Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Il codice della cortesia italiana

184520
Giuseppe Bortone 8 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
  • UNICT
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Però bisogna pur ammettere che la danza, specialmente la modernissima, è una grande occasione e maestra di seduzione; per cui non si raccomanda mai abbastanza di parteciparvi con assoluta onestà d'intenzioni e di propositi e di badare accuratissimamente agli ambienti in cui si va e alle persone con cui ci si troverà a contatto. Quanto ai primi, si sa che ce ne sono di privati e di pubblici, di popolari e di aristocratici; come ci sono inviti firmati da persone direttamente responsabili, e di quelli firmati da comitati e da enti piú o meno anonimi. Chi si assumerebbe la responsabilità per tutti coloro che intervengono a una festa pubblica? Purtroppo, una marsina può coprire tanto il gentiluomo quanto il mascalzone; né sono mascalzoni, sotto un certo punto di vista, soltanto quelli che non hanno a posto il certificato penale. Premessa questa raccomandazione - e dopo aver ricordato che la tenuta sarà quella richiesta dall'invito stesso, o dall'ambiente, dall'ora, dalla circostanza - ecco alcune buone norme da tenersi presenti: Chi non sa o non vuol ballare è meglio non intervenga; le signorine non portano i guanti; mentre gli uomini non li levano mai, durante il ballo: i guanti debbono essere candidi; nei balli pubblici non si invita a ballare una signorina a cui non si sia stati presentati: essa può, garbatamente rifiutarsi; si eviterà di dimenticare un invito fatto o ricevuto sebbene il grazioso libriccino, in cui si soleva prenderne nota, sia abolito; se non si sa ballar bene, è meglio risparmiare una brutta figura a una signora o a una signorina; per invitare a ballare, basta fare un inchino: se la signorina è con persone di famiglia, si chiede a queste il permesso; se è con altri a una tavola, si fa un inchino a tutti; se la signora è col marito, si chiede l'autorizzazione a lui; si eviteranno le coppie fisse; è prudente non fare anche due soli balli consecutivi con la stessa persona; grottesche le coppie fisse di coniugi; e un po' anche quelle di fidanzati; durante il ballo, non è scorretto parlare; ma si deve farlo con assoluta serietà; si devono evitare gli eccessi di allegria, gli atteggiamenti e gli abbandoni molli, le preziosità di movenze: badare piú che è possibile alla disciplina e alla compostezza del corpo, anche perché si è sotto gli sguardi indagatori di tutti; non si batte il tempo della musica, né la si rifà sottovoce; non è corretto invitar a ballare mentre si fuma; è scorrettissimo fumare mentre si balla; non si stringe troppo la compagna di ballo; è un po' prezioso, ma delicato, che i ballerini tengano la mano con la palma in fuori; comunque, la si tiene con le dita chiuse, non aperte a ventaglio; le signorine non s'incipriano durante il ballo, né si ravviano i capelli; la signorina appoggia la propria mano sul braccio non sulla spalla del compagno di ballo; una signora, una signorina possono andare sole al rinfresco; sole o accompagnate, non vi si indugeranno troppo; né abuseranno di liquori o di spumante; e accetteranno, se il rinfresco è a pagamento, che ve le accompagni soltanto un parente o un amico intimo; un ballerino accompagnerà al rinfresco una signora sconosciuta, soltanto nel caso che questa ne lo preghi; le signorine evitino di appartarsi con i ballerini sulle terrazze o nei vani delle finestre; una signora o signorina non permetterà la piú piccola indelicatezza; rifiuterà cortesemente un secondo ballo quando non è piaciuto il contegno del ballerino nel primo; non usa piú accompagnare la signorina al posto dove la si è andata ad invitare; è bello però farlo, inchinandosi anche ai familiari, ma non accompagnandovela al braccio; una signorina può presentare alle sue amiche quelli che hanno già ballato con lei. Come, poi, non è opportuno censurare il modo di danzare del ballerino, cosí non è opportuno perdersi in ammirazione di fronte alla sua arte « danzerina ». Le cosí dette « mattinate danzanti » durano dalle quattro alle otto. Le signorine ballano senza cappello: le madri lo tengono. È bene, nei balli di sera, non essere le ultime a lasciare la sala. Non posso dispensarmi, chiudendo questo argomento, dal raccomandare un po' di prudenza nei discorsi di alcune madri che accompagnano le figlie al ballo: « Che t'ha detto? ». « Gli hai fatto buona impressione ». « Questo sí che sarebbe un bel partito per te! ». « Cerca d'incoraggiarlo a dichiararsi! ». Comprendo la loro ansia e le loro preoccupazioni, specialmente se sono avanti negli anni e le note della serenata tardano a farsi udire; ma se sapessero quale turbamento questi discorsi possono determinare nell'animo delle figliuole!

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Questo modo di viaggiare non è ancora abbastanza diffuso, sia perché costa troppo, e sia perché molti mancano di coraggio. Alle signore sopra tutto si raccomanda di astenersene se non hanno il pieno dominio dei loro nervi, e se non hanno fatto almeno qualche piccolo volo di prova. Puntualità assoluta, trovandosi sul campo d'aviazione un po' prima dell'ora fissata per la partenza. Salire e prender posto nell'apparecchio soltanto quando si è autorizzati, e conservando il posto che non a caso è stato assegnato. E poiché lo spazio è piuttosto ristretto, sforzarsi di essere piú ch'è possibile discreti. I viaggiatori non debbono di propria iniziativa aprire porte e sportelli, né debbono gettare alcun che dai finestrini. Data la delicatezza delle manovre, ciascuno deve attenersi scrupolosamente alle prescrizioni, evitando specialmente ciò che possa provocare scosse improvvise o troppo forti all'apparecchio. Per l'acconciatura e per il vestiario, evitare tutto ciò che possa offrir presa al vento. Essendo, poi, impossibile, o quasi, la conversazione, a causa del frastuono dei motori, chi abbia bisogno di distrarsi porti con sé qualcosa di particolarmente interessante da leggere. E se dovessero verificarsi inconvenienti di stomaco, tener presenti le raccomandazioni per i viaggi per mare, servendosi, secondo le prescrizioni, dello speciale ricettacolo (col c, non col g!).

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Già: si balla anche in montagna; per quanto piú moderatamente che altrove, perché le gambe si sono abbastanza esercitate durante la giornata. Lo svago preferito è quello delle escursioni a piedi: dove gli uomini indossano un dignitoso e comodo vestito sportivo, con scarpe solide; chiodate, e bastone ferrato. Aboliti i guanti, il cappello, la veletta. Graziosissimi, per le brevi gite nei prati e nei boschi, i vestiti di cretonne a tinte vivaci, e quelli che hanno qualche simpatica nota di colore locale; né meno graziosi i vivaci fazzoletti sul capo, annodati sotto il mento o dietro la nuca. Chi organizza le escursioni deve evitare le dimenticanze e le esclusioni ingiustificate. E chi vi partecipa sia di buon umore, e allontani tutti quei piccoli « casi » che possano turbare l'allegria della comitiva, o che si possano prestare a commenti poco benevoli degli altri gitanti. Se si porta il sacco a spalla, qualche signora stanca potrà gradire, ma non chiederà di esser aiutata ; le difficoltà dell'escursione e le proprie forze vanno esaminate e valutate prima; tanto piú che, se il moto - in montagna specialmente - fa bene, lo strapazzo nuoce; senza dire che, quando si è affaticati, non si vede né si gusta piú nulla; e si diminuisce, con la propria stanchezza, la gioia di tutta la comitiva. I rifugi senza guardiani sono affidati alla buona educazione degli escursionisti, i quali li debbono lasciare come li desidererebbero trovare. In costume escursionistico si può girare per le sale dell'albergo; non in tutte, però, né, come ho detto, in tutte le ore. La quota di partecipazione si paga non piú tardi del giorno successivo: la delicatezza impone che le signore, come sono state riservate nell'accettare qualcosa loro offerta, cosí sieno piú puntuali anche degli uomini a pagare la loro quota. Uno degli inconvenienti piú frequenti della villeggiatura in montagna è il maltempo: e allora son dolori, perché bisogna restarsene tappati in casa. Fioriscono in queste occasioni, specialmente se si è in albergo, i cosí detti « giochi di società ». Se, per vincere la noia -e non avendo di meglio da fare - volete sforzarvi di prendervi gusto, fatelo pure; ma sarà bene non prenderne l'iniziativa, perché tali giochi, per lo piú, o trascendono i limiti della convenienza o sono infinitamente idioti. Ecco perché, in un angolino della valigia, dovrebbe « sempre » trovar posto qualche buon libro.

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Se egli gentilmente vi ringrazia e vi dice che la parte di dolce che ha avuta gli basta, potete essere sicuri che mentisce; se non vuol mentire, dirà che non ne avrà mai abbastanza! Le impressioni che egli riceve, e alle quali con bella spontaneità ubbidisce, sono, generalmente, sensorie e, di conseguenza, superficiali: d'onde la necessità urgente di sviluppare la riflessione e di creare, cosi, nuove abitudini. Se parlate con uno studente - e, purtroppo, non soltanto delle prime classi! - egli vi dice, e con convinzione, che qualche sua sconfitta scolastica è dovuta ad antipatia dell'insegnante. Ora, questo dell'antipatia, come quello del suo contrario, è un fatto umano, spiegabilissimo; ma non definibile alla maniera dello studente. Se questo è poco rispettoso, arrogante, sopraffattore, molesto, svogliato, si capisce che è trattato « meno benevolmente » d'un altro che sia cortese, buono, modesto, diligente. A parità di condizioni intellettuali, - ed è giusto che sia - negativo il giudizio sul primo; positivo il giudizio sull'altro. Ond'è che lo studente, quando ha sviluppata la capacità riflessiva, invece di accusare l'insegnante di parzialità, si domanda perché non riesce a lui, se cosí vuol dirsi, simpatico. E allora, forse, trova che egli va a scuola poco pulito o poco ordinato nella persona e nelle cose: che, interrogato o ammonito, risponde con una spallucciata; che fa spesso dello spirito a carico dei compagni e, talora, anche dell'insegnante; che non sta attento e dà noia durante le lezioni. E il peggio non è tutto qui: il peggio sta nel fatto che, molto spesso, i genitori, con tanto di « povero Cocco! » di qua e « povero Tesorino! » di là, finiscono col dar ragione al Cocco e al Tesorino, e col pigliarsela essi pure con l'insegnante. Ma, di grazia, cotesti signori genitori non pensano che essi, implicitamente, hanno affidato agl'insegnanti il compito di educare e di istruire i propri figlioli? Ed è logico ed è onesto che essi medesimi screditino quelli presso di questi, o ne sminuiscano comunque la dignità e il prestigio? Gli studenti facciano, per quanto è possibile, quel che si richiede da loro, e si accorgeranno che le simpatie e le antipatie, le parzialità, le ingiustizie altro non sono che loro false impressioni o errate interpretazioni. Ho detto « per quanto è possibile », perché anche gl'insegnanti capiscono - certo, qual piú qual meno - che, in un periodo della vita in cui ogni cellula dell'organismo cresce e si moltiplica intensamente e incessantemente, sarebbe assurdo pretendere l'immobilità assoluta, l'assoluto silenzio, l'attenzione indefinitamente prolungata. C'è differenza fra gravità e serietà; e, mentre sarebbe balordo pretendere da ragazzi « sani » e «intelligenti » la gravità, si ha il diritto e il dovere - di pretender da loro almeno un certo grado di serietà! Ecco, dunque, la linea di massima che lo studente bene educato deve tenere: Contegno dignitoso tanto all'entrata nella scuola, quanto all'uscita; si salutano tutti gl'insegnanti, non s oltanto i propri; non si siede se non quando si è seduto l'insegnante; non si risponde con i monosillabi «si» e no », né si chiamano gl'insegnanti col loro solo cognome; non si sciupa in qualsiasi maniera l'arredamento scolastico o il materiale didattico; non si fanno atti che possano destare l'ilarità; non si ricorre a bugie e a sotterfugi per giustificare la propria impreparazione, né si copiano i lavori scolastici dai compagni; i quaderni puliti e i cómpiti scritti in modo leggibile; mancanza grave alterare il proprio diario, gravissima alterare la pagella o il diario di classe; non si deve suggerite, né invitare i compagni a farlo; si deve star comodi, ma composti, né si debbono disturbare gli altri; esser gentili, generosi, solidali con i compagni, ma solidali nel bene, non nelle marachelle; non si fa gli schifiltosi, come non si vantano le proprie ricchezze: nella scuola, tutti sono uguali, e il maggior merito dipende esclusivamente dal far meglio; non si prende a volo uno sbaglio che può essere sfuggito inavvertitamente all'insegnante, per ridere e farne ridere; né si riferisce fuori di scuola, inesattamente, quel che può esser stato detto nella scuola; né si denunziano sistematicamente i compagni. Non si gettano carte, né s'imbrattano comunque le aule. Si trattano con gentilezza i bidelli. Lo spreco della carta è una delle cose che gli scolari debbono evitare con la massima cura. Pensino che, raccogliendo quotidianamente i rifiuti di carta in tutte le scuole d'Italia, se ne mettono insieme parecchie tonnellate: il che equivale a un risparmio quotidiano di diecine di migliaia di lire del patrimonio nazionale. Dalla scuola, la bella abitudine si porterebbe in casa; dalla carta, si passerebbe ai rifiuti di ferro, di vetro, di legno, di stoffa; sí che, imparando a metter da parte qualsiasi avanzo, i nostri scolari potrebbero compiere una grande opera patriottica. Ugualmente, nel fornirsi del necessario - matite, gomme, pennini, colori, compassi, ecc. - dovrebbero dare la preferenza assoluta a prodotti nazionali, tenendo presente che ogni risparmio nell'interesse dell'erario e risparmio nell'interesse proprio. Quanto all'attenzione, è interesse dell'alunno prestarne piú che può, perché quanto si sta attenti a scuola, tanto meno s'ha da studiare a casa, pur senza dire che non è certo segno di buona educazione distratti, o attendere ad altro mentre l'insegnante spiega. Quindi, non si chiede sistematicamente di uscire, col pretesto di bisogni inesistenti, e dimostrandosi o svogliati o annoiati o malati, o comunque incapaci di comandare al proprio organismo. Il ragazzo bene educato provvede ai propri bisogni prima d'uscir di casa; e ragazzi sani debbono poter stare alcune ore senza sentir bisogni; come, del resto, stanno al cinema. Un vezzo, poi, e sommamente riprovevole - per quanto fin troppo frequente: quello di servirsi, talora dei muri, piú spesso delle carte murali, come di vere e proprie lavagne su cui si può vedere tutta una serie di botte e risposte di ragazzi... di spirito: ma non di tanto spirito da sottoscrivere! - È uno sconcio che basta da solo ad infamare un istituto. Tale sconcio è divenuto ormai generale, sí che non c'è palmo di muro, non c'è uscio - nelle città e nei villaggi - su cui non si vedano scritte col gesso, e talora addirittura con la vernice, le cose piú insulse o piú oscene. - Gl'insegnanti, specialmente elementari, dovrebbero fare una crociata contro questa pessima abitudine che ci infama di fronte agli stranieri e di fronte a noi stessi. Se la classe è mista, grande cortesia e vivo spirito di cameratismo, ma nessuna dimestichezza; gli alunni dànno prova di signorilità non chiamando mai le compagne per cognome soltanto; e queste dànno prova di serietà esigendo rispetto dai compagni, non presentandosi a scuola acconciate come per un ballo e, sopra tutto, non adoperando nella scuola il loro « armamentario - che è, spesso, rigatteria - di bellezza ». Finita la lezione, nessuno si alza prima dell'insegnante, e nessuno esce se non è uscito lui. Nelle scuole primarie d'America vien fatto pronunziare agli alunni il seguente giuramento civile: « Prometto di non danneggiare alberi o aiuole; di non sputare nelle carrozze pubbliche, nelle aule della scuola, in qualsiasi altro pubblico edifizio e né pure sulla via. M'impegno a non danneggiare o insudiciare alcun edifizio. Non getterò mai pezzi di carta o altri rifiuti nelle aule scolastiche o nei luoghi pubblici. Userò sempre e con tutti modi cortesi. Proteggerò gli uccelli. Proteggerò la proprietà degli altri come vorrei che fosse protetta la mia. Prometto di essere un cittadino sincero e leale ». Anche in molte nostre scuole c'era l'uso - non so se ci sia ancora - di un « premio di pulizia », di un «premio di gentilezza »: uso, a mio giudizio, lodevolissimo; giacché, se si premia in tanti modi la dote - interessata - della diligenza, non si capisce perché non si dovrebbero premiare altre doti, specialmente le piú disinteressate. Ho veduto in molte scolette di campagna rinnovati a gara, ogni giorno, i fiori silvestri sulla cattedra della giovine maestra, e ci commovemmo quanti assistevamo a una festicciola in una di tali scolette, vedendo a un posto vuoto... un gran mazzo di fiori, messo li spontaneamente dalle piccole compagne dell'assente. Gli scolari, poi, d'America giurano di proteggere gli uccelli: e perchè non gli altri animali? Suppongo si sappia che, da qualche anno, in tutto il mondo civile, v'è una giornata - il 4 di ottobre - consacrata alla propaganda in favore degli animali. Data sapientemente scelta, perché coincide con la festa del Santo d'Assisi, il quale viveva in mezzo agli animali, ne comprendeva il linguaggio e fu il loro piú fervente amico e protettore. Quanto allo studio e al profitto, non debbono dimenticare gli studenti che a scuola si va non per carpire con qualsiasi mezzo buono o cattivo, un voto, né pensando soltanto all'esame: a scuola si va per progredire ogni giorno nell'acquisto delle cognizioni, per formarsi una cultura, per prepararsi alla vita. Chi ci va con questo intento, diventa, senza accorgersene, ogni giorno piú abile e piú maturo, ed è sempre preparato e pronto agli esami; chi, invece, ci va soltanto per gli esami, il piú delle volte, fallisce e agli esami e alle altre prove, tanto piú ardue, della vita. Posso infine affermare, sulla scorta di una piú che sufficiente dose di esperienza - e se lo piantino bene in mente i candidati d'ogni ordine e grado! - che, molto spesso, anche l'esito degli esami dipende dalla loro dose maggiore o minore di garbo e di cortesia. Presentarsi male; buttarsi subito a sedere; accavallare le gambe; puntare i gomiti sul tavolo; qualche spallucciata; qualche atto d'impazienza; qualche secco « non è cosi! »...; si sommi tutto questo, e mi si sappia dire se anche l'esaminatore piú generoso può esser disposto benevolmente.

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Colpa, in gran parte, dei nostri sistemi educativi, anche i piú moderni, che non mirano ancora a una educazione gioiosa »: essi non dànno una parte abbastanza larga alla libertà e alla spontaneità; non suscitano sufficientemente l'interesse; non insegnano, in una parola, a conquistare e ad amare la vita. E tutto è lí: mettere della vita sana nel proprio insegnamento significa mettervi della gioia, gioia per il maestro e gioia per gli alunni. Chi ci si offre per essere educato che altro ci chiede se non d'insegnargli il modo migliore di aprirsi e di espandersi? E il raggio benefico che fa sbocciare questi teneri fiori umani è appunto il sorriso consapevole e cordiale: un insegnamento povero e scialbo; un umore tetro; un tono impaziente ed amaro fanno si ch'essi si chiudano in se stessi e sfuggano all'opera educativa. « Non s'impara che divertendosi. L'arte d'insegnare non è altro che l'arte di svegliare la curiosità per soddisfarla poi; e la curiosità non è viva e sana che negli spiriti felici ». Parlare, nella scuola, di serenità, di fiducia, di gioia non vuol dire fermarsi alle superficialità, perché altro è esser persona gioiosa e altro, invece, esser persona spensierata, superficiale. Ciò a cui si deve mirare, e che si deve ottenere, è che chi si affaccia alla vita non pensi di esser destinato all'infelicità perpetua, ma veda la via aperta e soleggiata davanti a sé, bella, in ogni caso, anche nelle sue ombre. Insegnare ad amare la vita significa, in fondo, insegnare ad amare il pensiero, il sentimento, l'azione; ossia tre meravigliose sorgenti di gioia che ci attaccano all'esistenza. Si prende gusto alla vita in misura proporzionale al senso di pienezza che l'accompagna: a mano a mano che tale senso diminuisce, la vita si scolora e s'intristisce. Per ogni attività che si perde, si producono dei vuoti nella vita interiore: se altre attività non sopraggiungono a sostituire quelle perdute, i vuoti si allargano e si approfondiscono, fin che s'inabissa in essi tutta la vita. Questo il fosco processo negativo, contro cui la scuola dovrebbe appuntare le proprie armi piú efficaci. Prima cura, quindi, dell'educatore sapiente dovrebbe essere di insegnare in laetitia: chi apre le anime alla bellezza dovrebbe esser sempre sereno e sorridente, felice della gioia che spande intorno a sé e del bene che fa: l'educazione - tanto quella che si dà a se stessi, quanto quella che si distribuisce agli altri - è una delle gioie piú grandi e piú pure della vita! Gioia negata a coloro i quali non aspirano che a dare delle nozioni, attuando solamente la parte meno importante e meno nobile del loro ufficio; mentre quel che bisogna, prima di tutto e sopra tutto, comunicare è una fede attiva e fattiva, l'ardore spirituale, la fiamma misteriosa accesa ed alimentata in sé da un ideale di verità, di virtú e di bellezza. L'insegnare è una prova eroica, un compito sacro di elevazione, il quale, piú che dagli studi di pedagogia, trae il suo alimento da ciò che di piú profondamente vivo ciascuna anima porta in sé. Se l'educazione è preparazione di vita, e ciascuno si augura, desidera e vuole vivere meglio che può, è chiaro che l'educazione non è tale se non comincia dal dare il gusto, il piacere della vita. Si capisce che questo insegnamento non possa trovar posto nei programmi ufficiali, per quanto ottima cosa sarebbe che un posticino ve lo trovasse; ma se ogni insegnante esamina i suoi ricordi piú o meno lontani, trova in se stesso l'indicazione e il comandamento; perché i suoi ricordi migliori son proprio quelli congiunti a una maggior dose di serenità e di gioia saputa dare a lui da chi lo educò durante l'infanzia. Dopo tante definizioni date dell'educazione, la piú saggia rimane sempre quella del grande Montaigne: « l'arte d'insegnare la vita ai fanciulli nella gioia ». Se volete esser felici, cominciate dall'avvicinarvi piú che potete alla natura, ed insegnate a quelli che vi sono affidati ad amare, prima di tutto e al di sopra di tutto, la natura, sorgente inesauribile di gioia. Essa ha una lieta voce materna per tutti: per alcuni, nel soffio del vento e nello stormire delle foglie, nei silenzi divini dei ghiacciai e nei misteri suggestivi delle foreste; per altri, nelle vette vertiginose delle montagne e nel flusso e riflusso dell'oceano, o nei prati fioriti a primavera e negli spazi infiniti del cielo stellato.... Pare retorica e sentimentalismo questo; ma, se voi avete mai avvicinato un « uomo del mare » o « un uomo dei monti », vi siete subito accorti che essi hanno una visione della vita molto serena; troppo piú serena di quella che avete voi, povere creature annegate nei rumori, nelle ansie, nelle ipocrisie della infernale vita cittadina. La scuola cesserà di essere quello strumento di tortura che è, il giorno in cui non avrà piú pareti, e le lezioni si svolgeranno all'aria aperta, nella piena luce del sole, sotto la volta serena e rasserenante del cielo. Un illustre antropologo, esaminando la vita dei piú grandi criminali, non ha trovato nella loro infanzia il lampo d'un sorriso: d'onde un progressivo intristimento, un vago rancore contro tutti e contro tutto; in fine, quasi il sinistro bisogno di compiere contro la società una vendetta feroce della propria vita senza tenerezze e senza gioie. Non è esagerato affermare che il bimbo triste di oggi sarà il tristo uomo di domani. L'espressione piú naturale, istintiva, dell'infanzia è il riso: un bimbo che non rida non è aperto, né fiducioso. Egli è necessariamente taciturno, irrequieto, sversato; sí che, alla piú piccola contrarietà, al piú piccolo rimprovero, diverrà musone e aggressivo. E siccome gli avvertimenti e i rimproveri si contano a centinaia nel corso d'un anno; e siccome il bimbo, nel suo interesse, dev'essere, purtroppo, rattristato dai genitori o dai maestri, se egli non ha una grande riserva di gaiezza, passerà una infanzia desolata: ciò che rappresenta, per lui, la cosa piú nefasta che si possa immaginare. È forse possibile concepire un bimbo che non rida mai? Nell'infanzia, il riso è piú salutare delle cosí dette cure ricostituenti. In quanto fattore di una buona educazione, esso è veramente necessario e insostituibile: dilata il cuore, apre lo spirito, distende l'organismo, predispone alla mitezza del carattere, alla disciplina degli organi servitori. La passività fisica, invece, incoraggia la passività morale; si dice spesso: « Resta lí come un ciocco, come un muro »; queste parole sono la rappresentazione esatta della situazione e dimostrano la verità di quel che dico. Quando il fanciullo si isola e si chiude in se stesso, rimane in una pericolosa compagnia: morde il freno, medita disegni di vendetta e si accinge alle rappresaglie. Un'ora di musoneria gli nuoce piú che non gli gioverebbero i buoni esempi di una intera settimana. La gioia, dunque, conserva la salute dei bimbi, fortificando l'organismo e impedendogli di sentire la fatica. Ma la gaiezza rappresenta, sopra tutto, la salute morale dell'anima infantile: essa la tiene in una dolce serenità e in una tranquillità sommamente benefica. piú un cuore è dilatato dalla gioia - e questo non nell'infanzia soltanto! - piú vi è posto per la bontà e per la tenerezza. Come può un educatore ignorar questo o non tenerne grandissimo conto? Né mi si rimproveri d'essermi indugiato un po' troppo sull'argomento: mi è parso doveroso anche perché, non ostante le molte cure da noi dedicate alla Scuola, non ancora si è fatto abbastanza per quel che si riferisce alla « gioia nell'insegnamento ». Dopo tutto, si tratta della « salute spirituale e della razza, non meno importante di quella fisica; ed anche in questo campo, non bisogna esser secondi a nessuno! Io, che seguo da vicino la evoluzione delle istituzioni scolastiche in tutti i Paesi, ho constatato che, sotto questo punto di vista, noi lasciamo ancora a desiderare; tanto che, si può dire, non abbiamo pubblicazioni sull'argomento, né vi sono esplicite e rigorose raccomandazioni governative al riguardo. Recentemente, il governo olandese ha inviato negli Stati Uniti una commissione per studiare se, nelle scuole americane, i bimbi sono piú felici di quelli europei nelle proprie scuole. La relazione è stata pubblicata recentemente, e merita di esser conosciuta e meditata; né soltanto per la larga messe di profonde osservazioni fatte nei differenti tipi di scuole di quarantotto Stati americani - dove, com'è noto, non esistono sistemi nazionali di educazione - ma anche per il raffronto fatto con le scuole di altri Paesi orientali ed occidentali. Di modo che, come dicevo, da nulla le norme che regolano il vivere cortese, generoso, buono zampillano cosí spontaneamente come da una concezione di vita equilibrata, serena, feconda, felice: concezione che si dà e si apprende specialmente nella scuola.

