Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Giovanna la nonna del corsaro nero

204926
Metz, Vittorio 5 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Quel viandante che, spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni, si fosse inoltrato, la notte del 14 luglio 1667, in una di quelle malsane e buie viuzze che costituivano il centro di quella specie di villaggio fortificato che sorgeva nei pressi del porto sull'Isola della Tartaruga, a parte il fatto che sarebbe caduto in una buca profonda per lo meno un metro e mezzo e si sarebbe rotto una gamba, avrebbe potuto ascoltare, fra un'imprecazione e l'altra, un gran rumore composto da tintinnii di bicchieri cozzanti fra loro, acciottolii di stoviglie, suoni, canti e sonore bestemmie, proveniente dall'interno di una taverna sulla cui porta cigolava un'insegna di ferro con la scritta abbastanza esplicativa di Osteria dell'Allegro Pirata. Si trattava di un folto gruppo di filibustieri, schiumatori di tutti i mari del Sud, da quello delle Antille al Mar dei Caraibi, che festeggiavano, in maniera non troppo discreta, a dire la verità, la loro prossima partenza per la conquista della città di Maracaibo. Uno di essi, un tipo gigantesco con un uncino di ferro al posto della mano destra, una gamba di legno ed una benda nera sull'occhio sinistro (per questa ragione i suoi amici lo chiamavano con molto scarsa delicatezza il Pirata Meno Un Quarto), stava gridando ad un gruppo di belle ragazze creole che danzavano al suono di una stonata chitarra e di un non meno stonato violino: "Forza, ragazze! Un altro balletto prima che si parta!" Intervenne, balbettando leggermente, un pirata che, dai filetti d'oro che portava sul braccio e dal cappello carico di galloni, si comprendeva che doveva ricoprire qualche grado più importante degli altri nella comunità: "No, adesso basta, ragazzi... Sta per arrivare il Corsaro Nero... L'ho visto poco fa che scendeva dalla sua nave..." "E di che umore è?" domandò il Pirata Meno Un Quarto, un po'intimidito da quell'avviso. "Eh, nostromo Nicolino, di che umore è? Peggio degli altri giorni?" "Di che umore vuoi che sia il Corsaro Nero?" rispose il nostromo Nicolino, stringendosi nelle spalle."Nero... Da quando quel maledetto conte di Trencabar, il governatore di Maracaibo, gli ha ammazzato i due fratelli, il Corsaro Rosso e il Corsaro Verde, nessuno lo ha più visto allegro..." Un pirata con la testa ricoperta da una mezza calotta d'argento che gli serviva a sostituire quel pezzo di cranio che gli era volato via per un colpo di sciabola e che i suoi colleghi, incuranti di ricordargli la sua disgrazia, chiamavano con poca generosità il Pirata Col Coperchio domandò al nostromo Nicolino: "E come sono morti questi due fratelli del Corsaro Nero?" "Impiccati ad un quadrivio di Maracaibo" rispose il nostromo Nicolino, tristamente."E quel maledetto Trencabar li ha lasciati appesi lì per un anno!" "Tanto tempo?" domandò stupito il Pirata Meno Un Quarto. "Eh, capirete," rispose il nostromo Nicolino "uno tutto vestito di verde, l'altro di rosso... Li adoperava come semaforo per regolare il traffico." Un pirata il cui volto era solcato da una profonda cicatrice che non contribuiva certamente a rendere più attraente il suo volto già abbastanza brutto per conto suo e che i suoi amici, sempre con quella squisita gentilezza che li distingueva, chiamavano umoristicamente Catenaccio, che in gergo piratesco sta appunto ad indicare una gran cicatrice di ferita che un uomo abbia sul viso di traverso, come il catenaccio di una porta, si affacciò dall'esterno spaventando a morte le ragazze creole e urlò con tutto il fiato che aveva in corpo: "Il Corsaro Nero!" Il Corsaro Nero fece il suo ingresso nella taverna dell'Allegro Pirata, trascinando sul pavimento la punta del fodero della sua lunga spada. Era pallidissimo e vestito, naturalmente, tutto di nero dalle piume del largo cappello di feltro agli stivaloni e ai guanti da moschettiere. Soltanto i preziosi merletti che circondavano il suo collo e i polsi erano bianchi, il che, però, non era sufficiente a rendere meno funereo il suo abbigliamento. Egli si fermò un istante sulla soglia della sala fumosa scrutando con i suoi occhi d'aquila il volto abbronzato dei filibustieri. Poi montò su uno sgabello e, nel silenzio generale, prese ad arringare i pirati. "Signori della Filibusta," disse"salute a voi! Mi dispiace di disturbare il vostro trattenimento, ma fra pochi istanti ci dovremo imbarcare sulla Tonante e far rotta verso Maracaibo che metteremo a ferro e fuoco..." Tacque un istante girando lo sguardo d'aquila sui volti dei filibustieri, quindi concluse brevemente: "Se qualcuno non si sentisse il coraggio di seguirmi in questa impresa disperata, è ancora in tempo per ritirarsi..." Poiché nessuno dei pirati rispondeva, il Pirata Meno Un Quarto credette d'interpretare il pensiero dei suoi compagni, dichiarando: "Signor Corsaro Nero, veramente credo che nessuno di noi abbia intenzione di ritirarsi..." "Ne sono lieto, signore" disse il Corsaro Nero, gravemente. "Con quella faccia da funerale?" non poté fare a meno di sussurrare al suo vicino il Pirata Col Coperchio. Il Corsaro Nero, il quale non soltanto aveva l'occhio d'aquila, ma anche l'allenatissimo orecchio della volpe, lo sentì e rispose mestamente: "Ho fatto voto di non sorridere finché non avrò vendicato i miei fratelli... Per condurre a termine questa impresa ho abbandonato il mio castello in Liguria, i miei possedimenti in Savoia e mia figlia Jolanda che ho affidato a mia nonna Giovanna. Chissà se potrò tornare a rivederle, un giorno..." "Tornerete, signor conte, tornerete!" esclamò il nostromo Nicolino, commosso dal mesto accento del Corsaro Nero."Sono certo che tornerete!" "Come fate ad affermarlo con tanta sicurezza?" gli domandò il Corsaro Nero. "Perché siete conte e i conti, si sa, finiscono sempre col tornare..." "Del resto," disse il Corsaro Nero" anche se non dovessi tornare, non importa... Mia nonna Giovanna è abbastanza energica per seguitare a governare una contea, anche da sola..." "Per le trippe del diavolo!" risuonò in quel punto una voce baritonale proveniente dall'esterno. "Come vi permettete di sbarrarmi il passo, marrano?" "Non si può passare!" rispose la voce del pirata Catenaccio. "Il Corsaro Nero sta parlando ai suoi uomini... Vieni a darmi una mano, Pirata Col Coperchio!" gridò quindi il filibustiere cacciando la testa nella taverna e chiamando in aiuto il suo matelot che corse subito fuori. "Lasciatemi passare se non volete che vi faccia assaggiare la punta della mia spada!" tuonò ancora la voce baritonale. "Veramente" schernì la voce ironica del Pirata Col Coperchio" a quest'ora non abbiamo più appetito, quindi non vogliamo assaggiare niente..." "E allora, largo... E toglietevi il cappello, quando parlate con una signora!" "Ma questa è la voce di mia nonna!" esclamò il Corsaro Nero, stupito. Intanto, nella strada il Pirata Col Coperchio stava discutendo con una vecchia signora dall'aspetto volitivo, vestita alla moschettiera, con la spada al fianco, accanto alla quale era un tipo in livrea che portava due valigie. Era con lei anche una graziosa fanciulla dal viso dolcissimo. "Ma questo non è un cappello!" stava protestando furioso il Pirata Col Coperchio. Interloquì il tipo dall'aspetto di cameriere. "Mi sia consentito il dire, signora contessa," disse "che effettivamente quello non è un cappello... È una calotta d'argento..." "E perché ve ne andate in giro con una calotta d'argento in testa?" esclamò la vecchia irritata. "Siete un pazzo, forse?" "Durante un combattimento ho avuto il capo scoperchiato da un colpo di sciabola" rispose fieramente il Pirata Col Coperchio. "E allora mettetevi il cappello perché la vostra calotta è sporca! Non sapete che l'argenteria va lucidata tutti i giorni? Vieni, Jolanda... Andiamo, Battista..." E senza più curarsi dei due pirati abbrutiti, l'energica vecchietta seguita dai suol compagni entrò nella taverna sulla cui soglia si incontrò con il Corsaro Nero che esclamò nel vederla: "È proprio lei! Mia nonna Giovanna!" E corse incontro alla nonna, abbracciandola affettuosamente. "Nipote mio!" esclamò Giovanna, commossa. Il Corsaro Nero alzò gli occhi e vide la fanciulla che era entrata con la nonna. "C'è anche Jolanda!" esclamò. La fanciulla corse ad abbracciare a sua volta il Corsaro Nero. "Papà!" mormorò con affetto. "Sono molto lieto di vedervi," disse il Corsaro Nero con una espressione cupa che non lasciava scorgere affatto la sua allegria "ma..." Si staccò dalla figlia, rivolgendosi alla vecchia: "Come diavolo vi è saltato in mente di venire qui, alla Tortue?" "Abbiamo approfittato di uno sciabecco genovese che veniva da queste parti," rispose la nonna "ed eccoci qui..." "Ma perché siete venute?" "E volevi che ti lasciassi solo?" proruppe la vecchia. "Tu, il mio unico nipote? E senza una persona accanto che abbia cura di te..." "Veramente" disse il Corsaro Nero "questo non è un posto per donne." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, si rivolse alle quattro creole che avevano smesso di ballare e si erano affollate con gli altri intorno al gruppo composto dal Corsaro Nero e dai suoi familiari: "Avete capito voi?" disse in tono perentorio. "Questo non è un posto per donne... Perciò, fuori di qui!" "Ma," tentò di obiettare ancora il Corsaro Nero "anche voi e Jolanda siete donne..." "Io sono tua nonna" protestò Giovanna. "E io sono tua figlia!" esclamò Jolanda, fieramente. "Quindi abbiamo il dovere di starti accanto anche nei pericoli..." "Che non debbono essere pochi a voler giudicare dalle facce patibolari che ti circondano!" concluse la nonna, girando lo sguardo sui volti dei pirati. I filibustieri, lusingati di essere stati chiamati "facce patibolari" scoppiarono in una grande risata. "C'è poco da ridere!" esclamò la nonna impermalita. "Avete tutti delle facce che fanno spavento..." "Ma sono i migliori pirati del Mar delle Antille!" esclamò il Corsaro Nero. "Migliori, in che senso?" domandò la nonna con diffidenza. "Nel senso che sono tutti Fratelli della Costa..." "Tutti fratelli? Che brutta famiglia!" esclamò Giovanna, facendo una smorfia. "Questi signori" continuò il Corsaro Nero indicando quattro brutti ceffi dalla cui espressione si capiva che, se avessero incontrato per la strada quel viandante di cui si parlava poco fa, lo avrebbero lasciato in mutande "da soli hanno conquistato il Panama..." "Bella prodezza rubare un cappello di paglia!" esclamò la nonna, con una smorfia di disprezzo. "Peuh!" "E questo signore qui," proseguì il Corsaro Nero indicando il Pirata Col Coperchio" aiutato solo dal suo matelot, si è avvicinato di nottetempo ad una caravella spagnola e, a colpi d'ascia, le ha praticato un buco nella fiancata facendola affondare..." "Peuh!" esclamò Giovanna, con disprezzo. "In fondo cosa ha fatto? Ha inventato la caravella col buco..." "E che dire del signor Mendoza," disse il Corsaro Nero senza lasciarsi smontare, indicando il Pirata Meno Un Quarto" che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. "E lui," così dicendo il Corsaro Nero indicava il nostromo Nicolino "che in una sola giornata nel "E che dire del signor Mendoza, che ha lasciato un occhio su un galeone spagnolo, una mano a Trinidad e una gamba a Portobello?" "Dico che non mi piace la gente che lascia la sua roba in giro dappertutto!" rispose la nonna con espressione disgustata. suo paese ha tagliato mille teste con il suo coltello, tanto che lo hanno soprannominato il Terrore di Pozzuoli?" "Bella roba!" esclamò Giovanna."No, mi dispiace tanto, ma tu questa gente non puoi assolutamente assumerla..." La dichiarazione di Giovanna, che in fondo era la nonna del loro comandante, destò una grande sensazione fra i filibustieri che si guardarono fra loro interdetti. Il Corsaro Nero intervenne: «Come?" domandò."E perché?" «Perché da quello che ho potuto capire," dichiarò la vecchia "questi pirati sono una massa di bricconi... Non sono pirati per bene..." "E noi non ti lasceremo davvero imbarcare con una simile compagnia!" aggiunse Jolanda, con forza. "Ma, signora..." balbettò il nostromo Nicolino "se lei ci caccia via, noi che facciamo?" "Mi dispiace," rispose la nonna crollando il capo "ma siete tutti gente troppo poco raccomandabile..." "Ma io" protestò Nicolino "non ho mai fatto male ad una mosca!" "E le mille teste?" rimbeccò Giovanna. "Le mille teste che avete tagliato in una giornata?" "E... erano teste di pe... pesce, signora..." rispose Nicolino che quando era emozionato balbettava più che mai. "Al mio paese facevo il pescivendolo e non c'era nessuno nella mia città sve... svelto come me a pulire i merluzzi e le sardine..." "E perché allora vi chiamavano il Terrore di Pozzuoli?" inquisì Giovanna guardandolo con diffidenza. "Il Terrone di Pozzuoli, non il Terrore" corresse Nicolino. "Sapete, io sono di vicino Napoli e loro" e così dicendo indicò i pirati "sono tutti settentrionali... E così mi chiamano il Terrone... Il Corsaro Nero ha capito il Terrore e mi ha nominato nostromo... Se gli dicevo la verità perdevo il posto..." "Va bene..." sentenziò Giovanna "questo può restare... Ma gli altri?" Nicolino, visto che a lui era andata bene, volle intervenire a favore degli altri pirati. E con la voce querula che fanno i meridionali in genere quando vogliono ottenere qualche cosa: "Signora," disse "gli altri sono pirati vecchi, fra poco vanno in pensione! Li volete mandar via all'ultimo momento?" Giovanna rifletté un istante. "E va bene," disse "li posso anche tenere, ma ad un patto..." "Che patto?" domandò il Corsaro Nero. "Che assuma io il comando della nave..." Persino Jolanda che, si vedeva benissimo, aveva per la sua bisnonna una vera adorazione, questa non riuscì a mandarla giù. "Ma, nonnina" non poté fare a meno di esclamare. "Avete ottant'anni!" "Ti sbagli, mia cara nipotina" ribatté Giovanna, prontamente. "Ne ho appena venti." "Venti?" trasecolò il Corsaro Nero. "Certo" rispose Giovanna. "Sono nata il 29 febbraio 1587... Siamo nel 1667..." "Quindi avete ottant'anni" calcolò il Corsaro Nero. "No, perché essendo nata il 29 febbraio, cioè 2. Giovanna in anno bisestile, compio un anno ogni quattro" rispose Giovanna con logica strettamente femminile. "Già, ma non so se..." volle ancora obiettare il Corsaro Nero. Ma intervenne Jolanda. "Su, paparino, fai contenta la nonna" pregò, giungendo le piccole mani. "Quando tu non c'eri, al castello, se l'è sempre cavata, sai..." "Sì, questo è vero," annuì il Corsaro Nero, esitando "ma non so se ai miei uomini faccia piacere essere sottoposti a una donna che comanda..." Il Pirata Meno Un Quarto sogghignò. "Perché, mia moglie non comanda forse?" disse. "E la mia?" disse il Pirata Col Coperchio. "Comanda poco quella?" "Io ho sempre sognato di avere una nonna" sospirò il pirata Catenaccio, mentre una lagrima gli solcava il volto patibolare seguendo il percorso tracciato dalla cicatrice. "E voialtri, ragazzi?" "Anche noi!" esclamarono i pirati all'unisono. "Viva la nostra comandante?" gridò il Pirata Meno Un Quarto. "Viva Giovanna, la nonna del Corsaro Nero!" gli fecero eco gli altri pirati in coro, sventolando tutti in aria i loro cappelli, meno il Pirata Col Coperchio che non poteva, com'è facile immaginare, mettere a nudo il proprio cervello sventolando la calotta d'argento. "Viva!" "Allora, siamo tutti d'accordo" concluse il Corsaro Nero. E avvicinatosi alla infernale vecchietta: "Nonna," le annunciò con voce sonora "vi cedo il comando della mia nave..." Giovanna, la nonna del Corsaro Nero, respirò con forza. Quindi, sguainata la lunga spada che le pendeva al fianco e levandone la punta verso il cielo, gridò minacciosamente: "Ed ora a noi due, conte di Trencabar, governatore di Maracaibo! A noi due, assassino dei miei nipoti! A noi due!" Dall'alto del ballatoio che attraverso una scala di legno conduceva al piano superiore si affacciò un bambino, il figlio del bettoliere: "Dice così mamma" disse "che per favore quando dice: 'A noi due!' lo dica un po' più piano... Su, c'è un malato!"

Lanciata la prima, aveva impugnato una palla più grande e aveva tentato di farla accostare al boccino, riuscendoci abbastanza bene, quando il boccino si aprì, tirò fuori quattro zampette e un musetto appuntito e si allontanò dalla boccia, tornando ad appallottolarsi poco lontano. "Eh, no!" esclamò il capitano Squacqueras, rivolto al giovane Raul."Qui si bara!" Un po'storditi dal fumo, i quattro non si avvidero... Si rese improvvisamente conto dell'enormità della faccenda e sbarrò gli occhi. "Ma quel boccino aveva la testa e le zampe," balbettò "e pure la coda." "Per la semplice ragione che non è un boccino, ma un animale" gli spiegò Raul ridendo. "E non mi dicevate nulla! Avrebbe potuto mordermi!" esclamò il capitano diventando pallido. "Si tratta soltanto di un innocuo armadillo" lo rassicurò Raul. "Si appallottola così rinchiudendosi nel proprio guscio semplicemente perché ha paura di voi." "Allora, siamo pari!" disse il capitano allontanandosi prudentemente dagli altri armadilli appallottolati che erano ammucchiati ai suoi piedi. In quella il sergente Manuel, con una mezza dozzina di soldati, si avvicinò spingendo davanti a sé il gran sacerdote degli incas e la sacerdotessa, mentre i soldati facevano altrettanto con gli altri incas. "Capitano!" chiamò. "Capitano!" "Che c'è?" domandò il capitano sobbalzando. "Abbiamo catturato questi nativi mentre sbucavano da un'apertura nascosta da quella specie di piramide. Un passaggio segreto, credo..." "Ah, sì? Ah, sì?" esclamò il capitano. "E dove conduce questo passaggio segreto?" domandò al gran sacerdote. "Nel tempio del dio dell'aria..." rispose il gran sacerdote. "Vogliamo provare ad entrare?" propose il sottufficiale. "Non credo che sia prudente," obiettò il capitano "dato che conduce al tempio del dio dell'aria, niente di più naturale che vi siano delle correnti..." "Potremmo penetrare nel tempio e prendere di sorpresa gli assediati" propose il sergente Manuel. "Io penso che sia meglio aspettare questa notte" opinò il giovane Raul... "Ecco, bravo!" approvò il capitano Squacqueras. "Aspettiamo la notte... La notte porta consiglio e il consiglio potrebbe essere quello che è meglio lasciare perdere e andarcene via di qui... Intanto, tenete d'occhio i prigionieri che non scappino... Da queste parti, la tentazione di scappare è forte, fortissima, direi quasi che è contagiosa... Andate e, in quanto a voi..." Si rivolse agli incas: "Machilei, bambu, tanchini, paraguai, sakanali" disse. "Cosa avete detto?" "Non lo so" rispose il capitano. "Quando parlo incaico non mi capisco..."

Voi non siete abbastanza robusta per condurre questa esistenza..." "Volete provare la vostra forza con me?" proruppe Giovanna. "Avanti, giovanotto, fatevi sotto..." Così dicendo Giovanna sedette su uno sgabello e appoggiò il gomito del suo braccio destro sul piano del tavolo, disponendosi come per una sfida a braccio di ferro. "Ma è ridicolo!" protestò Morgan. "Vi dico di provare!" insistette Giovanna. "Tanto per darvi soddisfazione" acconsentì Morgan. Sedette davanti a Giovanna e afferrò la mano della vecchia con la sua. "Pronti?" domandò. "Pronti!" rispose Giovanna, tranquillamente. Così dicendo la vecchia, con una energia che nessuno avrebbe potuto mai sospettare in così fragile corpo, e nonostante la strenua resistenza di Morgan, riuscì a far toccare al dorso della mano dell'erculeo corsaro il piano del tavolo. "Corpo di mille squali!" esclamò Morgan stupito. "L'ha buttato giù" esclamò Barbanera, con ammirazione. "Come avete fatto?" domandò il capitano Kid. "Niente di straordinario" rispose modestamente la vecchia. "Avete mai sentito parlare di quel famoso giocatore chiamato 'l'uomo dal braccio d'oro'? Ebbene, io sono 'la donna', anzi 'la nonna dal braccio di ferro'... così mi chiamano in tutta la contea..." "Lo ammetto," disse il capitano Kid "siete forte... Ma non potete ugualmente far parte della Filibusta... Non sapete nemmeno tirar di spada..." Con un rapido gesto Giovanna portò la mano all'elsa del suo spadone che sguainò, e cadde correttamente in guardia, come se si fosse trovata sulla pedana di una sala d'armi. "In guardia, giovanotto" disse con semplicità. "Ma... Cosa volete fare?" Giovanna lo minacciò con la punta della sua spada, mentre il capitano Kid indietreggiava. "Volete mettervi in guardia, sì o no?" insistette. "O preferite che del vostro ventre faccia un fodero per la mia spada?" Il capitano Kid per difendersi da Giovanna che lo incalzava fu costretto a trarre dal fodero la spada e a scostare la lama della nonna del Corsaro Nero, iniziando così una schermaglia con la vecchia. "Ehi!" disse. "Andateci piano con quell'arnese... Non è un ferro per lavorare a maglia..." Giovanna rispose saggiando con la sua lama quella dell'avversario. "Io la maglia la faccio, ma soltanto con il filo di acciaio... Infatti non mi fido dei giachi di maglia che vendono gli armaioli di Milano... Attenzione! Para questo colpo segreto, se puoi!" Così dicendo lanciò qualche cosa alle spalle del capitano Kid. Si sentì come un tintinnio di monete. Il capitano Kid si voltò istintivamente. "Oh!" esclamò "mi sono caduti i soldi..." Così dicendo si voltò e si chinò per raccogliere delle monete. Giovanna ne approfittò per andare fulmineamente a fondo, bucando con la punta della sua spada le terga dell'avversario. "E voilà!" disse Giovanna. Il capitano Kid si portò le mani alla parte colpita, gridando: "Ah! Toccato! Toccatissimol" Mentre il capitano Kid si stropicciava energicamente la parte lesa col palmo della mano e Giovanna si appoggiava trionfante all'elsa del suo spadone, il Corsaro Nero le si avvicinò domandandole: "Ma, nonna, come avete fatto? Il capitano Kid è la lama più fine di tutta la Filibusta!" "Gli ho lanciato, come puoi vedere, un cartoccetto pieno di soldi... L'avversario, abitualmente, credendo che siano caduti a lui, si volta per raccoglierli ed io... Là! Questo colpo infatti si chiama il colpo del cartoccetto..." "Ma alla pistola, cara vecchietta, non sareste capace di cavarvela con la vostra vista!" insinuò il feroce Barbanera. "Davvero?" esclamò Giovanna. "Sareste capace voi di colpire una moneta al volo?"

le domandò, parlando uno spagnolo abbastanza comprensibile. La faccenda di essere chiamata vecchia pallida da un selvaggio impermalì Giovanna che fu pronta a rispondergli: "Meglio essere pallida che con la faccia rossa e dipinta come la tua!" Quindi indicando il nostromo Nicolino con il mento: "Come avete intenzione di cucinare quell'uomo?" domandò. "Allo spiedo, vecchia pallida" rispose il Cacicco. Giovanna abbozzò una smorfia di disprezzo. "Peuh!" esclamò. "Che cucina primitiva! Io, se fossi in voi, lo cucinerei in tutt'altro modo..." "E in che modo?" domandò il Cacicco, incuriosito... "Ci sono mille maniere per cucinare il nostromo... Io, però, penso che la ricetta migliore sia quella chiamata: 'nostromo arrosto alla moda'." "E come faresti, vecchia pallida, a cucinarlo in questa maniera?" "È facilissimo" rispose Giovanna."Si prenda un nostromo e dopo averlo aperto e pulito come si deve, lo si disossi completamente..." "Ma io non voglio essere disossato completamente!" protestò Nicolino. "Le ossa servono! Altro che, se servono!" "Zitto, arrosto!" gli dette sulla voce il Cacicco. Quindi, rivolto a Giovanna: "Seguita pure, vecchia pallida..." "Dunque, dopo averlo disossato completamente farcitelo con un ripieno fatto delle sue stesse interiora e di prosciutto di porco selvatico tritati, pane grattato, cinque o sei grossi pizzichi di pepe, un grosso pugno di sale, tre o quattro pizzichi di noce moscata, due pugni di carne secca e un pugno di erbe aromatiche..." "Qui, fra pizzichi e pugni, mi riducono un 'ecce homo'!" esclamò Nicolino. "Aggiungete quindi sette od otto spicchi d'aglio..." "No, l'aglio no, non lo digerisco!" protestò Nicolino. "Zitto, arrosto!" gli impose il Cacicco. "Continua, signora pallida" disse in tono molto più gentile di prima a Giovanna. "Una volta che sia riempito per bene, lardellatelo con delle fettine di guanciale, e adagiatelo su un letto di cipolle e olio bollente... Fatelo cuocere a fuoco lento per tre ore, poi toglietelo dal fuoco e fatelo riposare per un'ora..." "Ma come volete che faccia a riposare su un letto di cipolle e olio bollente?" "Zitto, arrosto! E poi?" domandò il Cacicco, rivolto a Giovanna. "E poi non resta che circondarlo di patate arrosto che se non mi sbaglio sono un prodotto locale e servirlo in tavola. La dose è per venti persone... Vedrete che mangiarlo sarà proprio un piacere!" "Sarà un piacere per voi, ma non per me!" blaterò Nicolino. "Silenzio, arrosto!" "Questo qui che continua a chiamarmi arrosto, mi dà fastidio!" bofonchiò Nicolino di pessimo umore. Il Cacicco stette a pensare un momento leccandosi le labbra, poi sul suo viso apparve un'espressione di diffidenza. "I visi pallidi" disse "hanno la lingua biforcuta. Forse carne cucinata così diventa velenosa..." "Datemi un maiale selvatico ed io lo cucinerò come ho detto e lo mangerò" propose Giovanna. "In tal modo avrete la prova che il 'nostromo arrosto alla moda' non può far male." "E invece fa male, malissimo!" esclamò Nicolino, rivolto agli indiani. "Ricordatevi che non mi avete comprato al mercato, mi avete trovato nel bosco... Io non sono un nostromo mangereccio, sono un nostromo velenoso..." "Silenzio, arrosto!" "E dagli!" esclamò Nicolino. Il Cacicco senza più esitare si rivolse ai due selvaggi che erano accanto a lui. "Si faccia la prova con il maiale selvatico!" ordinò. I due si allontanarono, mentre Nicolino disperato esclamava: "Tutta colpa di quel dannato Trencabar! Ah, se avessi a portata di mano qualcuno di quei maledetti spagnoli che hanno affondato la Tonante!"

