Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222595
Misteri del chiostro napoletano 6 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
  • Paraletteratura - Romanzi
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Più d'una volta, bramosa d'indovinare il desiderio di lei, mi provai d'allargare il nastrolino che alla gola dell'inferma teneva allacciata la camicia; ma una delle sue converse, colei che stava all'origliere di guardia perenne, scostandomi ognora la mano: "È larga abbastanza," mi diceva; "non te ne incaricare." Una fra le altre volte che l'inferma cercò smaniante di stracciarsi la camicia sul petto, parvemi di vedervi una fascia. "Che fascia è questa?" domandai alla conversa. "È abituata a portarla sempre," mi rispose facendosi rossa. "Ma le opprime forse la respirazione: sciogliamola." "No," soggiunse quella, respingendomi bruscamente la mano." Brigatevi dei fatti vostri." La mirai con guardo sospettoso, e supposi che qualche fine nascosto la faceva agir così, tanto più che dal seno della moribonda esalava un fetore insopportabile. Incapace di transigere coi sentimenti di umanità, volai tosto in traccia dell'infermiera, cui dissi far di mestieri avvertire il medico, che desse l'ordine di toglier quella fascia dal petto. L'ordine fu eseguito, malgrado le lagnanze della conversa e degli sguardi in cagnesco che a me lanciava; dal che risultò che un orribile cancro aveva rósa la metà del seno. Il dottor Lucarelli che in seguito la visitò, saputo il fatto, disse sdegnato alla conversa, come, per aver occultato il vero male, aveva commesso un omicidio colposo. Ben frivolo d'altronde era il motivo per cui sì l'inferma che la conversa avean fatto di quel morbo un mistero. Temeva la mia maestra che, discoperta la sua malattia, le monache, sia per ischifo, sia per timor di infezione, non avessero proibito che la sua biancheria si fosse lavata nel bucato comune. La conversa d'altra parte percepiva da lei un salario speciale, acciocchè ne mantenesse il segreto. Il giorno appresso rese l'anima a Dio. Semplicissimi sono i funerali delle suore. Nel monastero si entra al suono di bande militari e allo scoppio di mortaletti; nell'oscura tomba si scende col conforto di semplici formalità. Costei mi aveva tenuto luogo di madre; nell'atto di deporre la sua spoglia mortale nella fossa, chiesi ed ottenni il permesso di darvi mano anch'io. Sia per sempre benedetta la sua memoria! Per lo spazio di due mesi fece le veci di maestra la stessa badessa. Ella pure nutriva grande affezione per me, lo che per altro non fece che raddoppiare la gelosia delle giovani monache e delle educande. - Al termine di questo periodo, maestra fu creata un'altra Caracciolo, donna sessagenaria, ma frivola, astuta, simulatrice e oltremodo fanatica per i preti. Costei, benchè pienamente consapevole degli scandali arcani del confessionale e del comunichino, pure, da egregia istitutrice che la era, m'imponeva la quotidiana confessione. Il canonico dal canto suo mostravasi lieto nel vedermi più tranquilla di spirito; se non che, mentre io affermava non essere quella mia tranquillità che rassegnazione ad un fatto irrimediabile, egli ostinavasi a sostenere che fosse vera vocazione. Prossimo era frattanto a spirare l'anno del noviziato, e il giorno della professione si avvicinava. Mi abbisognavano a quest'uopo ducati 1800 per la dote, e settecento altri per le spese della funzione, dei quali tanto nella prima che nella seconda cerimonia, 80 ne prendeva a titolo di dono il confessore, ed un'altra analoga porzione veniva riservata per complimento alle monache. Tutto insieme computato 3000 scudi. Quanti milioni di dote al Divino ed umile maestro dei dodici pescatori! Era superiore alle forze della mia famiglia la detta somma. Sperai di nuovo in qualche favorevole eventualità; ma per non lasciarmi aperto neanche questo varco, il Capitolo condiscese a prendermi con minor dote, lo che mi recò sommo dispiacere, conoscendo fra le altre cose di quante e quali mortificazioni era abbeverata un'altra, perchè fattasi monacare senza dote alcuna. Non andò guari che ne sperimentai le amare conseguenze. Una monaca, per nome Teresa e sorella della summenzionata Paolina, si mise in capo di farmi sloggiare dal gabinetto ch'erami stato ceduto dalle zie, col pretesto che alla dote mia non fosse analoga quell'abitazione. La signora Teresa, orgogliosa e prepotente anzi che no, credeva che il suo volere non dovesse incontrare ostacolo di sorta. Udito il mio rifiuto, cominciò a guardarmi biecamente, poi mi tolse il saluto, finalmente cessò pur di parlarmi; la sua sorella mi odiò viemaggiormente e le altre monache della giovine consorteria fecero a gara d'imitarne l'esempio. Un giorno m'abbattei nel dormentorio colla conversa delle due sorelle; quella cameriera ebbe l'impertinenza di fermarmi. "Avete avuto l'ardire," mi disse, gesticolando non altrimenti che un lazzarone dell'infima classe, "avete avuto l'ardire di negare alla mia signora il domandatovi camerino! Sapete voi ch'essa e le sue sorelle, avendo portato in questo stabilimento, non una o due, ma ben quattro doti, e non già scarse, ma intere, sono padrone di questo monastero più che non è qualsivoglia altra monaca? E voi, figlia d'un soldato, venuta qui dentro senza mezzi di fortuna, senza danaro contante, voi, ammessa alla professione per atto di carità, voi ardite negare il camerino alla mia signora!" Mi tacqui per rispetto a me medesima, benchè sapessi non esser le padrone di quella conversa che sorelle di un semplice capitanuccio di reggimento; e che le Caracciolo-Forino avevano, sin dalla fondazione di San Gregorio, introdotte centinaia di doti nel monastero. Però, non potei trattenermi dal riferire a mia madre l'accaduto; al quale rapporto essa mi promise che avrebbe cercato di accomodare l'argomento della dote in modo più confacevole ai pregiudizi delle monache. - Ne feci pure in privato qualche cenno alla badessa. "Che posso farvi figlia mia?" rispose essa. "Dall'altrui cattiveria salvatevi pur voi, come Dio vi ispirerà! Questo soltanto posso confidarvi che, se per vivere nel mondo di fuori, ci vuole prudenza come tre, qui dentro, credetemi, ce ne vuole come trenta. Nel mondo, le passioni, facili a dissiparsi, sono pur facili a lasciarsi maneggiare; ma, chiuse, compresse, condensate dentro questo vaso angusto, esplodono talora con siffatta violenza, da paralizzare l'intrepidezza e i calcoli del più insigne diplomata. A garantirvene, dunque, figlia mia, vogliate pur voi armarvi di un tantino di ipocrisia! C'è mensa senza sale? Del pari, senza l'ipocrisia non si campa. Seguite questo mio consiglio, ve ne troverete contenta." Col consenso dei superiori fu pregato un mio parente di rilasciare a mio favore un omologo di ducati 1,000, di cederlo al monastero per compimento della somma di ducati 1,800, e finalmente di obbligarsi a pagare ogni anno ducati 50 d'interesse. Accomodata la faccenda così, e fatti i rimanenti apparecchi, si destinò il primo giorno d'ottobre alla funzione dei miei voti, giorno anniversario della mia vestizione. Dovetti interrompere del tutto le private letture, ed abbandonarmi per più settimane alle pratiche di consuetudine. Nei dieci giorni che precedettero quello, mi furon dati gli esercizi spirituali, ed il canonico predicò al parlatorio. Dicono i preti la professione esser un secondo battesimo che lava tutti i precedenti peccati; la donna che morisse al momento di pronunziare i voti monastici, andrebbe di filato in paradiso, nello stesso modo che fa l'anima del bambino morto subito dopo il battesimo. Lettore accorto, traete da per voi solo le applicazioni pratiche di tale dottrina! Pretendono eziandio i preti, che qualunque grazia si richieda in quel momento, Iddio è forzato a concederla. - Domandai due grazie in quel momento: il sentimento salutare della mia vocazione monastica, ed il risanamento della povera Giuseppina. - Non ottenni nè l'una nè l'altra. Giuseppina passò, di lì a poco, a miglior vita, ed io col tempo mi diedi in preda alla disperazione. Parlando delle dottrine dei confessori nell'interno del monastero, non passerò in silenzio una pratica di espiazione, alla quale le monache di San Gregorio attribuiscono infallibile virtù. Havvi al lato destro del comunichino una scala magnifica di marmo, chiamata la Scala Santa, che è stata l'oggetto di una bolla pontificia. Tutti i venerdì del mese di marzo, la comunità intera, cominciando dalla badessa fino all'ultima conversa, è nell'obbligo di salire quella scala colle ginocchia, recitando una prece ad ogni gradino. Coll'adempimento di questa pratica si guadagna a ciascun passo una nuova indulgenza, insino a che, pervenuta all'alto della scala, sia la monaca purgata completamente da qualunque peccato d'intenzione o di fatto; e ben s'intende che il direttore spirituale del confessionale, interprete della bolla d'indulgenza, non è mai lento ad applicare alla coscienza delle sue penitenti il portentoso Toties Quoties. Laonde, se pel lavacro della professione spariscono tutti indistintamente i peccati commessi durante l'educandato ed il noviziato, la Scala Santa è ancora lì per nettare più volte all'anno il velo da ogni macchiarella avvenuta dal giorno della professione in poi, e sino al limitar della vecchiaia. Una parola ancora intorno agli esercizi spirituali. L'ammissione a' voti richiede un preventivo esame; quest'esame della vocazione lo subíi dal vicario generale della Chiesa napoletana. È stato in origine istituito per esplorare il libero arbitrio della novizia; ma, come tutto degenera in questo mondo, quell'esame non è più che una mera formalità. Ecco alla sfuggita un saggio delle oziose interrogazioni rivoltemi: "Se dal palazzo reale vi pervenisse l'invito ad una fasta da ballo, e dalla superiora otteneste il permesso d'uscita, vi sentireste tentata di andarvi?" Risposi subito di no. "Se in questo momento, almeno, si presentasse una carrozza con quattro bellissimi cavalli e splendido equipaggio, e foste invitata a fare una passeggiata lungo la riviera di Chiaia, ne uscireste?" Risposi del pari negativamente. "Se alla morte di una donna regnante venisse per avventura offerta a voi la sovranità, rinunziereste, per un serto effimero e periglioso, all'alto onore d'esser chiamata sposa del Figliuolo di Dio?" Non so però quello che avrei risposto, se invece mi avesse domandata: "Il vostro cuore è morto all'amore?" "Se il vostro amante vi si buttasse ai piedi, e vi giurasse di condurvi oggi stesso all'altare, esitereste ad uscire?" L'interrogatorio schiva con esimia destrezza quest'arcipelago di scogli, e naviga soltanto nel pelago imperturbato delle inezie. Ad evitare il caso che la donzella palesi in quell'esame l'aborrimento suo allo stato che ha poc'anzi abbracciato per violenza dei parenti e per sobillamento del confessore e per amorosa disperazione, la diplomazia clericale decreta di strappare sull'istante lo scapolare alla giovinetta che sdrucciolato avesse in simili confessioni, e di sfrattarla dal chiostro nell'intervallo di 24 ore dicendole: "Vattene colla gente perduta! Indegna sei di convivere colle spose di Gesù Cristo!" Questo duro insulto, che nessuna ha il coraggio di affrontare, rende vano lo sperimento del noviziato, e fa sì che la donzella si trovi moralmente vincolata sin dal momento che ha preso il velo. Venne alfine l'ultimo e definitivo giorno. La mattina del 1° ottobre presentossi primo il canonico, che mi trattenne nel confessionale dalle 7 fino alle 11, ora in cui doveva darsi principio alla funzione. A poco a poco la chiesa si riempì di invitati: ne fu stipato perfino il portico. V'erano parecchi distinti personaggi, fra i quali un principe reale di Danimarca (attualmente regnante), condottovi dal general Salluzzi. Egli viaggiava da incognito, compiva appena il quarto lustro, ed era d'un'avvenenza peregrina. Tanto il generale che il principe, indossavano l'abito di gala, e portavano la fascia di San Gennaro. Dal cardinale Caracciolo fu cantato il pontificale, terminate il quale, gl'invitati rifluirono affollatissimi vicino al comunichino, ove io m'avanzava, fiancheggiata da quattro monache, con in mano delle fiaccole accese. Due di esse mi presentarono svolta una pergamena, portante in lingua latina la formula del giuramento, contornata da immagini di Santi in acquerello, e da indorati arabeschi. Doveva leggerla ad alta voce: la voce mi mancava. Incominciai a leggerla sommessamente: m'intesi dire: "Più forte!" Feci uno sforzo per alzar la voce, e pronunziare i quattro voti CASTITÀ, POVERTÀ, UBBIDIENZA e PERPETUA CLAUSURA.... La voce intoppò, e dovetti per un momento soffermarmi. In quel momento appunto, la candela accesa, che una delle monache teneva, scappatale di mano, cadde in terra e si spense. - Singolare augurio! Finita la lettura, vi apposi la propria firma, come fecero pure la badessa ed il cardinale. Frattanto nel mezzo del comunichino eravi disteso a terra un tappeto. Mi fecero coricare boccone su di quello, quindi mi coprirono tutta con una nera coltre mortuaria, portante nel mezzo un cranio ricamato. Quattro candelieri con torce ardevano a' quattro lati: la campana andava suonando lugubremente i tócchi dei morti, cui ad intervalli rispondevano alcuni gemiti, partiti dal fondo della chiesa. Poco appresso, il cardinale, voltosi verso di me, mi evocò tre volte colla seguente apostrofe: «Surge, quae dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus!» cioè: O tu, che dormi nella morte, déstati! Iddio t'illuminerà! Alla prima invocazione le monache mi scovrirono dal mortuario drappo: alla seconda m'inginocchiai sul tappeto; alla terza balzai in piedi, e m'appressai al portello del comunichino. Un'altra frase latina, non meno mistica di quello che lo sia la precedente, mi percosse l'udito: «Ut vivant mortui, et moriantur viventes.» - La lingua morta del Lazio chiama tuttora morte la vita sociale: la lingua di Dante e dell'Italia rigenerata chiama al contrario morte la monastica inerzia. Alfine il cardinale benedisse la cocolla benedettina, che indossai sopra la tonaca, e poscia mi comunicò. Vennero allora a baciarmi prima la badessa, poi le monache tutte per ordine gerarchico; e, dopo una breve predica, la funzione terminò. Allora gl'invitati salirono al parlatorio, dove furono serviti di dolci e rinfreschi. Per aprir la porta e farmi ricevere le solite congratulazioni si aspettò che mi fossi un poco rasserenata. Intanto, per mezzo del generale il principe di Danimarca mi domandò, se era contenta d'essermi fatta monaca: alla mia risposta affermativa il suo volto si compose all'incredulità. Volle osservare la mia cocolla; era di lana nera con lunghissimo strascico, e larghe maniche: ultima ricordanza del monacato di madama di Maintenon. Usano le monache offrire un mazzo di rose artificiali al cardinale, ed un altro a ciascheduno dei vescovi che hanno assistito al pontificale. Ne presentai pur uno al principe, che accolse il dono con gentilezza. "Rose morte da una morta." disse a S. A. il mio benefattore. "Andiamo, generale" rispose colui: "Non reggo più nel vedere questa giovane, tanto barbaramente immolata." Uscita la gente, i ferrei cancelli del monastero tornarono a stridere su' loro cardini. D'allora in poi, mi separava dal mondo un baratro, secondo ogni apparenza, insuperabile. Non doveva più avere nè madre, nè sorelle, nè parenti, nè amici, nè sostanza alcuna; aveva abdicata perfino la mia personalità. Eppure nel fondo dell'animo mio sentiva vivo e palpitante ancora il sentimento, che mi muoveva a convivere, idealmente almeno, co' miei simili. Aveva fatto alla comunità il sacrifizio della mia persona, ma non già quello della mia ragione, che è un diritto inalienabile. Più alta di san Benedetto imperava nella mia coscienza la voce di Gesù Cristo, il cittadino dell'universo, il distruttore delle sètte, delle caste, degli associamenti parziali, il rinnovatore della famiglia, della nazione, dell'umanità, riunite in una sola legge d'amore e di conservazione.

