucci? - questa ribellione lo indignava. - Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perchè lo hai fatto? - la investiva, arrivando alle ingiurie. - Perchè... perché... - diceva lei, cRollando il capo, misteriosamente. Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi nè il cappello, nè la giacchetta, all'oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia, che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull'altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola, all'oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un'altra persona: - Ma che ho? Che mi è successo? Ah pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell'ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo! Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione, non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perchè era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell'opinione della gente onesta, non si poteva più confessare, non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle sue gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perche l'ho fatto? Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l'inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a sè questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d'Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di Don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l'errore passato e il dolore futuro. Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guancie di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perchè la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L'amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene: la fortuna d'ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, i bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello, al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che! - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell'amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose, che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poichè sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano: qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l'estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già tre o quattrocento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da sè, per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d'argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme a qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l'aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere. Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando Io Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena di tristezza: si era tolto dai fianchi il cordone di Terz'Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna ne dell'uno, nè dell'altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di risurrezione non aveva potuto comunicarsi. Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Se vi pensava, innanzi, nell'avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare, questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l'anima e coi sensi; ma lusingato nell'amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all'amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero; egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell'amante provvido e innamorato. D'altronde, spesso Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con la sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti di uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un'ignota paura la sua amante. Spesso, taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d'inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo, solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere finita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall'acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva, dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente, si chiedeva: - Perchè l'ho fatto? Perchè l'ho fatto? E la ragione intima, profonda, segretissima che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla nè ad altri, nè a se stessa.