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La visita era appena cominciata, con la guida del rettore, quando la visitatrice si fermò, dicendo di aver veduto abbastanza. Abbastanza per recedere dal suo proposito: aveva veduto ad alcune porte lo spioncino... La maggior parte dei giovani convittori non s'è, forse, mai chiesto perché sia in convitto; o, pur sapendolo, molto spesso lo dimentica: essi si trovano in convitto, per esservi «istruiti ed educati »; anzi, educati prima, poi istruiti; perché, senza uomini dotti, la società civile si potrebbe reggere ancora; andrebbe, invece, in rovina senza uomini educati, senza gentiluomini. Chi tenga costantemente presente questo fine, e ad esso conformi la propria condotta, non può che trovarsi bene, e finir meglio. Certo che, data l'età e dato il bisogno, nella prima giovinezza, di moto e di libertà, la vita « regolata » del convitto riesce un po' pesante; ma bisogna pur ricordare che nulla, per lo piú, diede la vita ai mortali senza lavoro e senza qualche sacrifizio. E bisogna ricordare altresí, piaccia o non piaccia, che la pianta si piega e si adatta quando è tenera ; non si piega né si adatta piú quando è sviluppata e cresciuta; e che noi siamo, da uomini, quali fummo formati e plasmati da fanciulli. D'onde la necessità assoluta di sottostare a una regola, di ubbidire a una disciplina, di conformarsi, cioè, a tutto quello che esiste al mondo, perché nulla esiste al mondo che non abbia una sua legge e ad essa non ubbidisca. Chi si guardi intorno con occhio sapiente osserva l'ordine e l'armonia da per tutto; e ordine e armonia significano disciplina. Nulla è impossibile, nessuna mèta è irraggiungibile per l'uomo disciplinato; mentre tutto è incerto, tutto in balía del caso per l'uomo che non abbia saputo o voluto disciplinarsi. Ciò premesso, ne consegue che la disciplina non è una norma astratta, fuori della vita; ma quasi una linea di condotta perfettamente e costantemente aderente alla vita; una regola che non è fuori di noi, ma deve essere un nostro proposito fermo; anzi, piú che proposito, un sentimento profondo, che domini ogni nostro atto, si sia o non si sia osservati, ci sia o non ci sia una sanzione. Diversamente, la disciplina sarebbe null'altro che finzione, contraffazione, ipocrisia. Né essa si discute: è un principio che obbliga tutti; e tutti ugualmente; e da chiunque rappresentato: « è cosi, perché è cosí»; « questo si fa o non si fa, perché si deve o non si deve fare! ». La vita interna. È regolata, si può dire, ora per ora, e quasi minuto per minuto. C'è il tempo fissato per il riposo, per lo studio, per la ricreazione, e a nessuno dev'esser lecito protrarlo o accorciarlo secondo il proprio gusto: si pensi a quel che accadrebbe, se ciascuno facesse a suo piacere! Quindi, i vari segnali obbligano tutti, e immediatamente; l'ubbidienza « immediata » ai segnali è il fondamento della disciplina interna ; e non della interna soltanto, ma anche della interiore. È assolutamente errata l'osservazione che questa violenza fatta alla volontà dà poco buoni risultati, perché impone lo studio quando si preferisce la ricreazione, e il riposo quando si preferirebbe lo studio. Si confonde la « violenza » con l'« educazione » della volontà; educazione che, come ho detto, è la base di ogni successo e di ogni benessere della vita. E poi, sarebbe in parte vera, quando si trattasse di volontà consapevole, non di volontà giovanile, quasi ancora istintiva, la quale si capisce che preferirebbe il gioco allo studio, il letto alla scuola. Il convittore deve, dunque, tener presente che, mentre gli altri giovani della sua età sono educati in famiglia - in una società, cioè, molto ristretta - egli viene educato - e, a mio giudizio, per sua fortuna - in una società piú ampia, dove piú presto si sviluppano e si apprendono le nozioni di dovere e di diritto; dove non vi sono le condiscendenze parentali, che talora guastano l'opera educativa; dove, in fine, si sviluppa piú presto il senso della responsabilità - che è il piú grave e il piú importante della vita - essendo affidato al contegno del convittore il prestigio, la dignità, il buon nome non soltanto suo e della sua famiglia, ma anche della istituzione a cui egli appartiene. Pertanto, le norme della cortesia avanti esposte valgono per lui come per tutti; però s'impongono, per cosí dire, al convittore pin strettamente che agli altri. Un giovinetto che vada in giro con le scarpe polverose, con la giacca frittellosa, con dei bottoni pendenti o addirittura mancanti, può anche non esser notato o, al piú al piú, sarà sfavorevolmente giudicato, per quanto sconosciuto; se nelle medesime condizioni si trovasse un convittore, l'identificazione è presto fatta; e il nostro prossimo - disposto, per lo piú, a sentenziare all'ingrosso e poco benevolmente - da un convittore disordinato, giudica male il convitto; e il discredito ricade fatalmente dal convitto su tutti i convittori. Io conosco tanti i quali, pur alla distanza di decenni, si vantano d'essere stati educati in questo o in quel convitto: in convitti si capisce, che godevano e godono eccellente reputazione. Quindi, prima dote di un buon convittore dev'essere l'ordine; e ripeto qui che l'ordine non riguarda soltanto l'esteriore, ma tutte le nostre attività, tutti i nostri aspetti, dai piú effimeri ed apparenti ai piú spirituali e profondi: l'ordine, in una parola, è il primo passo per la educazione della volontà. Osservando come un convittore lascia il suo posto nel dormitorio o nello studio, come lascia la cameretta, come cura la tenuta, come sta a scuola, come partecipa ai giochi, si nota subito se egli è « ordinato ». È opportuno scendere a qualche particolare: Nel dormitorio, si rimane solamente nelle ore destinate al sonno, salvo che non sia altrimenti stabilito. Durante la notte, non si fanno cose che possano, comunque, disturbare il riposo degli altri. Le operazioni dello svestirsi, del vestirsi, della pulizia vanno eseguite con decenza e con sveltezza; beninteso che la sveltezza non deve giustificare la benché minima trascuratezza. La cameretta va tenuta pulita e ordinata, con ogni cosa al suo posto. Non si ricevono compagni nelle ore, o nelle maniere vietate; né vi si fa qualsiasi altra cosa non consentita dal regolamento interno. Non si fuma; né si tengono cose mangerecce che emanino odori sgradevoli, vini o liquori. È anche prudente non prepararsi il caffè con le enormi macchine a spirito, sia per lo sgradevole odore che questo lascia, sia per i pericoli che tali macchine presentano. Alla preghiera del mattino e della sera, si partecipa con la massima serietà; e con serietà non minore si partecipa al rito dell' alzabandiera. È il modo migliore di cominciar la propria giornata questo d'innalzare il pensiero a Dio e alla Patria. E si tenga presente che, presso alcuni popoli - l'americano, per esempio - piú grave castigo che si possa infliggere a un convittore o a uno scolaro è quello di escluderlo dal saluto collettivo alla bandiera! A studio: ci sono, si sa, quelli che studiano di piú e quelli che studiano di meno: quelli che evitano ogni distrazione, e quelli per i quali ogni occasione è buona per distrarsi. I primi hanno diritto a non essere in alcun modo disturbati; mentre il dovere dello studio dovrebbe esser sentito da tutti indistintamente. Studiar poco significa far brutta figura a scuola e in convitto; significa procurar noie - e dolore - alle famiglie, ai superiori e a se stessi; significa, quindi, scarsa sensibilità, scarso amor proprio. E che di buono si può attendere da un giovinetto che non abbia « amor proprio »? I convittori poco diligenti pensano mai alla vergogna, quasi alla tragedia e al lutto, del loro ritorno in famiglia: ritorno che dovrebbe, invece, essere una gioia per tutti? Anche i fratelli, anche le sorelline, che aspettano a braccia aperte chi ritorna vittorioso esprimono, con la loro accoglienza fredda, il proprio risentimento per l'ingratitudine dimostrata verso i genitori, per il dolore loro procurato, per le piccole bugie che si dovran dire, arrossendo, ai parenti e agli amici. E le vacanze? Si aspettano per lunghi dieci mesi; e poi quei giorni che sarebber dovuti essere di spensieratezza e di svago si convertiranno in giorni di preoccupazione, di amarezza, di tormento. C'è, è vero, chi non disturba gli altri durante le ore di studio perché dorme, o legge libri di viaggi e di avventure; ma costoro non sono meno riprovevoli; appunto perché dormono o leggono, invece di studiare; ossia perché non compiono il loro dovere e ingannano i genitori, i superiori e se stessi; se stessi, sopra tutto. Prima, però, di denunziare i disturbatori, è bene avvertirli e riavvertirli amichevolmente. Il posto a studio dev'esser lasciato in ordine, come quello del dormitorio, come la cameretta: al suo posto, e sempre al medesimo posto, ogni libro, ogni quaderno, ogni oggetto da scrittoio. È il solo modo di non perder tempo per cercar questo e per cercar quell'altro, e di ubbidire prontamente ai segnali. Al refettorio: che si vada a tavola con eccellente appetito è, senza dubbio, ottima cosa; ma cosa non altrettanto ottima è lanciarsi come lupi sulla preda, dimenticando ogni regola fondamentale di buona educazione. È, anche qui, mancanza di amor proprio costringere il superiore presente a ricordare le norme del ben stare a tavola. A chi può far piacere questo? Perciò, è indispensabile tener presenti le norme indicate, e attenervisi scrupolosamente. C'e anche da fare qualche raccomandazione in piú: siccome le tavole sono lunghe, e, spesso, accostate alle pareti, non precipitarsi al proprio posto, ma attendere che sieno prima entrati coloro che stanno dalla parte opposta a quella d'onde si entra. Se si legge qualche cosa, non disturbare; evitando sopra tutto, e in ogni, caso, di produrre, con i piatti o con la posata, quel frastuono che è caratteristico delle osterie d'infimo ordine. Poiché i commensali sono numerosi e gli ambienti non sempre vasti, è assolutamente necessario parlare sottovoce e non produrre rumore con le sedie, sia nel sedere a tavola, sia nell'alzarsi. Se si va a tavola con la tenuta di parata, e la minestra è brodosa, è lecito - ma soltanto eccezionalmente e ai piú piccini - di fermare il tovagliolo al colletto o fra i bottoni della giubba. Per qualsiasi reclamo non brontolare contro i servitori, né richiamare l'attenzione dei compagni, o fare con loro sfavorevoli apprezzamenti, ma - a tempo e luogo opportuni - esporre le proprie ragioni ai superiori. A ricreazione: il moto, la gioia piacciono a tutti; per la gioventú, sono l'espressione della vita: chi, in questa bella e cara età, non « esplodesse » dimostrerebbe di essere ammalato nell'organismo e nell'anima. Ma, per carità, che non si somigli a tanti veltri che escan di catena! Est modus in rebus: ci vuole una misura in tutto; anche nel passare dalla noia e dalla fatica dello studio, al sollievo e al giubilo della ricreazione. Se qualcuno vuol continuare a studiare non deve essere molestato o deriso dagli altri. Come egli non può pretendere che si parli sottovoce o che non si suoni il grammofono, cosí gli altri debbono rispettare il suo desiderio. Quante volte si suol ripetere, con tono canzonatorio, la parola sgobbone! Si è illogici e crudeli senza, forse, saperlo; perché, per lo piú, si dà quell'epiteto a compagni di volontà tenace che intendono di riuscire ad ogni costo, o a compagni che non hanno da spendere per « sussidiari » o per ripetizioni. Nei giochi, il convittore deve dimostrarsi di modi particolarmente signorili, evitando ogni atto di volgarità, di violenza, di frode, di sopraffazione: non deve deridere i compagni che hanno perduto; e, se gli si fa qualche scherzo, bisogna che ci sappia stare, che non si dimostri permaloso, quando, beninteso, lo scherzo sia sobrio e non offensivo; quando, in altri termini, sia contenuto entro certi limiti. Chi non desidera che si scherzi con lui non deve scherzare con gli altri. Arrangiarsi: è una brutta parola, venutaci dal francese, e che sa di caserma. Nei convitti, la si ripete piuttosto spesso e, purtroppo, la si pratica anche. Essa vuol dire « provvedere nel modo piú spiccio e piú comodo ai propri casi ». E scomparso un libro dallo scaffalino? Si provvede subito, prendendo lo stesso libro a un altro: si è improvvisamente spezzata una stringa? La si sostituisce con una portata via a un compagno. Per l'alta considerazione in cui ho i convitti, mi limito ad accennare al libro e alla stringsa; ma, talora, l'arrangiarsi va al di là delle piccole cose. Or mi domando come si faccia a non capire che, se l'arrangiarsi è uno scherzo, uno scherzo di pessimo genere, assolutamente da evitarsi; e, se non è uno scherzo, è qualcosa che si avvicina di molto al furto. Francamente, il convittore bene educato non si arrangia; e se si accorge che altri lo fanno sistematicamente a suo danno, deve denunziare il fatto ai superiori. Per i lestofanti ci son altri convitti! E, sia detto una volta per sempre, in questo caso, come in altri di qualche gravità, non si tratta di « far la spia », ma di salvare le proprie cose dll'istinto razziatore di altri; si tratta di salvare il buon nome del convitto: non farlo significherebbe complicità. Al piú al piú, per eccesso di generosità, si può denunziare il fatto, tacendo il nome degli arrangiatori sistematici, lasciando ai superiori la cura di identificarli. A ripetizione: questo delle cosí dette ripetizioni è divenuto, un bisogno quasi generale. E non se ne capisce la ragione; perché, fino a qualche decennio addietro - e quando i programmi erano piú vasti e piú complessi - la scuola bastava a tutti, e si ricorreva alle lezioni private soltanto nel caso di scarsa intelligenza o quando si voleva guadagnare qualche anno. Ci pensino, dunque, i convittori, e facciano del loro meglio per risparmiare questa spesa alle famiglie. A ogni modo, se lo credono necessario o opportuno, prendano pure lezioni; però tengano presente che esse debbono servire a colmare eventuali lacune, a completare il lavoro scolastico; in nessun caso, si deve ricorrere all'insegnante privato per farsi preparare da lui i cómpiti di scuola. Se cosí si facesse, il maggior lavoro e la maggiore spesa, invece di giovare, si convertirebbe in danno, perché si eviterebbe lo sforzo, che è il piú sicuro e piú efficace maestro dell'apprendimento. E si tenga altresí presente che l'insegnante privato è un insegnante come tutti gli altri, a cui si deve il massimo rispetto, e che non si può far venire o non venire secondo che piaccia o non piaccia, secondo che se n'abbia o non se n'abbia bisogno. La corrispondenza: è bene sia ridotta al minimo indispensabile. È doveroso scrivere almeno una volta per settimana alla famiglia. Si dice sempre la verità; si conferma che si sta di buon animo in convitto o, per lo meno, che ci si sta non troppo malvolentieri; non si fanno apprezzamenti poco benevoli sul trattamento o sui superiori, dando, come si suol dire, corpo alle ombre, ossia presentando come andamento generale quel che può essere stato uno sporadico e trascurabile caso particolare; si comunicano le piccole soddisfazioni ed anche le piccole sconfitte; si fa cenno dei timori, delle speranze e, sopra tutto, dei buoni propositi. Le lettere si fanno partire nei modi prescritti: se si ricorre ad altri mezzi, vuol dire che si ha qualcosa da nascondere; qualcosa, cioè, che non risponde a verità o che non è consentita dalle norme disciplinari. La vita esterna. Mi par quasi superfluo ripetere che, quando si è fuori, non si è il signorino Tizio o il signorino Caio, ma si è « un convittore», « uno di questo o quel convitto », per cui, qualsiasi cosa si faccia, di bene o di male, non ridonda tanto a merito o demerito della persona, quanto a merito o demerito della qualità specifica che si riveste, della istituzione di cui si fa parte. A scuola: il convittore dev'esser modello di diligenza, di contegno, di ordine. Se, per nessun alunno, è scusabile che gli manchi un libro, un quaderno, un foglio, la penna, lo è ancor meno per il convittore ; perché il convittore, anche in questo, si deve sorvegliare ed esaminare scrupolosamente prima di avviarsi a scuola. E sono riprovevolissimi quei convittori che « si rifanno » nella scuola del silenzio e della disciplina dovuti mantenere in convitto; com'è colpa gravissima obbligare un insegnante o un Preside a lamentarsi col Rettore della negligenza, del contegno poco corretto, del disordine dei dipendenti. Con i compagni esterni, i rapporti di buon cameratismo, e non oltre: se la classe è mista, uno squisito tratto cavalleresco con l'elemento femminile, ma nessuna smanceria o cascamortaggine. E, quando le lezioni sono finite, poiché l'istitutore è già lí ad attendere, allontanarsi sollecitamente e ordinatamente con lui, senza indugiarsi, con futili pretesti, per i corridoi, e magari a bocca aperta, per veder passare « le ragazze ». È bene non dimenticar mai che altro è « affermare - ed orgogliosamente anche! - di appartenere a un convitto » ed altro è « far la figura del collegiale ». A passeggio. Mai si è cosí sotto gli sguardi di tutti come quando si è a passeggio. Fa piacere all'occhio e allo spirito vedere dei giovinetti eleganti, che incedano marzialmente, composti e disciplinati, senza la piú piccola sguaiataggine nella voce, nel riso, nel gesto; senza dar noia ai passanti; senza volger il capo in giro, come un arcolaio, quasi alla ricerca ansiosa di una persona che interessi. Specialmente per le vie della città, né pur ci dovrebbe essere bisogno della vigilanza dell'istitutore, poiché ogni convittore dovrebbe esser animato da tale un senso di responsabilità da non permettersi cosa alcuna che possa, in qualsiasi modo, compromettere la reputazione dell'Istituto. Al teatro, al cinema, ai trattenimenti pubblici: la solita raccomandazione: presentarsi irreprensibilmente; e sempre tenere un contegno irreprensibile; come se esclusivamente dal contegno proprio dipendessero il buon nome e il prestigio del convitto. Da osservare in piú che, ai convittori in tenuta di parata e « in corpo », non sono consentite alcune piccole libertà permesse ai singoli: come lo scegliersi o il cambiar posto; il portare o il cavarsi i guanti, ecc.: per questo, attenersi scrupolosamente agli ordini ricevuti; anche per risparmiare al superiore presente il poco gradito compito di dover fare dei richiami in pubblico. Alle gare: signorilità nei modi, lealtà nello spirito; e impegnarsi a fondo perché trionfi il gruppo al quale si appartiene. Qui, come altrove, ora come sempre, esser animato da quello che, in gergo militare, si chiama « spirito di corpo ». I superiori: sono quelli che, implicitamente, hanno ricevuto dalle famiglie il delicato incarico di sostituirle nella educazione dei figlioli. Quando s'è detto questo, s'è detto tutto; e il convittore che questo comprende - e sente- sa anche quale debba costantemente essere il suo contegno verso di loro. Tale contegno si compendia in poche parole: rispetto assoluto ; ubbidienza incondizionata ; fiducia illimitata! Il buon convittore dimostra il suo rispetto per i superiori non in presenza loro e nelle forme soltanto. Parla con loro modestamente, stando composto, senza arroganza o presunzione; s'interessa vivamente a ciò che essi dicono o raccomandano; non risponde alzando le spalle ; non ne sparla, né si associa a chi ne sparla; se si vede trattato da loro con familiarità, non ne abusa; ubbidisce ed eseguisce anche quando par errato o eccessivo ciò che gli si chiede; subisce rimproveri e punizioni, anche se sembrano ingiusti; farà valer dopo le sue ragioni, se ne ha. In una parola, s'adopera piú e meglio che può per guadagnarsi la loro stima e la loro benevolenza. Il Rettore: è il Capo del convitto; colui che provvede e sovraintende a tutto ; colui che risponde di tutto, e su cui, di conseguenza, gravano tutte le responsabilità. Egli vuol bene ai convittori come a figlioli proprii, s'interessa piú che può alla loro salute, e meglio che può ai loro studi, alla loro formazione, a gettar le basi del loro avvenire. Comprende i disagi e i piccoli sacrifizi di ciascuno e ricorre a ogni mezzo e a ogni modo per attenuarli, per tener su lo spirito, per incoraggiare. E se, talora, par ch'egli prenda cura di alcuni piú che di altri, ciò dipende dal fatto che quelli hanno saputo, come poc'anzi ho detto, guadagnarsi piú degli altri la sua stima e la sua benevolenza, o perché dimostrano di aver maggior bisogno di sprone e di aiuto. Il che accade dovunque: ed è spiegabilissimo; ed è giusto - e doveroso - che, da un superiore, non si trattino alla stessa maniera quelli che fanno bene e quelli che fanno male. Invece, dunque, di mormorare, come spesso accade, meglio è mettersi in condizioni di farsi apprezzare e benvolere. Qualche volta - per fortuna, raramente! - il Rettore è costretto a mostrarsi un po' « duro ». È costretto, dico; perché ha anche lui una norma a cui sottostare, e piú rigorosa di quelle dei convittori; perché la vita e la dignità dell'istituto sono al di sopra del piccolo e povero interesse individuale e privato. Se nota, per es., una... pecora zoppa, egli, in quanto uomo, può anche compatirla; ma, come capo di un Istituto di educazione, deve energicamente cercar di guarirla ; e se nota un ramo insensibile e morto, deve inesorabilmente tagliarlo. Ciò può anche dispiacergli; anzi, si può esser sicuri che gli dispiace senz'altro; però, ripeto, nell'interesse della collettività, è suo stretto dovere farlo. Il Rettore, dunque, vive della vita di tutti, e singoli, i convittori - è quella la sua famiglia: - egli è accanto a loro, in mezzo a loro, anche quando ne è lontano; il suo spirito, vigilante e paterno, si sente da per tutto, a tutte le ore. Dato ciò, come non aver fiducia in lui, non rispettarlo, non volergli bene? Un convittore mi confessava candidamente d'aver conosciuto parecchi Rettori, ma nessuno piú severo del babbo. Il Vice-Rettore. Poiché il Rettore deve attendere a tutte le esigenze della vita del convitto, è giusto che, in qualcuna di esse, sia sostituito da un Vice-Rettore, il quale cura, specialmente, l'andamento disciplinare. E siccome c'è, anche nei convitti, una via gerarchica, il Vice-Rettore rappresenta, per cosí dire, l'ultimo gradino per il quale si accede al Rettore. È logico che questi sia informato di tutto; ma non sarebbe altrettanto logico che i convittori si presentassero a lui direttamente, facendogli affluire tutte quelle minuscole beghe che, nella vita collegiale, non mancano mai. Il Vice-Rettore esamina e vaglia e, quando lo creda opportuno, mette i subordinati a contatto diretto col suo superiore. Di modo che, dal momento che egli sovraintende immediatamente all'andamento disciplinare, e dal momento che questo è l'aspetto piú importante della vita collegiale, ognun vede quanto sieno laboriosi, ardui e delicati il suo compito e il suo ufficio. E chiunque tenti, in qualsiasi maniera, di sottrarsi alla disciplina tenga presente che gli procura un grande dispiacere, obbligandolo a ricorrere a sanzioni disciplinari. Gl'Istitutori: sono i piú vicini ai convittori: coloro che, per primi e meglio, ne conoscono i desideri, i bisogni, le ansie; coloro a cui piú spesso si ricorre, per chiarimenti ed aiuti; coloro che ne condividono la vita di tutte le ore. Le relazioni fra convittori ed Istitutori dovrebbero esser quali tra fratelli minori e maggiori; senza eccessive pretese o sciocche albagie da una parte; senza « arie », o colpevoli condiscendenze, dall'altra. Gli uni e gli altri dovrebbero essere legati da un sentimento di mutua benevola comprensione, basata sulla stima e sulla cortesia reciproca. Se non deve trascendere l'Istitutore, ancor meno deve trascendere il convittore. E non sono nel giusto quei convittori che giudicano buoni gl'istitutori solamente se e quando si rendono quasi complici delle loro eventuali marachelle, e permettono eccessiva intimità e libertà: familiarità, sí; ma, ripeto, non troppa, per non esser costretti, da un momento all'altro, a tirarsi indietro e far dare un giudizio poco lusinghiero sul modo di assolvere il proprio compito. I compagni. I compagni di convitto si ricordano per tutta la vita. Quando questa ci avrà avvolti nelle sue spire, ogni tanto, nelle piccole soste della varia attività quotidiana, affiora dal cumulo delle memorie qualche figura che visse con noi negli anni piú belli della prima giovinezza. E a chi non piacerebbe di esser ricordato dai compagni avvolto in una luce di cortesia, di amicizia, di fratellanza? Scaturisce da questa considerazione il modo di comportarsi del convittore con i compagni. Essere animato verso tutti da un sincero spirito di solidarietà e di cameratismo, che escluda ogni invidia e ogni gelosia: familiarità con pochissimi. Dimostrare della gratitudine per chi gli usi cortesia o, nel suo interesse, lo abbia trattenuto da qualche passo sbagliato, o lo consigli intorno a suoi eventuali difetti. Non essere avaro nel far piccoli favori, specialmente in cose che riguardano la scuola. Passar sopra a delle piccole offese, ed evitare ogni astio o desiderio di vendetta. Non millantare ricchezze, nobiltà, o altro, sopra tutto con chi non si trovi nelle medesime condizioni. Evitare lo stupido vezzo dei soprannomi. Non rivolgere mai la parola a chicchessia in dialetto, sforzandosi piú ch'è possibile di parlare l'italiano correttamente e con accento puro, specialmente quando questa è una delle ragioni principali per cui è stato messo in convitto. Non fare discorsi volgari, né dello spirito a spese di chicchessia. Non burlare i compagni per il paese d'onde provengono; per eventuali irregolarità nella loro famiglia; per la loro religione; per il loro modo di parlare; per qualche loro difetto fisico; per i natali poco nobili; per la poca intelligenza. In una parola, trattare tutti come si vorrebbe esser trattati da loro. È prudente, in fine, non invitare i compagni a casa propria per le vacanze, senza il permesso dei genitori; e non accettare con facilità e leggerezza inviti del genere. Gl' inferiori. Il convittore bene educato non tratta dall'alto al basso il personale di servizio, né usa con essa modi arroganti o poco cortesi. La cortesia autentica non si smentisce mai; anzi, s'afferma e spicca di piú specialmente nelle relazioni con gl'inferiori; perché, dopo tutto, non c'è merito ad esser cortesi con i superiori, e né pur con gli uguali, che, provocati, ci potrebbero energicamente rintuzzare. Qui, oltre alle raccomandazioni già fatte, mi sembra opportune ricordare al convittore ch'egli si deve guardare dall'indurre i servitori a trasgredire i loro doveri, scendendo con loro a pettegolezzi, o incaricandoli di commissioni che si vogliono sottrarre al controllo. Deve guardarsene, anche perché il servitore compiacente potrebbe esser sorpreso e vedersi applicare quelle multe, o addirittura potrebb'esser licenziato, con non grande soddisfazione di chi ne sarebbe stata la causa. CONCHIUDENDO: Se i giovinetti « sapranno » stare in convitto, ricorderanno sempre con piacere questo periodo della loro vita; e si accorgeranno che, nel convitto appunto, essi ricevettero la buona semente che, fruttificando, avrà fatto di loro degli ottimi cittadini.

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Si sarà già messo abbastanza alla prova il loro sentimento a nostro riguardo, accettando di prendere parte alla vita di famiglia per parecchie ore della giornata. Per chi è ospitato: Accettare soltanto se si è sicurissimi che l'invito è stato fatto con la massima cordialità; non c'è di peggio che accorgersi, anche dal piú lieve indizio, che si è giunti inopportuni, o che si è tollerati. Rifiutare garbatamente se si sa di essere nervosi, se si è malaticci, se si ha bisogno di cure speciali, se si è di gusti difficili. Non condurre seco bimbi o bestie care, salvo che non se ne sia esplicitamente autorizzati, e solo nel caso si sia sicuri che gli uni o le altre non daranno fastidio. Portar seco biancheria sufficiente e della migliore, con qualche vestito elegante per eventuali occasioni. Non dimenticare di mettere nella valigia qualche gradita novità per le persone della famiglia che ci ospita; preferibilmente per la signora e per i bimbi. Preannunziare il giorno dell'arrivo, scegliendo le ore piú comode. Evitare di chieder cose che possano non esserci in casa. Non esser sempre, come si suol dire, tra i piedi, né chiamare continuamente le persone di servizio. Non eccedere nel mangiare e nel bere; né essere avari di ammirazione e di complimenti per ciò che si capisce stare particolarmente a cuore alla famiglia. Lasciar sempre la propria camera quanto piú è possibile in ordine. Non servirsi di tutte le cose nuove messe a disposizione. Avere l'aria soddisfatta e l'umore allegro: sempre pronto a conversare piacevolmente o a tacere; a prender parte ai giochi o a passeggiare o a leggere il giornale all'aria aperta; rifuggendo dai pettegolezzi con altri ospiti, da curiosità e chiacchiere con le persone di servizio ; praticando costantemente le due virtú indispensabili dell'ospite: la condiscendenza e la discrezione. Se « qualcosa » fa comprendere che è tempo di partire, congedarsi abilmente: in ogni caso, un po' prima del termine stabilito. Prima di allontanarsi, non dimenticare le mance: ringraziare con calore della ospitalità; ringraziare ancora per lettera entro otto giorni; e - non subito - ma appena se ne presenterà l'occasione, dimostrare in qualche modo degno la propria gratitudine. Per chi ospita: Invitare soltanto persone sane di corpo e di spirito, giovevoli, la cui compagnia faccia in tutto e per tutto piacere, e le cui condizioni non sieno tali che esse si debbano adattare. Invitare soltanto se si può degnamente ospitare: è mortificante ripetere e sentir ripetere spesso la parola «adattamento ». E opportuno, nell'invito, accennare al periodo: « una settimana », « una diecina di giorni ». Far preparare una delle migliori camere della casa. Andare a ricevere l'ospite alla stazione: soltanto quando non si possa far diversamente, mandare una persona di servizio. Mettere in ordine perfetto la camera; che sia riscaldata, se d'inverno ; che non vi manchi il necessario: asciugamani, sapone, spazzola, spazzolino, candeliere, fiammiferi, bottiglia con acqua e relativo bicchiere, penna e calamaio, carta, qualche cartolina illustrata del posto. Che sieno vuoti e pulitissimi i cassetti dell'armadio: in uno di essi, mettere una camicia per la notte; in un altro, una coperta per il letto. Che vi sieno grucce sufficienti per attaccare i vestiti; e che questi sieno subito fatti stirare, se sono spiegazzati. Mettere a disposizione il bagno, se c'è. Indicare le porte dei singoli ambienti della casa, e gl'interruttori della luce. Prima che l'ospite vada a letto, gli si chiede se desidera che gli sia servita la colazione in camera, e a che ora. Gli si manda l'acqua calda per le pulizie, a meno che, in camera, non ci sia la vaschetta con i rubinetti per l'acqua fredda e calda. Farlo consapevole delle abitudini della casa. Assegnargli il posto d'onore a tavola. Non obbligarlo a mangiare o bere troppo. Lasciargli le ore di libertà. In una parola, disporre ogni cosa in modo che l'ospite capisca che si è pensato a tutto, e che non abbia bisogno di chiedere nulla ; e il trattamento sia tale ch'egli si possa trovare a suo agio, e sia persuaso che la sua presenza non è di fastidio. Lo si accompagna alla stazione, lo si ringrazia della eccellente compagnia fatta, e si esprime l'augurio di poterlo presto rivedere in casa. A queste norme generali vanno aggiunte, tanto per chi è ospitato quanto per chi ospita, quelle particolari di delicatezza, riguardanti i rapporti fra uomini e signore, giovanotti e signorine. In fatto di ospitalità, le leggi e le persone sono sacre: violare comunque le prime, o comunque offendere le altre non è da gentiluomo. E un'ultima raccomandazione va fatta tanto a chi ospita quanto a chi è ospitato: oggi si parla un po' troppo e un po' da tutti - né sempre con competenza e serenità - di politica, di religione, di sociologia, di economia. Ora, questi argomenti vanno toccati con molta discrezione; specialmente se sappiamo o ci accorgiamo che le opinioni non concordano eccessivamente.

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Per questo appunto, non le si raccomanda mai abbastanza di essere, sí, affettuosa, ma di saper anche esser ferma; di non intervenire inopportunamente, ossia, di non render vana la parte severa, e talora inesorabile, che spetta particolarmente all'uomo nella formazione del carattere. Giacché, purtroppo, vi sono delle madri le quali, mentre sono appena condiscendenti col marito, agiscono con i figli come se fossero le loro donne di servizio, facendosi in quattro per risparmiar loro il piú piccolo fastidio. Meno male quando son piccini; ma è grave - e deplorevole - che, anche quando hanno venti anni, vadano a cercar per loro il fazzolettino, e lo sistemino nel taschino della giacca, e mettano i bottoni ai polsini, e facciano il nodo alla cravatta; o, peggio ancora, accomodino la piega di qua, il ricciolino di là, uno spillo a destra, un fiochettino a sinistra..., quando, addirittura, non aiutino a lavarsi collo ed orecchi, a sistemarsi le unghie, a farsi la scriminatura e finanche, a incipriarsi e a truccarsi. Dovrebbero comprendere queste madri che non cosí si formano i figli per la vita, e che, se vogliono risparmiare delusioni ai figli e rimorsi a se stesse, debbono sforzarsi di comprimere ogni eccesso nei loro slanci di tenerezza e di abnegazione. Infine, porti nella vita domestica intelligenza quanto basta: ma molta delicatezza e moltissimo cuore; ricordando che l'esperienza dei secoli ha dimostrato che la sicurezza, la tranquillità, la pace delle famiglie dipendono molto piú dalla moglie che dal marito. Tutto questo costituisce la « signorilità femminile » nella casa: signorilità, aggiungo, che non viene sminuita dal frequentare la cucina - segreto prezioso per le donne!; - e, quando si è signore in casa, lo si è da per tutto!

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Cosima

243706
Grazia Deledda 6 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Era abbastanza vanitosa per non pensar neppure di mandare quel cupo ritratto di se stessa ad affacciarsi all'apertura del suo libro di sogni: ma farne un altro era un po' difficile, ed anche dispendioso. Forza e coraggio, e sopra tutto astuzia: altri mezzi litri di olio e di vino furono sottratti al bilancio domestico: fu combinata una gita ad un orto di proprietà della famiglia, vicino alla casa del fotografo, e tutto, questa volta, riuscí bene; la testa di Cosima emergeva da un grande ventaglio di piume di struzzo nere, ch'ella aveva con arte aperto sul suo scarno petto; emergeva come da un'ala, che poteva anche avere un simbolo; e gli occhi avevano il loro languore orientale, un po' esagerato, il viso tutto dolce, sornione, un po' per volontà di lei, un po' per abilità del fotografo intelligente, che aveva capito a modo suo di che si trattava. Aveva capito che quell'immagine era destinata a un amatore, a qualcuno che Cosima voleva attirare per passione, ma anche per arte: e questo primo innamorato lontano, ricco come un re e forse anche piú potente, era il pubblico dei lettori, specialmente giovani, intelligenti e affini all'anima e alle fantasie di lei. Il libro invece ebbe un successo femminile: lo lessero le fanciulle, e vi si ritrovarono, coi loro amori piú libreschi che reali, coi loro convegni notturni immaginari, con le loro finte ali di struzzo che non possono volare. L'editore mandò cento copie del volume, per tutto compenso dell'opera: il valore non superava quello dell'olio e del vino rubati in cantina; e il grosso pacco piombò in casa come un bolide sconquassatore. Là madre ne fu atterrita, la sera gli girò attorno con la diffidenza spaventata di un cane che vede un animale sconosciuto: per fortuna Cosima ricordò che un suo cugino in terzo grado aveva una bottega di barbiere e spacciava giornali e riviste. Era un intellettuale anche lui, a modo suo, perché mandava la corrispondenza locale al giornale del capoluogo: e la proposta di Cosima, di spacciar qualche copia del romanzo, fu da lui accolta con disinteresse assoluto. Ma per la scrittrice fu un disastro morale completo: non solo le zie inacidite, ma i ben pensanti del paese, e le donne che non sapevano leggere ma consideravano i romanzi come libri proibiti, tutti si rivoltarono contro la fanciulla: fu un rogo di malignità, di supposizioni scandalose, di profezie libertine: la voce del Battista che dalla prigione opaca della sua selvaggia castità urlava contro Erodiade era meno inesorabile. Lo stesso Andrea era scontento: non cosí aveva sognato la gloria della sorella: della sorella che si vedeva minacciata dal pericolo di non trovare marito.