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Questa donna soffriva di scorbuto, morbo frequente nell’atmosfera non abbastanza ventilata della clausura. Il sangue, che davano le sue gengive, era da lei creduto effetto d'emottisi, ed ognivolta attribuito alle tribolazioni che quella furba e dissimulata d'Angiola Maria non cessava di suscitarle. Giunse la sera; era il mese d'agosto: alle 8 suonava il silenzio. Mi posi a letto; Gaetanella ed Angiola Maria fecero lo stesso, promettendo quest'ultima di starsi cheta. Ciò non ostante, smaniava, storcevasi, rivoltolavasi da far pietà. Le domandai che cosa avesse. "Non posso stare nel letto," disse, "la testa mi brucia, le orecchie mi tintinnano." Balzò in piedi, schiuse la loggia, e trasse un sonorissimo sospiro nell'aspirare il fresco della notte; poi prese a passeggiare per la camera, pronunziando delle parole incoerenti. "Sposo mio, e in pari tempo mio confessore: che bella cosa! Dovrete, caro Don *** disimpegnarvi da due uffizi.... e quella gaglioffa cerca di trappolarvi, eh....? Ora dovete accompagnare il Sacramento in casa di un moribondo.... non è tempo ancora.... il bacio prima! datemi il bacio prima di andarvene!" E ciò dicendo, apriva le braccia per istringere l'oggetto della sua visione; poi pianse un poco, un poco si smascellò di risa, un poco urlò. Dopo due ore di tal delirio si ricoricò e prese sonno. Gaetanella si era pure addormentata. Io non reggea per la gagliarda febbre. Scesi pian piano dal letto, richiusi il balcone del terrazzo, e mi assopii. Una forte palpitazione al cuore, che spesso m'assaliva, mi risvegliò. Regnava nella stanza perfetto silenzio: non udivasi che la respirazione precipitata della mia conversa. Sollevai la cortina per vedere ciò che la matta facesse .... Il letto era vuoto. Mi posi a sedere sul mio, guardai, riguardai all'intorno: non c'era. Chiamai Gaetanella, le dissi che Angiola Maria se n'era scappata; mi rispose: "E che m'importa? Se ne vada pur alla malora!" Lasciato il letto, indossai una sottana. I panni d'Angiola Maria stavano sopra una sedia, le scarpe sotto il letto. Cacciai la testa dall'uscio: il dormentorio era deserto. Uscíi con precauzione e m'avviai verso la cella della matta; la chiamai per nome: non rispose. M'intromisi in un secondo dormentorio: era agli angoli illuminato da due semispenti fanali, che non facevano se non aumentare la sinistra oscurità. Ivi rimasi a riflettere, se volgere a dritta o a manca. Risolvetti per la sinistra, e lentamente avanzando m'avvicinai ad uno dei detti fanali. Terminava quel dormentorio con un pozzo da un lato ed una grande galleria dall'altro. Questa galleria, disabitata per causa della sua immensità, destava orrore pur anche di giorno. Pessime dipinture a fresco di santi anacoreti e di romiti vestivano le sue pareti, santi e romiti a faccia lunga e sparuta, a tinta cadaverica, a barba sperticata, i quali per antica tradizione, e al dir delle monache, avevano parlato, camminato, suonato le campane, cantata la messa a mezzanotte, ec. Le gambe mi tremavano, parte per effetto di quella superstizione, al cui assalto non può resistere alcuno in certe circostanze, parte per la tema di ritrovare Angiola Maria stramazzata in qualche luogo, il cui buio avrebbe resa più spaventevole la scena. Già stava per voltare dal canto della galleria, allorchè parvemi veder brulicare qual cosa di bianco in vicinanza del pozzo. Mi rimescolai: era la pazza, che, scalza, scarmigliata, in camicia, guardava nel pozzo, e ne misurava il fondo per precipitarvisi. Entrambe le mani sue stavano poggiate sull'orlo, e colla testa curvata faceva forza sulle braccia per rovesciarsi a capitombolo. Mandai un urlo: mi udì, si volse a guardarmi, e senza più indugiare sforzossi di accelerare lo squilibrio del corpo, affine di potersi più prestamente precipitare. Spicco un rapido salto, e, stese le mani su di lei, l'afferro per un braccio, che sento agghiacciato dal freddo. Ella si rivolge a me con occhi stravolti, ciechi d'ogni pensiero, non mi riconosce e tenta di svincolarsene, come infatti si distacca. L'abbranco per l'altro braccio che ritengo con ambo le mani, e mi stringo con quanto vigore m'infonde la circostanza. Ma sento che la sua forza supera di molto la mia, e già veggo la furente intenta ad addentarmi il polso. Volli stordirla per salvarla. Coll'uno de' bracci la trattengo ferma tuttavia, coll'altro le assesto al volto un potente schiaffo. A quella percossa rientrò per un momento in sè, e proruppe in alti ululati. La presi allora per la mano e la ricondussi senza più tema o fatica nella mia stanza. Ivi si pose a sedere a terra, guaì ancora per un paio d'ore, poscia, racconsolatasi, riprese di nuovo l'incoerente ciarla. In questo mentre Gaetanella, che, turbata dai singulti della pazza, non potea riprender sonno, si alzò ed uscì. Io pur mi vestii, benchè intirizzita dal freddo febbrile che mi faceva battere i denti. Sorta l'aurora, scrissi al generale Salluzzi, invitandolo a venire da me. Al vedermi tanto pallida e febbricitante quell'amico generoso non potè a meno di amaramente condolersene. Poco appresso si recava dal canonico Savarese, allor vicario pro tempore, e lagnavasi energicamente con esso lui, del ticchio venuto alla superiora, di farmi fare la custode di pazze. Per ordine di Savarese venne a visitar la matta il dottore Cosimo Meo. Costui, nel vederla da lungi, esclamò: "Non solo è matta, ma la è pure furiosa. Chiamate tosto il flebotomo." Otto robuste converse furono appena bastanti a contenere i suoi furori nel momento che fu operato il salasso al piede; non cadde dentro la catinella una sola goccia del sangue: spruzzò tutto sulle converse, sul salassatore, ed in gran copia al suolo. Il medico ordinò che molti bagni colla neve sul capo le fossero amministrati, e promise che nella giornata stessa avrebbe mandata una donna del mestiere per domar la furente; esser, del resto, espressa volontà di Savarese, che la badessa trovato avesse un manicomio, essendo quella. pazzia, per la forte complessione della sofferente, di quella tale classe, che senza mezzi violenti non si frena. Tranquillatami su di questo argomento, scrissi tosto al generale una lettera di ringraziamento. Il mio letto si ricolloco nella stanza della zia, e fui sollecita a coricarmi, non reggendo più in piedi. Venne la maestra delle pazze, si diedero i bagni freddi alla sventurata, ma il male infierì. Chiusa adunque in una carrozza colla donna che l'assisteva, fu mandate a Calvizzano, ove un prete teneva una casa di salute per i dementi; ma i rimedi tornarono vani anche colà. Assoggettata al camiciotto di forza, non sopravvisse qualche tempo, se non per sentire nel viaggio alla morte tutti i tormenti immaginabili. Intanto questo incidente aveva aumentato il mio aborrimento pel monastero. Ormai conosceva appieno l'egoismo delle monache: le quali per segreto accordo avevano tentato di farmi morire, mettendo esse due cose in salvo: prima, la loro tranquillità a detrimento della mia salute, e forse con pericolo della mia vita; poi, la spesa d'una donna, che badato avesse alla vittima del loro regime. La spilorceria del convento eclissa benanche quella d'Arpagone e di Sherlock.- Per uscire da quella bolgia soffocante, avrei ben immaginato qualche mezzo idoneo, ma qual dolore non avrei recato alla zia! Un altro fatto consimile, e non meno tragico, avvenne dopo l'uscita d'Angiola Maria. Era, sotto la mia direzione, addetta alla confezione degli sciroppi e distillati per uso della farmacia una conversa chiamata Concetta, compaesana della povera pazza, essendo entrambe dell'Afragola; bella donna di 36 anni, alta, robusta, d'un incarnato maraviglioso, cui dava risalto un grosso neo alla guancia sinistra: bocca gentile fornita di splendida dentatura: occhi cerulei, capelli castagni lucidissimi, leggermente increspati all'estrermità, e sboccanti da sotto il soggolo nell'una e nell'altra ciocca. Il solo naso pregiudicava quel raro tipo di beltà, essendo soverchiamente aquilino. Nell'esercizio de' suoi doveri Concetta mostravasi esattissima, e la sarebbe stata in tutto esemplare, se stata non fosse un po' vanarella e civettuola nel parlatorio. Io aveva osservato ch'ella accordava molta domestichezza ad un giovane facchino del locale. Nelle lunghe giornate d'estate, mentre tutte meriggiavano, la sorpresi più volte affacciata ad una finestrina, che è vicino alla chiesa e guarda la Via San Biagio dei librai. Queste osservazioni mi avevano persuasa che la non era contenta del suo stato, e che molto volentieri avrebbe abbracciato quello del matrimonio. La disgrazia della sua paesana e compagna le avea fatto una impressione spiacevolissima, e sempre che ne sentiva ragionare, stralunava gli occhi in modo da metter paura. Questo suo stato morale durò per alcuni mesi; se non che la follía che già prendeva radice, manifestossi in lei sotto una forma diversa, quella dell'ipocondria. Ritiravasi spesso in luoghi appartati per dar libero sfogo alle lagrime che l'opprimevano; fuggiva la conversazione e mormorava sola; non atteggiava mai la bocca al riso, obliava di leggieri gli ordini ch'io le dave, confondeva le medicine, e se entrava in discorso, lo faceva solo per indirizzare mille domande sulle strade di Napoli, sulla libertà personale degli abitanti, sulla beatitudine di coloro che ne possono godere, ed altre cose simili. A sgravio di coscienza, come infermiera, avvertii la badessa che lo stato di Concetta meritava attenzione, e chiesi un'altra conversa per la farmacia; poichè quella imbrogliava i medicamenti, perdeva il tempo a cambiarli dall’uno all’altro scaffale, ed attaccava il cartellino d'un farmaco al barattolo di un altro; conchiusi dicendo di non voler restare responsabile d'ogni disastro che potesse accadere.- Rispose l'inetta donna: "Sai, mo, che tu sei l'uccello del cattivo augurio?" Mi tacqui allora, nè più parlai sul conto di Concetta. Ma di lì a pochi giorni una contadina, sorella della stessa, avvedutasi di ciò che io pure aveva osservato, chiamava la badessa al parlatorio, onde pregarla di prendere in considerazione lo stato mentale della germana. - Rimase anche quest'avvertimento senza effetto. La balorda badessa ristringevasi a rimetter la inferma sotto la protezione della miracolosa Vergine dell'Idria, superiore patrona del convento. Poco dopo, una vecchia che dormiva con Concetta nella stessa stanza, le disse avere sul far del giorno veduta la sua compagna seduta sul letto, nell'atto di avvolgersi un fazzoletto alla gola, e soltanto le sue grida aver impedito che la si fosse strangolata di propria mano. "Stasera alle litanie farò dire quaranta volte ora pro ea," rispose la badessa. Un giorno di domenica, prima del levar del sole, molte monache stavano ascoltando la santa Messa. Si scende al comunichino per una lunga scala, che mena in un cortiletto umido, intorno a cui gira uno stretto corridoio a vôlta altissima, e sostenuto da pilastri.