Trangugiando delle rade lacrime ardenti, che le erano salite agli occhi, ella restò al suo posto, sulle spine, rispondendo come meglio poteva a don Gabriele Scognamiglio, che le chiedeva che volesse da cena, tutta rigida nel suo vestitino di seta bianco e nero, il solo buono che possedesse, un po' terrea sotto un cappellino di velo celeste che la modista le aveva voluto fare assolutamente e che le stava abbastanza male. Così vicina, quell'altra tavola! E, infatti, dopo poco tempo, con un gran rumore di voci, di risate femminili giunsero le quattro coppie, Emilia Tromba, Concetta Giura, la chanteuse spagnuola Mariquita che cantava e ballava all'Eldorado, la mima Alina Bell che agiva nel ballo Rolla alle Varietà. Si sedettero, con gran fracasso di sedie, accanto ai quattro gentiluomini che le accompagnavano in silenzio. Carmela Minino non vedeva Concetta Giura ed Emilia Tromba dalla primavera, dalla fine della stagione di San Carlo: le due ballerine si davano il lusso di non ballare in estate. E malgrado si dicesse che Sanframondi non ne poteva più di Concetta, che Ferdinando Terzi tenesse Emilia Tromba solo per rimedio, oramai, ai sospetti di un marito geloso, i due continuavano a portare in giro le loro amanti, a pagar loro da cena. Ferdinando Terzi, nel sedersi, capitò dirimpetto a Carmela Minino. Nulla era mutato in lui: con una bottoniera di garofani bianchi allo smoking, egli era sempre il bel gentiluomo dai fini mustacchi biondi, rialzati mollemente sopra una bocca rossa e sensuale, che non sorrideva mai, dal profilo nobilissimo ma così rigorosamente aquilino che pareva tagliato col coltello, dagli occhi azzurro pallidi, freddissimi, altieri, glaciali. Per un istante li fissò sovra Carmela. Poi si curvò ad Emilia, facendole in due parole, una domanda. Carmela comprese subito che s'informava di lei, di quel posto e di quella compagnia in cui ella si trovava: e comprese anche, che, ridendo, in poche parole, Emilia Tromba gli narrava la sua caduta. Guardava Carmela intensamente e dal modo sprezzante delle labbra di Ferdinando Terzi, ella intese, sentì magicamente le due parole: - Che sciocca! Carmela guardò, nell'ombra, la città, il mare, la montagna ardente, senza vederli: e pensò che tutto, tutto era inutile.

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Vacillando, si arretrò verso il fondo, appoggiandosi a una di quelle colonne tinte di legno e cartone; era confusa fra le comparse, vestite da sacerdoti di L'ha, in abiti talari di dubbia bianchezza, con certe lunghe barbe bianche, abbastanza ingiallite. Non vedendola ballare, addossata alla colonna, con una mano che si reggeva la fronte, una di quelle comparse le chiese: - Che avete? Vi sentite male, signorina? Ella guardò in faccia quell' uomo, senza rispondergli. Non lo aveva compreso, come non comprendeva più dove si trovasse, con quei gridi dei cantanti, con quel rumorio sordo dell'orchestra, con quella sala zeppa di spettatori estatici e che ella vedeva avvolti in una nebbia, con quegli uomini fermi, travestiti bizzarramente, fra cui ella era, con quelle donne vestite similmente a lei e che continuavano a ballare, voltandosi, ogni tanto, a darle un'occhiata indagatrice e, in fondo, indifferente. Le parve che qualche cosa la tenesse inchiodata, lì, contro quella colonna, qualche ritorta di ferro che ella non potesse giungere a spezzare: si sentì avvinghiata coi piedi calzati di seta a quel palcoscenico di legno, con la persona stretta a quel legno e a quella carta-pesta che fingeva il granito del tempio egiziano: e le pareva di fare sforzi enormi per di vincolarsi, per infrangere quelle catene, per fuggir via, senza riuscirvi, spasimando di dolore muto. Poi, la silenziosa angoscia divenne più intensa, più profonda: la sua volontà si tese come se ella volesse fare in due una sbarra di ferro, e si sentì libera, ad un tratto. Uscì da quel palcoscenico, mentre le ultime battute della musica risonavano, mentre le ballerine davano gli ultimi passetti danzanti intorno alle colonne, mentre il canto degli amanti moribondi languiva nel sotterraneo e Amneris, inginocchiata sotto le gramaglie, levava le braccia disperate al cielo. Carmela Minino fuggì verso il camerone, dove si dovevano spogliare e rivestire lei e le sue compagne, furiosamente cominciò a strapparsi dai capelli l'ibis di metallo che fingeva oro, a sciugersi il corsaletto di seta a fili d'oro, con le mani tremanti che strappavano tutto, che rompevano tutto. In tumulto le ballerine rientravano, parlando di quel suicidio, gridando, dandosi sulla voce, contraddicendosi, ripetendo quello che già circolava in tutto il teatro, in tutto il palcoscenico, disputando, quasi venendo alle mani. - Si è ucciso alle otto! - Nossignora, alle dieci... - Si è ucciso a casa sua... - Ma che casa e casa! Non era rientrato a casa da ventiquattr'ore... - Lo credevano partito. - Aveva detto che andava a Roma. - Si è ucciso in un albergo. - Al Grand Hôtel, al Grand Hôtel! - Niente affatto, all'Hôtel Royal. - Che state dicendo? Quanto siete bestie! Si è ucciso all'albergo Suisse, a via Molo. - Un signore come lui, in quell'albergaccio! - Se vi dico che è al Royal! - Al Suisse, al Suisse! Non aveva che cinque lire, pare, addosso. - Ma