Tranquillizzato dal fatto che sia la porta che la finestra erano ben guardate, il Viceré prese ad aggirarsi per la camera abbastanza soddisfatto. "Effettivamente, questa stanza fa molto meno paura dell'altra" disse allegramente. Andò verso la finestra per accertarsi che avessero collocato le sentinelle sotto di essa e si trovò faccia 11. Giovanna a faccia con Giovanna che avanzò verso di lui con la spada nuda in mano. Don Miguel allibì. "Ancora la vecchia?" esclamò con voce soffocata. "Non tanto vecchia!" sogghignò Giovanna, mentre anche Battista e Jolanda uscivano dai loro nascondigli. "Sono ancora abbastanza giovane per farvi a pezzetti, maledetto Trencabar!" "Non... non trovate che sono abbastanza piccolo per essere ancora frazionato?" balbettò il Viceré, indietreggiando. Ripensò a ciò che gli aveva detto Giovanna ed esclamò: "Trencabar, avete detto? Ma io non sono il conte di Trencabar!" "Come, non siete il conte di Trencabar? E chi diavolo siete, allora?" "Don Miguel duca di Saragozza, y Beltramar, y Sevija Sevija Olé, y Guadalupa, Grande di Spagna e Viceré delle Colonie Spagnole del Nuovo Mondo!" "Non potete essere tutta questa gente" rispose Giovanna. "Ve lo giuro!" la assicurò don Miguel, afferrando un cofanetto, aprendolo ed estraendone frettolosamente delle carte che mostrò a Giovanna. "Ecco qua... Queste sono le mie credenziali... Questo il mio anello con il sigillo... E questo è il mio ritratto ad olio insieme con Sua Maestà Cristianissima il Re di Spagna..." "Ebbene," disse Giovanna, lanciando una rapida occhiata alle carte "se siete il Viceré, tanto meglio! Vi prenderò prigioniero e chiederò che mi sia consegnato Trencabar al vostro posto..." "Se è Trencabar che volete, non occorre una operazione così complicata" le fece osservare il Viceré. E con uno scoppio di odio nella voce: "Ve lo consegnerò io stesso questo maledetto Trencabar?" "Voi mi consegnerete il governatore di Maracaibo?" domandò Giovanna. "Con il massimo piacere!" sogghignò il Viceré. "Voi non potete immaginare quanto mi sia antipatico! E poi se la merita una buona lezione dopo l'orribile notte che mi ha fatto passare!" "Se mí consegnate Trencabar, non domando altro!" disse Giovanna. "Affare fatto!" esclamò il Viceré. "È nella sua camera... Venite con me..." Si avvicinò al pannello che copriva la porta segreta e lo fece scorrere. "Meglio andarci da qui..." consigliò rivolto ai tre. "Fuori ci sono le guardie e non vorrei per nessuna cosa al mondo che vi fermassero..." Il governatore di Maracaibo si era appena messo a letto nella sua stanza, e stava per soffiare sulla candela, quando il pannello scorse nella parete e don Miguel fece il suo ingresso nella camera. Il governatore lo guardò allarmato. "Cosa succede, Altezza? Non mi verrete a raccontare che avete visto ancora la vecchia..." "Non solo l'ho vista," rispose il Viceré con aria pienamente soddisfatta "ma adesso la faccio vedere anche a voi... Eccola qua..." Si trasse da parte e Giovanna entrò avanzando verso il governatore. "Sì, conte di Trencabar, sono proprio io" disse con voce terribile."Seguitemi?" "Non vorrete assassinarmi" protestò il governatore. "Oh, no, vi farò impiccare, semplicemente..." "Un momento!" esclamò il Viceré. "Non sapevo che voleste impiccarlo, signora... Se lo avessi saputo non ve lo avrei consegnato..." "Ah, siete stato voi! Bella roba!" esclamò il governatore, disgustato. "In fondo," seguitò il Viceré "il conte di Trencabar è un gentiluomo e come tale gli spetterebbe la mannaia..." "Pure i miei nipoti erano gentiluomini eppure sono stati impiccati e i loro corpi utilizzati come semaforo..." "Bisogna anche tener conto delle esigenze del traffico, signora" disse il Viceré. "No, no, niente condanne a morte! Io, invece, proporrei un bel duello..." "E sia!" esclamò Giovanna. E rivolta al governatore: "Prendete una spada e difendetevi..." "Tanto," disse il Viceré strizzando l'occhio a Giovanna"un duello con voi equivale a una condanna a morte... Quindi per voi è lo stesso..." "Non tanto lo stesso!" ghignò il governatore di Maracaibo, riprendendosi e avvicinandosi ad una panoplia di armi. "Intendete dire che conoscete qualche colpo segreto?" domandò Giovanna. "Tanto segreto che non so nemmeno io come si usi" rispose Trencabar, tranquillamente. Quindi, ponendo la mano sull'impugnatura del pugnale che serviva da leva: "Meglio quindi usare questa..." "L'arma corta?" "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar abbassando bruscamente la leva e facendo così cadere la saracinesca di ferro fra lui e gli altri. "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar... Giovanna ruggì scagliandosi contro l'improvvisa barriera che si era frapposta fra lei e il suo nemico. "Traditore!" gridò. "Fellone! Mi ha giocato ancora una volta..." E rivolta al Viceré, a Battista e a Jolanda: "Voi aiutatemi a sollevare quest'accidente di saracinesca!" "Presto, seguitemi!" gridò il conte di Trencabar scendendo lo scalone a precipizio e rivolgendosi al capitano Squacqueras che era di guardia davanti alla porta dove l'aveva collocato poco prima il Viceré. "Giovanna la nonna del Corsaro Nero è nella mia camera!" "In questo caso" rispose il capitano "io vado nella mia!" "A che fare?" "A gettarmi un po'sul letto... Io sono come Francesco!... Dormo sempre alla vigilia di una battaglia per dar prova del mio sangue freddo..." E scappò di corsa verso il salone. "A me, soldati!" comandò il conte di Trencabar, rivolto alle guardie. Giovanna, aiutata dal maggiordomo, dal Viceré che ormai era passato completamente dalla sua parte e da Jolanda, si stava spezzando le unghie nel tentativo di sollevare la saracinesca. Ad un tratto esclamò con accento di trionfo: "Si solleva, si solleva!" La cortina di ferro, effettivamente, si stava sollevando, ma da sola, per rientrare nel soffitto. Alzandosi, però, scoprì una lunga fila di guardie schierate con gli archibugi puntati su Giovanna e i suoi. "Arrendetevi!" gridò Trencabar che stava dietro i soldati. Giovanna, che per sollevare la cortina di ferro aveva posato ín terra la spada, allargò le braccia. "Purtroppo," disse "non posso far resistenza..." "Impadronitevi di costoro, conduceteli fuori e fucilateli contro il muro di cinta" comandò Trencabar, rivolto al sergente Manuel. "Non vi sembra di esagerare?" domandò il Viceré, mentre i soldati circondavano i tre. "Bisogna dare un esempio!" rispose Trencabar. "Ve lo darò anch'io un esempio" disse freddamente Giovanna. "Vi farò vedere come sanno morire dei Ventimiglia..." E uscì dalla camera a testa alta, circondata dai soldati e seguita da Jolanda e dal maggiordomo. Il Viceré la seguì con lo sguardo, quindi scosse la testa. "Avrei preferito vedere come sa morire un Trencabar!" disse. "Andate, andate, conte, questa notte non avete fatto altro che darmi delle disillusioni!"

Pagina 157

Una famiglia di topi

205245
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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Era un ragazzo di buon cuore e, per solito, anche abbastanza ragionevole; ma l' esser egli figlio unico d'una madre vedova, la quale non vedeva che per gli occhi di lui, lo aveva fatto crescere un po' capriccioso e sempre risoluto a non essere contrariato in ciò che gli piaceva di fare. Quel giorno, per esempio, si prese più d' una sgridata, una sgridata leggiera del resto, dalla mamma; perchè avrebbe voluto alzarsi ogni momento da tavola, per andar a vedere che cosa faceva la Ninì. La topina, quando si trovò sola, ricominciò i giri e le ricerche per la camera. Oh, se avesse potuto trovare un buchino donde scappare, e tornarsene a casa sua! In tanto le veniva in mente il racconto spaventevole che Moschino le aveva fatto - delle proprie peripezie nel mondo. Per andare a casa Sernici chi sa di dove bisognava passare! Dal mondo, certo.... E, a questa idea, la Ninì era còlta da uno sgomento indicibile. Perchè, perchè, Dio di misericordia, l' avevano data via appunto lei, così triste sempre? Ah, quella tristezza che l' aveva oppressa fin dalla nascita, senza ch' ella ne sapesse la ragione, doveva essere il presentimento del- l' avvenire, che le si preparava così desolato, solitario, pieno di angoscia! Le bestie son come gli uomini: hanno il loro destino; e guai se il destino è nemico! Su tali dolorose considerazioni la sorprese Vittorio, che avea terminato di desinare, e tornava a tormentarla, per troppa simpatia, s' intende. La topina si lasciò acchiappare, ma non ci fu verso di farle toccar cibo. Annusava ciò che le veniva offerto, poi si tirava in dietro. Per la notte, la signora Delpiano preparò a Ninì una cassettina, dove le fece una morbida materassa; ma la sorcetta, quando tutti furono andati a letto, saltò via: e il giorno dipoi era di nuovo laggiù sotto l' armadio, dove non si poteva pigliarla che a gran fatica. - Se questa bestiola continua a inselvatichirsi e a non mangiare, bisogna assolutamente riportarla ai Sernici - disse la madre di Vittorio al bambino. Ma questi ricominciò a far greppo, e tornaron le lacrime. Non era certo per ostinazione che la povera Ninì non volea mandar giù nè anche un bocconcino. Proprio non le andava; le pareva d' aver un nodo stretto alla gola, come se l' avessero tirata a forza con una corda; e stava lì ferma dinanzi a que' piattelli, dove ogni poco Vittorio ammucchiava frutti, chicche, ogni sorta di ghiottonerie, sperando d' invogliar di qualcosa quella bella topina, così afflitta e così scontrosa. Per altro, nè carezze, nè cibi valsero a nulla: la Ninì rimase indifferente e, ch' è peggio, digiuna. Quello che più coceva a Vittorio, gli era che, non ostante i suoi pensieri per la topina e il piacere che provava vicino a lei, doveva pur andare alle lezioni. Quella di disegno gli era sopra tutte penosa, perch' era sua maestra una vecchia signorina russa, stravagante come dieci cavalli matti, la quale non tollerava nemmeno che il fanciullo alzasse gli occhi durante quell' ora che lei gli stava davanti. Qualche giorno dopo che la Ninì era stata portata in casa Delpiano, capitò, secondo il solito, la lezione di disegno; e, con vivo rincrescimento, Vittorio si separò per un' ora intera dalla sua topina. La Ninì s' era persuasa alla fine, per la gran fame, a sgretolare qualche briciolo di savoiardo, incoraggiata dalle carezze più tenere del nuovo padroncino; ma pensava sempre a tutto ciò che aveva lasciato, e il suo musetto s'era fatto ancor più sottile e malinconico; aveva gli occhi come allargati, a forza di guardar davanti a sè, dove potesse trovare la porta di casa. Ah, se Rita e Nello fossero venuti a visitar Vittorio, ella si sarebbe cacciata in tasca a Nello o dentro lo scollo della Rita, o meglio ancora sotto la grossa treccia bionda che pendeva dalla nuca della ragazza; e lì nascosta, aggrappata, felice, non li avrebbe più lasciati mai, mai! Almanaccando tutto ciò nel suo povero cervellino di topina afflitta, la Ninì badava, come sempre, a rovistare la stanza; spariva sotto il letto, entrava ne' cassetti socchiusi, esplorava ogni più angusto ripostiglio. A un tratto, il cuore le fece un balzo di gioia. Un balcone, dove si saliva per tre gradini, era spalancato. La Ninì corse su. Chi sa che di lì non fosse potuta ritornare presso la sua cara famiglia! C' erano sul balcone alcuni vasi di fiori, rose, camelie, garofani e delle piante rampicanti che ricadevano in fitti rami, per modo da formare de' ricami di verzura lungo la ringhiera di ferro. Impetuosamente, nella smania della libertà, la topina si spinse avanti tra le foglie.... Un grido sottile e acuto risonò per l' aria; e un piccolo corpo bianco, simile a un fiocco di neve, cadde sul lastrico della via, e vi restò immobile.

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. - A questo punto Dodò, che aveva udito abbastanza, fece capolino tra una bottiglia e l' altra, e tossì forte. La Lilia e il suo innamorato misero un piccolo grido di paura, balzando come due molle. Il loro primo istinto sarebbe stato di scappare come saette, se Dodò non avesse ordinato: - Fermi! - S' arrestarono tutti e due, come cambiati in statue di sale. Al topo sconosciuto s' era fatta pallida la punta del naso; la Lilia tremava per paura che suo fratello non assalisse quell' altro con tanti morsi, da lasciarlo lì mezzo sfranto. Dodò, invece, non diede in escandescenza; ma dopo essersi passate le mani su la fronte, come per raccoglier le proprie idee, cominciò a dire: - Questo che ho veduto è brutto; e ch' è brutto lo prova il fatto che voi vi nascondete. Quando uno si nasconde, vuol dire che si vergogna. - Dodò mio, se tu sapessi.... - l'interruppe la Lilia. - Zitta, pettegola! - gridò il topo savio; e seguitò: - Mi meraviglio come una sorcetta avvezza a ogni bella maniera, educata all' affetto della famiglia, si permetta di parlar con un topo estraneo alla sua casa e, quel ch' è peggio, di razza diversa. - Di' pure, di' pure inferiore! - mormorò Rosicalegno, con accento umile e rassegnato. Dodò era buono. Questa modestia lo commosse profondamente, e lo dispose subito in favore del poveraccio, che gli stava davanti. Era un topo comune; ma bello, grosso, di forme eleganti, col mantello d'un bigio chiaro come la pelle di cincilla, col ventre e le braccia d'un bianco d'ermellino. Gli occhi vivi e neri avevano un'espressione d' intelligenza e di dolcezza, che attirava la simpatia a primo tratto. Dodò gli disse con benevolenza: - Non esistono razze inferiori, perchè davanti a Dio, che ci ha creati tutti, non ci sono, per nascita, nè inferiori, nè superiori. Sono le nostre azioni quelle che c'innalzano o ci abbassano. E tu diventeresti dicerto un topo inferiore se continuassi a tenere in pena i miei, per istartene qui a chiacchierare con mia sorella.... - Amico - rispose Rosicalegno, incoraggiato da quelle parole generose e giuste; - se la Lilia e io s' è fatto questo sbaglio, gli è che non possiamo vederci apertamente; ma tu non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene.... - - Non puoi figurarti quanto ci vogliamo bene! - fece eco la Lilia. - Zitta, sfacciata! - l' interruppe di nuovo Dodò; che riprese, voltandosi dalla parte di Rosicalegno: - Orsù, dammi retta. Siccome io sono d' un carattere leale e risoluto, e non mi garbano i mezzi termini, ti espongo francamente una mia idea. Così la faccenda non può continuare. Anche s' io non la scoprivo, si sarebbe giunti, prima o poi, a conoscer la verità; la Lilia sarebbe stata rinchiusa in gabbia, per levarle il ruzzo, e tu.... - Io sarei stato ucciso, come sarò ucciso di sicuro - rispose con tristezza il povero sorcio. Dodò, se il caso non fosse stato tanto grave, trattandosi del poco giudizio di sua sorella, avrebbe sorriso. Si vedeva proprio che Rosicalegno non conosceva affatto la famiglia Sernici, tutta compassione per gli uomini e per le bestie. In quella casa non s' uccideva nè pure una mosca. Tutt' al più avrebbero potuto mettere in dispensa qualche trappola, non per far male al sorcio, ma per pigliarlo ammodino, se sciupava le forme del parmigiano, e portarlo in cantina, dove poteva sbizzarrirsi con altri suoi compagni. Più d' una volta la Letizia aveva avuto quest' ordine dai padroni. - Non sarai ucciso, non aver paura! dichiarò Dodò con tutta certezza. Basta che tu mi ubbidisca e faccia il topino perbene. - Che debbo fare? - domandò, sempre turbato, Rosicalegno, - Ecco qua: in vece di stare ne' nascondigli e ficcarti in tutti i buchi più oscuri, se gli è vero che tu ami la mia sorella, devi mostrarti ai signori, e venir proprio in mezzo a noi. - Ah mai! mai! - esclamò tutt' impaurito l' estraneo. - E perchè? - Perchè la mia razza è disprezzata, perchè son brutto, perchè son povero, perchè non ho avuto nè educazione, nè istruzione, io! - Nel dire queste parole, gli venivano i lucciconi; e guardava la Lilia come un povero spazzacamino potrebbe guardare la figliuola di un re. La Lilia, per dissimulare la commozione interna che la straziava, s'era messa a lisciarsi la testa, tanto per avere la scusa di strofinarsi gli occhietti. - Non è il caso di far tanti discorsi - ripigliò calmo Dodò. - Io conosco la nostra famiglia; e ti assicuro che invece d'essere scacciato e maltrattato perchè non sei indiano come noi, se ti mostri agevole e grazioso, avrai cure e carezze. - Coraggio, Rosichino mio, coraggio! - susurrava la Lilia all' orecchio dell' amico, a cui aveva messo quel nomignolo per affezione. - Coraggio, coraggio! - ripetè Dodò, che questa volta non isgridò la sorella. - Si fa presto a dire: coraggio! - ripicchiava l' altro; - ma quando si è topi non si è leoni. Io, per amore della Lilia, mi butterei nel petrolio ardente; ma sento che le gambe non mi reggono, se debbo veder de' signori. Non ci sono avvezzo, io; sono un selvaggio. - Prova; - gli ordinò Dodò - perchè se, dopo tutta la tolleranza che ho avuta e i buoni consigli che t' ho dati, ti ritrovo ancora nei cantucci con mia sorella, la Lilia la mordo a sangue; e quanto a te.... quanto a te, so io come ti concio. - Coraggio, Rosichino mio, coraggio! - badava ancora a susurrare la Lilia. - Verrò - promise finalmente Rosicalegno, che non sapeva resistere alle moine di quella topa. - Verrò; e sarà quel che sarà! - Sarà il tuo matrimonio e la tua fortuna, credimi! - disse Dodò, sicuro del fatto suo. Poi, avvicinatosi al topino bigio, gli diede un bacio fraterno sul muso; e tirando la propria sorella per una zampa, le ordinò: - Marcia al tuo posto, tu! E senza voltarti indietro. -

Pagina 192

I ragazzi della via Pal

208317
Molnar, Ferencz 4 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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PRESIDENTE — Ed io voglio far presente all'assemblea di volermi perdonare per questa volta in virtù di quel che ho fatto ieri, in campo, lottando come un leone, ed uscendo dalla trincea nell'istante più critico, ed il nemico mi ha gettato a terra ed ho quindi sofferto abbastanza per la patria per non dovere anche soffrire per lo stucco. BARABAS (socio) — La guerra non c'entra! PRESIDENE — Sì che c'entra! BARABAS (socio) — Non c'entra! PRESIDENTE — C'entra! BARABAS (socio) — Non c'entra! PRESIDENTE — Bene! L'ultima parola dev'essere tua! RITCHER (socio) — Chiedo che venga approvata la mia proposta. SOCI — Approvata! Approvata! ALTRI SOCI — Non approviamo! PRESIDENTE — Si faccia lo scrutinio! BARABAS (socio) — Esigo l'appello nominale. (Viene eseguito l'appello). PRESIDENTE — La Società delibera con la maggioranza di tre voti l'ammonimento al presidente Paolo Colnai. E' una vigliaccheria! BARABAS (socio) — II presidente non ha il diritto di insultare la maggioranza! PRESIDENTE — Non è vero! BARABAS (socio) — Sì, è vero! PRESIDENTE — No! BARABAS (socio) — Sì! PRESIDENTE — E va bene! L'ultima parola dev'essere tua! L'ordine del giorno essendo esaurito, il presidente toglie la seduta. Firmato: Lesik, cancelliere. Colnai, presidente continuo a sostenere che è una vigliaccheria.