- Io scendeva per comunicarmi; era appena arrivata alla metà della scala, quando intesi un forte rumore, come di grave corpo caduto a terra. Mi coprii il volto colle mani: senza aver veduto niente, il pensiero mi corse all'ipocondrica Concetta. Scesi precipitosa, e trovai l'infelice in terra: me l'accostai, la credetti morta, e chiamai aiuto. Più di quaranta monache stavano riunite nel comunichino per la Messa: m'udirono gridare: nessuna uscì. Ne scese finalmente una, coll'aiuto della quale sollevai da terra la conversa, e l'adagiai sopra un seggiolone priva di conoscenza; indi, suonato il campanello della sagrestia, feci venire un prete per assisterla. Aveva la gamba sinistra lussata e tutta grondante di sangue. Era caduta a piombo sopra uno dei pilastri che reggevano la vôlta, così la polpa della gamba ne fu orribilmente straziata. - Appena potè articolare qualche parole, due facchini con manovelle passate sotto la sedia la portarono nella sua stanza. Il prete la seguì, ma dovette presto lasciare la camera, poichè la sventurata con un segno indicò che non lo voleva vicino a sè. Il luogo dove Concetta erasi gettata, era presso la chiesa. Le monache, dopo la Messa, uscendo dal comunichino, presero a strepitare intorno all'accaduto sì forte, che alla gente radunata in chiesa parve fosse avvenuta la ruina del monastero. Il sospetto venne confermato dal portamento del prete, che frettoloso e trambasciato se ne uscì di chiesa per entrare nel convento. Circa due ore dopo sopravvennero un ispettore di polizia e un cancelliere con uno stuolo di birri, per procedere all’accesso. La badessa vuol impedire l'entrata di quei profani nel chiostro, ma essi insistono a volervi penetrare. "Sapete bene signor mio, che senza ordine espresso del Santo Padre mi è vietato di ricevere nella clausura chicchessia, fosse pur egli lo stesso sovrano." "E voi, reverendissima, non dovete ignorare come l'ordine pubblico è superiore agli ordini che potete aver avuti da Roma." "Mi fate trasecolare. In qual modo pensate che nel mio monastero sia stato infranto l'ordine pubblico?" "Corre voce che una conversa sia stata precipitate con dolo e premeditazione dall'alto del secondo piano e miseramente infranta: nè manca chi questo turpe misfatto imputi a V. S. R." Figuratevi lo stupore della badessa! - Con mille inchini, li fece immantinenti entrare, ed ella stessa li condusse alla presenza di Concetta, la quale, alla scossa ricevuta dalla caduta, avea per poco ricuperata l'integrità della ragione. Subì essa l'interrogatorio con mirabile disinvoltura, e depose il vero, attestando di essersi precipitata da sè sola, e per irrefrenabile desiderio di morte. Domandata per qual ragione avesse attentato ai suoi giorni, ella, educata a' doveri religiosi più vivamente che non lo sono le donne secolari, trasse un profondo gemito, e provossi a rispondere; ma, o perchè inabile ad articolare suoni, o perchè pentita, si tacque: poi sbadigliò per modo da sgangherarsi le mascelle, stralunò gli occhi, respinse villanamente la mano dell'inquirente, e ricadde nella demenza. L'ispettore, steso il verbale, se ne partì. Ma tutto il peso di questa catastrofe non gravava sulla coscienza della badessa? Nel mentale turbamento che da più mesi travagliava quella misera, non era dover suo di farla assiduamente sorvegliare? Contiguo alla stanza dell'alienata eravi un camerino destinato a guardaroba; ivi fu trovata una fune con un nodo scorsoio in mezzo, ed in un prossimo ripostiglio si rinvenne inoltre un cartoccino di veleno. Era chiaro ch'ella aveva titubato intorno al genere di morte da scegliere, sospesa fra l'arsenico ed il capestro. Di lì a poco venne il cardinale Riario Sforza, esaltato recentemente alla sede arcivescovile di Napoli. Egli apostrofò acremente la badessa, sì per aver menato tanto scalpore male a proposito, sì per aver permesso a' poliziotti di violare colla loro presenza il sacro rifugio delle vergini. "Sapete voi," le disse in tuono severo, "qual sia rispetto ai chiostri l'opinione dei sedicenti filosofi e liberali? Credono essi che nei vostri recinti regnino il rimpianto e la disperazione, ossia, che tutte le vostre monache siensi pentite del loro stato. Or voi, colla pubblicità data ad un fattarello di sì lieve momento, non avete forse dato appiglio alle calunnie del secolo? Se il monastero non è una tomba come i santi canoni la richieggono, perchè ne porterebbe dunque il nome? I vivi non devono sapere giammai le intime peripezie del sepolcro." L'infelice Concetta sopravvisse altri venti giorni, finchè la gamba non le si cancrenò. Non mi dipartii dal suo fianco altro che al tócco della campana ogni mattina e sera, nè cessai di prodigarlei doverosi conforti di carità. Spesso l’udii mormorare da sè sola, tal altra volta la vidi conformare il sembiante a mesto sorriso, benchè afflitta da doglie acerbe. Da alcuni tronchi accenti compresi che la poveretta trovavasi in un critico stato, che voleva con la morte nascondere. Supina sul letto di morte, con gli occhi inchiodati al soffitto, sovente diceva con sè stessa: "Sì..... se la morte non giungerà sollecita..... inevitabilmente tradita....... già il seno........ maledetto!...... scomunicato!.... vattene alla malora, nè mi parlar di Cielo e di Madonna; se la Madonna soccorre gli sventurati, perchè dunque non viene in soccorso a me ed alla creatura che mi sento nelle viscere?" Favellò il più delle volte d'un giovine dagli occhi neri, che era stata solita di vagheggiare dal finestrino presso la chiesa, nè si lasciò persuadere a ricevere il prete e i Sacramenti. Abbandonata alla più cupa, disperazione non cessò di ripetere le mille volte ch'ella era irreparabilmente dannata. Orride, strane allucinazioni sopravvennero a funestarle gli estremi istanti. Di notte tempo mentre tutte dormivano, tranne due o tre che vegliavano al suo fianco, gridava: "Questo luogo è infestato da' demonii.... eccoli là.... li veggo.... uno per uno! Ohè, perchè tu in codesto angolo fai mille sberleffi? E tu in codest'altro, perchè scuoti le pareti, urtando colle corna la soffitta?" Altre volte diceva: "E voi, anime innocenti, non contaminate d'impurità, fuggite, involatevi presto dal mio contatto! Se ne usciste macchiate, ohimè, non basterebbero tre anni di penitenza a purgarvene!" Le monache perfettamente convinte che la delirante fosse ossessa da spirito maligno, pensarono di farla esorcizzare da un monaco crocifero; nè è a dire l'universale spavento all'idea che il monastero fosse invaso da' demonii. L'esorcismo fu praticato con imponente solennità, ma non ebbe alcun effetto. Le monache tutte affollate nel luogo della cerimonia, e facendosi continuamente segni di croce, si aspettavano a bocca aperta di veder sbucare dal corpo dell'invasata la figura di Satanasso; ma la curiosità loro fu delusa: non era ancor vicino il nono mese. Il sacerdote non potè entrare nella stanza per recitare qualche prece, se non nel solo momento in cui l'infelice esalava lo spirito. Restitui essa l'anima al Creatore intorno al vespro. La beltà che nell'assenza della ragione erasi spenta, riapparve commovente sull'esanime spoglia di quella infelice. Quale serenità rifluì allora sulle sue fattezze, insino a quel punto sconvolte dalla follía, tramutate dall'occulto cordoglio! Era sul tramonto. Un raggio di sole morente, dardeggiato traverso le imposte della finestra, venne per un momento a posarsi sul sembiante della morta, a baciarle tremolando la punta delle ciocche..... Anche quel messaggiero della divina misericordia un momento appresso era scomparso! Ella se n'era ita libera: io rimaneva. Sfogliai un mazzo di purpurei garofani, e ne versai un pugno sul corpo della defunta.

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Questi innocenti pargoletti, non d'altro colpevoli se non d'essere nati figli di madri inumane, e d'aver veduto il mondo in un secolo non abbastanza dirozzato, scendono o morti o moribondi dalla ruota fatale, dopo di aver girato in sensi opposti per sette ore. Terminate la festa, o per meglio dire, giunto al termine il sagrifizio, accorrono stipate, affollate, urlanti le madri, l'una respingendo l'altra, questa bussando quella, e tutte di conserva impazienti di verificare se morta o salva sia uscita la respettiva loro creatura. Comincia allora una scena d'altro genere, che talvolta finisce con ispargimento di sangue. Non essendo, pel grande numero, facili a riconoscersi dalle madri i sopravvissuti figli, l'una disputa all'altra il frutto delle sue viscere, mentre le imprecazioni delle disputanti e i lamenti delle più addolorate si mescolano agli scherni assordanti degli spettatori e a' fischi della ciurmaglia. Quelle poi fra le devote, che tornano in casa loro prive del proprio figlio, consolansi dicendo, che Maria, invaghitasi dell'avvenente angioletto, ha voluto menarlo seco lei in paradiso. Appagate da tale convinzione, s'intrattengono a banchettare colle femmine del vicinato, infino a che scialacquato sia del tutto il prezzo ottenuto, non dubitando di percepire da' preti ulteriori soccorsi, in memoria de' loro angioletti involatisi gloriosamente a' beati Elisi. Avvicinavasi dunque il tempo di questa festa, manifestazione di uno de' sopraddetti tre F Borbonici. I nostri amici, unitamente a' miei genitori, progettarono di assistervi. La brigata era di quaranta persone, ed una sarebbe stata la casa che doveva alloggiare tutti. Io mi trovava agitata, immaginando il cruccio che avrebbe arrecato a Domenico l'annunzio di tale divertimento, perchè nella brigata s'erano insinuati dei giovani, pe' quali egli sentiva un'ingiusta, ma pure straziante gelosia. Ve n'era uno fra gli altri, il quale, ignaro del nostro amore, aveva confidato a Domenico stesso il segreto della simpatia che disgraziatamente io gli aveva ispirata. Appena seppe il progetto, si abbandonò alle più spropositate smanie, e col solito messo mi fece conoscere, che se avessi lasciato Reggio si sarebbe ucciso. Invano Paolo, l'amico suo, gli fece osservare che esigeva da me cosa superiore alla mia volontà, non essendo presumibile che i miei genitori volessero lasciarmi sola; nè d'altronde potendo io lottare contro il loro comando. Cercò persuaderlo co' più efficaci argomenti, promettendogli inoltre ch'egli stesso non si sarebbe mosso dal fianco mio, e m'avrebbe dato il braccio nelle passeggiate, per evitare ch'altri mi avesse approssimata. Gli giurò di più, in nome dell'amicizia che li univa, come schietto e sincero, che al suo ritorno gli avrebbe reso conto della mia condotta rispetto ai rivali immaginarii. Rassicurato alquanto da questa promessa, mi precedette di poche ore nel viaggio; talchè, non appena giunti al porto di Messina, lo vidi lungo il molo che stava aspettandomi. Egli ci seguì da lontano, e conosciuta la nostra dimora s'installò in un caffè, donde senza esser veduto da mia madre, potea vedere i balconi della casa da me abitata. Paolo mantenne puntualmente la promessa. Si allogò a me dappresso, come l'ombra mia stessa, facendo del corpo suo una barriera insormontabile per ogni altra persona che avesse voluto avvicinarmisi. Mi sapeva mill'anni che, scevro di qualche dispiacere, giungesse l'ultimo giorno della festa. - Disgraziatamente non fu così. Erano le nove di sera, allorchè Paolo mi disse che usciva un momento solo, per fare acquisto d'un oggetto che gli era necessario. "Fate presto, Paolo, per carità," gli dissi: "sapete bene che alle dieci dovrò seguire la brigata al palazzo della Borsa." "Sì," rispose; "ma c'è un'ora ancora di tempo, ed io chiedo solamente pochi minuti." Ciò detto, se ne partì. Non aveva appena scesa la scala, che mia madre ordinò a me e a Giuseppina di prepararci per uscir di casa. "Ma che faremo," le dissi, "sino alle dieci, ora fissata per recarci alla Borsa?" "Andremo attorno per godere della luminara." "Non siamo tutti," soggiunsi: "manca ancora qualcuno della comitiva." "Chi manca ci raggiungerà," replicò essa in tuono che non ammetteva replica. Mi tacqui, e feci lentamente gli apparecchi necessari, colla speranza che Paolo esser dovesse di ritorno per darmi il braccio. Mia madre, Giuseppina, e gli altri aspettavano già pronti che mi unissi a loro. Strappai un bottoncino dal guanto, e pregai che avessero la pazienza di attendermi, finchè con un ago me lo riattaccassi. "Inutile!" fece mia madre in collera. "Eccoti uno spillo, che farà le veci del bottoncino." Presi lo spillo, e seguii la brigata, guardando affannosamente se Paolo arrivasse. Una voce mi scosse: "Signorina, poichè il vostro cavaliere è assente, vorrete gradire il braccio mio, invece del suo?" Alzai gli occhi: era quel desso, che aveva detto a Domenico sentire particolare simpatia per me... - Oh, Dio, quale imbarazzo! Come fare per disimpegnarmene? - Restai in forse, se accettare, o bruscamente ricusare. Mia madre mi guardava fissa; parecchi altri signori avevano udita l'offerta. L'urbanità, la confusione, il timore prevalsero. Gli porsi il braccio per metà, come se paventassi qualche contagio, e seguitai il cammino senza far motto. Allo svolgere della strada, non ostante l'immensa calca di gente, chi mi veggo innanzi? Domenico. Egli moveva alla volta mia. Il lividore di un morto è forse minore di quello che copriva il suo volto: aveva l'aspetto d'un vampiro infuriato. Guardò biecamente, ferocemerte il mio compagno, indi, volto quell'occhio terribile su di me, avventossi, come per atterrarmi, pronunziando parole inintelligibili. Misi un grido. Il frastuono della strada, per buona fortuna, lo coprì. Frattanto la folla mi aveva separata da Domenico, e siccome opposte eran le vie che facevamo, egli tirò per la sua, noi proseguimmo la nostra. Non perciò sedato fu il mio spavento, chè anzi, consapevole dell’impetuoso carattere dell'innamorato, temetti non ritornasse munito di un'arma micidiale, onde attentare alla mia od alla vita del povero giovine. Mi quetai un poco, soltanto quando fui giunta alla Borsa. Entrata nella grande sala, dissi a Paolo sotto voce di seguirmi