non si è mica ucciso per debiti, Ferdinando Terzi. - Per amori, per amore! - Che peccato! un così bel giovane! - Bellissimo giovane, mi piaceva molto. Ci avrei fatto all'amore volentieri. - Ora è morto, è morto. - Non mi piaceva, a me: era troppo superbo. - Ed Emilia Tromba, che dirà Emilia Tromba - Che glie ne importa? Quella ha già un altro. Quella non ha mai amato nessuno, nel mondo. - Salvo quel cocchiere, con cui fece la prima sciocchezza. - Un cocchiere? Un cocchiere? Ed era arrivata a Ferdinando Terzi? - Sì: e glie ne ha mangiati denari! Anche lei sarà stata causa della sua morte. - Si è ucciso per quella signora, lo sapete... - Chi, signora? Chi, signora? - La contessa di Miradois... - La contessa di Miradois, sì, sì... Carmela Minino, senza neppure voltarsi contro la porta, come faceva, ogni volta, per pudore, quando si tirava via la maglia di seta e restava ignuda, un momento, ora si era spogliata, e si rivestiva, gittando via tutto da sè, afferrando alla rinfusa i suoi abiti di città, adattandoseli addosso alla meglio, con le mani così tremanti che non potevano annodare i nastri, agganciare i ganci, passare i bottoni negli occhielli. Ella ascoltava tutto, a occhi bassi, a bocca stretta, con una espressione feroce di collera nel viso. E vedendola vestirsi da città, ella che, come loro, doveva ballare fra mezz'ora nella Coppelia, due o tre di esse si meravigliarono. - Che fai? Ti sei scordata che devi ballare nella Coppelia? - le chiese sogghignando Filomena Scoppa. Carmela Minino la guardò, senza rispondere, e s' infilò la giacchetta. - Te ne vai? Te ne vai? - disse Rosina Musto. - Non ti senti bene? Carmela Minino si metteva il cappello, pungendosi con gli spilloni che lo dovevan tener fermo sulla testa. Non rispose neppure a Rosina Musto, prese il suo paio di guanti, la sua borsetta, si guardò attorno, con occhio bieco e senza salutare, senza rispondere una sola parola, uscì dal camerone. - Ma che ha? Che è successo? - Chi sa? - Sembra una pazza, da qualche tempo. Carmela Minino si urtò con varie persone, mentre con passo rapido e deciso attraversava il corridoio umido e lubrico, che conduce alla porticina del teatro: ma non vide e non sentì. nulla. Solo innanzi alla porticina vi erano due o tre gentiluomini che, malgrado il freddo, stavano lì, chiacchierando, coi baveri delle pelliccie alzati. Qualche lembo di frase le giunse: - Morto da tre ore... - La famiglia non è stata avvertita... - Non vi può essere funzione religiosa... Carmela Minino fu colpita in volto dal soffio rigidissimo della tramontana, ma non lo senti. Si era strofinata ruvidamente il volto con l'asciugamano, per togliersi il rossetto e il bianchetto, volendo riprendere il suo viso di ogni giorno: e le guance le bruciavano. Uscita sotto il porticato di San Carlo, guardò a destra e a sinistra, se vedeva una carrozza. E in quel punto le si presentò avanti Don Gabriele Scognamiglio, tutto chiuso nella sua ricca pelliccia di lontra, con la sua, bella barba bianca profumata, col suo bastone d'ebano col pomo di argento cesellato, la sua faccia di vecchio gaudente, egoista e sorridente. Ella ebbe un movimento palese di ribrezzo, arretrandosi. - Dove vai, bella mia? - le chiese il vecchio, non accorgendosi di nulla. Ella aveva fatto cenno a una vettura da nolo, aperta, che si accostava: e si accingeva a salire. - Ma si può sapere dove vai, così? - domandò imperiosamente, col tono del padrone, Don Gabriele. Ella, già salita in carrozza, a denti stretti, a voce bassa, gli rispose: - Dove mi pare. - Ah! - esclamò ironicamente Don Gabriele. - Di già, E quando ci vediamo? - Mai più - ella disse, con voce sorda, piena di sdegno invincibile, mentre la carrozza voltava, avviandosi verso la strada di Chiaia. Don Gabriele crollò le spalle e rientrò in teatro. Quando giunse al Grand Hôtel, quasi alla fine di via Caracciolo, la carrozza da nolo che conduceva Carmela Minino, erano le dodici meno un quarto. Ci aveva messo meno di dieci minuti, da San Carlo, mentre la via lunga; ma il cocchiere, intirizzito dal, vento gelato di tramontana, aveva bastonato a morte il suo cavallo, giacchè la signora, da dentro, gli diceva di far presto, di correre, di correre, perchè gli avrebbe dato quel che voleva. Ella non sembrava aver freddo, la signora, poichè non aveva neppure rialzato il bavero della sua giacchetta e guardava continuamente di qua e di là, la Villa Nazionale tutta bruna nella notte nera, e il mare nero che batteva sinistramente contro la banchina. La carrozzella girò attorno al giardinetto, che è davanti al grande portone del Grand Hôtel e Carmela Minino discese precipitosamente. Il portone del