Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

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Otto giorni in una soffitta

204551
Giraud, H. 8 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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La mamma ne ha abbastanza della sua cura ad Aix-les-Bains, e soprattutto di esser separata dai suoi bambini, e si propone di tornare presto a casa, senza però dire in qual giorno: farà una sorpresa. La prossima lettera sarà per Alano. - Che fortuna!... - esclama Maurizio saltando come un capriolo. - Scommetto che la mamma arriva senza avvertirci, forse domani. - Domani no, - replica Alano - poichè dice che la prossima lettera è per me, e ci vogliono ancora due giorni. - Quando la mamma sarà qui, le diremo di Nicoletta? - chiede Maurizio. Francesco è pensieroso. - Certo, a lei non potremo nasconderla, - dice. - Prima di tutto perchè le diciamo ogni cosa, e poi perché è quasi sempre con noi. E inoltre, credi che a tavola potrai riempire il sacco come fai ora sotto il naso dello zio Fil e di Maria? La mamma lo vedrebbe subito. - Che cosa penserà? - Anche Alano è inquieto. - La mamma ha sempre detto che non voleva delle bambine e che era molto più contenta coi suoi ragazzi, e forse sarà seccata di aver Nicoletta. - Soprattutto avrà paura di qualche storia con lo zio Fil, - riprende Francesco. - E se quella vecchia strega vede che Nicoletta è qui, verrà a riprenderla, - aggiunge Maurizio. Tutto ciò è molto preoccupante per quei tre giovani babbi. Essi rimangono un momento silenziosi, accasciati sotto il peso di quel tormento; ma Francesco pronunzia finalmente la formula magica, che ha servito sempre a consolarli: - Ci penserà la mamma. - La seconda seduta di pettinatura è ancora più laboriosa della prima. Francesco ha corso il rischio di perdere la pazienza e Nicoletta ha le lacrime agli occhi. Ma Nicoletta è risoluta a chiedere l'aiuto di Maurizio, e quando viene, un momento dopo, gli espone il suo desiderio. - Capisci, - gli dice - così non può durare. Francesco mi fa troppo male, e poi si arrabbia. Mi domando a che cosa mi, servono tutti questi capelli. - Anche Maurizio è dello stesso parere. - Del resto, - aggiunge egli - tutte hanno i capelli corti, anche le signore, anche le signore vecchie. - Anche la tua mamma? - No, ma ne parla sempre. Lei è tanto carina così, i suoi capelli le fanno come una corona intorno alla testa. - Ascolta, Maurizio, io starò molto meglio coi capelli corti; dovresti andare a cercarmi un paio di forbici e tagliarmeli. - Se si domandasse un parere anche a Francesco? - chiede Maurizio un po' inquieto per questa responsabilità. - No, no, rifìuterebbe. Se hai paura, dammi le forbici, proverò da me.

Orsù, abbiamo chiacchierato abbastanza, e m' impedite di fare il mio lavoro. Signor Francesco, siate ragionevole: fate lavorare i vostri fratelli. - È molto difficile fare problemi e analisi quando si hanno delle preoccupazioni, e i tre ragazzi pensano assai più alla loro «figlia» che ai compiti. La « figlia » è molto savia, e Francesco la trova a cantar la ninna-nanna alla bambola. Egli giunge con un pettine, una spazzola e un gran libro. - Qui son descritte le avventure di Beccaccino, - dice. - Ma tu non sai leggere e non ti divertirai tanto. Se vuoi, t' insegnerò a leggere. - Oh, sì! - dice Nicoletta. - La mamma voleva farlo, ma era sempre malata e non aveva la forza di muoversi. - T' insegnerò io, - ripete Francesco. - Intanto ti pettinerò meglio che mi è possibile. - Ahimè, è un terribile compito, quello a cui si accinge, e benchè tanto lui che Nicoletta diano prova di una pazienza angelica, la

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Tra un compito e l'altro Maurizio viene a farle una visitina, e il tempo trascorre abbastanza presto. Giù i compiti son fatti, ma assai male: i ragazzi tengono un consiglio di famiglia per deliberare su una questione importante. - Bisogna trovare un mezzo per andare in soffitta senza che vengano a cercarci, - dichiara Francesco. - Non sarebbe molto comodo.... - soggiunge Maurizio scotendo la testa. - Io credo che sarà meglio non parlare di soffitta, - dice Francesco. - Maria è curiosa e vorrà sapere quello che ci facciamo; e se venisse a cercarci, la nostra Nicoletta sarebbe scoperta.

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. - È tanto dispiacente perchè non lavorate abbastanza.... - Lo vedrai, - dice Francesco - ma non prima che sia finito. E non verrai a disturbarci, capisci? - Non bisogna esser disturbati quando si lavora, - aggiunge lo zio Fil. - Lo senti? - Francesco è trionfante. Alla fine del pranzo, quando Maria se ne va, Maurizio mostra fieramente ai suoi fratelli il sacco nel quale è riuscito a fare scivolare la colazione di Nicoletta: il salame e le olive, mescolati con una fetta di vitello, che a sua volta è stata sepolta da una valanga di patate fritte, e tutto ciò contornato di pane. Ma è stata una tale fortuna, di esser riusciti a prender tutta quella roba in barba, se cosi si può dire, di Maria, che non bisogna esser troppo sofistici per il modo col quale è stata disposta. Nicoletta è incantata del suo desinare, e piena di ammirazione per il racconto che Maurizio le fa della sua destrezza. Le spiegano anche la storia del ritratto. Francesco è andato a cercare una tela e comincerà il suo schizzo in soffitta. Nello scendere metteranno la tela sul cavalletto, e questo nella stanzina, come se realmente dovessero lavorar là. E così Nicoletta, abituata alla tristezza e alla solitudine, passa dei bei momenti, con quei tre ragazzi allegri e felici. Essi le raccontano storie divertenti, farse da loro recitate, e imprese da loro compiute. Nicoletta nella sua poltroncina, con la bocca semiaperta e le mani congiunte, non sa come esprimere i propri sentimenti. Matù, pieno di dignità, ha ceduto il posto a quelle creature chiassose: egli preferisce vedere la sua nuova amica quando è sola. La bambola, seduta sul lettino, sorride in aria canzonatoria. Quando giunge l'ora della merenda, Nicoletta è triste. - Ritornate, - implora la sua vocina. - Maurizio ti porterà la merenda, - dice Francesco. - Ma bisogna anche che andiamo a giocare un po' in giardino. Sai, Nicoletta, siamo abituati a passarci tutto il nostro tempo e non bisogna che si accorgano che non ci andiamo più. - Nicoletta è rassegnata. Con un piccolo sospiro dice: - Capisco. - Ah, - ripete ancora Francesco - se tu sapessi leggere, Nicoletta, come ti divertiresti in questa soffitta, con tutti i nostri libri! - Ma non so, - dice umilmente Nicoletta. - Sì, me l' hai detto. Domattina cercherò i nostri alfabeti e ti darò una lezione subito. - E quel giorno termina come il giorno prima. Ma quella sera Nicoletta trova il tempo un po' lungo: si annoia e sospira profondamente, accarezzando Matù che è placidamente coricato e trova la vita bella e non tediosa, poichè egli ha il beneficio del sonno. È da credere che Maurizio abbia indovinato la noia di Nicoletta, perchè, arrivando come un pazzo, con le braccia cariche di scatole, grida ansante: - Nicoletta, ho ritrovato un mucchio di costruzioni, di figure da ritagliare, e di album da colorire. Ti divertirai? - Nicoletta salta dalla gioia. - Oh, come sono contenta! Cominciavo proprio ad annoiarmi.... un pochino soltanto, sai, - confessa. - Come mi divertirò con tutte queste belle cose! - Ne cercherò ancora, - dice Maurizio. - E poi.... sai per caso cucire? - No, - risponde Nicoletta - so soltanto lavorare all'uncinetto. - Che cosa occorre per questo? - domanda Maurizio. - Un uncinetto, - risponde Nicoletta - e della lana. - Aspetta.... anderò a vedere nella

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Ho un bel fare il conto: non ce n' è mai abbastanza!... Costa caro dar da mangìare a questi tre ragazzi. Fortunatamente la signora non è in condizioni di badarci tanto. Via, Leonia, vado a finire di preparar la tavola. Riempitemi bene il vassoio. - State attenta, Maria, - dice Leonia, brontolando - stasera non potranno rifarsi con la pietanza: c' è soltanto una focaccia per ciascuno, non di più. - Fatele grosse, almeno, - chiede Maria che si lamenta, ma che poi è la prima a viziare i suoi padroncini. I ragazzi si sono messi a tavola. Maurizio ha richiesto l'arrosto, e Maria consiglia a Francesco di fare come suo fratello. - Non mangiate abbastanza, signor Francesco, siete troppo magro. - E io? - domanda Alano. - Anche voi potreste ingrassare un poco, signor Alano. - Via, Maria, lasciate tranquilli i ragazzi, che mangiano anche troppo, - dichiara lo zio Fil, uscendo dalla sua apatia, non si sa per qual miracolo. Maria non insiste, ma Francesco la consola chiedendo ancora dei fagiolini. Dopo la colazione di Nicoletta, colazione così abbondante che ha durato fatica a finire, Francesco le mostra un grande alfabeto, ma rimane sorpreso di vedere « sua figlia» ridergli sul naso. - Oh, - esclama essa ridendo di tutto cuore - tu hai creduto che non sapessi nemmeno questo! Conosco tutte le lettere e le sillabe, ma non so leggere correntemente, nè leggere i caratteri troppo piccoli. - Occorre dire che Francesco è rimasto un po' deluso? Sperava di avere la gioia completa d' insegnare a leggere a « sua figlia». - Ebbene, - dice però in tono allegro - sarà più facile. Ci vuole il primo libro dì lettura: eccolo! - Oh, Francesco, - esclama Alano - speravi che dopo la prima lezione Nicoletta avrebbe imparato l'alfabeto?! - Ma Francesco non è perfettamente in buona fede quando risponde: - Come vedi, ho fatto bene, poiché ne abbiamo bisogno. - Io, - dice Alano - propongo di far leggere Nicoletta quando

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Con Alano va un po' meno bene, ma la ragione è che Nicoletta comincia ad essere un po' stanca, e quando viene la volta di Maurizio, ne ha abbastanza e lo dice. Ma Maurizio vuol darle la sua lezione ed insiste. - Insegnami piuttosto a giocare a dama; me lo promettesti ieri, - chiede Nicoletta con la sua maniera carezzevole. Dopo tutto la fanciulla fa ancora appello al suo talento di professore, e, sia a leggere sia a giocare a dama, Maurizio insegnerà qualche cosa anche lui, anzi qualcosa di più divertente. Ridiscende dunque a cercare il giuoco della dama, ma ritorna quasi subito come un fulmine. - Francesco! Alano! - grida ansante. - Maria sta salendo quassù! Viene a vedere il ritratto. Siamo scoperti. - I due ragazzi sussultano. - Dov' è? - chiede Alano. - Al primo piano; non abbiamo il tempo di scendere. - Presto, presto, - dice Francesco. - Usciamo dalla soffitta. Non aver paura, Nicoletta. - E, come un. buon capobanda, Francesco ha organizzato, in un batter d'occhio, il suo piano di difesa. Egli tiene in mano il ritratto, e insieme coi suoi due fratelli scende la scala a passi di lupo. Prima che la povera Maria, poco svelta, sia arrivata nello « studio », i tre ragazzi sono seduti su uno scalino a mezza strada tra la soffitta e il piano inferiore. E quando Maria apre la porta e vede, con suo grande stupore, la stanza vuota, ode tre scoppi di risa e tre voci allegre sopra a lei. - Benissimo! - Ti abbiamo sorpresa! Curiosa! - Così imparerai! - La vecchia sale i tre scalini e vede i tre fanciulli. - Oh, mi avete sentito salire? - dice ingenuamente. - Perbacco! - Ti avevo raccomandato di non disturbarmi, - dice Francesco in tono severo. La povera Maria è umiliata. - Io non volevo disturbarvi, signor Francesco. Soltanto, avevq dimenticato di avvertirvi che esco. Tornerò per l' ora della merenda. - Va bene, - risponde Francesco in aria maestosa. - Per questa volta ti

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La giornata finisce tranquillamente, i ragazzi sacrificano a Nicoletta la loro partita di calcio; la faranno più tardi, quando Maria sarà rìtornata, o dopo cena, se sarà ancora abbastanza giorno. Per divertire Nicoletta organizzano una grande partita di steeplechase, lo steeple su tappeto verde regalato dal comandante Grey ai tre fanciulli. E Nicoletta è così estasiata nel vedere il suo cavallo arrivare il primo al palo, attraverso i mille ostacoli del giuoco, e ride con tanto gusto nel vedere Maurizio e Alano sempre perdenti, che i ragazzi non si sono mai divertiti tanto col loro steeple. Soltanto lunedì Francesco, a sua volta, ha una idea e la espone ai suoi fratelli, nel giardino, sotto l'albero grande, dove sono soliti tenere i loro conciliaboli. - Ecco, - spiega - non è necessario che stiamo a casa tutti e tre. Basterà che resti uno di noi.... e propongo che quello faccia tante monellerie da qui a giovedì, che Maria sia obbligata a punirlo privandolo della passeggiata. - I due fratelli sono convinti, una volta di più, che il loro fratello maggiore è proprio un «tipo geniale», come dice Mano. - Bastava pensarci, - dice modestamente Francesco. - Chi di noi? - domanda Maurizio. A questo punto la situazione si complica sempre Maurizio che ha l'abitudine di fare più monellerie degli altri, ma è anche il più piccolo e il beniamino di Maria, e i due più grandi lo sanno. Perchè c' è il caso che Maria gli perdoni tutto per non privarlo del divertimento. - E poi, - aggiunge Francesco - a Maurizio dispiacerà di più di non andare al bosco delle Fate. Per me, invece, fa lo stesso, se rimango in casa. - Anche per me. - Anche per me.... Voglio fare quante più monellerie potrò; - dice Maurizio - ma avevo proprio voglia d'esser buono in questi giorni, ed è molto difficile esser cattivi, quando ce lo dicono.... - Ti occorre qualche ispirazione? - domanda Francesco, serio. - Proprio, - risponde Maurizio, che sdegna l' ironia. - Vuoi che tiriamo a sorte per vedere chi dovrà farsi punire?