al balcone, ed ivi gli narrai l'accaduto; al che, mostratosi questi dolentissimo, disse di volere mettervi pronto riparo, correndo immantinente in cerca dell'amico suo, e rappresentandogli la mia innocenza. Chi ha provato l'amore, può di leggieri comprendere quale fosse il mio stato. Amava Domenico con amore tenero ed affettuoso; era attentissima a non dargli alcun motivo di gelosia - ed intanto passava ai suoi occhi per donna frivola ed incostante. Spuntò l'alba, sempre desiderata dagli amanti afflitti, e la gente di servizio cominciò a fare gli apparecchi del ritorno. Poche ore dopo eravamo in Reggio. Paolo fu sollecito a venir la sera prima dell'usato. Lo interrogai cogli occhi se avesse veduto Domenico. - Con un leggero chinar di capo m'accennò di sì. Mi raccontò più tardi, che il furore aveva condotto l'amico suo ad un passo di pazza disperazione. Determinato di troncare meco, ed una volta per sempre, qualunque relazione, egli avea promesso a suo padre di partire, senz'altro indugio per Napoli. La parola era già data, nè più potevasi ritrattare. Nondimeno, gli acerbi rimproveri di Paolo, e gli atti della mia giustificazione, aveano esercitato un'influenza benefica sullo spirito di lui, nè era lontano dal pentirsi del passo, che fatto aveva in un momento di folle dispetto. M'alzai, non potendo frenare la commozione prodotta dalle parole di Paolo, e ritiratami in disparte, meditai un istante. Poscia, ripresa la perduta energia, tornai ad occupare il posto abbandonato accanto al confidente delle mie pene. "Un ultimo favore vi chieggo," gli dissi con fermo accento. "Vogliate riabboccarvi con Domenico, non per altro se non per annunziargli a nome mio che la parte offesa sono io. Può partire o restate a suo agio, non me ne curo più, conoscendomi innocente della colpa che m'attribuisce. Possa trovar egli in Napoli donna più fedele di me!" Da quel momento, coerente alla risoluzione presa, e forte della mia lealtà, feci le viste di volermi totalmente staccare da lui; ma egli, sinceramente ravvedutosi, avea digià riprese le consuete passeggiate sotto le mie finestre. Era un giorno di domenica, ed il giorno fissato alla sua partenza era il seguente martedì. Come ho già detto, trovavasi nella nostra casa un coretto che dava nell'interno della chiesa di Sant'Agostino. Ivi recatami per ascoltare la messa, vidi Domenico di rimpetto a me. L'amore, che spento non era nel mio cuore, malgrado gli sforzi che faceva per soffocarvelo, mi fece volgere lo sguardo verso di lui. Finita la messa, volea ritirarmene: al patetico segno ch'egli mi fece di volermi arrestare per poco, ebbi la debolezza di condiscendere. Come tutta la gente fu uscita di chiesa, egli, avvicinatosi al cancello, e giunte le mani in atto supplichevole, mi disse: "Perdonatemi! Confesso il delirio mio!" Lo guardai: l'espressione del suo volto era tale da disarmare il più forte risentimento. Colle lagrime agli occhi risposi: "Crudele! posdomani parti, m'abbandoni, e chiedi perdono!?" "Per questo sacro luogo in cui ci ritroviamo," soggiunse, "giuro che fra un mese sarò restituito a te, malgrado gli ordini del padre, il quale mi vorrebbe allontanato per un anno intero!" "Accetto il tuo impegno: a questo patto dimentico gli oltraggi." Un leggero tossire ci avvertì essere entrato qualcuno in chiesa. "Addio!" disse Domenico. "Addio!" ripetei con voce velata dalla commozione. Allontanossi, e giunto alle spalle dell'altare, presso alla porta minore della chiesa, si volse di nuovo, e mi disse: "Non mi tradire!" -Tradirlo! Or che mi rendeva l'amor suo, qual altra fortuna poteva io desiderare?-

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Abbiamo discorso abbastanza della missione drammatica del confessionale e delle dottrine dualistiche dei confessori: facciamo adesso un'escursione breve sulla parte teatrale dei chierici. Quattro giovinotti dediti al servizio della chiesa, aspiravano al sacerdozio. Non sì tosto avevano presi gli ordini sacri, dovevano uscirne, per essere surrogati da altri, a meno che protezioni d'alta sfera non li avessero trattenuti nell'uffiziatura a detrimento d'invecchiati predecessori. Più giovani, più fortuna. Questi chierici avevano le loro protettrici nel chiostro. E il protettorato d'una monaca vale qualcosa! Parecchi ricchi gentiluomini ed ecclesiastici napoletani testarono ab antico in favor di San Gregorio Armeno de' legati per uso di patrimoni, di cappellaníe, di maritaggi, di atti di beneficenza. Erano adunque fortunati i chierici che avessero potuto ispirare amicizia alle monache potenti di quel luogo: il traffico de' voti nel ballottaggio del badessato, le abilita al godimento di molti privilegi, uno de' quali si è pur quello di dispensare a seconda del loro gusto cotesti benefizi. E però il chierico protetto è sicuro di acchiappare presto o tardi il patrimonio e la cappellanía, nel qual caso la protettrice fa sovente a proprie spese la festa della prima Messa; e mi rammento di un tale chierico, divenuto, Dei gratia, prete, il quale, per essersi addentrato nella benevolenza della patrona, si ebbe non solamente gratis le spese della festa, ma eziandio un sontuoso banchetto in casa sua per 24 persone, apportatogli dalla carrozza in livree di gala, che la monaca chiese in prestito dalla propria famiglia. La badessa approvava tali scandalose prodigalità, anzi le fomentava dicendo: "Io pure ho fatto lo stesso; scapriccitevi, povere ragazze! in fede mia, si è fatto sempre cosi." Per altro inculcava loro fra' denti di non fare in mia presenza ostentazione di quelle stoltezze: al che assentivano le suore, avvedutesi ch'io non voleva punto conformarmi al loro modo di pensare e di operare. Egli è perciò, che al vedermi comparire innanzi interrompevano sempre i loro ragionamenti, e nel mandare il suddetto pranzo al prete si studiarono d'impiegare le più minute precauzioni, acciocchè la lautezza rimanesse sconosciuta a me. Usavano nella Settimana Santa di acconciare magnificamente una parte del coro per eseguirvi, in memoria del fatto evangelico, la funzione della lavanda dei piedi. Erano collocati sugli altari i simboli della Passione, unitamente a tutta l'argenteria, particolate di ciascheduna delle monache, mentre un'infinita quantità di ceri illuminava la scena. Dirò scena, o commedia? Duolmi di adoperare in divini argomenti la seconda denominazione. Ma che cosa infatti di più comico, di più ridicolo, di più profano al pudore cristiano, del vedere un Gesù Cristo perfettamente liscio e sbarbato in volto, con veste e forme femminili, nell'atto di lavare i piedi a dodici apostole in sottanino ed in calzette di seta? Scommetto che se i Mormoni dell'America, quei comunisti ed eretici dannati, venissero a penetrare che la Chiesa romana suole trasformare in tal modo il Figlio di Dio, non esiterebbero un istante di ritornare a braccia aperte in seno al cattolicismo. I quattro chierici morivano dalla pietosa voglia di vedere scalze le sante apostole. A notte avanzata del giovedì santo, quando il tempio fu chiuso agl'incirconcisi, e che pur io mi fui ritirata, poggiarono ad una delle grate del coro la più lunga scala della chiesa, e coll'aiuto di questa montarono sul cornicione del coro medesimo, ove preso posto, si fecero spettatori e sovente confabulatori del dramma. - È ben vero che le cose passarono tranquillamente, nè si ebbe a deplorare alcun disordine. Io ne conosceva il progetto sin dal giorno innanzi, e mi ritirai prima del solito per lasciarle libere. - Erano allora decorsi otto anni, dacchè io era entrata nel chiostro; ed in questo intervallo non avevano giammai scorta in me la benchè minima inclinazione per un prete, per un monaco o per un chierico; neppure pel mio confessore, il quale, nonostanbe la persistente mala voglia che gli dimostrava, ostinavasi, or sotto questo or sotto quel pretesto, a farmi scendere nel confessionale spesso spesso. Non già perchè il mio cuore a ventisett'anni fosse morto all'amore, o perchè avessi aspirato al selvatico onore di farmi rigido Catone dei poveri innamorati: no, davvero; ma mi disgustava la loro ipocrita e simulata bacchettoneria: quel voler ostentare delle virtù ed un candore che non avevano; mi disgustava la persecuzione che movevano a qualcuna delle loro compagne, se per caso stranissimo avesse questa concepito simpatia per un uomo che non fosse sacerdote od avviato al sacerdozio. Queste finzioni, questi egoismi di casta, e non altro, io detestava. Che se avessero francamente mostrata la loro debolezza per tale o tal altro prete, per tale o tal altro chierico, io le avrei con pari franchezza compatite, come avvenne più volte con qualche educanda, monaca o conversa che mi aveva confidato il segreto della sua fragilità; le avrei compatite con quel cuore propenso a' sentimenti di umanità, partecipe delle debolezze di sua natura, con quel cuore sensibile, che sotto la ruvida lana tuttavia batteva..... Una volta era desso in procinto di rinfiammarsi (non per un religioso) chiesi soccorso a Dio, e Dio ne spense le faville. Una passione di quella sorta non avrebbe fatto che aggravare la mia sventura. Egli era un medico; l'amai per ispontanea ispirazione, l'amai nei più reconditi penetrali dell'affetto, innanzi che la ragione se ne fosse accorta. In grazia del mio ufficio d'infermiera lo vedeva spesso: spesso nella cella dell'inferma l'accompagnai con gli occhi umiliati a terra, col sentimento dell'abdicazione che avevo fatta ad ogni commozione tenera, col convincimento che sotto il voto della monastica castità, spregevole sarei stata da lui reputata, ove uno sguardo solo mi avesse tradita. Ah, chi non ha indossato il cilicio non sa quanto sordo alle invocazioni del cuore sia l'isolamento del cenobio! Non comprese egli i miei sforzi a reprimere que' palpiti ribelli, nè per conseguenza conobbe il mio trionfo. - Tanto meglio! Seppi più tardi, che il suo cuore era dedicato ad altra donna meno disgraziata di me. Egli morì nel fior degli anni, sul più bello della sua carriera..... Fu egli compianto dalla giovane che amava? Ritorniamo al racconto. Passati due anni nel suddetto ufficio, fui nominata sagrestana; era l'incarico che più degli altri metteva la monaca in contatto coi preti. Opinarono allora parecchie suore che avrei finito coll'amarne qualcuno; altre, più svelte, si strinsero in congiura per farmi cadere. La sagrestana mia predecessora, nel darmi la consegna dei sacri arredi, mi disse che dei quattro chierici, uno solo essendo esatto nelle sue incombenze, di lui specialmente doveva servirmi. Era quella monaca, una buona ed onesta donna, sicchè seguii il suo consiglio. Frattanto le congiurate seguivano con ansietà i miei passi, per assicurarsi se, e come, e quando sarei caduta nel tranello. Che importava se il loro campione era di più che volgare figura, di crassa ignoranza, di molta rozzezza? Nel servizio della sagrestia io gli aveva data la preferenza: consolante augurio! Era ben naturale che su di lui si concentrasse l'azione della trama. Di quante iniquità non è cagione l'ozio! Le suore della consorteria trovarono di sovente una qualche scusa per iscendere al comunichino, e dire al chierico: "Ora te ne puoi star contento, eh?" "Perchè?" "Perchè hai avuta una sagrestana giovine e svelta." Unaltra volta gli dicevano: "Che fortuna!" "Perchè?" "Si dice che la sagrestana trovi molti requisiti nella tua persona." "Che idea strana! Da che lo desumono?" "Dalla premura con che ti chiama in preferenza degli altri chierici; dalla fiducia che ti mostrò consegnando ogni cosa a te." Come altrove ho detto, soffriva io molto di nervi: le convulsioni mi si erano rese periodiche. Ad ogni mia indisposizione, lo chiamarono al portello, e con impudenza di cortigiane gli recarono saluti a nome mio. - Nè qui l'impudenza si fermò: perocchè, immaginato e steso sulla carta un vigliettino con sotto il mio nome di battesimo, glielo fecero, non so per qual mezzo, venire in mano. In pari tempo m'involarono un tenue oggetto di biancheria, e in nome mio glielo presentarono. La testa del povero giovine cominciò a vacillare. Se ne avvidero quelle, allorchè, annunziatogli ch'io mi stava gravemente inferma, ei si cavò di tasca la pezzuola per asciugarsi gli occhi, nè potè altrimenti nascondere il suo travaglio. "È cotto di lei!" Dissero allora fra loro, stropicciandosi le mani, e gongolando di gioia. Ma della comica passione del chierico ben anch'io mi avvidi, non appena convalescente e rientrata nell'uffizio. Saputo l'imbroglio