magnifico albergo era ancora aperto, poichè si aspettavano dei forestieri che dovevano arrivare col treno di mezzanotte da Roma e altri che erano in teatro; il maestoso guardaportone andava e veniva, col berretto gallonato d'oro sugli occhi; Carmela andò a lui, direttamente. - Scusate - disse, guardandolo negli occhi - è qui che si è ucciso un gentiluomo - Che dite? Che volete dire, signora? - borbottò il portiere, stupito dalla domanda. - Vorrei sapere se è qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande - ripetette ella, chiaramente. Colui la guardò un minuto, come avesse da far con una matta; poi soggiunse, gentilmente: - Nossiguora. Qui non si è ucciso nessuno. Ella restò, indecisa, guardandolo ancora fissamente, come se volesse strappargli una parola più sicura. - Ditemi la verità... - mormorò con voce tremula. - Ditemelo, vorrei saperlo... Se è qui, ditemelo... Era così smarrita, adesso, che il portinaio comprese qualche cosa e le disse, con una certa dolcezza: - Persuadetevi, signora, che questo gentiluomo non si è ucciso qui. - Allora, scusate. Buona notte, grazie, buona notte. Il portiere la vide allontanarsi con passo risoluto, nell'ombra, risalire in carrozza, dopo aver detto due parole al cocchiere. E la carrozzella riprese a correre, sgangheratamente, per via Caracciolo, perfettamente deserta, fra il tetro mare che rotolava le sue onde, rotte al soffio della tramontana, o gli alberi bruni e brulli della Villa Nazionale. - Corri, corri, per amor di Dio - pregava la donna di dentro, al cocchiere. Costui si era convinto, oramai, che si trattava di una cosa grave, di una disgrazia, forse, e, ogni tanto, dava un'occhiata di curiosità e di compassione alla donna, che fremeva d'impazienza, in quella notte freddissima d'inverno, e che girava di albergo in albergo, in cerca di qualcuno. Fermarono in via Chiatamone, innanzi all'Hôtel Royal, di cui allora allora si andavano chiudendo le porte: non vi era neppure più il portiere, vi era il facchino che veglia la notte, dormendo sovra uno stramazzo nel peristilio dell'albergo. Carmela Minino fece a lui, per la seconda volta, la singolare tragica domanda. Quel facchino era un napoletano. La guardò con un sorriso ironico, e le disse: - Figliuola mia, vi hanno burlata. - No, questo signore si è ucciso veramente - ella disse, guardandosi intorno, con un viso così pallido, con certi occhi scrutatori, che il facchino smise subito di scherzare. - Ma qui no, qui no, per grazia di Dio. - Ne siete certo, buon uomo? Ne siete certo? - Come è certa la morte, figliuola mia. - E buona notte, buona notte, andrò altrove. Quando fu sul marciapiede della via del Chiatamone, Carmela Minino fu presa da uno scoraggiamento immenso. Nell'ombra il cocchiere aspettava, guardandola. - Qui neanche vi è... - mormorò lei, come se parlasse a se stessa, con una espressione infantile di dolore. - Ma chi andate cercando, signorina? Chi andate cercando? - domandò il cocchiere, felice di poter appagare la sua curiosità. - Uno... - balbettò lei. - Uno.... che si è ucciso... - Madonna del Carmine! E vi era qualche cosa questo signore? Ella guardò il cocchiere senza rispondere. Costui dovette capire che quell'ucciso le era qualche cosa. - E non sapete dove? - Mi hanno detto due o tre alberghi; ma non vi è, non vi è, non l'ho trovato. - Qualche altro ve ne hanno nominato? - Sì, sì, l'albergo Suisse. Dove sta? Al Molo, mi hanno detto! - Chi lo sa, signorina mia! Questo è un albergo che non conosco. Andiamo al Molo. Chi ha lingua, va in Sardegna. Ella ripassò dinanzi a San Carlo, mentre la gente cominciava ad uscire dal teatro, poichò il piccolo ballo Coppelia era finito; ma Carmela non si voltò neppure. La mezzanotte era suonata, adesso ella pensava che a questo albergo Suisse avrebbero, forse, già chiuso il portone. Traversarono piazza San Carlo, piazza Municipio tutta la via Molo, mentre lei e il cocchiere guardavano su tutti i balconi, a cercare l'insegna di questo albergo. Finalmente, all'angolo fra via Porto e via Molo, in un avvallamento dove già cominciavano i lavori dello sventramento di Napoli, sopra un balcone videro una scritta su cui batteva a tratti la luce di un lampione, che il vento notturno, sempre più freddo, agitava: Pension Suisse. - Eccoci - diss'ella, con voce profonda, guardando quel balcone, di cui i cristalli erano chiusi, velati dalle tendine di merletto, ma, interiormente illuminati. Il portone della Pension Suisse aveva un battente chiuso e l'altro socchiuso; Carmela Minino si ficcò per quella mezza apertura, e si trovò in un androne oscuro e umido, illuminato appena da una lampada a petrolio, fumosa, dalla luce rossiccia; un uomo mal vestito, che portava in capo un berretto sdrucito e unto, con le mani in tasca, passeggiava, fischiettando l'aria della Ciccuzza. Carmela gli si avvicinò; e quell'individuo dal viso scialbo, dallo sguardo sfuggente ed equivoco, la squadrò. sospettosamente. - È qui...