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La sua stessa ambigua qualità di scrittrice le attirava, dopo tutto, l'attenzione di un intero paese, e di gente piú lontana ancora: e Fortunio era abbastanza intelligente per capire ch'ella giocava una carta: poteva perdere ma poteva anche vincere. Lui sapeva benissimo, meglio di quelli del paese, che un vero artista non manca mai al suo avvenire. E in Cosima egli sentiva l'artista; mentre lui era diseredato in tutto, anche nelle sue velleità di intellettuale. La passione che egli cominciò a provare sul serio per lei era in parte sincera, in parte avida e interessata. Le lettere che cominciò arditamente a scriverle, facendogliele pervenire incollate nelle copertine dei libri che si scambiavano apertamente, erano belle, poetiche, sensuali; forse le cose migliori che egli scrisse in tutta la sua, d'altronde breve, carriera di scrittore: Cosima se le sorbiva con avidità, e le nascondeva ben bene per il terrore che venissero scoperte da Andrea: se Andrea le avesse scoperte sarebbero successi certamente dei guai. Poiché Fortunio era per lui un essere assolutamente inferiore, socialmente e fisicamente; era peggio di un servo, peggio di un suonatore ambulante, e come tale gli perdonava, anche perché nulla ancora di sospetto gli passava nella mente, le serenate che, con chitarra e relative appassionate canzoni dialettali, il giovane zoppo, con altri suoi amici, si permetteva di eseguire sotto le finestre di casa. Era un uso locale, abbastanza antico sebbene del tutto diverso da quello delle vere serenate popolari composte di cori vocali e di canzoni arcaiche, quello delle serenate diremo borghesi, combinate da studenti e giovanotti della classe non esclusivamente paesana. Canzoni semi-dotte accompagnate dalla musica della chitarra, del mandolino, anche della fisarmonica, facevano sollevare la testa dai loro guanciali quasi monastici, alle fanciulle sognanti: ma era un po' difficile identificare a chi la voce appassionata che rompeva il silenzio notturno coi suoi richiami d'amore, era diretta: poiché l'amatore, per lo piú ostacolato nelle sue aspirazioni amorose, per crearsi una specie di impunità non si fermava, con la sua compagnia solo sotto le finestre dell'amata, ma sotto molte altre dove c'erano fanciulle: cosí che il suo sfogo poteva passare per quello di un dilettante di serenate, di uno spirito innamorato del suo universale sogno di amore: o anche di un artista in esercizio di canto e di notturne melodie. Cosima non si ingannò un istante quando una notte sentí, dapprima lontana, poi sempre piú vicina e quasi tempestosa e tiepida, quasi palpabile, come appunto il levarsi del vento dalle lontananze del mare e poi dalla valle, nelle notti di marzo, il vento che porta dalle terre d'Oriente l'annunzio della primavera, la voce di Fortunio. Bisogna dirlo, era una voce potente, calda, un po' raffreddata come quella di un vero tenore, e anche su questa le sorelle di Fortunio contavano, sperando di far di lui un cantante; ed egli sapeva scegliere, aggiustandole con anelli di sua invenzione, le poesie piú adatte a penetrare come in sogno nel letto delle fanciulle, ad avvolgerle con ali d'angelo sempre piú calde, sempre piú strette, fino a tramutarsi in un abbraccio umano appassionato. Cosima tenta di reagire; in fondo non è romantica e già, per tante prove crudeli, conosce la vita; ma la monotonia dei giorni senza speranza di notevole mutamento le gravava intorno come una ingiusta condanna - antica condanna delle donne della sua stirpe - e lei ardeva tutta di desideri di volo, di piú vasti orizzonti, di vita movimentata. Cosí diede ascolto alla voce lusingatrice, sebbene Fortunio le destasse diffidenza e quasi disprezzo. Un giorno, in maggio, quando le prime ebbrezze della sua avventura letteraria erano dileguate, per lasciar posto, in lei, ad uno scoraggiamento pesante, per colmo di disdetta, le arriva una lunga critica, manoscritta, della sua povera ma sincera fatica: il romanzo, la novella, persino un timido racconto per bambini pubblicato in una rivistina per ragazzi, tutto è stroncato, e non con debole malizia, ma a vigorosi colpi di accetta: tutto, con logica, con coscienza: tutto ridotto a scheggie, buone - conclude il critico - per accendere il fuoco del forno ove la madre di Cosima cuoce il pane. Torni, torni, la piccola grafomane, nel limite dell'orticello paterno, a coltivare i garofani e la madreselva; torni a fare la calza, a crescere, ad aspettare un buon marito, a prepararsi ad un avvenire sano di affetti famigliari e di maternità. Cosima piange; di rabbia, di umiliazione: piange, ma in fondo si sente tutta scossa, ha coscienza di aver sbagliato strada, decide di ritornare davvero al chiuso esilio del suo vero destino. Strappa il foglio di condanna, e riprende i suoi lavori di ricamo, di cucina, le passeggiate con le sorelle, le gite confortevoli nelle belle campagne rallegrate dalla fastosa primavera. Ad una di queste gite presero parte anche le sorelle di Fortunio; anzi furono loro che portarono le provviste per fare una merenda sull'erba, accanto alla sorgente dell'acqua che scaturiva da una roccia alle falde del monte. E furono ore di schietta, innocente allegria; e Cosima poté anche, contemplando il tramonto sulle cime opposte della valle, sopra gli oliveti sognanti, mettere da parte i tenebrosi propositi di abbandonare i suoi sogni di poesia; la ferita si chiudeva, ed ella provava come una gioia di convalescenza, quando, a stendere un'ombra sulla luce del suo cuore - la sola luce ch'ella sentiva di essere vera, limpida e dissetante come la sorgente della roccia - apparve, sulla strada sovrastante, la figura di Fortunio. Al solito, pareva che egli fosse sopraggiunto per caso. Dall'alto dei paracarri si affacciò e parlamentò con le sorelle, che lo invitavano ad avvicinarsi, a prendere parte alla merenda, con un certo diritto, poiché la roba l'avevano portata loro; ma egli rifiutò, severo e triste, conscio, anche lui, del posto che gli spettava: affacciato al parapetto dello stradone in modo che la sua gamba storta non si vedesse, e risaltasse la bella testa con gli occhi e le vivide fresche labbra lucenti al riflesso del tramonto, guardava con tristezza lontano, e appoggiava la guancia alla mano fina, dalle unghie che parevano di alabastro rosa. A Cosima pareva una di quelle figure romantiche che le piacevano nelle vignette di qualche antica edizione di Chateaubriand, possedute da Santus; cosí, un giovine sventurato, preso da una segreta passione, che si smarrisce nella solitudine di un tramonto campestre e appoggiato al riparo di un precipizio, o seduto sul tronco abbattuto di una quercia, fra tralci d'edera e rupi coperte dal fiore del muschio, medita sulla sua triste sorte. Triste, certo, era la sorte del giovine Fortunio, e il cuore di Cosima non poteva non accoglierne l'eco, fra le voci poetiche che le raccontavano l'eterna poesia del dolore umano: e cosí, quando la comitiva prese la via del ritorno, lasciando lo sventurato poeta solo appoggiato alla roccia della sorgente, intento a sentirne anche lui il mormorio melanconico, fra le ombre già dorate del crepuscolo, ella si sbandava, a capo chino, mentre le compagne si rincorrevano nello stradone e cantavano e ridevano come figlie di contadini, al ritorno dal lavoro dei campi. Sorge la luna, fra i denti del monte, sopra i macigni che dànno l'illusione delle rovine di un castello: il suo chiarore lilla si fonde con quello arancione dell'orizzonte; l'odore della vegetazione inumidisce l'aria tiepida; canti lontani rispondono a quelli delle fanciulle che accompagnano e trasportano sull'ala del loro coro la tristezza indistinta di Cosima. Che cosa vuole, Cosima? Non lo sa bene neppure lei: vorrebbe fermarsi, non tornare nella sua casa soffocante, appoggiarsi anche lei al parapetto dello stradone, sopra la valle piena di mistero, seguire il corso della luna sul cielo sempre piú chiaro e luminoso. Le compagne non badavano a lei: le sorelle, stordite dall'allegria delle amiche, si lasciavano trascinare avanti, e lei rimaneva sola, sperduta, come dimenticata nella strada e nel mondo. Sopraggiungeva qualche carro di contadini, trainato dai buoi sonnolenti, qualche uomo a cavallo, qualche tarda donnicciuola che ritornava dall'aver lavato i panni al torrente: le ombre si allungavano di traverso sulla strada bianca, le voci e i passi risonavano dolci nell'aria molle e profumata. Ed ecco un passo diverso dagli altri, con qualche cosa di ambiguo, come il passo di un essere fantastico, uno gnomo, un gigante che tenta di non far rumore, o un Belfagor fatale, o un arcangelo che con un batter d'ali può trasportarti fra le torri d'argento e gli spalti lunari della montagna. È Fortunio: sarebbe stato piú in carattere con la chitarra a tracolla, come un trovatore sceso appunto dai boschi d'elci che circondavano gli illusorii castelli dell'orizzonte: ad ogni buon fine aveva ancora un libro in mano; un libro che biancheggiava alla luna, con le parole magiche che aprono la porta dei sogni. Versi; versi d'amore. Raggiunse Cosima e le si mise a fianco, silenzioso. Ella non si stupí: tutto doveva procedere cosí; e quando egli le cinse lievemente le spalle col braccio che tremava ella non protestò, non cercò di liberarsi. Tutto doveva procedere cosí: era una cosa ordita dalle sorelle maliziose di Fortunio, ma pareva anche un incantesimo prodotto dall'ora, dal luogo, dalla sorte che protegge gl'innamorati. Anche l'ombra folta che si stendeva al margine dello stradone, in una svolta ove le rocce scendevano fino al paracarri, parve una tenda di velluto, che avvolse i due giovani poeti e permise ai loro freschi volti di formarne uno solo il volto dell'amore. Tutto sembrava proteggerli: il modo facile di scambiarsi le lettere, la strada in comune, la vicinanza dei loro orti. E dell'orto di Cosima, di notte, quando si sapeva che la madre e le sorelle riposavano, la prima avvolta anche nel sonno dal suo velo di sofferenza e di preghiere, le seconde nei loro sogni ancora bianchi di innocenza, Fortunio riusciva, nonostante la sua infermità, a scavalcare il muricciuolo, e ritrovare, sinceramente ansante e appassionato, all'ombra di un angolo protettore, la sua piccola amica che sembrava, cosí sbalordita e silenziosa, il fantasma di se stessa. Ella si lasciava baciare da lui, ne sentiva il calore della persona, i fremiti e gli ansiti di eroe incatenato, la violenza impotente con la quale egli avrebbe voluto portarsela via: ma una fredda, quasi malvagia potenza di analisi la sosteneva in quella specie di lotta dei sensi contro se stessa e contro l'altro; e ne usciva stanca, disgustata, amara di umiliazione e di rimorso. Anche di rimorso: poiché credeva, fra le altre cose, di commettere peccato: ella non avrebbe mai sposato Fortunio. Finché la vicenda non trapelò, destando una nuova ondata di scandalo fra la gente per bene del luogo. Eh! si capiva; Cosima sola era capace di quelle avventure, con uno storpio, un bastardo, un rinnegato dalla sorte. E un giorno Andrea disse, in pubblica piazza, che avrebbe fracassato col bastone l'altra gamba del «suonatore di chitarra»; e a Cosima somministrò una dose di schiaffi e pugni che oltre le membra le pestarono l'anima come il sale nel mortaio.

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Le case sono abbastanza civili; appartengono quasi tutte ai parenti del signor Antonio. Quella in fondo è del fratello prete, don Ignazio tabaccone e trasandato; poi viene quella di zia Paolina, vedova benestante con i figli pastori e agricoltori; poi anche quella di zia Tonia, anche lei benestante, con un figlio che studia per droghiere. Il padre di questo ragazzo è morto, tuttavia zia Tonia non è vedova: poiché ha preso un secondo marito, ma dopo un mese di matrimonio lo ha cacciato via di casa, e infine si è separata legalmente da lui; è una donna simpatica, energica, intelligente, e le persone piú gioviali del quartiere la visitano giornalmente, nelle ore di riposo; giocano a carte, discutono, combinano burle, mascherate di carnevale, tengono allegro tutto il vicinato. La casa piú importante è però quella abitata dal canonico, di fronte: un vero fortilizio, con cortili e giardini interni, uno dei quali, quasi pensile, pieno di rose, di melograni, con un gelso alto carico di piccoli frutti violetti. Di là si stende un panorama di case e casupole che formano il quartiere piú caratteristico e popolare della piccola città, e il campanile bianco della chiesa del Rosario emerge sopra i tetti bassi e scuri come un faro tra gli scogli.

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La corrispondenza riguarda quasi tutti affari abbastanza ingenti; una delle lettere è indirizzata a uno spedizioniere della costa, che si occupa di caricare su un battello mercantile partite di carbone vegetale e di cenere spedite dal signor Antonio; un'altra è per la Casa di Livorno che compra la merce; un'altra per un proprietario che vuol vendere un bosco, appunto per il taglio da ridurre a carbone e cenere; un'altra ad un capomacchia dell'Appennino pistoiese, che deve arrivare con un nucleo di operai sul posto, specializzati per la lavorazione delle carbonaie. Ma c'è anche una lettera di amicizia, per il signor Francesco, possidente, di un paese distante cinque ore di viaggio a cavallo dalla piccola città. Da tanti anni il signor Antonio e il signor Francesco sono amici, anzi compari, poiché il secondo ha tenuto a battesimo la piccola Cosima; adesso l'amico gli scrive per annunziargli la nascita dell'ultima bambina, e lo invita per la nuova festa battesimale. Poi cominciarono ad arrivare le visite. Dapprima fu don Sebastiano, il fratello della puerpera. In quel tempo i preti sceglievano la loro carriera per non saper che altro fare; ma lo zio Sebastiano, sebbene di famiglia povera, aveva scelta la sua per vocazione sincera. Era un uomo intelligente e anche colto, che sapeva di lettere e di latino, tanto che una volta, essendo stato a Roma, con un sacerdote polacco che non conosceva l'italiano si erano perfettamente intesi nella lingua di Cicerone. Al contrario dell'altro prete di famiglia, don Ignazio, fratello del signor Antonio, egli amava la povertà, era di umore allegro, e l'unica sua debolezza era di mandar giú, fin dalla mattina, bicchierini di acquavite e di vino buono. Fu Cosima a riceverlo, poiché il padre finiva le sue lettere: egli sedette a gambe aperte, nella stanza da pranzo, tirando su la sottana sui pantaloni neri sui quali pendevano due larghe tasche colme di carte, di libri e di altre cose; mise il cappello sulla sedia accanto e il suo viso roseo e sodo, col caso corto, s'illuminò di gioia quando la serva gli portò un calice di vino bianco. Anche la bambina piccola gli si era avvicinata con confidenza, e tirava una di quelle tasche misteriose che attiravano a lui i fanciulli come comandava Gesú: anzi, la manina di lei s'introdusse nella spaccatura di quella specie di bisaccia, e ne trasse un piccolo dolce schiacciato nel suo involucro di carta velina. Cosima volle sgridarla; le diede un colpettino sulla mano, ma avrebbe voluto frugare anche lei, e piú a fondo, nelle tasche dello zio. Egli lasciava fare, ridendo; poi prese entrambe le bambine fra le sue gambe e le strinse piuttosto forte, mentre traeva dolci, frutta secche e giuggiole dalla profondità delle saccocce. Ne trasse anche due numeri della Unità cattolica, il giornale listato a nero per il lutto del perduto potere temporale del pontefice, e li porse al signor Antonio, entrato in quel momento. Era il solo giornale che essi leggevano, passandoselo uno con l'altro; e anche quella mattina discussero l'articolo di fondo di don Margotti, e poi la critica acerba che si faceva alla moglie di un ministro del Governo usurpatore; poiché la signora era intervenuta ad una festa da ballo con un vestito che si diceva costasse la favolosa somma di venti mila lire. Poi andarono tutti, comprese le bambine che si attaccavano alla sottana dello zio come a quella di una donna, a vedere la puerpera.

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Del resto tutto era semplice e antico nella cucina abbastanza grande, alta, bene illuminata da una finestra che dava sull'orto e da uno sportello mobile dell'uscio sul cortile. Nell'angolo vicino alla finestra sorgeva il forno monumentale, col tubo in muratura e tre fornelli sull'orlo: in un braciere accanto a questi si conservava, giorno e notte accesa e coperta di cenere, un po' di brace, e sotto l'acquaio di pietra, presso la finestra, non mancava mai, in una piccola conca di sughero, un po' di carbone; ma per lo piú le vivande si cucinavano con la fiamma del camino o del focolare, su grossi treppiedi di ferro che potevano servire da sedili. Tutto era grande e solido, nelle masserizie della cucina; le padelle di rame accuratamente stagnate, le sedie basse intorno al camino, le panche, la scansia per le stoviglie, il mortaio di marmo per pestare il sale, la tavola e la mensola sulla quale, oltre alle pentole, stava un recipiente di legno sempre pieno di formaggio grattato, e un canestro di asfodelo col pane d'orzo e il companatico per i servi. Gli oggetti piú caratteristici erano sulla scansia; ecco una fila di lumi di ottone, e accanto l'oliera per riempirli, col lungo becco e simile a un arnese di alchimista: e il piccolo orcio di terra con l'olio buono, e un armamento di caffettiere, e le antiche tazze rosse e gialle, e i piatti di stagno che parevano anch'essi venuti da qualche scavo delle età preistoriche: e infine il tagliere pastorale, cioè un vassoio di legno, con l'incavo, in un angolo, per il sale. Altri oggetti paesani davano all'ambiente un colore inconfondibile: ecco una sella attaccata alla parete accanto alla porta, e accanto un lungo sacco di tessuto grezzo di lana, che serviva da mantello e da coperta al servo: e la bisaccia anch'essa di lana, e nell'angolo del camino una stuoia di giunchi, arrotolata, sulla quale alla notte dormiva, quando era in paese, lo stesso servo, pastore o contadino che fosse. Sull'acquaio non mancava mai un paiolino di rame pieno d'acqua attinta al pozzo del cortile, e su una panca l'anfora di creta con l'acqua potabile, faticosamente portata dalla fontana distante dall'abitato. L'acqua era allora un problema, e se ne misurava, d'estate, ogni stilla; a meno che non sopraggiungesse un buon acquazzone a riempire la tinozza collocata sotto il tubo di scolo dei tetti: eppure la pulizia piú diligente, praticata a secco, rendeva piacevole tutta la casa. Dalla finestra, munita d'inferriata, come tutte le altre del piano terreno, si vedeva il verde dell'orto; e fra questo verde il grigio e l'azzurro dei monti. La porta invece, come si è detto, dava sul cortile triangolare, piuttosto lungo e occupato quasi a metà da una rustica tettoia dalla quale, per un usciolino, si andava nell'orto. In fondo c'era il pozzo, e, sotto il muro alto di cinta, una catasta di legna da ardere, rifugio di numerosi gatti e delle galline che vi nascondevano il nido delle uova. Un'asse appoggiata su due ceppi, accanto al muro laterale della casa, ancora grezzo e sul quale, al primo piano, si apriva una sola finestra (le finestre erano tutte senza persiane), serviva da sedile. E un grande portone fermato anch'esso da ganci e stanghe, tinto di un color marrone scuro, dava sulla strada. Di giorno era quasi sempre socchiuso, e, piú che il portoncino della facciata, serviva per il passaggio degli abitanti e degli amici di casa. A questo portone, una mattina di maggio, si affaccia una bambina bruna, seria, con gli occhi castanei, limpidi e grandi, le mani e i piedi minuscoli, vestita di un grembiale grigiastro con le tasche, con le calze di grosso cotone grezzo e le scarpe rustiche a lacci, piú paesana che borghese, e aspetta, dondolandosi, che passi qualcuno o qualcuno si affacci a una finestra di fronte, per comunicare una notizia importante. Ma la strada, stretta e sterrata, in quell'ora fresca del mattino è ancora deserta come un sentiero di campagna, e nella vecchia casa di contro, anch'essa con l'alto muro di un cortile a fianco e un portone rossastro, non si vede nessuno. Questa casa è abitata da un canonico, un lungo e nero asceta taciturno, e da una sua giovane nipote intelligente, che avrebbe voluto farsi suora, ma dopo qualche mese di noviziato è stata rimandata a casa per la sua cagionevole salute. Gente per bene, semplice e austera. Il canonico si lamenta che nessuno, per la strada, lo saluti: è lui, invece, che cammina sempre ad occhi bassi e assorto nelle sue speculazioni religiose: la nipote, visto che Dio non l'ha voluta per sposa, si compiace della corte discreta di un bel giovane ebanista, decisa però a non sposarlo perché non è un proprietario o un funzionario come converrebbe a lei. La bambina sul portone, sa queste cose, e considera i suoi vicini di casa come personaggi straordinarî. Tutto, del resto, è straordinario per lei: pare venuta da un mondo diverso da quello dove vive, e la sua fantasia è piena di ricordi confusi di quel mondo di sogno, mentre la realtà di questo non le dispiace, se la guarda a modo suo, cioè anch'esso coi colori della fantasia. Odori di campagna vengono dal fondo della strada; il silenzio è profondo, e solo il rintocco delle ore e dei quarti suonati dall'orologio della cattedrale, lo interrompono. Passano le rondini a volo, sul cielo azzurro denso, un po' basso come nei paesaggi di pittori spagnuoli, ma anche le rondini sono silenziose. Finalmente una finestra si apre nella casa di fronte, e un viso bruno, coi grandi occhi velati dei miopi, si sporge a guardare qua e là negli sfondi della strada. È la signorina Peppina, la nipote del canonico. La bambina si solleva tutta, afferrandosi allo spigolo del portone per allungarsi meglio, e grida la notizia per lei importantissima: «Abbiamo un bambino nuovo: un Sebastianino.» Risultò poi che era una femmina: ma la bambina desiderava un fratellino; e se lo era inventato, col nome e tutto.

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Intanto, fuori, il servo di zia Paola costruiva una capanna di frasche, abbastanza alta e larga, che doveva servire da cucina. Avevano portato un fornello a mano e un sacco di carbone; ma la serva volle dietro la capanna, in un angolo riparato, una specie di focolare di pietre e dichiarò che avrebbe cucinato col fuoco di legna. E queste non mancavano davvero a portata di mano, quali erano e pronte ad accendersi come torcie. Anche alcune sedie e un tavolo erano stati portati sul carro; e il tavolo avrebbe dovuto servire per i pasti e per scrittoio a prete Ignazio, ma egli non intendeva perdere neppure un minuto per impugnare la penna; e cosí il tavolo fu collocato nella stanza grande, accanto alla luce della porta e serví, sí, per i pasti, ma anche da scrittoio a Cosima. Oh, e ben il calamaio ella aveva portato, avvolto in uno straccio nero e ficcato dentro una scarpa perché nel transito non si rovesciasse; e trovò anche, nella primordiale dimora, una specie di nicchia, che avrebbe dovuto servire per qualche lumino e qualche immagine sacra, e della quale, invece, ella si serví per deporvi il calamaio, la penna, il suo scartafaccio e alcuni libri, formandone cosí un altarino per i suoi misteri d'arte. Poi raggiunse le sorelle nel bosco; e furono ore e poi giorni di appassionata gioia. Non fu tutto un sogno? Uno di quei sogni che bastano a illuminare una vita, anche negli angoli piú ombrosi, come il sole e la luna illuminavano, in quei favolosi giorni di agosto, la boscaglia di elci intorno alla miracolosa chiesetta. Che importava l'umiltà e la rozza accoglienza della capanna? Serviva di rifugio solo nella notte, e a Cosima nelle ore delle sue scritture; il rumorio del bosco la copriva col suo suono di organo, e la luna col suo drappo d'argento. E le ragazze dormivano cullate da quella musica che non aveva l'eguale poiché era la musica della fanciullezza che risuona una sola volta nella vita. Ma per Cosima era qualche cosa di piú grande e trepido: era tutta una rete di mistero, uno svolgersi di cose sorprendenti, come se ella galleggiasse in un fondo oceanico, circondata, non dal selvaggio bosco di elci e dalle roccie fantastiche, ma da tutte le meraviglie delle foreste sottomarine. E tutto questo, oltre la reale dolcezza del soggiorno, allietato dalla libertà e dallo spazio del luogo, dalla bellezza del paesaggio e delle lontananze e dai semplici svaghi della poca gente che dimorava intorno alla chiesetta, dipendeva dalla presenza, in una delle stanze verso la parte opposta di quelle del cappellano, della famiglia di Antonino. Egli non c'era, ma doveva pure qualche giorno venirci, come tutti gli altri giovani della città, che anche se i loro parenti non erano lassú, combinavano gite e passavano anche la notte nel luogo incantevole, accendendo grandi fuochi, combinando cene e balli, bivaccando sotto gli alberi e facendo la corte alle ragazze; doveva arrivare; e la sola speranza di vederlo, anche alla sfuggita, in quello sfondo che era lo sfondo stesso della Poesia, riempiva l'animo di Cosima di una gioia senza limiti. Ma ella non andava mai dalla parte ove la famiglia di lui abitava, e ne sfuggiva le sorelle come per paura che indovinassero il suo segreto e la sbeffeggiassero, o semplicemente perché il suo segreto era per lei grande e sacro come un tabernacolo che nessuno doveva profanare. Ed ecco egli arriva davvero, un giorno; è solo, a piedi, con una fronda in una mano e il cappello di paglia nell'altra. Cosima, che vigilava sempre sul sentiero dall'alto di una roccia, lo vede salire un po' stanco, frustando le felci con la sua fronda: le sembra scontento e disincantato, e pensa che, certo, il luogo, per quanto pittoresco, non è degno di lui: per lui occorrono i parchi coi viali lisci come il velluto, le scalee e le terrazze delle ville principesche, le fontane e le grotte artificiali dei giardini settecenteschi, come ella li ammirava nelle riviste illustrate. E sentí quasi pietà di lui, decisa a nascondersi per non aumentargli il malumore che doveva provare. Eppure la sola idea che egli era lí, nell'umile portico dove le sorelle gli servivano il caffè, illuminava ancora di piú, se era possibile, il paesaggio intorno: e le felci toccate da lui scintillavano come palme dorate, e il cielo era piú vasto e azzurro. Incantesimi della fanciullezza, che nel ricordo dànno un'idea di quello che debba essere un giorno, per l'anima che ci crede e lo aspetta in ricompensa degli innumerevoli disinganni della vita, il regno di Dio sulla terra.

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Documenti umani

244595
Federico De Roberto 7 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Qu'à cela ne tienne; posso darvi qualche renseignement; je me flatte di conoscerlo abbastanza. Dunque, il principe Dimitri è un russo; ma quel che si dice un russo puro sangue. Voi non conoscete la Russia? Avete torto ancora. È una terra vergine; non v'immaginate però di andarla a conoscere nelle Terres vierges di Turguenieff. Per tornare al principe Dimitri, rappresentatevi, al fisico, un cane bull-dog, un bull-dog in giubba e cravatta bianca, che si tenga raide sur ses pattes, e ne avrete un'idea sufficiente. Quando era nella diplomazia, feu M. de Gortschiakoff ne faceva un grandissimo conto, e il n'était pas dans son tort. Pieno di forme - per esempio! - corretto, digne, impeccabile! Avec ça, egli è molto attaccato alle patrie tradizioni, ragione per cui è ben visto a Corte, e tiene in grande onore lo knut. Ne avete sentito parlare? È uno strumento, my dear fellow, del quale a noi russe non bisogna parlar male. Catulle Mendès ha molto torto di chiamar mostro quella ragazza, che avendo vista una esecuzione di knut, si sostituì alla serva condannata a 25 colpi, per farseli dar lei. Voialtri latini avete la rettorica nel sangue. Perchè mostro? Non sapete dunque che tous les goûts sont dans la nature? Non nego che applicato sulle spalle d'un idealista come voi, lo knut farebbe guarire ipso facto (un po' di latino non guasta) le più strane fantasie. Ma io son grata al principe Dimitri di avermelo fatto conoscere. Egli ne era professore, et je ne regrette pas le sue lezioni. Bisogna tàter un po' di tutto. Però, siccome tutto si paga in questo basso mondo, dopo una lezione di knut non si può andare, per esempio, en grand décolleté al ricevimento dell'ambasciata, e si soffre qualche poco al circolo dell'imperatrice. Non importa!... La vita in Russia, col principe Dimitri, governatore di Kiew ed anche un po' mio marito, è piena di distrazioni. La villeggiatura in Siberia, per esempio, in inverno, è on ne peut plus divertita. D'inverno, in Siberia? domanderete voi. Sì, mio caro, quistione di temperatura e di... temperamento. Voi dovete sapere che il principe Dimitri ha sempre presso di sè il dottor Baribine, al quale è affidata la vostra salute. Quando il principe domanda: Pietro, come sta la principessa? Pietro risponde: la principessa ha bisogno di un clima freddo. E il principe Dimitri vi manda in Siberia. Regola generale: quando il principe Dimitri s'informa della vostra salute, il dottor Baribine ha pronta la sua ordonnance. Un'altra volta il principe domanda: Pietro, di che cosa soffre la principessa? Baribine risponde: la principessa ha bisogno di riposo. E il principe vi manda nel castello di Paliskaja, dove non entra e di dove non esce âme qui vive. Un bel giorno si sentono delle fucilate: sono gli uomini del principe che tirano contro un cacciatore curioso, sorpreso a guardare alle finestre, e lo stendono morto. In questo castello di Paliskaja, si sentono la notte - histoire di non dormir troppo - dei rumori strani, gemiti sordi come di persone a cui si applichi la question; è il vento - rien que ça - il vento che s'ingolfa sotto le arcate, per le coulisses, e che fa stridere le girouettes! Ah, un gran dottore, il dottor Pietro Baribine! Dopo eseguite le sue ordonnances, voi tornate completamente rifatto; voi potete andare ogni sera dans le monde; e gare a mancare un solo invito! Il principe Dimitri si avanza verso di voi, col suo sorriso di bull-dog che scopre le sue zanne... e voi vi alzate subito, andate a fare un petit bout de toilette, sedotto da tanta amabilità. Ah! ah! ah! Voilà che ricomincia! Ah! ah! ah! Sapete a che cosa penso? Alla vostra lettera, amico mio, alla vostra lettera famosa, colossale, gigantesca! "Voi non sapete che io vi porto nel cuore? Come è mai avvenuto, buon Dio, che io abbia messo tanto tempo a dirvelo?... Egli è che voi siete sola, che voi non avete nessuna forza presso di voi che possa difendervi; egli è che sarebbe stato offendervi il parlarvi d'amore, che le grandi parole avrebbero potuto nascondere il calcolo vigliacco di pervenire a voi per mezzo della vostra debolezza..." "Ah! ah! Parfait! Voi siete tutto ciò che v'ha di più moyen âge! Come un cavaliere errante, voi andate in cerca di avventure... oh, pardon! è venuto da solo; io non l'ho fatto exprès!... Eh,"buon Dio!" voi avete una grande inclinazione per le vie di traverso! Assolutamente, non sapete dove metter le mani!... Bisogna che io completi la vostra educazione mondaine, volete? Temo soltanto di dover spezzare "l'ideale" che vi siete formato di me. Incolpatene vous-même; voi sapete che cosa dice la saggezza delle nazioni: la plus belle fine du mondo ne peut donner... quel che non ha più! Quanti anni avete?... Sono sicura di non essere indiscreta; voi siete così giovane che per dieci anni ancora non sarà la pena che ne nascondiate qualcuno. Ventotto anni? Trenta? C'est la fleur même de l'age! Volete sapere l'età mia? Con tutta la buona volontà del mondo, l'affare non sarà così facile. Se il tempo ha le ali, io faccio del mio meglio per corrergli dietro. È un combattimento ad armi corte; ma vi assicuro che non ho aucune envie di fare la vieille garde!... Quando sarà venuto il momento psicologico (....per modo di dire) io mi arrenderò, con armi e bagagli. Toujours est-il che sono ancora presentabile, am I not? E voi avete il toupet di non "domandarmi nulla di voler soltanto "vivere nella mia ombra" contento soltanto se le mie mani saranno "pietose alle ferite del cuore!" Honny soit qui mal y.... pense!... O merveille! o stupore! Messieurs et mesdames; entrate! Ecco l'uomo che non domanda nulla; toccatelo: è di carne e d'ossa; on ne triche pas, quoi! L'uomo che non domanda nulla! On ne paie qu'en sortant!... Sapete dunque di chi mi avete l'aria? Di quei glovanotti e di quelle ragazze che se ne vanno a far delle copie al British Museum, e si attaccano un écriteau, dove dice: Visitors are requested not to stand round the student!... E borghesi della City, le loro mogli, la loro discendenza e le loro serve si dispongono intorno allo studente, che si studia d'essere stucliato! Qua la mano: vi facevo più spirito; parole d'honneur! Dopo tutto!... A guardarci de près, io m'accorgo di essere ingrata verso di voi. Sapete che cominciavo ad annoiarmi, con questo golfo sempre dinanzi, con questo verde sempre di dietro, con questi mannequins sempre d'intorno? Ah, la noia, la noia vasta, profonda, irresistibile; la noia che vi afferra le machoires e che ve le disloca, la noia che vi inchioda in fondo a una causeuse, e che non vi dà guère l'envie de causer, e che vi mette una cappa di piombo sulle spalle e sul petto, come ai dannati del vostro Dante! Ah, la noia che vi accompagna dovunque, come la vostra ombra; che si attacca a voi, che vi penetra tutto, che finisce per diventarvi quasi indispensabile! Qual è stato l'uomo di spirito che ha scritto questa confessione profonda: Mi annoio tanto, che se non mi annoiassi, mi annoierei? Tenez, lo abbraccerei, se fosse qui! J'ai vécu, caro mio. E ne ho viste, come voi dite, di crude e di cotte. Quasi quasi je regrette lo sport knutesque di cui è professore il principe Dimitri Borischoff, governatore di Kiew ed anche un po' mio marito. Quasi quasi vorrei ricorrere alle ordonnances del dottor Baribine.... Tenez, sbadiglio! Come ho fatto a scrivere tanto? Je n'en reviens pas encore! Domani, meno male; avrò la curiosità di vedere quelle mine voi farete; ma dopo domani, que vais-je devenir? Tutto sommato, me ne andrò a Loèche. Di lì passerò a Londra, per la season. A luglio sarò in Normandia, a Honfleur o al Tréport, c'est selon. In agosto verrò un'altra volta a casa vostra; passerò una quindicina di giorni sui laghi. Vous voyez; faccio di tutto per distrarmi; ma prevedo che incontrerò difficilmente una persona che mi diverta più di voi. Senza rancore? Toute à vous CATERINA P. BORISCHOFF. Post-scriptum. - La vostra amabilità merita bene un premio. Mi permetto di offrirvelo, sotto forma di un consiglio. Se volete riuscire con le donne, non le fate ridere. P. B.

Non aveva sorriso neppure una sola volta, non aveva dischiuso abbastanza le labbra perchè, in mancanza di gioielli, egli vedesse almeno le perle dei suoi denti. - Verrà?... Non verrà?... Malgrado i suoi timori e i suoi pentimenti, la duchessa serbava ancora qualche speranza. Nella solitudine di quella villeggiatura fuori mano, l'Olderico avrebbe probabilmente colta con premura l'occasione di stringere una nuova relazione. E poi, e poi.... trentacinque anni, è vero; dei capelli bianchi.... ma, con una mano sulla coscienza, la duchessa sentiva di esser cento volte preferibile a quella povera marchesa, che sprecava ormai invano tutta la sua civetteria!... Sentiva però nello stesso tempo che ella non aveva ancora molto da aspettare, e che bisognava decidersi. Per l'appunto, la rigida sorveglianza del duca si era in quel momento rallentata. Suo marito la lasciava lunghe giornate sola, per andare in città, dove lo chiamava una sua tresca che era dappertutto il discorso del giorno. Egli non la giudicava più pericolosa! La sua gelosia veniva meno, perchè egli non credeva più che ella fosse desiderabile! Glie lo aveva detto, in uno di quei suoi scherzi feroci di enfant terrible! Ah, ella era vecchia? ella aveva i capelli bianchi?... GIi avrebbe fatto veder lei, se tutti avrebbero giudicato a quel modo! Ora, non ne poteva più; non si fidava più di durare in quel sacrifizio lungo ed inutile. Quella sua virtù finiva per essere ridicola. Tutti, dal primo all'ultimo, le avrebbero dato ragione, se ella fosse caduta.... Caduta? Era dunque una colpa il reclamare la propria parte di felicità, un poco d'amore?... E, ad una ad una, le si ripresentavano alla fantasia le figure di uomini intraviste in un salotto, in teatro, alle quali ella aveva pensato secretamente, nelle notti insonni, o fra il vuoto chiacchierio d'una visita di convenienza, o in chiesa, quando gli occhi fissi sul libro di preghiere non vi sapevano più leggere.... Sempre, sempre, il caso, la sua virtù, la sua disgrazia, la gelosia del marito, avevano arrestato il romanzo al primo capitolo; romanzi ella non poteva farne, era condannata a leggerli soltanto!... Suonava ad un tratto l'ora della rivincita! Ella contava bene di non lasciar sfuggire questa volta l'imprevista occasione.... E il dovere? Ah, se ella credeva che le grandi emozioni dell'amore, che gl'incanti di una di quelle passioni che fanno l'invidia del mondo, si potessero provare senza sacrificar qualche cosa!... La fantasia della duchessa correva, correva, ed ella aveva già architettata l'avventura. Trovava tutto agevole, in quella campagna, nell'assenza del marito; e l'illusione era così forte che ella provava il rimorso del fallo non per anco commesso se non col pensiero. Poi, per gastigo, si derideva, si faceva beffe di sè stessa per tanto almanaccare sopra una semplice presentazione, sopra un avvenimento comunissimo, come ne ricordava mille altri. - Verrà?... Non verrà?... Intanto, ella era venuta in campagna senza pensare alla sua toletta; non aveva portato nulla: nè una veste da camera, nè un abito da visita; né un gioiello, nè una boccettina di profumi! Nulla, proprio nulla, altro che quel miserabile vestitino grigio!... A poco a poco, la sua passeggiata, o meglio la sua corsa per la terrazza s'era rallentata. Ella avanzava ora con le mani dietro la schiena e la testa un po' china. A un tratto rientrò, e seduta al suo tavolino cominciò a scrivere sopra un foglio di carta la lista degli oggetti che le occorrevano. Interrompendosi di tanto in tanto, ella guardava per aria rodendo la punta del suo portapenne e mormorando: - Verrà?... Non verrà?...