Voi siete stati e diventate presidenti un dopo l'altro; a me tocca sempre di masticare lo stucco, la qual cosa è abbastanza schifosa. E' proprio necessario che io abbia sempre sotto i denti questa pasta attaccaticcia? Nemeciech voleva parlare. — Domando la parola — disse al presidente. — Il segretario chiede la parola — annunciò Vais con gravità; e suonò il campanellino da sedici soldi. Ma a Nemeciech, che nella Società dello Stucco occupava la carica di segretario, s'era strozzata la parola in bocca. Accanto ad una delle cataste di legna aveva intravisto Ghereb. Nessun altro sapeva di Ghereb quel che sapeva lui, quel che aveva veduto lui nella sera dell'impresa memorabile... Ghereb s'aggirava solitario tra le cataste di legname, poi si diresse verso la capanna dove abitava il cecoslovacco col suo cane. Nemeciech comprese che suo dovere era di tenere d'occhio il traditore, di stare attento ad ogni suo passo: egli aveva promesso di non dir nulla a nessuno, finchè Boka non fosse venuto al campo, che Ghereb era stato visto seduto insieme alle Camicie Rosse attorno al fuoco. Ma Ghereb ora era qui, si aggirava intorno a lui; Nemeciech doveva informarsi perchè mai fosse andato dal cecoslovacco. Per questo Nemeciech, ottenuta la parola, si limitò a dire: — Tante grazie, signor presidente, ma terrò il mio discorso un'altra volta. Mi sono ricordato d'avere altro da fare. Vais tornò a suonare il campanellino ed annunziò in forma solenne: . — Il signor segretario rimanda il suo discorso. II signor segretario intanto s'era messo a correre. Ma correva non per inseguire Ghereb, bensì per andargli incontro; infatti era uscito in via Pal e facendo il giro stava per entrare dalla porta della segheria in via Maria. Poco mancò che un enorme carro uscendo proprio allora dal cancello non lo investisse. Il piccolo fumaiolo di legno sbuffò emettendo del vapore bianco e le seghe nella casupola stridevano con voce dolorosa come se volessero dire: «Atteento! Atteento!» — Sicuro che sto attento — rispose Nemeciech e, passando accanto alla casupola, si diresse verso la capanna dello slovacco. Il tetto della capanna era in pendìo e vicinissimo ad una delle cataste. Nemeciech s'arrampicò in cima alla catasta e si mise carponi: spiava attraverso le fessure per vedere che sarebbe avvenuto. Che mai poteva volere Ghereb dallo slovacco? Era questo uno stratagemma delle Camicie Rosse? Decise di ascoltare questo colloquio a qualunque costo! Sarebbe stato fierissimo, dopo, di avere scoperto questo nuovo tradimento! Nell'attesa, guardava intorno a sè; ad un tratto vide Ghereb che si avvicinava cauto alla capanna voltandosi continuamente indietro per paura d'essere seguito. E soltanto quando parve ben sicuro che nessuno fosse sulle sue piste filò verso la meta. Lo slovacco se ne stava seduto tranquillamente sulla panchina davanti alla capanna e fumava dentro la pipa le cicche che i ragazzi gli portavano; poichè tutti provvedevano cicche a Giovanni. Il cane che era accovacciato ai suoi piedi sobbalzò: mugolò due o tre volte, ma quando vide che si trattava di uno dei ragazzi, tornò a sdraiarsi ed a chiuder gli occhi. Ghereb si accostò a Giovanni, ed ora il tetto della capanna li copriva entrambi agli occhi di Nemeciech; ma il biondino s'era fatto ardito. Il più piano che gli fosse possibile cominciò a strisciare sul tetto della capanna per raggiungere la sporgenza del tetto e poter metter fuori la testa. Varie volte le assi scricchiolarono sotto il suo peso: Nemeciech sentì gelarsi il sangue nelle vene... Ma continuò a strisciare e se Ghereb o lo slovacco avessero pensato a guardare in alto si sarebbero molto stupiti di vedere a un tratto sporgere la testolina bionda di Nemeciech con i suoi occhi spalancati ad osservare tutto quanto accadeva davanti alla capanna. Ghereb s'era avvicinato allo slovacco e gli aveva detto con cortesia: — Buon giorno, Giovanni! — Buongiorno! — aveva risposto lo slovacco senza cavarsi di bocca la pipa. Ghereb gli si avvicinò ancora di più e mormorò: — Vi ho portato dei sigari, Giovanni! A queste parole lo slovacco si decise a togliersi di bocca la pipa: i suoi occhi brillavano, poichè poche volte gli era capitato di vedere un sigaro intero. I sigari giungevano a lui quando altri ne aveva incenerito la parte migliore. Ghereb cavò di tasca tre sigari e li mise in mano a Giovanni. — Guarda, guarda! — disse tra sè Nemeciech — Ho fatto bene ad arrampicarmi quassù. Certo Ghereb ha bisogno di qualcosa dallo slovacco se incomincia con i sigari! E, tendendo l'orecchio, udì Ghereb che sussurrava allo slovacco: — Giovanni, entriamo dentro la capanna... Non voglio parlare qui fuori. Non vorrei che mi vedessero. Si tratta d'una cosa urgente. E si possono avere anche altri sigari, se volete! E trasse di tasca un pugno di sigari. Nemeciech, di lassù, scrollò la testa. — Se ha portato tanti sigari, la vigliaccheria dev'essere molto grande! Lo slovacco entrò nella capanna con aria soddisfatta e Ghereb lo seguì: ultimo venne il cane. — Non sentirò nulla di quanta diranno borbottò stizzito Nemeciech —. Tutto il mio piano e andato in fumo! E invidiò il cane che s'era potuto introdurre nella capanna prima che la porta fosse rinchiusa. Nemeciech ricordò quei racconti nei quali c'è una strega che trasforma il giovane principe in cane nero, ed in quel momento avrebbe sinceramente dato dieci o anche venti biglie di vetro perchè qualche brutta strega lo trasformasse in cane nero per qualche minuto, mettendo Ettore al posto del biondo Nemeciech. In fondo, erano soldati semplici tutti e due... Ma in vece d'una strega gli venne in aiuto un piccolo insetto... II povero tarlo che aveva bucato un asse del tetto e s'era saziato a suo tempo con tutta la sua famiglia di quel buon legno soffice certamente non poteva immaginare di rendere un giorno un grande servigio ai ragazzi della via Pal. Proprio nel punto rosicchiato dal tarlo il legno era sottile e Nemeciech potè applicarvi l'orecchio ed origliare. Le voci giungevano attutite ma le parole si distinguevano benissimo. Nemeciech gongolava. Ghereb parlava sottovoce come se avesse paura d'essere udito anche in quel luogo nascosto. Diceva: — Giovanni, siate pratico. Da me potrete avere quanti sigari vorrete. Ma bisogna far qualcosa per guadagnarli. E Giovanni chiedeva con un brontolìo: — Che cosa bisogna fare? — Bisogna scacciare i ragazzi dal campo. Non bisogna permettere loro di giocare alle palle e di ficcarsi tra il legname. Per qualche istante non si sentì più niente. Nemeciech immaginava che lo slovacco stesse riflettendo. Poi si sentì ancora la voce dello slovacco: — Scacciarli? — Sì. — Perchè? — Perchè vogliono venirci altri ragazzi, i quali sono tutti ragazzi ricchi. Ci saranno molti sigari, quanti ne volete... E ci sarà anche del danaro... Questo fece effetto. — Anche del denaro? — Sì. Biglietti. La parola biglietti decise lo slovacco. — Sta bene! — concluse — Li scacceremo. 8 La maniglia stridè, la porta scricchiolò. Ghereb uscì dalla capanna. Ma Nemeciech non era già più sul tetto; era scivolato giù, s'era alzato, agile come un gatto, e via, era già corso tra le cataste di legname verso il campo. Il biondino era molto agitato e capiva che in quel momento il destino di tutti i ragazzi, l'avvenire del loro campo era nelle sue mani. Quando rivide il gruppo da lontano chiamò: — Boka! Ma nessuno rispose. Tornò a chiamare: — Boka! Signor presidente! Una voce disse: — Non è ancora venuto! Nemeciech si precipitò, di furia come la burrasca. Bisognava informare immediatamente Boka. Bisognava agire subito prima che avvenisse l'irreparabile, prima che fossero stati scacciati dal loro dominio. Quando egli passò accanto all'ultima catasta di legname s'accorse che i Soci della Società dello Stucco tenevano ancora seduta: Vais fungeva sempre da presidente con un viso seriissimo, e quando il biondino passò accanto all'assemblea, gli gridò: — Ehu! Signor segretario! Nemeciech correndo accennò che non poteva fermarsi. Vais allora, agitando il campanellino, urlò con maggior severità: — Signor segretario! — Non ho tempo! — rispose Nemeciech e proseguì per raggiungere Boka a casa sua. Vais allora si servì dell'ultima sua arma. Con voce stridula intimò: — Soldato! Alt! A quest'ordine bisognava ubbidire perchè Vais era tenente. Il biondino fremeva di rabbia, ma bisognava obbedire se Vais faceva appello al proprio grado. — Comandi, signor tenente! E si mise sull'attenti. — Riposo! — disse il presidente della Società per la Raccolta dello Stucco — Abbiamo deliberato proprio ora che la Società dello Stucco d'ora in poi sarà continuata come associazione segreta. Abbiamo anche eletto il nuovo presidente. E i ragazzi gridarono entusiasti il nome del nuovo presidente: — Evviva Colnai! Soltanto Barabas, ghignando, si dichiarò all'opposizione: — Abbasso Colnai! II presidente allora continuò: — Se il signor segretario vuol mantenere la carica di segretario deve fare con noi il giuramento dell'impegno segreto perchè se il professore Raz viene a sapere che... A questo punto Nemeciech s'accorse di Ghereb che stava aggirandosi fra le cataste di legname. «Quando Ghereb se ne sarà andato, pensò, tutto sarà finito... Finite le fortezze, finito il campo... Ma se Boka riuscisse a commuoverlo chissà che non abbia a pentirsi...» II biondino quasi piangeva di rabbia e si permise di interrompere il presidente: — Signor presidente, io non ho tempo. Devo andarmene. Vais allora gli domandò severo: — Il segretario avrebbe forse paura? II segretario teme forse che se veniamo scoperti, anch'egli sarà punito? Ma Nemeciech non lo ascoltava più. Era tutto intento a spiare Ghereb il quale appiattato dietro il legname aspettava il momento propizio per andarsene... Nemeciech allora senza rispondere una parola piantò in asso l'assemblea, strinse la giacca e via per il campo fino alla porticina. L'assemblea ammutolì. E nel silenzio sepolcrale il presidente disse con voce cupa: — I signori soci han tutti veduto il contegno di Ernesto Nemeciech! Io dichiaro Ernesto Nemeciech vigliacco! — Approvato! — disse in coro l'assemblea. Colnai anzi ribattè: — Traditore! Richter chiese agitato la parola: — Propongo che il vile traditore il quale lascia la società nel momento del pericolo, sia espulso e nel protocollo segreto venga qualificato come traditore! — Approvato! — dissero in coro i presenti. E il presidente emanò la sua sentenza nel silenzio generale: — L'assemblea dichiara Ernesto Nemeciech vigliacco e traditore, lo destituisce dalla carica di segretario e lo espelle dalla società! Signor conservatore del protocollo! — Presente! — rispose Lesik, — Segni nel protocollo che l'assemblea ha dichiarato traditore Ernesto Nemeciech scrivendo il suo nome tutto in lettere minuscole. Un mormorio corse fra gli intervenuti. Questa era, per statuto, la pena più grave che si potesse infliggere. Molti si raggrupparono attorno a Lesik che sedette in terra appoggiando il quaderno da dieci soldi sulle ginocchia: quel quaderno era il protocollo della società, e con enormi scarabocchi vi scrisse: «ernesto nemeciech è traditore». Così la Società dello Stucco ha privato del suo onore Ernesto Nemeciech. E intanto Ernesto Nemeciech, o se preferite, ernesto nemeciech, correva in via Chinorsi dove abitava Boka in un modesto appartamento a pianterreno. Entrò di galoppo sotto il portone e s'incontrò con Boka. — Oh, bella! — esclamò Boka — Che vieni a fare qui? Nemeciech raccontò ansimando quel che aveva scoperto e tirava Boka per la giacca perchè si affrettasse. E corsero entrambi al campo. — Hai visto e sentito tutto quanto mi racconti? — chiese Boka mentre correvano. — Visto e sentito. — E Ghereb c'è ancora? — Se facciamo presto, lo troviamo, spero. Vicino alle Cliniche dovettero fermarsi perchè Nemeciech prese a tossire. — Vai tu — disse —, vacci da solo... lo... devo tossire... E tossiva forte. — Sono raffreddato — disse a Boka che non si moveva —. Mi sono raffreddato al- l'Orto Botanico. Sono cascato nel lago, ma non sarebbe stato niente. Era l'acqua della piscina che era fredda. Mi sono gelato fino alle ossa. Svoltarono in via Pal e proprio allora la porticina si apriva e Ghereb ne usciva in fretta. Nemeciech afferrò Boka: — Eccolo! Boka fece portavoce della mano e gridò con voce squillante che rimbombò nella pace della viuzza: — Ghereb! Ghereb si fermò, voltandosi. Quando riconobbe Boka rise a lungo. E se la svignò, sempre ridendo. Tra le case di via Pal la risata risuonò stridula: Ghereb si beffava di loro. I due ragazzi rimasero come inchiodati. Ghereb era scomparso ed essi sentivano che tutto era perduto. Non dissero più una parola e s'avviarono verso la porticina del campo. Dal di dentro giungeva il frastuono allegro dei giocatori che si scambiavano le palle e l'evviva dei soci al nuovo presidente della Società dello Stucco! Nessuno lì dentro sospettava di non essere più in casa propria, nel proprio territorio. Quel breve tratto arido e scabro di terreno di Pest, quello spiazzo rinchiuso tra due case d'affitto, significava per la loro anima infantile la libertà, lo sconfinato, a mezzogiorno prateria americana; nel pomeriggio pianura magiara; sotto la pioggia, oceano; d'inverno, polo nord, insomma l'amico loro compiacente che si trasformava in quel che volevano per divertirli! — Vedi — disse Nemeciech —. Non sanno niente! Boka abbassò il capo e mormorò: — Non sanno niente! Nemeciech si fidava di Boka. Non disperava vedendosi vicino l'amico intelligente e prudente. Ma si spaventò quando scorse la prima lagrima negli occhi di Boka e quando sentì che il presidente, lo stesso presidente gli diceva con profonda tristezza e con voce esitante: — Ed ora che si fa?

Le Camicie Rosse non potevano ancora riaversi dallo stupore e fissavano immobili il piccolo biondino caduto dal cielo che aveva il coraggio di gridare in faccia a tutti, a quel modo, come se fosse forte abbastanza da battere tutti, Franco Ats compreso. I primi a riprendersi furono i fratelli Pastor. Si accostarono al piccolo Nemeciech e lo presero per i polsi, uno a destra, l'altro a sinistra. Il minore dei due aveva preso la mano di Nemeciech che teneva lo stendardo ed era pronto a torcergliela quando si udì Franco Ats dire: — Fermi! Non fategli male! I due pastor guardarono stupiti il loro comandante. — Non fategli male! Questo ragazzo mi piace! Sei coraggioso, Nameciech o come ti chiami! Eccoti la mia mano. Fatti Camicia Rossa! Nemeciech scosse la testa negando. — Io no! — disse fieramente. La sua vocina tremava, ma non di paura, di furore. Era pallido, lo sguardo cupo e ripetè: — Io no! Franco Ats sorrise. Disse: — Se non vieni con noi, per me fa lo stesso. Io non ho mai detto a nessuno di venire con noi. Tutti quelli che son presenti han sempre chiesto loro di venire ammessi. Tu sei il primo che abbia invitato io. Ma se non vuoi venire, resta... E gli voltò le spalle. — Che ne facciamo? — chiesero i due Pastor. II comandante fece un cenno del capo. Il maggiore dei Pastor strappò con una 9 storta la bandiera rossa e verde dalla mano del piccino. La storta faceva male; i Pastor avevano i pugni terribilmente duri, ma il biondino strinse i denti e non lasciò sfuggire neanche un lamento. — Fatto! — annunciò Pastor. Tutti erano ansiosi di sapere quel che sarebbe capitato ora, quale tremenda punizione avrebbe inventata il feroce Ats! Nemeciech se ne stava fiero ed immobile, le labbra serrate. Franco Ats si rivolse a lui, fece un cenno ai due Pastor: — E'troppo debole — disse —. Non conviene picchiarlo. Fategli fare un piccolo bagno... Le Camicie Rosse scoppiarono in una grande risata. Rideva anche Franco Ats, anche i due Pastor. Sèbeni gettò in aria il berretto e Vendauer si mise a saltellare come un matto e in tanta allegria un solo viso rimase serio, quello di Nemeciech. Era raffreddato e tossiva già da vari giorni. La mamma gli aveva proibito di uscire, ma il biondino non aveva obbedito. Alle tre era scappato e dalle tre e mezzo fino a sera era rimasto accoccolato in mezzo ai rami in cima ad un albero sull'isola. Doveva forse dire di essere raffreddato? L'avrebbero deriso anche di più e forse anche Ghereb l'avrebbe schernito come già stava facendo: gli si vedevano tutti i denti mentre spalancava la bocca per sghignazzare! Tra le risa generali fu condotto alla riva dell'isola e i due Pastor lo immersero nel lago, dov'era poco profondo. Erano tremendi quei due Pastor! Uno lo teneva per le mani, l'altro per la testa! Lo spinsero nell'acqua fino al collo, e in quel momento tutti esultavano sull'isoletta. Le Camicie Rosse ballavano sulla riva una danza d'allegria, e gettavano in aria i berretti gridando a squarciagola: — Uja op! Uja op! Era il loro grido. E i molti gridi di «Uja op!» si mescolarono alle grandi risate, tutto uno schiamazzo che turbò il silenzio serale dell'isola e della riva. Con occhi tristi Nemeciech guardò dall'acqua Ghereb che sulla riva se ne stava con le gambe allargate, ghignando e tentennando il capo verso il biondino. Poi i due Pastor lasciarono andare Nemeciech e questi uscì dall'acqua, ed ora l'allegrezza generale divenne frenetica alla vista del vestito gocciolante e infangato. Dalla giacchettina l'acqua colava e quando scosse il braccio zampillò fuori un getto come da una grondaia. Tutti si scostarono quando egli si scrollò come un cagnolino bagnato; e parole beffarde volarono verso di lui. — Ranocchia! — Hai bevuto? — Perchè non ti sei messo a nuotare? Non rispose. Sorrideva amaramente accarezzandosi la giacca inzuppata. Ma quando Ghereb gli si parò davanti e facendogli le boccacce gli chiese se il bagno gli fosse piaciuto, Nemeciech sollevò verso di lui i grandi occhi celesti e rispose: — Sì. Mi è piaciuto di più, molto di più che non starmene sulla riva a sbeffeggiare! Preferirei starmene nell'acqua fino al nuovo anno piuttosto che mettermi d'accordo con i nemici dei miei amici. Non m'importa niente che m'abbiate fatto fare un bagno. Già una volta ero caduto in quest'acqua, per caso allora, ma anche allora t'avevo visto qui, fra i nemici. Ma in quanto a me, potete invitarmi, darmi regali quanti volete, non mi farebbe niente lo stesso. E anche se mi metteste in acqua un'altra volta, e poi ancora cento e mille volte, ebbene io verrei qui sempre, ancora domani e dopodomani. E mi nasconderò dove non mi potrete vedere, perchè io non ho paura di nessuno di voi! E se volete venire in via Pal per usurpare il nostro campo, ci saremo noi! E vedrete che quando siamo in dieci anche noi, sarete trattati come si deve! Bella bravura vincermi! Chi è più forte, vince! I Pastor mi hanno rubato le biglie nel Giardino del Museo perchè erano i più forti. E ora mi avete buttato in acqua perchè siete i più forti! E' facile in dieci battere uno! Ma a me non importa! Potete anche picchiarmi, se volete! Bastava che io volessi ed avrei evitato d'andare in acqua e tutto! Ma io non ho voluto passare dalla vostra parte. Affogatemi pure o picchiatemi a morte, io non sarò mai un traditore come quello lì. Tese il braccio e indicò Ghereb al quale il riso s'illividiva in faccia. La luce della lampadina cadde sulla bella testolina bionda di Nemeciech e sul vestito luccicante d'umidità. Egli fissava coraggioso e fiero e col cuore gonfio gli occhi di Ghereb e Ghereb sentì l'anima diventargli pesante sotto quello sguardo. Si fece grave ed abbassò il viso. Tutti tacevano ed il silenzio era tale che pareva d'essere in chiesa e si sentivano cadere in terra, le goccie d'acqua dal vestito di Nemeciech. Nemeciech gridò, nel grande silenzio: — Posso andarmene? Nessuno rispose. Chiese di nuovo: — Non mi picchiate a morte, allora? Posso andarmene? E poichè nessuno gli rispose neanche adesso, egli si avviò lentamente verso il ponte. Nessuna mano si alzò: nessun ragazzo fiatava. Tutti sentivano che quel piccino biondo era un vero eroe, un vero uomo che meritava d'essere grande... Le guardie del ponte che erano state ad ascoltare quel che accadeva, lo fissarono senza osare di toccarlo. E quando Nemeciech salì sul ponticello, la voce profonda di Franco Ats risuonò imperiosa: — Attenti! Le due guardie s'irrigidirono, sollevando nell'aria le lancie con le cuspidi inargentate. E tutti i ragazzi sollevarono le loro lancie e batterono i tacchi. Nessuno parlò: il chiaro di luna risplendeva sulle punte delle lancie. I passi di Nemeciech risuonarono sul ponte mentre egli si allontanava. Poi si udì soltanto il tonfo di due scarpe piene d'acqua. Poi più niente. Sull'isoletta le Camicie Rosse si guardavano impacciate. Franco Ats era in mezzo alla radura, a testa bassa. Allora Ghereb gli si avvicinò ed era bianco come la calce. Balbettò: — Devi sapere... Ma Franco Ats gli voltò le spalle. Allora Ghereb si volse ai ragazzi che erano presenti; si fermò davanti al maggiore dei Pastor: — Devi... sapere... — balbettò. Ma Pastor seguì l'esempio del suo comandante, ed anch'egli voltò le spalle a Ghereb che rimase immobile e perplesso. Non sapeva che cosa fare. Poi disse con voce strozzata: — Mi pare che posso andarmene... Nessuno rispose. E s'avviò lui ora per la strada che poco prima aveva preso il piccolo Nemeciech. Ma nessuno lo salutava. Le guardie si appoggiarono al parapetto e si misero a fissare l'acqua. I passi di Ghereb si smorzarono nel silenzio dell'Orto Botanico.. Quando le Camicie Rosse furono sole, Franco Ats venne davanti al maggiore dei Pastor. E gli stava così vicino che il suo viso quasi toccava il viso del Pastor. Gli chiese sottovoce: — Sei stato tu a prendere le biglie a quel ragazzo nel Giardino del Museo? — Sì — rispose piano il Pastor. — C'era anche tuo fratello? — Sì. — Avete fatto «einstandt»? — Sì. — Non avevo proibito alle Camicie Rosse di rubare le biglie ai ragazzi più deboli? I Pastor tacevano. Nessuno osava contraddire Franco Ats. Il comandante li squadrò severo, poi disse con voce implacabile ma calma: — Prendete un bagno! I Pastor lo fissarono sbalorditi. — Non mi avete capito? Così, come siete: vestiti! Ora bagnatevi voi! — E quando s'accorse che qualcuno sorrideva, avvertì: — E chi ride, prenderà un bagno alla sua volta! Questo fece scomparire a tutti la voglia di ridere. Ats fissò i due Pastor e disse: — Su, bagnatevi! Fino al collo! Avanti! — E rivolgendosi alla truppa: — E voi, dietro front! Nessuno guardi! Le Camicie Rosse fecero un giro sui propri tacchi e voltarono le spalle al lago. Nemmeno Franco Ats guardò come i Pastor mettevano in esecuzione la pena su sè stessi. I Pastor s'incamminarono, avviliti e in silenzio fino al lago dove s'immersero fino al collo. I ragazzi non guardavano: udivano soltanto il loro diguazzare. Franco Ats si voltò, vide che i due avevano eseguiti gli ordini, ed allora disse: — Giù le armi! Partenza! E guidò la truppa via dall'isola. Le guardie spensero la lampadina e si accodarono alla truppa che passò con passi cadenzati per il ponte e si perdette nell'oscurità dell'Orto Botanico. I due Pastor uscirono allora dall'acqua. Si guardarono l'un l'altro, poi, come facevano sempre, si misero le mani in tasca e s'avviarono alla lor volta. Non dissero una parola ed erano molto vergognosi. L'isoletta rimase deserta nel plenilunio silenzioso della sera primaverile.