- diss'ella, ripetendo per la terza volta la funebre domanda. - È qui che si è ucciso il conte Ferdinando Terzi di Torregrande? - Sì, per nostra disgrazia - borbottò l'altro. - Ah! - diss'ella, diventando anche più bianca. Di botto, uscì dal portone socchiuso, aprì la sua borsetta per pagare il cocchiere. Costui la rimirava con occhi compassionevoli. - L'avete trovato, eh? - le chiese con tono di rimpianto. - Sì, l'ho trovato - rispose Carmela, brevemente, con quel suo tono profondo o sordo, aggiungendo una lira di mancia al prezzo. - Debbo aspettarvi, signorina? - replicò il cocchiere, commosso da quell'avventura e da quella lira. - No, non mi aspettare. Rientrò nel portone. Il losco portinaio le sbarrò la via. - Dove andate? - A vedere il morto. - Siete persona di famiglia? - soggiunse l'altro, guardandola di nuovo. - ... No. - E allora, perciò salire? - Sono la sua cameriera - ella soggiunse, facendo scivolare due lire nella mano di quel portinaio. Per fortuna, teneva nella borsetta la quindicina, presa quel giorno stesso. A tentoni, ansando, ella salì per una scaletta in capo alla quale brillava un lumicino. E dal posto, dal portone, dalla scala, da quell'anticamera nuda, attraversata solo da una lurida striscia di cocco, dove un lercio cameriere sonnecchiava, presso la tavola, si vedeva non solo l'alberguccio di terz'ordine ma la locanda mal famata, le cui orribili stanze si affittano a giornate ed a mezze giornate, per due ore e per un'ora, da persone che arrivavano senza bagaglio, che pagano in fretta e anticipatamente, sempre in coppia, coll'uomo che arriva cinque minuti prima, la donna subito dopo, con cautela a occhi bassi. Due o tre porte davano su quell'anticamera: due erano chiuse, la terza a dritta, dirimpetto alla scaletta, dove andava a finire la striscia di cocco, era socchiusa; un filo di luce ne usciva. - Voglio vedere il morto! - disse subito, accennando cogli occhi a quella porta, Carmela Minino. Il cameriere si stropicciò gli occhi e le chiese anche lui: - Siete parente? - Sono una sua beneficata - replicò ella, reprimendo un singhiozzo che le schiantava il petto. - Parenti non ve ne sono venuti. Qualche amico... ma se ne è andato subito. Si aspetta il pretore. Entrate. Entrò Carmela Minino, sola. La stanza era quella più grande della trista locanda: aveva un balcone su via Molo e uno su via Porto, occupando l'angolo del casamento. Delle tendine, un tempo bianche, adesso giallicce di polvere e di fumo, coprivano i vetri, per nascondere la stanza ai vicini e ai viandanti; altre cortine, egualmente affumicate e sporche, erano state disciolte dai loro grossi cordoni di cotone bianco. Un tappeto di cui non si vedeva più il disegno, ridotto a un'esile trama, copriva il pavimento; una toilette d'antico modello, dallo specchio verdastro, un cassettone dal piano di marmo bianco, un secrétaire e quattro ..sedie di Vienna , completavano il mobilio di quella povera, sporca e pretenziosa stanza dove tante persone erano passate in un'ora di amore perseguitato, di capriccio volgare, di follia. Il letto grande maritale occupava tutto il fondo della stanza, sotto un baldacchino di sargia verde, da cui non pendevano cortine. Sul letto, ove si era ucciso, donde non era stato rimosso aspettando il pretore, giaceva il conte Ferdinando Terzi di Torregrande. Il letto non era stato disfatto: tutto ricoperto di sargia verde a macchie. giallastre, dimostrava che sulle materasse non vi erano lenzuola. I cuscini avevano, però, la loro foderetta, guarnita da un merletto all'uncinetto fatto in casa. La sargia verde aveva anche delle macchie fresche di sangue: delle macchie di sangue insozzavano il tappeto nella viottola del letto, dalla parte ove il conte si era ucciso; tutto lo sparato della camicia da frac era. macchiato, sul petto, di sangue. Ferdinando si era ucciso in marsina, e in cravatta bianca. Aveva, anche una gardenia candidissima all'occhiello. La sua pelliccia era deposta sopra una sedia, poco distante. La mano destra con cui si era tirato il securo colpo al cuore era ricaduta lungo la persona e si allungava sul letto, tenendo fra le dita, mollemente, una piccola rivoltella a Calcio di argento brunito, lavorato finemente di cesello; la mano sinistra, in un moto di spasimo, si era raggricciata sul petto verso il cuore: e le dita, il dorso della mano rosseggiavano di sangue. Del resto il corpo