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"Io qui non esprimo abbastanza bene quanto le nostre anime erano in comunicazione in quel momento. In generale, io non posso esprimere le sfumature delicate, il profondo, il meglio delle cose, perchè i termini mancano...." (Stendhal).

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Wagner che sdegna il mondo esteriore per cantare le crisi spirituali, non rinunzia abbastanza alla materia mettendo il suo canto in bocca di odiosi personaggi d'ossa e di carne. Il poema sinfonico eseguito da suonatori invisibili è la sola forma conveniente. Dove trovarla?

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Il bisogno di distrazione, per grande che potesse essere nella infelicità del suo isolamento, non spiegava abbastanza. Una situazione eccezionale non si affronta coscientemente senza l'impulso di circostanze eccezionali; ed era infatti una specie di sfida a quella società ipocritamente timorata da cui ella si sentiva messa al bando immeritamente, era una specie di ostentazione di successi, di corteggiamenti, di attrattive irresistibili, quella con cui ella intendeva rispondere all'ostilità delle donne in situazioni legittime. Soltanto, come sempre quando la passione fa velo alla mente, ella conseguiva senza accorgersene, o meglio senza volersene accorgere, un opposto risultato, fornendo ella stessa nuove armi ai suoi avversarii. Andrea ne soffriva profondamente, e per una antipatia impulsiva ed invincibile tutto il degno provato per quella gente frivola, inetta, malvagia, si era concentrato verso uno solo: il cavaliere di Sammartino, un siciliano spavaldo, provocatore, la cui splendida esistenza era un enimma per tutti. In verità, egli non era fra i più assidui attorno alla baronessa; ma in questa stessa specie di indifferenza metteva una malignità maggiore, con quell'aria di fastidio che egli prendeva in sua presenza, quasi gli fosse finalmente venuta a noia quella relazione e non la spezzasse per un sentimento di dovere increscioso, ma inevitabile. Fuori, egli era uno dei più accaniti denigratori della baronessa. Andrea Ludovisi lo sapeva, e il suo disprezzo per quell'uomo non faceva che crescere. Malgrado lo evitasse come una disgrazia, una specie di fatalità volle che egli si trovasse presente il giorno che Sammartino, in pieno caffè, insultò atrocemente il nome della baronessa di Fastalia. Si parlava delle prossime villeggiature, e si enumeravano le signore che sarebbero fra poco andate via; qualcuno annunziò la partenza della baronessa. - Una di più, una di meno!... - disse il Sammartino, scuotendo la cenere del sigaro col mignolo, dove luccicava un grosso brillante. - A Napoli non ne mancano, delle donne della sua risma! Bisogna dire che Andrea Ludovisi non conoscesse ancora la forza d'animo di cui disponeva, o che piuttosto l'amore lo avesse trasformato, se egli fu capace, lì per lì, di non aggrottare neanche le ciglia a quella sferzata. Ma il sangue gli bolliva nel cuore, le sue mani avevano contratto un tremito irrefrenabile, la sua mente si era smarrita, nè egli rientrò in uno stato di calma relativa se non prima, con un pretesto abilmente colto, ebbe il destro di provocare l'insultatore. Recatosi dal duca di Majoli perchò lo assistesse, ne aveva avuto un rifiuto, amichevole, ma reciso. - Io conosco il motivo per cui ti batti - gli aveva detto il duca. - Bada; tu sei sopra una falsa strada. Vuoi difendere qualcuna, che tu riuscirai invece a compromettere orribilmente.- Era troppo tardi. Il duello ebbe luogo egualmente; il cavaliere di Sammartino, tiratore di primo ordine, fu ferito leggerissimamente alla mano. Il giorno dopo, malgrado tutte le precauzioni di Andrea Ludovisi, la vera causa del dissidio fu propalata per ogni dove. Col cuore sanguinante, senza far conoscere a nessuno la propria destinazione, senza tentar di rivedere la baronessa, a cui aveva solo fatto pervenire un biglietto con questa parola: Perdonatemi, egli lasciò Napoli, malgrado i gravi affari che ve lo trattenevano, per Firenze, dove un suo dramma aveva suscitato un grande entusiasmo. Una settimana dopo, mentre sfogliava i giornali nella sala di lettura dell'Hôtel de la Grande Bretagne, in quel momento deserta, senti schiudersi l'uscio. Era la baronessa Costanza di Fastalia.

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Trovava di non avere insistito abbastanza, - a quel tempo - per ottenere una spiegazione; di aver commessa una vera colpa non avendo cercato di lei, quando il motivo di quella rottura gli era stato fatto intravedere. Allora sarebbe stato dover suo giustificarsi, smentire la voce bugiarda, far rifulgere la propria innocenza. Il dover suo era di non abbandonare quella donna, suo malgrado! Chi gli diceva, infatti, che il tradimento di cui ella si era creduta vittima, non l'avesse spinta a rappresaglie; che, per colpa di lui, ella non si fosse interamente perduta?... Una specie di rimorso sorgeva allora nell'animo del Landini, un rimorso che era, in fondo, una forma di egoismo: poichè il rimprovero di averla potuta far cadere in braccio ad altri si risolveva nel rammarico di non averla più per sè.... E una grande tenerezza lo vinceva, a poco a poco, pensando a tutto quello che era stato fra di loro, a quel romanzo bruscamente troncato e non finito, così, senza ragione, per quelle assurdità di cui la vita è tanto feconda... Però, in quella lettera improvvisamente pervenutagli, quando egli si era già rassegnato all'assurdo, era la parola che avrebbe tutto spiegato. Egli riconosceva a questo tratto l'indole fiera, appassionata, di quella donna di cui si era fatto un tipo ideale. Si era creduta offesa, e nulla era valso a piegarla; ora, dopo l'espiazione di tanti anni, ora soltanto, ella veniva ancora a lui!... Che cosa gli avrebbe detto? Come avrebbe ridestata la memoria di quel passato? Quali dolci, quali armoniose, quali poetiche parole avrebbe adoperate per ricordare tanta dolcezza, tanta armonia, tanta poesia?... Alla luce improvvisa della lampada che il servo reggeva affacciandosi all'uscio, il Landini si accorse che era già notte fatta. - Si sente male, signore?... - chiedeva timidamente la persona di servizio. - No, no; lasciate qui il lume. - Il signore non desina dunque quest'oggi? - Fate apparecchiare... mi avvertirete... E appena rimasto solo, avvicinatosi alla lampada, egli dischiuse accuratamente la busta, con mano un poco tremante. Ne cavò una carta ricoperta sulle quattro facciate da una fitta scrittura, e un foglietto dello stesso gusto della busta. Il Landini vi cercò l'intestazione; non ve n'era. La lettera diceva così: "Voi sarete molto sorpreso di ricevere la presente, e vi troverete certamente costretto di correre alla firma per conoscerne la provenienza!... Il tempo ha le ali, e col tempo la forma della nostra scrittura si modifica, da rendersi irriconoscibile! Il nostro modo stesso di pensare si trasforma; ed è per questo che io sono stata, e sono ancora in forse di scrivervi, supponendo che ciò possa non farvi il piacere di una volta! "Vorrete quindi perdonarmi se, facendo appello alla vostra amicizia, che suppongo inalterata, vengo ad importunarvi per chiedervi se posso firmare l'acclusa transazione, desiderando conoscere a quali conseguenze andrei incontro per tale atto. In una quistione d'interessi che si trattano fra parenti conviventi nella stessa casa, non potendo dimostrarmi diffidente a viso aperto, io che non m'intendo di affari, non ho voluto impegnarmi prima d'aver sentito il parere di una persona su cui si può contare. "Accettate, non è vero? Domani mi farete avere una risposta? Sarei venuta personalmente, se non avessi temuto di disturbarvi ancora di più che con la presente. Il passato non ci è sempre gradito; lo comprendo anch'io! La vita ha le sue esigenze; ed io non sono così ingenua o così presuntuosa, da supporre che in questi dieci anni voi abbiate potuto pensare a quello che fummo. So, del resto, che vi siete divertito; e chissà quante altre imagini si saranno sovrapposte a quella che io ho temuto di ripresentarvi dinanzi! Guardate: divento indiscreta!! Perdonatemi anche questo e vogliate credermi a ogni modo, con rinnovate scuse ed anticipati ringraziamenti, cordialmente vostra: Anna Solari. - Fiesole, lunedì." Il servo stava di nuovo sull'uscio, interdetto, chiedendosi se il suo padrone non fosse ammattito, perchè all'annunzio che la zuppa era in tavola, lo aveva guardato con occhi stralunati, come uno cascato dalle nuvole. - È in tavola?... Va bene, va bene.... Sul punto di passare di là, Carlo Landlni si stropicciava gli occhi. Credeva di aver sognato, tanto quella lettera era incredibile, tanto egli era rimasto male! Che grossolana illusione era stata la sua!... Gli anni erano davvero passati, se quella donna era così mutata, se scriveva di quelle lettere, se domandava una consultazione legale, - a lui! - se profanava il ricordo del loro amore con quella freddezza studiata, con quel tono di filosofica rassegnazione, con quelle allusioni indiscrete... E non un accenno alla enimmatica rottura che lo aveva mortalmente ferito; non una spiegazione - nè data, nè chiesta!... E diceva di temere che egli non avrebbe riconosciuto il carattere di lei, mentre, appena scorta la lettera, gli era mancato il respiro! E diceva di sapere che egli si era divertito, mentre quell'imagine gli era stata sempre inchiodata nel cuore, come un rimpianto, come un rimorso, come l'aspirazione di tutta la sua vita!... Ma, dunque, era realmente mutata quella donna, o era stata sempre ad un modo e soltanto la sua fantasia di innamorato ne aveva fatto un ideale?... Carlo Landini scrollò le spalle, sedendo a tavola. Il suo romanzo era finito, definitivamente; e quella lettera ne rappresentava l'epilogo prosaico e volgare. - Un romanziere non avrebbe nessun partito da trarne! - si diceva egli mentalmente, e non pensava che i romanzi veri, i romanzi fatti nella vita e non ideati per amore dell'arte, finiscono quasi sempre così.

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Non conosceva dunque abbastanza di quale natura impressionabile, di quale anima vibrante ad ogni alito più lieve, Andrea Ludovisi fosse dotato? Non sapeva ella ancora, che quei subitanei ed irrefrenabili trasporti erano la prova più evidente della passione che ella aveva acceso nel petto di quell'uomo? Non vi era, in quella gelosia del passato, in quel bisogno di possedere, di aver posseduto sempre e solo il cuore di lei, un sentimento di tenerezza triste e di amore prepotente che avrebbe dovuto colmarla di gioia orgogliosa?... Sì, sì; ella non era stata mai amata a quel modo; ella non aveva mai incontrata un'anima così amante; ella avrebbe dovuto accorgersene prima, molto prima, dirlo prima ancora che ne fosse stata richiesta!... Ma quello che non aveva fatto, non era forse ancora in suo potere?... Deludendo l'impazienza dell'attesa lunghissima, la baronessa pensava in qual modo avrebbe confessato ad Andrea il proprio inganno, con quali parole dolci come carezze gli avrebbe confessato che mai ella era stata amata come da lui, che nessuna donna avrebbe potuto mai sognare un amore più forte, più vivo, più caldo.... E quelle lettere rimaste in fondo al divano, non bisognava dunque bruciarle, dinanzi a lui, fino all'ultima, perchè se ne disperdesse anche la memoria? Che cosa ne avrebbe ella fatto? Non le ricordavano esse una storia di dolori? Un'amara voluttà aveva ben potuto essere da lei cercata, un tempo, nel rievocare quei tristi ricordi, nel contare tutte le menzogne che le erano state dette, nel misurare la malvagità, di quanti l'avevano perseguitata con l'espressione di speranze che erano altrettanti insulti; ma ora, ora che ella si sentiva rinascere, ora che un avvenire di insperata felicità le si schiudeva dinanzi, che cosa avrebbe fatto di quei documenti d'un passato aborrito?... Però, quel passato bisognava assolutamente che Andrea lo conoscesse. Ella aveva compreso e rispettato da principio i motivi di delicatezza che lo avevano fatto opporre a tutti i suoi tentativi di confessione; ma ora che ella aveva avuto una dimostrazione dolorosamente eloquente delle lotte che si combattevano nel cuore di Andrea, il tacere più a lungo sarebbe stata una colpa. Se egli si opponeva ancora?... Ella gli avrebbe scritto! Come un lampo, questa idea le aveva illuminato lo spirito. Perchè non le era venuta più presto? Così bisognava fare; se più tardi, se fra un'ora egli non le avrebbe permesso di parlare, bisognava scrivergli tutto. E, avvampando d'impazienza, insofferente di ogni indugio, ella andò a uno stipetto, tolse da una cassetta alcuni fogli della loro carta, e passando allo scrittoio, vi prese posto. Si era appena seduta che il campanello elettrico squillò. - Andrea! Come non aveva previsto che quel giorno egli sarebbe venuto più presto? Come era stata sciocca di non correre più presto in giardino, per aspettarlo sotto gli eucaliptus? Rapidamente, ella passò nell'anticamera. Il cameriere si avanzava in quel momento. - Il signor duca di Majoli.... - Avete detto?... - Il signor duca di Majoli insiste per essere ricevuto un istante dalla signora baronessa. - Fate dunque entrare.... Non era lui!... Che cosa avrebbe potuto volere, a quell'ora, il duca di Majoli?... Quantunque fosse una delle pochissime persone che ella vedeva meno malvolentieri dacchè amava Andrea Ludovisi, pure in quel momento quella visita la contrariava; Andrea poteva apparire da un momento all'altro.... - Signora baronessa... mi voglia perdonare.... Il duca era molto pallido in viso e la sua mano tremava un poco nel reggere il cappello. - Duca!... Che cos'ha? - Sono davvero imperdonabile... di presentarmi a quest'ora... ma io vengo da parte... di Andrea Ludovisi.... - Andrea? Avete detto?... Ma che cosa avete? Perchè evitate di guardarmi? - Oh nulla... assolutamente! Dovevo dirle soltanto che Andrea... desidera vederla... - Vedermi? Come vedermi? Se io l'aspetto qui... cioè.... O duca, per l'amor di Dio, che cosa è successo?... Suvvia, val meglio dirle la verità, che non ha nulla di allarmante. Andrea si è battuto.... La baronessa, scomposta in volto, aveva portato le mani ai capelli. - Signore Iddio!... Ed è ferito?... - Oh!... una cosa da nulla. - Duca, in nome di Dio! ve lo domando in ginocchio! ditemi la verità; non mi fate impazzire!... - Ma se le dico, nulla!...Una scalfittura alla spalla, senza nessuna importanza.... - Oh mio Dio!... E dove?... Con chi?... Avete almeno una carrozza?... - È qui abbasso. In un attimo, la baronessa corse a gettarsi uno scialle addosso; tornò rapidamente balbettando confuse parole dall'ansia, dal turbamento, ed uscì a braccio del duca, che la sentiva tremare da capo a piedi. La carrozza partì di corsa. - E con chi? Non me lo avete ancor detto.... - Con Sammartino. - Un'altra volta! Una crisi di dolore la abbattè. Ella lacerava il fazzoletto, si infiggeva, le unghie sulla testa, si torceva le mani, soffocando le grida che le salivano alle labbra. - E non prevederlo, iersera!... Non prevederlo!... Disgraziata, la colpa è mia!... Poi, repentinamente, afferrando il braccio al duca di Majoli, fissandolo cogli occhi atterriti: - Ma è moribondo... dite la verità! Non mi avreste chiamato se non fosse una ferita mortale!... E prima ancora d'aver ottenuto risposta, acquistata quella certezza, ruppe in un singhiozzo lacerante. Il duca le aveva presa una mano, tenendola stretta fra le sue. Una parola gli saliva alle labbra, convulsamente: "Povera!... povera!..." con un impetuoso bisogno di mescere le proprie lacrime a quelle di lei; ma uno sforzo violento, un irrigidimento di tutti i nervi ricacciava indietro la parola ed il pianto. - Fa presto!... Più presto!... - ordinava al cocchiere, sporgendo automaticamente il capo dallo sportello; ma avrebbe voluto piuttosto gridargli: "Torna indietro!... Torna a casa!... per evitare ai due disgraziati una crisi mortale.... Così dunque finiva l'illusione della gioia; era quello il terribile risveglio: quello spasimo, quell'agonia! La carrozza correva, correva per le vie popolose; delle grida echeggiavano, le cornette dei tram squillavano di tratto in tratto, e il sole splendeva nel cielo giocondo. " Sferza!... Più presto!..." Ma per fuggire lontano, per fuggire sempre, per mettere di mezzo lo spazio ed il tempo, per apprestare i grandi, i soli rimedii: la lontananza, la stanchezza, l'oblio.... Al cancello, Vittorio Giussi aspettava. La baronessa gli corse incontro, con le braccia tese, interrogando con lo sguardo. - Si faccia animo!... Non sarà nulla!... - Ah! E la donna si slanciò avanti, di corsa. I due amici la raggiunsero, cercando di trattenerla. Ella si svincolò e passò ancora innanzi. Ma nella sala, il dottore l'arrestò. - Signora, sia prudente; rinunzii a vederlo, per ora.... - È morto!... - Ma no, ma no; morirà se non gli si risparmia un'emozione. L'abbiamo chiamata per farlo contento; ma sta a lei ad esser prudente, a rinunziare.... Ad un tratto s'intese una voce debole, ma chiara, che chiamava: - Costanza! Ella si precipitò nella stanza. Pallidissimo, come di cera, col busto sorretto da un monte di origlieri, la camicia squarciata e sanguinosa che lasciava vedere una larga fasciatura, le braccia abbandonate da una parte e dall'altra, Andrea Luclovisi ripetè, più debolmente: - Costanza! Ella era caduta in ginocchio accanto al letto, aveva presa la sua mano fredda e sbiancata, stringendola fra le sue, coprendola di baci fra i singhiozzi che le spezzavano le parole. - Andrea!... Andrea mio!... Che hai fatto!... Andrea mio!... Oh, Signore!... pietà!... Cercando di liberare la sua mano, egli disse: - Calmati, Costanza... calmati... se mi vuoi bene! Alzati, fatti più vicina... così... che io ti veda tutta... che io ti baci... purchè tu non pianga, Costanza.... - Ma perchè, Signore! perchè... - e, parlando, ella gli passava una mano sui capelli, lievissimamente - perchè hai fatto questo?... Andrea Ludovisi chiuse un istante gli occhi. - Senti... io non potevo vivere con l'idea che quell'uomo... ti avesse... amata. Ella si rialzò con un tremore in tutta la persona. - Oh... ancora! Andrea, per quel Dio che ci vede, per quel Dio che deve ridarti all'amor mio, no! non è vero! non è stato mai!... - Allora... quella lettera? - Ma quale? Quale lettera?... - Una di quelle, la lettera che tu volesti mostrarmi.... Un sorriso sfiorò la bocca della baronessa, mentre, curva di nuovo sul ferito, ella tornava ad accarezzarlo. - Ma come quelle ve ne sono tante altre, povero amore!... Tu, amore, non l'hai letta!... Perchè non l'hai letta?... Sono delle dichiarazioni con le quali mi hanno perseguitata da per tutto!... Se sapessi quante me ne ha mandate colui!... Se sapessi da quante parti me ne sono piovute, da gente che non conoscevo neanche di nome!... Se sapessi come si tratta una donna nella mia posizione! Come tutto pare possibile, come tutto pare permesso!... Ma non era che questo, bambino?... Perchè non lo hai detto prima? E nella gioia di vedere dissipato il malinteso che era stato causa di quella tragedia, ella quasi ne dimenticava le conseguenze: - Povera Costanza! - esclamò Andrea, rivolgendole uno sguardo di compassione profonda. - Oh, sì, povera, povera tanto! Quante amarezze, quante umiliazioni! Quanta codardia in tutti questi uomini che ci circondano!... Tu solo, tu solo sei nobile e generoso, tu solo mi hai amata.... - È vero? Strettamente abbracciati, gli occhi negli occhi, pareva che essi volessero trasfondere Ie anime in quello sguardo supremo. - Sì, è vero: tu solo! Tu, che hai avuto paura di confessarmi l'amor tuo! Tu, che mi hai rispettata prima di amarmi! Tu, che hai esposto la tua vita per me! Tu, che sei stato geloso dei miei pensieri e dei miei ricordi! Tu, che non hai mai voluto conoscerli!... - Ancora!... ancora!... - Tu, Andrea, che mi hai fatto rinascere; tu, che mi hai fatto credere a tutte quelle cose di cui avevo disperato, alla bontà, alla sincerità, alla fede, all'amore.... No, io non sono mai stata amata, così! Non sono stata amata niente! Non lo sai? Mio marito mi ha lasciata otto giorni dopo il nostro matrimonio! Mi ha presa per la mia fortuna, che ha rovinata a metà! Mi hanno data a lui, perchè ero di peso in casa, e perchè aveva un nome! Ed ho subìto gl'insulti più atroci, le vergogne più innominabili. Allora, capisci, io non ero corazzata d'acciaio contro le seduzioni... Feci.... - Costanzal... te ne scongiuro!... - Zitto, bambino! Lascia fare a me. - E riprese, rapidamente: - Feci... come molte altre. Credetti d'avere incontrata la felicità; credetti - hai capito? - Fu una tregua soltanto. L'amore di... colui, finì presto... se pure cominciò mai... No, no; hai ragione, non cominciò mai!... Un sentimento di falso dovere non gli fece dir nulla; e, in cambio, mi oltraggiò... capisci come? preferendomi una... delle altre. Mi sentii sferzata a sangue. Vidi tutto abietto intorno a me; in quell'abiezione volli cadere anch'io, per vendetta, per rabbia impotente.... Fu una volta sola, e fu abbastanza... Andrea, te lo giuro, per l'amor nostro!... Andrea!... Andrea, che cos'hai?... Egli si era fatto ancora più pallido, spaventosamente, ed aveva portato una mano al petto. - Il sangue! il sangue! il sangue di Andrea! il sangue generoso versato per questa indegna! E accostate le mani alla fasciatura tutta madida, le portò al viso. - Che io mi lavi nel tuo sangue, ch'io lavi le mani, ch'io lavi la fronte, ch'io lavi la bocca, che io mi lavi tutta, ch'io mi purifichi - è questo? - sì, così... così.... - Tu sei redenta.... Al contatto di quelle labbra ghiacciate che si posavano sulle sue mani sanguinose, ella sentì un brivido passarle per tutto il corpo. - Lasciami... ch'io chiami.... - Non ancora, Costanza!... Un silenzio. A un tratto s'intese la pendola suonare le due. Egli rivolse alla donna uno sguardo pieno di passione, e disse, con voce che si sentiva appena: - A quest'ora.... sotto gli eucaliptus.... Ella non fece a tempo a contenere uno scoppio di pianto. Disperatamente, si lasciò cadere in ginocchio, mettendosi in bocca, per frenare i singhiozzi, un lembo del lenzuolo pendente. Ad un tratto, si senti chiamare: - Costanza... soffoco... l'aria.... Ella corse a schiudere la finestra. Come si voltò vide gli occhi di Andrea rovesciarsi e la bocca contorcersi un poco.... Al sordo rumore di un corpo che cadeva di peso, gli aspettanti si precipitarono nella stanza; e mentre il dottore, con un gesto disperato, accertava la morte, il duca di Majoli si curvava sulla irrigidita Costanza di Fastalia, sollevandola paternamente.

Pagina 66

Il marito dell'amica

244984
Neera 5 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Tanta espansione d'affetto vinse gli ultimi scrupoli della signora; ella pensò poi in cuor suo che, qualunque fosse la posizione di Sofia, era abbastanza ricca per contracambiare l'ospitalità. Giunsero frattanto all'ultima casa di via Monforte; e Sofia, tutta giuliva, precedendo l'ospite sulla scala la introdusse nel suo appartamentino, elegante e signorile, coll'aria un po' vuota degli appartamenti nuovi. - Ci siamo! - esclamò poi, trionfante. E volta alla cameriera, che aveva aperto l'uscio: - Mio marito? - Non è tornato ancora. Qui la forestiera fu ripresa dalla curiosità di sapere, alla fine, chi fosse il marito della sua amica; ma la prudenza e il tatto acquistati in una vita burrascosa la consigliarono ad aspettare le confidenze, anzichè provocarle. - Che c'è? - domandò Sofia alla cameriera che restava ritta sulla soglia, con fare impacciato. - È venuto il signor Bandini. - Ebbene? - È qui; aspetta la signora. Sofia arrossì leggermente. - Digli.... digli che.... Poi con una delle sue brusche risoluzioni: - Maria - aggiunse mettendo una mano sulla spalla dell'amica - mi permetti? E prima che Maria potesse rispondere: - Torno subito; devo dire due parole a quel signore. Tu intanto leva il cappello; la cameriera ti condurrà in una cameretta accanto alla mia.... è piccina, ma te la accomoderemo per benino, vedrai. Fa come se fossi in casa tua; cinque minuti e sono da te. Sparve lasciando dietro a sè, sul tappeto, un guanto e la pezzuola profumata di verbena. In un gabinetto ottagono, tappezzato di stoffa color verdemare a mazzi di rose in rilievo, un giovinotto aspettava, sdraiato su un divanino basso. La sua testa bruna, accuratamente pettinata, spiccava sul fondo della tappezzeria, mettendo una nota forte in quella armonia romantica e delicata delle rose sulla gradazione color d'acqua. Egli aveva una posa affatto prosaica, coi piedi appoggiati al cuscinetto di trine che stava a un lato del divano; ma balzò ritto quando Sofia schiuse l'uscio, dicendogli a bruciapelo: - Siete molto imprudente. Perchè aspettarmi? Lo sapevate pure che oggi mi recava a trovare il bambino. Andatevene; ho un'amica con me; non posso ascoltarvi. - Ecco un fiume di parole, fra le quali ne cerco invano una dolce al mio indirizzo. - Scusatemi. Sorrise, e gli porse la mano che egli baciò. - È molto tempo che siete qui? - Non so.... pensavo a voi e non ho contato le ore. - Sempre galante. - Dite sempre innamorato. - Ztt!... sapete che questa parola non la voglio sentire. Amico, alla buon'ora. - Che distinzione sottile.... Ma se sapeste come il sentimento che provo per voi è nobile... elevato... - Lo credo, senza di che ve lo permetterei forse? Ma andatevene. Oggi non possiamo far musica insieme, nè leggere i nostri poeti favoriti... - Ma che cosa vi è accaduto? - Una combinazione strana. Ho incontrato, figuratevi, l'amica mia più antica e più cara, dopo sei anni che non ne sapevo più nulla. Pensate quante cose abbiamo a dirci. Eravamo in collegio insieme, lei con qualche anno più di me, e ci siamo amate con passione, con una intensità che faceva strabiliare tutti; molto più che i nostri caratteri sembrava dovessero armonizzare poco. Lei seria, studiosa, riflessiva... io tutta gaia, vivace... i maligni dicono anche leggera; ah! ma protesto. Maria mi conosce bene; sa che sotto una apparenza... come dire? - Incantevole. - Oh via! Gli diede un buffetto sotto il mento. - Dunque andatevene. - Ma sino a quando starà qui la vostra... - La mia amica? - Sì... Cercavo un nome ad hoc, come Castore e Polluce, Oreste e Pilade... ma è singolare, nella storia dell'amicizia mancano affatto i nomi femminili. - Maligno. Si vede proprio che parlate per invidia. Ebbene, saremo generose. Vi permettiamo di venire a farci la vostra corte alla sera. - Coram populo? Sofia si strinse nelle spalle con un movimento pieno di civetteria e di grazia. - Pazienza. Posso mandarvi alcuni fiori? - Sempre bene accetti. L'elegantissimo Alfredo Bandini tornò a baciarle la mano, sospirando, e si accomiatò. Sofia stette un momento a guardare l'uscio per dove era partito; aveva l'occhio brillante, il seno agitato da un palpito irregolare; si sentiva felice e malcontenta nello stesso tempo. Girando lo sguardo sulle pareti del gabinetto, la sua emozione parve trovare una fonte di mollezza nel verde tenero dove morivano le rose, sul divanuccio a spalliera dorata, dai contorni morbidi, nella luce della finestra, smorzata da tendinette di seta rosea; e sedette, cedendo al fascino di un languore che la invadeva tutta. Quel Bandini!... Il giorno in cui le aveva offerta la propria amicizia ella era uscita, irata, dalla prima battaglia col marito. Bandini le parlò con tanta grazia dei cuori che soffrono, mostrò di conoscere così bene l'organismo di un'anima femminile, trovò parole così eleganti, (era toscano e parlava come un angelo) che a lei parve di rinascere, come quando dopo una pioggia violenta si vede spuntare un raggio di sole. Ed ora, sì, ora c'era del pericolo. Sofia si raggomitolb sul divanuccio, abbandonando la testina sul guanciale. Si trovava nella stessa situazione di un fanciullo al quale venga proibito di aprire un vaso di miele, ma che a furia di girarvi intorno, riesce a scoprire nel vaso un forellino, dal quale succhia il dolce pensando di non far male. La cameriera venne a toglierla dall'estasi, domandandole gli ordini per la forestiera. - Ah sì! - fece Sofia. E si alzò, ratta, dimenticando subito Bandini per ricadere nella tenerezza che le suscitava l'amica, compiacendosi in quel passaggio violento dall'una all'altra emozione. - Dov'è? - È nel salotto. - Va bene. Quando viene mio marito avvertilo subito che c'è di là una mia carissima amica.