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. - Infine, - dice Francesco adirato - sono abbastanza grande, credo.... - E Maria, debole, cede. Essa versa il contenuto della bottiglia in un bicchiere, lo posa sul comodino e scende in cucina. In un batter d'occhio Francesco s' impadronisce del bicchiere e lo porta a « sua figlia». Ne ha versato un po' per la strada, ma ne rimane abbastanza per il gusto di Nicoletta. Francesco la induce a bere. - Non è buona, - dice essa con una piccola smorfia. - Ma ti guarirà. Mia cara Nicoletta, bisogna assolutamente che tu la beva per farmi piacere. - E Nicoletta vuota docilmente il bicchiere. - Fra poco ti porterò qualcosa di caldo.... - Così cattivo? - No, no, molto più buono. E domani sarai guarita. - In due salti Francesco ridiscende da Alano e posa il bicchiere vuoto sul comodino. I due ragazzi sono molto curiosi di sapere se Nicoletta ha preso bene la medicina. - Benissimo, - risponde Francesco. - Ora bisogna che le porti il decotto.... Non so come fare. - Ma trascorre una buona mezz'ora prima che Maria riapparisca, e i fanciulli hanno tutto il tempo di pensarci. Quando essa arriva, con la tazza del decotto, Alano non è più nel letto. - Dov' è il signor Alano? - domanda essa, con stupore. - Dice che è guarito, e che gli è bastato di vedere il dottore, - risponde Maurizio che è rimasto solo. - Non ha preso la purga? Dov' è, ora? - In giardino con Francesco. - In giardino!... - Maria sta per soffocare. Posa la tazza e corre in giardino. Trova Alano, senza Francesco, che corre come un pazzo. Maria è fuori di sè. - Signor Alano! - Alano arriva di corsa e salta al collo della vecchia. - Maria, sono guarito, sono guarito! - E la prende per le mani e balla davanti a lei. Ma essa non ha voglia di ridere. - Signor Alano, avete fatto molto male, - comincia essa. Ma Alano non la, lascia finire. - Come, ti dispiace che io non sia ammalato? Ci tenevi molto che io stessi a letto? - Ma chi mi dice che siete guarito? soltanto per non prendere la purga che fate così. E se dopo vi sentirete peggio? - No, mia cara Maria, non sarò più malato; sto proprio bene; guarda come ballo. - E Alano riesce a trascinare, in un girotondo poco dignitoso, la vecchia Maria che ripete: - Mi domando se è permesso di burlarsi così della gente! - Maria non ha ritrovato la tazza del decotto dove l'aveva messa. Con suo grande stupore Francesco le annunzia che l' ha portata in cucina. - E avete buttato via tutto, - domanda Maria - la medicina e il decotto? - Tutto, - risponde Francesco. Maria ricomincia a dire che non è permesso prendersi giuoco della gente in quel modo. Ma quella mattina i ragazzi hanno l'argento vivo addosso, e Maria non può far nulla. La trattengono nella stanza da studio e la obbligano a giocare come quando erano piccoli. Francesco intanto è scomparso, dichiarando che andava a dare un ultimo tocco al ritratto. - E i compiti? - dice debolmente Maria. - Stamattina facciamo vacanza in onore della malattia di Alano. - E Maria ha ceduto. È così contenta quando i ragazzi ritornano piccini e vogliono giocare con lei! La mattinata passa. Francesco l' ha trascorsa quasi tutta con Nicoletta, che sta già un po' meglio. Essa ammira molto il sacrificio di Mano, che ha rischiato di prendere una purga per lei. - E se Maria l'avesse costretto a berla? - domanda essa. - Non so se l'avrebbe bevuta, - risponde Francesco. - È già una cosa abbastanza noiosa quando si è ammalati. - Oh, sì! - sospira Nicoletta convinta.

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Il giovinetto campagnuolo II - Agricoltura

206084
Garelli, Felice 3 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • Paraletteratura - Ragazzi
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La concimaia sia abbastanza ampia, perchè si possano separare, occorrendo, i letami delle diverse specie di animali, e per non essere costretti a fare il mucchio troppo alto. Abbia il fondo, se non lastricato, almeno in terra argillosa, ben battuta, e resa impermeabile, affinchè il sugo del letame non si perda, per infiltrazione, nel terreno. Questo fondo sia leggermente inclinato da una parte; e nel punto più basso si costruisca una cisterna, o, se il terreno è impermeabile, si scavi una fossa, la quale raccolga il sugo nero, condottovi da un canaletto che gira intorno la concimaia. Si circondi di un arginello di terra che impedisca la dispersione del sugo, e la invasione delle acque esterne. DOMANDE: 1. Che cosa occorre fare per la buona conservazione del letame? 2. Qual è il miglior posto della concimaia? - Come si ripara dal sole, e dalla pioggia? - Quale ampiezza le si dà? - Come dev'esserne il fondo, per impedire la dispersione del sugo, e l'invasione delle acque esterne?

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Infine, quando vorrai trasportare il letame sulle terre, non lo prenderai dagli strati superiori, perchè sarebbe ancora troppo fresco, e non abbastanza fermentato; taglierai invece il mucchio d'alto in basso, e così n'avrai un letame migliore. DOMANDE: 1.Qual è il buon letame? - Quali difetti ha il letame troppo fresco, o troppo vecchio? - 2. Con quali cure devi regolarne la fermentazione? - Perchè si raccomanda di comprimerlo? - Di bagnarlo? - Di coprirlo con terra? - Di tagliarlo d'alto in basso?

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Ma la rugiada, se fa ancora un passo, divien brina; non ha che a provare un freddo abbastanza vivo per gelare. E le brine, specialmente tardive, fan gravissimo danno a tutte le piante, particolarmente a quelle di vegetazione precoce. La neve nei paesi freddissimi ripara il terreno, e i seminati. Le piante, coperte da questo mantello, sono assicurate dal freddo. «Sotto neve, pane». Ma il troppo nuoce; se fonde, e poi il freddo rincrudisce e l'agghiaccia, allora fa danno. Quanto alla gragnuola, tu sai la strage che mena sui raccolti: è una desolazione. Dio ne scampi le tue terre! DOMANDE: 1. Quando l'acqua si dice viva? - Morta? - Quando fa bene? - E quando fa male? 2. L'acqua dell'aria fa sempre bene alle piante? - A quali piante giovano, e a quali fan danno le nebbie? - Le pioggie primaverili? - Le estive? - Le autunnali? - Come giova la rugiada? - A quali piante fa più danno la brina? - La grandine? La neve fa bene? - Sempre?

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Angiola Maria

206997
Carcano, Giulio 13 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Onde i meglio fortunati son coloro che, senza fallire la via, toccano più vicino alla meta; avendo saviezza bastante per vivere in pace con sè stessi, o coraggio abbastanza per soffrire. E anch'essa, la debole creatura, nata solo per amare o per piangere, anch'essa, che vide morirsi d'intorno i più bei fiori della vita, conserva nel cuore un tesoro, la sua rassegnazione e la sua fede. L'angustia del dubbio, il languore dell'abbandono logorano la sua fragile esistenza; pure essa sostiene le prove della sventura, che son lunghe e dolorose, perchè la sventura è fedele. Ella è sola quaggiù, ma Dio è sopra di lei! E l'ultimo sacrifizio che fa un'anima innocente, è il più bello, il più sublime testimonio della virtù abita- trice della terra. - Così la storia d' una vita semplice e giusta può esprimersi in tre parole: innocenza amore e sacrifizio.

Voi siete abbastanza felice, ma io non ho più nessuno quaggiù!... Il futuro c' incalza e trascina, Dio solamente lo conosce: se dunque a Lui piacesse che non ci avessimo a incontrar più su la terra, e se mai l'avvenire vi menasse di nuovo in quest'Italia, non dimenticate mia madre e mia sorella. Confortate, l'una, proteggete l'alba.... Fortunato voi, se avrete questa consolazione di poter dire: - C'è alcuno. che mi ama e mi bene- dice: - Addio! Arnoldo si sentì commosso fino alle lagrime, ma fattosi forza: « Addio! » rispose « virtuoso amico. State di buon animo; spero che ci rivedremo ben presto. Addio! » E, dato di sprone al cavallo, s'allontanò. Due giorni appresso, la famiglia de' Leslie era partita dalla villa, e Maria aveva abbandonato la natale sua terra. La man della fanciulla aveva tremato nell' aprir la lettera di suo fratello; erano poche linee che dicevano: - « Chi deve avere maggiore pena che tu parta di qui, mia cara Maria, è la nostra buona mamma. S' ella dunque vuol farlo questo sacrifizio, e tu segni la tua volontà. La famiglia, nel cui seno ti ritrovi è raro esempio di nobiltà vera e onesta. Ma non ti scordar mai, sorella, chi tu sia! Conserva il tuo cuore; pensa che un cuore come il tuo è una gemma, la quale, perduta una volta, non si ritrova mai più. lo spero, peraltro, che la tua lontananza non sarà lunga: quando ritornerai,fa di trovare ancora nella tua povera casa, sotto il cielo che il Signore t'ha dato, quegli stessi pensieri e quella stessa vita che ora vi lasci. E se mai temi che non sia per essere così, oh! non abbandonare, te ne scongiuro, la tua povertà e il silenzio dell'oscurità nella quale sei nata. Addio, mia sorella! Che il Signore t'accompagni! « CARLO » Caterina pianse nel leggere questa lettera così semplice, ma non ebbe cuore di stornar la figliuola dalla proposta partenza. Maria mise insieme le sue poche robe; e la mattina, nell'andare dall'una all'altra stanza, le pareva che quell'abbandono le pesasse sul cuore, e quel breve viaggio le fosse imposto come una penitenza. La buona madre anch'essa, venuto il momento di staccarsi dalla sua Maria, sentì un segreto dispiacere, quasi un pentimento d'avere accondisceso all'impensata a quella partenza; e le tornarono in mente le parole che ripeteva un tempo il suo pover uomo, quando la signora contessa volle tenere con sè la fanciulletta: - Verrà un.-giorno che ve ne pentirete, e non vi sarà più rimedio! - Ma non disse nulla, e le cacciò via quelle parole, come un tristo pensiero. Nel tragittare il lago, per raggiungere le carrozze del lord, le quali stavano aspettando su l' opposta riva, Maria non potè nascondere l' angoscia che la stringeva, benché non piangesse. Dilungandosi dalla sponda, guardava la madre sua e la vecchia Maria, che dalla soglia della casa le mandavano ancora baci d'amore; guardava la sua finestretta e la pergola del cortile. E certamente, se non era la presenza del vecchio signore, che quantunque buono e carezzevole con lei, pure la teneva nell' imbarazzo della suggezione, avrebbe lasciato libero sfogo alle lagrime. Elisa, guardandola con mestizia, la compativa; Vittorina l'abbracciava, ripetendole le più liete cose che siensi dette mai, per consolare chi abbandona la prima volta i luoghi a cui una vita serena di molt' anni donò tanta e così vera bellezza. Nel tempo di quel tragitto, un giovane barcaiuolo accompagnava il lento batter del remo nell' acqua cori una semplice canzone del suo paese, su andar della seguente: IL COMMIATO. CANZONE DEL BARCAIUOLO.