non offriva altre espressioni di dolore: era posato decentemente sul letto, supino, come chi aspetta il sonno, fantasticando. La testa si appoggiava sui due cuscini bianchi, senza linea di contorcimento: anzi, con una quiete composta che doveva essere anteriore alla morte. I bei capelli biondo-castani, divisi in mezzo, pettinati alla russa, non si erano disordinati: la bella bocca sottile e rossa appariva sotto l'arco de' bei baffi biondi sotto la linea purissima e tagliente del profilo aquilino: solo il mento si rialzava, come in vita, dalla linea dura di volontà. Le palpebre erano abbassate sui begli occhi azzurri, il cui sguardo dai riflessi metallici, dalla espressione ora indifferente, ora superba, ora addirittura sprezzante, si era estinto. E malgrado l'aspetto infame di quella Pension Suisse, malgrado l'ignobilità nauseante di quella camera, malgrado tutto quel sangue sparso sul petto, sulle mani, sul letto, sul tappeto, malgrado quella morte così orrenda, quel morto conservava la sua nobile bellezza venutagli da Dio, dalla razza, dalla educazione, dai gusti, e che nè i vizi della vita, nè la laidezza di quella fine gli potevano togliere. Chi sa perchè Ferdinando Terzi aveva voluto morire in quella locandaccia, in quella cameraccia puzzolente? Forse, per un supremo insulto a sè stesso e agli uomini? Ma non era giunto a cancellare i tratti che la bellezza, aveva messo sul suo viso e sulla sua persona. Anzi, la morte vi aveva messo qualche cosa di più semplice, oramai, qualche cosa come il ritorno alla verità originale, una purezza nuova, una nuova giovanilità al bellissimo che si era colà ucciso. Ai piedi del letto, con le mani incrociate sulla spalliera di ferro vuoto, Carmela Minino non si saziava di guardare questo morto. Lo aveva cercato, di notte, per tutta Napoli, andando a bussare alle porte dei più ricchi e più eleganti alberghi, come una pazza, e lo aveva finalmente trovato, in quella stamberga, solo, non pianto da nessuno, non vegliato da nessuno, salvo quel sonnacchioso cameriere; ed ella lo poteva adesso guardare a. suo bell'agio, con gli occhi secchi e lucidi, dove non appariva una lagrima comprimendosi il petto con le mani, quasi a calmarne l'ansia. Lo aveva raggiunto. Non vi erano, costì, ne la madre di Ferdinando Terzi che viveva in Puglia nelle sue terre, dal giorno in cui era rimasta vedova non vi era la sua sorella maritata, la marchesa di Vallicella, a cui nessuno aveva osato dirlo ancora: non vi era la bruna e fine marchesa di Miradois, la spagnuola dagli occhi brucianti, dal marito così tremendamente geloso. Vi era solo lei: ed ella contemplava Ferdinando Terzi come non aveva mai avuto il coraggio di farlo in vita, lo contemplava, divorandone cogli occhi il volto reso più fine, più eletto, più spirituale, dalla morte. I begli occhi erano chiusi, per sempre: ella ne sapeva lo sguardo, tanto da vederli aperti e fissi in un punto lontano e la figura le si completava innanzi come quando era viva, ma più bella e più nobile. La porta si schiuse e lasciò passare cinque o sei persone: prima che la vedessero, Carmela Minino si arretrò nel varco del balcone, fra le cortine prosciolte, forse prosciolte dalla mano stessa del morto, per garantirsi dalla curiosità dei vicini di via Porto e dai viandanti di via Molo. Coloro che erano entrati erano il pretore col suo cancelliere, il padrone e il cameriere dell'alberguccio, il duca di Sanframondi e il conte Althan. Dal suo nascondiglio, ove ella ratteneva il respiro, Carmela Minino vide ed intese tutto quel lugubre formulario che accompagna la constatazione di un decesso per suicidio. Il pretore, molto annoiato d'essere dovuto uscire a quell'ora, con quel freddo cane, venendo a piedi dal vicino giardinetto ove abitava, un grosso uomo, già obeso a trent'anni, si era gittato, soffiando e sbuffando, nella sola poltrona, tutta sgangherata, che vi era e di cui le molle stridevano ad ogni movimento di quel corpo pesante. Il cancelliere, un piccino, magrolino, con gli occhi rossi dal sonno interrotto e dal vento gelido che soffiava, col bavero del soprabitino gramo sollevato alle orecchie, si era allogato presso la toilette, per scrivere il verbale. E vi fu scritto questo: «I due gentiluomini, duca Leopoldo Caracciolo Rosso di Sanframondi e conte Francesco Federici di Althan, amici personali dell'estinto, dichiarano che il suicida è propriamente il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, figliuolo primogenito del fu conte Giovanni e di donna Maria Angela de La Puiserage. Riconoscono anche i suoi vestiti, i suoi gioielli, la sua pelliccia e la rivoltella con cui si è ucciso». «Il conduttore dell' albergo