del viglietto e del donativo, alle intriganti monache scagliai le più energiche rimostranze: a lui feci tosto conoscere che lo scritto era falso, e che l'oggetto, a nome mio presentatogli, mi era stato poc'anzi preso dal fagotto della lavandaia. Costui masticò male la dura rivelazione: s'impegnò a restituirmi il foglio necessario alle ricerche che mi era prefissa, ma fosse per altrui suggerimento, fosse per ispontanea riluttanza, non me lo diede. Fatto sta che quel poveretto erasi ben bene innamorato di me. La sua faccia era divenuta secca allampanata: il naso affilato, gli occhi infossati. La sua bocca, naturalmente grande, avea per lo smagrimento, prese le proporzioni di quella della lucertola. - Io lo rimproverai spietatamente. "Sciocco," gli dissi, "non intendi che sei divenuto lo zimbello d'una brigata di monache, non meno pazze che insidiose, le quali, nell'atto di prendersi beffe della tue ingenuità, vorrebbero inoltre cogliere un più grande vantaggio, quello di dare argomento di molestia a me, ed ancora, se fosse possibile di abbassare qui dentro la mia riputazione a livello della loro? Rientra in te stesso, raffrena gli stolti desiderii, e bada d'ora innanzi a comportarti più saggiamente nel disimpegno de' tuoi doveri, se non vuoi perdere il pane e l'onore." Rispose, riconoscere ormai l'eccesso della propria follia: non esser però egli stesso l'autore di quella malaugurata passione, ma sì le tali e tali monache che a poco a poco glie l'avevano insinuata nel cuore: alla fin fine, l'amor suo aver toccato tale grado di intensità, da non rimanergli più veruna speranza di poterlo signoreggiare. "In tal caso," ripresi io, "non ti resta che un solo scampo: duro sì, ma inevitabile." "Parlate! Legge suprema sarà per me il vostro consiglio." "Le celie di quelle donne sono zampate di tigre; oggi ridono della tua semplicità, domani ti scaveranno la fossa. Ascolta il mio consiglio: cercati la sussistenza in altra chiesa, e portami al più presto la tua rinunzia." Il tuono secco e reciso di questi miei detti contrastava coll'interno senso di compassione che mi destava un avvenimento diretto a togliere il pane a quel povero tribolato. Quest'abboccamento, che durò appena 10 minuti, e finì pel chierico in uno scoppio di pianto, venne interrotto dall'arrivo del sagrestano. Convinta però che le monache covavano un reo progetto, e dolente per altra parte di rovinare quel giovine il quale altra colpa non aveva che quella d'esser un po' stolto, deliberai di troncarla con un mezzo più consentaneo alla pietà. Recatami dalla badessa, la pregai a nominare in vece mia un'altra sagrestana, dopo l'infermità non sentendomi io in forze da sostenere i pesi di quell'uffizio. - Costei rispose non giudicar la mia salute tanto rovinata quanto piaceva a me di rappresentarla; non esservi, d'altronde, esempio che una monaca si fosse dimessa dalla carica senza finire l'anno d'uso. Il mio confessore, al quale l'affare dispiaceva, unì le sue alle mie preghiere per indurla a cedere; ma, inflessibile alle reiterate domande, ella perseverò nel rifiuto. Stizzita però dalle mie moleste insistenze, mi disse un giorno: "Ma, insomma, perchè vuoi lasciare il posto? Perchè qualche pazzarella ti accusa di amoroso commercio col chierico? Quanta sei minchiona! Forse lei stessa, forse le altre ancora non hanno fatto, non fanno e non faranno sempre lo stesso? A tali cianciafruscole, se hai granello di buon senso, non devi badare!" Le cose camminarono così, finchè l'episodio non fu giunto a spontaneo scioglimento. Un giorno, mentre io cantava in coro, il chierico innamorato svenne in chiesa per la commozione. La chiesa era affollata: nacque un bisbiglio da non dirsi. I preti nella sagrestia si turbarono,i chierici se la godevano, le monache, calata la maschera, scaricarono sulla loro vittima le farétre, sclamando ad una voce: "Quanto è ridicolo! quanto è stupido!" Poi soggiungevano: "La santa Messa è mutata in commedia.... queste scene fanno vergogna al convento." Di lì a non molto trovai il chierico che si struggeva in pianto. "Siamo congedati tutti quattro noi chierici," mi disse con voce interrotta dal singhiozzo. "È mai possibile?" "Pur troppo. Dio mio, che sarà di me!" "Tutti quattro congedati! Hai dunque trascinato anche i colleghi nella tua rovina?" "No: la rovina sarà soltanto mia. Gli altri tre se ne vanno per pura apparenza: fra poco ritorneranno, io solo non ci ritornerò più." "Fanno bene a congedarti con tal garbatezza," conchiusi io. "Me ne duole cordialmente, ma la tua situazione in questo luogo era divenuta insopportabile." Gli abitanti delle contrade vulcaniche sono pieni di fuoco al pari de' loro vini; ed io son Napoletana. Accesa di sdegno, mi portai subito dalla badessa; le espressi la mia compiacenza, pel congedo de' chierici, ma non lasciai di redarguirla dell'ostinata renitenza nell'occasione precedende della mia rinunzia. "Se aveste accettata la mia dimissione, quando con tanta insistenza ve la chiedeva," le dissi con vivacità, "non vi sareste trovata oggidì nella crudele necessità di mettere ad effetto un provvedimento, che tornerà a scapito non meno del vostro monastero, che di quei poveri giovani. Ma ciò che è fatto, non si disfà. Un solo schiarimento mi resta a chiedervi, e questo si riferisce particolarmente al mio personale decoro. È reale, è positivo, oppur è solamente simulato il complessivo congedo di tutti quattro i chierici? In altre parole, vi riserbereste forse in petto il disegno di richiamare fra poco tre di loro, per infliggere l'esclusione ad un solo?" "No," rispose essa. "Il cielo non voglia! Comune e definitiva è, e sarà per tutti, l'esclusione!" "Avrete bastante fermezza da resistere ai maneggi delle monache che li proteggono?" Ci trovavamo presso una cappella, dedicata alla Vergine. La badessa si volse verso l'immagine, e levando le mani al cielo: "Giuro," disse, "per Maria santissima, che nessuno di loro ritornerà." "Ed io giuro," soggiunsi, "che se uno di loro entrasse per una porta, io uscirei subito da quell'altra!" Ci separammo in pace. Ma la povera donna era più di parole che di fatti. Ella contava i voti che le si rendevano indispensabili alla riconferma nel badessato. Di lì a otto giorni i tre chierici ritornarono. Nè a questo si ristrinse l'intrigo; tentò inoltre la consorteria di spandere sul mio portamento un'ombra di denigrazione. A che non giunge la perfidia fratesca! Quegli dei quattro chierici, che di fatto era espulso dalla chiesa, fu da' confessori e dai monaci della chiesa stessa denunziato al cardinale; il quale, con altrettanto smoderato desiderio di arrendersi alla voglie delle sue creature, l'obbligò a deporre l'abito clericale. L'abbadessa aveva mancato al suo giuramento: io volli mantenere il mio. Quel giorno fermai incrollabile nell'animo la risoluzione di lasciare ad ogni costo un luogo, dove ribollivano le macchinazioni e traboccava il fiele dell'invidia.

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Sortito avendo dalla natura bollenti passioni, immaginazione mobile, volontà forte abbastanza da lottare contro le seduzioni del sentimento e contro la corrente delle abitudini, io ho mirato alla reintegrazione della libertà nella terra nativa, prima ancora che la storia romana e gli annali delle nostre repubbliche mi avessero ammaestrato sui destini di essa. I libri, i giornali, il consorzio degli uomini di tempera vigorosa, soprattutto l'ammirando esempio degli altri popoli più di noi inoltrati nella carriera della civiltà, fecero divampare nell'animo mio quel fuoco sacro dell'amor patrio. Da quel punto presi ad esecrare l'aquila imperiale, e i principotti suoi satelliti, e la depravazione del nostro sacerdozio e la strisciante cortigianeria dei nostri baroni con quell'odio stesso, odio inesorabile, con che i Saraceni furono detestati dagli Spagnuoli e i Turchi da' Greci e i Russi da' Polacchi e la pirateria barbaresca da tutta quanta la cristianità. Nè, ambiziosa d'aggregarmi pur io all'apostolato di sì nobile missione, cessai d'allora in poi di cercare all'ombra della cocolla quel centro occulto di operazioni, che metter potesse in esercizio la mia operosità. Picchiai lungamente senz'aver risposta, ma finalmente mi venne aperto. Scorsero allora per me momenti d'esaltazione e d'entusiasmo, nei quali ebbi l'arroganza di credere, che se tutte le donne pensassero e sentissero a modo mio, neppure una sola oste barbarica sarebbe mai calata in Italia, od almeno l'Italia l'avrebbe da lungo tempo finita coll'opera devastatrice dei tiranni. Non erano dunque privi di fondamento i sospetti della polizia; ma chi l'aveva messa sulle mie traccie? Io non lo so, nè m'importa saperlo. Comunque siasi, io perdeva l'ultima speranza di riveder la luce. A questi motivi di sconforto un altro e più irritante mi sopravvenne. Reluttando agli ordini replicati della curia di rindossare l'abito monastico, io ricevei l'ordne perentorio di riprendere lo scapolare entro tre giorni, sotto l'alternativa di vedermi confinata in un ritiro di provincia, e passare il resto della mia vita nella separazione illimitata da' parenti e dal mondo. Rindossare quell'odiata insegna dell'inerzia, dell'ignoranza, dell'egoismo inalzato a dignità di dottrina! Ricadere per sempre, e senza speranza di riscatto, sotto la verga d'un'ignorante, fanatica badessa! Seppellire nel marciume d'un chiostro murato e ferrato la voce della ragione, del cuore e della volontà! A questa orribile idea la mia povera mente, già sconcertata, subì l'ultimo crollo. Ho detto che in un ripostiglio del mio baule stava nascosta qualche cosa, che sfuggì alla perquisizione de' preti. Quel segreto conteneva un fascio di carte rivoluzionarie in cifra, un pugnale ed una pistola, oggetti appartenenti ad un mio cognato, e da lui a me dati in deposito sin da quando io dimorava nel conservatorio di Costantinopoli. Era la notte del 16 luglio, un'ora prima della mezzanotte. Dopo d'aver piegato il ginocchio appiè del letto e innalzata la preghiera de' moribondi al Dio della misericordia, scrissi l'ultima lettera a mia madre, lettera palpitante di affetti e tutta bagnata di lagrime. Io le diceva: ..................................................................................................... «Ah, all'enormità delle mie pene non presterà fede, se non chi ne abbia provata una parte! Esistere e credere di sognare: quel perpetuo affannarsi a sormontare il cavallone che v'incalza, e sta per ingoiarvi, senza speranza alcuna di riguadagnar la riva: quell'essere sepolto vivo e risvegliarsi inchiodato nel buio della bara, ah, mamma, credetemi, sono tormenti atroci! » Cara mamma, questa vita che voi mi deste, altro non è più per me che un supplizio. Che vale l'esistenza, se è cieca di libertà e di coscienza, se è condannata all'atrofia, mentre le altre creature di Dio respirano il nativo elemento, libere, prospere e sane quanto gli uccelli dell'aria? Siate perciò la prima a perdonarmi, e vogliate difendere la mia memoria, quando l'unica traccia, che lascerò al mondo di me, sarà la vostra commiserazione!» Terminata la lettera, che, tutta bagnata di lagrime, deposi aperta sul tavolino, aprii il baule, e tratto dal segreto lo stile, mi ferii il fianco.... - Oh, tu che leggi, non mi condannare! compiangimi; rianda colla mente tutti i miei patimenti, mettiti nel mio miserissimo stato, e piangi con me, che pure scrivendo di questo orribile momento, mi sento profondamente commossa. Ah sì, io avevo tanto patito e patito, che il lume della ragione era spento! Perdonami, lettore, come spero m'abbia perdonato Iddio! Il polso debole e tremante diede poca forza al colpo: una stecca di balena fece scivolare il ferro, che strisciando sulla pelle, la sfiorò. Avrei forse rinnovato il colpo, ma l'orrore e il ribrezzo che mi fece il freddo della lama, mi risvegliò da quel delirio. Non fa parte della legge divina anche l'istinto della propria conservazione? La voce interna che al disperato grida: Consèrvati! - non è forse quella d'un angelo custode, che il cielo invia? Lo stile mi cadde di mano: io mi posi tutta tremante a sedere. Non era scritto che dovessi morire, in un accesso di demenza, omicida di me medesima. Vissi, piansi, patii ancora; e ne sia lode alla divina Provvidenza, io sopravvissi a quell'èra d'ignominia e di servaggio! Nuovi tormenti m'aspettavano. Non paghi i preti d'avermi costretta ad incapperucciarmi nuovamente, vollero pur menarmi per confessore un religioso di loro fiducia, il padre