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Io sono abbastanza felice! » « Di che parli tu mai? la tua virtù, la tua innocenza meritano ben altro premio, e maggiore di quello ch'io ti posso dare. Ma forse dubiti ancora, pensi che io non ti dica la verità!... Oh credilo, Maria, non potrei mentire con te! la sola cosa che m' affanni, è il dovere aspettar tanto ancora a far palese a tutti la mia conversione. Tu non conosci il mondo e le sue opinioni, più dure d' ogni legge; e io non ne ho mai sentito il peso, come in questo momento: mi è forza tacere e nascondere a tutti, e più che ad ogni altri a mio padre, questo segreto che confidai a te sola. Qual ch'essa sia la mente d'un padre, dev'essere venerata, temuta: e io non avrei la forza adesso di andare incontro a tutto il suo sdegno, e più che allo sdegno, al suo dolore; ma presto verrà il momento propizio per rivelargli ogni cosa.... Tu vedesti, Maria, com'egli pensa, come vive: ma non sai che una risoluzione come la mia è per lui un delitto, una vergogna da non esser perdonata mai più a un uomo; tu non sai ch'egli potrebbe fors'anche arrivare a maledirmi! » « Oh! che dura prova le toccherà di sostenere » rispondeva la fanciulla, con atto pietoso. « Ma Dio le ha fatto conoscere la verità. Egli le donerà anche la sua grazia. » « Se tu lo preghi per me, o Maria, Egli lo farà!... Ma intanto non costringere il tuo cuore a rifiutarmi! » « No, no! sento ch' è impossibile.... Devo abbandonarla, devo tornare presso a mia madre. » « Giammai, giammai!... Consòlati, o Maria, e spera! » In quel mezzo entravano alcuni buoni fedeli. Arnoldo s'allontanò dalla fanciulla, e maravigliando quasi di quel severo senso di rispetto ch' essa, con le sue poche parole, aveva saputo destargli nel cuore, turbato e incerto, uscì della chiesa. Maria restava tuttavia inginocchiata. S'udì il secondo, poi il terzo tocco della campana; il sagrestano ricomparve, e accese le lampade e i ceri dell'altare. Il piccolo tempio, a poco a poco, s'affollò di modesta e buona gente, venuta dalle soffitte, dalle botteghe, dalle cure casalinghe, dal lavoro a ringraziare il Signore; anime contente e semplici, a cui la fede non manca mai, perch'è necessaria alla loro vita, come la fatica delle braccia. Echeggiò la volta della chiesa delle sacre litanie , e il fumo dell' incenso avvolse con l' odorosa sua nube I' altare. Il popolo era d' ogni parte divotamente inginocchiato sul nudo terreno; la sua orazione fu breve e rozza, ma incera; e il sacerdote la benedisse in nome del Signore. Tutti se n' andarono; la chiesa tornò vòta e oscura; e Maria era ancora prostrata in umile, fervida preghiera. L'anima sua, nella pace di quelle sante pareti, abbandonò la memoria de' giorni dolorosi da lei passati, e quella stessa timida e vereconda speranza che faceva l'unico suo bene su questa terra; domandò a Dio di vivere pura e senza rimorso com' era stata fin allora, e nelle sue mani pose la propria vita e tutti gli affanni che a Lui fosse piaciuto di mandarle. Poi disse le sue orazioni della sera, con quell'ardente affetto, con che le ripeteva ne' primi anni della sua fanciullezza; e non dimenticò il nome della madre lontana, nè l'anima benedetta del padre suo. Una fiducia mesta, ma pur soave, e una consolazione che non era di questa terra, furono quasi benefica rugiada al cordoglio della sua vita debole e combattuta; la sollevarono, e la fecero ritornare alla pace della sua mansueta virtù. Quando si rilevò, s'accòrse d'esser sola nella chiesa; e in quella, il sagrestano le s'accostò, per avvertirla che l'ora di chiudere le porte era venuta. - Uscì chetamente, ma appena trovossi in mezzo della via, in quell'ora insolita, e intese il noioso frastono ch' empie le strade al cominciar della notte, smarrita tra l' ombre fitte che le pareva di vedere agitarsi, e tra lo smorto chiarore delle lanterne che tremolava in mezzo alla nebbia, quasi non sapeva a qual parte indirizzarsi. Per buona ventura, la casa non era lontana, e si sforzò di raddoppiare i passi e il coraggio. Ma il giovine amante, che poco lontano l'aspettava, appena la scòrse uscire della chiesa, le si mise dietro a breve distanza, e la accompagnò fino a casa. Nè Maria se n' avvide; tutta ricreata de' suoi nuovi e tranquilli pensieri, e nella sua gioia nascosta, ella confidava di poter essere ancora felice.

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Seduta sovente al tepido sole delle mattine d' inverno, sotto la nuda pergola della casa, con la conocchia fedele, pensava alla povertà, alla pace, raccontava la storia d'altri anni, raccontava quella dell' avvenire; felice abbastanza quando parlava della sua bella Maria, o del suo curato, alla Marta che le sedeva rimpetto, pettinando le matassine del lino. E allora, senz' avvedersene, le due comari s'arrestavano dal, lavoro; all'una spezzavasi il filo della conocchia o cadeva di mano il fuso, all'altra si perdeva il lino nelle punte del pettine. Ma entrambe, in que' momenti, sollevavano al cielo gli occhi e il cuore, con un pensiero più santo d'ogni preghiera, del pari benedetto. Ma ora che diversi pensieri, che mutamento La mamma Caterina, per tutto quel dì, e per molt'altri ancora, non volle ascoltar ragione, nè consolazione, nè speranza, non domandava che suo figlio, non voleva che vederlo. Anch'essa, come prima aveva fatto Maria, figurandosi alla mente angustie e spaventi, s'abbandonava a' più tristi presagi, non porgeva più orecchio a nulla, nemmeno al piangere della figliuola. Fu allora che l'amorosa fanciulla, la quale innanzi alla venuta della madre credeva di non poter sostenere l' affanno di que' giorni, si sentì tutta invigorire. Una virtù, ignota a lei fino allora, la costanza del patimento, le raddoppiò il debole coraggio; ma la sua fermezza, la calma delle parole e degli atti, avrebbero dimostrato più crudele il martirio dell'anima a chi avesse potuto vedere il suo segreto. Soffogava le lagrime; e ne' momenti di maggior dolore, la sua voce si faceva più sicura e più affettuosa: l' avresti veduta sorridere; era un riso malinconico il suo, ma celeste. In que' giorni, sempre da uno stesso travaglio misurati, che fanno parer eterna la vita, così Maria con l' amor suo procacciava d' ingannare alla madre le ore contate dall' afflizione; ragionandole di tante cose passate, della loro casa, della vigna su la costa, della vecchia Marta, degli altri amici del paese. E ringraziava il cielo con tutta l' anima, solo che vedesse le sue parole avere temperata per poco l' amarezza della sciagura presente. Così ella nascose nel fondo del cuore tutta la sua parte d' affanni; così comprese e tolse sopra di sè quel dolore inesprimibile, che solamente al cuor delle madri non è un mistero; quell' angoscia, la quale non trova parole, nè lagrime, perchè ha de' segreti che a umano orecchio non possono confidarsi e che il cuore altrui non ha mai conosciuto. Non, v' è piaga quaggiù che il tempo non sani; l' abitudine stessa del soffrire può talvolta diventar quasi cara e necessaria; l' amore, l' ambizione, la vendetta, il rimorso lasceranno pur una volta in pace l' anima di cui han fatto strazio; ma la ferita ché porta il cuor d'una madre per a mai e de' figli suoi, non v' ha balsamo che la medichi, non felicità nè tempo che vi spargano sopra la mesta consolazione dell' obblio. Così, abbandonate, e senza saper nulla mai di quel loro caro, Caterina e Maria trascinavano giorni e settimane, in casa della vedova; la quale, dal canto suo, non aveva potuto far di meno di tenerle con sè qualche tempo ancora, quand' esse, deliberate d' aspettare che fosse decisa la sorte del prete, ne la pregarono, a patto di pagarle trenta soldi al giòrno, per le spese. Ciò veramente andava poco a' versi alla Giuditta, causa la paura di cert' altre visite della specie di quella prima, da lei non ancora dimenticata; ma poi, per amor di bene, non seppe dir di no. Una mattina, erano uscite di buon' ora le due donne per andare insieme a vendere a qualche mercante di mode un velo nero trapunto, in que' dì solitari e mesti, dalla Maria: poichè era essa, che col lavoro delle sue mani sosteneva anche la madre. A caso capitate presso la piccola chiesa di san ***, la Caterina, la quale non lasciava passar giorno che non andasse a pregare il Signore per il suo povero figliuolo e per sè, si rivolse a quella parte, e fece per entrar nella chiesa. Ma d' improvviso la fanciulla, tutta compresa dal terrore d' una funesta ricordanza, le s' era stretta al braccio, trattenendola, e con voce bassa e supplichevole: « Oh no! madre mia, non andiamo in questa chiesa; non devo, non posso entrarvi più. » « Perchè, Maria, perchè?... Cos' hai? tu tremi, diventi smorta! ti senti male? » « No! mamma, è un segreto.... un segreto che nessuno doveva conoscere! se sapeste che in questa chiesa.... O mio Dio, toglietene per sempre dal mio cuore la memoria! » « Maria, che mistero è questo? parla, dimmi.... » « Qui no, no, cara madre.... torniamo a casa, ve ne prego, e vi dirò tutto. Oh povera me, povero mio fratello! » E tornarono a casa. In quel giorno Maria non trovò parola che potesse spargere un po' di serenità su l' addolorata fronte della madre. Attendeva taciturna a' suoi lavori,

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E si tenne abbastanza fortunata, chè almeno in quell'oscura vita nessuno le avrebbe rimproverato il dolore, la sua misera condizione; nessuno sarebbe venuto a ripeterle all'orecchio una maledizione all' infelice fratello suo. Così aveva passato già sei mesi nella povertà e nel lavoro, paziente e tranquilla. Era come fosse già morta per tutti; nessuno che domandasse il suo nome, nessuno che le dicesse una parola amorosa, o le avesse chiesto mai il perché della sua tristezza. Anche la signora Giuditta, da prima così premurosa, così affannosa', pareva averla di- menticata; poiché, appena le venne fatto d'appoggiare altrove la fanciulla, non si lasciò più tampoco vedere. Non già ch'ella fosse senza cuore, ma voleva respirare da quel gran trambusto avuto in poco tempo, ché non s' era figurato mai potesse succeder tanto al mondo a una donna. Maria però era venuta più d'una volta a visitarla, perché già non avrebbe potuto dimenticar mai il più piccolo bene a lei fatto; e poi, quel luogo era stato l'ultimo asilo della madre sua, innanzi che l'avessero portata via, all'ospedale; era là, che il suo Carlo l'aveva condotta in un giorno di fatale disinganno; era là, che essa l'aveva veduto l'ultima volta. L'onesta crestaja la teneva in casa sua, avendole destinata una cameretta buja, a mezzo la scala, che prima serviva di ripostiglio, e che rispondeva sur un cortiletto angusto e uggioso. In quel bugigattolo altro non c'era che un cassettone, un letto gramo e basso, o piuttosto uno sdrucito materasso gettato su due panche nane, e un piccolo scanno nella stradetta fra il letto e la parete. Una luce morta, rabbujata dal colore delle tettoje all' intorno, calando a traverso dei piccoli vetri verdognoli della finestra inferriata, dava a quell'umide pareti un aspetto più tristo ancora, e quasi di carcere. Eppure la buona orfanella, quando si trovava, nel misero asilo, dove poteva pensare o piangere non veduta, credeva ancora di esser libera; essa, che un tempo temeva, di restarsene sola, allora cercava, amava il silenzio e l'ora solitaria. E quando, dopo l'assiduo lavoro della giornata, ritornava alla tarda sera nell'abbandonata cameretta; e quando, in ginocchio, a fianco del suo letto, chino il viso su le povere coltri, offeriva al Signore il giorno ch'era passato, il Signore allora spirava in quell'anima verginale l'alito della rassegnazione e della pace. E poi, ella coricavasi col cuor libero, con la mente serena, dormiva ancora i soavi sonni dell'infanzia. E l' angelo custode vegliava certamente sopra il capezzale della fanciulla. Così dunque Maria aveva passato que' sei mesi. E nel giorno de' morti, era venuta su la fossa della madre, fra i poveri e i buoni, a portare anch' essa il tributo della sua orazione a quel Dio che benedice il dolore prezioso de' piccoli, e rasciuga le loro lagrime.