Pension Suisse dichiara che si è presentato, alle sette di sera, il prenominato conte Ferdinando Terzi di Torregrande e gli ha chiesto una stanza per passarvi la notte. Visto l'aspetto di gentiluomo, Raffaele Scarano, conduttore di detto albergo, non gli ha chiesto donde venisse, il suo nome e perchè non avesse bagaglio. Egli non ha saputo il suo nome che più tardi, dopo il suicidio. Il conte Ferdinando Terzi ha pagato il prezzo della Camera - la migliore della Pension Suisse - in lire quattro e cinquanta, non ha preso il resto di cinquanta centesimi delle cinque lire, e ha detto che sarebbe tornato più tardi. Il prelodato gentiluomo, almeno dal tempo in cui lo Scarano è conduttore della Pension Suisse, non è mai venuto in quell'albergo». «Il cameriere della Pension Suisse, Domenico Quagliolo, dichiara di aver visto, alla sfuggita, il conte Ferdinando Terzi di Torregrande, quando ha contrattato la camera col suo padrone Scarano, ma di non averlo guardato bene, avendo l'abitudine di osservare il meno possibile i passeggieri, per non dar loro fastidio. Più tardi, verso le nove, il conte è ritornato, solo. Il padrone Scarano era dall'altra parte dell'albergo e il conte si è diretto al cameriere perchè gl'indicasse la camera sua. Entrando in essa, si era fermato un poco sulla soglia. Il cameriere gli aveva 'subito fatto osservare che il letto non aveva le lenzuola, perchè non lo si aspettava così presto, ma che del resto, si accomodava in un momento. Il conte gli aveva soggiunto che era inutile, per allora poichè, forse, egli sarebbe uscito di bel nuovo; era molto tranquillo e aveva anche acceso una sigaretta. Poi, aveva licenziato il cameriere, dicendogli che lo avrebbe richiamato. La porta era, stata chiusa con la sola maniglia, non con la chiave. Il cameriere aveva udito il conte che andava e veniva, due o tre volte, nella camera, ma con passo tranquillo: poteva esser passata, così, mezz'ora, quando il Quagliuolo aveva sentito il colpo di rivoltella e si era precipitato nella stanza. Il conte Ferdinando Terzi boccheggiava, sul letto dove si era disteso; non aveva detto una sola parola, aveva soltanto aperto e chiuso gli occhi, due o tre volte, si era guardato intorno, come se cercasse qualche cosa. Il Quagliulo insisteva su questo particolare. Il suicida era morto immediatamente, nelle braccia del Quagliuolo, che aveva una manica della sua marsina, sporca di sangue. Erano corsi il padrone Scarano, due commessi viaggiatori che alloggiavano in casa, il portinaio: dalla farmacia del Cervo, in via Porto, era corso, chiamato, il dottor Gaetano Marotta, che aveva constatato la morte e disteso il verbale mortuario. Sul tavolino da notte era stata trovata una carta da visita col nome del conte Ferdinando Terzi di Torregrande e con le parole, scritte a lapis: mi uccido, perchè così mi piace, con la firma. L'avviso della morte era subito stato dato a San Carlo, al palco del Nazionale, ove si supponeva che qualche amico o qualche parente del suicida vi fosse». Questa scrittura del verbale duro più di un'ora: il pretore, dopo raccolte le dichiarazioni, le aveva dettato parola per parola al cancelliere. I due gentiluomini assistevano, in piedi, muti, evidentemente turbati e commossi per quella morte, ma anche seccati di esservi frammischiati: interrogati dal pretore, così, fuggevolmente, su le cause che avevano potuto determinare questo suicidio, si erano schermiti dal rispondere, con un cenno evasivo. Egli, colpito da un certo rispetto, non insistette. Del resto il suicidio era chiaro; la constatazione di morte del dottor Marotta era precisa e legale; il pretore sapeva bene che Raffaele Scarano, conduttore della Pension Suisse, e Domenico Quagliuolo, cameriere, avevano troppo paura della giustizia, per ragioni loro particolari, per non aver detto la verità in questo fatto, di cui erano innocenti. Egli si sbrigò. Cascava dal sonno, moriva di freddo: il suo povero cancelliere batteva i denti: i due gentiluomini avevano l'aria impaziente: il padrone dello albergo e il cameriere erano inquieti, afflitti da quel caso che gittava una luce anche più sinistra, malgrado la réclame, sul brutto lino che era la Pension Suisse. Solo il morto, su quel letto sporco del suo sangue, nulla sentiva più di tutte queste impressioni e sensazioni umane che egli suscitava, entrato oramai nella grande pace, cui, aveva anelato, per una ignota e profonda ragione: solo, dietro le cortine abbandonate e ondeggianti, un essere fremeva, in silenzio, d'impaziente disperazione. Uscirono via, prima, il pretore e il cancelliere, chiusa la funebre bisogna del verbale, riaccompagnati dal conduttore dell'albergo e