Questa sfuriata improvvisa, abbastanza singolare e senza dubbio fuor di proposito, terminò di lumeggiare Sofia. L'amica concluse che aveva fatto bene a venire; si soffriva in quella casa. Compresse un leggero turbamento e mostrando solo affettuosa sollecitudine, disse con accento calmo e grave: - Cara piccina, chi ti ha messo in testa queste brutte idee? - Chi? Nessuno. Le vedo io. - E dove le vedi? - Dappertutto. - No, deppertutto, da un lato solo. - Ah! si, il tuo solito lato. Puoi parlare così perchè sei felice. - Se trovi che è una felicità l'essere vedova a ventotto anni... sola al mondo... Era vero. Come mai Sofia aveva potuto dimenticare i suoi doveri di ospitalità, la sua amicizia, per perdersi in digressioni personali? Un momento, in carrozza, Maria le aveva accennata la sua vedovanza, e poi più nulla; ella non s'era curata di domandarle altro. Rimediò nel solito modo, eccedendo sempre, con una valanga di abbracci. - Povera Maria, perdonami! Oh! ma dimmi, sei stata felice? - Secondo ciò che s'intende per felicità. - Hai trovato un marito almeno che avesse i tuoi gusti, le tue abitudini; che amasse quello che tu ami e abborrisse quello che tu abborri? un marito tenero, appassionato, previdente, compiacente... Maria ebbe un accesso di schietta ilarità. - Che ritratto fantastico! Questo, mia cara, non è un marito, è un amante. - Ah! - fece Sofia trionfante - lo confessi dunque, i mariti non sono così. - Senza dubbio... ma essi sposano; è il gran merito che hanno sugli amanti. I sospiri, le dichiarazioni, i madrigali di tutto coloro che ci fanno la corte, non valgono il solo, semplice sì di colui che ci dà il suo nome. È il poema in confronto del sonetto; non si può giudicarli alla stessa stregua, e non si può pretendere dal poema il ritmo grazioso e leggero di un sonettino. - Tanto grazioso! - sospirò Sofia. - E tanto leggero - appoggiò l'amica - Perchè, infine, qual'è lo scopo di questi corteggiatori, che ci si assiepano intorno? (Ella pensava in quel momento al signor Bandini). Vi amo, essi dicono, ma noi siamo giovani, siamo avvenenti, che gran sacrificio l'amarci! Le nostre poltrone sono soffici, morbido il tappeto, il salotto tiepido; non pagano essi le toelette che ci fanno eleganti, nè l'accordatura del nostro piano che li delizia. Vorrai pure ammettere, senza peccare di superbia, (sorrideva) che abbiamo un certo spirito: così il valoroso che ci dedica il suo amore non corre nemmeno il rischio di annoiarsi tra un bacio e l'altro. Essi, sicuro, vogliono farci credere che ci amano per farci piacere; ma il piacere lo fanno a sè stessi. Sofia rimase un momento sopraffatta; poi seguendo lo slancio dei suoi pensieri superficiali gridò: - E allora ho dunque ragione di dire che noi, povere donne sensibili, siamo costrette a cercare senza posa... - Punto - interruppe Maria, dissimulando un sorriso per la singolare conclusione. - Io direi invece che, poichè è sempre la stessa cosa, meglio il marito co' suoi difetti, co' suoi sbadigli, colla sua veste da camera... Non sarà eroico, ma è sincero. Sofia rise di cuore. Questa dissertazione sugli uomini l'aveva divertita; gli uomini erano un tema favorito per lei, anche a costo di dirne male, o di lagnarsene, o di vituperarli, accusandoli di tutte le disgrazie che colpiscono il sesso debole. - Siamo curiose noi due - disse alla fine. - Invece di raccontarci le nostre vicende siamo qui a discutere come avvocati. - Sì, parliamo un poco di noi. - Prima te. Che vita fu la tua dopo il collegio? - Ho sofferto molto. - Eppure sei rimasta buona: io vedi, quando ho qualche cosa che mi contraria divento cattiva. - Così è dei piccoli dolori; inaspriscono - rispose Maria colla sua gran calma serena, colla sua voce calda, dalle vibrazioni sonore. - Solamente i grandi, i veri dolori danno forza. Tu vivi in una piccola cerchia di piccole emozioni; il tuo mondo interno, scommetto, ha le proporzioni dell'ambiente che ti circonda: un salottino, un lembo di cielo, un raggio di sole, un po' d'aria... quanto basta, appena per respirare. - Ma io... - Cara, non te ne faccio una colpa. È press'a poco la vita di quasi tutte le donne. Che eri tu a cinque anni? Una bella bambina vestita di bianco, coi capelli sciolti sulle spalle; la mamma ti adorava, ti baciucchiava, ti chiamava il suo tesoro; gli amici di casa ti portavano i confetti... non è così? - Precisamente. - E a quindici? A quindici, l'abito era ancora bianco, quando non era color di rosa, ma sempre fatto all'ultima moda sotto l'occhio vigilante della mamma. Gli amici di casa, invece dei confetti, ti offrivano dei fiori, delle romanze... ti facevano dei complimenti. Ti alzavi alla mattina cantando, poi andavi a passeggio; alla sera ballavi. Tutti sorridevano intorno a te, facevano a gara per persuaderti che la vita è seminata di rose. - È vero. - Ti presentarono finalmente un marito; era giovane, ricco, piacente... tu lo hai preso. - Oh! - sospirò Sofia - non tutto questo, ma infine fu proprio così. - Ed ora concludi; come è vuota la vita! Ma sai perché la trovi vuota? Perché non hai sofferto mai. In fondo alla sua leggerezza Sofia non mancava nè di cuore, nè di ingegno. Le ultime parole dell'amica la colpirono fortemente; Maria se ne accorse e cedette più volentieri ancora a un sentimento generoso che le dettava di essere la prima a rivelarsi. - Senti; io rimasi orfana presto e per questo dovetti imparare a reggermi da me e ho conosciuto che cosa vuol dire lottare... Tu meriti la mia confidenza, Sofia; mi hai accolta in casa senza saper nulla di me; voglio renderti la prova di fiducia, voglio aprirti intero il mio cuore. - Oh cara... Due lagrime spuntarono sugli occhi di Sofia e scendendo lungo le guancie, tracciarono un piccolo solco nella polvere rosa della cipria. - Hai conosciuto mio padre, - continuò Maria. - Sai che uomo era, e come ad una mente elevata unisse un carattere fiero e indipendente. Povero, aveva fatto sforzi incredibili per provvedere alla mia educazione in collegio. Tornata con lui, la nostra vita ritiratissima veniva quasi interamente consacrata allo studio. Eravamo affatto soli; non avevo amiche; non andava mai al passeggio; il carattere un po' selvaggio di mio padre e i suoi crescenti malanni, ci facevano il vuoto intorno; nessuna eco delle gioie mondane veniva a scuotere il silenzio claustrale della nostra casa. Leggevo a mio padre i suoi libri di storia e di scienze naturali; ascoltavo le sue dissertazioni, i suoi lamenti di vecchio disilluso, le memorie e i rimpianti del tempo passato... e avevo sedici anni. Dentro a me la vita, intorno a me la morte. - Povera Maria! Io sarei morta davvero. Mi ricordo, l'unica volta che venni a trovarti che impressione mi fece il muraglione nero del tuo cortile, e quell'unico cipresso funebre che lo ombreggiava, e quella sala austera, vasta come un tempio, nuda e fredda come una prigione... - Te la ricordi? Ebbene in quella sala austera, in quella sala che somigliava ad una prigione ho passato la mia giovinezza, quasi tutta. Nelle belle mattine di primavera, sporgendomi sul muraglione nero coperto di muffa, seguivo in alto il volo delle rondini e da un vicino giardinetto mi veniva a ondate il profumo delle glicinie che non potevo vedere; leggevo sui libri le descrizioni dei prati verdi e degli alberi in fiore; avevo qualche volta una voglia pazza di correre, di gridare, di buttarmi sull'erba, di allargare le braccia verso il cielo sconfinato... D'estate, verso sera, sentivo le ragazze del vicinato che si vestivano, ridendo, e uscivano per il passeggio. Io mi accoccolavo per terra, sfinita, con un desiderio intenso di vivere. Non sapevo se io ero bella. Chi vuoi che me lo dicesse? ma avevo una voglia grandissima di essere bella e di essere amata. - Ma proprio nessuno veniva in casa tua? Tuo padre non capiva che soffrivi? Maria scosse il capo. - Mio padre era vecchio, infermo, disilluso del mondo; la pace, una pace assoluta, era il suo bene. E poi, eravamo sempre in grandi impicci economici; nell'età in cui le altre ragazze vivono serenamente di sogni, io conoscevo già il prezzo del pane sudato, misurato... oh! ma se tu sapessi come le avversità maturano l'intelletto, come tutto ciò che è lotta ringagliardisce e dà forza! Aggiungi che nella mia schiavitù avevo una specie di libertà superiore alle mie compagne, perchè mio padre non mi sorvegliava punto e nella sua biblioteca avevo trovato dei libri di filosofia, di scienza, di medicina sui quali io mi ero precipitata, come sull'unico spiraglio di luce che mi fosse concesso. Pascevo lo spirito per ingannare la lunga anemia del mio corpo. - Hai sempre amato lo studio, tu. - Sì, ma più che lo studio, la verità. Avevo la smania di sapere, di conoscere... Frugai impavida, in tutti i problemi religiosi e filosofici... Da un lieve segno di stanchezza apparso sul volto di Sofia, Maria comprese che si era messa in un argomento troppo serio; la leggiadra donnina non poteva seguirla sul sentiero faticoso dove la sua anima aveva combattuto. Sostò improvvisamente, turbata, sentendosi un rossore sulla fronte; pentita forse di quell'abbandono di sè stessa. Alle vive sollecitudini di Sofia, continuò: - Tu vedi ad ogni modo, come io crebbi; bene o male che sia, la mia educazione così differente da quella che si imparte alle fanciulle, mi fece quello che sono. - E nessuna altra corrente ti sviò... nemmeno più tardi? - Vuoi dire l'amore? Esso venne e ribadì le mie catene da una parte, allargò dall'altra l'orizzonte delle mie gioie ideali. La mia esistenza non mutò affatto - si fece solo più concentrata. Tutti i desideri, le ansie, i sospiri che tacitamente mandavo al mondo, al di sopra dei muri della mia prigione; le aspirazioni sitibonde alla vita che mi tentavano nelle sere d'estate, quando sentivo l'eco delle gioie altrui; i turbamenti ignoti, le smanie cocenti, tutto ciò che ondeggiava come nebbia nel mio cervello, come fuoco latente nelle mie vene; tutta infine la mia giovinezza compressa e selvaggia si radrizzò lanciandosi verso quel sentimento nuovo. L'amore prese subito il posto d'ogni cosa che mi mancava; ma l'amore compresso, l'amore segreto, l'amore senza speranza, il più fatale, il più forte degli amori! Esso mi fu gioia, mi fu sorriso d'amica, mi fu carezza di madre, fu la fede del mio avvenire... io non avevo che lui! Te lo immagini questo amore serio e profondo? Lo vedi crescere di giorno in giorno e mettere radici indistruttibili in un cuore come il mio, che non aveva nessuno degli allettamenti mondani? Sofia strinse un momento la piccola testa tra le manine eleganti. L'amica le aveva schiuso un abisso di pensieri. Ella si trovava per la prima volta davanti ad una vera passione e ne provava le vertigini, non esenti da un brivido di terrore. - Ma chi era quest'uomo? domandò timidamente. - Chi era?... (Un gran pallore passò sulla fronte di Maria). La crescente ristrettezza nostra ci consigliò di prendere in casa un giovane, caldamente raccomandato a mio padre per senno e sapere. Quando dico un giovane non ti devi figurare... no, non dei soliti. Egli aveva poco più di trent'anni, ma le fatiche di aridi studi lo avevano invecchiato anzi tempo, e più nello spirito che nel volto. - Tuttavia ti piacque? - Lo amai - disse. E dall'accento grave, quasi solenne, Sofia colpita non replicò altro. Trascorse un minuto di silenzio, dopo il quale l'amica avrebbe forse ripreso le sue confidenze; ma durante quel minuto lo squillo del campanello avvertì l'arrivo di qualcuno; infatti la cameriera facendosi sulla soglia annunciò il signor padrone. - Ripiglieremo questa sera i nostri discorsi, - disse Sofia alzandosi. - Con mio marito saremo obbligate a sorbirci un po' di noia... non è lui certamente che potrebbe comprenderti, cara la mia Mariuccia. - Mi spaventi - rispose Maria abbozzando un sorriso, e poichè il passo del marito già risuonava, nella stanza vicina, aggiunse. - Ma chi hai dunque sposato? - Non te l'ho ancor detto? Vedilo, il professore Emanuele Campo... Maria emise un grido rauco, soffocato; fu assalita da uno smarrimento improvviso; si aggrappò colle mani contratte ai bracciuoli della poltrona quasi temesse di cadere; e Sofia nulla vide, nulla udì, essendo balzata verso l'uscio, spalancandolo, con fracasso di imposte sbattute e di allegro vocio. Emanuele Campo entrò.

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A questo punto, con tutte e due le mani, prese il guanciale e se lo pose sul volto, premendo, non trovandosi abbastanza nascosta nelle tenebre, desiderando nascondersi a sè stessa in un bisogno di annientamento; ma anche soffocata dal guanciale vedeva gli occhi di Emanuele senza lagrime intanto che la sua voce misurata le diceva: Non posso farti mia. E l'amava, sì, l'amava; ma non aveva la fede che ispira, non aveva il coraggio che spinge alla lotta, non si sentiva la forza di darle la sola prova d'amore che un uomo possa dare ad una donna onesta: soffrire con lei, lavorare per lei... E dopo tanti anni, lì, in quella camera che apparteneva a lui, su quel guanciale dove egli aveva forse appoggiata la testa sognando di un'altra, i singhiozzi della povera donna scoppiarono alti, irrefrenati.

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Avvezza a una vita di pensiero, quella esistenza meschina e superficiale la irritava e le faceva male; vedeva chiaramente la china per cui Sofia scivolava e avrebbe volulo richiamarla a' suoi doveri, ma si chiedeva se ne aveva il diritto e se era abbastanza pura per poterlo fare. L'ambiente tiepido del concerto, la melodia dei suoni, la corrente sensuale che aveva dischiuso tanti sorrisi, e accese tante scintille negli sguardi procacemente ricambiati; tutta quell'onda l'onda di mollezza, di abbandono, quel profumo di gentile peccato diffuso in ogni atomo, l'aveva momentaneamente prostrata. Nella oscurità della carrozza, scorgeva la massa nera formata dal corpo di Emanuele, a un breve tratto da lei; i loro abiti si toccavano. Come mai i loro pensieri non si sarebbero incontrati? - Non ho veduto al concerto la Guidobelli - disse improvvisamente Sofia. - Si capisce - rispose Emanuele - poiché si trova già da cinque o sei giorni sul lago, nella villa di Ormani. - È contento il marito? - chiese Sofia con una vocetta squillante. - Contentissimo. Fra un mese al più saranno divisi legalmente. La cosa parve naturale a Sofia, ed anche al professore, che aggiunse: - Egli ha già pronto il conforto. - La Rina Lucci, non è vero? - Si dice. - Dovrà allora abbandonare il suo capitano. - O tenerli entrambi. Il silenzio si rifece su queste parole. La carrozza andava avanti lentamente, nelle vie semi buie dei sobborghi lontani dal centro. Tratto tratto un fanale sull'angolo di una viuzza o al di sopra di una bottega gettava nell'interno un rapido sprazzo; fu in uno di questi momenti che Maria vide lo sguardo di Emanuele rivolto su di lei e ne provò un senso di tormento che tradusse rincantucciandosi più ancora nel buio. La sua gran calma era messa a una dura prova, nè ella stessa avrebbe saputo dire se più temeva la vittoria o la sconfitta. Giunta a casa si fermò a discorrere con Sofia cinque minuti, in piedi, tra due usci. Sofia le disse che il giorno dopo doveva andare ancora a trovare il suo bambino, che sarebbe tornata subito, e appena appena fosse rimesso in salute l'avrebbe condotta anche lei a trovarlo. Non glielo voleva mostrare brutto, giù di ciera... Le mamme sono molto civette... La salutò, baciandola sulle guancie, e poi sul punto di allontanarsi: - Ah! mi dimenticavo; domani è il mio giorno di ricevimento; sarò a casa per l'ora delle visite, senza alcun fallo, ma se capitasse qualcuno, te ne prego, fa gli onori e scusami presso i miei amici. E scusami tu pure. Sotto l'apparente volubilità, l'accento di Sofia aveva qualche cosa di incerto, come un pensiero nascosto a stento nell'onda delle parole; Maria, nel salutarla di nuovo, sentì che le tremava la mano e si ritirò turbata da mille dubbi strani, inverosimili, malcontenta di una posizione dove tutto era mistero. Emanuele amava Sofia? Sofia gli sarebbe rimasta a lungo fedele? Sapeva ella qualche cosa del passato di lui? Egli si curava dell'avvenire di lei? Da qual parte stava la virtù? Chi soffriva più dei due?... Chi mentiva meglio? Queste e altre domande fluttuarono per alcun poco nella mente di Maria, confuse alle impressioni del concerto, all'attitudine spavalda di Bandini e a quella indifferente di Emanuele; ma tutte insieme non erano di natura tale da tenerla desta; al contrario le pesarono e le si aggravarono addosso finché trovò pace in sonno greve, senza sogni. All'indomani, era un bel mattino primaverile e gaio, il terzo da che Maria si trovava a Milano. Aprendo la finestra le parve di sentire un'onda di profumi che venissero a darle il buon giorno. Maria li respirò a lungo, sentendosi rinascere nella purezza dell'aria fresca. Appoggiata al davanzale, mentre respirava gli olezzi del sambuco e delle glicinie fiorite, le veniva in mente il suo meraviglioso giardino delle Estancias, dove tutta la flora americana pompeggiava nel massimo sviluppo, dov'ella aveva trovato la pace, dove tanti cuori di persone ignoranti e buone l'avevano amata sinceramente - e si domandò se era tornata nella sua patria per rivedere una vana amica e un amante infedele. Dovette pur confessare a sè stessa che la speranza di incontrarsi con Emanuele l'aveva spinta al lungo viaggio; e perchè la speranza non aveva oramai ragione di essere, poichò il passato era irrevocabilmente distrutto, a che restare? Da un alto ramo della glicinia si staccò una fogliolina lilla, attraversando lo spazio: roteò un istante portata da una folata di vento, leggera, iridescente, bagnata nei vapori biondi del mattino che la facevano scintillare come un ame tista, poi cadde a piombo sul viale, dove fu presto confusa nell'umida e grigia uniformità della sabbia. - Così è! - mormorò Maria a fior di labbro; e si staccò dalla finestra, tranquilla, ma con una punta di malinconia in fondo al cuore. Nella cameretta che le avevano assegnata e che serviva prima di studiolo, c'era una libreria. Maria incominciò a guardare distrattamente il titolo dei libri, quasi tutti romanzi e poesie, finchè la colpì il cartoncino di un piccola volume; quel cartoncino era giallo, con dei mazzi di rose rosse, somigliante a nessun altro; antico, puerile nelle sue aspirazioni di eleganza; aveva i tagli dipinti in color lacca e un nastrino verde, succinto, pendeva dal mezzo delle pagine. Ella sentì un palpito alla vista di quel libro, lo prese tremando; era Puschin, uno di quelli che aveva letti in compagnia di Emanuele, uno de' suoi più simpatici. Lo strinse nelle mani come un amico, e si pose a sfogliarlo febbrilmente, quasi dalle carte ingiallite potessero uscire fresche e vitali le illusioni d'una volta. Rilesse: «Le procelle delle passioni rinfrescano, rinnovellano, maturano i cuori di vent'anni e fanno loro produrre splendidi fiori e frutti; ma nell'età provetta e infeconda il ravvivamento degli affetti, non genera che doglia e pianto, simili alle piogge d'autunno, che sfrondano i boschi.» «Felice colui che si alza dal banchetto della vita prima di vedere il fondo del bicchiere. » E rimase col libro aperto, abbandonato sui ginocchi e sovr'esso gli occhi immobili pieni dì lagrime. Fu bussato all'uscio timidamente. Maria si alzò. Era la cameriera che veniva a chiederle se le occorresse la sua opera prima della colazione. - La colazione? - domandò Maria trasognata - Quante sono le ore? - Le dieci e mezzo. Il padrone è già nella sala da pranzo. Il padrone! Maria aveva dimenticato che la. sua amica non c'era, che il padrone sarebbe stato solo con lei. - No - rispose in modo reciso - non vengo a colazione. Favorite dire al mio domestico che si tenga pronto. Esco. Uscì difatti quasi subito, seguita da Pablo.

Pagina 64

Sofia, senza muoversi, tese la mano; prese il portafogli, lo aperse e stracciò il primo foglietto - non abbastanza rapidamente che Maria non potesse leggervi un sì, scritto a grossi caratteri tremanti, con matita rossa; poi lo rese. Appena la cameriera fu uscita, le due amiche caddero nelle braccia l'una dell'altra; Sofia in preda a una convulsione di nervi, singhiozzando sulla spalla di Maria.

Pagina 89

Il ritorno del figlio. La bambina rubata.

245526
Grazia Deledda 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Verismo
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Intanto era notte e non abbastanza scura per me che invocavo tanta luce. II cielo s'incupiva, ma le stelle s'avvicinavano alla terra, e laggiù, in fondo alla strada, una pareva sorgere dal mare. La drogheria era deserta, con le sue scatole rosse, i cestini vuoti, i sacchi che parevano addormentati pesantemente: io ero calmo, o almeno mi pareva: tanto calmo che vedevo e notavo ogni cosa; così vidi che anche la porticina del corridoio era aperta; e nel quadrato di luce, in fondo, si movevano delle ombre. Forse i Tobia non erano ancora a tavola: bisognava aspettare qualche momento. E io ebbi il coraggio, la calma di aspettare, lì davanti alla loro porta, finchè il movimento delle ombre cessò. Dopo tutto non andavo a fare nessun male: perchè aver paura? Eppure perchè desideravo che la persiana fosse stata chiusa? All'ultimo momento mi tornavano in mente tutte le difficoltà a cui andavo incontro con l'incaricarmi della bambina: avevo anche paura di farle del male, avevo impressione che ella dovesse pesarmi.... Ero stanco per la corsa già fatta: nulla avevo mangiato da tante ore; ero attirato laggiù verso il mare dalla frescura notturna, dall'occhio smeraldino della stella.... Andar laggiù.... Buttarmi sulla rena; dormire, lasciar dormire.... Tutte cose superficiali, pensieri inutili, ombre vane; qualche cosa di più forte mi tiene, in fondo: il proposito di riuscire nel mio intento. E faccio alcuni passi: rasento ii muro: tocco la persiana: la persiana cede, viene a me; ho l'impressione che abbia tenuto il segreto, che voglia aiutarmi: spingo l'imposta, l'imposta cede, va in là, come scostandosi per farmi largo: e i vetri hanno un vago bagliore misterioso: riflettono la mia ombra, hanno qualche cosa di vivo, come occhi che vedono ma capiscono il perchè delle cose e compatiscono; il diavolo mi aiuta e mi spinge: la stanza è chiusa, illuminata solo dal chiarore della strada, dal biancore della culla. Io ho un'ultima esitazione; mi chino, sento l'odore tiepido del latte, delle piume calde; mi viene da piangere, ho paura di rompere la bambina col solo toccarla.... Poi la presi quasi con violenza, strappando con lei la coperta e avvolgendola rapidamente perchè non sentissero se si metteva a piangere. E fuggii.

Pagina 202

Qui la luce era meno chiara perchè i vetri erano chiusi: ma abbastanza per lasciarmi scorgere distintamente il viso della bambina. E quel viso era scuro, come coperto di un velo violaceo: dalla piccola bocca continuava ad uscire del latte; gli occhi socchiusi erano duri; bianchicci, come anch'essi annegati nel latte. Mi sembrò che il cuore mi si sciogliesse in sangue e quel sangue mi riempisse la gola e volesse sgorgarmi dalla bocca come il latte dalla bocca della bambina; e un grido infatti mi uscì: un grido che mi parve la voce di Dio e mi fece fuggire.

Pagina 211

Il romanzo della bambola

245599
Contessa Lara 3 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
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Il cuore tiene luogo di molta ricchezza; Camilla non avea che il suo povero cuore di bimba diseredata da offrirle; ma la Giulia aveva sofferto abbastanza, trascinata da un mobile all'altro, rinchiusa dentro l'armadio come uno straccio in disuso, perchè non le importasse più nulla, nè di balli, nè di cene, nè di gite in carrozza, nè di case signorili. Capiva che il carattere di quella bambina era serio, che il suo cuore era buono, costante; e un benessere nuovo, un sentimento di sicurezza de' più dolci la riempivano di gioia, di serenità. Povera e felice! non si curava di tutto quanto lasciava dietro a sè di frivolo. Avrebbe fatto vita nuova... pelle nuova - almeno nel piedino straziato. Sicchè disse addio, malinconica ma senza rimpianti, alla elegante casa de' Rivani, dove aveva conosciuto la vita di chi si diverte, non quella di chi è amato davvero. La Marietta la vide andarsene senza farle una carezza, senza darle un addio, senza nè anche prenderla in braccio un'ultima volta: ormai, agli occhi suoi, la Giulia era un balocco guasto e null'altro. Nel cortile, dappiede alle scale, il Moro insellato per la passeggiata a Villa Borghese, aspettava, tenuto per la cavezza, la padroncina, sbuffando e raspando, co' segni della più viva impazienza. Girò la testa quando la signora Amalia e Camilla scesero le scale. La bambola avrebbe voluto stringersi ancòra più alla sua nuova amica; fissò gli occhi sul cavallo capriccioso come la Marietta... e se le lacrime del cuore potessero filtrare attraverso il vetro, due lacrime, forse, avrebbero rigato quel visetto di porcellana rosea, nell'ultimo distacco dalla prima persona amata.

Pagina 41

Non era, c'è da figurarselo, un capolavoro d'arte, quel piedino, di forma piuttosto chinese che greca; ma, intanto, la bambola vi si reggeva sopra abbastanza bene, senza zoppicare; e coperto, come doveva stare, dalla calzetta, nè pure si vedeva che fosse d'una pelle più chiara di tutto il resto del corpo. Terminato che l'ebbe d'attaccare, la fanciulla rizzò su la tavola la Giulia, che pareva un'altra volta sana. Fu proprio in quel punto, che, tutta commossa e felice per quel che le era riuscito di fare, l'aveva baciata in faccia, come una sorella che si vede uscire salva da un grande malore. La Giulia, un po' barcollante fra le mani di Camilla, avrebbe voluto rispondere anch'ella co' suoi baci a quell'atto d'amore; e le sarebbe parso d'essere la bambola più felice del mondo se avesse potuto, come un tempo, esclamare: - Mamma! - proprio quando Camilla le premeva la bocca su la guancia; perchè sentiva che la sua vera mamma, quella destinata da Dio, come tutte le buone mamme, era proprio Camilla; ma, ahimè, il congegno che la faceva pronunziare il benedetto nome era spezzato, spezzato per sempre; e per quanti sforzi facesse per far uscire dal suo petto un po' di suono e mettere insieme quelle due sillabe, a nulla riusciva, e rimaneva muta, sotto l'impressione violenta e soave di quel bacio, come incantata. Ah, scellerato congegno che, non avendo nulla che fare col suo sentimento, le avea fatto cento volte chiamar mamma la Marietta! Si fosse almeno rotto prima, nel viaggio da Milano a Roma, o glie lo avessero riadattato adesso, adesso che provava veramente l'affetto filiale in tutta l'intensità di cui era capace! Quante parole tenere si sprecano, a volte, per chi non se le merita, mentre si resta muti quando poi viene il momento dell'amor vero! Tutto questo la bambola lo sentiva confusamente, ma soffrendone. Quando il piedino fu accomodato, la bimba pensò a farle un po' di corredo, sempre con degli avanzi di roba che la signora Amalia le accordava perchè non servivano più in casa. Avrebbe potuto, forse, procurarsi qualcosa di meglio: non foss'altro de' pezzetti di nastro e di trina da qualche sua compagna di scuola; ma aveva troppo amor proprio per chiedere un'elemosina per la sua cara; meno poi che a chiunque altri alla Marietta, che, secondo lei, era stata tanto cattiva con la povera Giulia. Messa insieme un po' di robicciola, c'era poco tempo per cucirla; e quel poco Camilla se lo levava dal sonno. Bisognava vederla alzarsi senza far rumore, prima dell'alba, e mettersi lì avanti al suo canestro a tagliare e agucchiare, ingegnandosi di far meglio che poteva. Sur una seggiola a fianco si teneva la Giulia, che la fissava co' limpidi occhi turchini, grata di tutta quella fatica fatta per lei. Non le importava, no, più delle gonnelle guarnite di merletto vero, de' vestiti di velluto e damasco, de' cappelli con le penne di struzzo, de' manicotti di pelliccia rara. Un abitino di cotone, e dei baci; uno sciallino ch'era stato un fazzoletto di colore, e dei baci; nulla in testa, tranne i suoi bei capelli biondi, che Camilla pettinava più accuratamente de' capelli propri, e dei baci. Vita nuova per lei, come per la sua piccola amica. Avevano messo insieme le loro due solitudini; avevan fatto di due cuori, destinati al silenzio, un cuore solo; e così si consolavano l'una con l'altra. Una volta - questo era uno dei ricordi più gentili della bambola - la zia de' Rivani avea regalato uno scudo d'argento a Camilla, perchè potesse comprarsi dei dolci; ma la signora Amalia, appena uscita la sorella, s'era impossessata, manco a dirlo, del denaro, lasciando alla bambina soltanto un soldo, che, diceva lei, bastava per pigliare una pasta.

Pagina 45

- Una volta che la Giulia avea passato parte della giornata presso una bimba sordo-muta, figlia di un orefice abbastanza agiato che vendeva oro e gemme con pagamento a un tanto il mese, esercitando così una specie d'usura senza che i clienti troppo se n'avvedessero, ella fu riportata a casa prima che rincasasse la Rachele, andata a visitare certi parenti, su a Roma Nuova. Fu Attilio che ricevette la bambola dalle mani della piccola sordo-muta. - Questo è il momento! - pensò il ragazzo, aggranfiando la Giulia e portandola in fondo al retrobottega, all'ombra d'un armadio. Un istante, esitò. O non era meglio dare il giocattolo a Sarina perch'ella ci si divertisse a suo piacere? No; era troppo buona Sarina; non avrebbe, certo, tenuto una cosa a dispetto della persona cui apparteneva, tanto più non potendola pagare. Bisognava, dunque, dare un dispiacere alla Rachele, null'altro. Che fare? Tagliuzzar l'abito, magari il corpo della pupattola? Ma la Rachele l'avrebbe coperta d'un'altra veste, facendo, per di più, frustar lui, Attilio, dal padre. Qualcosa di peggio, allora. E andò a frugare in un cassetto di cianfrusaglie per cercarvi un vecchio temperino irrugginito, ridotto quasi una seghetta, tanto avea la lama intaccata. Poi, presa la Giulia, la distese lunga sur una panca dov'egli saltò a cavalcioni, e si curvò tutto sul viso di lei, che teneva fermo. La bambola, spaventata, avrebbe voluto far un balzo indietro e gridare aiuto, misericordia, perchè l'assassinavano. Ma dovette sopportar, come sempre, (così facciamo anche noi!) il proprio destino, e abbandonarglisi in silenzio, immobile. Attilio cominciò a passarle il temperino su le guance, facendo in lutto e in largo de' fregacci a uso croci. La lama rozza e guasta raschiava la fine porcellana, portandosene via il bel color di rosa e solcandola tutta di rughe. Per la Giulia, ognuno di quegli sfregi in faccia era peggio d'una coltellata in cuore; non che a lei, ormai, importasse più della sua bellezza, triste e finita come si sentiva; ma l'addolorava quella viltà commessa sur una povera cosa che non aveva alcuna colpa dei rancori sciocchi e perversi tra' due fratelli. Il temperino continuava a deturparla: l'aveva ferita in torno agli occhi, sul mento, su la fronte, da per tutto, stridendo sinistramente: come un malvagio che rida mentre fa una cattiva azione. Quando ella non fu più che un mostro, cessò il supplizio, e Attilio, con un riso diabolico, guardandosi bene attorno per paura di esser visto, andò a buttar il giocattolo rovinato sul letto della Rachele. Costì la Giulia ricordava e rifletteva: - Ah, Signore, è proprio vero che non bisogna mai lagnarsi d'un male, perchè può capitarne uno peggiore. Un giorno, bella, ricca, vanitosa, era diventata brutta, e povera, avvilita; amava una creatura al punto di sentire antipatia per tutte le altre, e quella era morta; le pareva d'essere l'ultima delle infelici in quella casaccia, e adesso... adesso, per di più metteva paura a chi la vedeva! Nella sua desolazione un pensiero la consolò: s'ella era ridotta a quel modo, nessuna bambina l'avrebbe più voluta pagare nè anche la miserabile moneta di un soldo; e non le sarebbe più stata inflitta l'umiliazione di esser ceduta a ore, cambiando ogni momento di padrone e d'abitazione. Quando la Rachele, tornata tutta allegra da casa de' parenti, trovò la sua pupattola ridotta in quello stato, il pallore giallognolo del viso le si fece addirittura terreo. Indovinò che il tradimento era stato di Attilio: da quell'invidioso tutto amore per Sarina si aspettava qualunque brutta cosa. Lo avesse almeno avuto fra le mani come aveva la bambola! Ma a punirlo ci avrebbe pensato di sicuro, il babbo; non dubitasse il signor Attilio! Della Giulia, non ebbe alcuna pietà; il suo solo rincrescimento era di non potersene più servire per darla a nolo. E di nuovo il pensiero le corse a suo padre, che le avrebbe in qualche modo procurato qualche altro giocattolo, ora ch'ella si era avvezzata a quella piccola speculazione. È impossibile descrivere la scena ch'ebbe luogo tra il rigattiere e il figlio, quando la Rachele mostrò al padre la pupazza sciupata. Attilio si buscò almeno una mezza dozzina di scapaccioni, che, del resto, s'era ben meritati; ma dietro le spalle del vecchio diede alla sorella un tale spintone da mandarla a sbattere contro il muro. Nel parapiglia ci andò di mezzo anche la povera Giulia, che cadde bocconi sotto la tavola, e lì rimase tutta la notte, sul pavimento umido, fino che il giorno di poi il vecchio la raccattò per portarla in una soffitta che gli serviva per la roba da sbratto; certa roba così impolverata e ammuffita da obbligare un cristiano, vedendola, a farsi il segno della croce. Ah, se Camilla, la sua Camilla fosse tornata al mondo, chi sa che pianto!