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Quei contadini erano buona gente, marito e moglie, - quali menavano vita abbastanza contenta nella loro povertà; perehè il poco che avevano era anche di soverchio per essi dopo una recente disgrazia, quella d'avere veduto morire prima di loro l'unica figliuola, una poverina di quindici anni. E appunto la memoria della perduta figliuola rinacque al medesimo momento in cuor dell'uno e dell'altra, appena Maria apparve loro innanzi. Il suo bianco volto, gli occhi grandi e intenti, l'andar faticato, tutto fece quasi credere a quelle due buone creature che fosse l'anima della loro Margherita, la quale tornasse ancora una volta a visitarle: era l' illusione d'un dolore ancor vivo; il ricordarsi ch' essa pure, la Margherita, soleva così in compagnia del vecchio cane tornarsene spesso dal vicino chioso, ov'era stata a far pascolare la sua vaccherella. La ricoverarono dunque come fosse stata veramente la loro figliuola, e la fecero sedere nel canto del focolare; poi, intanto che il bravo compare le poneva dinanzi una scodella di latte fresco e un bel pezzo di pane raffermo, dicendo esser tutto quanto restava loro per quel dì, la sua donna traeva di dosso alla fanciulla l'umido sajone che le copriva la testa e le spalle; e, accarezzandole i neri capegli, li rasciugava dalle gelate goccie di che erano stillanti ancora. Questa premura affettuosa, queste carezze furono un balsamo. per il cuor di Maria. Un' ora di poi, essa abbandonava la casupola ospitale, seguita dalla sincera compassione, dagli augurii di quelle due buone creature; e persuasa che il Signore, il quale l'aveva prima fatta incontrare coli' onesto cavallaro, e poi condotta alla casa del contadino dabbene, l'avrebbe accom-pagnata nel resto della via. E ben s'era anche il buon cala pagnuolo profferto di venirle dietro, per un tratto di cammino; ma essa, che già non sapeva come dimostrargli la sua riconoscenza, non volle a qualunque modo ssentire, e si rimise sola per il suo sentiero. Pure, appena uscita, vide che il vecchio cane del casolare l'aveva preceduta; e giunta poi dove la strada faceva svolta al basso, lo scorse ancora sopra un'altra ripa, ov'erasi fermato, e donde la seguì per gran tempo cogli occhi, finehè si fu dilungata. La via s'avvallava, facendosi di tratto in tratto più lubrica e difficile: fuor dalle gole dell' alture vicine soffiava cruda e sottile la tramontana; pure, alla fanciulla, quell'aria spirava benedetta e salutare, perchè veniva dalla sua terra natale, e pareva dirle che dietro alle folte nebbie di che essa vedevasi circondata, erano le creste delle sue montagne, le care acque nelle quali si specchiava il suo paesello. Al piede di quella scesa, attraversava un rustico ponte gittato a cavallo d'un torrente, che coll'onda grossa e limacciosa rodeva i margini della riva: un uomo era seduto a un capo del ponte, sur un masso di tufo, che forse l'urto delle piene estive aveva roveschiato. Era un vecchio mendicante, con la bisaccia vuota in collo e un giubbone di lana rattoppato, alla foggia dei montanari; stringendo a due mani un nodoso bastone, se lo teneva piantato dinanzi e appoggiava al vertice di quello la testa contornata di radi e canuti capegli e di una barba grigia e irta. La fanciulla s' arrestò in faccia del vecchio, e con un senso di profonda compassione tolse fuori una moneta d'argento, unica a lei rimasta, che appena sarebbe bastata a procacciarle qualche soccorso lungo la via; e la lasciò cadere nella palma callosa e tremante che in quel momento il povero le tese. Egli fissò gli occhi con meraviglia su la moneta, poi li levò con espressione indicibile sul volto della fanciulla, confuso e in atto di dubbio e d'inchiesta. « Ditemi, buon vecchio, » gli domandò allora Maria, « è questa a mancina la buona strada per Como? » « Sì, tenete per di là; dopo un duecento passi vi troverete sulla strada maestra, poco lontana dalla Camerlata.... Ma dite, la mia buona giovine, non avete paura d' andar sola a quest' ora, in una stagione così fatta? » « No! mi son messa alla volontà del cielo; e pregatelo anche, voi per me.... » « Oh pensate! anzi, se non fossi vecchio e stracco come sono, vorrei farvi compagnia; sono incamminato anch' io verso Como; ma fiacco e malato qual mi vedete, dopo aver fatte venti lunghe miglia sotto la neve, appena potrò prima di notte tirar innanzi fino a quella cascina ch' è laggiù. » « Vi ringrazio della buona intenzione; ma devo andarne ancor molto lontano, e si fa tardi. Addio! » Ripigliò il cammino, e ben tosto trovossi all' imboccar della strada maestra. A mano a mano che progrediva, il nebbione si levava più denso e cupo, stillando umidi e crassi vapori nell'aere gelato. Già non era più di due miglia lontano della città; e qualche viandante, povero coni' essa, e alcune carrette e calessi tenevano quella via. Sicchè ella si sentiva battere il cuore più sicuro di prima, quando camminava sola per la strada di traverso. Passò davanti al portone d'una vecchia taverna dalle muraglie sgretolate e tutte nere di fumo che spiccavano sotto le tettoje biancastre per la neve caduta: il carro d'un mulattiere era sotto il portone, e dalle grate di legno delle finestre usciva a lampi il chiarore d'una gran fiamma rossiccia. S' udiva, ora distinto, ora confuso, uno strepito di voci, un alto e sonoro scrosciar di risa: la fanciulla tremava di freddo e continuava la via, seguendo intanto con l'anima la storia de' suoi mesti pensieri. Non molto dipoi, il suo orecchio fu percosso da un rumore di ruote e di cavalli; e quel carro, da lei veduto sotto la porta dell'osteria, le passò vicino: lo conducevano due giovani e robusti mulattieri; uno de' quali, seduto di traverso su la schiena d'un vigoroso mulo, cantava a piena gola, sur una rauca e strana solfa; l'altro camminava a fianco del carico, traendo spesse boccate di fumo da una corta pipa di gesso che teneva inchiodata in un angolo delle labbra, e facendo agli orecchi delle bestie chioccare a grandi scoppi la grossa scuriada. Quando i due ebbero adocchiata la fanciulla, cominciarono fra loro a parlarsi in un rozzo gergo, alternando certe risa sguajate e certi atti misteriosi, che la giovinetta ne raccapricciò tutta, e più stretto si chiuse sul viso e sul seno il rozzo panno che la copriva, rallentando i passi per rimanere indietro. Ma un d'essi, mettendo fuori un aspro gorgheggio che somigliava all'urlo d'un mastino, attraversò d'un salto il fossatello che lo divideva dal sentiero dov'era Maria, e le si piantò dinanzi, ficcandole nella faccia gli occhi arditi e travolti. La fanciulla gelò, arretrandosi con involontario ribrezzo, chinò la testa e si nascose il volto con le mani; l'altro allora, al quale era cosa nuova quella paurosa modestia, le si fece incontro più audace, e con un motto vergognoso, che ripetè per la buona intenzione di calmare gli scrupoli della giovinetta, le profferse di far la strada in compagnia. Ella non rispose; ma d'improvviso, volte le spalle allo sfacciato, cercò di salvarsi dalle sue mani fuggendo: il terrore le dava l'ale, ma il giovane la seguiva, la incalzava; e l' altro mulattiero, veduta la scena, balzò dalla groppa della sua cavalcatura, e correva anch' esso in ajuto del compagno. Maria ansante, affannosa, fuggendo, guatava per ogni parte se alcuno giungesse: e nessuno si vedeva. Già i due le stavano sopra, e con avide braccia, come una colomba che due falchi si contendano, già l'abbrancavano; quand'ecco un uomo sbucar fuori da una viuzza della campagna: era il vecchio mendicante da Maria incontrato al ponticello del torrente. Costui la vide, corse, gettossi tra la fuggitiva e i due inseguenti, e strinse al suo seno la sbigottita fanciulla, con un braccio che l' ira fece ancor forte, nel tempo stesso che levò l'altro arwaio del nodoso bastone, minacciando di rompere fossa al primo che si fosse avvicinato: tutto fu un istante. I due compagni, sorpresi dall' imbarazzo, si guardarono in faccia un l'altro; ma il vecchio, con ferma voce, gridò: « Non fate un passo, birboni, e tornate per la vostra strada! Io non ho paura di voi; voi accopperete me, vecchio come sono, prima di toccare a questa fanciulla la punta d'un dito! » « Cos' ha mai questo demonio di vecchio? » disse uno allora; e l'altro: « Malann' aggia il dannato che guasta il fàtto nostro! Come c'entri tu, vecchia tramoggia dismessa? Va al diavolo, che t'aspetta, o t'avrai a pentire! » E tutt' e due intanto fecero per iscagliarsi sul mendicante, e strappargli di mano il bastone, ch' egli teneva ancora sollevato in atto di minaccia su le loro teste. La giovinetta aveva gettato le braccia al collo del suo difensore, e a lui si teneva stretta, avvinghiata. « Lasciatela stare, per Dio! » il vecchio riprese con accento disperato; « lasciatela stare.... È mia figlia!... » Queste parole fecero uno strano effetto sulle anime rozze ma schiette de' due garzonacci: l'accorta menzogna, che la stretta del pericolo suggerì al pover uomo, fu quella che salvò la fanciulla dallo scellerato insulto. « È mia figlia! » rèplicò l' animoso vecchio, e la sua nuda fronte si corrugava, ardevano gli occhi, e tutte le sue membra per lo sdegno tremavano. I due giovani si trassero indietro, celti da un cotale istinto di vergogna che non sapevano spiegare a sè stessi; su que' volti foschi, e fortemente scolpiti, lo sfacciato ardimento aveva ceduto il luogo a un insolito senso di compassione che li faceva stupidi e muti. Alla fine: « Andiamo, Anselmo! » disse uno: « questo non è pane per i nostri denti; e voi, galantuomo, perché non l'avete detto alla prima, ch'era vostra figlia?... Non avete a far, con degli assassini; vi sareste risparmiato a voi l'incomodo d'alzare il bastone, a noi il rischio di rompervi le corna. » Ciò detto, voltaron le spalle; e, pigliatosi a braccio un l'altro, se n'andarono zufolando di concerto, per tener dietro a' muli che avevano perduto di vista. « Sia ringraziato il Signore! » disse il mendicante, appena si furono allontanati, « che m'abbia mandato l' inspirazione di continuare la strada; io son vecchio, è vero, ma mi ricordo d'altri anni, d' altri tempi.... e, per l'anima! vi giuro, che, a costo di questi quattro dì che mi restano di vita, quegl'infami non avrebbero ardito non solo di torcervi un capello, ma nemmeno di dirvi una parola di più.... Or via! andiamo, io mi sento bene; la mia forza antica mi è tornata in corpo, e voglio venire con voi, fino laggiù alla città. » La fanciulla lo guardava con una tenerezza soave, dalla quale traspariva tutta la gratitudine d'un' anima pura, che non sa trovar parole per esprimere quello che prova. « Creatura del cielo! » continuava il mendicante, « voi avete stesa la mano al povero vecchio, voi avete spartito con lui forse l'ultimo vostro pane. Poco fa, quando là sul ponticello vi siete fermata dinanzi a me, e con atto di compassione m'avete guardato, io ho veduto spuntare una la- grima su' vostri occhi; era tanto tempo che non incontravo una faccia pietosa!... Adesso, sono un povero diavolo; ma anch' io sono stato un uomo, e ho vissuto giorni ben diversi.... Oh! ma allora, in vece di questo giubbone, io portava la divisa gloriosa del soldato, e aveva veduto più di trenta battaglie, io odorava con gioia il fumo del cannone; e queste mani, che adesso vedete tremare, hanno piantato una delle bandiere di Napoleone, là sui tetti delle case di Smolensko, in mezzo ai ghiacci della Russia!... Ma oramai tutto è finito da tanto tempo, e nessuno sa più nemmanco chi io mi sia.... Voi sola m'avete consolato con un'occhiata d'amore; siate dunque benedetta! » Maria s' era appoggiata al braccio del vecchio; e alternando parole di conforto al racconto delle loro vicende cosl diverse, ma dolorose del paro, continuarono a camminare in compagnia, fino a che giunsero presso alla città. Qui si fermarono, si separarono: Maria, con un senso di riverenza e d'affetto, strinse la mano della sua guida, quella mano arsa e callosa che poco prima s'era levata in sua difesa, e a malincuore si congedò dal vecchio mendicante, che più non doveva rivedere. Battevano le quattr'ore di sera sulla torre d'una chiesa del sobborgo di Sant'Agostino, quando la giovinetta, sola un'altra volta e sostenuta dal suo cuore, l'unico amico fedele che rimanga agl' infelici, prendeva la via della montagna; sperando pur di potere almeno arrivare presso al suo paese, prima che la notte fosse venuta. Pensava che le sarebbe stato impossibile trovare in quell'ora una barca che ve la tragittasse, tanto più che non le era nemmeno avanzato di che pagarne il nolo; e poi, il timore d'esser conosciuta, e la ripugnanza che sentiva a mettersi di nuovo in mezzo alla gente per le vie oscure ed anguste della città, le accrescevano la sicurezza di poter giungere egualmente dalla parte di terra al termine del suo viaggio: era quella la strada del suo terreno nativo, e l'aveva trascorsa più d'una volta, fin da fanciulla, in compagnia del padre suo. L'alpestre cammino era disagiato e rotto, ma i passi della fanciulla eran rapidi e sicuri; un segreto coraggio la sosteneva, dicendole che dopo un' ora di via sarebbe finalmente giunta al luogo della sua pace, a quel ricovero così sospirato e pianto, dove oramai aveva poste le sue poche speranze, tutta la sua vita. La poveretta si pasceva, camminando, di queste pure idee consolatrici; e mentre continuava a salire su per la difficile erta, pareva che la ricordanza de' suoi mali recenti andasse dietro a lei fuggendo, svanendo a poco a poco, come l'angustia di un pericolo già passato. Domandava a sè medesima, se la vecchia Marta fosse ancor viva, se l'aspettasse ancora, se l'avrebbe stretta nelle sue braccia, se le avrebbe perdonato e tenuto luogo di madre. In mezzo a queste immagini, la cui amarezza era temperata dalla fiducia, Maria non s'accorgeva dell'asprezza della strada, e le sue gracili membra portavano con alacrità l'insolita fatica. Di poche e rade traccie umane eran tocche le nevi di quelle dirupate rive; il fianco della montagna, tagliato a mezzo della via che conduce da uno all'altro di que' sette miserabili e oscuri villaggi, i quali si chiamano con superbo nome le sette città di Blevio, presentava in tutta la sua nudità lo squallor dell'inverno, che aveva fatto quasi impraticabili i sentieri e le coste. Macigni rovinati di recente, e ricoperti tutti dallo stesso manto di neve; alberi conquassati dagli eterni rovaj, minaccianti di rovesciar su la strada, co' rami più annosi squarciati, che crepitavano al più leg- giero soffiare del vento; e gore d'acqua putrida, ghiacciata, ov' era rotta o fessa la terra; e giù giù, per il dosso della montagna, boscaglie nude, stecchite, e rigagnoli di nevi squagliate: vecchi torrenti che trascinavansi dietro ceppaje sbarbicate e lembi di terreno lacerati dall' impeto del gorgo, poi con impeto si dividevano, si moltiplicavano, saltando per le rapide balze e rovinando per entro le scoscenditure e le frane con uno scrosciare dirotto, solo strepito che sturbasse la sepolta natura; e al basso, in fondo, spiccante col suo cupo colore, sotto il cielo torbido, bruno, e sotto ai monti tutti bianchi, la verde e muta acqua del lago. Intanto era sopraggiunta la notte; e, dopo molti pericoli e molto terrore, Maria aveva attraversato l'ultimo di que' sette villaggi. Passando, non vide che il riflesso di qualche tardo lume, dietro il pertugio ingraticolato d'una casipola; non aveva incontrato che due o tre montanari, i quali, senza badare a lei, s'erano perduti per le tenebrose callaje del paese. Cominciava a spirar di nuovo la tramontana, a fioccar più larga e più folta la neve, sbattuta dal vento, che fischiava rompendosi contro ai dirupi e sollevava nei suoi vortici quella già caduta. Più d'una volta la fanciulla, la quale infiacchita, affranta dal crudele viaggio, reggevasi a stento, sentì mancarsi sotto i piedi il terreno, e alzò uno strido di spavento, uno strido che l' orrida solitudine lasciava senza risposta; più d'una volta con disperato sforzo si mise a correre a tutta lena su la perigliosa via, a fianco de' precipizii, sul margine de' sdrucciolevoli massi, come per salvarsi dal turbine che pareva inseguirla; e poi af'annosa, anelante e credendo veramente di morire, s'avvinghiava con le deboli braccia al tronco d' un albero, alle punte d' uno scoglio. E il vento quasi si facesse giuoco della misera creatura, come di gracile canna, or la incalzava e or la respingeva imperversando: nella foga del correre contro la furia dell'uragano, essa aveva perduto la mantellina che la copriva: e, a ogni buffa del vento, le sue trecce sciolte le sferzavano sul candido collo e sul viso livido, agghiacciato. Poi tornava a camminare, e sollevando di sopra il capo le mani strettamente intrecciate, sembrava tra l'orror della paura e il gemere della preghiera domandasse al cielo la morte come una grazia; stanca la vista le si appannava, le si confondevano nella mente gli stessi pensieri di terrore, e già più non sapeva dove ella fosse. Alla fine, il sentiero cominciava a calar al basso, e in mezzo al fosco della notte e allo smorto biancheggiar delle nevi, parve a Maria di vedere un filare d' alberi, un muro, una casa.... A tentone seguiva la guida di quel muro, e trovavasi in faccia d'un cancello chiuso fra due cadenti pilastri. Appoggiò la fronte alle fredde aste del cancello.... e riconobbe il campo santo del suo paese; credè perfino discernere il mucchio di terra dov' era sepolto suo padre e la croce coperta di neve che lo proteggeva. Allora si mise devotamente inginocchioni su l' entrata del sacro terreno; e da quella scena di morte richiamata d' improvviso ai pensieri della vita, pregò, pregò a lungo.... Ma il disagio patito, la dolorosa via, l'angoscia e il rimorso le piombarono in quel punto su l'anima, la quale forse più non era attaccata che per un filo all' esistenza. Ella abbrividiva, si sentiva sfinire, ardeva, gelava nei momento stesso.... Non ebbe più forza di tenersi al cancello che aveva abbracciato, e lasciandosi cader giù lentamente su l'agghiacciato terreno, giacque come morta. Un' ora di poi lo scalpitare d'un cavallo turbava il silenzio mortale di quella desolata riva. La notte era già alta; l'uragano cessato; solo testimonio di vita era il fremito indistinto del lago, che si rompeva alla sponda col monotono spumeggiar del fiotto. Il giovine cavaliero, ravvolto in un corto mantello, pareva disprezzare tutto il rigore della stagione, consolarsi quasi nel respirare l'aria asprissima della montagna. Egli aveva abbandonato le redini sul collo del cavallo, che con passo lento e stanco discendeva per la china. Allorchè giunse vicino al campo santo, il suo sguardo cadde a caso sopra qualche cosa d'opaco che spiccava sul bianco terreno. Raccolte le briglie, fè volgere il cavallo a quella parte, e curvandosi sulla sella vide, al debole chiaror della neve onde appariva coperta ogni cosa all' intorno, una misera creatura la quale pareva svenuta o estinta; pensò che fosse colà venuta dal paese a pregare per i suoi morti, e che la crudezza del freddo o l' imperversar dell' uragano l'avessero ridotta a quegli estremi. Il cuore gli tremava forte; fermò il cavallo, scese di sella; poi, chinatosi sul terreno presso quella salma assiderata, riconobbe ch'era una povera giovinetta: sorreggen- dola sulle braccia egli la sollevò alquanto, e la sostenne inginocchiato com'era, sì che la testa grave e cadente dell'estinta si rovesciò su la sua spalla. Allora avvicinò il suo volto alla bocca dell' infelice, per conoscere se un alito leggiero di vita scaldasse ancora quelle membra immobili; fissò gli occhi sovr' essa; ma al primo guardare nulla vide, nulla distinse, quasichè l'anima sua non avesse più senso.... Tornò a fissar quella fronte, que' labbri, que' cigli, ogni fattezza.... Un brivido gli corse per tutte le vene, e si sentì trapassar il cuore come dalla fredda lama d'un pugnale.... Arnoldo l' aveva riconosciuta.