dal cameriere: essi rientrarono poco stante, dopo essersi raccomandati, chi sa mai, al signor pretore. Il duca di Sanframondi e Francesco Althan si consultavano, a bassa voce, fra loro, sogguardando di tanto in tanto il morto: il più prudente era di lasciarlo colà, sino alla mattina, per non fare un tumulto a casa Terzi, alle due della notte: alla mattina, Sanframondi si sarebbe incaricato di questo funebre trasporto, mentre Althan avrebbe avvertito la marchesa di Vallicella. Ad assistenza di preti, non si poteva pensare, a quell'ora, in quel posto: si sarebbe veduto l'indomani. Parlavano piano, con parole monche, alludendo ognuno, con frasi velate, ad una causa possente e ineluttabile che aveva determinato il suicidio: non vi era altro da fare, per il povero amico loro, che uccidersi. E se ne andarono anch'essi, dando cinquanta lire nelle mani di Raffaele Scarano per quanto occorresse, a prima mattina, e cinque lire di mancia al cameriere, perchè vegliasse il morto. Dopo un'altra occhiata al suicida, essi andarono via, in punta di piedi. Il padrone affidò il cadavere al cameriere e se ne uscì, borbottando contro il suo avverso destino, malgrado le cinquanta lire. Quale coppia mai avrebbe presa quella stanza, dove un uomo si era ucciso? I giornali avrebbero parlato, egli era rovinato. Con un gran sospiro di sollievo, Carmela Minino uscì dal suo nascondiglio. Il cameriere, che si era dimenticato di lei, la guardò con sorpresa. - Andate a dormire, lo veglio io - ella gl'impose, indicandogli la porta. - Ma... ma... - Eccovi cinque lire. Restate nella camera accanto, ma non entrate. - Voi, certo, non potevate essere una sua innamorata... - disse lui, dopo averla squadrata, paragonandola, lei, così brutta, così poveramente vestita, con quel morto così elegante e così bello. - No, io non poteva essere la sua innamorata - disse lei, con voce strana. - Andatevene, dunque. Egli se ne andò, a malincuore. Ella chiuse la porta, con la maniglia. Finalmente, finalmente, ella restava sola, con quel morto. Nessuno sarebbe venuto, sino alla mattina: quel morto era suo. Di dietro le cortine, ella aveva tutto udito, mentre moriva d'impazienza: nè Sanframondi, nè Althan, nè nessuno di quel ceto sarebbe venuto, sino all'indomani, mentre l'opera del medico e del pretore era compiuta, mentre il padrone dell'albergo e il cameriere si erano allontanati. Quel morto era suo, per una notte intiera, in una camera ignota, solinga. Ella lo guardò con una tenerezza e una pietà intensa: si mosse pianamente, per la stanza: trovò, sul piano di velluto del falso caminetto, due steariche: le accese e le trasportò verso il morto, sul tavolino da notte, che era dal lato del cadavere. Per far questo, si era avvicinata molto a lui: lo guardò dappresso, come affascinata da quello spettacolo di funebre beltà, giacente nel suo sangue. Si cercò macchinalmente nella tasca: vi trovò il suo rosario e cavandolo fuori, ne baciò la medaglina della Vergine che vi era sospesa e il piccolo crocifisso di metallo. Cautamente, con una gentile delicatezza, intorno alla mano che si raggricciava sul cuore. morto di Ferdinando Terzi, ella avvolse il suo rosario, lasciando cadere la medaglina della Madonna e il crocifisso sul petto insanguinato. Per fare questo, ella non solo aveva dovuto avvicinarsi molto al cadavere, ma piegarsi sovra esso, toccarne la mano gelida: due volte si era gettata indietro, come se le mancassero le forze. Ma quel volto l'affascinava: si guardò attorno. Era sola. Alta era la notte: alto il silenzio. E, lentamente, ella si curvò su quel morto, appoggiò lievissimamente, in un bacio tenue, le sue labbra su quella superba fronte, altiera anche nella morte. Quel tocco freddo sciolse l'orribile nodo che serrava la gola e il petto di Carmela: ella piombò a terra ginocchioni, presso il letto, sulla macchia di sangue che deturpava il tappeto, piangendo, singhiozzando, parlando al morto. - Oh amore mio, oh amore mio unico, amore mio bello, voi siete morto, voi siete morto e io vivo! Oh bellezza mia, oh cuore mio, solo morto io vi poteva baciare! Chi me lo avesse detto, chi, chi, che vi doveva vedere morto! Oh amore mio, perchè campo io, io, perchè ci campo su questa terra, dove voi siete morto! Così cominciava, nella notte d'inverno, la veglia funebre di Ferdinando Terzi conte di Torregrande, nella lurida stanza della Pension Suisse, fra il sangue del suicidio, assistito dal pianto, dai singulti, dalle interrotte parole di amore e di dolore di Carmela Minino, ballerina di terza riga, al teatro San Carlo. FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME

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