Pagina 81

L'indomani

246298
Neera 2 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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- Abbastanza. - Bella? - Una morettina, sa, di quelle morettine con gli occhi neri e coi denti bianchi, delle quali non si può mai dire che sieno assolutamente belle nè assolutamente brutte. - L'ha conosciuta molto? - Oh! dir molto sarebbe troppo. Le ho parlato una volta o due. Era simpatica. - Perchè è andata via? - Chi lo sa! Probabilmente le avranno cambiato destinazione. - Non si può dunque rammentare se si chiamava Elvira? - Proprio non lo rammento. Marca avendo chiuso l'ombrellino, tornò a far rotolare i sassi in silenzio. - Settembre - continuò il dottorone - ecco il trionfo dell'anno! È il mese in cui si riempiono le cantine e si provvede di selvaggina la tavola; le aie si spogliano del loro bel tappeto giallo per colmare i granai, la terra si riposa nella maestà tranquilla di una madre che contempla i suoi nati. E veda, veda che cielo limpido, senza nubi! Che splendore di vegetazione! Settembre - soggiunse dopo una pausa - è forse anche la migliore stagione della vita. Non lo crede? Marta, distratta, rispose con una esclamazione insignificante. - Io ne sono convinto. La giovinezza è troppo acerba, la virilità troppo burrascosa. Rialzò con una specie d'orgoglio la testa brizzolata, da un lato della quale la tuba stava in bilico per un miracolo d'equilibrio; i suoi occhi intelligenti scintillarono e le sue narici sensuali respirarono l'aria fortemente. - Le piante - disse Marta - sono più fortunate di noi. Egli non sapeva a che cosa alludesse Marta; rispose a caso: - Anche per esse c'è la grandine e l'accetta. Tacquero poi, obbedendo entrambi alla tirannia dei propri pensieri, subendo l'influenza di quel dolce pomeriggio d'autunno. Camminavano lesti, leggeri, aspirando il profumo dei prati, nella tranquilla ascoltazione delle cingallegre che volavano d'albero in albero; l'occhio vagante, il pensiero alato. Egli si fermò di botto. - Che cosa guarda? - domandò Marta dopo di aver aspettato qualche istante. - Coraggiosa bestiola! Questa esclamazione non essendo una risposta, Marta si pose anch'ella a guardare. Tra due rami d'acacia un ragno aveva gettato i suo fili dall'alto al basso, regolarmente, per accingersi poi a lavorare in tondo la tela; un bruco cadendo da un ramo superiore, gli aveva rotto uno dei fili, ed esso stava rimettendolo da capo. - Non è coraggio questo? Marta sorrise. - Ma non basta. Aspetti un momento, tanto che esso abbia attaccato il filo. Bellone! Or ecco un colpo della sorte. Diede un buffetto, coll'indice e il pollice, al nuovo filo. - Cattivo! - fece Marta. - Guardi, guardi - esclamò il dottorone entusiasmato - esso torna a zampettare, bravo! Bravo, ti dico. E così vita natural durante, sa? Questa bestiola non si avvilisce mai; rotto un filo ne getta un altro; il secondo si spezza, viene il terzo. Avanti, sempre avanti! È il suo motto gentilizio. Osservi come è già salito; è all'apice. Paf! - Oh! crudele - gridò Marta nel vedere che aveva strappato ancora il tenue filo - perfido uomo! Egli la scrutò in fondo agli occhi che ella chinò subito, turbata. - Le chiedo scusa; ho voluto mostrarle fino a qual punto si può essere coraggiosi. Il ragno rifaceva la tela, salendo, salendo, intanto che Marta lo guardava non senza sorvegliare il suo brutale compagno. Ma egli disse con semplicità: - Andiamo a trovare Alberto. - Ed ella subito si mosse in silenzio. Lo incontrarono non molto lontano. Se ne veniva lemme, lemme, con la sua bella fisionomia aperta, serena, il passo regolare d'uomo senza fastidi. Ritornarono insieme tutti e tre fino al paese, fino alla porta dei due coniugi, dove il dottorone si accommiatò. Marta pensava che Alberto era finalmente nelle sue mani, e se lo divorava con gli occhi, mentre egli appendeva tranquillamente il cappello. Visto così, di dietro, la sua nuca aveva una seduzione particolare, colle orecchie morbide bene attaccate, i muscoli solidi; la guancia offriva per tre quarti una linea pastosa, appena adombrata dalla lanuggine, che attirava i baci. - Ho appetito, e tu? - diss'egli sedendosi alla mensa apparecchiata. - Ma sì, discretamente. - Appollonia è riuscita a trovare queste benedette quaglie? - Oggi no, vi saranno per domani. Marta aveva le lettere in tasca; le levò e andò a riporle nel tavolino da lavoro; poi sedette accanto al marito, calma in apparenza, ma coll'occhio fisso, la mente inquieta. - La signora Merelli ha avuto una bambina stanotte. - Sì? - Potrai andare domani o dopo a farle una visita. - Ci anderò. - Pare che stia benissimo. Dopo una lunga pausa, intanto che Alberto versava da bere ella chiese: - Se io avessi una bambina come la chiameresti? - Come vorresti tu. - Ma però? - Il nome di mia madre, per esempio, o della tua. - Questo è meglio certamente; tuttavia vi sono persone che preferiscono nomi di fantasia: Ida, Olimpia, Elvira... Ti piace Elvira? - Nè più, nè meno degli altri; dò poca importanza al nome. Non mi sono mai informato come ti chiamavi tu, lo seppi da te stessa. Marta lo osservava attentamente, mentre un tremito l'agitava tutta, sperando che egli almeno si accorgesse della di lei inquietudine e glie ne chiedesse il motivo. Si era già preparata. Se le domandava: Ti senti male? la risposta doveva essere press'a poco così: Sì, di un male che tu solo puoi guarire, ecc., ecc. Ma nulla di tutto questo. Alberto mangiava, e, solamente, vedendo il piatto di Marta quasi sempre vuoto, la esortò a mangiare anche lei. Sulla fine del desinare domandò: - Tua madre non ha ancora scritto? - No. - Se tarderà molto a venire, sopravverrà il freddo. Ella avrebbe potuto svelare le ragioni del ritardo, entrare nei particolari di un contratempo abbastanza buffo, ma ciò l'avrebbe portata lontana dalle sue preoccupazioni e non si sentiva la forza di fingere, nè di frenarsi. Preferì restare muta, bucherellando con lo stuzzicadenti la tovaglia. Alberto disse ancora: - Quando viene le puoi allestire la camera in fondo al corridoio; vi starà meglio che altrove, è bene esposta e molto allegra. L'evocazione di sua madre commosse Marta nell'intimo dell'anima; il ricordo di tante tenerezze perdute le fece gruppo alla gola, per cui si alzò e fece due o tre giri nella stanza. Passando accanto al tavolino da lavoro aperse rapidamente il tiretto, ne tolse le lettere e buttandole davanti a suo marito: - Vedi che cosa ho trovato oggi nella cassa, la cassa vecchia su in soffitta! Alberto guardò le lettere, prima con indifferenza, poi con sorpresa, infine leggendone una esclamò: - Ma da qual parte sono venute fuori? - Te l'ho detto; erano nella cassa. - Sole? - Oh! con della frangia, delle cortine usate, dei chiodi... - To, to, to! - Non sapevi che erano là? - Neppur per sogno. - Ti dispiace che le abbia lette? - Figurati! Acqua passata non macina più. Respinse le lettere dolcemente, come dolcemente faceva tutto, disposto a parlar d'altro. Marta ebbe un'audacia insolita; andò a sedersi sopra i suoi ginocchi e cingendogli il collo gli mormorò con la bocca contro l'orecchio: - L'hai amata molto? Egli ebbe un momento di imbarazzo; la situazione richiedeva uno di quegli slanci ai quali il suo temperamento era refrattario; un solo bacio, ma ardente, sarebbe bastato. Alberto invece provò un movimento di stizza verso Marta che gli faceva subire questa seccatura. - Che c'entrano adesso tali cose? - Sono gelosa del tuo passato, lo sai - disse Marta senza staccarsi da lui, sprofondata nel tepore del suo collo, che succhiava con piccoli baci spessi. Alberto si sciolse adagino dalle braccia di sua moglie replicando: - E che ci posso fare io? Era una risposta ad uso Appollonia, una di quelle osservazioni fredde, piene di buon senso, che non lasciano nessun posto per le soavi bugie del sentimento. Eppure Marta, nel caso suo, avrebbe trovato, senza mentire, un'altra parola... Si tolse dai ginocchi di suo marito e si pose sulla sedia, mettendosi davanti le lettere. - È morta? - domandò a un tratto. - Non credo, ma da quando lasciò il paese non ne seppi più nulla. - Tu non le avevi promesso di sposarla? - Mai. Marta fu ripresa da uno dei suoi slanci: - Dimmi il vero, Alberto, dimmelo! Io ci capisco così poco in questi vostri amori d'uomo... - Che devo dirti? Ella si accorse che formulare con una frase il suo pensiero non era tanto facile; balbettò: - Se l'hai amata molto... molto... e che ella pure... - Non so se m'abbia amato molto molto. Marta interruppe: - Come dubitarne con queste lettere? - Oh! le lettere - esclamò Alberto ridendo - è l'amore di voi altre donne, frasi! Per parte mia mi piaceva. - Niente di più? - È quanto basta, credo, per fare all'amore con una ragazza. Ella poi si esaltava, immaginando una passione romanzesca, rapimenti, fughe, veleno. Sarei stato molto sfortunato sposandola. Marta tacque un po', e poi: - Era bella? - Simpatica. - Bionda o nera? - Nera. - Alta? - Così così. Altro silenzio. - Grassa - Oh!... non so, non ricordo, non mi pare. - Aveva le mani piccole? - Ma è un passaporto quello che mi chiedi. Parola d'onore, ci pensi più tu in cinque minuti di quello che ci abbia pensato io durante un anno intero. - Ciò vuoi dire che non l'amavi come ti amava lei! - Può darsi, e allora consolati, brucia questi scartafacci alla buon'ora. Tanto il passato non si cancella, nè si rinnuova. Era appunto ciò che pensava Marta, ma senza trovarvi nessuna consolazione. Che Alberto avesse amato Elvira molto, poco o niente affatto, restava per lei il fatto di quella corrispondenza infuocata che parlava pure di baci dati e ricevuti. Se dati per amore, perchè dimenticati? Se dati senza, perchè dati? Stracciava i foglietti lentamente sotto la tavola, ascoltando il piccolo rumore che facevano, divisa tra i rimorsi che le suscitava una eccessiva delicatezza e il piacere materiale, indegno di lei, di quel meschino trionfo; ma la vinceva il piacere. Quando i pezzettini delle lettere non furono più suddivisibili, ella riunì le pieghe della gonna, tenendoveli come dentro a un sacco e si levò in piedi. Diede uno sguardo ad Alberto, il quale aveva infilato la punta di un sigaro in uno stecchino, lo stecchino nel tappo di una bottiglia, mantenendo il sigaro trasversale, ed accostata una candela all'altra estremità del sigaro, assisteva alla combustione attentamente, con le mani in tasca. Pensò: gli farò dono di un accendisigari. E cedendo alla tenerezza egoistica del suo affetto di moglie, Marta appoggiò, passando, le labbra sul collo di Alberto. Poi corse leggera in cucina, dove, scostando Appollonia dal camino, rovesciò sul fuoco i frammenti di carta che teneva nella gonnella.

Pagina 132

Ella aveva avuto, qualche mese prima, dei leggeri disturbi di digestione, che erano scomparsi, e null'altra sensazione fisica abbastanza sensibile le rammentava questo fatto che la lasciava indifferente al pari di tutto il resto. Le grandi cose che aveva udite sulla maternità dovevano essere, come quelle udite sull'amore, esageratissime; oppure ella era una disgraziata priva di sensi e di viscere, sospetto che le veniva tratto tratto e che la rendeva orribilmente triste. Perchè sarebbe madre? Se non aveva mai trasalito, mai, in ciò che il mondo chiama l'amore, se questo amore ella non lo capiva, se un estraneo si era avvicinato a lei senza infonderle il brivido della creazione, perchè ella avrebbe dato il proprio sangue e la propria carne, ed avrebbe rischiato di toccare le soglie dell'eternità senza conoscere quelle del piacere? Se i figli sono frutti dell'amore, ogni frutto fa supporre la precedenza di un fiore; ma ella sentivasi arida; niente del suo io pensante rispondeva alle inconscie funzioni del suo io meccanico. Un profondo avvilimento la degradava a' suoi propri occhi; il germe caduto nel suo grembo poteva fecondare una Giuditta qualsiasi, e sarebbe stato egualmente il frutto dell'amore. No, l'amore non esiste! Ella era giunta a questo. Padre, fratello, amico, socio, marito, tutti sinonimi; uno poteva valere l'altro, non l'amante. L'amante restava ancora per lei il giovinetto imberbe che aveva sospirato sotto le sue finestre, che le aveva rapito un fiore e stretta la mano, per cui ella recitava, struggendosi di voluttà, i versi della vecchia strenna:

Pagina 168

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246969
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
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Lo stanzone era piuttosto un lungo corridoio, con l'impiantito di legno abbastanza sconnesso e dove, spesso, pigliavano delle storte i tacchetti di legno delle ballerine, che venivano da casa loro, correndo per l'ora tarda: mentre le scarpette di raso carnicino della danza, dalla suoletta leggiera, sugherigna vi si rovinavano: ma, all'impresario che poteva ciò importare, quando le scarpette erano a conto delle ballerine? Le mura di quello stanzone erano appena imbiancate e qua e là mostravano delle macchie di umido, oscure, verdastre, come le traccie di una ignobile lebbra del muro: tre fiammelle di gas sporgevano da una lunghezza del muro e divampavano, riscaldando l'ambiente come una fornace: ma la loro luce piombava sopra un lungo tavolone di legno che formava una toilette comune alle otto ballerine, e dove erano appoggiati degli specchi, delle catinelle, i vasetti del rossetto, le spazzole, i pettini, le forcinelle, un tavolone lungo quanto la parete dello stanzone e dinnanzi al quale stavano le ballerine seminude, semivestite, dandosi il rosso, ungendosi le braccia di cold-cream, provandosi qualche fiore artificiale, qualche fibbia di strassi nei capelli, stringendosi il bustino sino alla mancanza del respiro, per fare la vita piccina. E tutto vi si faceva in una promiscuità bizzarra, fra le smorfie delle più modeste o delle più mal fatte, che si vergognavano di spogliarsi innanzi alle altre, fra le audacie di quelle che restavano in camicia, un'ora, non avendo punto freddo in quel forno, con quel gas, con tutti quei respiri, con tutti quei profumi più o meno violenti dei cosmetici. Delle sedie sghangherate su cui erano gittati i costumi dell'Excelsior, alla rinfusa: lungo il muro vuoto, degli appiccapanni a cui erano sospesi i vestiti di città delle ballerine , per lo più assai poveri, alcune perchè non volevano sciupare la loro buona roba in quella stanzaccia, altre perchè non avevano nulla di decente per vestirsi, tormentate dalla misera paga, dal peso di famiglia, dagli amanti che non davano loro un soldo. Fra le otto ballerine della terza fila, solo Carlotta Musto e Marietta Sanges, che avevano degli amanti serii e relativamente generosi, avevano delle sottanine di seta e dei busti di colore: le altre sei avevano deposta della biancheria grossolana, delle calzette di cotone, dei busti da tre lire e cinquanta. Filomena Stoppa, poi, già famosa per la sua onestà e per la sua sudiceria aveva una sottana tutta infangata sospesa al chiodo e, per terra, delle calze, che facevano schifo: - Ma tu, ti lavi la faccia? - le gridava Checchina Cozzolino, tutta nauseata di quel suo viso gonfio e biancastro, simile a una vescica. - Pensa alle tue sudicerie! - le rispondeva insolentemente Filomena Scoppa. Erano tutte più o meno nervose, più o meno furiose, in quella giornata di carnevale, quando tutti si divertivano, o, almeno, tutti si riposavano ed esse erano costrette a ballare due volte, di giorno e di sera, non mangiando che un boccone, disperatamente, fra le due rappresentazioni o restando digiune sino alla una dopo mezzanotte, avendo dovuto lasciare gli amanti, la casa per venire a saltellare in cadenza: quelle rappresentazioni di giorno, fatte per i ragazzi condotti dalle loro bambinaie, fatte per le famiglie della piccola borghesia, per un pubblico odioso, che esse odiavano. Meno male, la sera, coi loro corteggiatori in poltrona, con tutti quei gentiluomini più o meno ricchi che ognuna di loro sperava di conquistare, di strappare alle ballerine fortunate delle prime file, di strappare alle duchesse, alle contesse, alle marchese della grande società: meno male! Varie, intanto, dalle prime file mancavano, erano restate a casa, facendosi multare, infischiandosene dell'impresa, sostenute da innamorati ricchi e superbi: l'Excelsior, di giorno, sarebbe stato irriconoscibile. - Concetta Giura non vi è - disse Carlotta Musto, rispondendo a una domanda di sua sorella Rosina. - Beata lei, che può farlo. - E tu, non potresti farlo? Che te ne importa di ballare? - Me ne importa... me ne importa - rispose con aria di segretezza, Rosina, che non voleva inni narrare i fatti suoi. - Intanto quella è a Sorrento col duca di Sanframondi... non ritorneranno che stassera. - Ci spende molto, Sanframondi? - Molto: ma non come una volta - replicò Carlotta che era sempre la meglio informata. Due o tre di esse sospirarono: Checchina Cozzolino, che non aveva mai due soldi in tasca, mormorò: - Malann'aggia la mia brutta sorte! Si bussò violentemente alla porta del camerone: era ora di uscire in iscena, pel primo quadro. Vi fu un clamore, nessuna era pronta, tutte si affannavano, scappavano una dietro l'altra, verso il palcoscenico, sollevando un'acre polvere, raggiustando le spalline del bustino con quel moto familiare delle ballerine, dandosi dei colpetti sulle gonnellino di velo troppo sbuffanti, assicurandosi le forcinelle nei capelli. Carmela Minino era stata una delle prime: taciturna, con la sua aria apatica, ella era sempre pronta, sempre al suo posto. Rientrarono tutte, in gran fretta per cambiarsi di vestito: quel dannato Excelsior porta sei cambiamenti di vesti, per tutto il corpo di ballo, una cosa da dannarsi, con la recita della sera, facevan dodici mutamenti! Avevano ballato assai male, trascuratamente, sapendo che tutto era buono, per il pubblico diurno, di festa, di carnevale. Ma il direttore del ballo, nelle quinte, le aveva strapazzate con ingiurie brutali, come faceva sempre, del resto, per ogni piccola cosa. Esse si lagnavano, strillavano: - Che vita da cani! - È una cosa da crepare! - Quando finisce, quando? - Vorrei andare a spazzare le vie e non fare la ballerina! - Felice chi può non farla! Carmela Minino taceva: ma il suo povero cuore soffocava i sospiri della tristezza, di una vana e vaga tristezza, in quel giorno festivo, in quel camerone ardente, fra quegli odori e quelle puzze, fra quei gridi, quelle voci roche, quelle parole talvolta laide, spesso oscene. Essa sentiva, sì, profondamente l'umiltà, la miseria, la limitazione gretta, la mancanza d'avvenire migliore della sua professione: ne sentiva tutta la gaiezza apparente e tutta la malinconia interiore: ne sentiva tutta la immancabile corruzione in cui la virtù, l'onore, il decoro, il pudore dovevano, un giorno più vicino o più lontano, necessariamente naufragare: ma non vedeva via di scampo; che altro avrebbe ella mai fatto, se non ballonzolare, in una delle ultime file della grande danza, vestita da giapponese, da almea, da paggio? Che altro sapeva ella mai fare, se non questa sola cosa e neanche benissimo, ma tanto da averne il pane e il tetto? Tutte sognavano o un gran matrimonio o un terno al lotto o più praticamente un amante dovizioso e largo: ma ella, Carmela Minino, nulla di nulla. - Neppure Emilia Tromba ci sta! esclamò Margherita De Santis, la sottilissima, sempre malata, che pareva sempre dovesse spezzarsi in due. - Sorrento, anche lei, con Concetta Giura - rispose subito Carlotta Mosto, che era la cronista meglio informata. - Con Ferdinanzo Terzi, naturalmente - mormorò Marietta Sanges, la biondona enorme, che odiava il suo mantenitore, un notaio sessantenne. Le palpebre di Carmela Minino batterono due o tre volte, vivamente: le mani che allacciavano il giubbetto di fattorino telegrafico, nel quadro dell'Ufficio telegrafico, tremarono e si fecero molli. - Che ti pare! - proruppe Checchina Cozzolino, la poverissima, la invidiosissima. - Quello non la lascia mai, - Emilia se lo mangia vivo. - Perchè lui vuoi farsi mangiare - soggiunse Carlotta Musto, che aveva una vecchia esperienza di uomini e a cui tutte chiedevano consiglio - ma non le vuol bene. - Ci spende l'osso del collo! - Ma non le vuol bene, vi dico. Vuol bene a una signora, maritata... con un marito geloso... un guaio... Carmela Minino si sedette un momento. Tutte queste cose ella le sapeva: le aveva intese dire, varie volte, sul palcoscenico: le aveva udite sempre avidamente, ricevendone sempre una grande emozione. Ma, ora, esse erano dette più spesso, con insistenza. - Con questo marito geloso, Ferdinando Terzi può anche avere qualche disgrazia... - soggiunse Carlotta Musto assicurandosi il berretto da fattorino sui capelli e pigliando il telegramma che doveva tenere in mano. - Ed Emilia Tromba resta sul lastrico - gridò trionfalmente Checchina Cozzolino. - Dio sia lodato! - strillarono due o tre altre. Non avevano bussato, per andare in iscena? Così parve a Carmela Minino che aprì la porta del camerone ed uscì: affogava, si sentiva svenire in quel caldo. Non avevano picchiato: si era ingannata. Respirò un po' meglio, sola, appoggiata a uno stipite, stringendo al petto il suo falso dispaccio, come se fosse una lettera amorosa. Del resto, bisognava correre di nuovo, dopo due o tre minuti, per ballare un grande galoppo furioso, insieme alla prima ballerina, Antonietta Bella, che aveva una stella elettrica nei capelli neri e che faceva sprigionare delle scintille elettriche dalla sua cintura: ma le gambe di Carmela Minino sempre poco svelte, in quel galoppo furono così deboli! Per poco, spinta dalla Mastracchio frettolosa, non cadde contro una quinta: si graffiò una mano, contro un chiodo.