. — Ora ho fischiato abbastanza — concluse felice — E per oggi mi può bastare. Boka si rivolse a Ciele: — E tu non vieni? — Come faccio? — disse avvilito Ciele — Alle cinque e mezza devo essere a casa. La mia mamma sta attenta quando finisco la lezione di stenografia. E se arrivo in ritardo, non mi lascia più venire da nessuna parte. Questo lo spaventava molto. Tutto sarebbe finito per lui: il campo, la carica di tenente, tutto. — Allora rimani. Condurrò con me Cionacos e Nemeciech. E domattina in classe saprete quel che sarà accaduto. Si strinsero le mani. A Boka venne un'idea: — Oggi Ghereb non era alla stenografia? — No. — E' malato? — A mezzogiorno siamo usciti insieme. Stava benissimo. A Boka il contegno di Ghereb non piaceva; Ghereb gli era molto sospetto. Anche ieri lo aveva fissato in modo così curioso! Certamente Ghereb aveva compreso che, fino a tanto che Boka rimaneva nella compagnia, egli non avrebbe mai avuto compiti preminenti. Era geloso di Boka. Egli aveva più audacia, più impeto; ed il carattere serio e riflessivo di Boka lo irritava. Egli si credeva un ragazzo molto superiore. — Dio solo sa! — disse piano Boka; e s'avviò con i due compagni. Cionacos camminava serio serio accanto a lui. Nemeciech invece era tutto felice di poter prendere parte ad un'avventura cosi interessante, e la sua gioia era tanto esuberante che Boka dovette contenerla: — Non fare il bambino, Nemeciech! Credi forse che andiamo a divertirci? La nostra incursione è più pericolosa di quanto credi! Ricorda i Pastor! All'udire quel nome, la parola si strozzò in bocca al biondino. Anche Franco Ats era un ragazzo forte, anzi correva voce che l'avessero espulso dal liceo. Ma aveva negli occhi qualcosa di gentile e di simpatico; i Pastor invece camminavano sempre a testa bassa, avevano uno sguardo cupo e penetrante, erano bruni, abbronzati dal sole e nessuno li aveva mai visti ridere. Dei Pastor sì, si poteva aver paura. E i tre ragazzi andarono in fretta lungo il viale interminabile. Era già buio; la sera era calata presto. I fanali eran già tutti accesi e quell'ora insolita rendeva inquieti i ragazzi: essi eran abituati a giocare il dopopranzo, con la luce. A quell'ora di solito non erano per la strada, ma in casa, curvi sopra i loro libri. Camminarono muti, l'uno accanto all'altro e dopo un quarto d'ora giunsero all'Orto Botanico. Di dietro al muro s'ergevano minacciosi grandi alberi che cominciavano a riempirsi di foglie. II vento sibilava tra rami rinverditi; era scuro e di fronte all'enorme Orto Botanico, con la misteriosa porta chiusa e col fruscìo strano delle sue piante, i tre compagni si sentirono palpitare il cuore. Nemeciech si accostò al portone e fece l'atto di suonare. — Per l'amor di Dio, non suonare! — disse Boka. Ci riconoscerebbero. E poi... nessuno ci aprirebbe il portone, ora. — Come faremo per entrare allora? Boka accennò al muro di cinta. — Scavalcando il muro? — Sì. — Qui sul viale? — Macchè! Gireremo dietro l'Orto. In fondo il muro è più basso. Dopo di che svoltarono in una viuzza oscura, lungo la quale il muro di pietra presto si cambiava in uno steccato di legno. Trotterellavano lungo lo steccato cercando un posto adatto per tentare di scavalcarlo. Si fermarono in un punto dove la luce dei fanali non giungeva. Dietro lo steccato, di dentro, ma vicino allo steccato, si levava una grande acacia. — Se ci arrampichiamo qui — mormorò Boka — l'acacia ci aiuterà a scivolar giù dall'altra parte. E ci aiuterà anche come osservatorio per guardare se gli altri non siano nelle vicinanze. I due compagni approvarono il piano. E subito si misero al lavoro. Cionacos si appoggiò con le mani allo steccato: Boka si inerpicò sulle sue spalle e guardò dentro il recinto. Erano silenziosissimi: non fiatavano. Quando Boka fu certo che nelle vicinanze non c'era nessuno, fece un cenno con la mano: Nemeciech sussurrò allora a Cionacos: — Sollevalo! E Cionacos sollevò il presidente issandolo in cima allo steccato; e il presidente stava scavalcandolo quando le assi fradicie cominciarono a scricchiolare sotto il suo peso. — Salta giù! — sibillò Cionacos. Si udirono pochi crepitii e poi un tonfo sordo: Boka era in mezzo ad un'aiuola. Dietro a lui venne Nemeciech ed ultimo Cionacos, ma questi s'arrampicò prima sull'acacia poichè, come ragazzo di campagna, era un ottimo arrampicatore. Gli altri due gli chiesero di sotto: — Vedi qualcosa? Dall'alto rispose una voce soffocata: — Pochissimo. Fa troppo scuro. — L'isola, la vedi? — La vedo. — C'è qualcuno? Cionacos si sporse dai rami scrutando prima a destra e poi a sinistra il lago nell' oscurità: — Sull'isola ci son troppi alberi e cespugli... Non si vede niente... Ma sul ponte... S'interruppe. Salì sur un ramo anche più alto. Continuò di lassù: — Ora vedo bene. Sul ponte ve n'è due... Boka disse piano: — Allora ci sono. Quei due sul ponte sono le sentinelle. I rami scricchiolarono di nuovo e Cionacos si lasciò scivolar giù. In gran silenzio i tre rifletterono a quel che bisognava fare. Si rifugiarono dietro un cespuglio, in modo che nessuno potesse vederli, e tennero consiglio a basso voce: — II meglio sarebbe — disse Boka — se lungo i cespugli cercassimo di raggiungere le rovine artificiali del castello... Sapete, c'è un castello verso destra, sotto l'altura. Gli altri due accennarono di conoscere il luogo. — Alle rovine si giunge facilmente, procedendo di cespuglio in cespuglio. Lì qualcuno di noi s'arrampicherà sull'altura e guarderà intorno. Se non c'è nessuno ci stendiamo per terra e strisciamo giù: la strada per il lago è quella. Ci nasconderemo tra i giunchi e vedremo quel che si potrà fare. Quattro occhi luccicanti fissarono Boka. Per Nemeciech e Cionacos tutte le sue parole erano vangelo. Boka domandò: — Sta bene cosi? — Sta bene! — risposero gli altri due. — E allora, avanti! Seguitemi! Io conosco la strada! E si mise a camminare con le mani e coi piedi, tra i bassi cespugli. Non appena tutti e tre s'erano messi in ginocchio, venne di lontano un lungo fischio acuto. — Si sono accorti di noi! — disse Nemeciech balzando in piedi. — Giù! Giù! A terra! — comandò Boka. Tutti e tre rimasero immobili, bocconi nell'erba. Attesero il seguito degli avvenimenti con il fiato sospeso. S'erano veramente accorti di loro? Ma nessuno venne. II vento sibilò tra gli alberi. Boka mormorò: — Niente! Ma subito dopo un altro fischio acuto tagliò l'aria. Rimasero di nuovo in ascolto; ma nessuno venne. Nemeciech, tremando, di sotto un cespuglio, propose: — Si dovrebbe esplorare dall'albero! — Giusto! Cionacos, sali sull'albero! E Cionacos, arrampicandosi come un gatto, già era in cima alla grande acacia. — Che vedi? — Sul ponte si muovono... Ora sono in quattro... Due vanno sull'i'sola! — Allora tutto va bene — disse rassicurato Boka — Scendi. Il fischio significava il mutamento delle sentinelle sul ponte. Cionacos discese dall'albero e tutti e tre s'avviarono carponi verso l'altura. Nel grande e misterioso Orto Botanico regnava ora il silenzio. Al segnale della campana di chiusura tutt'i visitatori s'erano allontanati e nessun altro estraneo era rimasto se non chi aveva dei doveri da compiere o dei piani di guerra da svolgere come quei tre temerari che rannicchiati a palla procedevano di cespuglio in cespuglio. Non dicevano una parola: sentivano l'importanza della loro missione. E per dire la verità anche un poco di timore li opprimeva. Ci voleva un grande coraggio per tentar di penetrare nel castello munito delle camicie rosse, per tentar di raggiungere un'isoletta in mezzo a un piccolo lago, quando sull'unico ponte c'erano le sentinelle. Chissà, fors'anche i Pastor in persona! Questo pensava Nemeciech e ricordava le belle, fini biglie colorate ed al ricordo tornò ad arrabbiarsi pensando che il terribile einstandt era risuonato proprio quando egli aveva giocato e vinto tutte quelle biglie! — Ahi! — gemè Nemeciech. Gli altri due si fermarono spaventati. — Che c'è? Nemeciech era già in piedi e si stava succhiando un dito. — Che ti è capitato? Senza levare il dito di bocca: — Son capitato sur un'ortica! — rispose. — Succhia! Succhia, ragazzo! — disse Cionacos che aveva avuto l'accortezza di fasciarsi la mano con un fazzoletto. Giunsero presto all'altura. Ai piedi della collinetta era stata costruita la rovina d'un castello artificiale, come si trova nei grandi parchi signorili, e con lo stile esatto dei vecchi castelli, e le screpolature dei muri erano piene di musco. — Queste sono le rovine — spiegò Boka — Bisogna stare attenti perchè ho sentito dire che le camicie rosse vengono anche qui.. — Che castello è questo? — chiese Cionacos — Noi non abbiamo studiato nella storia che nell'Orto Botanico ci fosse un castello! — Non è un castello. Sono soltanto rovine. Sono state costruite già come rovine! Nemeciech trovò la cosa poco intelligente: — Già che costruivano, potevano costruire un castello nuovo. Dopo cent'anni sarebbe diventato da solo una rovina! — Hai voglia di scherzare, tu — ammonì Boka —. Ma se i due Pastor fossero qui a guardarti negli occhi ti passerebbe subito! A queste parole Nemeciech si rabbuiò. Egli era un ragazzo che dimenticava facilmente il pericolo, e bisognava di continuo ricordarglielo. Continuarono a procedere tra i cespugli di sambuco, inoltrandosi tra le pietre delle rovine. Cionacos era in testa: d'un tratto si fermò. Alzò il braccio destro. Si voltò e con voce strangolata: — Qui c'è qualcuno! — disse. Si nascosero tra le alte erbe che coprivano completamente i loro piccoli corpi. Gli occhi soltanto brillavano nel buio. Erano intenti. — Metti l'orecchio a terra, Cionacos! — comandò a bassa voce Boka — Anche i pellirossa fanno così per sentire se qualcuno cammina nelle vicinanze. Cionacos obbedì: si mise bocconi e pose l'orecchio per terra in un posto sgombro di erbe. — Vengono! — sussurrò spaventato. Ora si sentiva anche senza i metodi dei pellirossa che qualcuno marciava tra i cespugli. Ed il misterioso essere del quale per ora non si sapeva nemmeno se era uomo o animale, avanzava proprio nella loro direzione. I ragazzi, atterriti, nascosero anche le teste fra l'erbaccia. E Nemeciech diceva con voce piagnucolosa: — Io vorrei andare a casa! Cionacos gli disse: — Mettiti disteso, bamboccio! Ma poichè Nemeciech non si mostrava più coraggioso per questo, Boka alzando la testa fuor dall'erba, gli ordinò, a bassa voce ma con tono imperativo, mentre gli occhi gli brillavano severi: — Fante, stendetevi in terra! A questo comando bisognò obbedire: Nemeciech si mise bocconi. Lo sconosciuto procedeva fragorosamente ma pareva che ora avesse mutato direzione e non venisse più contro di loro. Boka rialzò la testa dall'erbaccia e si guardò in giro. Vide una figura nera che stava scendendo l'altura frugando i cespugli con un bastone. — E' andato via — disse ai ragazzi che erano distesi nell'erba — Era il guardiano. — Guardiano delle camicie rosse? — No. Dell'Orto Botanico. Respirarono liberati: non avevano paura degli uomini grandi. Per esempio il vecchio guardiano del Giardino del Museo, un invalido di guerra col naso rosso, non riusciva mai a domarli. Continuarono la loro avanzata. Ma il guardiano, ora, doveva essersi accorto di qualcosa, perchè si fermò, stette in ascolto. — Si sono accorti di noi! — balbettò Nemeciech. Tutt'e due fissarono Boka, aspettando i suoi ordini. - Dentro le rovine! — comandò Boka. E tutt'e tre corsero a capofitto, inciampando molte volte, giù per l'altura. Le rovine avevano delle finestrine ogivali. Ma la prima aveva l'inferriata. Corsero spaventati alla seconda: anche questa aveva l'inferriata. Più in Ià trovarono una fenditura nel muro per la quale a stento poterono introdursi. Si nascosero nel rifugio oscuro e trattennero il fiato. II guardiano passò davanti alle finestre. Di qui si potè vedere che se ne andava definitivamente verso il viale dov'era la sua casupola. — Grazie al cielo — disse Cionacos — abbiamo passato anche questa! E si guardarono in giro, nell'oscurità. L'aria era umida e sapeva di muffa come se quella fosse davvero la cantina di un vecchio castello. Boka si moveva brancicando: si fermò. Aveva inciampato in qualcosa. Si chinò e sollevò da terra un oggetto. Gli altri due gli furono accanto e si scoperse che si trattava di un... tomahawk! Una specie di ascia con la quale i pellirossa, secondo i romanzieri, vanno in guerra. Il tomahawk era formato da un pezzo di legno ricoperto di stagnola. Nel buio brillava in modo impressionante. — Appartiene ai nemici — disse con reverenza Nemeciech. — Precisamente! — rispose Boka — E se c'è quest'uno, devono esserci anche gli altri. Si misero a cercare e in un angolo ne trovarono sette altri. Si poteva dunque concludere che le camicie rosse erano otto e che questo era il loro arsenale segreto. Il primo pensiero di Cionacos fu che bisognava portar via due tomahawk come preda di guerra. — No! — disse Boka — Non lo si può fare. Sarebbe un furto comune. E Cionacos arrossì di vergogna, ma era buffo e nessuno lo vide. — Non perdiamo del tempo inutilmente. Non bisogna arrivare all'isola quando non c'è più nessuno! 5 Queste parole ardite infiammarono di nuovo gli animi. I tre ragazzi sparpagliarono i tomahawk per far ben capire che c'era stato qualcuno, nell'arsenale, poi scivolarono fuori dalla fenditura e salirono in cima all'altura. Di lassù si poteva vedere lontano. Si fermarono uno accanto all'altro e si guardarono attorno. Boka cavò di tasca un pacchettino: srotoló dalla carta di giornale che l'avvolgeva un binoccolo incrostato di madreperla. — E' il binoccolo da teatro della sorella di Ciele — disse puntandolo per guardare. Per la verità l'isola si poteva vedere benissimo anche ad occhio nudo: attorno all'isola scintillava l'acqua di un piccolo lago che serve per coltivare le piante acquatiche sulla riva del quale cresceva un rigoglioso giuncheto. Tra gli alberi frondosi e gli alti cespugli dell'isoletta brillava un puntino luminoso. I ragazzi sussultarono. — Eccoli! — disse con voce strozzata Cionacos — Sono lì. E Nemeciech disse con un tono di invidia ammirativa: — Hanno anche la lampadina! Il puntino luminoso oscillava qua e là sull'isoletta; scomparve dietro un cespuglio, risplendè sulla riva. Qualcuno portava la lampadina su e giù. — Mi pare — disse Boka che a nessun costo si sarebbe tolto il binoccolo dagli occhi — mi pare che preparino qualcosa. 0 fanno esercizi notturni o... S'interruppe. — Ebbene? — chiesero inquieti gli altri due. — Santo Iddio! — esclamò Boka fissando sempre col binoccolo — Quello che porta la lampadina è... — Chi è? — Mi pare di riconoscerlo... Spero di no... Si mosse di qualche passo per vedere meglio, ma la luce della lampadina era già sparita dietro un cespuglio. Boka abbassò il binoccolo. — Sparito! — disse con un fil di voce. — Ma chi era? — Non posso dire. Non ho visto bene e proprio quando volevo osservare meglio è sparito. Finchè non sia certo, non voglio incolpare nessuno... — Forse... uno dei nostri...? Il presidente rispose triste: — Mi pare. — Ma questo è alto tradimento! — esclamò Cionacos dimenticando ogni prudenza! — Taci! Se riusciamo ad avvicinarci sapremo tutto! Abbi pazienza fino allora! Ora anche la curiosità li sospingeva: Boka non voleva confessare a chi somigliasse il ragazzo con la lampadina. Tirarono a indovinare, ma il presidente vietò loro anche questo affermando che non bisognava incolpare nessuno. Scesero dall'altura e proseguirono carponi nell'erbaccia. Giunsero in riva al laghetto: qui potevano alzarsi in piedi perchè i giunchi ed i cespugli erano così alti che coprivano le loro stature. Boka impartì gli ordini con sangue freddo: — Da qualche parte ci deve essere una barchetta. Io esplorerò la riva destra, con Nemeciech. Tu, Cionacos, esplora la sinistra. Chi primo trova la barchetta si ferma ed aspetta. Si avviarono in gran silenzio. Ma dopo pochi passi Boka trovò la barchetta tra i giunchi. — Aspettiamo qui — disse. Aspettarono che Cionacos fatto il giro completo del laghetto, giungesse dall'altra parte. Sedettero sulla riva e si misero a fissare il cielo stellato. Poi si misero ad ascoltare se riuscissero ad afferrare qualche parola dall'isola. Nemeciech volle fare sfoggio d'intelligenza: - Ora metto l'orecchio per terra — disse — e... — Lascia in pace l'orecchio — disse Boka —. Non sentiresti niente. Ma se ci curviamo vicino alla superficie dell'acqua, forse udremo. Ho visto dei pescatori discorrere tra loro da una riva all'altra del Danubio, a questo modo. Alla sera l'acqua porta bene la voce. Si curvarono sullo specchio dell'acqua ma non riuscirono a distinguere altro che voci confuse. Intanto Cionacos era giunto. — La barchetta non c'è! — Non ti spaventare — disse Nemeciech —; noi l'abbiamo trovata! E si diressero verso la barchetta. — Saliamo? — Non qui — disse Boka —. Rimorchiamo la barchetta molto lontano dal ponte, dall'altra parte. Se ci vedono e vogliono raggiungerci, che abbiano un percorso lungo da fare. Questa prudenza piacque molto agli altri due. Si sentirono rinfrancati dalla presenza di un capo così intelligente e così preveggente. — Chi ha dello spago? — chiese il presidente. Cionacos ne aveva. Nelle tasche di Cionacos c'era sempre un po' di tutto. Non esiste bazar che possieda tale varietà di oggetti quanti trovano posto nelle tasche di Cionacos: temperino, spago, biglie, maniglia di porta, chiodi, stracci, taccuino, cacciavite e Dio sa cos'altro ancora! Cionacos trasse lo spago di tasca e Boka legò con questo l'anello che c'era a prua della barchetta. Quindi si misero a rimorchiare l'imbarcazione, tenendo però gli occhi sempre fissi all'isoletta. Quando giunsero al posto scelto per tentare la spedizione a bordo della carcassa, udirono ancora i fischi di prima; ma non se ne spaventarono più. Oramai sapevano che questo non significava se non il cambio delle sentinelle sul ponte. E non avevano più paura anche perchè sentivano d'essere in pieno combattimento. Questo accade anche ai veri soldati nelle vere battaglie: finchè non hanno incontrato il nemico, ogni ombra li impaurisce. Ma quando la prima palla ha fischiato all'orecchio, prendono coraggio, si esaltano e dimenticano di correre forse verso la morte. Primo salì Boka, sulla barchetta; secondo Cionacos. Nemeciech camminava sulla riva melmosa. — Sali, marmocchio! — Salgo — disse Nemeciech, ma sdrucciolò; s'afferrò a una canna di giunco che non lo sorresse e piombò nell'acqua senza una parola. S'immerse fino alla gola, ma si contenne dal gridare. Si rialzò in piedi sgocciolante d'acqua, s'aggrappò ad un'altra canna. Cionacos, ridendo, chiese: — Hai bevuto, marmocchio? — No, non ho bevuto — rispose il biondino con viso spaventato e, inzuppato e infangato com'era, montò sulla barchetta. Era ancor bianco dalla paura. — Non credevo di dover fare un bagno, oggi — disse piano. Non c'era tempo da perdere: Boka e Cionacos afferrarono i remi e staccarono la barca dalla riva. La barca pesante scivolò pigra sull'acqua e mosse lo specchio dello stagno. I remi si tuffarono silenziosi e la pace era così completa che si udiva il batter dei denti del piccolo Nemeciech rannicchiato a prua. La barchetta approdò alla riva dell'isola. I ragazzi scesero in fretta e si nascosero dietro un cespuglio. — Fin qui ci siamo — disse Boka —. Ed iniziò l'ultima avanzata; gli altri due, dietro. — Non possiamo abbandonare la barchetta — disse il presidente —. Se la scoprono non c'è via di ritirata. Sul ponte ci sono le sentinelle. Cionacos, tu rimani alla barchetta. Se qualcuno s'accorge della barchetta, due dita in bocca ed un fischio de' tuoi! Allora noi ripiegheremo di corsa, saltando nella barchetta. Cionacos tornò, carponi, fino alla barca e in cuor suo si rallegrava della probabile occasione di emettere un fischio, de' suoi! Boka e il biondino continuarono l'avanzata, lungo la riva. I cespugli erano più alti; i due poterono alzarsi in piedi. Si fermarono e scostarono le fronde degli arbusti; scorsero così il centro dell'isoletta, una radura dove stava seduto l'esercito delle camicie rosse. Il cuore di Nemeciech si mise a galoppare. Il biondino si strinse a Boka. — Non aver paura! — gli sussurrò il presidente. Nel mezzo della radura c'era una grande pietra sopra la quale era stata posata la lampadina. Attorno alla lampada erano accovacciate le Camicie Rosse. Accanto a Franco Ats c'erano i due Pastor ed accanto al minore dei Pastor c'era qualcuno che non aveva la camicia rossa... Boka sentì che il biondino cominciava a tremare accanto a lui. — Vedi? — chiese. — Vedo — rispose Boka con tristezza. Accanto alle camicie rosse stava seduto Ghereb! Non si era sbagliato dunque, osservando dall'altura! Era proprio Ghereb che camminava in su e in giù con la lampadina. I due fissavano con raddoppiata attenzione la compagnia delle camicie rosse. La lampada illuminava stranamente i Pastor, i loro visi cupi. Tutti tacevano: il solo Ghereb parlava. Doveva riferire qualcosa che interessava molto gli altri perchè tutti erano curvi verso di lui. Nel gran silenzio serale anche i due ragazzi della via Pal poterono percepire le parole di Ghereb: — ...al campo si accede da due parti... Si può entrare dalla via Pal, ma è difficile perchè i regolamenti prescrivono che chi entra deve sprangare la porta dietro di sè. L'altro ingresso è dalla via Maria. La porta della segheria è sempre spalancata; e di lì, attraverso le cataste di legname, si può giungere al campo. Ma lì, tra le viuzze, ci sono le fortezze... — Lo so — disse Franco Ats a voce bassa e con un tono che fece rabbrividire quei della via Pal. — Infatti, tu ci sei stato — continuava Ghereb —. Nelle fortezze ci sono le vedette che danno subito l'allarme se qualcuno si avvicina per le viuzze tra il legname. E non mi pare prudente entrare da quella parte.... Si trattava dunque di invasionse! Le camicie rosse volevano entrare nel campo! Ghereb diceva: — La miglior cosa sarebbe che ci mettessimo d'accordo prima. Stabilito quando venite, io entro per ultimo sul campo e lascio aperta la porta: non la sprango. — Sta bene — concluse Franco Ats —. — In nessun modo vorrei occupare il campo quando è deserto. Faremo la guerra con tutte le regole. Se saranno capaci di difendere il campo, benissimo. Se non riescono a difenderlo, l'occuperemo noi, issando la nostra bandiera rossa. Non lo facciamo per avidità, lo sapete bene... Intervenne uno dei Pastor: — Lo facciamo per avere un luogo dove giocare alla palla. Qui non si può e in via della Libertà bisogna sempre leticare per il posto. A noi occorre un campo di giuoco e niente altro! Avevano decisa la guerra per motivi simili a quelli dei veri soldati. Ai russi occorreva il mare; e fecero la guerra ai giapponesi per questo! Le Camicie Rosse avevano bisogno di un campo dove giocare alla palla e poichè non potevano averlo in altro modo, intendevano conquistarlo con la guerra. — Allora siamo d'accordo, — disse Franco Ats, capitano delle camicie rosse — che tu dimenticherai di chiudere la porta sulla via Pal. D'accordo? — Sì! — disse Ghereb. Al povero piccolo Nemeciech doleva il cuore. Se ne stava lì, col suo abito fradicio, fissando con occhi spalancati le camicie rosse sedute attorno al lume e tra loro «il traditore»! Il suo strazio era così grande che quando dalla bocca di Ghereb uscì il «sì» definitivo che chiudeva ogni speranza, Nemeciech si mise a piangere. Piangeva sommessamente e mormorava: — Signor presidente... Signor presidente... Signor presidente... Boka volle calmarlo: — Andiamo! Col pianto non si conclude niente! Ma anche la sua voce era strangolata: era pur una cosa dolorosa questa di Ghereb! D'un tratto, ad un cenno di Franco Ats, le camicie rosse balzarono in piedi. — A casa! — disse il capitano. Avete tutti le vostre armi? — Sì! — risposero tutti ad una voce e sollevarono da terra le loro lunghe lancie di legno che portavano in cima una sottile bandieruola rossa. — Avanti! — comandò Franco Ats. Le armi in fascio, tra i cespugli. E s'avviarono tutti, con Franco Ats alla testa, verso l'interno dell'isola. E anche Ghereb andò con essi. La radura rimase deserta con nel centro la pietra e sulla pietra la lampadina accesa. Si udivano i loro passi che s'allontanavano sempre più, perdendosi nel folto. Boka si mosse: — E' il momento! — disse, e cavò di tasca il cartone rosso nel quale già era infilata una puntina da disegno. Scostò i rami del cespuglio e disse al biondino: — Aspettami qui! Non ti muovere! E balzò nella radura dove poco prima erano state le camicie rosse. Nemeciech trattenne il fiato. Boka s'accostò al grande albero che era sul margine della radura e che copriva col suo ampio fogliame tutta l'isoletta: attaccò il cartone al tronco e poi s'avvicinò alla lampadina. Aperse la finestrina e soffiò sulla candela. La Luce si spense e in quel momento Nemeciech perse di vista anche Boka; ma i suoi occhi non s'erano ancora abituati all'oscurità quando Boka gli era già tornato vicino: — Via! Corrimi dietro, più presto che puoi! E si misero a galoppare verso la riva, verso la barchetta. Quando Cionacos li vide, montò a bordo e appoggiò il remo contro la riva per essere pronto a staccare di colpo l'imbarcazione. I due ragazzi saltarono pronti nella barchetta. — Via! — ordinò Boka. Cionacos puntò il remo e spinse ma la barchetta non si mosse. Giungendo, avevano approdato con troppo impeto e la barchetta era per metà in secca. Bisognava scendere, sollevare la prua e spingerla in acqua. Intanto le camicie rosse eran tornate sulla radura ed avevano trovata spenta la loro lampadina. Sulle prime credettero che l'avesse spenta il vento, ma quando Franco Ats s'accorse che lo sportello era aperto: — Qui c'è stato qualcuno! — esclamò, e la sua voce fu così forte che la intesero anche i ragazzi nella barchetta. La lampada fu riaccesa ed allora si trovò anche il cartello appeso al tronco: I RAGAZZI DI VIA PAL SONO STATI QUI! Le camicie rosse rimasero allibite; ma Franco Ats gridò: — Se sono stati qui, ci devono essere ancora! Inseguiteli! Emise un lungo fischio. Le sentinelle accorsero dal ponte e riferirono che di lì nessuno era passato. — Allora sono venuti con la barchetta! disse il Pastor più piccolo. E mentre i tre ragazzi si affaticavano per smuovere la barchetta; udirono il comando che si riferiva ad essi: — Inseguiteli! Proprio quando risonò questa parola, Cionacos riuscì a spingere in acqua la barchetta: con un balzo fu a bordo anche lui. Afferrarono immediatamente i remi e remarono a gran forza verso la riva. Franco Ats dava a gran voce i suoi ordini: — Vender, sull'albero: osservazione e informazione! Fratelli Pastor, via per il ponte e aggirateli, da destra e da sinistra! Circondati! Prima che essi abbiano fatte le loro cinque o sei remate, certo i Pastor campioni di corsa, avranno già fatto il giro del lago, ed allora non c'è scampo nè a destra nè a sinistra. E se giungono prima dei Pastor, la vedetta in cima all'albero può seguirli con lo sguardo e comunicare la direzione presa! Dalla barchetta si vedeva il fanalino, in mano a Franco Ats, muoversi sulla riva dell'isoletta. Poi uno scalpiccio sul ponte: i Pastor che lo varcavano di corsa! Quando la barchetta giunse all'altra sponda, la vedetta raggiungeva il suo posto d'osservazione in cima all'albero: — Approdano! — urlò la voce dall'albero — E la voce del capitano rispose pronta : — All'attacco! Tutti! Ma già i tre ragazzi della via Pal galoppavano disperatamente: — Non devono raggiungerci — disse pur mentre correva Boka —. Sono in molti più di noi! Corsero a precipizio, attraverso strade, praterie, girando boschetti: Boka in testa, gli altri due dietro. Erano diretti alla serra. — Dentro, nella serra! — rantolò Boka, e corse alla porticina. Per fortuna era aperta. Scivolarono dentro e si nascosero. Fuori era silenzio. Forse gli inseguitori avevano perdute le traccie. I tre ragazzi ora riposavano un poco. Si guardavano attorno: le pareti e il tetto di vetro dell'edificio strano lasciavano trapelare il lontano chiarore della città. La grande serra era un luogo nuovo ed interessante! Si trovavano nell'ala sinistra della costruzione: c'erano alberi piantati dentro gran vasi verdi, alberi con larghe foglie. Dentro lunghi cassoni vegetavano mimose e felci. Sotto la cupola del corpo centrale s'ergevano palmizi con fronde a ventaglio e tutta una foresta di flora tropicale. In mezzo a questa foresta c'era una piscina con dentro dei pesciolini dorati, e vicino una panchina. Poi magnolie, lauri, aranci, ed enormi felci. Un profumo intenso carico d'aromi, rendeva pesante l'aria. E nell'altra ala, quella riscaldata a calorifero, l'acqua gocciolava sempre. Le goccie colavano sulle larghe foglie carnose e quando una foglia di palma si mosse sotto il peso di queste goccie ai ragazzi parve di scorgere qualche strano mostro equatoriale sbucare da questa foresta calda ed umida, in mezzo ai vasi verdi. Si sentivano al sicuro e cominciavano a pensare al modo di uscire. — Purchè non ci chiudano dentro! — mormorò Nemeciech che s'era seduto ai piedi d'una grande palma e si sentiva bene nella località riscaldata perchè era inzuppato fino alle ossa. Boka lo rassicurò: — Se non hanno chiuso ancora la porta, non la chiuderanno più. Stavano seduti ed ascoltavano: nessun rumore. Certo a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarli qui. Si alzarono e si mossero a tastoni tra gli alti scaffali, zeppi di piante, di erbe odorose e di grandi fiori. Cionacos andò a cozzare contro uno scaffale e inciampò. Nemeciech volle essere premuroso: — Fermati — disse — ti faccio luce! E prima che Boka avesse potuto impedirglielo aveva cavato di tasca i fiammiferi, ancora asciutti malgrado il bagno, e ne aveva acceso uno. La fiammella divampò ma si spense subito perchè Boka l'aveva strappata dalla mano dell'imprudente. — Merlo! — diceva Boka furioso — Non sai che sei in una serra? Che qui anche le pareti sono di vetro...? Di certo avranno visto la luce. Si fermarono e si posero in ascolto. Boka aveva ragione: le camicie rosse 6 avevano veduto la luce divampare, rischiarare per un istante tutta la serra. Ed ecco si udivano già i loro passi sui ciottoli. Anch'essi si dirigevano alla porta dell'ala sinistra. Franco Ats diede gli ordini: — I Pastor per la porta di destra — gridò — Sebeni per quella di mezzo, io per di qui! I te della via Pal si nascosero in un baleno. Cionacos si mise disteso sotto uno scaffale, Nemeciech, con la scusa ch'era bagnato di già, fu mandato nella piscina. II biondino si calò nell'acqua fino al mento e nascose la testa sotto una grande felce. Boka fece appena in tempo a ritirarsi dietro il battente che si apriva. Franco Ats entrò col suo seguito: teneva in mano il fanalino. La luce di questo cadde sulla porta vetrata in modo che Boka poteva vedere benissimo Franco Ats, ma questi non poteva vedere Boka nascosto dietro la porta. E Boka osservò bene il capitano avversario, ch'egli aveva veduto soltanto una volta da vicino, nel giardino del Museo: bel ragazzo, Franco Ats, col viso tutto acceso dall'ardore del combattimento. Ma subito si allontanò: percorse con gli altri le stradicciuole della serra e nell'ala di destra guardarono anche sotto gli scaffali; ma a nessuno veniva in mente di cercar nella piscina. Cionacos poi scampò dal pericolo d'essere scoperto perchè quando stavano per esaminare anche sotto lo scaffale dov'egli si trovava, il ragazzo che Franco Ats aveva chiamato Sebeni, disse: — Se ne sono andati da un pezzo, per la porta di destra... E poichè si avviava in quella direzione, tutti gli altri, nel fervore della ricerca, lo seguirono. Attraversarono la serra, ed alcuni sordi tonfi dissero che anch'essi non avevano troppi riguardi per le terraglie. Uscirono. Nuovo silenzio. Cionacos sbucò fuori: — Un vaso m'è capitato in testa e sono pieno di terra! E si mise a sputare con molto zelo la terra che gli era entrata in bocca. Secondo apparve Nemeciech: uscì dalla piscina come un mostro acquatico. Era bagnato come un cencio e gocciolava tutto: — Passerò tutta la vita in acqua? — diceva — Cosa sono? Una rana? Si scosse tutto come un cagnolino bagnato. — Non ti lamentare — disse Boka —. Almeno ora non potrai più accendere fiammiferi di certo. Ma andiamo... Nemeciech sospirò: — Come vorrei già essere a casa! Ma, pensando alle accoglienze che avrebbe avuto a casa vedendo il suo vestito in quello stato, corresse: — No. Non vorrei essere neanche a casa! Ritornarono correndo verso l'acacia dove avevano scavalcato lo steccato. Cionacos s'arrampicò sull'albero, ma prima di mettere il piede sullo steccato si rivolse verso il giardino: — Vengono! — esclamò. — Su, all'albero! — ordinò Boka. Cionacos tornò sull'albero ed aiutò anche i compagni a salire. S'arrampicarono quanto più in alto riuscirono e quanto la resistenza dei rami consentiva. Sarebbe stato seccante essere presi quando stavano per essere in salvo. La banda delle camicie rosse giunse sotto l'albero con corsa rumorosa. I ragazzi si rannicchiarono tra le foglie come tre uccellini spaventati. Tornò a parlare quel Sebeni che nella serra aveva guidato i suoi sopra una falsa pista: — Li ho visti scavalcare lo steccato! Questo Sebeni doveva essere il più stupido fra i nemici, e perchè era il più stupido era anche il più turbolento ed era lui che parlava e gridava di continuo. Le camicie rosse che eran tutti ottimi ginnasti, in pochi balzi, sono al di là dello steccato. Franco Ats è rimasto per ultimo e prima di uscire spegne la lampada. Mentre si arrampica sull'acacia per poi passare sullo steccato, gli cadono addosso, da Nemeciech fradicio, alcune goccie d'acqua. — Piove — disse; e si asciugò il collo. — Eccoli laggiù! — disse Sebeni; e tutti si misero a correre. — Se non ci fosse stato questo Sebeni ad aiutarci — disse Boka — ci avrebbero presi da un pezzo. Ora sentivano d'essere definitivamente scampati da ogni pericolo. Avevano creduto di riconoscerli in due ragazzi che se n'andavano pacificamente per i fatti loro e s'erano messi ad inseguirli: quei due, spaventati, s'eran dati a scappare. E allora le camicie rosse, urlando selvaggiamente, via, all'inseguimento. II rumore della corsa si perdette lontano. Scesero dallo steccato e respirarono di soddisfazione quando tornarono a sentire la pietra del marciapiede sotto le loro scarpe. Incontrarono una vecchietta barcollante; poi altri passanti. Erano di nuovo in città: ogni pericolo era scomparso. Erano stanchi ed affamati. Passarono davanti all'orfanotrofio le cui finestre illuminate guardavano verso la sera buia: una campanella annunciò che là dentro si stava per andare a cena. Nemeciech batteva i denti. — Facciamo presto — disse. — Aspetta — disse Boka —. Tu prendi il tram per andare a casa. Ti do i soldi. Mise la mano in tasca. Ma il presidente non aveva che sette soldi. Nella sua tasca non c'erano che sette soldi di rame e l'elegante calamaio tascabile ricoperto di pelle, dal quale colava un filo d'inchiostro azzurro. Cavò i sette soldi macchiati d'inchiostro e li diede a Nemeciech: — Non ne ho altri! Ma Cionacos cavò fuori due soldi; e il biondino aveva un soldo portafortuna che aveva con sè in una scatoletta per pillole. Tutto sommato si arrivava a dieci soldi. Con questi, il biondino salì sul tram. Boka si fermò in mezzo alla strada: aveva ancora il cuore gonfio per il tradimento di Ghereb. Se ne rimaneva triste e taceva. Ma Cionacos che non sapeva ancora niente era allegro e disse: — Attenzione, signor presidente! — e quando Boka lo guardò, mise due dita in bocca e fischiò da rompere i timpani. Poi si guardò attorno come uno che si sia finalmente sfogato. — L'ho tenuto finchè ho potuto, ma ora non ne potevo più! Prese a braccetto il malinconico Boka e, dopo tante avventure, s'avviarono stanchi verso la città, lungo il grande viale...