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gli occhi di chi ha molto sofferto leggono in fondo ai cuori, da cui non sono amati, abbastanza per poter piangere ancora. E poi, viene il tempo il più amaro. L'uomo che prima era l' amico, il fratello, il padre suo, il suo tutto, non la guarda più come in quel giorno, in quel giorno felice che nasce una volta sola, e non torna più; non le chiede più di quelle parole che, un tempo, facevano la sua gioia, il suo conforto. Egli è un uomo fatto, un cittadino; ha la gloria che lo chiama, la vita che gli comanda, la società che l'accarezza, il mondo che lo guarda.... Egli non è più solo, come in quel giorno così bello! « Maria, Maria, che cosa dite mai? » « Ah! lasci ch' io sfoghi tante cose che da gran tempo porto nel cuore! Quella poveretta che sente non essergli più necessaria, quella, che quasi un fiore per un giorno gli piacque, non è più la medesima.... Ella tace sempre, piange spesso; ed egli volge indietro la testa, cerca altri fiori più freschi, più belli, perché l'uomo ha sempre bisogno della bellezza.... Oh mio Dio! quest'angoscia non basta sola a farla morire di dolore? E il dubbio che l'accompagna sempre, e il timore di proferire una parola sola che lui dispiaccia, l'affanno segreto di sentirsi così piccola cosa a paragone di lui, e fin la grandezza dell' amore che gli porta, di un amore ch' egli con un solo pensiero può maledir per sempre.... » « Non più, Maria, non più!... Ecco, era una speranza del tutto vana la mia, e voi spezzate quasi l' ultimo anello di mia vita.... Tu, o Maria?.., tu, la più bella, la più santa creatura del Signore, l'unica luce ch' io avessi ancora, puoi abbandonarmi? Abbandonarmi, quand' io, per amarti, ho dimenticato patria, parenti, nome, tutto?... Cielo! dunque la virtù ch' io cercai, altro non era che un delirio, la poesia de' vent' anni, l'incanto d'una primavera? Bisogna che sia così. E ora che farò?... Tornar nei mondo, gettarmi in questo vortice di cose, nell'ebbrezza della passione, nella vita del momento; sì, ridere delle lagrime che si versano da per tutto, e di quelle che farò versare anch' io; e a quanti mi rinfacceranno di non creder più a nulla, nemmeno alla virtù dire: Gli uomini m'han voluto così! peggio per loro. » Maria raccapricciò a codeste strane parole, chinò la fronte e impallidì. Arnoldo la guardava quasi sdegnoso, e levandosi a un tratto, mosse per allontanarsi. « Si fermi, signor Arnoldo, » proruppe la sbigottita fanciulla, « e non mi lasci in questo modo.... Io le ho parlato come una povera giovine onesta, ho fatto il mio dovere. Lei non sa, non vede il mio dolore, ma soffrirei ben di più se non avessi coraggio di parlarle col cuore in mano. La grandezza, la felicità che mi vuol dare, non sono fatte per me: questi due anni della mia vita non saranno stati altro che un sogno, ma il più bello di tutt' i miei sogni!.. Quando penso a queste quattro mura, dove sono nata, dove per tanto tempo sono stata felice anch' io.... quando penso a mio padre, a mia madre, a mio fratello.... Oh se vivessero ancora.... non mi avrebbero certamente benedetta! » « Se que' buoni vivessero ancora, vorrei metter la nostra sorte nelle loro mani. E anche lui, vostro fratello.... » « Il povero Carlo!... Ah se sapesse com'egli pensava e

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Cosi si sentiva abbastanza felice, perchè persuasa e contenta d'aver compito il suo dovere. Innocente e sublime creatura! Essa aveva compito il suo sacrifizio. Al cominciar dell'altro inverno, que' fatali indizii d'una lenta consunzione, sopita per poco tempo ma non vinta, tornarono a spiegarsi; e il dottore, che di quando in quando capitava a visitarla, s' era subito accorto della funesta verità. Pure Maria trascinò i suoi giorni per tutta l' invernata. A poco a poco, ella si consumava, finiva, senza temere di nulla, senza patire. Dio è sempre pietoso, e volle risparmiarle l'ultima angoscia. Le fanciullette sue amiche venivano ancora quasi ogni dì a tenerle compagnia; qualche tolta, alcuna d'esse, la più grandicella, le domandava perchè fosse cosi pallida e dimagrita, e nel domandare pian- geva.... Ma ell'era rassegnata; nè fu udita mai pronunziare un solo lamento; chè anzi, assorta talora in dolce meditazione, le sue labbra s' aprivano a un tranquillo e celeste sorriso. Tornò la primavera, tornò il bel sole, tornarono i fiori; ma il cielo non fu più sereno, nè l'aria ebbe più balsamo per lei. Oramai, ella non sorgeva più dal suo letticciuolo. Al principio dell' aprile, in quel giorno stesso che, un anno prima, aveva veduto partire Arnoldo, ella restituì l'anima pura al Creatore. E le fanciulle da lei tanto accarezzate, e la Marta, alla quale lasciò la sua casetta, e quel buon galantuomo del signor Gaspero, che sempre le aveva voluto bene, furono i soli che l'accompagnarono l'ultima volta fin al luogo del suo riposo. Ella è sepolta presso a suo padre; e quelle due zolle sono protette da un' unica croce. Alcune settimane dopo la morte di Maria, il signor Gaspero stava leggendo agli amici le novità della gazzetta: sedevano a circolo su l' entrata della bottega di Samuele; poichè, al venir della state, l'aristocrazia del paese, come i capi delle tribù indiane, soleva tener consiglio a cielo sereno. Dunque, fra le altre novelle, sotto la data di Londra, egli lesse questa: « - Sir Arnoldo, figlio di lord Leslie, quello stesso la cui conversione alla religione cattolica menò gran rumore l'anno passato nel bel mondo, fu eletto membro del parlamento pel borgo di ***. Si pretende che l'onorevole baronetto deva condurre in isposa una sua cugina, la bella e ricca erede di lord S.... miss Elena Davison. » Il buon vecchiotto continuò a leggere; nè a lui, nè al dottore (il quale però conservava ancora, come reliquie, certe tre quadruple di Spagna lasciategli in dono dal giovine inglese), nè al curato, nè allo speziale, cadde in pensiero che quell'onorevole baronetto fosse appunto il bel forestiero da tutti loro già conosciuto. Non vi fu che il deputato politico, il signor Mauro, se pur vi ricordate di lui, il quale susurrò a mezza voce: « Quel nome non m' è nuovo.... Ma via, a noi cos' importa?... » Bisogna dire, peraltro, che di Maria non si dimenticarono. Il signor Gaspero raccontò più d'una volta la storia della povera fanciulla; e n' era sempre commosso, e conchiudeva seriamente: « Il mondo è una scala, e ciascuno deve starsene al suo scalino. La Provvidenza non ha creato per niente i signori e i poveri diavoli. Dunque rimani contento nella condizione in che essa t' ha collocato, nè voler sollevarti da quella per non perdere pace, libertà e salute.... » Ma, dopo un momento, scrollava il capo, e con un sogghigno di compiacenza, soggiungeva: « Questo è vero! Eppure io sono la prova del contrario. Se fossi sempre stato quel baggeo ch'io m' era da fanciullo, la mia fortuna a quest'ora sarebbe di menar la barca fino a Domaso e di pescare agoni laggiù sotto la riva; ma perchè, in que' bei tempi, non me ne stetti con le mani nel giubbone, da povero merciajuolo son diventato quello che sono, ho veduto quel che so io; almeno ho casa e tetto, e posso fare e disfare anch'io la mia parte; nè mi manca nulla, fuorchè la consolazione d' un' anima bella, come fu Angiola Maria. Ma! un' altra come lei non la troverò più, campassi anche gli anni di Noè. »

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Prese a pigione una piccola casa, che non era a più d'un miglio di quella villa; abbastanza contento, se gli avvenisse d'incontrare le sue buone sorelle o sul lago, o sui sentieri della montagna. Con loro, egli ingannava molte ore, ragionando di tante cose, di tante memorie che portava nel cuore. La storia di codesta vicenda famigliare potrà, cred'io, spiegare la sdegnosa tristezza del lord, e l'amorevole preghiera delle due fanciulle, in quella mattina.