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La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247294
Matilde Serao 2 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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. - Sì, sì, abbastanza - rispose lei, per non essere sgarbata. - Ci vogliamo far fare un magnifico arrosto di mozzarelle, Lina: alla Regina d'Italia lo cucinano splendidamente - soggiunse lui, con quel tono importante ed enfatico, con cui qualunque napoletano parla di culinaria. - Già, è vero. Vi sarà la mozzarella? - Vi è sempre. È una specialità. Ieri sera, quando ti lasciai, vi salii un momento, per vedere se vi erano amici... don Gabriele Scognamiglio se ne faceva dare una seconda portata. - Stava lì, eh? - Sicuro. Con una donnetta, una francese. È un vecchio impenitente. Ha denari... è scapolo... allora.... - cercò di spiegare lei, nella sua indulgenza. - Ti ha sempre fatto un po' la corte, non è vero - disse, ridendo, Roberto Gargiulo. - Oh! - esclamò lei e arrossì, sotto il belletto. - Come a tutte le altre... - E tu non gli hai dato retta, come le altre? - No, no - rispose lei, in fretta. - Te lo giuro - soggiuuse poi, guardandolo in viso, con una certa umiltà. - Non giurare. Ti credo. Lo so che sei una buona ragazza. Se no, non ti vorrei bene - concluse lui, fattosi un momento pensieroso. Ella guardò in cielo, mentre continuavano a camminare, in silenzio, verso la trattoria. Era una notte stellata di aprile, già tiepidissima: molta gente circolava per le vie, gli uomini con i soprabiti aperti, le donne avendo allentato le loro giacchette, le loro mantelline, al collo. Erano le ultime sere di spettacolo, al San Carlo: la stagione si era prolungata molto, quell'anno, e il ballo L'Avventura di carnevale aveva preso il posto dell'Excelsior, dato in febbraio. Presto Carmela Minino avrebbe avuto del riposo. Ella lo desiderava e lo temeva, anche, questo riposo; giacchè se rappresentava una vita più tranquilla, era la cessazione di quelle tre lire e cinquanta al giorno. Si parlava di una grande stagione di ballo, al teatro estivo delle Varietà, per giugno, luglio e agosto; qualche cosa avevano detto pure a lei, ma erano state parole in aria. - Fa caldo, stanotte - disse Roberto, mentre arrivavano. - Fa caldo - approvò lei. La loro conversazione, persino nei momenti di amore, si manteneva su questo tono modesto e monotono. Roberto Gargiulo, dotato di quel grossolano e falso brio di certi meridionali, non ne faceva mostra che fra amici, al caffè, al teatro, nella vita di notte: con Carmela Minino egli ridiventava il borghese placido, dall'ingegno lento e torpido: tanto più che la ragazza, piena di buon senso, incapace di dire una cosa scorretta, non aveva nessuno spirito. Ciò, in fondo, faceva piacere a Roberto Gargiulo e lo seccava: privatamente era contento che Carmela fosse una creatura semplice e buona, ma, in pubblico, quando vi erano amici presenti, specie altre coppie di amanti, egli si annoiava che ella non facesse del chiasso, parlando forte, ridendo clamorosamente, dando del tu agli uomini, facendo saltare qualche bicchiere. Per lui, era, certo, un gran vanto e se ne ringalluzziva, di essere stato il primo amante di quella ragazza; avrebbe voluto, però, insegnarle il rumoroso gergo delle ballerine, delle chanteuses, delle altre donnette, quando sono in pubblico. Viceversa Carmela Minino ammutoliva innanzi alle persone e si contentava di sorridere cortesemente, dolcemente. Meno male che aveva un bel sorriso! La trattoria della Regina d'Italia è oltre la metà di Toledo, verso su: è a un primo alto, abbastanza alto, quello che si chiama pomposamente primo piano nobile, qui: ma l'entrata è da un portoncino, nel vicolo Speranzella, che sale verso i quartieri di Montecalvario, borghesissimi quartieri napoletani. È una trattoria di second'ordine, di molto second'ordine, quasi di terzo: essa è frequentata da studenti, quelli, però, che possono disporre di qualche ra, da impiegati, da viaggiatori di commercio, da provinciali di dimora breve o lunga, qui. Vi si paga una lira e cinquanta la colazione, due lire il pranzo: ma, per quel prezzo, dovuto alla concorrenza, vi si mangia bene, relativamente, con abbondanza, i signori studenti, impiegati , viaggiatori di commercio e provinciali essendo molto esigenti. La Regina d'Italia, dunque, è molto popolare e mentre altre trattorie allogate meglio, più nel centro della città, con gli stessi prezzi, languiscono e falliscono, essa mantiene la sua posizione, brillantemente. Giova molto alla sua popolarità l'essere aperta sino ad ora avanzata della notte, cosa che è rara, a Napoli: così che tutti i nottambuli, tutti quelli che hanno una ragazza da portare a cena, tutti i vitaiuoli, giuocatori che hanno vuotato le loro scarselle, giornalisti e reporters dei giornali notturni, delegati di pubblica sicurezza e agenti segreti, affiliati eleganti della mala vita, camorristi di qualità più fine, in soprabito e guanti chiari, tutti, nella sera, nella notte, dànno una capatina alla Regina d'Italia. Spesso, a ora tarda, vi si trova anche qualche gentiluomo elegantissimo, con qualche compagna molto chic: forse è per desiderio d'incanagliarsi un poco; forse, è per cambiare; forse, è per un celato criterio di economia; o, forse, perchè i grandi caffè, i grandi restaurants sono già chiusi. Carmela Minino e Roberto Gargiulo salirono per la scaletta di marmo, non assolutamente pulita, ma passabile, adorna di una striscia di tappeto, in cocco, che si era assai scolorita e sciupata, sotto i piedi degli avventori. Sulla soglia, un grosso e alto uomo si presentò a loro: - Ostricaro! Ostricaro! Volete ostriche? - Vuoi una dozzina d'ostriche, Lina? - chiese, magnificamente, Roberto Gargiulo, con un fare da ricco viveur. - No, no - diss'ella, subito, passando avanti. - Quattro fasolari, signorina; una dozzina di ancini... - diceva ancora, monotonamente, l'ostricaro. Nella prima stanzetta di entrata, che aveva una porta sulla cucina, erano esposte le vettovaglie, sovra una grande credenza di marmo bianco: delle costolette crude, in un piatto enorme; dei polli spiumati e già legati per essere arrostiti; in un grande piatto ovale dei pesci morti, crudi, una spinola, delle triglie, dei calamaretti. E, insieme, dei piatti contenenti un prosciutto cotto, roseo, tagliato a metà e delle salsiccie da cuocersi, contenenti dei latticini, cioè mozzarelle, formaggi freschi e secchi, contenenti frutta fresche e secche: una torta alla romana, cui mancava la metà, faceva mostra di sè, carica di zucchero, gocciolante di crema. Tutta quella roba cruda e cotta doveva eccitare la fame: ma Carmela Minino abbassò gli occhi, passandovi innanzi. - Hai visto, Linuccia? vi erano certe triglie grosse così, un amore. Ce le ordiniamo al pomodoro, eh? - Costeranno... - osò dire lei. - Questo non ti deve importare - replicò lui, subito, un po' sdegnato. - Questa sera si fa festa. - E sì, sì, ordina pure - soggiunse presto, lei, che non voleva contraddirlo. Le sale della Regina d'Italia sono come un budello, una dopo altra, quattro o cinque sino all'ultima, più grande, che sbuca su Toledo. Roberto Gargiulo lasciava andare avanti, per galanteria, la sua amante e la seguiva, col suo passo elastico di uomo abituato a quei posti, a quelle compagnie, a quelle cene; attraverso quelle sale, tutte stuccate di bianco, mobigliate di reps rosso, con certi divani, lungo il muro, innanzi ai quali erano collocate le tavole, divani lunghi e stretti, molto duri e, insieme, molto sfiancati per le migliaia di persone che vi si erano sedute da anni, con certi specchi dalle sbiadite cornici di oro, Gargiulo sogguardava, qua e là, se vi fossero altri vitaiuoli, sue conoscenze, se la gente lo guardasse e lo ammirasse, con la sua aria di finto gran signore, il suo panciotto bianco sotto il thait, la sua catena di oro, e la catenella di argento, dalla tasca del panciotto in quella dei pantaloni, per sostenere le chiavi e il lapis, ultima moda inglese. Nella prima sala, non vi era nessuno. Nella seconda, un solo tavolino occupato, da un marito e una moglie, certo, di provincia, che dovevano aver assistito a uno spettacolo teatrale; il marito aveva condotto la moglie colà, per darle un'idea delle ebbrezze cittadine; nella seconda, due tavolini occupati, da un giovanotto biondo e fine, venticinquenne, con una ragazza vestita vistosamente, la gonna di un colore, il busto di un altro, un fiocco di un terzo colore al collo, un cappello bizzarro, e le mani rosse e nude, una sartina, o una modista, certo, di quelle che si acconciano coi ritagli delle stoffe che rubacchiano alle clienti - l'altro tavolino da Rosina Musto, la zitellona quarantenne, brutta ma simpatica, goffa ma ballerina provetta, col suo antico e costante amatore, don Pasquale Sambrini, il negoziante di generi coloniali. Mentre Carmela passava, Rosina Musto le fece un cenno affettuoso di saluto. - Sta sempre con Sambrini - mormorò Roberto Gargiulo. - Si dice... si dice che siano sposati, in chiesa - osservò Carmela Minino. - Oh! - esclamò lui diventato freddissimo. Eran fermi, nel salone , l'ultimo, il più vasto, che formava angolo, avendo una finestra sul vicolo Speranzella e due balconi sulla via Toledo. Roberto non cenava che lì. Egli cercava, con gli occhi, quale tavola dovesse prescegliere. Si decise per una, situata giustamente nell'angolo, fra la finestra e il balcone. Mentre si sedevano, il cameriere rianimò i becchi del gas. Carmela, macchinalmente, si tolse la giacchetta di panno, a taglio maschile: apparve con un vestito di casimiro lilla, guarnito di velluto lilla alla cintura, al collo e alle maniche: un dono di Roberto, stoffa, guarnizione, fodera, ella avendone pagato solo la manifattura, giacchè non accettava mai un soldo, in denaro, da lui. Anzi, quelle dodici lire di manifattura le erano pesate abbastanza: ma non aveva detto nulla, poichè egli era stato così gentile e generoso! - Perchè non hai messo il cappello nuovo? - chiese lui, che la esaminava attentamente. - Si sciupa tutto, in quel teatro... - ella rispose, vagamente. - Qui non siamo in teatro - osservò l'amante. - Non sapevo... non sapevo che saremmo venuti. Ella era alquanto cambiata, nell'aspetto. Anzi tutto, un tempo, prima di uscire da teatro ella si strofinava sempre il volto per toglierne le traccie del rossetto e dei cold cream; ora, per desiderio di Roberto, espresso più volte, ella si rifaceva il viso, prima di venir via, giacchè egli odiava le facce pallide e opache come la sua: pure gli occhi erano sottolineati dal kohl, sebbene non ne avessero bisogno e le labbra erano vivificate dal lapis di carminio. A lui piaceva, perversamente, di mostrarsi con una giovane molto imbellettata, sempre tendendo a far prendere la povera, semplice timida corifea di terza fila, per qualche donna di grande vita di piacere, carica di cosmetici: ed egli stesso le portava tutte quelle pomate, quegli unguenti, quelle polveri. Ella aveva un paio di guanti portabili, una catenina d'oro con la crocetta, al collo, un paio di orecchini, falsi - ma bene imitati - di brillanti, alle orecchie. Tutto lui, le aveva dato, man mano, dispiacendosi di vederla con le mani nude, senza un ornamento al collo, senza orecchini: erano guanti di fondo di bottega, a una e cinquanta il paio, la crocetta con la catenina era di argento dorato, gli orecchini costavano quindici lire: ma egli se ne teneva, come se accompagnasse una donna coperta da mezzo milione di diamanti. E al lume del gas Carmela Minino si mostrava sotto il suo nuovo aspetto: bizzarramente imbellettata, meno brutta, un po' più piacente, conservando di sincero solo i suoi ricchi capelli neri e un sorriso dolce, assai dolce: le mani, malgrado la glicerina, erano restate brunastre, magre, con le traccie delle fatiche materiali che ella compiva, da anni, in casa sua. Roberto l'aveva pregata di togliersi i guanti meno che poteva; tanto più che non aveva potuto ancora regalarle nessun anello. Erano appena seduti, che entrò una altra coppia, nel salone: era un giovane signore dell'aristocrazia napoletana, un transfuga e un degenerato, veramente, che aveva mangiato al giuoco e con le donne tutta la sua proprietà; egli aveva dato l'ultimo colpo alla sua fortuna con Lodoiska, una chanteuse che portava un nome russo, ma che era genovese: ora, senza un soldo, egli viveva sempre con Lodoiska, alle spalle di lei, anzi si annunziava, dappertutto, il loro matrimonio. I suoi parenti lontani, poiché Placido Massamormile non aveva parenti vicini, facevan di tutto, perché egli lasciasse Napoli, non potendo sopportare tanto obbrobrio. Placido Massamormile era piccolo, asciutto, molto ben fatto, bruno, con capelli e baffi nerissimi, una fisonomia orientale, ma senza mollezze di linee: Lodoiska era alta, bionda, formosa, rosea, con certi begli occhi celesti, ma di cui uno, disgraziatamente, era storto. Ella vestiva di rosso, con un gran cappello bianco, coperto di piume bianche, sulla testa, e aveva un paio di orecchini, almeno di duemila lire, alle orecchie. Roberto Gargiulo e Massamormile si salutarono: Roberto arrossì dal piacere, tanto teneva al saluto delle persone nobili, anche se fossero corrotte e perdute come Placido Massamormile. Carmela e Roberto mangiavano in silenzio un piccolo antipasto banale, di sottaceti, burro e alici: Lodoiska, al solito, con voce bassa, sorda e roca, si disputava con Placido. Ella lo sopportava, adesso, anche povero in canna, anche squalificato, messo al bando da tutte le persone per bene, lo sopportava perchè Placido Massamormile era sempre una buona insegna per una donna come lei, perchè non aveva altri in vista, in quel momento, e perchè, forse, lo amava un poco. Ma si litigavano sempre, irritati ognuno dalla propria condizione, non sapendo come uscirne, Placido col suo fare beffardo e sprezzante, sprezzante anche di sè stesso, Lodoiska con la sua trivialità di chanteuse grottesca, abituata alle smorfie, agli urli, ai salti. Si vedeva che Placido Massamormile sotto quella bella maschera di arabo smarrito in Italia, sotto quell'aria ironica e superba, soffriva di quel contatto, di quei litigi, di quelle scene: e lei ne godeva, invece, più rotonda, più rosea che mai, col suo terribile occhio azzurro che guardava da una parte, mentre l'altr'occhio guardava dall'altra. Invero Roberto Gargiulo invidiava Placido: che era mai quella piccola pecora taciturna di Carmela Minino, innanzi a quella chanteuse che possedea, dicevano, trecentomila lire non guadagnate col canto e che, forse, si sarebbe fatta sposare da un nobile? La meschinità, la grettezza della sua conquista amorosa, ogni tanto, umiliavano profondamente Roberto Gargiulo e gli facevano gittare degli sguardi indifferenti, talvolta astiosi, su Carmela Minino. Comprendeva ella? Forse. Da che Lodoiska era entrata, ella aveva curvato il capo, teneva gli occhi abbassati sul piatto, faceva meccanicamente delle pallottole di mollica: giungendo, così, a irritare sempre più il suo amante che avrebbe voluto vederla tutta lieta, scintillante negli occhi, brillante nella voce e nella parola. - Che hai? Che ti è successo? - le domandò, duramente. - Niente... niente - ella disse, levando gli occhi, un poco sgomenta. - Tu mi sembri un convoglio funebre - soggiunse lui, anche più annoiato dal vederle gli occhi pieni di lacrime. - Era meglio che ti avessi condotta a casa. - Io... io non volevo venire - balbettò lei, soffocando un singulto che le rompeva il petto. - Ci penserò bene, un'altra volta - concluse lui, con secchezza, dandosi accuratamente a liberare la triglia dalle sue spine. Tacquero. Per frenare le lacrime, le palpebre di Carmela battettero, due o tre volte: ella giunse a comporre il suo viso: finse di mangiare, disinvoltamente. Del resto, altra gente entrava. Era Carlo Altamura, un usuraio a giorni, a ore, che esercitava il suo ufficio strozzatorio nelle case da giuoco, dove faceva firmare delle cambiali di ventiquattr'ore ai giuocatori, facendo mettere firme false, facendo firmare delle implicite dichiarazioni di truffa, di furto, tendendo, infine, ogni tranello ai poveri giuocatori disperati e appassionati: era Gaetano d'Amora, un grosso e grasso reporter di giornale notturno, una figura di monaco sfratato; era, infine, tutto solo, senza compagnia di donne, don Gabriele Scognamiglio, il galante, ricco e popolare farmacista di via Pignasecca. Questi tre erano giunti insieme: Altamura, perchè i suoi tetri lavori notturni erano compiuti, per quella notte: Gaetano d'Amora fra una gita e l'altra alla questura e al giornale: e don Gabriele per abitudine, per vizio, non potendo andare a dormire senza cena, senza veder donnette a cenare, magari non con lui, preferendo reggere il moccolo alle coppie degli innamorati, anzi che non avere lo spettacolo dell'amore. Con la sua barbetta bianca bene tagliata e profumata, con le sue guancie colorite e i suoi occhietti maliziosi, elegantemente vestito, col fiore all'occhiello, con due fulgidi anelli di brillanti alle mani, con un bastone dal manico d'argento cesellato, col suo passo ancora fermo malgrado i cinquantacinque anni molto suonati, egli godeva, nei teatri, nei caffè, nei ritrovi notturni, presso donne giovani e vecchie, attrici, ballerine, chanteuses, creature dallo stato civile impreciso, una popolarità, invincibile. Appena entrato, egli aveva salutato affettuosamente Roberto Gargiulo e Carmela Minino, inviando loro quasi un cenno di benedizione. Poi, vi fu un cambio. Gaetano d'Amora aveva chiamato un minuto, in disparte, Roberto Gargiulo e man mano lo aveva condotto fuori il secondo balcone di Toledo, a parlottare: cortesemente, don Gabriele Scognamiglio si era subito avvicinato a Carmela Minino, per non lasciarla sola. - Oh donna Carmelina nostra, voi diventate sempre più bella - le disse, a voce bassa, con un sorriso sulle labbra. - Sono belli gli occhi vostri - rispose, con la frase consuetudinaria simbolica napoletana, Carmela. - Oh io son vecchio, son vecchio, donna Carmelina! nessuno vuole più saperne di me. - Non dite questo... non è vero, cavaliere. - E voi, forse, mi volete? Non mi avete sempre detto no? E invece, come tutte le altre, avete preferito il giovanotto. Egli sogguardava verso il balcone, cautamente, con finezza, parlando piano, con un amabile sorriso. Ella lo guardava, arrossendo, impallidendo, non avendo il coraggio d'interromperlo, poichè quel vecchio ricco, generoso, bene educato, dalle avventure fantastiche, le faceva soggezione. - Che ci trovate, in quel giovanotto? Gli volete molto bene, proprio molto? - chiese don Gabriele, sempre più aggressivo. - Oh! - esclamò lei senz'altro, turbatissima. - Vi dà molto danaro forse? E dove lo piglia? - Niente danaro, niente! - replicò lei, subito, con un moto d'ira e di fierezza. - Non vi offendete, perdonatemi donna Carmelina. Allora vi fa morir di fame? Per i suoi belli occhi? Qualche regaluccio, null'altro, ho capito! E voi ci rimettete anche qualche soldo... Ella tremava di sgomento, poichè tutto quello che don Gabriele diceva era crudele, ma vero, poichè le sembrava un delitto non difendere Roberto Gargiulo, poichè le pareva ben brutale che le si potesse parlare così, da quel peccatore che non si voleva pentire; tutto era vero e tutto era così doloroso, per lei, che ella si appoggiò alla sedia, come se mancasse. - Non vi affliggete, donna Carmelina, non vi voglio vedere così triste - soggiunse il farmacista. - Ma ve lo dico da vero amico, quale vi sono, perchè vi ho conosciuta da bambina e perchè siete una brava ragazza... Ella gli rivolse uno sguardo supplichevole. Don Gabriele ebbe l'aria di non notarlo e proseguì: - Ve lo dico schietto: un giorno o l'altro, Roberto Gargiulo vi lascia. Forse il giorno non è lontano... - Forse il giorno non è lontano... - ripetè lei, macchinalmente, come se ciò rispondesse a un suo intimo pensiero. - E che fate, allora? Chi vi trovate? Chi chiamate, donna Carmelina? - Chi trovo? Chi chiamo? - replicò lei, smarrita. - Vi trovate il vostro vecchio amico Gabriele, che non ha ventott'anni, che non ha i baffetti in aria e la scrima all'imperatore, ma è una persona seria, donna Carmelina. Chiamate don Gabriele e don Gabriele vi risponde, col saluto militare: presente! E coronò con una bella risata il suo discorso, poichè Roberto Gargiulo si riavvicinava, con la sua aria d'importanza. Anzi, osservando che Carmela era scomposta nel viso, evidentemente commossa, don Gabriele si lanciò in un discorso, frammezzato da risate: - Caro, caro Gargiulo, giacchè scortesemente avevate lasciata sola questa bella ragazza, io, da fedel cavaliere, sono venuto a tenerle compagnia... - E le avete fatto la corte? - disse, briosamente, Roberto, ricominciando a cenare. - Già, gliela faccio sempre. Stasera più che mai. - E con che risultato, cavaliere? - A mia vergogna, lo confesso, con nessun risultato - disse, sghignazzando, l'antico peccatore. - Voi mi mortificate, cavaliere... - mormorò Carmela che era già rimessa dall'emozione, ma restava imbarazzata. - Tenetevela cara, questa donnetta, Gargiulo, vi vuol bene: vi adora: è un mostro di fedeltà. Nulla ha potuto smuoverla. Io sono un vecchio birbante, ma lei è un angelo! E malgrado il leggiero tono d'ironia che era in queste parole, malgrado la loro esagerazione, Roberto Gargiulo si ringalluzzì. Quando don Gabriele Scognamiglio si fu allontanato per andare a cenare, soddisfatto di quel che era riescito a dire a Carmela, Roberto le stese la mano sulla tavola e le toccò, con una carezza, la mano. - Ti chiedo scusa, se sono stato maleducato, poco fa. - Non importa, non importa - diss'ella, di nuovo molto commossa. Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, tutta sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l'accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz'ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, purtroppo, lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne, alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, cRollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano, sul teatro e via: e infine il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant'Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto, per paura che si burlasse di lei; ma si ostinava a non volerlo, in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all'idea che il suo amante, così pretenzioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz'ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto. - No, no, no - aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi. Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un'altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Garginlo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio del giovane cassiere: e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino, sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità - non le faceva sempre dei regalucci? - questa ribellione lo indignava. - Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perchè lo hai fatto? - la investiva, arrivando alle ingiurie. - Perchè... perché... - diceva lei, cRollando il capo, misteriosamente. Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi nè il cappello, nè la giacchetta, all'oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia, che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull'altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola, all'oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un'altra persona: - Ma che ho? Che mi è successo? Ah pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell'ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo! Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione, non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perchè era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell'opinione della gente onesta, non si poteva più confessare, non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle sue gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perche l'ho fatto? Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l'inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a sè questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d'Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di Don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l'errore passato e il dolore futuro. Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guancie di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perchè la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L'amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene: la fortuna d'ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, i bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello, al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che! - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell'amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose, che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poichè sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano: qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l'estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già tre o quattrocento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da sè, per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d'argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme a qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l'aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere. Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando Io Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena di tristezza: si era tolto dai fianchi il cordone di Terz'Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna ne dell'uno, nè dell'altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di risurrezione non aveva potuto comunicarsi. Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Se vi pensava, innanzi, nell'avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare, questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l'anima e coi sensi; ma lusingato nell'amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all'amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero; egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell'amante provvido e innamorato. D'altronde, spesso Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con la sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti di uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un'ignota paura la sua amante. Spesso, taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d'inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo, solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere finita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall'acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva, dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente, si chiedeva: - Perchè l'ho fatto? Perchè l'ho fatto? E la ragione intima, profonda, segretissima che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla nè ad altri, nè a se stessa.

Trangugiando delle rade lacrime ardenti, che le erano salite agli occhi, ella restò al suo posto, sulle spine, rispondendo come meglio poteva a don Gabriele Scognamiglio, che le chiedeva che volesse da cena, tutta rigida nel suo vestitino di seta bianco e nero, il solo buono che possedesse, un po' terrea sotto un cappellino di velo celeste che la modista le aveva voluto fare assolutamente e che le stava abbastanza male. Così vicina, quell'altra tavola! E, infatti, dopo poco tempo, con un gran rumore di voci, di risate femminili giunsero le quattro coppie, Emilia Tromba, Concetta Giura, la chanteuse spagnuola Mariquita che cantava e ballava all'Eldorado, la mima Alina Bell che agiva nel ballo Rolla alle Varietà. Si sedettero, con gran fracasso di sedie, accanto ai quattro gentiluomini che le accompagnavano in silenzio. Carmela Minino non vedeva Concetta Giura ed Emilia Tromba dalla primavera, dalla fine della stagione di San Carlo: le due ballerine si davano il lusso di non ballare in estate. E malgrado si dicesse che Sanframondi non ne poteva più di Concetta, che Ferdinando Terzi tenesse Emilia Tromba solo per rimedio, oramai, ai sospetti di un marito geloso, i due continuavano a portare in giro le loro amanti, a pagar loro da cena. Ferdinando Terzi, nel sedersi, capitò dirimpetto a Carmela Minino. Nulla era mutato in lui: con una bottoniera di garofani bianchi allo smoking, egli era sempre il bel gentiluomo dai fini mustacchi biondi, rialzati mollemente sopra una bocca rossa e sensuale, che non sorrideva mai, dal profilo nobilissimo ma così rigorosamente aquilino che pareva tagliato col coltello, dagli occhi azzurro pallidi, freddissimi, altieri, glaciali. Per un istante li fissò sovra Carmela. Poi si curvò ad Emilia, facendole in due parole, una domanda. Carmela comprese subito che s'informava di lei, di quel posto e di quella compagnia in cui ella si trovava: e comprese anche, che, ridendo, in poche parole, Emilia Tromba gli narrava la sua caduta. Guardava Carmela intensamente e dal modo sprezzante delle labbra di Ferdinando Terzi, ella intese, sentì magicamente le due parole: - Che sciocca! Carmela guardò, nell'ombra, la città, il mare, la montagna ardente, senza vederli: e pensò che tutto, tutto era inutile.

Pagina 66

Saper vivere. Norme di buona creanza

248590
Matilde Serao 8 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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Antico costume abbastanza cafonesco e che, man mano, si è venuto illanguidendo: antico costume che dovrebbe completamente sparire, nelle grandi città. Si comprende, questo costume, fra gli abitanti dello stesso villaggio - o Ventaroli, di Sessa Aurunca, o terra della mia stirpe, di voi parlo! - che hanno bisogno di stringersi insieme, di prestarsi amicizia, assistenza, soccorso, in qualunque circostanza; si capisce, fra gli abitanti della stessa piccola città di provincia, per le medesime ragioni: si capisce, in estate, ai bagni, in villeggiatura, in albergo, per farsi compagnia, per formare una côterie: si capisce, dovunque la gente è poca, dove molte cose mancano, dove la solidarietà umana è più necessaria. Ma in una grande città, dove tutto vi è, a portata di mano, di voce, di passo: in una grande città, dove basta escire dal portone per trovare anche la pietra filosofale, che, si dice, non fu mai trovata; in una grande città, a che può servire di conoscere i propri vicini? A che aumentare le proprie relazioni, inutilmente, quando quelle che si hanno, d'ordinario, sono soverchianti? A che mettersi in rapporto con gente nuova, ignota, forse estranea a ogni proprio gusto, forse antipatica, forse equivoca? Perchè conoscere, proprio i vicini, quando il più savio consiglio di restringere alle persone più tenere, più simpatiche e più utili, le proprie relazioni? E, veramente, esiste una vicinanza, in una grande città, in una grande strada in un grande palazzo, o non si è, veramente, anche gli inquilini di questo medesimo palazzo, completamente estranei, l'uno all'altro ? E in tanto lavoro, in tanti pensieri, in tanti svaghi, in tanti affanni, chi mai s'incarica del proprio vicino? Il vicino non esiste, in un ambiente di metropoli. E non dovrebbe esistere, quindi, la profferta di servigi, barocca e inutile; non dovrebbe esistere l'offerta della visita, che, quasi sempre, è inopportuna e mal gradita; a rigore, non dovrebbe esistere neanche lo scambio dei biglietti da visita. Per questi, passi. Ma non oltre! Non parlo, poi, qui, dei danni delle nuove conoscenze, quasi sempre pericolose, fra nuovi e vecchi inquilini: pensateci voi, o genitori, voi, o mariti, voi, o fidanzati, a questi danni, calcolateli, essi possono essere irreparabili!

Pagina 106

Quei leggeri edifizii o quei pesanti edifizi ricciuti, e adesso già abbastanza complicati, non reggono in estate: qualunque leggiadra pettinatura, opera di mani pazienti, dopo due ore, è un ammasso informe. Il calore disfà i ricci, e le ondulazioni non naturali, ed esercita la sua azione demolitrice, anche su i ricci naturali. Vorreste voi, in estate, portare i capelli molto bassi sulle orecchie, molto bassi sulla nuca, e molto bassi sulla fronte? E non vi darebbero un fastidio enorme? Ed ecco, che l'estate consiglia la pettinatura bassa a radici diritte, libera la fronte, libere le tempie, libera la nuca, e rialzati, questi capelli, sul sommo della testa. Prendete, per esempio, i guanti: vorreste voi, in estate, portare l'elegantissimo guanto glacé dell'inverno, che modella la perfetta mano, e non preferite voi il guanto largo, la pelle di Svezia, che si leva e si mette ogni minuto, di cui si può gittarne un paio anche ogni due giorni? Prendete, per esempio, le calze: vorreste voi portare, in estate, la indispensabile, ineluttabile calza nera dell'inverno, quella calza nera, che è la civetteria egualmente delle gambe troppo sottili e delle gambe troppo grosse! Quella calza nera, che è la più profonda delle illusioni umane? Voi sapete bene che l'estate discaccia la calza nera, e permette ai piedini femminili di adornarsi dei colori più delicati e più estetici, che si intravvedono dalla scarpa di bulgaro, alla scarpa bianca, che bene si vedono dalla scarpetta nera. E voi sapete, sopra tutto, che l'estate rende immortale la fine, morbida, sottile calzetta di filo, la calza da viaggio o da escursioni, la calza da spiaggia e da montagna. Vorreste voi, come nell'inverno, adornarvi di molti, di moltissimi gioielli? Essi vanno d'accordo con le stoffe pesanti, coi drappi serici, con le pellicce esotiche, e sono troppo grevi, troppo ricchi, troppo di lusso, per le trasparenti vesti dell'estate. Qua e là, un fermaglio, una barrette. un sottile filo d'oro, da cui pendono gli oggettini delle escursioni estive, ecco quello che l'estate vi consiglia: cioè, un completamento di toilette più semplice, più disinvolto, che quasi sempre ringiovanisce e rende più gaie le fisonomie.

Pagina 150

Quando si deve esser cortesi, non si è mai abbastanza cortesi!

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Ma rimane un piccolo gruppo, tre a quattro persone, molto interessanti, molto simpatiche, abbastanza importanti, con cui si ha desiderio e necessità sociale di restare in rapporti, in città. E ci si resta! Ci si resta! Talvolta, care donne, cari uomini, queste persone, è una sola. Su questo, nulla debbo soggiungere. Quando si è ritornati in città, bisogua dividere in due categorie parenti e amici che si debbono rivedere: parenti e amici a cui si tiene molto, di riguardo e a cui si va a far visita: parenti e amici che tengono, essi, molto, a voi e voi, molto meno a loro e, allora, sono essi che vi debbono venire a salutare al vostro ritorno della villeggiatura. Vi è gente di riguardo, a cui avete dimenticato di mandare anche una sola cartolina con finezza, con grazia, bisogna riparare quest'oblio. Vi è gente che vi ha dimenticato: bisogna aspettarne le scuse e accettarle con disinvoltura. Dopo di che badare molto a non commettere la indelicatezza di esaltare la villeggiatura a tutti coloro che non si son potuti muovere dalla città.

Pagina 173

Infine, deve prepararsi a essere signorina, imparando a esser cortese, piacevole, giustamente colta, con qualche arte coltivata particolarmente, imparando ciò, ma non facendone sfoggio, se non più tardi, abbastanza più tardi.

Pagina 232

La signora limita la conversazione; quando ne ha abbastanza, saluta, l'uomo s'inchina ed ella passa avanti. Il giorno seguente, o, al più, dopo due o tre giorni, bisogna portarle due carte, piegate per metà, portarle personalmente e lasciarle al portinaio. Non si va a fare una visita, in casa, se non si invitati. Per Io più, scorretto farsi presentare a signorine, senza conoscere i genitori, o i parenti; ma, in un ritrovo, in un ballo, può accadere. Senza por tempo in mezzo, bisogna, immediatamente, farsi presentare dallo stesso amico, dalla padrona di casa, ai genitori o ai parenti della signorina: mai è permesso ballare con lei, senza essere stato presentato ai suoi. Alle signorine non si lasciano carte: ma ai loro genitori o parenti sì, come al solito. Mai presentarsi in casa, senza esservi chiamato. Appena si è conosciuta una signora, per correttezza, bisogna cercare di conoscerne il marito: egli non deve trovare le carte di un ignoto, dal portiere, nè deve ricambiare le sue carte ad un ignoto. Se la signora vedova, non restituisce carte al presentato: per le maritate, sempre il marito le deve ricambiare, negli otto giorni. I genitori di una signorina, o i suoi parenti, a colui che fu loro presentato e che ha portato le carte, debbono restituirle, anche negli otto giorni. Ho io detto, che non si dà mai la mano, nè prima, nè dopo, nelle presentazioni? Un gentiluomo non dà mai la mano a una signora, se non dopo averla vista otto o dieci volte: con le signorine, poi, questo termine è anche più lungo. Il parlare in terza persona, è del più assoluto rigore. Chi dà del voi, per la prima volta, a una signora o a una signorina, fa la figura di un ignorante e di un malcreato.

Pagina 48

Bella figura, per una signorina che si è portata dietro il fidanzato, dapertutto, e che, a un tratto, deve apparire senza costui, abbastanza compromessa, in fondo, da tutta quella troppo prolungata ed esagerata convivenza! E se anche il matrimonio si fa, non è desiderabile che tutta la poesia della intimità, della convivenza, delle uscite insieme, di tutta la vita comune, venga dopo, e non prima? Non desiderabile che tutte queste piccole gioie - poesia del matrimonio - dello andare dapertutto insieme, dello stare insieme lunghe ore, del comunicarsi ogni impressione, vengano dopo, dopo le nozze, e non prima? Il riserbo, la correttezza, una certa fierezza, l'amore represso dalla educazione, la passione dominata dal rispetto a sè stessa, non sono, forse, le qualità più belle di una fidanzata e di una futura moglie? Non è una migliore speculazione - chiamiamola così - far molto desiderare la presenza di una fidanzata, e tutte le piccole grazie dell'amore, e tutto ciò che è l' incanto tenero dell'amore, anzi che sciuparlo, ogni giorno, prima delle nozze? Non è meglio.... ma questa è una predica che seccherà moltissimo i fidanzati, abituati, oramai, a spadroneggiare in casa della fidanzata. O genitori, pensateci e pensateci voi, ragazze, perchè io ho ragione!

Pagina 7

Piccola o grande che sia, essa costa più o meno denaro, ma ne costa sempre molto, troppo; essa costa molte cure, molte fatiche, molti fastidi e molte noie; essa vi può procurare molti invidiosi e molti nemici: e bisogna vedere bene, se valga la pena di affrontare tutto ciò, se la ragione di convenienza, di obbligo morale, di decoro, d'interesse, che v'induce a dare questa festa, piccola o grande, sia abbastanza possente, da compensare tutto questo. Io so di un principe, mio grande amico, uomo d'intelligenza, di spirito, pieno di chic, che dette una splendida e simpaticissima festa da ballo: cinque giorni dopo, uno dei suoi più importanti coloni, gli scrisse una lettera, dichiarandogli di non poter pagare l'affitto, e domandando una dilazione, tanto più - diceva il colono - che Vostra Eccellenza ha dato una ricca festa, e non ha bisogno di denaro!Or dunque, pensarci un poco. Un altro inconveniente delle grandi feste o piccole, è che esse vi espongono alle critiche più amare; più aspre, più crudeli dei vostri invitati. Per uno strano fenomeno psicologico, i vostri invitati, coloro che voi avete chiamati a divertirsi, in casa vostra, a cui avete offerto un appartamento sfarzosamente adorno di piante e di fiori, illuminato a meraviglia, una raccolta di persone elette, di belle donne, di gaie signorine, dei rinfreschi squisiti, una cena sontuosa, tutti costoro vi diventano acerrimi nemici. Tutto è pessimo, per essi, da voi; i fiori odorano troppo; le piante, ve le siete fatte prestare; i gelati puzzano di petrolio; la luce elettrica, è volgarissima; il the sa di paglia; la cena è meschina e scarsa; e le donne, poi, le donne, tutte brutte, tutte mal vestite, che orrore! Una sera, in un ballo, poco prima di andare a cena, io ho udito, inavvertita, due perfetti gentiluomini, correttissimi, sorridenti, profferire, a voce sommessa, tali infamie sul conto del padrone e della padrona di casa, da far arrossire qualunque ingenuo: e, dopo, avviarsi placidamente a mangiare la squisita cena. È scoraggiante! Ma, naturalmente, vi è chi, per onorare il proprio nome e il proprio censo, per celebrare un anniversario, un compleanno, un onomastico, una promessa di nozze, deve dare una festa; vi è chi ama tanto poco sè stesso e tanto il proprio prossimo, da voler, assolutamente, esercitare la ospitalità; vi è chi, infine, ha bisogno, per suoi interessi, per suoi fini, di farsi vedere ricco e ospitale.

Pagina 88

Una notte d'estate

249414
Anton Giulio Barrili 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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. - Pensi che trova il quartiere ideale, donde non si muoverà più, glielo prometto io; e questa fortuna non sarà mai pagata abbastanza. Del resto, sebbene tutti omino di andare in alto, al sole e all'aria buona, ci sono ancor quelli che per ragion d'affari devono preferire il centro. Se si contenta di perdere due mesi, tre alla più trista, mi faccio forte di trovarle un surrugante - Sì, bene, lo trovi. E qui faccia vendere i mobili. - Oh, non dubiti; questo è l'affare d'un giorno. Il nostro inquilino ha fretta, per azzeccare il piroscafo, e venderà ad ogni patto. -

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Una peccatrice

249756
Giovanni Verga 4 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Ella stentò a riconoscere il giovane incognito che a Catania incontrava ad ogni passo, divorando degli occhi il suo sguardo, e che passava le notti sul marciapiede dirimpetto alla sua casa, in quel giovane che le stava dinanzi colla fronte nobile, quantunque solcata dalle febbrili emozioni della creazione, e dai delirii sublimi del pensiero; coi lineamenti sbattuti dalle fatiche del lavoro, dalle lotte ardenti dell'idea, che aveva sentito immensa, colla forma, che spesso non sentiva abbastanza. Egli avea l'occhio brillante della confidenza che dà la giovinezza e l'avvenire, quando si affaccia ridente; il suo vestito irreprensibile sviluppava la forte e maschia eleganza del corpo; si presentava con tutta la grazia di un abituato alle più aristocratiche riunioni. Ciò che più di ogni cosa servì a farglielo riconoscere, meglio che l'altiero portamento della fronte, ch'egli non avea saputo rendere grazioso in quel momento come il sorriso a cui aveva forzato il suo labbro sdegnoso nel presentarsi alla contessa R***, fu questo: La contessa gli parlava con la famigliarità che dà la parentela del genio, e gli stringeva la mano. Il cerchio degli ammiratori di lei gli si affollava d'attorno, e lo guardava con occhio invidioso. Tutt'a un tratto ella lo vide diventar pallido come un cadavere, e dirizzarsi sulla persona con un movimento macchinale che non seppe padroneggiare; e ciò fu quando il barone (che era rimasto al suo fianco frapponendosi tra di lui e Narcisa) si allontanò. Pietro aveva veduto la contessa di Prato, alla quale il sottotenente dirigeva un complimento ch'ella non ascoltava. Brusio rimase un momento immobile, senza poter parlare, cogli occhi, che si erano fatti di una sorprendente lucidità, fissi su quelli di lei, mentre una leggiera convulsione faceva tremare sul suo labbro superiore i baffi castagni. La signora R***, che gli parlava in quel momento, fu sorpresa di non avere risposta, e lo guardò con curiosità. Pietro staccò quasi con isforzo gli occhi da quelli di Narcisa, che lo fissavano col loro sguardo limpido e chiaro, per volgerli all'ufficiale che anch'esso lo guardava sorpreso, arricciandosi le basette. Egli fu freddo, distratto, impacciato tutto il tempo che rimase a discorrere colla donna celebre. Quando questa gli parlava dello splendido avvenire che la riuscita della sua produzione l'autorizzava ad aspettarsi, rispose tristamente: - Forse, signora contessa, giammai in tutta la mia vita potrò compiere un lavoro come quello che scrissi in otto giorni, e al quale il publico ha avuto la bontà di fare buon viso. - È sola modestia che le fa dir ciò? - No, signora; forse è presentimento. - Bisognerebbe, in tal caso, non ammettere questo dramma come parto del suo ingegno, ma piuttosto... - Del cuore? - interruppe il giovane: - sì, signora! - Ella ha ragione: in un momento di passione si possono oprar miracoli che parrebbero impossibili a tentarsi un minuto dopo. Pel bene del suo avvenire voglio augurarmi che tale non sia il suo Gilberto. - Chi lo sa?... E lo sguardo del giovane, che s'inchinava per allontanarsi, incontrò quello di Narcisa fisso su di lui con un'espressione che dimostrava più della semplice curiosità. Si ordinavano le coppie per un valtzer; e l'ufficiale venne a presentare il suo braccio a Narcisa, che vi abbandonò il suo corpo flessibile, splendida di tutta la sua strana bellezza; coi capelli, intrecciati di perle; cadenti sulle spalle bianchissime e vellutate; col bel seno anelante sotto il velo ed il merletto che lo copriva; col suo sorriso indefinibile sulle labbra, e gli occhi che, senza esser brillanti, avevano un'onda di voluttà nei loro raggi. Ella si avanzò lentamente, mollemente, come immedesimandosi al corpo dell'uomo a cui si accompagnava, con un inimitabile movimento del suo collo da cigno, quasi le perle e i fiori che s'intrecciavano ai suoi capelli, e il volume di questi fossero troppo pesanti per quella piccola testa; presentendo nello sguardo sorridente e scintillante tutto quel torrente d'impetuose voluttà che il valtzer, questo ballo degli innamorati, dovea darle; come appoggiando tutti i delicati tesori del suo corpo al braccio del suo cavaliere per trarne quella foga d'esaltazione che la musica, l'eccitamento, il contatto del corpo dell'uomo elegante doveano darle. Nulla varrà a riprodurre, ad accennare soltanto, l'impressione voluttuosamente affascinante di quel corpo leggiero da silfide, che librava, direi, le ali coll'espressione del suo sguardo, per abbandonarsi a tutto il trasporto di quel ballo. Le coppie cominciarono a girare; la musica eseguiva il Bacio di Arditi. Dopo il primo giro, quando la contessa si fermò, anelante, come cullandosi al braccio del suo splendido cavaliere, sfiorandogli un'ultima volta il viso cui suoi capelli; colle guance accese, il petto anelante, gli occhi umidi di languore e di piacere, incontrò un altro sguardo, umido ancor esso di una indicibile espressione d'angoscia e quasi di cruccio, che brillava su di una fronte alquanto calva e pallida di una spaventosa pallidezza. Ella fissò un lungo sguardo su quello che si fissava su di lei. - Vogliamo ricominciare? - le susurrò all'orecchio l'ufficiale passandole il braccio - attorno alla vita da bajadera. - È inutile... mi sento stanca... Non ballo più... Ella cercò cogli occhi un'altra volta quello sguardo supplichevole e nello stesso tempo minaccioso: era scomparso - Oh! questo Bacio! questo Bacio!... avrò da sentirlo dappertutto... - mormorava Pietro delirante scendendo le scale. - Domani ai Fiorentini si darà un dramma che ha fatto furore, a quanto si dice; avrete la compiacenza di accompagnarmivici? - domandò Narcisa al marito. Questi s'inchinò in silenzio. L'indomani infatti, alle 9 e mezzo, la contessa, che non si ricordava di essere entrata in teatro a tal ora, era in un palchetto di seconda fila sul proscenio: Il sipario non era ancora alzato e la sala era affollatissima. La contessa recava in mano un magnifico mazzo di viole bianche che posò sul parapetto insieme all'occhialetto. Il dramma fu recitato in mezzo ad una di quelle ovazioni che sembrano strappate agli spettatori quando l'autore ha saputo scuotere tutte le corde dei cuori colla sua mano potente: era una di quelle opere spontanee, tutte di un sol getto, che sono belle perchè sono vere, che sono inimitabili perchè sono semplici e comuni. Narcisa rivide quel giovanetto che passava le notti sotto i suoi veroni; lo rivide nel protagonista di quel dramma, con tutti i suoi fremiti d'amore e i suoi disinganni disperati; ella sentì che quel dramma parlava di lei, era scritto per lei, in tutte quelle sfumature di rimembranze che l'accennavano ad ogni passo... L'ufficiale, che avea battuto le mani quando l'aristocrazia aveva applaudito, osservò con sorpresa che ella rimaneva indifferente alle sue sollecitudini, tutta assorta in quel Gilberto che ad ogni parola destava in lei una reminiscenza e le svelava quale amore quasi sopranaturale avea saputo destare. Nel mezzo della scena che l'avea commossa dippiù, ella, coll'ispirazione improvvisa e adorabile della donna leggiera e capricciosa, s'era tolto dal dito un magnifico anello di brillanti e l'avea legato al nastro del mazzetto. Alla fine del second'atto l'autore, chiamato fragorosamente dal publico, venne sulla scena. Egli non ebbe che uno sguardo, in mezzo al turbine di quegli applausi frenetici, in mezzo all'agitazione di quella folla che si levava gridando il suo nome, in mezzo all'inebbriamento di quell'ovazione quasi delirante: uno sguardo che andò a posarsi su di un palchetto di proscenio al second'ordine. Egli vi vide la contessa... verso della quale si chinava sorridendo il biondo giovanotto dalla brillante divisa di ufficiale degli usseri. Pietro dimenticò quegli applausi, quelle corone che gli cadevano ai piedi, quei fiori che lo coprivano come in un nembo, quelle acclamazioni al suo nome; egli non badò più neanche ad un mazzo di viole bianche che gli era caduto ai piedi dal palchetto di Narcisa e che avea raccolto, per fuggire come un delirante, come un uomo che teme d'impazzire, poichè tutti questi applausi non potevano dargli quello sguardo ch'era venuto a cercare sino a Napoli, che avea voluto comprare a prezzo delle ispirazioni del suo genio, e che avea visto rivolto sul giovane sottotenente. La folla chiamò invano replicate volte l'autore. - Che ne dite del dramma? - domandò la contessa all'ufficiale, dopo l'ultimo atto, approfittando del tempo in cui il conte era uscito per fare ordinare la carrozza dal jokey che aspettava sul corridoio. - Molto bello, in verità; e anche assai applaudito. - E dell'autore? - Che volete che ne dica?... ch'è un autore come tutti gli altri; - soggiunse colui con il supremo disprezzo degli uomini di spada. - Eppure quest'uomo è celebre! - aggiunse la contessa avvolgendosi nella sua vespertina di cachemire bianco. - Sarà anche questo. - Sento che amerei quest'uomo come una pazza! - esclamò Narcisa punta dal freddo motteggio del suo vagheggino, colla viva schiettezza del suo carattere mobile ed impetuoso. - Confessate almeno che questa franchezza è odiosa!... - rispose ridendo il sottotenente, poichè non sapeva se dovesse prendere la cosa sul serio, sebbene l'espressione affatto nuova della contessa gli desse molto a pensare. - Ha però sempre il merito della franchezza! - replicò con tutta flemma Narcisa: - quest'uomo io l'amo... poichè la sua celebrità è opera mia!... opera di cui posso andare superba! ... Partite per la guerra, signore, a farvi uccidere per me o a ritornare generale d'armata, e allora... ma allora soltanto... forse... io vi amerò come sento che amo in questo momento quell'uomo! - Signora! - esclamò l'ufficiale coi denti stretti, facendosi pallido. - Non mi accompagnate sino alla mia carrozza? - disse senza scomporsi Narcisa, dandogli la busta dell'occhialetto da recarle nel momento che suo marito rientrava nel palchetto. Brusio era ritornato a sua casa agitatissimo, e passò la notte senza dormire. Ella! Narcisa! avea assistito al suo trionfo, avea palpitato dei suoi sentimenti, gli avea gettato quel mazzetto che avea fatto appassire a furia di baci!... Ma ella non era sola!... quel giovane, quel soldato, sì giovane, sì bello, sì splendido! che le parlava sì da presso... che le sorrideva in quel modo!... Tutt'a un tratto i suoi diti incontrarono l'anello che era legato al mazzo; un dubbio atroce lo fece impallidire: quei fiori, che la donna adorata avea lasciato cadere su di lui, invece di essere l'espressione della simpatia non dimostrava piuttosto uno di quei volgari applausi, uno di quegli splendidi regali con cui si paga l'abilità di un istrione?... Quest'idea lo martellò a lungo; e l'indomani, ancora sotto questa impressione, scrisse il seguente biglietto a Narcisa - sarcasmo pungente ed amaro velato dalla forma più delicata:

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ln fede mia che ne ho abbastanza di tali amori da quindici anni!!.. se mi avesse permesso di salire un momento sulle scale... pazienza!... - Sì, Pazienza per altri otto giorni! la sarebbe finita come tutte le altre... Eppure ti assicuro che se tu l'avessi veduta piangere come io l'ho veduta; se ella ti avesse abbracciato i ginocchi come li ha abbracciati a me, per indurti ad andarla a vedere, a scriverle almeno... se tu avessi udito le parole ch'ella mi diceva!... - Parola d'onore! - esclamò sghignazzando Pietro, - che tu ne sei innamorato cotto. Va, Raimondo, amico mio, tu farai il tuo cammino, coi tuoi ventidue anni, i tuoi capelli biondi, e il tuo volto fresco e roseo. Il biondo prese quegli scherzi come li prendeva sempre, dalla parte che lasciano ad un uomo di spirito, ch'è quella di riderne pel primo, e riprese: - Se così fosse, confessa che mi saresti molto obbligato di averti sbarazzato di una noia, senza i ritornelli soliti di traditore, Iddio è giusto, ecc. Pietro ne rise esso pure, e strinse con effusione la mano del suo amico. - Sentimi, caro Raimondo; - diss'egli alquanto gravemente; - io non son di quelli che dicono: fo così perchè così fanno gli altri. Mi sento troppo superiore a questi altri per seguirne l'esempio. A diciott'anni è permesso credere ancora all'amore, alla fedeltà, alla donna tipo, eroina, come impastocchiano gli sfaccendati nei romanzi... A ventiquattro (è desolante quello che dico, ma non è men vero) si è scettico come lo scetticismo, quando cento volte si sono ascoltate le più appassionate proteste, fatte colle lagrime agli occhi, dalla donna che ha in saccoccia la lettera del rivale. - É curiosa! - interruppe Raimondo. - Che cosa? - Come ti hanno guastato i romanzi di Sue; tu, accannito avversario dell'esagerazione della scuola francese, e che ora mi copii sì bravamente l'Uomo stufo a ventun'anni, lo Scipione del Martino il Trovatello... - Non copio io! - disse Pietro quasi con asprezza; - ti dico soltanto quello che penso. Ti dico anche che darei qualche cosa del mio avvenire per possedere ancora le illusioni sì care de' miei diciassette anni... Tu conosci la mia vita, Raimondo!... Ti ricordi di una giovanetta che amai alla follia... Che fece quella giovanetta per la quale avevo pianto... ne ho vergogna anche a pensarci... pianto dinanzi a te... come un fanciullo... come un vile?! ... Ella m'ingannò per un mercante; poi; poi per un nobile, per un uomo ammogliato... E questa donna, che avea dato appuntamento per la sera al suo amico, che ascoltava tremando le ore che segnava l'orologio del salotto, poichè temeva ch'io m'incontrassi con lui, abbracciava i miei ginocchi, come ieri Maddalena abbracciava i tuoi; mi supplicava colle lagrime più ardenti, colle carezze più tenere, cogli accenti più deliranti di non lasciarla sì tosto, di non lasciarla in collera, poichè s'era accorta ch'io avevo sospetto di quello che dovevo vedere mezz'ora più tardi... Dopo amai una maritata; credei che una signora che rischia di romperla colla società, e colla sua felicità istessa, dovesse molto sentire quest'affetto, al quale sacrifica il suo decoro, la pace domestica, e, presso di noi, fors'anche la vita... Quindici giorni dopo, a caso, in una festa da ballo, seppi, da uno di quegli amici che s'incontrano dappertutto, che da tre giorni egli era in relazione con quella signora... e le espressioni appassionate di lei, che egli mi citò, erano le stesse di quelle che aveva impiegato per farmi credere al suo amore... In seguito amai una fanciulla... pura siccome un angiolo: come direbbe il il signor Darmont nella Traviata; ella aveva tutto ciò che può far credere alla purità del cuore: distinzione d'educazione, coltura d'ingegno, bontà di sentimenti... Io l'amai come un pazzo, quella fanciulla dal viso pallido e dagli occhi cerulei... Scesi persino alle puerilità del collegiale... passare sotto i suoi veroni, seguitarla al passeggio e in chiesa... Quella giovanetta rispose finalmente alle mie lettere, mi promise amore e fedeltà, nell'istesso tenore, suppongo, in cui l'aveva promesso sei mesi prima ad un giovane che sposò alcune settimane appresso... E dopo questo, dopo innumerevoli esempi, che ogni giorno cadono sott'occhio, credi che si possa più averi fede nell'amore propriamente detto, in quest'amore chiesto o giurato spesso col rituale alla mano, senza passare almeno per uno scolare di primo anno? - Ti rispondo colle tue parole: Credo che abbi ragione almeno per metà; ma confessa che per l'altra tu esageri un pochino, lasciandoti trasportare, al solito, dalla tua immaginazione. - Può essere anche questo; - rispose sorridendo il giovane; - del resto colla Maddalena l'ho rotta tranquillamente o diplomaticamente, come vuoi meglio. Infine vuoi una parabola per convincerti? - Fuori la parabola! - Ecco! - e Pietro trasse dal suo portasigari, che avea trasformato anche in portafogli e portamonete, un bigliettino in carta profumata ed involto in una sopracoperta piccolissima color rosa; colla stessa flemma ne prese un sigaro ed un fiammifero. Acceso il foglietto, cominciò accenderne tranquillamente il sigaro. Raimondo ebbe il tempo di leggere le ultime frasi assai tenere del bigliettino, scritto con quel carattere minuto ed uguale che sembra particolare alle signorine distinte, firmato in basso colle sole iniziali. - Hai veduto? - gli domandò Pietro trionfante, buffandogli in faccia il fumo azzurrognolo del sigaro. - Ho guardato ma non ho visto, come il cieco della Bibbia. - È semplicissimo: vi è un detto celebre: Fumo di gloria non val fumo di pipa: ciò che in parentesi dimostrerebbe che le mie più belle produzioni-erba non valgono il fumo delizioso di questo regalia; io ne faccio un altro: Amor di donna, e d'uomo, se si vuole, non dura piú di cenere di carta, o biglietto amoroso... o sigaro regalia. Spero di farmi nome almeno coi proverbi... giacchè non l'ho potuto con opere di maggior lena... Ma guarda laggiù, imbecille!... - Che c'è? - Cospetto!... la signora che incontrammo l'altra volta alla Villa! - È vero. - Che donna... Perdio!... - Non è poi quella maraviglia che mi vai cantando... - Non ho parlato di maraviglie. Ti dico semplicemente che a Catania, e in tutta Sicilia anche, son poche le donne che sappiano recare così bene il suo pardessus reine-blanche, e che sappiano appoggiarsi con tanta grazia al braccio di quel briccone in guanti paglia e pince-nez che ha la fortuna di premere quel polsino contro le sue costole. Essi passarono quasi rasente a quella donna, che questa volta non li vide, o fece le viste di non vederli, e che sorrideva del suo riso incantevole al suo cavaliere, mentre gli parlava. - Hai udito che bella voce! - esclamò Pietro, premendo il braccio del suo compagno; - all'accento mi parve torinese... lo adoro tutto il Piemonte in questo momento... - Eppure veduta dappresso non è bella... - È adorabile, se non è bella! Essa non ha la bellezza regolare, compassata, che direi statuaria, e che non invidio ai modelli dei pittori; ma ha occhio che affascina, e sorriso che seduce carezzando, quando questo fascino ci può fare atterrire coi suoi brividi troppo potenti. Questa donna alta e sottile, di cui le forme voluttuosamente eleganti sembrano ondeggiare lente e indecise sotto la scelta toletta che le riproduce con tutta l'attrattiva vaporosa delle mezze tinte, ha tutte le perfezioni per poter coprire ed anche far ammirare come pregi altre imperfezioni; questa donna che ha bisogno di tutta la delicatezza e la bellezza di contorno del suo collo da inglese per non far troppo spiccare la piccolezza della sua testa da bambina; di tutta la flessibilità della sua vita per far dimenticare l'estrema sottigliezza del suo corpo; di tutta l'abbagliante bianchezza dei suoi denti per fare una bellezza della sua bocca alquanto grande, con cui ella sorride sì dolce cha sarebbe a desiderarsi di vederla sempre sorridere; che si serve di tutte le ombre, di tutti i riflessi più lucidi, più belli, più azzurrognoli dei suo magnifici capelli neri per nascondere che la sua fronte è alquanto larga ed alta del soverchio di tutta la limpidità dello sguardo dei suoi occhi, infine, per farne ammirare la pupilla di un riflesso molto chiaro; questa donna mi colpisce mille volte dippiù coll'effetto direi strano, sorprendente, poichè rubato a Dio, della sua beltà... Io non potrei giammai esprimerti l'effetto che mi fa questa bellezza, che non è tale che quasi per un miracolo, poichè non ha nulla per esserlo, ed in cui tutto sembra formare un assieme di grazia e di incanto; questa bellezza che ha bisogno di tutte le risorse della toletta, di tutte le seduzioni dei modi e dell'accento, di tutto l'incanto dello sguardo e del sorriso, per circondarsi di questo vapore trasparente... illusorio, lo confesso, che la fa bella però, che la fa adorabile, poichè sembra non farla vedere che in nube, attraverso l'incenso e l'orpello; questa bellezza che vuol essere tale a dispetto della natura che l'avea fatta comune; questa figura plastica che non ha di bello che gli elementi, direi, per divenir tale, e lo spirito creatore che fa nascere tutte le grazie di cui si circonda; che si mette allo specchio donna per sortirne silfide... maga... sirena... - To... to... to!... Pietro, amico mio, ne saresti innamorato?... - lo! - rispose il giovane scrollando le spalle, come cadendo dalla sua esaltazione, - sei pazzo! - Eppure tutti i pregi di costei non valgono un solo di Maddalena. Venti ancor più belle di lei non farebbero un angioletto così bello e perfetto qual è la piccina, come mi piace chiamarla; che pure hai abbandonato senza un pensiero. Pietro fissò uno sguardo sull'amico, poi un altro sulla signora ch'era già molto lontana, e rispose semplicemente, abbassando il capo: - Maddalena non sa neanche annodarsi il nastro del cappellino come colei. - È graziosa! - esclamò Raimondo. - Dunque ameresti dippiù una donna che avesse bisogno, per essere amata, d'impiegare prima due ore allo specchio? - Sì, lo confesso... Chiamala anche civetteria, o ciò che vuoi; nella donna che dovrei amare io vorrei tutte queste cure minute, tutte queste precauzioni delicate, tutte le perfezioni dello spirito e le squisitezze dell'educazione, tutti questi dettagli dell'assieme, insomma, che servirebbero a formarmi l'aureola della donna che dovrei avvicinare colla riverenza e il delirio dei sensi, che tal prestigio dovrebbe recarmi, poichè a riverenza del cuore io non l'ho più. Io amo nella donna i velluti, i veli, i diamanti, il profumo, la mezza luce, il lusso... tutto ciò che brilla ed affascina, tutto ciò che seduce e addormenta.. tutto ciò che può farmi credere, per mezzo dei sensi, che questo fiore delicato, del cui odore m'inebbrio, che mi trastullo fra le mani, non nasconde un verme; che quest'essere non è come il mio, debole e creta... E allora io l'amerei... un giorno, un'ora, ma l'amerei... Quanto alle altre donne, le amerò allorchè scoprirò un cuore nella donna. Pietro, dopo questa scappata, rimase muto alcuni altri secondi, aspirando voluttuosamente, colle narici dilatate, il fumo del sigaro, come se attraverso quella nube cenerognola volesse discernere le forme indecise del tipo che avea ornato di tale incanto nella sua imaginazione. Poscia, come arrossendo del suo trasporto, si mise a ridere fragorosamente, esclamando: - Che ne dici della mia tirata, Pilade? - Non è cosa nuova in te. Dimentichi troppo spesso che sei scritto sul ruolo degli studenti di terzo anno in legge, per trasportarti ai tempi in cui impiastricciavi carta. - Hai ragione; bisogna dimenticare quei tempi... - disse il giovane con una forzata allegria, che pure avea una leggiera tinta d'amarezza. - Destino! ecco la gran parola che gli uomini non sanno proferire più spesso, ma nella quale io son credente come un maomettano... Io, povero sciocco, che m'ero fitto in capo di salire le scale del Campidoglio, e raccogliervi una corona qualunque... eccomi destinato probabilmente a logorare quelle dei tribunali, e di corone non si parla più... fossero anche di cavoli. Se gli uomini sapessero far valere questa parola quanto essa lo merita, l'incolpabilità delle azioni umane rimarebbe sugli scritti dei penalisti: ecco che, almeno una volta, parlo da saggio... - Ed anche il merito delle azioni umane, in tal caso... E tu sei superstizioso in quest'idea? - Al fanatismo! - Ma se tu fossi destinato ad amare quella donna, che non hai veduto che due volte, in passando?... Pietro cominciò dallo scrollare le spalle, al solito; indi rimase alcuni minuti in silenzio, e disse tristamente, come se quell'idea gli facesse pena o paura: - Chi lo sa!?...

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Dunque o costei è maritata, e non amerà giammai un Don Giovanni in ventiquattresimo che si chiama semplicemente Pietro Brusio; o è mantenuta, e non possederò mai abbastanza per pagare i suoi fiori per un anno; o è zitella, e non sposerebbe certamente l'uomo oscuro, comune, che non ha tanto da farla vivere in quel lusso nel quale vive, e che le è necessario, indispensabile per essere quella che è. In tutti questi casi dovrei dunque essere vile per amarla, o dovrei comprare il suo amore a prezzo di qualche infamia. - Ben pensato e ben ragionato! ciò che, in parentesi, ti avviene assai di rado. Vogliamo far colazione al caffè di Parigi? - No: andiamo al Laberinto. Raimondo guardò il suo amico di uno sguardo scrutatore e quasi beffardo. - Ti fo riflettere che non ho ancor fatto colazione; abbi dunque la bontà di concedermi dieci minuti. I due amici entrarono dai fratelli Guerrera. Mezz'ora dopo erano alla Villa. Faceva molto caldo. Il Laberinto era delizioso colle sue ombre profumate di fior d'arancio, I due sedettero all'ombra, e quasi contemporaneamente alzarono gli occhi sui veroni della casa, sebbene alquanto distante, che Raimondo avea indicato come l'abitazione della Piemontese. Le tende di giunco erano abbassate sulle ringhiere, quantunque il sole non vi giungesse ancora, forse per dare alquanto più d'ombra agli appartamenti; e dietro una di quelle si vdeva una figura di donna, vestita di bianco, quasi coricata su di una poltroncina con tutto il languente e voluttuoso abbandono di una sultana; a quella vista il cuore di Pietro battè forte, come la sera innanzi. - È dessa! - disse Raimondo - vedi che non t'ingannavo!... Pietro non rispose, tenendo sempre fissi gli occhi sul verone. Ella si toglieva soltanto a lunghi intervalli da quella positura per recarsi agli occhi un binocolo che teneva sui ginocchi e col quale guardava nella strada o verso la Villa; ed indi, come stanca di quello sforzo, lasciava ricadere mollemente la testa sulla spalliera, e sembrava assorbirsi in quell'inerzia contemplativa che gli orientali cercano nell'oppio. Un uomo, seduto accanto a lei su di una seggiola assai bassa, le leggeva qualche cosa di un giornale che teneva fra le mani, e che ella udiva sbadatamente; e si interrompeva di tratto in tratto per prendere una mano di lei, che gliela abbandonava con la stessa languida indifferenza, e che lo ringraziava col suo sorriso seduttore e col suo sguardo che faceva scorrere un'onda di voluttà in quell'uomo, quand'egli si recava alle labbra la sua mano: Allor solamente, la sua leggiadra testolina, coronata da quei ricci magnifici, si volgeva lentamente verso di lui. Qualche volta, con un movimento tutto infantile, quella manina bianca ed affilata si appoggiava alla ringhiera, e sopra vi si appoggiava la fronte; quasi quel bellissimo collo fosse troppo debole per sostenere quella piccola testa. - Con questa donna ci sarebbe da impazzire! - esclamò Pietro reprimendo un fremito, dopo averla divorata a lungo dello sguardo. - Credi che siano marito e moglie? - domandò l'altro. - È il mistero che questa donna sa rendere impenetrabile colle sue mille indefinibili gradazioni di fisonomia, d'espressione, di gesto, che fanno spesso dimenticare la sirena nella vergine, e viceversa. Se lo sono è da poco tempo: a meno che costei non senta ancor ella sì a lungo come deve far sentire a tutti quelli che l'avvicinano. Parecchie volte, forse a caso, l'occhialetto dell'incognita si rivolse verso il banco di pietra sul quale erano seduti i due amici. - Ti guarda! disse Raimondo sorridendo. O guarda i passeri che saltellano fra le frondi. Credi sul serio ch'io ne sia innamorato? - Ne parli tanto!... - Diffida sempre di quegli amori di cui ti si parla a lungo e sì leggermente: è segno certo che si vuol ridere alle tue spalle... Io l'amo come un bel personaggio da dramma o da romanzo, come un bel fiore... come una bella donna prima venuta insomma... che sa recare con grazia il velo sul cappellino e sollevare con disinvoltura lo strascico della veste... e nient'altro... In fede di che, se vuoi, andiamocene; sono le due meno dieci minuti, - aggiunse dopo aver consultato l'orologio. - Sì, è troppo tardi; siamo qui da più di due ore; - rispose il biondo alzandosi. Egli sorprese lo sguardo del suo amico che ancora restava fissato sul verone. - Vuoi venire, o no? - Un momento... restiamo altri dieci minuti e partiremo alle due precise... - Non amo gli inglesi colla loro metodicità regolata sul quadrante di un orologio... Hai detto d'andarcene... - Hai ragione; - rispose Brusio ridendo - partiamo. Due o tre volte, prima di uscire dal giardino, si volse a guardare il verone, sul quale non poteva più vedere che la tenda abbassata. - Bella donna! - ripeteva egli di tempo in tempo, con un entusiasmo che era troppo allegro per non essere affettato, e troppo affettato per non nascondere una preoccupazione: quanto io t'amo!

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Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!... Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.

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Voci della notte

250783
Neera 1 occorrenze
  • 1893
  • Luigi Pierro Editore
  • Napoli
  • Verismo
  • UNICT
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Di media età, bello, abbastanza elegante; entrò salutando, ma, non udendo risposta, fermò l'uscio che cigolava, e mosse con precauzione verso il letto, chinandosi, chiamando a bassa voce. — Dorme — disse poi, fra i denti. Nel rialzarsi vide il busto per terra; lo raccolse e lo posò delicatamente sulla poltrona, poi girò dall'altra parte del letto. Un gran numero di oggetti uscì dalle sue tasche; chiavi, temperino, matita, moneta spicciola, occhialetto, portasigari; tutto ciò cadde con un certo rumore sul piano levigato del comodino. Egli fece un movimento di dispetto per la propria sbadataggine, e si pose a levarsi il vestito con tutte le precauzioni; vestito e panciotto, che andarono a finire sulla poltrona, facendo riscontro alle trine, ai nastri e alle calze di seta dell'altra poltrona. Ebbe un momento di sosta, in camicia, stirando le braccia, provando l'ineffabile sollievo dell'uomo libero. Pensò: quel maledetto picche, stasera, mi ha rovinato tutto il giuoco. Sedette e si levò gli stivali. A piedi scalzi, molto più piccolo e più brutto di quando era entrato, stese le braccia ad accomodare il guanciale. Sul guanciale gemello, quello di sinistra, una lunga ciocca di capelli serpeggiava a mo' di bisciolina, nascondendo un pezzetto di guancia femminile, di cui l'altra parte scompariva sotto la rimboccatura del lenzuolo. — Dorme, decisamente — ripetè, e saltò lesto sotto le coltri. Dopo pochi momenti russava. Allora, nel silenzio della camera, un sospiro si alzò prolungato, doloroso; di sotto le coperte, a sinistra, il corpo indistinto si mosse; un braccio nudo, sollevatosi prima al di sopra della testa, ricadde inerte sul letto. Secondo sospiro, più lungo, più doloroso, e queste parole mormorate a guisa di un gemito: Mio Dio! Mio Dio! S'ella avesse potuto dormire, almeno un'ora! tanto da riposare quella povera testa che le scoppiava, tanto da dimenticare! Ma il sonno era lontano. Invece del sonno, incombevano su di lei le memorie dolci, ardenti, voluttuose, o poi tristi, agitate, piene di dubbi, e finalmente l'ultimo convincimento disperato: egli non l'amava più! Perchè non l'amava più? Aveva pure giurato di amarla eternamente. Quando cessa l'amore tra marito e moglie, rimane, se non altro, la casa, gli interessi comuni, il legame del mondo, la consuetudine; ma quando la morte colpisce queste relazioni occulte, è come fosse scoppiato il fuoco celeste che tutto distrugge. Oh! lo vedeva bene, lo sentiva, nulla sarebbe rimasto di quei due anni d'amore. Egli l'avrebbe dimenticata in braccio di altre donne, confusa nella folla dei ricordi. Chi sa se volgendosi più tardi al suo passato, e scorgendo l'immagine di due manine sulle quali egli aveva stampati tanti e tanti baci, le avrebbe riconosciute per le sue!... Strana e ironica burla, se la memoria delle di lei carezze dovesse unirsi, nella ingombra mente di lui, col nome di un'altra donna! Terribile cosa un amore che muore! Meglio la materia che ci dà il cadavere, poi la terra, poi i germi della vita rinnovantesi sotto altre forme. Ma questo soffio che è stato in noi, per il quale le nostre carni furono solcate, e l'anima nostra avvizzita, questo mostro, questo dio, quando fugge ci rapisce tutto! Avrebbe voluto gridare, piangere forte, chiamare aiuto, e invece doveva frena i singulti, fingere la calma, dormire a fianco del marito inconsciente. Riposava, il marito, col volto sereno, nella beatitudine di un sonno profondo. Ella girò gli occhi paurosamente e lo guardò. Dormiva il sonno del giusto — difatti egli era il giusto — lei la sposa colpevole, condannata alla menzogna. Egli poteva schiudere le palpebre, interrogarla, chiederle conto di quelle lacrime, farle confessare la sua vergogna, e cacciarla via come una ladra o ucciderla come una traditrice. Invece dormiva, sicuro. Le venne in mente, con una malinconia acuta, il giorno del suo matrimonio. Era ingenua allora, piena di illusioni, di buoni propositi, di intendimenti alti e severi. Anche ella aveva detto di amare, aveva giurato di amare eternamente, e non aveva amato più! In qual modo era venuto il tracollo? Ma! Si ricordava di aver letto molte pagine, qui, là, tutte piene di analisi finissime su questi tramutamenti della natura umana; pagine che le avevano fatto esclamare: Sì, davvero, succede proprio in questo modo! Ma le ragioni erano svanite, la logica sfumata; non restava che il fatto nudo e desolante: Ella non amava più suo marito. Amava l'altro, Perchò? Nuovo mistero. E l'altro la tradiva a sua volta, l'abbandonava, non l'amava più. Stette un poco sospesa, scacciando i pensieri, chiudendo forte gli occhi nella speranza che il sonno avrebbe vinto. Suonarono frattanto le due ad un'orologio lontano. Ma come soffriva! Si voltò una, due volte, smaniando. Improvvisamente le si gelò il sangue nelle vene; suo marito aveva parlato. Si rizzò sul gomito, spaurita, ascoltando. Egli sognava; un sorriso dolce gli errava sulle labbra, dalle quali uscivano sillabe indistinte; tutte le linee del suo volto si stendevano nell'espressione massima del benessere del riposo, ed ella si sentì invasa da una tenerezza materna per quell'uomo che dormiva come un bambino, senza sospetti. Il rimorso la assalse di averlo ingannato, lui così buono, che fidava in lei; e le venne un desiderio cocente di togliersi di dosso quei due anni di colpa, di tornare la sposa immacolata, di poter dormire anche lei, così, serenamente, la mano nella mano, le teste avvicinate, nella affettuosità fredda del talamo. Una commozione fatta di pentimento e di tristezza l'attirava verso il marito; oh! come avrebbe voluto amarlo! Tese le braccia, tese le labbra, ma al tiepido avvicinarsi dell'epidermide, quando stava per urtare il corpo di lui, una forza ignota la respinse. Altri, altri baci le bruciavano la bocca, l'avviluppavano qual veste di fuoco; baci, carezze ed amplessi di cui il solo ricordo la faceva fremere, la faceva singhiozzare colle membra rattratte, la faccia nascosta in mezzo ai guanciali, annientata. Non dormiva ancora, forse fu nel torpore della spossatezza ch'ella rivide un chiaro mattino di maggio. Era uscita per visitare i poveri, lesta, in abito succinto, con un velo sui capelli; e lo aveva incontrato, il dolce amore. Si incontravano sempre in quella viuzza che pareva di campagna, dove, al di sopra dei muri, spuntava il verde tenero delle acacie, e lungo i crepacci rameggiavano le pallide glicinie dai grappoli odorosi. Che incantevole mattino!... Soli, dimentichi dall'universo, tenendosi per mano, zitti, guardendosi negli occhi, tanto felici da sentirsi perfino innocenti, avevano benedetto Iddio nella soavità del creato; e con inconscia empietà vollero entrare in una chiesuola solitaria, come sposi novelli. Tali li ritenne senza dubbio il buono e vecchio prete che attraversava allora la chiesa tenendo in mano due roselline, poichè li guardò, sorrise, e con atto gentile porse i fiori a lei. La luce, l'aria, la mitezza del cielo, la navata bianca della chiesuola, il sorriso indulgente del prete, tutto, tutto rivedeva con lucidità meravigliosa — e il lieve imbarazzo, e l'onda di felicità che li riprese, e la fine, oh! la fine di quelle due rose!........ Una vibrazione la scosse. Era il cane di una pistola? Erano le risa schernitrici del mondo? Era il pianto del suo bambino? — o la morte, la morte liberatrice? No, erano le ore; solite, impassibili: una, due, tre. Appena le tre. E perchè non morrebbe? Lo scoppio di una vena è cosa che succede tutti i giorni. Dio che permette l'amore colpevole quando non si cerca, quando non si vuole, dovrebbe almeno mandare la morte nell'istante che si invoca. Ma non veniva la morte, non veniva neppure il sonno. Immagini paurose la dominavano adesso. Se, un qualche momento, le sue lettere cadessero nelle mani del marito? Se uno scandalo clamoroso dovesse disonorarla per sempre? e cacciata dalla sua casa, raminga, lontana dalla famiglia, il suo nome trascinato per i tribunali, insultato, deriso, la sua memoria vituperata nell'avvenire del figlio... maledetta forse! Gettò indietro le coperte, con un movimento brusco che fece traballare il letto. Il marito, destato in sussulto, mormorò: Che hai? ma si riaddormentò prima di udire la risposta. Ella ricadde, pesantemente, cogli occhi sbarrati. Quando credette di aver passato una eternità su quel letto di torture, suonarono le quattro. Intanto aveva preso una decisione: distruggere tutte le lettere, condurre una vita ritirata, dedicarsi interamente al suo bambino, essere per il marito una buona compagna, se non aveva potuto conservarsi sposa fedele. Un po' di pace scendeva su di lei, pensando che nessuno sospettava ancor nulla e che ella avrebbe dimenticato... Voleva dimenticare ad ogni costo: ebbrezze, ansie, delirii, lotte, ore d'inferno, ore di paradiso, tutta quella febbre d'amore doveva cessare da che egli non l'amava più. Sarebbe stato il suo castigo, giusto, meritato. Grosse lacrime le scendevano silenziose lungo le guancie. Brancicando incontrò una mano del marito, e tenendovi sopra la sua balbettò, col cuore gonfio: Perdono! Perdono! Sentiva un benessere infinito, come una carezza invisibile, l'egoismo dolce e sereno di trovarsi ancor viva, nella sua camera, nel suo letto, nella dignità inattaccabile di moglie e di madre. Albeggiava finalmente. Piccoli rumori, usci sbattuti, strofinamenti, voci, canto d'uccelli, annunciavano il giorno; la lampada notturna, chiusa nel suo globo di cristallo, impallidiva davanti ai primi raggi del sole. Tutta la camera si rischiarava. Ella pensò che proprio in quell'ora partiva il treno, e parve le si staccasse qualche cosa dal petto. Muta, trattenendo il respiro, ascoltava il passo della cameriera nel corridoio. Forse era giunto un messaggio per lei, una lettera, l'annuncio che egli non partiva più... Era scivolata giù dal letto. A passi d'ombra giunse all'uscio che metteva nel corridoio; lo aperse tanto appena da passarvi il capo, chiamò, ed alla cameriera che accorreva premurosa, chiese a bassa voce se non fosse giunto nulla. Nulla — Non una lettera? — Nulla — Nemmeno... nessuno? — Nulla e nesssuno. La voce della cameriera risuonò con un'eco di campana funebre nel corridoio deserto. Ella aveva richiuso l'uscio e giaceva accasciata contro lo stipite, seminuda, piangendo.

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