Lo stralisco

208570
Piumini, Roberto 11 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Quando, dopo tre ore, ebbe un'idea abbastanza precisa di come avrebbe proceduto nel suo lavoro notturno, con gli occhi oppressi, ma non sazi, della bellezza di Amilah, ininterrottamente guardata, il pittore si alzò, raccolse la cassetta che non aveva nemmeno aperto, ed entrò nel boschetto di palme. Senza nessun cenno di obiezione o sorpresa, l'uomo vestito di nero lo segui per la porticina, che richiuse, e poi lungo il corridoio illuminato dalle lampade a boccia, e quelli, oltre la seconda porta segreta, tutti silenziosi. Nell'ampio letto, fra i cuscini dai colori solari, la bellissima ignara avverti tuttavia nel sonno una specie di leggerezza, un togliersi di qualcosa, un vago sgravamento: sospirando lentamente si voltò, mutò posizione, e forse sogno.

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. — Non c'è forse abbastanza luce, laggiù? — chiese Maometto. — I candelabri che bastano a me per contemplare Amilah nelle segrete visite notturne, non sono sufficienti alla tua opera preziosa? — La luce dei candelabri è sufficiente, signore, ma non il tempo, — disse Gentile. — Se potessi fermarmi più a lungo a ritrarre la tua prediletta, o se lei non si muovesse nel sonno come spesso fa, costringendomi ad attese e spostamenti, potrei certo procedere più celermente... Io rimango là poche ore, a causa del riposo che mi è necessario, e devo spesso interrompere il lavoro... Temo dunque che finirò molto prima il tuo ritratto del suo. — Credo di capire, — disse il Sultano. — Nessuno e nulla impedirebbe, naturalmente, che finito il mio ritratto tu possa trattenerti qualche tempo, a godere la mia ospitalità: ma la cosa potrebbe stupire. Renderemo dunque tutto più semplice in altro modo. Tutti sanno gli impegni di governo che mi toccano: troverò dunque assai difficile, da domani, concederti più di mezzora ogni mattino per il ritratto: e forse, qualche giorno, nemmeno quella. E poiché l'altra opera non può avvenire che di notte, avrai tutto il tempo, nella giornata, per riposare e prepararti. Per quanto dunque riguarda il mio ritratto, provvederemo con calma... C'è altro che tu voglia dirmi? Sei ben servito? Ti pesa forse la solitudine? — No, luminoso signore, — disse Gentile. — Tu mi concedi piú libertà, nel palazzo e fuori, di quanta io sia in grado di usare e desiderare: anche se ora, meno oppresso dall'urgenza del riposo, di piú ne approfitterò. Il Sultano si allontanò. Gentile rientrò nel suo alloggio turbato e contento insieme per quello che aveva ottenuto. Nel pomeriggio, per distrarsi da quell'eccitazione fastidiosa, si fece accompagnare da due servi a visitare la moschea di Costantinopoli; ammirò numerosi palazzi dei ricchi mercanti della città; scese al porto, al tramonto, a respirare l'aria degli imbarchi, delle spezie, della pece, del pesce fresco arrostito sotto i tendoni, vicino ai moletti. Erano sensazioni che conosceva fin da piccolo: eppure sapeva di trovarsi sulla sponda opposta dell'immenso catino dorato in cui avvenivano quei profumati trasporti: e questo lo stordiva, rendendo il suo momento simile a un sogno.

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Si avvicineranno abbastanza al cancello, si faranno vedere: nessuna ti parlerà. Avranno coperto il viso, come è uso, ma i loro occhi saranno scoperti, e ti guarderanno. E tu li guarderai. Un tremito improvviso prese Gentile. Nascondendolo, disse: — Potente signore, le tue favorite non indossano certo al mattino la veste della notte... Come potrò sapere quali sono gli occhi della bella Amilah? Maometto guardò perplesso il pittore, quasi ad un tratto Gentile gli avesse parlato nella lingua veneziana, e non nella sua. Poi sorrise, e con dolcezza disse: — Come potrai non saperlo, amico mio?

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. — Ora so abbastanza quello che dipingerò, Madurer, — disse dopo qualche tempo, — ma credo che dovremo prendere una decisione. — Una decisione? Quale? — Amico mio, noi abbiamo in mente le montagne, il mare... È certo che queste sono cose troppo grandi: ma non dobbiamo nemmeno accontentarci di immagini piccolissime. Se volessimo dipingere tutto su una sola parete, faremmo un mare ridicolo e delle montagne striminzite... Ci dovremmo logorare lo sguardo: io a dipingere, e tu a vedere... Allora propongo di dipingere tutte le pareti della stanza, in modo da avere piú spazio, e poter distendere lo sguardo su ampie figure. — Certo! — esclamò Madurer. — Anzi, perché non... Si interruppe confuso. — Non frenare le tue parole, — lo invitò Sakumat. — Ma temo che quello che vorrei sia un impegno troppo faticoso per te. — Parla liberamente, Madurer. Ascoltare parole non è faticoso. Per il resto, vedremo. — Ecco, io pensavo... se è vero quello che dici, perché non possiamo dipingere tutte le pareti delle mie stanze? Come se dappertutto ci fosse cielo, capisci? Cosí le figure potrebbero essere ancora piú grandi, e ricche di molte cose... Sakumat pensò, passandosi una mano sulla barba che ormai gli tingeva la faccia di un bruno striato d'argento. — Questa è una buona idea, Madurer. Quanto al tempo per farlo, non abbiamo fretta, vero? Il piccolo sorrise, e non aggiunse parole. — E ora dobbiamo mettere davvero un po' di ordine nel nostro progetto, — disse Sakumat. — Spiegami, Sakumat. Io non capisco di che ordine parli. — Madurer, — disse il pittore, — noi vogliamo dipingere il mondo. E allora occorre che, proprio come accade nel mondo, la pittura passi da una figura all'altra in modo naturale, senza confonderle come i fogli di un libro che il vento ha strappato e mescolato. Cosí lo sguardo sarà come un calmo viaggiatore che va da un paesaggio ad un altro, senza salti o fastidiose interruzioni. Madurer tacque a lungo, pensando. Poi disse: — A volte, Sakumat, io faccio dei sogni: e nei sogni le figure si mescolano stranamente, e si confondono una con l'altra, e si trasformano in continuazione... Dopo una pausa, Sakumat domandò: — Vuoi che dipingiamo le figure come nei sogni, Madurer? Il bambino restò in silenzio ancora. Poi sorrise e disse: — No. Dipingiamo il mondo. Ai sogni ci penso io. Cosí esplorarono le pareti delle stanze come fossero lo spazio dei cieli. Cominciarono a immaginare e distribuire i soggetti della pittura. — Qui faremo il pascolo pieno di fiori profumati... — Sí, Sakumat! Come quello della storia di Mutkul pastore! — Allora, ci metteremo la capanna di Mutkul pastore. Piccola piccola, con il gregge di capre rosse... Erano rosse, vero, le capre di Mutkul? — Si. E ci metteremo anche il cane zoppo, Sakumat? — Certo. — Sarà bellissimo! Però... come faremo a vedere che è zoppo, da lontano? — Forse non si potrà vedere, Madurer. Ma noi vedremo il cane, e sapremo che è il cane zoppo di Mutkul pastore. — E poi, da questa parte, ci saranno le montagne? — Sí. E sotto le montagne ci sarà un villaggio. Lo faremo grande o piccolo? — Non troppo piccolo, ma nemmeno troppo grande, Sakumat. Non troppo grande, perché se no ci prenderà tutto lo spazio. — Spazio ne abbiamo. Lo faremo della giusta grandezza. E ci metteremo anche il minareto. — Con sopra il muezzin che canta? — Naturalmente. Cos'è un minareto senza il muezzin in cima? Un piccolissimo muezzin col naso lungo. — E noi sapremo che ha il naso lungo, anche se sarà piccolissimo! — Dietro il villaggio, prima della roccia, ci vorrebbe un bosco, pieno di volpi e di orsi. — Sí! Ma, Sakumat... — Cosa c'è, piccolo amico? — Mi è venuto un pensiero. Tu hai detto, poco fa, che la pittura come il mondo non deve compiere salti. — Sí, se non vogliamo dipingere le immagini dei sogni... — No, dipingiamo il mondo. Ma allora guarda, Sakumat: qui la parete finisce, e il muro con uno spigolo duro si voha dall'altra parte! — Lo vedo, Madurer, — sorrise il pittore. — Ma allora qui le figure faranno per forza un passaggio brusco! Sarà come se il prato o le montagne, all'improvviso, cambiassero direzione nel cielo, e scomparissero... o come se il mare sprofondasse di là, capisci? — Ho capito, Madurer. Ma credo che a questo non possiamo rimediare. — Perché lo dici? Questi spigoli ci daranno molto fastidio! Io chiederò al burban, mio padre, di fare arrotondare gli spigoli dei muri! Cosí diventeranno morbidi, e le montagne curveranno lentamente, come quando un viaggiatore cammina, e lo sguardo non cadrà all'improvviso nel vuoto. E il mare non sprofonderà. Non sarà meglio, Sakumat? — Sí, sarebbe meglio, credo. Ma credi davvero che il burban accetterà di fare togliere tutti gli spigoli ai muri, Madurer? — Certo che accetterà. Noi abbiamo una buona ragione.

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Ma ho detto abbastanza: parla tu, adesso.

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. — Io ti conosco abbastanza, e le cose che vedo nel tuo cuore, a saperle leggere bene, sono eccellenti. — Vera santità è la tua, Diamante: di quel tipo assai raro, che sa e vuole conoscere e vedere in ogni cosa il buono, — diceva Filippo. — Ma pure mi spiace d'esserti capitato io per esercizio... Su molte cose, in verità, il pio uomo doveva allora chiudere gli occhi, o faticare per trovarne il valore, o praticare pazienza, giacché non mancavano a Prato, come in nessun luogo del mondo per chi le vada cercando, donne da guardare e da desiderare, e a cui lanciare con gli occhi complimenti ed elogi, domande infocate, giuramenti di desiderio, promesse di piacere: e non mancavano quelle che, per scarso calore della vita o di chi la doveva loro scaldare, a tali sguardi esitavan poco a rispondere, incendiate: e da sguardi a messaggi, a incontri, ad abbracci, con Filippo si disponevano a correre, per qualche tratto almeno, la bella via della passione: e poiché quella via assai di rado passava vicina ai luoghi delle pitture, con lento piede avanzavano pale ed affreschi, e lunghe ore di preghiere e di attesa toccavano a Diamante, incerto e pauroso a proseguire da solo i santi e gli angeli che Filippo trascurava. E poiché le cose del piacere restan segrete e protette meglio finché il piacere dura, accadde presto che in Prato si sapesse e dicesse delle gran gioie e corse del frate: e pure se la notizia non nasceva da favorevoli labbra, né si riferiva a cose commendabili, per la misteriosa natura della fama per niente nuoceva, anzi qualcosa aggiungeva al nome del nostro pittore. Né mancarono casi in cui, curiose delle diverse arti, piacenti madonne chiamarono il frate, o convinsero ignari mariti a chiamarlo, per opere previste o impreviste in casa loro: di quelle doti facendo in breve sazievole prova. Ma dall'opera del monastero, come si è detto, Filippo si teneva lontano: certo per una tenace antipatia verso l'aria conventuale, e per propensione di lui a non cacciare in boschi prossimi, quel lavoro era sempre rimandato: sempre si mandava a dire che sarebbe fatto alla fine del corrente, e poi invece si spostava oltre uno nuovo, generato per questa o quella bravura del pittore. Finché accadde che un giorno, di ritorno dalla chiesa di San Domenico, dove eran finite due tavole, andando verso il Ceppo, casa di un certo Francesco di Marco, per accordarsi su un ritratto, Filippo e Diamante furono sorpresi da un temporale di quelli che non si crederebbero se non si vedessero: quelli che si raccontano a lungo, fino ad uno peggiore: che sembrano mandati da Dio per avvertire gli uomini che il gran diluvio non è passato ma solo sospeso, e dunque siano preparati. Colpiti da quel crollo fresco del cielo in mezzo a una piazza, i due frati corsero a tonache alzate a ripararsi sotto uno sporto di bottega, largo abbastanza da proteggere il grosso, mentre vi arrivavano dalla parte opposta, cieche nell'acqua, tre monache in corsa: e ci fu un mezzo scontro, un arruffío di stoffe brune, un ridi e grida da ragazzi sotto quella tettoia. Ma poiché sembrò ai convenuti che l'acqua di fuori fosse peggio che stare lì stretti, e alle monache di non dover temere nulla da quei due servi di Cristo, ridivisi alla meglio in partibus generis, i cinque se ne restarono là sotto, mentre il cielo precipitava a scrosci sul largo selciato, e il mondo si bagnava. Un rimbombo fresco, totale, avvolgeva quella nicchia del creato: un'intimità struggente, da pulcini intanati, mescolandosi ai reciproci odori sollecitati dalla pioggia, regnava nel riparo. Tutti tacevano, senza guardare altro che il fosco sciacquar dell'aria davanti: ma il complessivo respiro, adeguato a ritmo comune, univa i corpi piú di un pieno toccamento: e certo quel contatto sentiva piú chi di corpo ancora era fatto: meno chi, almeno in parte, lo aveva perso o scordato nel passeggio dei chiostri. - Se continuerà abbastanza, - disse Filippo a voce alta per farsi sentire sopra il fruscio violento, rivolto alle teste chine delle monache, - se continuerà abbastanza, tutta quest'acqua se ne andrà per passi e caverne, e scenderà all'inferno, e lo spegnerà! Frate Diamante, alla destra di Filippo, il quale chissà come aveva nel mischio iniziale trovato posizione piú esposta alle donne, abituato alle uscite del compagno, rise in modo convenevole e discreto. Delle tre rifugiate, rise un po' quella vicina a Filippo, però tenendo la testa abbassata, come ridendo d'altro. Quella al centro si chinò a farsi riparo, oltre che del potente sgocciare, del sapore eretico che usciva di bocca al frate sconosciuto. La terza, che nella tresca d'inizio era finita, o stata spinta, piú lontana dai frati, alzò invece la testa a guardare Filippo: e lui la guardò, per nessun'altra ragione che non c'è al mondo cosa migliore da guardare che un volto di donna. Ora v'è chi crede che un uomo da donne, nel senso in cui Filippo era, di quelle senta e prenda comunque e sempre il facile e il leggero: cose degli occhi, di pelle, di polpe, di ventraia: non sappia insomma vedere e desiderare altro che corpo di piacere: il quale, per quanto bene se ne pensi e dica, è delle donne una parte soltanto. Senza discutere troppo questa opinione, diciamo che ogni cosa dipende da quanto quell'uomo sia rimasto uomo, e non divenuto solo, ormai, vogliosa bestia automatica. Filippo era pittore, un poeta d'immagini: quanto basta per mantenere mente ed anima capaci di viste e desideri alti, complessi, e anche sublimi. Persino in quelle sue opere giovanili meno destinate alla Musa che alla foia dei guardatori, pur accettando la regola triviale dei soggetti, egli l'aveva giocata con tali arguzie e qualità di figura, che se quei lavori, nati nascosti e poi chissà come dispersi, fossero ancora noti, non nutrirebbero meno degli ufficiali le sapienti chiacchiere dei critici d'arte. Dopo la premessa, il fatto: sotto quella tettoia di bottega, davanti a quel diluvio di Calvana, in quel fumo d'acqua saltante e monaci avvaporati, ciò che Filippo vide nel volto della novizia non fu cosa che potesse dimenticare né subito né mai: e lo lasciò a bocca proprio aperta, occhi fissi, respiro interrotto e cuore in capriola. Piú che la sola bellezza, straordinaria davvero, non avendo lei alzato lo sguardo per vedere che tempo faceva, ma curiosa di colui che pronunciava simili frasi sull'inferno, e parlava del suo spegnimento, gli occhi verdi e la bocca tornita mostrarono un sorriso, piú annunciato che vero, subito spento alla vista dello sguardo del frate: ma non talmente in fretta che lui non lo cogliesse, e diventasse innamorato. Giacché se all'uomo comune basta a volte un lungo sguardo per farsi invadere l'anima da una donna, a un pittore come Filippo assai meno occorreva: e fu lei a respingere il getto d'estasi meravigliata di lui, abbassando faccia e capo come avevano le ritrose sorelle. Fu un breve scroscio, ma un attimo assai lungo. Fra Diamante sotto il cappuccio; Filippo a guardare, sopra due simili, una testa velata di nero, che conservava nella posizione china un tremolio di fuggitiva, l'ostinazione allertata di chi si nasconde. Poi l'acqua d'improvviso calò. Prima fra tutte la monaca piú alta allungò il piede e si avviò fra le pozzanghere, mentre le altre due, sorprese da quella solerzia che loro toccava, dopo un'incertezza la seguirono, sollevando con le mani solo di mezza spanna i lembi della tonaca. Filippo lasciò passare un momento, poi uscì allo scoperto e prese la strada dietro a quelle. — Fratello mio, — disse Diamante, arrivando con passo affannato a toccargli il braccio. — Buon Filippo, non era dall'altra parte che stavamo andando? — Prima sì, — disse il pittore. — Ma ora, dovunque sia, si va da questa parte.