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Così sempre avviene; ed io non ho voluto chiamar sulla casa di mio padre, sui vostri bianchi capegli, il turbine che di subito sorse a minacciarmi: pensai a mia madre, a mia sorella, e obbediente a chi mi percoteva, rinunziai ad ogni gloria e mi tenni abbastanza felice di questa parte che Dio m' aveva ancora serbata. Qui, i buoni alpigiani mi conoscono e mi riveriscono come padre, m' ascoltano e mi amano come fratello; qui m' è consolazione il pensiero di quel filosofo: Se utile non è quello che facciamo, stolta è la gloria. Ma non più di questo Ringrazierete per me l'Angioletta di quella cassettina contenente poche cipolle de' panporcini de' nostri monti, ch' essa mi mandò per il Bernardo, l'ultima volta che capitò al paese. Direte a lei e alla mamma che si ricordino di me nelle loro orazioni care al Signore; io non n'ebbi mai tanto bisogno come in questo momento. Se mai tornasse a vedervi l' amico mio p***, e vi domandasse di me, ditegli che i miei poveri nervi risentono ancora a quando a quando le fiere commozioni patite, e che la mia testa qualche volta non è a segno del tutto; ch' egli stesso mi scriva se le lunghe peregrinazioni, che vo facendo ogni giorno per questi monti, possano o no di soverchio abbattere le mie forze e fare in me effetto contrario a quello ch' io m' era promesso. Un' altra cosa vi commetto per la mia cara sorella. Ella sa dove stanno i pochi libri che innanzi partire lasciai, fra l' altre cose mie, in quella che fu la mia povera e beata cella. Nello scaffaletto a manca dello scrittoio, vicino alla finestra, troverà alcuni vecchi volumi giallognoli, mezzo rosi dal tarlo: sono i cari e preziosi amici di mia passata gioventù. »Fra essi vi son due libri rilegati in carta pecora, e intitolati l'uno: I Soliloquii di sant'Agostino, e l'altro La Città di Dio. Nell'armadio situato nell' angolo dov'era il mio letto, ne troverà pure alcuni altri più vecchi ancora, fra cui un volume delle Opere di san Tomaso, e uno di quelle di Sant' Ambrogio; e un altro più piccolo, al quale manca il frontispizio, è il Trionfo della Croce di Fra Girolamo Savonarola: quest' ultimo lo conoscerà dal mio nome scritto sull'ultima pagina di mia mano, sotto ad un braccio che tiene impugnata una spada e che vi disegnai quand'ero chierico ancora. Se l'Angiola riesce a raccozzare quel piccol mucchio di libri, ne' quali pongo tutta la mia speranza per quest' inverno, voi, mio buon padre, fate di trovar modo a spedirmeli al più presto, per la via più sicura; ne pagherò la spesa all'uomo che me li porterà. Mio padre. Vi raccomando quello che già vi scrissi nell' altra, di tener sempre presso di voi le lettere che per me venissero alla posta di Como, e di non darle in mano di nessuno, fuorchè del Bernardo, che verrà a pigliarle alla fin del mese, a mio nome. Se ve ne fosse alcuna pressante, queila potreste consegnarla all'amico mio p***, che sa come mandarla a questo mio nido di montagna. Dite a mia madre che, al tornare della primavera, ho speranza di venire a casa per qualche giorno: che non veggo il momento di sedermi ancora, come quand'ero fanciullo, vicino a lei sugli scalini della nostra porta: e che le farò raccontare un'altra volta la storia de' poveri morti di Torno. Oh! quante memorie leggiere, fuggitive, tessute, come tutte le cose della nostra vita, di piccole gioie e di grandi dolori, mi rifanno dinanzi al pensiero tutta l'età passata, e mi sforzano a piangere un'altra volta Perchè non sono io nato che per invocar la benedizione del Signore sopra coloro i quali devono trovare ogni lor bene nel patimento mitigato dalla speranza?... Io la sentiva pure nel mio cuore una fiamma più ardente, l' alito della fede, il coraggio di morire per i miei fratelli.... 2 di maggio 18.... (*) « Niuna cosa violenta puo essere perpetua. » E fino a quando vedrò sulla terra il trionfo del male? O Signore, tu rovesci i potenti dal seggio, ed esalti gli umili; ma tu dicesti ancora: Il regno mio non è di questo mondo. Noi dovremo dunque piegar sempre la fronte, come in atto di vile osservanza, in faccia alla malizia che si veste di pompose apparenze, che vince la semplice onestà colle sue compre lusinghe, o colla ipocrisia, la peggiore delle tirannidi?... Combattere la forza brutale, che non concede alla stanca umanità di sollevare il capo da quella nebbia d' ignoranza in cui da secoli le misere generazioni son costrette a vivere, o piuttosto a morire; parlare in nome di Quello che dal Calvario annunziò agli uomini che sono tutti figliuoli dello stesso Padre che ama e perdona, è una grande e dolorosa parte, la quale a pochi fu dato di compire sulla terra! Il tempo, come spaventoso torrente, trascina via con sè uomini e idee: pochi nomi benedetti, poche sante e divine parole rimangono appena a far testimonianza del passato, a fermar la promessa del futuro. Avventurato chi visse nell'aspettazione de' tempi migliori, procacciando intanto e operando il bene, come se dovesse da un dì all'altro fruttare! Dio ha veduto il cuor suo, Dio raccolse le sue lagrime; e quando seduto in disparte, come Geremia, stette solitario e tacque, Dio gli perdonò il silenzio, e la luce del cielo venne sopra di lui. (*) Forse il manoscritto fu ripigliato all'entrar della seguente primavera; se pur non erano mancati alcuni foglietti. E il suo cuore sollevò un' altra volta quel profetico lamento: - « La parte mia è il Signore; e per questo io l' aspetterò. » Buono è il Signore all' anima che in lui pone speranza e lo cerca. » Buona cosa è procacciar nel silenzio la salute del Signore. » Buona cosa è all' uomo portare il giogo nella sua giovinezza. » Siederà solitario e tacerà; poiché Dio gl' impose il suo carico. » Metterà la sua bocca nella polve, cercando se vi sia speranza. » Porgerà la guancia a chi lo percote; sarà pasciuto d'obbrobrio; » Perocchè il Signore non lo respingerà da sé in sempiterno; » E s' egli affligge, ha pur compassione, secondo la moltitudine delle sue misericordie. » 12 di maggio. Qualche nuova e più grave sciagura sovrasta a me o ad alcuno de' miei cari. Io ne ho da parecchi giorni il doloroso presentimento; poichè alla pace gustata per alcun tempo, alle forti contemplazioni della scienza, infiammatrice dell' intelletto, alla soave poesia della natura, è succeduta nell'animo mio l'amarezza delle cose, la codardia del dubbio, e quasi una paura di me stesso. Questo fu sempre per me il presagio di un tristo giorno della vita. I miei vecchi volumi non mi racconsolano più; non mi sembrano più che vani, indicifrabili enigmi, i quali altra cosa non mi fanno certa, se non che quaggiù nulla è certo. Non posso scrivere, non posso nè manco pensare.... 19 d' agosto. Io mi reputava cosi forte, così provato nella vita, e padrone di me medesimo, da sostener con fronte serena e animo tranquillo ogni e qualunque nuova e più dura esperienza. Dopo essermi seduto tante volte al capezzale della morte, dopo aver veduto spirar nel bacio di Dio tante infelici e candide creature, e aver accompagnato sulla tremenda soglia dell'eternità tanti uomini ciechi del bene, travagliati dal patimento, consunti dalla disperazione o dal rimorso, io credeva che più nulla d'umano potesse conturbare ancora i miei pensieri - Deh! che cosa è mai l'uomo, se tu nol visiti colla tua forza, o Signore? Oggi, dopo molti anni, il caso, o piuttosto il volere di Chi tutto dispone per il bene, mi ricondusse dinanzi un uomo che forse fu la prima cagione di tutte le mie disgrazie. Io gli aveva dato, nella generosa effusione del mio cuore giovine ancora, il santo nome d'amico.... Ed egli lo rinnegò questo nome così bello! mi rapì la prima, la più poetica lusinga della vita, l'amore; mi derise con una crudele indifferenza nelle innocenti mie illusioni; e ligio a coloro che poco m' amavano, se pur non m' odiavano già per la mia naturale e avventata libertà del pensiero, per quello ardimento che di rado è scompagnato da un cuore acceso del desiderio d'operar qualche cosa a pro d'altrui, egli pose in mano de' potenti il segreto che doveva partorirmi l' infamia, farmi morire!... Ma, come Dio anche quaggiù non consente sempre la vittoria ai cattivi, io, povero, oscuro e calpestato verme, fui più forte di coloro che si levarono, come stormo nemico, contro di me. Vinsi l' impostura e l' aperta menzogna ; poi mi ritrassi a piangere il mio passato nel silenzio della casa nel Signore, e perdonai. Perdonai, sperando che Dio a me pure perdonasse. Ed Egli m'avea dato codesta pace: fatto puro il mio cuore del lievito dell' ira, parevami d'avere in me spogliato per sempre il vecchio Adamo. La mattina era bella. - Per sollevare i pensieri dal peso delle angosce che ne' passati dì m' avevano grandemente prostrato, m'incamminavo verso il sentiero della selva, dalla parte ove sorgono tappezzate di lambrusca e di parietaria le rovine dell' antica torre lombarda: è là dov' io passo, in faccia alle maestose, lontane ghiacciaie dell' alpi e all' interminato azzurro del cielo, le più solitarie e beate ore del viver mio. Appena fuor della porta, un uomo incappucciato in un gabbano da montanaro mi s'affaccia d' improvviso. Lo guardai; teneva china a terra la fronte, voleva come parlare; e pareva tremasse. « Chi siete? » domandai. « Uno che.... vi conosce; » rispose, o piuttosto balbettò, senza levar gli occhi. Quella voce non mi parve al tutto ignota; ma Io strano vestire, la sua dubitazione, lo sgomento con che andava guardandosi intorno, turbarono un poco me pure; e persuaso che foss'egli ben altro da quello che i suoi meschini panni mostravano, me gli feci più accosto e di nuovo il richiesi: « Che volete da me? » « Sono un povero fuggitivo; venni a chiedervi asilo. » « Ma, signore! » ripigliai; « nè vi conosco, nè so.... » « Sì, mi conoscete; è in nome dell'amicizia ch'io vengo a voi. » E dicendo così, tolse giù il vecchio cappellaccio che gli copriva mezzo il volto, e mi guardò con aria supplichevole, malcerta. Ancora noi ravvisai. « Per carità, apritemi la porta di casa vostra! voi, ministro del Signore, abbiate compassione del fuggiasco perseguitato.... » E qui abbassò la voce, e fatto un passo verso di me, dopo essersi di nuovo guardato dietro le spalle: « Io sono Alberto ***: fui vostro amico! » Era colui che m'avea tradito. Quello che passasse in quel momento nel mio cuore, non voglio nè potrei scriverlo. Egli dimorò sotto al mio tetto due dì e due notti, nè io gli domandai se fosse innocente, o perchè avesse scelto ricovero nella casa d'un uomo a cui egli aveva fatto tanto male, e che fors' anche avrebbe potuto restituirgli il suo tradimento. Ah no! mai, mai! Colui che uccide è più misero di chi rimane ucciso: egli mi credè generoso e incapace del delitto di che spensieratamente, e per leggiere cause, non dubitò farsi reo contro di me. Io non so le conseguenze, le quali per la mia pietà potrei incontrare; ma non le temo. Nè fu pietà la mia, fu giustizia. A lui diedi tutto quel poco denaro che avevo, pregai per esso il Signore, e in quel momento dimenticai tutto il passato. Egli era più che amico mio, era fratello; Dio solo, Dio che mi lesse nel fondo dell'anima, mi giudicherà! Quando volle partire, io gli aveva stesa la mano e lo contemplava fissamente senza far motto. Mi parve commosso, soggiogato dalla memoria di quello che fu tra me e lui: mi guardò egli pure , poi mi si gittò al collo, e pianse. 3 di maggio. . . . Nessuna novella del fuggitivo. Che il cielo l' accompagni! Il mio cuore s' è allargato nella pace di prima sono rassegnato e tranquillo nella mia coscienza. Non so spiegarmi come non ricevessi ancora riscontro alcuno da ***, e da *** alle ultime mie lettere.... Queste note e questi pensieri trovai qua e la sparsi sopra alcuni brani di carta frapposti alle pagine del manoscritto erano per avventura frammenti o postille di guaiate libricciuolo messo in luce, senza nome, in altro tempo. Ne tenni conto, perchè panni che rivelino meglio quali fossero la mente e il cuore del vicecurato. « Molti presuntuosi reputano impossibile tutto ciò che per loro o non si sa o non si fa; moltissimi considerano le grandi cose che non intendono, o che non sono capaci di operare, come inutile fatica d' un esaltato fanatismo; e stanchi prima d' intraprendere, si addormono sui morbidi ma dannosi letti dell' ozio. Tanto è superbo l' amore di noi stessi per non confessare la propria ignoranza e la propria debolezza; tanto è artificioso per giustificarla; tanto è ingiusto per assolverla! Frattanto l' infingardaggine si scusa colla pretesa impossibilità alle grandi cose, per non confessare il timore dell' utile fatica; e il vizio colla pretesa loro inutilità, per non denunciarsi da sè medesimo vile e iniquo; l' infingardaggine e il vizio diventano costume e perchè ciò che non è il costume dei più, sia tristo, sia buono, si chiama fanatismo e pazzia, ogni bello e generoso ardire vien collocato indegnamente in quest' ultima classe. .... « L'uomo contempla, rappresentata ne' grandi genii, in una pompa la più solenne e nella sua più illustre magnificenza, la propria natura: una sublime compiacenza lo fa inorgoglire delle proprie forze; l' animo s' eleva ai più ardui concepimenti; il cuore s' infiamma ai plà scabrosi sperimenti; nulla più si tollera di mediocre, senza una nausea mortale e un magnanimo disprezzo. » .... « Nella rivoluzione de' tempi occorrono età cosi sciagurate per corruttela di costume, e cosi impudenti per abitudine di vizio, che portano in trionfo la colpa, infamemente la collocano sugli altari della virtù, e, per averle cangiato nome, reputano di purgarsi da sacrilega idolatria. Allora, gentilezza di modi le mollezze, gloria l' oro, mo- destia destia la viltà, prudenza il timore, umiltà la codardia, obbedienza la venalità, senno il raggiro, economia l' usura, avvedutezza la frode, laude l'adulazione, belle arti la lussuria; in una parola, la colpa virtù. Tale è il rovescio miserando e scandaloso che si fa d' ogni buono in cattivo, quasichè, per mutar di vocabolo, mutino le cose: ma dando così chiaro a vedere che ogni uomo sente che non è stromento di scelleratezza, e che tale è necessità per esso la virtù, che il delitto non abbraccia se non colorato dalle tinte di quella. Anche scellerato, ama d' ingannarsi che non è; epperò, perdendo la virtù, ne conserva la divisa, onde molta è la ciurma degl' ipocriti: e così, se dappertutto ove sono uomini il delitto ha schiavi, in nessun luogo regna a fronte scoperta. Quindi accade che, se in così fatti tempi sorge un magnanimo amico della virtù e del vero, tutti se gli fanno intorno co' sassi; ed è ben conseguente, perocchè se giunga face là ove tutti hanno bisogno di tenebre per ascondere la colpa, tutti si sforzano di spegnerla subitamente. Delitto dell'amore di noi medesimi, che giustificando i propri errori è pur d'uopo che le virtù contrarie condanni per evitar contraddizione: sicchè in cuore invidia l'altrui virtù, e col labbro la lacera e la condanna. Del resto, la verace virtù che passeggia nel mezzo alla finta, tacitamente denunzia la colpa nascosa sotto le sue larve, e coll' opera del paragone squarcia la veste dell' impostura la più veneranda e la più astuta. Allora si distingue la virtù dall'ipocrisia che fa studio d'imitarla, coll' eguale facilità che da un re di scena un re da trono: ed è per questo che in tale condizione di tempi la virtù e la sapienza sono guardate come due possenti nemiche; è per questo che solo compaiono attraverso lo squarciato manto d'un' illustre povertà, e che sempre le ritrovi fuggiasche sulle spinose vie della persecuzione, e spesso ancora fra le catene, e dentro la carcere dell'omicida e del ladro. » .... « Le grandi speranze e i grandi sforzi sono dei generosi; le forti presunzioni e i deboli attentati, de' superbi.... Io tutto spero, tutto tento, nulla presumo! » .... « Se è vero che dal conoscere scende ogni volere, e dal volere ogni .operazione umana, con cui si satisfà all'inesorabile bisogno, si accontenta il desio insaziabile, e si avverano le indelebili speranze, nella cui somma soltanto può essere riposta quella felicità ch' è data ai mortali; se è vero, io dico, tutto questo, deve scusarsi la nostra curiosità che tutto ad un solo sguardo vorrebbe possedere lo scibile umano. Anzi questa curiosità io la reputo come il possente motivo onde la natura invita l' uomo a ricercarla nel sacrario della scienza: come col desio della felicità lo spinse alle perenni agitazioni delle sorti mortali. Quindi è che, una volta messa sulle vie delle indagini per un sì grande impulso, non già s'avanza gradatamente e con tarda saggezza, contenta ad un vero discreto; ma impaziente delle sagge dimore della riflessione, si avanza baldanzosa, prima fidata al solo probabile, poi al verisimile, ed in ultimo anche al falso in colore di vero; e così, per volere acquistare la vetta per la più spedita via, corre la più lubrica; e correndo questa, bene spesso precipita al basso. A spogliar la cosa di veste metaforica, fatto è che quando cessa il vero, ce lo fabbrichiamo coll' ipotesi del nostro cervello; e vien poi una demenza filosofica, che delira argomenti in suo soccorso; i quali, accreditati dall' umano orgoglio e dall'umana ignoranza, gli ottengono la cittadinanza del vero; e così, come dicevano i Greci, si abbraccia la nube per la diva. - Non già ch' io abborra dall' uso giudizioso dell'ipotesi: so benissimo ch' essa sola batte alle porte della verità; anzi m' aggrada quella sua audacia con che la sollecita a parlare e le squarcia il velo più misterioso. Mi rammento di Newton, che con essa s' innalzò in mezzo de' cieli e che da essa imparò come due mirabili forze equilibrino i firmamenti. Io abborro che lo stromento diventi la cosa, che la via si reputi la meta, e voglio che l' ipotesi non si usurpi nome di realtà, ma che con felice metamorfosi si cangi in essa. Ma pur troppo più persuadono i nomi che le cose: onde il fatto inesorabile bene spesso appalesa le gradite menzogne di noi stessi: decipimur specie recti. » .... « La feconda meditazione de' grandi, tacita e nascosa ne' suoi preziosi ritiri, non ha nemmeno l' applauso che il saltimbanco ottiene sul trivio; anzi spesso dal volgo le sue sapienti lentezze e le sue cautele da precipitato giudizio s' imputano a colpa, e si accusano d' ozio e di pi- grizia. Ma i grandi, sdegnosi di piatire con una plebe che ha bisogno d'assiduo cicaleccio, per non morir d' inedia sulla vie e ne' fori, ne confondono le menzogne, recando in pubblica luce il frutto delle loro nascoste fatiche. » « Le più sublimi speranze non bisogna misurar col solo calcolo del corto soffio dell' umana vita. Non bisogna solo calcolare quanto possa l'individuo; ma quanto può la specie, la cui vita è lunga come la sua perfettibilità. L'orgoglio umano è una menzogna quasi sempre nell'individuo; ma spesso nella specie è una verità; è uno sprone a quanto ella di fatto può. Questo esiste in ogni individuo; e ognuno, al divisamento, è pari all' idea che lo move; ma, all' opera, non potendo quanto la specie, ciò che non sa non fa, lo reputa per un cotale astuto giro dell' amor di sè stesso, o inutile o impossibile. - Ma la specie, all'opposto, può di più che non sappia: ognuno porti quel masso che reggono le sue spalle, e l'edificio s' innalzerà verso il cielo saldo e sublime. Io l'ho detto: Umana perfezione? un sogno: - Umana perfettibilità? una via di cui non conosco la meta, ma sulla quale io pure cammino.