Quaranta, Agostiniano. Trattandosi d'un'anima dannata, la cui conversione non avrebbe forse mancato d'essere ascritta a miracolo, scelsero quel religioso, come colui che, salito in grido d'ineluttabile facondia e in odore di santità, di leggieri avrebbe vinta qualunque resistenza. Risolvei di non portarmi al confessionale. Quaranta mi fu condotto in camera tutti i giorni, a mio dispetto, e ad ore indeterminate. Era egli un vecchierello smemorato, navigante a gonfie vele alla volta dell'imbecillità, il quale, troppo occupato del fervorino che recitava tutto d'un fiato e a modo di scatola musicale, dimenticava da un momento all'altro le mie obiezioni. Il cicaleccio di quel rimbambito distruggeva i beneci effetti dell'ultima crisi nella mia ragione. Protestai contro quella quotidiana molestia; mi fu risposto che io non poteva stare senza il catechismo giornaliero del confessore: mi avrebbero però mandato un tal Cutillo, che in Napoli godeva la stessa riputazione di Quaranta. "Poichè tanto lo decantate, tenetevelo per voi," risposi al prete superiore; "se mi debbo confessare, voglio una persona di mia, e non di vostra scelta." La priora m'aveva tenuto parole d'un vecchio canonico del vicinato, il quale spesso veniva a dir Messa nella chiesa del ritiro, ed informavasi ogni volta sì della mia salute, che del mio stato morale, e pietosamente a mio favore le raccomandava i riguardi che il dovere di priora e le mie peripezie richiedevano. Io lo conosceva di fama, per uomo dotto, prudente e d'illibata probità. Pregai dunque la priora di chiamarlo per confessore da parte mia; mandò in risposta che accettava l'incombenza, purchè non intendessi di valermi della sua mediazione presso il capo della Chiesa napoletana. Gli feci sapere ch'io era ben lungi dal pensiero di umiliarmi a costui. Egli venne. Ma la scelta di quell'egregia persona fu disapprovata da Sua Eminenza, non meno che dal superiore ecclesiastico dello stabilimento. E la ragione fu questa: il canonico era cristiano di cuore e di coscienza, non per ispirito di partito o per orgoglio; era ministro al servizio della sofferente umanità, e non istrumento di casta feroce. Eglino, al contrario, stavano molto al disotto di lui, e per condotta morale e per ingegno e per dottrina. Ne conseguiva che diametralmente opposta a' sentimenti del subalterno essendo la condotta de' superiori, indarno avrebbero questi tentato di penetrare per mezzo del confessore nell'anima della penitente. Senonchè, vergognosi essi stessi d'una disapprovazione che nulla poteva giustificare, furono più tardi costretti a rivocarla; e per tal modo, ne' sinceri conforti profusimi da quel buon vecchio, ebbi la prova consolante che il Cielo non mi aveva del tutto ritirata la sua clemenza. Ma lo ripeto, un malanno porta l'altro. Il generale Salluzzi, che in tante e tante occasioni mi aveva dato prove di paterno affetto, fu, dopo gli ultimi avvenimenti, sì severamente redarguito per la protezione che accordava ad una monaca cospirante contro il principe e ribelle ai voleri della Chiesa, ch'ei non osò più chiamarsi amico mio. Oltre questa perdita, che m'arrecò non piccola mortificazione, il re mi sospese ancora un assegno di annui ducati 60, ultimo mezzo del mio sostentamento. Di lì in poi, nonostante i sussidi della famiglia, furono molte le mie ristrettezze. Obbligata a farmi tutto da me stessa, benchè non assuefatta, per un'estate intera mi ristrinsi al solo pane, e per companatico a qualche frutta, serbando la carne alle domeniche. In quanto alla mia sequestrazione, essa fu completa nei primi sei mesi. Ad eccezione del medico che in sul principio mi visitò, non mi venne fatto vedere per quel tratto di tempo altra figura umana, fuorchè quella sgradevole di preti, di monaci e di monache; cosa che mi costrinse a carcerarmi nella propria stanza, e mi ridusse al compiuto isolamento. Un solo filo di comunicazione mi conservava ancora in relazione col mondo di fuori: era l'involto della biancheria, prezioso messaggiero e confidente, che mi tratteneva in sicuro carteggio con la madre. Coll'aiuto di pochi e scelti libri quale noia non si rompe, quale tristezza non si dissipa, qual muto orrore non è rianimato? Defraudata di quest'innocuo sollievo, mi fu giuocoforza ricorrere alla lettura che fornirmi poteva Mondragone. Nè mi pento d'averla accettata, anzi conserverò particolare memoria della Vita delle sante Martiri che vi trovai: libro interessante che ho letto riletto più volte con edificazione e diletto grande. La casta poesia, il puro e santo zelo di quell'èra cristiana mi serviva di calmante nella lotta interna che m'agitava. Ammirabile secolo di riscatto, in cui la donna, da ardente fede, da speranza, da carità sublimata, non solamente contese all'uomo il privilegio dell'eroismo, ma col sagrifizio della giovinezza, della beltà, degli averi, e della stessa esistenza, colla pratica d'ogni virtù seppe ancora eclissare e modestia di gerarchi, e dottrine di scuola, ed elucubrazioni di teologi. Chi può negare che uno fra i più maravigliosi prodigi della rivelazione sia questa novella devozione della donna alla riforma della società, al rinnovamento del genere umano? E questa fede, quest'abnegazione, che trae la femmina dal gineceo, per menarla gloriosa sul rogo, non è ella già degna di ammirazione, più che non lo sia l'eroismo, in grazia del quale sono i nomi d'Epaminonda e di Scipione celebrati nelle pagine di Plutarco? Questi e non altri esemplari vorrei che con mano diurna e notturna svolgessero le nostre giovinette! Che non oserebbe, a che non riuscirebbe anche la donna de' nostri giorni se quella fede pigliando per modello, deponesse, quasi offerta di primizie, il fiore degli affetti sull'altare della patria? Invece di scrivere romanzi, che con effimere commozioni mi snervano il cuore, che con effeminati affetti mi sbaldanziscono l'animo, m'isteriliscono le aspirazioni, provatevi piuttosto a ritemprarmi, se potete, il cuore a fecondi concetti, a sentimenti virili! Ecco come mi rialzerete dall'inerzia in cui giaccio, ecco come mi preparerete a secondarvi nella grande opera dell'incivilimento! Nelle ore d'ozio (e quante non ne dovetti passare in più di tre anni d'assoluto sequestramento!) materia di grata distrazione mi somministrarono gl'insetti, soli viventi compagni del mio deserto. Quante ore non passai assorta all'isocrono rosicchiare del tarlo nel fracido tavolato delle porte e del soffitto! Quante volte non tesi lungamente l'orecchio a' gorgheggi d'un canarino, la cui prigione, per quanto facessi, non m'era dato di discernere, ma la pazienza e la giubilante superiorità del quale io invidiava dal fondo del cuore! In tempo d'estate e d'autunno una porzione del mio scarso pane era religiosamente riservata alle formiche. Adescate dalla mia ospitalità, esse affluivano in differenti repubbliche e sotto capi differenti nella mia stanza, ne prendevano imperturbato possesso, si aprivano ingressi ed uscite a piacimento, montavano in lunga schiera su per le pareti, o in diverse tribù affollandosi a me d'intorno, facevano a gara l'una coll'altra per la briciola che porgeva loro. Altra volta mi divertiva, a guisa di Silvio Pellico, a contemplare la lotta della mosca caduta nelle granfie del ragno, e a quella vista ricordava la massima di Anacarsi: «che la giustizia d el principe è tale di ragno: i piccoli insetti vi restano avviluppati e catturati, i grossi la squarciano e se ne vanno.» - In tempo d'inverno poi, quello che più d'ogni altro m'aiutò a passare le lunghe ed insonni nottate fu l'esercizio mnemotecnico. A forza di moltiplicare a mente de'numeri determinati, corroborai talmente la memoria che pervenni a trovare il prodotto di due fattori di cinque cifre ciascuno. Ma riprendiamo il filo del racconto. Era già molto tempo che procedeva regolarmente il carteggio clandestino, quando m'accade di trovare nel nodo della pezzuola un dispaccio del seguente tenore: «Cerca d'ottenere un abboccamento dal nunzio apostolico: è persona dabbene. Lo potrai fare per lettera, che manderai a me.» L'abboccamento fu domandato, e prestamente ottenuto. Il nunzio venne a Mondragone non sì tosto ebbe ricevuta la mia lettera. All'annunzio della visita d'un funzionario tanto eminente della Santa Sede tutto il ritiro andò in trambusto. La priora, propensa ad arrogarsi l'onore della visita, corse precipitosa al parlatorio. Ma quale fu il suo stupore sentendo che il ministro del Sommo Pontefice domandava della sua prigioniera! Nell'incertezza se dovesse farmi scendere al parlatorio, o piuttosto rispettare la proibizione, la povera donna rimase di sasso, nè seppe che rispondere al funzionario. Io, che stava sempre in aspettazione di quella visita, appena udito un insolito andirivieni pei corridoi, uscíi ratta della mia stanza, mi precipitai per le scale urtando le monache, che sbalordite mi guardavano, e lanciandomi nel parlatorio, dissi con tuono altiero alla priora: "Le vostre faccende vi richiamano altrove: lasciatemi sola, vi prego." Essa, confusa, licenziossi dal nunzio chiamandolo signor dottore, e volte le spalle, disse a mezza voce: "E se fosse pazza un'altra volta?" Il nunzio era un uomo nel fiore degli anni e garbatissimo. Fece le più alte maraviglie al racconto della mia Odissea, ma non avendo giurisdizione diretta sul ritiro, si dolse con cortese sincerità di non potermi porgere l'aiuto, che i miei tormenti reclamavano. Ciò nonostante non prese congedo senza prima assicurarmi che avrebbe messo in opera ogni mezzo, affine di ottenere a mio favore, se non l'immediata uscita, almeno una diminuzione di rigore. Nel risalir le scale vidi la priora costernata e in parlamento colle sue monache. Approssimatami al crocchio: "Non vi date pena dell'avvenuto," dissi sorridendo alla prepositessa: "mandate pure a dire al cardinale che gli arresti li ho rotti io." Non riusciva nuova alla priora quest'aria di canzonatura. Io aveva preso da qualche tempo l'abito di burlarmi di loro, o di farle arrabbiare con ogni sorta di dispettuzzi, memore del motto di quella briccona di Capua: «per pigliar marito bisogna fare l'impertinente.» La priora fece nota al prete superiore l'avvenuta infrazione, e costui fu il primo che salì da me sbruffando fuoco e fiamme. Lo ricevei seduta ridendo, guardandolo a traverso, e dondolando una gamba sull'altra: "Chi vi ha dato l'ardire di scendere al parlatorio, nonostante gli ordini dell'arcivescovo?" "Ardire fa rima con dormire," risposi. "Sapete, mannaggia! che avendo fatto i voti, dovete prestare cieca ubbidienza a' superiori che Dio vi ha dato?" "Presso quale Evangelista si trova scritto che il Nostro Signore m'abbia dato per superiore il reverendo cavaliere Don Pietro Calandrelli?" "Io sono vostro superiore in nome della santa Chiesa cattolica." "Che cosa intendete per Chiesa cattolica?" "Intendo, signora mia, la padrona dei re, la rappresentante di Dio sulla terra: dico la Santa Sede, e l'intero cattolicismo che le ubbidisce." "Non credo nella Santa Sede, con vostro buon permesso." "Dunque voi non siete cattolica?" "Se quello che voi chiamate cattolicismo in mano al papa, ai cardinali, ad altri vescovi e preti non dovesse essere altro che un mezzo d'industria, una macchina d'ignoranza e di servaggio, per fermo, io non sarei cattolica!" "Che cosa dunque sareste?" "Cristiana; e ci guadagnerei un tanto." "Uh, che orrore, che orrore!" gridò: "Sareste voi protestante?" "Scismatica?" soggiunse la priora. "Nè l'uno, nè l'altro," ripresi io; "sarò cristiana di quel rito che favorirà la civiltà, il benessere, la libertà de' popoli. Ecco la fede mia, che pur sarà la fede dell'avvenire." "Voi siete una religiosa empia e sacrilega! - Signora priora, vi raccomando di badare bene, che il contagio di tali opinioni sataniche non infetti le giovanette innocenti del ritiro." "Non temete," soggiunsi io: "qualche anno ancora, e queste giovinette avranno scoperto e detesteranno le vostre imposture al par di me." Ben lontano però eravamo ancora da tale meta. Il ritiro componevasi quasi per intero di giovani, siffattamente allevate nel bigottismo e digiune di buona istruzione, che mal appena sapevano scrivere. E come poteva essere altrimenti, poichè Calandrelli era il collega del famigerato monsignore Francesco Saverio Apuzzo? Quelle adolescenti ogni volta che passavano davanti alla mia porta, sospirando, esclamavano: "Maronna delle Grazie, salva l'anima sua! Dio mio, convertila!" Il superiore andava intanto ghiribizzando per iscoprire con qual mezzo avessi potuto trasmettere al nunzio la mia lettera. Furono interrogate una per una tutte le converse, ma nulla si potè sapere. Avuto alfine qualche sospetto sul fagotto della biancheria, l'inquisitore, mettendo in non cale ogni riguardo di decenza, ordinò alla priora di volerlo avvertire la prima volta che i miei panni dovevano esser mandati a casa. E così fu: posto il ginocchio a terra, ebbe quel cavaliere dell'ordine di Francesco I la birresca impudenza di sciogliere il fagotto di propria mano, e sventolare partitamente tutti, senza eccezione, i miei panni. Ma io che m'aspettavo la perquisizione, gli aveva teso un bel laccio. Nella piega d'un asciugamano il reverendo trovò una lettera diretta a mia madre. Rizzatosi gongolante in piedi, e con mano tremante dall'impazienza, schiuse il corpo del delitto. "Finalmente," disse alla priora, "il topo è nella trappola!" E senza mettere tempo in mezzo, cominciò a leggere ad alta voce.... Alla quarta linea divenne pallido; a mezza lettera gli morì la voce fra i denti: e seguitò a leggere solamente cogli occhi; In quel foglio io aveva scritto di lui ogni ben di Dio: gli davo dell'impudente, dell'ubriacone, del seduttore, del tanghero; eravi, fra le altre cose, ricordato un fatto vero: cioè, che venendo ogni dopo pranzo avvinazzato, egli chiamava ora l'una ora l'altra delle monacelle nella propria stanza, e vi rimaneva lungo tempo da solo a solo col pretesto di farsi aiutare a recitare l'uffizio. La lista del bucato terminava col seguente epigramma:

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Ma per ragioni non abbastanza note, i monasteri di donne abbandonarono la regola di san Basilio, per abbracciare l'altra non molto dissimile ed omogenea di san Benedetto, ancor prima che i conventi di monaci Basiliani si fossero del tutto latinizzati: fatto avvenuto dopo quelle tre potenti e consecutive crisi della Chiesa occidentale: la riforma, il gesuitismo, ed il concilio di Trento; crisi successe nel XVI secolo. Nella facciata della chiesa di san Gregorio, Napoli e sue vicinanze. Tomo I, p. 228. sopra un alto basamento con tre archi di fronte, costrutto a bugne, si elevano due altri ordini di costruzioni, il composito sul dorico. Pochi scalini conducono all'atrio spazioso retto da quattro pilastri, su cui poggia il coro grande delle monache. In fondo è l'ingresso principale della chiesa; ed entrandovi, trovasi una sola navata con quattro cappelle in ciascun dei lati, e due vani, di grandezza eguale alle cappelle, occupati al davanti per metà da due organi: di quei vani uno serve al passaggio della sagrestia e della minor porta, l'altro per i confessionali. Un balaustro divide la nave dal presbiterio, dove si erge l'altar maggiore, fra quattro archi simili che sorgono per sostenere la cupola. L'ordine architettonico dell'intera fabbrica è il composito, ma oltremodo ripieno di cornici, fogliami, decorazioni ed ornamenti d'ogni genere, tutti dorati, e nelle superficie piane dorati a foggia di damasco; e non è spazio vuoto che non sia coperto di pittura a fresco: cose tutte le quali certo meglio si addicono al fasto de' ricchi palagi baronali (o dei teatri), anzi che alla devota semplicità della casa del Signore. La porta grande è costrutta di legno di noce con buoni intagli in rilievo, rappresentanti i quattro Evangelisti, ed in mezzo i due santi Stefano e Lorenzo, circondati da ornamenti. La soffitta, che è di legno intagliato e dorato, dividesi in tre grandi quadri principali, in cui sono tre pitture di Teodoro il Fiammingo, figuranti san Gregorio in vesti pontificali con libro aperto nelle mani fra due assistenti all'altare; lo stesso santo che riceve le monache nel suo ordine; ed il battesimo del Redentore; suddividesi poi in tanti piccioli compartimenti di forme diverse, i quali contengono una pittura di esso Teodoro, se non mostrano un rosone intagliato. I due organi collocati con le orchestre ne' due vani sono ricchi de' più bizzarri intagli, dorati ad oro fino. Ornano poi le cappelle molti lavori a commettitura di marmi scelti e svariati, ed han tutte un balaustro di marmi, parimente commessi in forma di fogliami a traforo; e sopra, altri lavori di bronzo a getto, con in mezzo un cancellino composto dello stesso lavoro e metallo. Delle pitture, i tre quadri sulla porta, nei quali è rappresentato l'arrivo in Napoli e l'accoglimento qui avuto dalle monache greche; come parimente quelle collocate tra' finestrini, che sono pur de' fatti della vita. di san Gregorio; quelle dei piccioli scompartimenti sopra gli archi, le altre della cupola, e quelle infine del coro grande, che figurano storie di san Benedetto, son tutte di mano del Giordano. Ed è a notare, che, dei tre quadri sulla porta, in quello che è a sinistra dell'osservatore, nel volto dell'uomo in atto d'indicare un luogo alle monache arrivate al lido in una barca, il pittore dipinse sè medesimo dell'età di circa cinquant'anni, quanti allora ne contava. Dietro l'altar maggiore, che è costrutto con disegno di Dionisio Lazzari, mirasi la gran tavola dell'Ascensione del Signore, opera di Bernardo Lama. Nella prima cappella del lato destro della chiesa è il quadro dell'Annunziata di bel colorito, dipinto da Pacecco De Rosa. La terza cappella è dedicata a san Gregorio Armeno, ed è più grande e meglio ornata delle altre; sull'altare, in mezzo a due colonne di rosso di Francia, si vede un assai pregevol dipinto di Francesco di Maria, e rappresenta il santo vescovo assiso e corteggiato dagli angeli; su i muri laterali è figurato in due composizioni il Santo, mentre se gli fa d'avanti tutto umiliato il re Tiridate col viso trasformato in porco; e nell'altra, nel momento di esser tirato fuora del lago di Ararat, dove era stentatamente vissuto per quattordici anni: questi due quadri, dipinti con robustezza e verità di colorito e con bell'effetto di luce, sono usciti dal pennello di Francesco Fracanzano, discepolo dello Spagnoletto. Di Cesare Fracanzano, fratello del primo, son le due lunette sovrapposte a' descritti quadri, che rappresentano due maniere di martirii dati al santo. La volta di questa cappella è divisa in più partizioni, dove in picciole figure sono istoriati vari fatti della vita di san Gregorio dallo stesso Francesco di Maria; le quali pitture a fresco richiamaron l'attenzione dello stesso Giordano, che narrasi averle molto ammirate e lodate. Nella quarta cappella, la tela della Madonna del Rosario è di Niccolò Malinconico, scolaro del Giordano. Delle cappelle del lato sinistro, la prima ha una tavola della Natività, della scuola di Marco da Siena; la terza, la tavola della decollazione del Battista, di Silvestro Morvillo, detto il Bruno; e la quarta, una tela, in che è dipinto san Benedetto, adorante la Vergine che apparisce dall'alto, attribuita allo Spagnoletto. Nel mattino del tre di marzo 1443, essendo giorno di domenica, re Alfonso I d'Aragona cinse il capo del suo figliuolo Ferrante d'un cerchio d'oro, e posegli nella man destra una spada ornata di gemme, confermandolo in tal guisa Duca di Calabria e suo successore nel regno, siccome un giorno avanti era stato acclamato dal general parlamento nella sala del Capitolo in San Lorenzo. Una tal solenne cerimonia fu compiuta con regal pompa, in presenza de' baroni e di tutta quanta la corte del re, nell'antica chiesa già demolita, di cui si è fatta menzione poc'anzi. In quella stessa chiesa conservavansi fino al 1574 le sepolture delle monache, e le ossa d'altri defunti, in monumenti che rimontavano fino alle primitive età del monastero, siccome risulta dalla cronaca di donna Fulvia Caracciolo, una delle mie antenate e monaca nel detto monastero, vissuta intorno all'epoca in cui venne introdotta la clausura. Commovente è la descrizione ch'essa ci lascia del trasferimento delle surriferite reliquie dalla chiesa antica a luogo più sicuro, avvenuto sotto l'abbadessato di Lucrezia Caracciolo: «Restavano, scrive essa, solo nella chiesa le sepolture, nelle quali erano posti i corpi morti delle sorelle, e d'altri defonti: e perchè rimanevano scoverte, pungeva a noi il core estremo dolore, avvenga che non havevamo luoco atto, dove potessimo riserbare l'osse de' nostri antecessori, tanto più che di fresco erano morte alcune, che a volerle tor via, poichè erano i corpi jntieri, n'inducevano a tanto ramarico, che di pietà ogn'una di noi si sentiva venir meno; all'ultimo una notte, seguente a' 20 d'ottobre di detto anno 1574, per non dare spavento et horrore alle sorelle, jo, insieme con donna Beatrice Carrafa, donna Camilla Sersale, donna Isabella, e donna Giovanna de Loffredo, chiuse prima le parte della chiesa, e dicendomo l'officio de' morti, fecimo in nostra presenza votare tutte le sepolture, usando ogni diligenza possibile, che fossero ben nettate, e riponemmo l'ossa in un'altra cantina, con quest'ordine: fecimo far tante casse de' morti quante erano le sepolture, et havendo di quelli riposte le già dette osse, fecimo ad ognuno un scritto di fuori, acciò che si conoscessero di chi fossero.» Questo passaggio, che ho letto più volte nello stesso manoscritto, mi ha fatto ogni volta rabbrividire, pel timore che le mie ossa, destinate a restare in consegna alle mie compagne di reclusione, non subissero un giorno le medesime vicende. Egli è pur da questa cronaca che siamo informati del vestire antico delle monache Benedettine e del loro ufficiare ne' libri longobardi: «Intorno poi al vestire che noi usavamo, dirò, che andavamo vestite di bianco; però le tuniche a modo di un sacco, a punto come sono quelli che portano oggidì le donne vidue, ma di panni fini e bianchissimi; in testa portavamo una legatura greca, ornata con molta modestia; leggevamo a' libri longobardi, e perciò la maggior parte della vita spendevamo ne i divini uffici, per esserno in quei tempi assai lunghi e da noi con molta solennità celebrati. Le moniche ch'entravano in questa religione in tre diverse giornate, usavano tre modi di cerimonie. Primieramente si monacavano per mano dell'abbadessa, un giorno dopo dette le Vespere, ove ne troncava le trezze. Dopoi alcuni mesi, o anni, secondo l'età, pigliavano il secondo ordine, ch'erano alcune dignità nel coro. Il terzo ordine si pigliava nell'età perfetta, da quindici anni in su, e nel pigliar questo ordine si diceva primieramente la messa dello Spirito santo; e mentre quella si celebrava di nuovo, ne tornavamo a tagliare i capelli. In questa guisa cavavamo nella fronte una ghirlanda de capelli, la quale spartita in sette fiocchi, nell'estremo di ciascun di quelli l'abbadessa poneva una ballotta di cera bianca e così stavamo finchè si celebrava; ma poi finita la messa, la medesima madre tagliava i fiocchi e copriva la fronte d'un bianco velo, e ne ponevano una veste negra sopra la bianca che fino a quel tempo portavamo, e la negra era più corta della bianca mezzo palmo, senza la quale non era lecito a veruna di comparir nel coro nei giorni festivi. Questa veste adunque era la prerogativa, che ne donava la voce attiva e passiva, e ci faceva partecipe de i beni del monastero. Questa medesima veste ne vestivamo ne i giorni estremi di nostra vita, con la quale si moriva e si andava alla sepoltura. I giorni feriali si ufficiava in coro con un manto nero, senza di cui non si poteva dire un picciolo verso in quel loco, e questo s'osservava tra noi in quel tempo.» Malgrado questi rigori, vero è che le monache di quel tempo andavano liberamente alle ville e possessioni del monastero per trattenervisi parecchie settimane, uscivano dalla mattina alla sera, previa licenza della badessa, e per giorni ed anche mesi rimanevano in casa dei loro parenti, siccome fino ai nostri giorni, ad onore dell'ordine monastico, è praticato ne' chiostri della chiesa greca, presso la quale l'autorità de' canoni tridentini non è riconosciuta. Sono custodite nel santuario del monastero parecchie reliquie di santi e martiri, cui le monache e la volgare superstizione attribuiscono la virtù di operare miracoli. Tranne il capo di san Gregorio l'Illuminatore, che vuolsi importato dalle profughe greche, vi sono pure la testa di santo Stefano e quella di san Biagio, coverte di argento; parte del legno della santa Croce; due bracci, uno di san Lorenzo e l'altro di san Pantaleone; la catena di san Gregorio Armeno e le strisce di cuoio con cui il Santo fu battuto: entrambi oggetti che, per prerogative soprannaturale, sanano gl'indemoniati; il sangue di santo Stefano e quello di san