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Al centro, ancora abbastanza lontano e in posizione raccolta, un villaggio di pietra bianca godeva la freschezza di un boschetto di cedri che spiccava come un dono di Dio alle sue spalle. Tra villaggio e bosco, piú bianco ancora del resto delle costruzioni, sbalzava un esteso palazzo, grande come il maggior palazzo di Malatya, e forse anche di più. Attraversata la zona coltivata e le strade del villaggio, Sakumat fu condotto all'interno del palazzo. Ammirò il ricco silenzio che vi regnava, le porte in legno di cedro con disegni dorati e le giubbe di velluto perlato dei servi. Fu poi accompagnato in una stanza fresca e spaziosa, con la grande finestra a strapiombo sulla muraglia dalla parte del villaggio: da li, con un solo sguardo, si dominava la conca semifertile dell'altopiano, fino al cerchio di cime che lo chiudeva. Fu annunciato il signore di Nactumal. Entrò un uomo alto, della stessa età, apparentemente, del pittore, ma dai capelli corti e quasi bianchi. Folti baffi scuri gli spiccavano sul volto come il frutto di un'altra seminagione. — Tu sei il benvenuto nella mia terra e nella mia casa, — disse il burban. — Ti ringrazio di aver accettato l'invito, cedendo all'insistenza del mio uomo. Se io fossi buon ospite, come dovrei, ti avrei lasciato riposare questa sera, e tutta la notte, preoccupandomi soltanto del tuo benessere... Avrei rimandato a domattina questa conversazione. Ma l'ansia mi preme nel petto, e la domanda che devo farti non vuole stare quieta, come un cavallo giovane e forte. E io credo che mi ballerà nel cuore tutta la notte, se non avrà il fieno della tua risposta. Sakumat sorrise e si inchinò lievemente. — La tua ospitalità è perfetta, signore, — disse. - Quanto alla tua domanda, avrà da me una risposta leale. E se proprio mi sarà impossibile dartela subito, avrò in questo modo la notte per pensarci: e avremo dunque guadagnato tempo. Ora fai la tua richiesta, signore, perché dal modo in cui si annuncia mi sembra diversa da quelle che di solito ricevo, e muove un poco la mia curiosità. Anche il burban sorrise, e sedette sul tappeto della stanza, grande come quello di una moschea. Davanti a lui sedette Sakumat. — Io ho un solo figlio, molto giovane, di nome Madurer, — disse il burban lentamente. — Egli è malato di una strana malattia: ogni parte di sole e di polvere gli è nociva. Gli occhi si gonfiano, il respiro si fa affannoso, la pelle si riempie di chiazze e addirittura si piaga. Egli non può vivere all'aria aperta, e correre e giocare nel giardino del palazzo, come fanno i figli dei miei servi. Non soltanto: non può abitare una stanza come questa, per la cui finestra passa libera ed abbondante la luce e l'aria delle montagne. Tutti i medici di Turchia che possono vantare scienza e sapienza sono venuti in questa casa: tutti mi hanno spiegato, superandosi in bravura, la natura misteriosa e incurabile del malanno. Alcuni hanno sentito di simili casi in altri luoghi, o altri tempi. Alcuni parlano di sostanze nocive che il corpo di mio figlio assorbe dall'aria, e che la luce rende piú potenti. Ma quali siano queste sostanze, e come si possa difendere il mio figliolo, non sanno. Tutti hanno consigliato fermamente che Madurer viva nella parte interna e piú riparata del palazzo, che respiri un'aria filtrata da strati di garza umida, non abbia finestre o luce diretta, ma solo quella mandata nelle sue stanze da lucernari. Cosí accade: da più di cinque anni, da quando si manifestò la sciagura, mio figlio non, è mai uscito da questa casa, né gli è dato godere da una finestra lo spazio della vallata e la luce del sole. Nemmeno è consentito che nelle sue stanze siano messi piante o fiori, o semplici tralci di vite per ornamento, perché terra e pollini o la sostanza stessa dei vegetali gli sono nocivi. Dopo aver parlato guardando negli occhi Sakumat, il burban abbassò il capo e tacque a lungo. Anche il pittore taceva, e aspettava. Ganuan alzò la faccia, e disse: — Ora ho pensato di abbellire le stanze di mio figlio con figure e colori. Ho sentito parlare di te da mercanti e cacciatori di passaggio: per questo ti ho mandato a chiamare. Non avrai da lamentarti della mia ospitalità e del compenso, quando te ne andrai. Ti prego di accettare. Il burban guardava di nuovo gli occhi di Sakumat, e respirava profondamente. La sua mano destra, forte e scura, stringeva la cintura di pelle borchiata come si stringe la briglia di un cavallo ribelle. — Posso farti una domanda, signore? — disse il pittore. — Tutta la mia attenzione è tua, e tutta la verità che conosco sarà nelle mie risposte, — disse il burban. — Cosa desideri che io dipinga nelle stanze del tuo figliolo? — A questo non ho pensato, con precisione, — disse il burban, — lo decideranno la tua arte e il tuo pensiero. — Ecco un'altra domanda. Come è l'anima del tuo figliolo? La sua sorte, dura per un bambino, lo rende infelice? E il suo volto e il suo corpo, come si potrebbe immaginare, sono inerti e chiusi, simili alle piante che non ricevono luce? Il burban socchiuse gli occhi per un istante. La mano sulla cintura si rilassò. — A queste domande non risponderò, amico mio, — disse, — non perché non voglia: ma le parole di un padre non sono le piú adatte per parlare del figlio. Sentendole, tu non potresti fare a meno di pensare quanto è grande l'illusione, e quanto è bugiardo l'affetto. Ma poiché, se non mi inganno, hai generosamente accettato la mia preghiera, la risposta te la daranno direttamente il corpo e il volto e l'anima del mio figliolo. Tu stesso vedrai.

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Io li maneggio con molta attenzione, ma forse non abbastanza per la sua delicatezza. — Non temerlo, amico mio, — rispose il burban, — non ci sono segni diversi in questo suo malore, e nemmeno è precoce: anzi è questo il piú lungo intervallo tra le crisi che abbiamo potuto misurare. Del resto, a suo tempo mi informai su questa possibilità, e tutti l'hanno esclusa. I tuoi colori sono per mio figlio solo fonte di contentezza. Fu come il burban aveva previsto. Nei giorni seguenti, pur restando a letto senza forze, Madurer non mostrò piú segni di sofferenza. Negli intervalli dei lunghi sonni quieti, in cui passava quasi metà del giorno, riprese i suoi colloqui con il pittore. — Ora c'è da dipingere la terza stanza, Sakumat... — Sí. Come la dipingeremo? — Ci penso molto. Sto prendendo una decisione. — Ma non c'è fretta, piccolo amico. Tu sei stanco, e un poco anch'io. Non ci sarà nessuna conseguenza cattiva se interrompiamo per qualche tempo il lavoro. — Sí, certo. Ma il pensiero non mi costa troppa fatica: e allora ci penso. Il bambino chiese di trasportare il suo letto nella terza stanza, dalle pareti ancora intatte. Le guardava a lungo, in silenzio, tenendosi una mano davanti alla bocca con atteggiamento grave. — Posso conoscere un po' dei tuoi pensieri, Madurer? — chiese Sakumat qualche tempo dopo. — Ecco, io... Non sono proprio dei pensieri, Sakumat: sono come dei desideri, dei desideri di immagini che lottano fra loro... Immagini in contrasto nel mio pensiero. So che una vincerà, ma è ancora presto per sapere quale. — Non vuoi parlarmi di queste immagini, Madurer? Forse, con le parole, sarà piú facile decidere. Ma il bambino si era di nuovo addormentato. I suoi riposi, densi come possono essere solo quelli che seguono le grandi stanchezze, non duravano meno di un paio d'ore. Sakumat usciva allora da palazzo e montava il suo vecchio cavallo. Attraversava al passo il villaggio, guardato con mutissima curiosità dalla gente, che sapeva qualcosa della sua presenza presso il burban. Quando il pittore, a quelli che piú arditamente sollevavano verso di lui la faccia, accennava un saluto, provocava inchini e timide ritirate. Fuori dal villaggio lanciava il cavallo ad una andatura piú energica, senza mai spingerlo alla corsa. Sentiva, piú che nel corpo consumato della bestia, nel proprio la pesantezza dei mesi passati a dipingere, e faticava a ritrovare l'agilità e il gusto della cavalcata, che sempre aveva avuto. Tuttavia insisteva, lasciando che lo sguardo corresse attorno molto piú veloce del cavallo, a urtare in silenzio i larghi fianchi pietrosi della vallata, la cui immagine tornava come un'eco spogliata, continua e nitida. E gli sembrava di notare pietre e spazi e tinte con nuova precisione: di sapere, in qualche modo, prevedere le cose che il paesaggio poco a poco svelava... Al ritorno trovava quasi sempre il bambino addormentato, e attendeva accanto al letto il suo risveglio. Se Madurer tardava a svegliarsi, camminava a lungo accanto alle pareti delle stanze dipinte e con lo sguardo ripassava ogni ricchezza delle pitture, ogni segno lasciato dai giochi pensosi fatti assieme al bambino.

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. — Sai, Sakumat, prima avevo pensato di fare il mare anche nella terza stanza, — disse Madurer, descrivendo con la mano una linea orizzontale, — perché il mare è grandissimo, e non ce n'è mai abbastanza. Pensavo che ci avremmo messo qualche isola, e altre navi: era un progetto che mi piaceva. Avremmo potuto metterci anche i delfini e i pesci spada, e anche il balzo della balena. Avremmo potuto fare un mare cosí, non è vero? — Certo. — Poi però, immaginandomi la figura, mi veniva una specie di insoddisfazione, e pensavo che, non so come, anche se di mare non ce n'è mai abbastanza, tutto quel mare sarebbe stato troppo. Il mare ha... troppa lontananza. È troppo pieno di lontananza, capisci? — Credo di sí, Madurer. Davanti al mare gli occhi non sanno stare fermi; il piede si stanca dell'immobilità. Credo di capire che cosa sentivi. E allora? — Allora mi è venuto all'improvviso, cosí, un pensiero nuovo: un'immagine di qualcosa come il mare, ma con meno lontananza. Una cosa grande, ma vicina. — E qual è l'immagine, Madurer? — È un prato. Con l'erba e i fiori. Non come quelli che abbiamo fatto sulle montagne e le colline, però. Quelli sono visti da lontano. Io vedevo un prato con erba e fiori molto vicino. — Un prato grande e vicino, — ripeté Sakumat. — Si, come un mare, ma vicino, capisci? Tutto intorno, in modo da esserci in mezzo. Di essere dentro. — Cosí dipingeremo un prato, Madurer. — Ma c'è una cosa. C'è una cosa che ti devo dire... Però ora ho molto sonno. Te la dico dopo, Sakumat. Qualche volta, durante le attese, il pittore non uscva dal palazzo. Percorrendo corridoi e scale, per i quali aveva assoluta libertà di movimento, raggiungeva una torre non altissima ma decisamente piú elevata di ogni altra costruzione del villaggio, e guardava il volo degli uccelli. Li guardava cosí a lungo e attentamente che, tornando nelle stanze di Madurer, e trovandolo ancora addormentato, disegnava su grandi fogli di pergamena la traccia di quei voli, in larghi scarabocchi a nessun altro comprensibili. Poi piegava i fogli, e li riponeva nel basso scaffale della prima stanza. Spesso, al risveglio, come se durante il sonno avesse vissuto una curiosità, Madurer chiedeva che il letto fosse spostato da una all'altra delle stanze dipinte, oppure orientato diversamente, in modo da aver di fronte ora le montagne, ora la pianura e la città assediata, o le colline deserte, o la nave pirata nel suo mare cangiante, o il puro orizzonte marino. — Cosa mi volevi dire sul nuovo prato, Madurer? - chiese Sakumat. — Sarà bellissimo, vero? Io lo penso bellissimo. — Credo che sarà bello. Facciamo buone cose, di solito, tu ed io. Ma avevi qualche altra cosa da dirmi, ricordi? — Sí. Non è molto facile. Non vorrei che fosse troppo faticoso, per te. Sakumat sorrise e aspettò senza parlare. Il bambino riuní le mani sulla coperta, appoggiandole quietamente sul ventre. Era uno degli atteggiamenti di Sakumat, e spesso, volendo o no, Madurer li imitava. — Ricordi la nave, quando arrivò? — disse. — Certo che la ricordo. — Voglio dire, ricordi che si fece vicina a poco a poco? Al principio c'era quel puntino lontano, e non sapevamo nemmeno che era una nave... Sí, ricordo bene. — Poi diventò grande, e cosí si vedeva che era una nave. — Sí. Prima viaggiava solo di notte, — sorrise Sakumat, — poi decidemmo di incoraggiare la ciurma... Il bambino aveva la fronte corrugata, come per uno sforzo. Sakumat tacque, e aspettò. — Io vorrei che anche per il prato fosse cosí, — disse Madurer tutto d'un fiato, aprendo un poco le dita sulla coperta. Sakumat alzò un sopracciglio. — Se penso che vuoi una nave che arriva lentamente sul prato, penso giusto o sbagliato? — disse. Madurer rise. Si sollevò nel letto e si appoggiò ai cuscini. Ormai era tornato abbastanza in forze, e la carnagione, naturalmente non troppo colorita, aveva perso tuttavia il pallore della malattia. — Sbagliato! Volevo dire che mi piaceva moltissimo vedere la nave avvicinarsi. E anche il prato, mi piacerebbe vederlo crescere piano piano. — Vuoi che lo dipinga lentamente? — No... Vorrei proprio che fosse un prato che cresce. Prima con l'erba corta, poi più lunga... Prima i fiori, come si dice, acerbi? E poi maturi. Capisci? — Adesso ho capito, — disse Sakumat. — E si può fare? — Sí. Ma ci vorrà tempo. — Prima delle montagne dicevi: «Abbiamo tutto il tempo, Madurer!» — fece il bambino, tentando di imitare la voce del pittore. — È vero. Abbiamo tempo, — disse adagio Sakumat, — tutto il tempo che ci è dato, l'abbiamo. — Puoi chiamare i servi, per favore? Vorrei far portare il letto nella terza stanza. Voglio dormire li, mentre cresce il prato. Anche tu ci dormirai? — Mmh... Alla mia età, un prato può essere troppo umido, di notte, Madurer! — fece Sakumat. — Ma visto che il prato crescerà lentamente, forse mi potrò abituare. Quando, piú tardi, venne il burban a trovarlo, il bambino parlò a lungo con lui del nuovo progetto. Il padre disse che era una splendida idea. — Nemmeno il burban di Ankara ha un prato in casa! — disse. Poi Madurer si addormentò. — Amico mio, quanto tempo occorrerà per dipingere il prato, come lui vuole? — chiese il burban a Sakumat. — Come vuole lui... almeno quattro mesi, signore. Forse cinque. — E questa è l'ultima stanza. Quattro mesi sono sufficienti... — disse Ganuan. — Posso chiedere sufficienti a cosa, signore? — Ad allargare l'alloggio di mio figlio. Chiudere le finestre, abbattere i muri delle stanze vicine. Non rom- però il prato. L'ingresso potrà essere nella stanza delle montagne. Ah, tuttavia... Il burban si interruppe, confuso, e guardò il pittore. — Scusami, amico mio, — disse, — parlo come se il tuo corpo e la tua mente fossero i miei. Sakumat sorrise. — Il mio corpo e la mia mente sono ben vivi, e in mio possesso, signore. Non c'è un solo istante del tempo che passo in questa casa che non sia da me voluto ed amato. Ci fu un breve silenzio. — Ho notato, amico mio, che da quando sei giunto, ed è ormai molto più di un anno, hai lasciato crescere la tua barba, — notò il burban in tono leggero. — Quando arrivasti eri poco più di un giovanotto dal volto liscio. Ora la barba ti fa piú solenne. Per quanto tempo ancora crescerà? Non temi che i tuoi amici non ti riconoscano, quando ti presenterai a loro? — Signore, io dirò loro: «Eccomi qui, sono Sakumat! Sono io, il vostro amico! Vi piace la mia lunga barba?» E ai miei amici piacerà. E forse, il piú scherzoso di loro me la tirerà con affetto. Ganuan sorrise. — Il tuo cuore è grande, amico mio e fratello. — Signore, — si inchinò Sakumat, — io te l'ho detto: sono qui per la mia gioia.

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Cioè, abbastanza stanco. Madurer alzò la faccia e disse con aria solenne: — Il tempo passa per tutti, padre mio. — Certo, — disse Ganuan, e levò lo sguardo dal figlio, per osservare altre parti del paesaggio. — Vedo laggiú un'altra novità, — disse, — non c'era neve su quelle montagne, mi pare... — Infatti. Si avvicina l'inverno, — rispose Madurer, — gli orsi sono già entrati nelle grotte per dormire. Con la mano mostrava al padre i mutamenti. Indicò il colore del bosco, meno verde di prima: vaste zone erano coperte da una tinta giallo bruna, e piú in basso l'erba dei prati era a tratti bruciacchiata dal freddo notturno. — Lassú, vedi la caverna, sotto la roccia? Sí. È nuova anche questa? — Prima era coperta dagli alberi. E vedi il testone dell'orso? — Questo? — No, quella è la roccia. Un po' piú in basso... Ecco! — Sí, questo è l'orso. Bisogna guardare attentamente, per vederlo. — E l'ultimo orso che va in letargo. Ha mangiato moltissimo, negli ultimi due mesi: bacche, noci, miele, frutta, e persino formiche! — Persino formiche? — Sí, padre. Gli orsi mangiano tutto. — Allora ha la pancia piena. — Grossa cosí! — e Madurer imitava ridendo la gonfia andatura dell'orso ghiottone. Poi sedette sui cuscini e continuò: — Lo ha preso una grande sonnolenza, capisci? Ora va nella grotta a dormire per tutto l'inverno. — Però adesso è ancora sveglio, — disse il burban, sfiorando con le dita l'ombra dell'orso nella caverna. — Non dorme ancora. Ogni tanto fa due passi fuori, e sgranocchia qualche ramoscello. Ma soltanto per golosità, perché ha già la pancia pienissima. Respira, e fiuta l'inverno. Poi, fra poco, entrerà nella tana e ci resterà per molti mesi. Ma prima farà un bel mucchio di rami secchi davanti all'ingresso, per ripararsi dal vento, mentre dorme. Il burban guardò intorno, stordito. Disse: — Non fa freddo qui, vero? Vuoi che faccia accendere il fuoco? — No, padre. Non fa freddo, — rispose Madurer, — è solo un po' meno caldo, perché l'estate è passata. Ma non occorre il fuoco. Tutto il paesaggio della prima stanza era mutato: non in modo vistoso, ma in ogni particolare. Al posto del carro di Talya che andava con la sua tenda azzurra verso la pianura, c'era adesso un carro dalla tenda marrone che due buoi trascinavano verso la montagna. Nessun cavallo era legato dietro il carro, ma due grossi cani pelosi trotterellavano accanto alle ruote. La città nella pianura non era più assediata. Attorno alle mura, presso il grande portale spalancato, si vedevano piccole baracche di mercanti. Rimpicciolito, vicino ad una tenda azzurra da nomadi, c'era il carro di Talya: e la piccola, quasi invisibile, che si esercitava ai salti acrobatici. — Come è finito l'assedio, Madurer? Il bambino invitò il padre a sedersi accanto a lui. Poi prese a raccontare: — È finito in un modo abbastanza strano, e anche divertente. Devi sapere che il capo degli assedianti, il re Ras-Patay, si ammalò d'impazienza dopo tre anni di assedio: si ammalò tanto che mori. Alla sua morte non c'era più motivo di assediare la città, e cosí le truppe dovevano andarsene: però diventò Re il principe Njulabey, figlio del morto. Il principe, ricordi?, era quello che mandava con il piccione il messaggio d'amore alla principessa assediata, che si chiamava Mutihah, e ora che era Re non se ne voleva andare, perché se partiva l'avrebbe persa. Però non poteva nemmeno restare li senza combattere, senza continuare l'assedio, perché i suoi generali, a stare con le mani in mano, si sarebbero offesi. Allora cosa fece Njulabey? Si incontrò di nascosto sotto un albero di prugne con la principessa Mutihah, e si misero d'accordo per fare un bambino. Il giorno dopo il principe, che adesso era Re, chiama i suoi generali e dice: «Chi mi può impedire di rinunciare ad essere Re?» «Nessuno, Re Njulabey: ma ci vuole un erede!» «L'erede c'è». «Dov'è?» «È nella pancia della madre, la principessa Mutihah, bella come il sole di maggio e mia eletta, al caldo e al comodo. Uscirà fra nove mesi, e credete voi che sarà contento, quando nascerà, di nascere in una città assediata dai propri generali?» Cosí, padre mio, quei generali furono messi a tacere, e l'assedio fini. — Un trucco davvero astuto, — sorrise il burban, — e poi nacque il bambino? O fu una bambina? — Un bambino: eccolo lassù! — indicò Madurer. - Lo vedi, sulla torre più alta della città? Si chiama Nakutad. — Ma è già un bambino grande. — Certo. E nato da più di dieci anni. Ha un cannocchiale, vedi? È per guardare le stelle. — Lo vedo. Ma le stelle dove sono? Madurer mise un dito davanti alla bocca, come per rivelare un segreto. — Presto Sakumat dipingerà la notte, padre, come sopra il prato, — disse a voce fervida. — Ora il sole, laggiù, sta tramontando. Poi faremo il buio, piano piano, e poi le stelle. Cosí il piccolo Re le potrà guardare. Potrà guardarle quanto vorrà, anche fino al mattino, perché è un Re e nessuno può mandarlo a dormire.

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. — Qui ogni cosa è tua, né io conosco questa casa abbastanza da saperti offrire qualcosa, come ad un ospite conviene... — Godiamoci dunque senza altre preoccupazioni la stupenda luna, che non appartiene a nessuno, eppure si mostra a tutti con la meravigliosa intimità di una sposa, — disse Maometto, avvicinandosi al pittore, e voltandosi accanto a lui verso il quieto e vasto luccichío dei Dardanelli. L'uomo vestito di nero, ombra silenziosa, rimase alle loro spalle, immoto. — Il mio accompagnatore non è muto, — disse l'Imperatore, — ma è come se lo fosse. Non è sordo, ma è come se lo fosse. È piú fedele a me di quanto sia la mia stessa mano: e della mia mano è anche piú saggio e preciso. Non inquietarti per la sua presenza: egli è solo in certo modo presente. Gentile tornò a guardare la luna. Anche Maometto, accanto a lui, la guardò per un lungo momento: come se lassú ci fosse, svelabile allo sguardo, il modo giusto per dire le parole.

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L'idioma gentile

208863
De Amicis, Edmondo 3 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
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PESUCCHIARE, per pesare abbastanza. Questo bambino non pare; ma PESUCCHIA. PETTATA, salita piuttosto forte: fare una pettata. - PETTEGOLATA, azione da pettegoli; bada: non pettegolezzo. PRENDERE PER IL PETTO uno, fargli violenza. Un piacere lo fo; ma non voglio esser PRESO PER IL PETTO. - PIACCICHICCIO. Con questo PIACCICHICCIO di fango, non si cammina. - PIACCICONE, PIACCICONA, chi fa le cose lentamente. - PIPA, per naso grosso.... altrimenti Nappa, che è la napia del nostro dialetto.... A proposito di Piaccicone, è da notarsi il gran numero di parole comprese nella sola lettera P, le quali definiscono il carattere, l'aspetto, il modo di moversi e d'operare d'una persona; tutte occorrenti spessissimo, in special modo nel linguaggio parlato. Per esempio: - Quel PALLIDONE d'Eugenio. - Se tu dici invece: quella faccia pallida, noti fai capir così bene che Eugenio è pallido sempre, naturalmente. - PANCETTA, chi ha la pancia grossa. Maestro Pancetta; scherzoso, ma non impertinente. - PAPPATACI, chi soffre, mangia e tace. - PEPINO, è un PEPINO, di ragazzo o donna, arguta e frizzante. - PETECCHIA, uomo spilorcio. - PIDOCCHIO riunto, rivestito, rifatto, rilevato, ignorante arricchito e superbo. - PISPOLETTA, PISPOLINO (da pispola, uccello cantatore), donnetta vezzosa, o ragazzo o bambino piacente: E ne tralascio molte altre, che vedremo un' altra volta, per finir con Puzzone, persona che puzza, e anche persona superba. Tirati in là, punzone, che mi mozzi il fiato. Che si crede d'essere quella puzzona? - E poichè si parla di puzzo, nota com'è detto bene di persona senza sentimenti e senza idee: - SENZA PUZZI E SENZA ODORI; che si potrebbe riferire anche a scrittori e a libri corretti, ma vuoti e freddi, che lasciano nel lettore.... il tempo che trovano. E ora, per riprender fiato, un'altra occhiata alla

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Ma non sarai mai abbastanza persuaso di questa verità: che non si studia con amore, che non s'impara bene nessuna lingua straniera, se non s'è prima studiato con amore e imparato bene la propria; poichè, se imparare una lingua straniera non è altro che imparare a tradurre in questa i nostri pensieri da quella che usualmente parliamo, come si può fare una buona traduzione d'un cattivo testo? Come riuscire a dir con esattezza e con garbo in un' altra lingua quelle cose che non sappiamo dire se non confusamente e senza garbo nella nostra? E in che maniera intendere e sentire le qualità degli scrittori stranieri, se queste, in qualunque lingua, non s' intendono e non si sentono se non paragonando le parole, le frasi, le forme a quelle che loro corrispondono nella lingua che ci è famigliare? E ti seguirà anche questo: che mentre non imparerai che male altre lingue, ti si corromperà e confonderà nella mente quel poco che sai della tua, perché, essendo poco e mal fermo, non reggerà il materiale straniero che gli verserai sopra, e ti troverai così ad aver acquistato varie mezze lingue, senza possederne una intera; sarai come chi a un vestito tutto buchi ne sovrapponga un altro pieno di strappi, che rimare mezzo nudo a ogni modo. Dammi retta: fatti prima un buon vestito italiano.