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E per ciò quando, morto il suo antico signore e venduta la villa, egli venne lasciato in libertà, fu abbastanza contento di potersi ritirare in quell'umile casetta che lo aveva veduto nascere, e dalla quale gli era dato almanco scorgere di lontano il palazzo, come sempre continuava a chiamarlo, il palazzo del vecchio conte. Egli non ebbe più cuore, l'Andrea, di mettersi al servizio d' altri padroni; e neppure per diventare il più ricco fittaiuolo della Bassa, avrebbe consentito di abbandonare la riva del suo lago, l'acqua sulla quale era nato. E se ne morì contento in quel fidato ricovero, in faccia ai monti e al cielo che aveva amato sempre come cosa sua. I suoi settant' anni erano corsi in tanta oscurità, in tanta quiete! Carlo, il suo figliuolo maggiore, era in quel tempo vicecurato in un povero paese della Valtellina: e anche questa fortuna egli la doveva al conte Francesco, il quale alcuni anni prima aveva fondato apposta un piccolo beneficio per il giovine abate. La signora contessa poi, un'aurea donna, piena di bontà e d'amore, avendo messo una singolare affezione nella piccola Angiola Maria, poi che dal cielo le era stata negata la consolazione d'aver figliuoli, si teneva cara quella fanciulletta, come la fosse sua propria. É inutile ch' io vi dica, perchè ben lo pensate, come, ogni volta la buona contessa Anna ne venisse a passare i lieti mesi d' autunno nella villa del lago, la prima cosa a chiedere fosse della piccola Maria. Quella ragazzetta era così graziosa e bellina fin da' suoi primi anni, aveva il volto cosi ritondetto e color di rosa, e i capegli tra il biondo e il bruno così lucidi e inanellati, che rubava al primo vederla i baci e le carezze di tutti. La sua voce ancor fanciullesca aveva già quell'insinuante dolcezza ch'è segno di un'anima timida, amorosa; e l' ingenuo parlare e le schiette domande che faceva, mostravano bene quanto la sua nascente ragione fosse semplice e retta, e la sua mente già commossa dal trepido desiderio di pensare e di conoscere. La contessa Anna dunque rapiva spesso alla madre quella cara creaturina così bella, ch' era la sua piccola delizia. E qualche volta pure la condusse con sè alla città; nè poco ci voleva allora per vincere una certa ritrosia del buon Andrea; il quale finiva con obbedire, perchè la era volontà dei padroni, ma in cuor suo pensava da quella domestichezza co'signori non poterne venir bene a una povera figliuola come la sua. Alla madre invece, la pareva una benedizione del cielo: ella si trovava, è vero, come perduta, quand'era sola, ma il suo orgoglio materno, com'è naturale, n'andava consolato, vedendo crescere così bianca e bella la figliuola, da lei chiamata sua perla, sua ricchezza. Quando la fanciulla si fe' più grandicella, la contessa se la teneva più spesso in compagnia, talvolta per le lunghe ore della mattina, talvolta per l' intera giornata, e le prodigava ogni cura, con sollecitudine quasi materna. Sotto gli occhi suoi, la fanciulla imparò a legger que' libri che sono l'amore delle tenere menti, appena s'aprono facili agli accorti consigli del senno; e di que'libri, una Storia Sacra, tutta adorna di belle figure miniate, era il suo prediletto. Poi, seduta accanto dell'amorosa protettrice, Maria attendeva a qualche gentile lavoro d' ago o di spola; o si piaceva, sullo medesimo scrittoio della contessa, di sgorbiar de' fogli copiando e ricopiando il nome della buona signora e quelli di suo padre, della mamma e del fratello: era la sua gran gioja. Oh! quanto l' amorevole donna sentivasi dolcemente rapita da quell'anima candida e ingenua, vedendola a poco a poco prender come una nuova vita, alle semplici lezioni del bello e della virtù! Oh quanto era commossa dalle parole di Maria che rispondevano alle sue, dall'affetto di quella innocente che le chiedeva la grazia d'un bacio, dalle stesse sue lagrime, quando, per qualche lieve cruccio, il picciol cuore di lei non trovava altra risposta che un largo pianto! Quella era una beatitudine: e non di rado la contessa, dopo avere a lungo contemplata la fanciulla, si faceva mesta, pensava che felicità sarebbe stata la sua, se anch' ella avesse potuto sentirsi chiamar madre, se anche a lei fosse stato dal cielo concessa una figliuola come quella. Ma la felicità di questi anni doveva presto finire. Il conte Francesco morì, e l' ottima sua compagna lo seguì presto nel sepolcro. Erano svaniti i bei sogni di mamma Caterina: il compare Andrea aveva avuto ragione. Angiola Maria non abbandonò più la casa paterna, pur vi crebbe bella e serena com'era sempre stata; perchè quell'impronta virtuosa che il suo cuore aveva ricevuto, non poteva cancellarsi più. Pareva che la giovinetta portasse la pace e il bene con sè; il vecchio suo padre menava giorni tranquilli, d'altro non ragionando che delle sue lontane memorie, de' tempi burrascosi di sua gioventù, e de'suoi buoni padroni; e Caterina divideva colla figliuola le poche faccende della casa, serbando però sempre le più dure per sè; paga abbastanza nella sua tenerezza di vedersi sorridere d'intorno quel fior sì gentile della sua Maria. Solo il giovine vicecurato