Pantaleone, il quale, se perpetuamente è liquefatto, pure non si fa vedere in tre diversi colori, siccome quello del medesimo martire che è venerato in Roma nella chiesa di santa Maria in Vallicello e nella cattedrale d'Amalfi. Questo Santo gabinetto di anatomia dà motivo a feste, che non mancano d'essere periodicamente segnalate da fatti miracolosi. Vastissimo è il monastero costruito intorno alla chiesa. Entrandovi dalla porta esterna, scorgesi una comoda scalinata che mena ad una seconda porta, su cui veggonsi delle pitture a chiaroscuro di Giacomo del Po, e donde si va ne' differenti parlatorii. Ricco poi di fregi, d'inesauste comodità, di principesca magnificenza è l'interno del monastero, albergo di donne, tanto altiere della nobile loro discendenza, da non voler accogliere per sorella nella congrega nessuna giovine, la cui prosapia non sia stata almeno aggregata in uno de' quattro seggi di Napoli. Grande e pur belle e il dormentorio; non meno bello il refettorio, spazioso il coro che risponde nella chiesa; largo il chiostro, con in mezzo una fontana e due statue, Cristo e la Samaritana, scolpite da Matteo Battiglieri; immensi e deliziosi specialmente i terrazzi elevati sopra il convento, ornati di fiori e di dipinture, donde si gode una delle più belle prospettive di Napoli, poichè da quei belvederi spazia lo sguardo su i monti e le colline circostanti, su parte della sottoposta città, sul mare, sul paesaggio ameno de' contorni. - Tranne queste costruzioni, vedonsi poi nel monastero la cappella di santa Maria dell'Idria (corruzione del vocabolo greco Odigitria), con l'immagine bizantina della Vergine venerata sotto questo nome, con dipinture di Paolo de Matteis: cappella ridondante di sontuosità; e finalmente la sala dell'archivio, ove fra gli altri storici monumenti è conservata la cronaca summenzionata della Caracciolo, documento di non poco rilievo. Ma è tempo di ritornare alle mie vicende. La novità del luogo, delle persone, degli oggetti, dei costumi, mi divagò un poco. Era quello un mondo nuovo a me del tutto sconosciuto. Durante quella prima visita al convento, m'imbattei in molte religiose per la via: tutte quante mi fecero la stessa domanda: "Vuoi farti monaca?" Io rispondeva di no. A questo detto, sorridendo in atto di suprema convinzione, ripigliavano: "San Benedetto non ti lascerà scappare, quando avrai indossate le sue lane!" Qualche giorno prima di entrare nel monastero, era venuta la domestica di mia zia a comunicarmi, come una giovine monaca, chiamata Paolina, desiderava di farsi mia amica e confidente inseparabile, non appena avessi posto il piede nel chiostro. Mi vi trovava intanto da più ore, nè vedeva al mio fianco altre monache, che le due sorelle, da mia zia pregate di guidarmi nella visita. Chiesi a codeste quale fosse la monaca nominata Paolina: risposero essere una giovine, solita sempre a ricrearsi in compagnia di due educande. M'avvidi infatti d'averla incontrata nel mezzo di due giovinette, passeggianti nel chiostro; ed anzi mi maravigliai, che di tutte le monache fosse stata l'unica a non avvicinarmisi. Fatti altri pochi passi lungo l'arcato corridoio del pianterreno, la incontrammo novellamente; atteggiatami d'ilarità, le mandai da lungi il saluto con un sorriso, ma parvemi d'osservare che, in risposta, essa e le sue compagne si fossero scambiate sotto voce qualche parola in tuono beffardo: questo mi mortificò assai; ma non basta. Concettina mi domandò perchè avessi voluto sapere quale monaca fosse nominata Paolina, e dove l'avessi conosciuta: raccontai dell'ambasciata ricevuta. Si rammentò allora Checchina, che essendosi quella Paolina disgustata colle sue amiche, alcuni giorni prima, mi aveva mandato tale messaggio non per altro che per indispettirle, ma che poscia, rappattumatasi con esse loro, aveva lor promesso di non mai avvicinarsi a me, essendone le educande di già gelose. "Gelose!" esclamai stordita: "vi sono dunque delle gelosie fra voi!" "Eh, pur troppo, signorina! così non ve ne fossero!" risposero le sorelle in coro. "Misericordia!" soggiunsi: "ci sarà anche la discordia, inseperabile dalla gelosia." Strana infatti mi sembrò la gelosia fra donne, stranissimo e volgare il pettegolezzo della monaca Paolina, pestifera la discordia in una casa ermeticamente chiusa e non beneficata dagli influssi della rimanente umanità. Da quel primo sintomo di corruzione mi accorsi che avea da far con donne, le quali, benchè nobilissime per nascita, pur tuttavolta non avevano che l'educazione negativa delle loro proprie domestiche. Io aspettava la sera con ansietà per dare libero sfogo all'inquietudine che mi rodeva, credendo di avere una stanza tutta per me. Ma quale non fu la mia sorpresa nel vedere il mio letto collocato nella camera stessa della zia badessa, con al fianco un terzo letto destinato alla sua conversa! - Mi veniva pure intercettato il conforto della solitudine e delle lagrime! Mentre mia zia spogliavasi recitando delle preghiere sotto voce, io dovetti soffrire il tormentoso interrogatorio della converse. Questa donna, Angiola Maria di nome, aveva 32 anni in circa, era d'una costituzione ferrea, di voluminosa corporatura; tarlata dal vaiuolo, con bocca larghissima e denti neri; a questo insieme disgustevole aggiungeva, ora un riso agro e smodato, ora una cupa fissazione, con un rotar senza posa di due occhi squilibrati che sembravano pronti a balzare fuori dell'orbita. D'altronde scortese, disattenta colla mia vecchia zia, e molto petulante, allorchè questa interrompeva il suo eterno cicaleccio con un qualche rimbrotto. Finalmente si pose in letto, e prese sonno per lasciarmi sola coi miei tristi pensieri, sola nel mezzo d'un silenzio, da altro rumore non turbato che dall'isocrona battuta d'un orologio a pendolo. Io era di poco addormentata, vinta più dall'oppressione morale che dal sonno, quando sul far del giorno fui svegliata da Angiola Maria che voleva sapere da me se io voleva assistere alla prima o alla seconda messa. "Ormai sono desta," risposi traendo un sospiro: "assisterò a quella messa che piacerà a te." La conversa mi diè mano a vestirmi, non cessando sempre di ciarlare: poi, presami confidenzialmente per la mano, nel modo che è menato un cieco, mi fece scendere al comunichino, dove trovai riunite parecchie monache nell'atto d'ascoltare la messa e di comunicarsi. Alle 10 venne mia madre: la ritrovai assisa nel parlatorio. Al primo vederla proruppi in pianto stemperato. Le dissi essere infelicissima in un luogo, la cui inoperosa e stupida reclusione era, a parer mio, più insoffribile della stessa prigionia: tremendo martirio per me dover esser quello di convivere con gente non meno ignorante, che ineducata: che già parlavano di farmi monaca: ch'io presentiva di dover perdere la salute, com'era in procinto di perdere la libertà, dovendo dipendere finanche dal capriccio della conversa di mia zia, la quale mi voleva far alzare prima di giorno, per trattenermi un'ora in chiesa, esposta ad un freddo insopportabile, ad un disagio che m'avrebbe fatta prendere a noia la preghiera stessa. Stava per rispondermi la madre mia, quando entrò la portinaia, ed in seguito accorsero altre monache per salutarla. - Dopo di avere scambiati alcuni termini di cortesia, diss'ella di voler andare ad ascoltare la messa in san Lorenzo, e che più tardi sarebbe ritornata. Uscì dunque del parlatorio, ed io, attendendola, mi trattenni fuori del corridoio, immersa nel sentimento dell'abbandono, in cui slanciata mi aveva una dura fatalità. Scorse un'ora, un'ora e mezza, ne scorsero due, mentre io misurava a passi lenti il pavimento del corridoio, e frattanto non la vedeva ritornare. Dolente del suo ritardo, mi volsi alla portinaia, pregandola di mandare alla vicina chiesa di San Lorenzo una delle tante donne che se ne stavano oziose all'atrio del monastero, per sapere la ragione che impediva mia madre di ritornare. La portinaia, presami la mano, mi disse: "Abbi pazienza, cara mia.... per amore o per forza bisogna trangugiare questo calice...." "Di qual calice parli?" le chiesi spaventata, e col presentimento di qualche nuova sventura. "Ti dico che mia madre tarda a tornare, e vorrei conoscerne il perchè." "Inutilmente l'aspetti." "Perchè?" "Tua madre è già partita alla volta di Reggio." Se la portinaia non mi avesse sostenuta pel busto, sarei caduta in terra. Per lunga pezza restai pietrificata. Ben sapeva io che la madre doveva lasciarmi, ma perchè mai partiva l'indomani della mia chiusura? perchè partiva senza avvertirmene? I miei nervi, scossi già di troppo da tanti dispiaceri, non poterono resistere a quest'ultimo colpo. Fui assalita da convulsioni. Quand'ebbi ricuperati i sensi e riaperti gli occhi, mi vidi circondata da uno stuolo di monache, di converse, di educande, tutte straniere a me, tutte intente a pascere l'ozio, la curiosità, l'apatia, proprie alla loro condizione, nello spettacolo del mio abbattimento. Chi bisbigliava di qua, chi commentava di là, chi dell'altra parte componeva il viso al sarcasmo; non una sola di esse che mi volgesse un accento di sincera carità. Il medico Ronchi, che allora entrava nella porteria, essendo uno dei curanti della comunità, mi fece somministrare pronti rimedi. La febbre, che mi sopravvenne mi confinò in letto per più d'una settimana. Quando il destino è avverso, concatenate vengono le disgrazie. Di lì ad un mese incominciai a, persuadermi ch'era pur troppo reale anche l'abbandono di Domenico. Nutriva, sino allora in quel mio sepolcro la dolce speranza, non solamente di ricevere qualche sua lettera, ma, sì ancora di vederlo ritornato in Napoli, e farsi il mio liberatore. Se uguale al mio era l'affetto suo, se generosi sentimenti albergavano nel petto suo, se la voce dell'umanità gli favellava in cuore, se la reminiscenm della mia verace e costante devozione poteva nell'animo suo, più che il vile interesse, come avrebb'egli tollerato ch'io cadessi vittima, della giuratagli fedeltà? Quanta volte guardai dal coro della chiesa per vedere se vi era! Quanta volte dall'alto dei belvederi con febbrile ansietà slanciai lo sguardo in cerca di lui lungo le vie circonvicine! Spesso, delusa dalle sembianze, dall'andatura, dal vestiario di chi parevami che gli somigliasse, mi sentii in procinto di svenire, credendo che giunto fosse il momento del mio riscatto. Ma, ohimè! nè egli direttamente m'indirizzava due linee, nè mia madre nelle sue lettere mi faceva motto di lui. Vedeva di tratto in tratto Giuseppina, ma la presenza di questa diletta sorella, non faceva ogni volta che aumentare le cagioni del mio dolore. L'infiermità alla gamba, provocata, dalla caduta, erasi col cambiamento dello stato dichiarata incurabile, talchè, per muoversi, la misera era costretta di appuntellarsi alle gruccie. Veniva pur talvolta a porgermi pietoso conforto il generale Salluzzi, cui tributo figliale gratitudine. Gli altri parenti, l'amante, gli amici, non si rammentavano più dell'orfana. Sarebbesi detto che già un abisso mi separasse dal mondo intero, a dispetto de' concenti umani, che tuttora echeggiavano teneramente dentro l'animo mio. Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l'elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, per l'inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell'umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione. Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellammare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell'oscurità. Regnava, intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne' centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato. Non giungeva, all'udito mio che l'eco spirante delle popolari esultanze, siccome fragore di mare lontano. Una commozione novella m'invase: all'aria libera sotto l'immensa vôlta del firmamento mi sentii sola, è vero, come prima, ma non isolata. La voce del Signore m'appellava alla contemplazione della sua misericordia. Piegai il ginocchio a terra, giunsi le mani, sollevai al cielo le pupille bagnate di pianto, ed invocai l'aiuto dell'Onnipossente. "E che son io?" esclamai, rialzatami poscia e tergendo le lagrime; "che sono i miei patimenti in confronto a quelli della nazione cui appartengo? Se sotto il doppio giogo della temporale e della spirituale tirannide langue l'Italia intera, pretenderei io, atomo incalcolabile, io sola fra tanti milioni di oppressi, consumar la vita nei contenti e nella prosperità?"

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