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Ma abbiamo altri difetti di pronunzia, dei quali i libri non ci possono correggere, come quello di triplicare spesso le consonanti per timore di non far sentire abbastanza le doppie, come usano i nostri burattinai quando fanno parlare i personaggi terribili: ferrro, guerrra, sconquassso, trapassso; di raddoppiare l'r in nero, fiero e simili, per rafforzarne il significato; di non far sentire l'sc nelle parole come scendere e scempio, che pronunziamo sendere e sempio; di pronunziare la doppia n faucale, come nel dialettale laña, luña, nelle parole donna, ginnastica e simili; di raddoppiare la c in molte parole dov'è semplice, come bacio, cacio, mendacio, e di metter la g in molte dove non entra (la povera Amaglia non sa gniente), e di sopprimerla in altre dove dev'esser pronunziata (sua filia li tien compania). Ma perché quell'atto d' impazienza?... Ho capito. Ti pare ch'io, metta alla berlina della cattiva pronunzia la nostra cara provincia, e questo ti dispiace. Ma non temere. Nessuno dei tuoi fratelli italiani ti lancerà la prima buccia di mela, perchè hanno tutti coscienza d'esser grandi peccatori. Oltre che parecchi dei nostri difetti di pronunzia sono comuni a varie regioni d'Italia, ciascuna ne ha altri suoi propri, che stanno a paro coi nostri peggiori. Rassicùrati. Non ti canzonerà il milanese che allarga l'e senza discreziune e converte, in u le o finali, e pronunzia l'u alla francese cont una frequenza lacrimevole; nè il genovese che muta in ou il dittongo au, dice aritemetica per aritmetica, e fa strage delle z; nè il tuo fratelo veneziano che di tutti i cittadini dell'aregno d'Italia è il più indomabile ribelle alla leie della doppia consonante. E il bolognese sostituisce l'e all'a nella finale dell'infinito dei verbi, fa rimar Roma con gomma, toglie la z alle ragaze, fa scomparir le vocali quanto pió gli è possibile; e il romano ti dice che lo interressano le notizie della guera, che le sue crature son ghiotte delle brugne e ch'egli ha un debbole per i fonghi; e il napoletano.... No, non darà la baia al piemondese il napolitano, che muta il t in d dopo l'n, che pronunzia inghiostro e angora, e mobbile e doppo; e neppure l'abruzzese che distende il dittongo uo in maniera da attribuire a ogni buono una bontà infinita, e mette fra due vocali un suono gutturale aspirato: non ti burlerà neppur per idega. E neanche il siciliano sarrà fra i tuoi canzonatori, egli che cangia in ea il dittongo ia e in u tante o e che dà all's davanti alle consonanti il suono dello sh inglese, e ficca cossì spesso l'i fra il c e l'e, anche chiamando la Concietta del suo cuore; e nemmeno il sardo, che nel raddoppiar la consonante dove è semplice, e scempiarla dov' è doppia, non la cede a nessuno. Intesi appunto ieri note due proffessori che discuttevano su quest'argomento. * Dunque, stùdiati di correggere la tua pronunzia. Ma pronunziar le parole corrette non basta. Il nostro parlare manca generalmente d'armonia e di speditezza perchè non facciamo abbastanza troncamenti e elisioni, perchè diciamo una quantità di vocaboli e di sillabe superflue, che allungan le frasi e rompono l'onda armonica e c' impacciano la lingua. Sono, ciascuna per sè, superfluità minime e durezze appena sensibili; ma che quando s'affollano, come segue spesso, in un breve giro di parole, fanno un brutto sentire. Se, per esempio, in un periodo, dove t'occorra di dire: gl'impeti d'amore, l'ha detto senz'arrossire, m'ha fatto girar la testa, quell'ingrato, un alfranno, quella gran virtù, in un mar di guai, non facevan nulla, non m'accorsi in tempo, per la qual ragione, tu non tronchi e non elidi nulla, e dici invece: gli impeti di amore, lo ha detto senza arrossire, mi ha fatto girare la testa, quello ingrato, un altro anno, quella grande virtù, in un mare di guai, non facevano nulla, per la quale ragione, tu senti che il tuo parlare riesce assai meno armonico e sciolto che nell'altra forma. Ed è singolare che, mentre riusciamo duri nel parlare per non far troncamenti e elisioni dove potrebbero farsi, riusciamo spesso egualmente duri in più d' un caso, in cui, in luogo di togliere, aggiungiamo appunto per evitar la durezza, come nel dire: fanciulli ed adolescenti, scrissi ad Edvige o ad Edgardo, selvatici od addomesticati. Bada a tutte queste piccole cose, e se vuoi avere una buona norma, prendi l'edizione del romanzo I promessi sposi, dove è raffrontato il primo testo con quello corretto nel 1840. Il Manzoni, nel troncare e nell'elidere, s'è attenuto rigorosamente alla norma del parlar fiorentino; e si potrà discutere sulla sua idea, che la lingua parlata a Firenze debba esser la lingua di tutti; ma non sul fatto che l'uso fiorentino, per ciò che riguarda l'armonia del discorso, si possa seguir da tutti fedelmente, senza timor di sbagliare. Bada all'armonia nelle due edizioni comparate del romanzo, e ci troverai un insegnamento utilissimo a scansar nel parlare ogni ridondanza e ogni durezza di suoni. * Un'altra cosa. Ciascun dialetto è parlato con certe intonazioni, modulazioni, cadenze, strascicamenti di voce e raggruppamenti di suoni, che noi, quasi tutti, facciamo sentire anche parlando italiano, e che dànno al nostro italiano il colorito musicale, per dir cosi, del dialetto medesimo. Dirai che questa musica dialettale essendo naturale in noi, noi non la sentiamo, e quindi non possiamo liberarcene. No : la sentiamo, chi più chi meno, perché mettiamo in canzonatura chi la esagera. La sentiamo in ogni modo quando udiamo parlare italiano uno della nostra regione con uno d' un' altra, perchè, anche non conoscendolo di persona, lo riconosciamo dei nostri: Ebbene, quando questo t' accade, osserva le modulazioni e le cadenze a cui lo riconosci, e t'avvedrai che sono proprie a te pure. E non pensare che perché tu non le avverti abitualmente o non ti riescono sgradevoli, non siano sentite dagli italiani delle altre regioni, o non riescano sgradevoli neppure a loro. Tanto le sentono che non son pochi quelli che, pure non comprendendo il nostro dialetto; ci rifanno il verso per modo che noi stessi ci riconosciamo nella caricatura; la quale essi non farebbero se la nostra musica dialettale non li facesse ridere. Ora, ogni volta che ti segna un caso simile, sta' bene attento, ché ti può molto giovare. Io mi corressi di certe intonazioni del dialetto udendo un attore toscano che imitava mirabilmente il modo di recitare d'un celebre attore piemontese, perchè sentii la prima volta in quella imitazione nelle intonazioni, come un'eco della mia voce. E credi che non riuscirai a pronunziar bene l'italiano fin che non ti sarai liberato di questa specie di melopea vernacola, perchè è quella che ti fa forza, in certo modo, nella pronunzia viziosa delle parole, che quasi ti costringe, senza che tu te n'avveda, a pronunziare ciascun vocabolo all'uso dialettale, in maniera che suoni in tono con essa. Fa a questo caso il proverbio francese, che dice: è la musica quella che fa la canzone. Un mazzetto di consigli, per finire. Avvèzzati a leggere a voce alta scolpendo bene le parole, Quando vai al teatro, sta' attento alla pronunzia degli attori che pronunzian bene, e paragonala con quella di quegli altri attori, dei quali riconosci il dialetto nativo. Fa' attenzione al modo di pronunziare di tutti quegli italiani, dei quali non ti riesce di capire in che parte d'Italia sian nati. E non dar retta ai pigri che ti dicono: - tempo perso; a nascondere il dialetto nella lingua non si riesce. - Non è vero, e non è tanto difficile riuscirvi. Tutte le regioni d'Italia, anche quelle dove si parla un dialetto più dissimile dalla lingua, dànno oratori forensi e politici, attori drammatici, conferenzieri, professori, conversatori, che pronunziano l'italiano perfettamente, o quasi; nei quali non si sente indizio alcuno dei loro propri dialetti. Fa' il proposito di riuscire a questo tu pure, ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar l'italiano da italiani, e induci a farlo anche le signorine di casa tua; poichè io m'immagino che tu abbia delle sorelle, una almeno. E poichè me l' immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei di pronunziar meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini ed elastici; perchè a che serve avere la voce dolce se la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d'Italia vedrà molte volte degli stranieri, che l'avranno riconosciuta italiana, porger l'orecchio per raccoglier dalla sua bocca la musica decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di buona pronunzia, perchè la può fare senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come un fiure, o splendida come una stela, o seducende come una dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano, non fanno di quella bella pronunzia che una caricatura stucchevole.

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Il libro della terza classe elementare

211065
Deledda, Grazia 3 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Una sera mi capitò di leggere un aneddoto abbastanza conosciuto. Voglio raccontarvelo. I ragazzi si fecero attenti. - Un giovane andò da un grande banchiere e gli chiese di essere accolto nei suoi importanti uffici. Il banchiere, con belle parole, gli rispose che non vi erano più posti: ma, affacciatosi per caso alla finestra, vide che il giovane per la strada si era curvato a raccattare qualche cosa. Lo fece richiamare. - Che cosa avete raccolto? - gli chiese. - Una spilla. Il banchiere rimase un momento soprapensiero: poi disse: - Voi avete molto senso di economia e di opportunità. Vi è un posto per voi nella mia banca. - Dopo anni quel giovane divenne il padrone di tutta l'azienda. Io, commosso da quell'episodio, non mi lasciai scoraggiare dall'avversità della fortuna - continuava con voce dolce a raccontare l'ingegnere - e se non trovai una spilla, mi misi a venderne: a poco a poco, con quell'umile commercio, potei procurarmi i mezzi per studiare, presi la laurea in ingegneria e inventai precisamente macchine speciali per costruire spille: eccole là. Naturalmente mi sono specializzato anche in altri campi metallurgici, e ora, dopo circa trent'anni di lavoro, questa officina è mia, e io la dirigo con lo stesso amore con cui dirigo la mia famiglia. Si presentò un capo operaio che rispettosamente interruppe il racconto: - Signor ingegnere - disse - è ora. L'ingegnere tolse di tasca un fischietto e lo fece stridere. Come per incanto fischiarono tre sonore e prolungate sirene, i macchinari si fermarono, le centinaia di operai se ne allontanarono lieti. Gli operai si lavarono, le macchine erano ancora calde; ma nella sera che calava, tutto dava il senso del riposo. Era bastato un gesto di quell'ometto dai capelli bianchi, perchè quel grandioso organismo dell'officina cessasse il suo ritmo. - E tutto questo per una spilla? - domandò Cherubino quando la nostra comitiva si allontanava.

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Da questi stradoni più grossi si staccano strade più piccole, ma ancora grandi abbastanza perché vi passino facilmente la carrozze e le automobili, due a due anche in senso contrario. Ai lati vi sta il marciapiede per i pedoni, protetti dai paracarri. E da queste strade si diramano altre minori, per le quali non passano due carrozze di fianco, e vanno ai paesi più pie. coli, dove passano poche carrozze. E dai paesi e dalle strade carrozzabili si diramano attraverso le campagne le strade campestri: da queste i sentieri, che si perdono nei prati, e nei campi arativi, e fra le viti e nei boschi. Ma voi vedete anche quelle righe nere più dritte, che attraversano la carta e passano soltanto pei paesi più grossi e per le città: quelle segnano le strade ferrate.

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Il signor Goffredo dopo questi due racconti eroici ma un po' tristi, pensò che era giusto svagare la nostra compagnia, e condusse i ragazzi al circo equestre. il circo equestre non era di quelli famosi, ma insomma vi si poteva godere, sotto il grande tendone a cono, uno spettacolo abbastanza istruttivo. Vi furono dapprima i cani ammaestrati, che camminavano sulle zampe posteriori. - Il cane - disse nell' intervallo il signor Goffredo a Sergio, ad Anselmuccio e a Cherubino è davvero l'amico dell'uomo, come da tanto tempo si dice. Ha gli occhi proprio degli uomini buoni, dolci e vi guarda in faccia senza nessun interesse, proprio per affezione: mentre invece il gatto, molto più insinuante di lui, quando non ha interesse sembra che nemmeno vi veda. - È vero, disse Cherubino, io ho bastonato un gatto perchè non si voleva far carezzare. - Male. Non bisogna bastonare gli animali, che non hanno la ragione. A proposito della fedeltà del cane e della sua bontà vi racconterò una piccola storia. Un principe guerriero e navigatore antico, chiamato Ulisse. rimase per più di dieci anni fuori della sua reggia. Quando ritornò, nessuno lo riconobbe, nemmeno la moglie Penèlope, tanto era cambiato per la fatica e gli anni trascorsi. Lo riconobbe soltanto il suo cane dal nome Argo; e il fedele animale per la gioia di aver incontrato il padrone, che aspettava da tanto tempo, morì.

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La freccia d'argento

212449
Reding, Josef 4 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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. - La faccenda del compensato avrà già fatto abbastanza chiasso a casa mia! A proposito: dov'è andato a finire quell'asse? - Dietro l'armadio degli attrezzi, dove sono le ruote di Mikro e Makro. - L'essenziale è... - Il cigolio della porta tronca a mezzo la frase di Alo. Cosino entra come un bolide. - La data della cosa è cosata! - Come sarebbe a dire? - La data della corsa è fissata! Ecco il manifesto! Attenzione! La cosa, voglio dire la colla, è ancora fresca. L'ho strappato ancora umido dal muro. - Fa' un po' vedere! Le teste dei sette crociati si chinano sul manifesto. È proprio vero! Ecco qua, nero su bianco:

A me pare che distribuendo tutti i regali tu abbia già fatto abbastanza. - Me l'ha detto anche il mio «diavoletto» nascosto, signor cappellano, e ce n'è voluto per chiudergli il becco! - Ma bene! Si vede che alle nostre riunioni serali non ti sei distratto. Però, però... Questo invito puoi accettarlo con la coscienza perfettamente tranquilla. Il vincitore del derby di quest'anno sei tu, e io non credo che un altro possa prender parte al posto tuo alla gara in America. Quanto poi alla speranza che Jörg e Hai possano venire con te, non è probabile che gli Americani sgancino così facilmente i loro dollari da mandar viaggi gratuiti a mezza tribù di San Michele! - Non è necessario. Invece del sottoscritto possono prender parte alla gara di Akron o Hai o Jörg. Il vero vincitore della corsa è la Freccia d'argento, e che sotto il casco ci sia la mia testa o quella di Jörg o di Hai, se non è zuppa è pan bagnato! - Uhm... Non so se oltreoceano si accontenteranno di questa esauriente spiegazione... Ad ogni modo, tenta! - Grazie tante, signor cappellano! Voglio tentare. Spedisco la lettera stasera stessa. - Buona notte, Stucchino! - Buona notte, signor cappellano! - Ma che ragazzo! - mormora il cappellano ridendo compiaciuto, dopo che la porta si è richiusa dietro le spalle di Stucchino. - Di una razza tutta speciale: scavezzacollo e cuor d'oro nello stesso tempo... * * *

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. - Non ne hai abbastanza delle mascalzonate, Ed? Sarebbe un'infamia spaccare di nuovo la Freccia d'argento a quei ragazzi! Era la voce di Jörg, e qualche altro gli faceva eco. - Chiudi il becco! E piantala con le prediche! Comincio ad averne abbastanza! - esclama Ede minaccioso. - E io di te è un pezzo che ne ho fin sopra i capelli! Con voi non ci sto più! - Davvero, pivellino? Non vuoi più stare con noi? Io invece la penso diversamente! Hai capito? E se non vuoi più starci, conosco due argomenti persuasivi per farti cambiar parere! Il primo... Ede sputa la gomma che stava masticando e se ne ficca in bocca una nuova. La sua voce si abbassa di tono, ma si fa più imperiosa e cattiva. - Dunque, il primo argomento sono i miei pugni, che ti pianto subito nel mostaccio, e l'altro è una parolina in un orecchio alla polizia, a cui interesserà sapere chi è quel ragazzo che di notte ha trafugato la bandiera del Municipio, che poi non si è più ritrovata. - Maledetto! - geme Jörg. - Ma sei stato tu a esigere da me quella prova di coraggio prima di ammettermi nella banda! - Hai delle prove? Hai testimoni? Lo vedi, dunque! Jörg stringe i pugni furibondo, ma è completamente disarmato. Ede li tiene tutti in suo potere. Dopo quel facile trionfo, Ede, che sa di aver ottenuto l'effetto desiderato, impartisce i suoi ordini senza che nessuno fiati. - Allora dopodomani, di notte!... Alla medesima ora dell'altra volta. Però prenderemo le chiatte e dal canale punteremo dritti sul capannone. Ma attenti? I mocciosi hanno messo le sentinelle. Saranno sopraffatte senz'altro. Portate anche i vostri randelli, intesi?... E ora filate! Ede armeggia ancora un poco nel locale. Anche questa volta è lui che se ne va per ultimo. Apre la porta: uno scialbo raggio di luna si insinua nella cantina e va a cadere sul teschio Guarda, guarda! Sotto il teschio ora c'è un solo pugnale!

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Che non abbia limato abbastanza? Che la Freccia d'argento riesca a tagliare il traguardo ancora intatta? Divorato dalla rabbia, digrignando i denti, Ede fissa stralunato la Freccia d'argento che lo precede. Stucchino riesce a mantenere il suo vantaggio: leggera e sicura la Freccia d'argento corre sulla pista. Ma ecco che il pilota si turba... Che cosa succede? I suoi inseguitori accelerano l'andatura oppure è la Freccia d'argento che rallenta?... L'Airone rosso e il Tifone avanzano sempre più e gli son quasi a ruota. Stucchino sente che nella parte anteriore della Freccia d'argento c'è qualcosa che non va: mentre prima percepiva soltanto una lieve vibrazione sotto i piedi, ora è scosso da sobbalzi violenti. Attraverso gli occhiali appannati dalla pioggia, egli intravede confusamente l'Airone rosso che guadagna terreno. A un tratto, un urto scuote Stucchino dai piedi alla testa come una scarica elettrica. Lentamente la parte anteriore della macchina si piega verso sinistra Stucchino ormai non vede più quel che avviene sulla pista. Un unico pensiero lo domina ancora: la Freccia d'argento dev'esser tenuta in equilibrio ad ogni costo! Con tutte le sue forze si butta sul lato destro sporgendosi dalla carrozzeria perché l'equilibrio possa esser mantenuto... E per qualche secondo ci riesce... Ecco lo striscione bianco del traguardo che ingigantisce sempre più e gli viene incontro... Però, pochi metri prima, malgrado gli sforzi disperati di Stucchino, la vettura non può più esser tenuta in sesto e tracolla in avanti e a sinistra. Ciò che rimane dell'asse anteriore raschia con un orribile stridio l'asfalto bagnato... Ora la macchina minaccia di ribaltare in avanti, ma si riprende subito, perché Stucchino si butta fulmineo all'indietro. La Freccia d'argento slitta, continua a slittare fin oltre il traguardo! Soltanto ora un'ombra azzurra sorpassa la Freccia d'argento alla sua destra: è il Tifone degli esploratori. Ed ecco due, tre, dieci persone si slanciano su Stucchino esausto e lo strappano dalla vettura. Ognuno vuol essere il primo a stringergli la mano. Scatta un lampo al magnesio. Tutti coloro che circondano Stucchino, e più degli altri i compagni del suo gruppo e i ragazzi di San Michele, scandiscono in coro: - La Frec-cia d'ar-gen-to ha vin-to! La Frec-cia d'ar-gen-to ha vinto! Ancora sbigottito pel susseguirsi degli avvenimenti negli ultimi istanti e per le grida subitanee e impreviste, Stucchino si strappa gli occhiali appannati dal naso e si guarda in giro. E allora sgrana tanto d'occhi, sbalordito: al centro della pista, a breve distanza dal traguardo, giacciono sparsi i rottami dell'Airone rosso, ed Ed-mastica- gomma, disteso su una barella, viene caricato su un'autoambulanza! Stucchino non si raccapezza più in tutto questo guazzabuglio... Sfinito com'è, la debolezza e lo sgomento lo vincono, e per il momento non trova di meglio che mettersi a sedere sulla pista bagnata. Ma i compagni non lo lasciano lì. Lo rialzano e, a braccia, tenendolo alto sopra le teste degli spettatori esultanti, lo portano fino al comitato del derby. Là riceve le congratulazioni in forma solenne e gli vien consegnato il primo premio, costituito di un'artistica pergamena, una candida tuta da automobilista, un casco nuovo di zecca ed una bicicletta. Infine, come sbucato di sotterra, ecco anche il cappellano Holk, che stringe forte la mano bagnata e sporca di Stucchino e gli dice: - Ragazzo, ragazzo! - Per il momento non riesce a dire di più... Ma in quella parola c'è tutto: la gioia, la riconoscenza verso Dio, l'orgoglio per i suoi ragazzi. Però poi soggiunge, indicando l'Airone rosso in frantumi e l'autoambulanza che sfreccia via veloce: - Quella fine era destinata alla Freccia d'argento e a te! Ora anche Jörg, che sta a fianco del cappellano, tende la mano a Stucchino: osservandolo bene, gli si vedono brillare lacrime di gioia tra ciglio e ciglio. Ma non mettiamolo in imbarazzo: quelle che adesso gli ruzzolano lungo le guance potrebbero essere gocce di pioggia... E lo saranno certamente! Ora soltanto Stucchino comincia a rendersi conto del grave pericolo corso. I particolari dell'incidente però li viene a sapere qualche ora più tardi, quando nel capannone si radunano i crociati, Jörg e altri componenti della banda del Nord, un mucchio di ragazzi di San Michele, alcuni esploratori, e ancora il grosso Segantino e il cappellano. Vi ha ripreso il suo posto anche la Freccia d'argento, assai malconcia, ma vittoriosa. Il cappellano Holk racconta a Stucchino come si sono svolti gli avvenimenti. -...Tu capisci che quello che Jörg mi ha riferito sulla soglia di casa mi ha colto di sorpresa. Per quanto lanciassi la mia moto a velocità pazzesca, Jörg e io siamo arrivati troppo tardi. Di pochi secondi, è vero, ma non più in tempo per impedire che fosse dato il via! Tu partivi già come un razzo sul lato destro della pista. Al centro correva l'Airone rosso e a sinistra il Tifone degli esploratori. Ben presto ti sganciasti dalle altre vetture, acquistando un notevole vantaggio. Poi gli eventi precipitarono. Per un motivo dapprima inspiegabile, tu rallentasti sempre più, e gli altri ti raggiunsero, anzi lo spilungone quasi ti oltrepassò... Quando Ede con l'Airone rosso si trovò affiancato alla Freccia d'argento, avvenne la catastrofe. Fu cosa di un attimo! La tua ruota anteriore di sinistra si staccò e, data la velocità della vettura, venne scaraventata in alto, andando a colpire con violenza Ed-mastica-gomma alla mandibola. Ede, a cui subito sprizzò il sangue dalla bocca e dal naso, perdette il controllo dell'Airone. Bastò che si premesse le mani sulla bocca perché la sua auto uscisse dalla pista e, sfibrando il Tifone, andasse a fracassarsi contro un palo dello steccato di protezione. Ede venne estratto dai rottami dell'Airone: per l'urto della ruota e del pezzo di assale si è buscato una doppia frattura alla mandibola. E anche cinque denti può ormai considerarli perduti. Il destino gli ha giocato un tiro mancino! Naturalmente l'hanno portato subito all'ospedale. Be', in fondo deve recitare il meaculpa... Il resto ti è noto: Stucchino sulla Freccia d'argento ha conquistato il primo premio messo in palio dalla città di C. e può quindi partecipare al campionato germanico; il Tifone degli esploratori si è piazzato secondo, mentre Ed-mastica-gomma, che neppure è giunto al traguardo, si è piazzato in ospedale. - Eh, già! Chi la fa l'aspetti, e i cocci sono suoi! Naturalmente non abbiam bisogno di dire chi commentava in tal modo l'accaduto.

Pagina 83

Narco degli Alidosi

214024
Piumini, Roberto 2 occorrenze
  • 1987
  • Nuove Edizioni Romane
  • Roma
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«Su tuo comando dico, signore, che spesso, se non sempre, l'odore del tuo alito è abbastanza, se non del tutto, diverso da quello dei graziosi fiori della primavera, dei boccioli di aprile, dei morbidi petali del...» «Vuoi dire che puzza, Blabante?» lo interruppe il conte, ciglioso. «Non lo nego, se tu lo affermi». «E di che puzza, per il demonio?» sbottò Narco, furente. «Ecco, appunto» rispose Blabante. «Se ciò di cui il tuo fiato sente fosse sentore noto, ancorché pessimo, lo si potrebbe nominare e conoscere... Ma come tu suggerisci, signore, esso è o pare affare del diavolo...» Per quel giorno la cosa non andò oltre. Il conte fu scontroso e solitario, e non volle ricevere nessuno né a poca né a molta distanza. Negli angoli del giardino in cui cupo passeggiava, o nel chiuso delle sue stanze, metteva di frequente le mani a conca davanti al volto e lamentosamente vi alitava, cercando di raccogliere poi col naso quel che si sentiva. Ma per quanto, come pronto al veleno, spalancasse le narici e chiudesse gli occhi, altro non fiutava che un'aria calda e corporale: non più saporita, in bene o in male, di quella che nel resto del cielo respirava.

Poi, col nascosto fiato ansante, Narco bisbigliò: «Io penso, Blabante, che di qui a là ci sia abbastanza acqua che corre per non importunare quella che vediamo, se mi levo l'elmo... Il fatto è che mi piacerebbe vederla meglio, e liberamente, e che forse anche lei vedesse la mia faccia...» Così dicendo lasciò le briglie del cavallo e fece un passo avanti. Allora la donna lo vide, e fu sorpresa, e prontamente sorrise. Per meglio vedere quel sorriso, e far vedere il proprio, già abbondante sotto l'armatura, Narco levò l'elmo, e intanto avanzò di un altro passo verso il fiume. Fu un attimo. Lei lo guardò, e dal sorriso passò a un bianco spavento, e cominciò a fare cenni con le mani e a gridare: «Fermo! Fermo!» Pensando che la donna temesse una malvagia intenzione, Narco ampliò il suo sorriso, e fece un terzo passo verso di lei: e qui la donna scomparve dalla vista e dall'aria come una nuvola si scioglie nel cielo d'estate. Il conte quasi cadde nell'onda per lo stupore. «È possibile, amico mio» disse lamentosamente arrancando all'indietro sull'erba della sponda «è possibile che l'acqua del fiume abbia creato quella figura d'incanto? E non è apparsa però a me e a te nello stesso modo e tempo, come alle visioni non usa fare?» Trattenendo i cavalli, che a quelle micidiali domande di Narco tiravano a scappare, con le briglie di pelle, e se stesso con le briglie del rispetto e della volontà, Blabante rispose: «È possibile, mio signore... Quella scomparsa non è da donna vera: e non è cosa troppo rara che creature incantate, abitanti vicino alle acque, si divertano a spaventare i pellegrini, e ad ingannarli». «Inganno forse sì, amico mio, ma non spavento», disse Narco rimettendo l'elmo, poiché già vedeva piegarsi i fiori intorno. «Questa, semmai, mi ha convinto d' amore !» E ripartirono con nuovi pensieri: avvolti per Blabante nella sciarpa, per Narco nel metallo dell'elmo. Ma mentre allo scudiero, per le mosse dell'aria e le viste diverse, quei pensieri passarono assai presto, nella chiusa scatola dell'elmo quelli di Narco rimasero a lungo, come una specie di dipinto luminoso, di silenziosa canzone.

Pagina 12

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215373
Garelli, Felice 3 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
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Io sono già forte abbastanza per applicarmi ai lavori della campagna, e prenderò il vostro posto... Per le grosse fatiche del maneggiare l'aratro, del falciare e del mietere, fino a che non potrò da me, ci daranno una mano i vicini che sono buona gente, e ci vogliono bene: il resto lo sbrigherò io, e mi basteranno i vostri consigli, e l'aiuto della mamma...» Questo disse, e più altre cose, tutte degne del suo bel cuore, tanto che il babbo si acquietò. Il bravo Giorgino tenne la promessa: tutto quel che disse, l'ha fatto, e lo fa. Egli non aveva allora che quattordici anni: ma l'amor filiale gli dette una forza, un senno, e una costanza da uomo; ed ora che ne ha sedici, già lavora il campo, falcia l'erba, miete il frumento, pota le viti come un vecchio del mestiere. E bisogna vederlo con che animo sta sul lavoro dal mattino alla sera: non c'è caso che si fermi a guardar le mosche in aria. Egli pensa che le sue fatiche fanno vivere senza privazioni il povero babbo, e lavora con coraggio, con gioia. Infatti nulla manca al benessere di quella famiglia: il babbo ha quasi dimenticata la sua disgrazia e i suoi dolori; la mamma non teme più per l'avvenire. E Giorgino? Giorgino si sente felice: e lo è davvero, perchè la sua pietà filiale è benedetta da Dio.

Pagina 10

E a farle più malsane, quasi non lo fossero già abbastanza, si aggiunge il letamaio. Questo lo si mette proprio sull'uscio di casa; e non si bada a raccoglierne il sugo, che in neri rigagnoli solca l'aia, e qua e là si spande in laghetti. Bisogna proprio essere senza naso, per non sentire la puzza ammorbante che ne esala! Per quanto si abbia una tempra robusta, come si può vivere sani in luoghi sì fatti? A dormire in camere umide, scure, c'è, pei ragazzi specialmente, da perdere la salute per sempre. Quasi tutte le malattie dei contadini, le febbri, le infiammazioni, i dolori nelle articolazioni, sono cagionate dalle abitazioni malsane. Nella casa di Gian Pietro si ammalarono tutti, un dopo l'altro, dello stesso male; e due ragazzi ne morirono. Il medico dichiarò la malattia essere un tifo, e ne diede la causa all'acqua del pozzo, guasta dalle infiltrazioni del vicino letamaio: e infatti l'acqua di quel pozzo, lasciata per un giorno in un bicchiere, puzzava di marcio. Oh che! Ci vuol tanto a fare il letamaio lontano dal pozzo, e dietro casa?

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Con sola polenta, solo riso, o sole patate un lavoratore non è nutrito abbastanza: questi cibi rimpinzano lo stomaco, ma un'ora dopo il pasto ti senti vuoto, e sfinito come prima. Mangia dunque un po' meno di tali cibi, e aggiùngivi latticini, o una minestra di legumi, castagne, o pane, e, una o due volte la settimana, un po' di carne. Non è quel che si mangia che fa bene, ma quel che si digerisce. Per digerire facilmente i cibi, bisogna prima di tutto masticarli bene. Dunque prendi i tuoi pasti ad ore determinate. Non mangiare in fretta e in furia; non è buona creanza, e ti fa male. Mangia con moderazione d'ogni sorta di frutta. Bada, se vuoi schivar le coliche, e le indigestioni, di non mangiare pane ammuffito, carne che puzza, frutta acerba o mèzza, legumi mal cotti, patate o rape colpite dal gelo, o in via di germinazione, castagne crude o infortite, vino torbido o guasto, funghi sospetti.

Pagina 88

Il Plutarco femminile

217889
Pietro Fanfano 1 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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Ma voglio aver detto abbastanza che il dir di più. in questa materia si disdirebbe al luogo e alla occasione presente." Quella signorina, che aveva mosso la questione, si appagò del modo col quale il maestro l' aveva sciolta. Allora venne fuori un' altra, e domandò: "Signor maestro, le dispiacerebbe di chiarirmi un dubbio? "Volentieri, dica pure. "Ho udito che ella, volendo significare il suo pensiero circa alla cagione, perchè ci sono state tante donne pittrici, ha detto io come io, mi pare. Non dubito punto che ella abbia detto uno sproposito; ma, insegnandoci la grammatica che si abbia a dire a me pare; ed avendo anche sentito mettere in canzonella uno che scrisse, come ella ha detto io mi pare; non so che pensarmi, ed a lei ne domando. "Veramente, rispose il maestro avrei parlato con maggiore proprietà se avessi detto a me come a me pare, oppure con pleonasmo dell' uso nostro, a me come a me mi pare. Tuttavia nel linguaggio familiare si pu� dir come ho detto io, perchè comporta l' uso, perchè si trova usato dai classici, e perchè non è assolutamente contro ragione. Vediamolo. Che è nell' uso non c' è bisogno di dimostrarlo; che è stato usato dagli antichi scrittori, bastino i seguenti esempi: primo quello famoso di Giovanni Villani, il quale comincia la sua Cronica appunto così: Io Giovanni Villani, cittadino fiorentino, mi pare di scrivere, ecc., l' altro quello del Sacchetti il quale nella novella 23, scrive: Io, sconcacato par d'essere a me, chè voi siete vestiti che parete d' oro. E tal costrutto non è, com' io diceva, contrario nemmeno alla ragione grammaticale; perchè si vede chiaro che si vuole, da chi parla o scrive così, mettere nel primo caso il soggetto della proposizione, supplendo poi alla costruzione del verbo parere col ripetere la particella pronominale nel caso che esso richiede e come facevano nel caso del verbo parere, così lo facevano nel caso di altri costrutti, per modo che lo stesso gentilissimo Petrarca, incominciò il Canzoniere con un Voi che pare stia in aria, non avendo egli ripetuto, come soleva farsi, o il pronome, o la particella, scrivendo: "Voi che ascoltate in rime sparse il suono, ecc., spero trovar piet�; che poteva dire più compiutamente spero da voi trovar pietà. Ed il medesimo Chiabrera scriveva con tutta gentilezza: "Ed io co' cigni del Sebeto e d' Arno, E del gran Po, ma da lontano, inchino, Grazia mi fia; sol che ne senta il canto." Ha inteso bene? "Sì, signore, rispose la signorina." "Anche tutte le altre hanno inteso?" E tutte in coro risposero di sì. Anzi un' altra mostrò desiderio di sentir parlare anche di quegli altri costrutti rammentati dal maestro; il quale promise che ne parlerebbe altra volta, essendo ormai troppo tardi.

Pagina 178

C'era una volta...

218865
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1910
  • R. Bemporad e figli
  • Firenze
  • paraletteratura-ragazzi
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La Regina non si stimò gastigata abbastanza, e insistette: — Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te. — Maestà, in un giaciglio! — Per una volta, potrò provare. - Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. — In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo. — Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata.

Pagina 277

Il ponte della felicità

219055
Neppi Fanello 2 occorrenze
  • 1950
  • Salani Editore
  • Firenze
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Sei poco più alta di me, e i miei vestiti dovrebbero starti abbastanza bene. - Ma non vorrei privartene. - Che dici mai! Ne ho tanti! Guarda, qui, - soggiunse, aprendo un armadio a intarsi e con le borchie dorate. - La mamma me ne fa sempre dei nuovi. - La sua voce aveva avuto una impercettibile inflessione ironica. Scelse un vestito di panno morello guarnito di martora, e lo fece indossare a Loredana. Poi condusse la fanciulla davanti allo specchio che occupava quasi una parete intera, e la fece sedere sopra una cassapanca dove stavano allineati parecchi oggetti da toeletta. - Voglio ravviarti i capelli. Come sono belli!... Sembrano oro filato! - le disse mentre il pettine passava leggero nella massa lucente che scendeva sulle spalle di Loredana. - Ecco! Ora smorziamo questo bagliore, - soggiunse, coprendo le morbide trecce con un cappuccio di panno morello come l'abito, e anche questo guarnito di martora. - Aspetta, che accenda la lucerna. Guarda: sembri una visione! - Un rumore di passi e un fruscìo di seriche gonne fece volgere il capo alle due fanciulle. La superba marchesa Violante era entrata. L'alta e snella persona procedeva eretta, e gli occhi, benchè grandi e belli, avevano un'espressione dura e imperiosa. - Che c'è, Teodora? - chiese, senza curarsi di Loredana, la quale, intimidita, se ne stava a capo chino, col viso in fiamme. Non era la prima volta che sua figlia le portava in casa delle pezzenti, e tutta la sua severità non era riuscita a guarirla di quella mania. - Mamma, la poverina era caduta nel canale mentre cercava di salvare un bambino.... È la figliuola del pittore Lorenzo Sagredo, - aggiunse in fretta, nell'intento di rabbonire la signora. Infatti, l'espressione del viso della marchesa Violante si raddolcì alquanto. Si avvicinò a Loredana e la considerò attentamente. Sembrò soddisfatta di quell'esame, perchè sulle sue labbra fiori un lieve sorriso. Teodora, trepidante, lo vide, e capì che la partita era vinta. Prese allora il quadretto, e porgendolo alla madre: - Guarda, mamma: anche lei è pittrice. Questo quadretto lo ha eseguito in questi giorni. Dovresti farlo vedere ai nostri amici. - La marchesa prese il piccolo dipinto e disse: - Ben volentieri. Adesso vi lascio. Questa giovinetta l'affido a te, Teodora. Sii la sua piccola amica.

Pagina 139

Così, nell'incessante lavoro e nel reciproco aiuto, la loro vita scorreva abbastanza serena. Ma, dove era in quel tempo la squadra veneta? La battaglia contro i Turchi aveva avuto luogo?... E quale ne era stato il risultato? Domande che i due naufraghi si rivolgevano spesso. Alvise, inoltre, pensava al padre, a nonna Bettina, a Loredana. Che cosa facevano i suoi cari? Invocavano il suo ritorno o piangevano la sua morte? Mentre la zattera procedeva mollemente cullata dalle onde, Alvise lasciava che la nostalgia cullasse il suo tenero cuore. Qualche volta tornava da Agnolo, con gli occhi rossi nel viso dimagrito e bruciato dal sole e dal vento salmastro; ma bastavano poche parole buone del suo compagno per rincorarlo e infondergli fiducia nell'avvenire. Per fortuna la stagione si era mantenuta buona. Solamente qualche giorno prima il cielo si era rannuvolato e la pioggia era caduta monotona e insistente per ventiquattr'ore. Sembrava, quella pioggia, l'addio accorato dell'estate. Il sole, tornato nel cielo di un pallido azzurro, aveva illuminato il mare improvvisamente scolorito. Solo la vegetazione delle dune e le foglie dell'albero apparivano più verdi e lucide dopo quell'acquazzone. All'alba e al tramonto l'aria cominciava a farsi pungente e già aveva il mesto sapore dell'autunno. Che ne sarebbe stato dei due naufraghi quando il maestrale, e le raffiche della pioggia sempre più fitte, e le brume sempre più dense avessero avvolto l'isola? Quando le verdi foglie dell'albero fossero ingiallite e la pispigliante tribù dei pennuti dispersa in cerca di lidi più clementi? Ma nel chiaro mattino di fine estate era dolce vogare, cullati dalle onde leggiere, sospinti dalla tepida brezza. E nel cuore di Alvise ferveva un grande amore, per le cose e per gli uomini. Egli andava, andava, sulle ali dei suoi giovani anni, e gli pareva di compiere viaggi sognati in giorni lontani, viaggi ammalianti che, pur percorrendo tutte le strade del mondo, lo riconducevano sempre alla sua città benedetta. Eccolo lì, il leone di san Marco che sventola sul pennone di fortuna della zattera, vicino alla piccola vela bucherellata! Gli bastava di alzare gli occhi su quel fragile lembo di patria perchè tutte le cose, mare, cielo, scogli e spiaggia, assumessero uno splendore insolito. Lo avresti creduto tu, piccola Loredana lontana, un simile miracolo, mentre la tua mano dipingeva l'emblema dell'Evangelista sullo sfondo turchino? Immerso nei suoi pensieri, il giovane non si accòrse che stava per doppiare la punta della scogliera e avvicinarsi alla loro piccola rada sabbiosa. Si era dimenticato di lanciare il solito richiamo all'amico intento certamente ad ammannire il frugale pranzo. - Agnolo, Agnolooo! - gridò con tutta la forza dei suoi capaci polmoni. Nessuna voce rispose al suo appello. Sorpreso e inquieto, Alvise afferrò una specie di remo giacente nel fondo della zattera, e con poche bracciate spinse l'imbarcazione ad arenarsi sul lido. I suoi occhi corsero subito alla grotta; ma Agnolo non c'era. Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. Con grande fatica si era trascinato fin là e stava fissando un punto lontano. Nella luminosità cristallina dell'orizzonte si profilava una galea. La prora era rivolta verso l'isolotto e le vele, tutte spiegate, sembravano di una leggerezza irreale. - Agnolo! Agnolo! - mormorò Alvise, mentre Lo scoprì poco dopo, addossato agli scogli. sentiva il cuore battergli in gola. - Iddio ci assiste: saremo liberati, Alvise! - rispose il marinaro. E le sue chiare pupille si velarono di lacrime. - Quando credete che la galea giungerà qui, Agnolo? - chiese Alvise, afferrato da una grande impazienza. Avrebbe voluto gettarsi in mare e a forza di braccia andare incontro alla nave salvatrice. - Figliuolo mio, potrà esser qui verso sera, purchè il vento non cada. - Tanto tempo impiegherà?... - disse Alvise, deluso. - E se frattanto sopraggiunge la notte, la nave passerà senza vederci. - Non temerlo. Quando il sole tramonterà, accenderemo un bel fuoco per richiamare la sua attenzione. - Vado subito a raccogliere degli sterpi e delle alghe secche. - Piano, piano, Alvise! - mormorò il marinaro, sorridendo all'impazienza del giovane. - Aiutami piuttosto a scendere da questi scogli. Consumeremo prima il nostro pasto, poi penseremo al da farsi. - Il cibo era pronto e saporito; l'appetito non mancava; eppure Alvise non riusciva a inghiottire nulla. La commozione e l'orgasmo gli stringevano la gola e pareva lo soffocassero. Teneva il viso rivolto al mare, verso quella nave che per la sua lontananza sembrava ancora tanto piccina, e che pur conteneva, nel sue scafo leggero, un mondo intero di care speranze. E la muta, ardente preghiera delle mani incrociate sulle ginocchia lo accompagnava sull'immensa distesa lucente.

Pagina 95

Al tempo dei tempi

219328
Emma Perodi 4 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
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Finalmente un giorno il Re scese dalla schiava, le si gettò in ginocchio e la supplicò tanto, che Rosetta, convinta che le voleva bene davvero e che era abbastanza punito del disprezzo con cui l'aveva trattata, acconsentì ad accettarlo per isposo. Fece venire il padre e le sorelle a Palermo e lo sposalizio si fece con gran pompa.

- Signor padre, non dovete negarmi quel che vi chiedo, abbastanza sono infelice; mi promettete che anderete dal Re e gli riferirete le mie parole? - Il mercante voleva molto bene a tutte le figlie, ma quella minore era la sua prediletta. Nel sentirsi pregare a quel modo da lei, non seppe dirle di no. Basta, partì, andò a Palermo e dopo che ebbe sbrigato i suoi affari, s'incamminò verso il Palazzo Reale,

Cambiava ogni momento le cameriere del Palazzo Reale perchè gli pareva che non fossero abbastanza pulite, e le voleva giovani, non giovandosi che le vecchie lavassero la sua biancheria, gliela stirassero, nè gli spolverassero i vestiti. Una volta ne mandò via una sui due piedi perchè la vide grattarsi la testa con l'indice; un'altra volta ne cacciò una come una ladra perchè la sorprese con la punta del mignolo nel naso. Un giorno poi mise sottosopra tutto il palazzo e fece correre anche le guardie perchè vide una pulce attaccata alla carne del collo di una povera donna di faccende. Dunque il Re cercava sempre donne di servizio e ogni tanto domandava a' suoi camerieri: - Dite, ce l'avreste una ragazza giovane, sana e pulita di molto per entrare al mio servizio? - Venne il giorno che fece questa domanda anche a quel cameriere che aveva veduto cader l'acqua dal terrazzino della casa di donna Peppa e di donna Tura. - Don Giovanni, - gli disse il Re - che novità ci sono? - Io, Maestà, non ho alcuna novità da raccontare; soltanto oggi ho adocchiato una certa casa dove deve esservi una ragazza bella e pulita; se Vostra Maestà la vuol vedere.... - Sì, don Giovanni, la voglio proprio vedere e subito domattina prima di mezzogiorno. - Vedremo, Maestà! - Che vedremo! - ribattè il Sovrano. - Con me non si dice vedremo! Domani quella ragazza ha da esser qui a tutti i costi, così ordino, e così voglio! - Quando il Re ordinava e il Re voleva, bisognava obbedire senza fiatare. E così fece don Giovanni, che uscì, camminando all'indietro, senza risponder nulla. La mattina dopo era appena giorno quando il cameriere andò a bussare all'uscio delle due sorelle. - Chi è? - domanda donna Peppa fra il sonno, con una vociaccia più brutta di lei. Il cameriere, nel sentire quella voce chioccia di donna bavosa e vecchia, stava per fuggire, ma poi pensò: - Sarà la donna di servizio, - e rispose: - Sono il cameriere di Sua Maestà il Re nostro signore per grazia di Dio! - Ma che re e non re ! Noi col Re non abbiamo mai avuto nulla da spartire, e a quest'ora non si viene a molestar la gente; andatevene! - La sorella, sentendo che era un messo del Re, mise le gambe fuori dal letto, s'infilò la sottana e scese per andare ad aprirgli. Risalì col cameriere e questi si guardò intorno e domandò: - Che siete sola? O le altre dove sono? - Ma si può sapere chi cercate? - domandò donna Tura mettendosi le mani sui fianchi e fissandolo con gli occhietti di porco. - In casa ci sono io, e lì in quella stanza c' è la mia sorella Peppa. - Chiamatela, chè debbo parlare con lei. - Donna Tura, lemme lemme andò a chiamarla. Quando il cameriere si vide davanti quelle vecchie orrende, si sgomentò tutto, ma pensò: - Col Re non si scherza, e se lo faccio aspettare e non gli porto nessuno, sale in furia e mi manda certo a morte; se, invece, vede un orrore di donna, è capace di mettersi a ridere e di sgridarmi soltanto; dunque è meglio portargliene una di queste, benché facciano spavento tutt'e due. - Allora il cameriere disse a donna Tura, che era la maggiore: - Il Re vi vuole subito, e il Re non intende di aspettare. Dunque vestitevi per bene e io vi ci accompagno. - Ma il signor Re che può mai volere da me? - Non lo so, e non facciamo chiacchiere inutili. Piuttosto sbrigatevi in un momento. - Donna Tura andò in camera sua tutta tremante e confusa. E mentre si pettinava i cernecchi, pensava: - Ma che vorrà mai il signor Re? Ma che vorrà? - Quand'ebbe terminato di pettinarsi, si mise una sottanuccia nuova di cotone a fiori, un paio di pendenti falsi, un vezzo di vetro, si legò intorno al collo enorme un nastro vecchio, perchè era povera, e si infilò un paio di scarpe, le meglio che avesse. Poi si buttò sulle spalle una certa mantellina dell'anno mai, e così agghindata, che pareva la Befana, si presentò al cameriere. Non appena don Giovannino la vide, si sentì morire e sospirando disse: - Via, andiamo!!! - Scendono le scale, escono e salgono nella carrozza che aveva portato il cameriere e i cavalli partono. Ma avevano fatto pochi passi che donna Tura disse: - Fatemi il favore di far fermare un momento che debbo scendere, - e lo disse con l'intenzione di scappare e non tornar più perchè non aveva coraggio di comparire davanti al Re così brutta e mal vestita. Il cameriere chiama il cocchiere, fa fermare e donna Tura scende e tutta piangente imbocca un vicolo e si mette a correre all'impazzata, ansando come un mantice. Mentre correva così, senza sapere dov'andarsi a nascondere, viene a passare una Fata, che, vedendola tanto disperata, la ferma e le dice: - Figlia, che hai che piangi tanto? - State zitta! Peggior disgrazia non poteva capitarmi. Il Re mi ha mandata a chiamare, e come faccio a presentarmi a lui così brutta e vecchia da far paura? - Figlia mia, non t'affliggere; non sei brutta davvero; anzi, sei tanto bella, - e le passò la mano sulla testa, sul viso, sulle spalle e poi se ne andò. Bastò quella carezza della Fata perchè a un tratto da brutta si facesse bella, da vizza si facesse fresca. E come cambiò lei, così cambiò tutto quello che aveva addosso: il vestito si convertì in un abito sontuoso di broccato, i pendenti falsi in orecchini di diamanti, il vezzo di vetro in un magnifico vezzo di perle e quel mantellaccio dell'anno mai in un sontuoso mantello tutto foderato d'ermellino. Donna Tura, quando si vide così ben vestita da parere una principessa, smise a un tratto di piangere, si fece tutt'allegra e tornò addietro a cercare la carrozza. Figuriamoci come restasse il cameriere nel vedere quella bella ragazza che gli faceva cenno di aprir lo sportello! - Ma chi è lei? - le domandò. - Chi sono? Ma quella di poco fa. - Ma come mai in un momento è così cambiata? - Questo non deve importarvi; aprite e andiamo dal Re! - Il cameriere si sentì allargare il cuore di condurre al Re quella bella cameriera vestita come una gran signora e dette ordine al cocchiere di sferzare i cavalli. Arrivarono al Palazzo e don Giovanni per una porticina e per una scala di servizio, condusse donna Tura in un salottino privato del Re e le disse d'aspettare. Quando il Re entrò la squadrò da capo a piedi. - E lei chi è? - le domandò. Donna Tura fece una bella riverenza e rispose con una vocina tutta latte e miele: - Maestà, sono la nuova cameriera portata da don Giovanni. - Badi, - le rispose il Re che vedendola così bella e ben vestita non s'attentava a darle del voi come alle altre - io sono molto esagerato per la pulizia. - Per questo, - rispose donna Tura - Vostra Maestà può stare tranquilla, perchè io sono veramente sofistica e non posso tollerare nè macchie, nè polvere e non mi piace altro che l'acqua. Guardi le mie mani, come sono pulite, e le unghie? Così le tengo sempre anche quando faccio il servizio. - Il Re s'accostò per guardarle le mani e sentì che la cameriera era tutta profumata. - Bene! Bene! - esclamò. - Lei è proprio la cameriera che fa per me, e lei sola pulirà i miei abiti, avrà cura della mia biancheria e delle mie stanze particolari. Se mi contenta, non dubiti che la pagherò bene e alla mia Corte potrà invecchiare. - Donna Tura fece un'altra bella riverenza e uscì per farsi indicare dal cameriere quel che doveva fare. Ora lasciamola e torniamo all'altra sorella. Donna Peppa, il giorno dopo, aspetta aspetta, e non vedendo tornare la sorella, si veste e va al Palazzo del Re a cercarla, e là giunta la fa chiamare. Donna Tura le va incontro tutta impettita e la guarda d'alto in basso come se neppure la conoscesse, perchè era brutta e vestita male e, senza neppur lasciarla parlare, le mette in mano un'elemosina e le dice: - Buona donna, eccovi una moneta, andate in pace! - Donna Peppa se ne andò, brontolando e sputando veleno, e si fece anche più gialla e più secca dalla grande invidia che la rodeva. - Come, siamo cresciute insieme, siamo invecchiate insieme, siamo sorelle e mi tratta così? -

- La signora aveva inteso abbastanza. Fece cenno alla cameriera di salutare la comare e tutte e due se ne andarono: Vincenza tutta lieta, la signora con un diavolo per capello. Arrivò a casa di corsa e tutta trafelata andò dal figlio e gli disse: - Quella ragazza tu non la sposerai, se la madre non confessa come da pezzente è divenuta signora! - Il povero Cavaliere si sentì morire. Egli non voleva dire che i quattrini a donna Paola glieli aveva dati lui, e a Maricchia non voleva rinunziare. - Perchè prestate orecchio alle calunnie? - Non sono calunnie; è la verità che un mese addietro donna Paola stava in una catapecchia ed era una pezzente, dunque? - Avrà rivendicato qualche eredità! - Ma che eredità, se è figlia di poveri, se il marito era facchino del porto, se.... - La signora soffocava dalla rabbia all'idea che suo figlio potesse imparentarsi con certa gente. - Io sposerò Maricchia anche figlia di facchino, anche povera! - disse. In quel mentre capitò il padre, che aveva udito il diverbio, e quando fu informato del motivo di esso, dichiarò anche lui che non voleva assolutamente che si facesse il matrimonio, anzi ordinò al figlio di prepararsi a partire per Palermo ove aveva un vecchio zio, e gli promise che la moglie l'avrebbe trovata più bella di Maricchia e certo di miglior condizione, e senza dargli tempo d'avvertirla, lo fece imbarcare su una nave già pronta e lo spedì via. Torniamo a Maricchia. Aspetta aspetta il Cavaliere, il Cavaliere non si vedeva e Maricchia era nelle smanie. Passa un giorno, ne passano due, ne passano tre, finalmente Maricchia manda la cameriera al palazzo del promesso sposo a prender notizie, e la cameriera fa l'ambasciata a donna Vincenza. - Mi manda la signorina Maricchia a prendere notizie del suo promesso sposo, lo riverisce e gli fa dire che aspetta con impazienza una sua visita. - Risponde donna Vincenza trionfante: - Dite a Maricchia, figlia di Totò il facchino del porto, che il Cavaliere è andato a Palermo a sposare una signora pari suo e che tornerà soltanto con la moglie. -