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» disse alla fine il prete con certa bruschezza; « non v'accorate in questa maniera: non avete già pianto abbastanza? » « E siete voi che parlate così, don Carlo? » rispose rammaricata la buona donna. « Non v' ho veduto piangere anche voi, che adesso mi rimproverate? Ieri, quando siete capitato qui, e ch' io vi son venuta incontro sull'uscio, non v'ho veduto forse far di tutto per nascondermi le lagrime? » « O mamma! in quel momento.... « Lo so, che faceste per amor mio, per non cruciarmi di più; ma quando avete lasciato cadere la testa, qui, sulla mia spalla, e m'abbracciaste stretta stretta, mi sono accorta che voi piangevate.... E stamane, quando avete fatto quella bella' predica, che non ne ho sentita mai l'uguale, nemmeno in duomo a Como, non avevate anche voi gli occhi rossi, non vi tremava la voce? » « Sì, sì, è vero! buona mamma, perdonatemi! Ma bisogna peraltro esser cristiani, pensar che Dio ha voluto così, che stiamo quaggiù per soffrire, e rassegnarci. Quando ci tocca il male, ricordiamoci del bene che prima il Signore ci ha fatto. Così benediremo sempre il suo nome! Il nostro povero padre almeno è morto vecchio: e non avremmo forse potuto perderlo tanto tempo innanzi, se Dio l' avesse voluto?... » « Oh! tu hai ragione, Carlo, » disse allora sua sorella. « Il Signore non abbandona mai! Lui che ci manda i travagli, ci darà sempre anche la forza di sostenerli. » « Buona Maria, tu sei un angelo. È la tua innocenza che parla: oh che tu possa essere sempre così rassegnata! Tocca a te di sostenere il coraggio di nostra madre.... E anche il mio, sai, perchè sento che ho bisogno delle tue parole; mi sforzo di parer franco, ma sono afflitto e perduto d'animo. » Poi tacevano tutti e tre, e si riguardavano alternamente di nascosto. Solo la vecchia madre, non dimentica delle sue abitudini di buona massaia, levavasi ogni tratto da sedere, per togliere dal treppiè sul quale cuocevano e apprestare a' suoi figli le due vivande da lei stessa ammannite; un piatto di luppoli conditi, e una bragiuola. Ma poi ch'ella era di nuovo seduta, non poteva star di ripetere: « Quando penso che quella buon'anima di vostro padre non ebbe la consolazione di vedervi diventar curato, o don Carlo, nè di sentirvi predicar sì bene, nè provò la gioia di seder a tavola con voi, là, a quel posto ch'è voto, e di bere insieme a voi una bottiglia di quel suo vin vecchio, l'ultimo avanzo della cantina del signor conte!.. E dire, che anche lui, il signor conte, quel re degli uomini, è morto già da tant' anni!... Oh se Dio m' avesse almeno chiamata lassù, me, prima del povero Andrea!... » « Fareste meglio a tacere, cara mamma! Voi siete una benedetta donna! Che pensieri, per carità, che pensieri vi girano in mente! Guardate adesso, col vostro dire, anche Maria non fa che mandar giù lagrime. Via, dunque, parliam d'altro. Di forestieri ne son capitati quest' anno? » « Credo di sì, » Maria rispose. « Certo, » aggiunse la madre: « un signore inglese è venuto a stare nel palazzo, e vi resterà per tutto l' anno. Pochi dì innanzi morire, Andrea aveva parlato a quel signore, e anche alle sue figliuole, che son cosi belle.... E pensare che il pover uomo, adesso, non c'è più! » « Povera mamma! è impossibile parlar d'altro! » disse Maria. « O mio Carlo, almanco tu fossi stato qui cinque giorni fa, quando è succeduta la disgrazia, e io non sapeva travare una parola da dire a nostra madre! Lo domandava io alla Madonna il coraggio, ma alla mamma non sapevo ripetere altro che: Il Signore ha volutoctosì!... E poi, dopo trattenute le lagrime un pezzo, che mi scoppiava il cuore, anch'io finiva a piangere con lei. » « Così l'avessi potuto, com'io voleva, trovarmi fra voi! O Maria, se tu sapessi che colpo fu per me il ricevere la tua lettera, che senza dirmi il pericolo di nostro padre mi fece tremare per la sua vita!... E non poter subito correre a vederlo!... Il curato era anche lui inchiodato in letto da una malattia ostinata: io non poteva, non doveva partire. Il Signore mi consegnò dell'altre anime; non m' era permesso abbandonar quelle, nemmeno per accompagnar l'anima di mio padre nel suo transito da questo mondo. In che stato io mi fossi, pensate! » « Ecco qui! e voi, don Carlo, perchè adesso mi parlate così? Forse per tenermi su allegra? » disse sua madre. « Il signor curato, quantunque si sentisse ancora male, mi stimolava a correr qui; diceva, oh ne lo rimeriti il cielo! che per lui l'andava meglio, e si sarebbe trascinato giù del letto, avrebbe in qualche modo servita la parrocchia.... Io però aspettai ; la più dura prova che soffersi fu questa! Ma c'è sempre il rimedio della provvidenza: due giorni appresso, il signor curato era sano, che l'ho creduto un miracolo. E io partii allora, e fu lui stesso che m' imprestò il suo biroccio, e mi mise le redini in mano.... Ah! speravo ancora d' arrivare in tempo. » « O Carlo, Carlo!... » lo interruppe Maria, scotendo me stamente il capo. « Non fu così! pazienza! » E il buon prete lasciava cader fra le mani la faccia. E qui nuove lagrime, invano soffocate da una parte e dall' altra, affettuose occhiate e strette di mano, come per annodare più forte que' legami d'amore che la morte aveva rallentato. Finito il piccolo desinare, che in quel dì non fu condito nè da fame nè da contentezza, ragionarono insieme de' pochi fatti loro, e di quel ben di Dio ch' era loro rimasto: consisteva tutto in un po' di terra sulla falda della montagna, e in un magro capitale di cinquemila lire, avanzo dei sudori dell'onesto castaldo, e da lui pochi anni prima messo a traffico ne' magli di ferro, là sopra di Lecco. Un altro tenue peculio di tremila lire aveva lasciato la buona defunta contessa, nel suo testamento, in dote a Maria; ma gli eredi, con certe loro scuse di passività da purgare e di attività da liquidare, non avevan pagato mai codesto piccolo legato; poi se n' erano scordati, nè l'Andrea aveva avuto cuore e fronte di cercar più nulla; perchè, diceva, quella era roba dei signori, e in giustizia a lui non avrebbe dovuto toccare. L' unico voto di don Carlo sarebbe stato che le due donne potessero lasciar il paese, e venire a stabilirsi con lui, nella sua parrocchia di Valtellina. E anch'esse lo avrebbero voluto, chè pesava loro il pensiero della futura solitudine; ma la cosa era impossibile. Bisognava vender la casa, vender la terra, fare de' grossi sacrifizi: e tutto questo per andarne a stentar la vita in un paese lontano, solitario, sepolto in grembo d' una vallata infeconda, dove non abita che uno sparso e povero popolo di mandriani e di caprai, i quali al cominciar del freddo lasciano i loro dirupi per calare al piano, nei dintorni delle città, e non tornare alle abbandonate case che allo squagliarsi delle nevi. Nel durar delle lunghe invernate, era colà il buon prete conforto e sostegno d'una grama moltitudine di vecchi, di donne, e fanciulli che rimanevano nell'alpestre villaggio; divideva con loro la scarsa rendita del suo beneficio, e tutti lo benedicevano. - Che avrebbero mai fatto sua madre e sua sorella, in quella solitudine squallida e malsana? « Sentite dunque, » disse don Carlo alle due donne. « Poichè il mio parroco me l'ha consentito, resterò qui con voi, tre o quattro settimane, finchè abbia fatto quel che c'è a fare in queste triste congiunture. Messo che avrò in ordine i nostri pochi interessi, tornerò al mio romitorio. Io per me rinuncio alla parte che mi può toccare, e voglio che quel poco che abbiamo, non è vero, mamma? serva per voi, e per te, Maria, per te, quando troverai qualche onesto partito. E in appresso, se il Signore farà ch' io possa divenir parroco in qualche paese meno triste e più vicino a voi, per esempio, qui sul lago.... allora v'aprirò la mia casa, vi aprirò le mie braccia, e dirò a tutt'e due: Venite a star con me, a consolarmi la vita. Oh allora sì, che mi parrà ancora d'esser felice! » Caterina e Maria furono commosse e persuase; guardavano con tacita tenerezza il prete, che oramai era l'unico loro angelo protettore. E il prete, levatosi e fattosi vicino alla madre, strinse tra le sue mani la destra della buona vecchia che piangeva, e la baciò con verecondo rispetto. Poi la sorella gli stese la sua; ed egli, stringendola del pari, se la pose sul cuore, con una forza d'affetto che non può dirsi. Indi a poco uscì dalla casetta.

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E questa così cara, amichevole servitù nessuno gliel' avrebbe potuta prestare meglio che don Carlo, il quale de' dolori di questa terra aveva abbastanza veduto per poterli prendere sul serio. Qui Arnoldo gli scoperse il perché ruppe col padre suo; e di quell domestica guerra, di che molti avrebbero riso, egli vide e conobbe tutta l' acerbità e il disgusto. E non solo ne patì lui per l' amico, ma gli consigliò di tornare in pace a ogni patto, dicendogli che la collera del padre non podeva esser vinta che dall'amore delle sue sorelle. Ma quando Arnoldo si rallegrava con sè stesso dell' amico acquistato, una memoria più cara gli si risvegliava nell' anima. Si ricordava di quel giorno in cui ascoltò la predica del vicecurato, là nella chiesa del paese. Pensava a quella bellissima e modesta creatura, che aveva veduto pregare, inginocchiata presso la madre; a quella sembianza malinconica e pur così serena nel dolore, a quel volto candido sotto il nero zendado. Egli aveva accompagnato con la sua preghiera quella che allora fece l'anima travagliata della fanciulla. Poi si ricordava che il giorno appresso, quando andò a visitare il prete nella povera casetta, rivide la fanciulla, e al rivederla si turbò : ella invece non aveva sol- levato gli occhi, come non si fosse accorta di lui; e la piccola scortesia di lei gli dispiaceva ancora. Questa memoria la serbava come un segreto; ma non ardiva interrogare il proprio cuore; quantunque il dubbio, in cui era, gli fosse assai penoso. Ma poi, col tornar ch' egli fece alla casetta del lago, e quando, più dimestico con le due donne, vide la semplice bonarietà della madre dell' amico suo, e scoperse l' anima delicata e sensitiva della sorella di lui, cominciò a provare una gioia tranquilla e solitaria, una consolazione che non aveva gustata da tanto tempo. Respinto dalla sua, parevagli quasi d' aver trovato un' altra famiglia; i suoi pensieri, prima agitati da un gran tumulto di cose, i dubbi cocenti che sempre lo travagliavano, le speranze incerte, le visioni che disturbavano i suoi sonni e la sua solitudine, svanivano; e il suo cuore ritornava sereno, si riposava, appena passasse il limitare di quell' umile casa - dove non era nessun rumore, fuorché il lento batter del fiotto al basso del muricciolo dell'angusto cortile ; dove non era nessun' ombra fuor quella della vecchia vite che, salendo bistorta accanto all'uscio della casa, vestiva il pergolato. Al primo avvicinarsi a Maria, egli non poco si maravigilò, ché gli parve di trovare in essa una rara modestia, una riservatezza semplice insieme e sicura, insomma una soavità di costume, che, di subito, annunziava non solo la bellezza nativa del cuore, ma anche lo studio, la squisitezza de' modi. Il portamento di lei era timido, ma aveva un non so qual vezzo: il sorriso rado e quieto, il parlare assai modesto, ma schietto; quel che più toccava il cuore, era il suono dolcissimo della sua voce. Ella portava sempre un vestitino semplicissimo, povero ma lindo, e fatto da lei stessa; i suoi bei capegli eran pettinati con gran cura; le sue mani bianche, come quelle d' una damigella. Ben vedevasi com' ella conoscesse d'esser nata in umile stato, ma pur non avesse dimenticata ancora la gentilezza delle consuetudini d'una volta, la più eletta educazione della sua prima età. Arnoldo vedeva Maria taciturna e pensierosa. Egli non le aveva parlato quasi mai, quantunque venisse sovente; il più delle volte ella e sua madre non discendevano nel salottino, quando il giovine vi si trovava in compagnia del vicecurato. Quindi Arnoldo ardeva dal desiderio di conoscere i pensieri di quell' anima pudica e ritrosa, che pareva chiudere in sè stessa un tesoro di dolcezza e d' amore. E cominciò a pensare che la giovinetta doveva sentir con dolore la povertà della sua condizione, perchè il suo cuore era stato un giorno accarezzato dalle grazie della vita; a pensare ch' ella aveva la virtù d'esser felice ancora nell'oscura sua tranquillità, e che forse sentiva più forti que' nobili affetti di che suo fratello gli ragionava sempre con tanto ardore. Arnoldo aveva egli potuto leggere nel cuor di Maria?... O era il suo un incauto sospetto, un fumo che appanava il limpido specchio di quell' anima pura? L' idea che Maria fosse degna di miglior sorte, la fiducia di sollevarla, di darle una vita novella, lo sedusse, lo vinse: il suo pensiero non corse più in là. S' abbandonò a nuove e gentili illusioni: un amore poetico, misterioso, un amore non rivelato, e tranquillo ancora nella sua purezza, gli suscitò nel cuore altri sogni da quelli che aveva fatto prima, e gli promettevano tuttavia qualche cosa di celeste in terra. Questo amore era il suo più prezioso segreto; uno sguardo, una parola non l' avevano tradito ancora. Dopo molto esitare e molto pentirsi, risolvette di tacere e aspettare, con la sola speranza che la simpatia di quell' anima candida nascesse spontanea per lui.... Nel principio dell'amore, il giovine non pensa che al suo cuore basterà per poco quella solitaria delizia; ch' egli ben presto cercherà, vorrà corrispondenza d' affetti; non pensa che tranquillo può essere il sorriso della virtù, non quello della passione, e che; sparita la prima aurora dell' amore, esso non gli dipingerà più la vita co' suoi bei colori; ma l'abitudine l'avrà circondata di muta nebbia, e allora verrà il tempo del disinganno, fors' anche del rimorso. E non era la prima volta che Arnoldo amasse. Ma erano stati amori d' ebbrezza e di delirio; amori di un giorno, d' un' ora: visioni fugaci e lusinghiere di donne bianche e rosee, di semidive trasparenti sotto i ben foggiati merletti, in un' onda di trine e di veli, ne' molli velluti, o nelle pellicce profumate; erano stati capricci di facili seduzioni, usurpate dolcezze, e misteriosi ritrovi; gioie sparse di fiele, e sfuggenti più rapide che non fosser venute, lasciandosi dietro un torpore, un tedio; se pur non era affanno e dispetto. Fino allora, dell'amore egli s'era fatto giuoco, come le donne s' eran fatto giuoco di lui: le grandi, le infelici passioni, colle quali si pretende di dare una tempra romanzesca alla nostra società, soleva chiamarle le passioni a buon mercato. Si può perdonargli, perchè quando amò per la prima volta, credeva che l'amore fosse tutt' altra cosa! Ma ora quel cruccio e quell' amarezza avevano dato luogo ad altri voti, ad altri pensieri. Egli non credeva ancora all'amore, ma, pur credeva all' incanto della bellezza; e già si sentiva migliore da, quel momento che una povera fanciulla, la quale non lo cercava, non lo guardava, era divenuta come la forma ideale delle sue fantasie. E non sapeva che quel divino soffio che spira la vita alla bellezza, è amore! Già eran passati alcuni giorni dacchè Arnoldo aveva racquistata la grazia del padre; nè più essendosi in quel tempo incontrato coll' amico, lasciò la villa e prese il sentiero lungo il lago che conduceva alla casetta. L'acqua era quietissima; la sera bella, ma senza luna; ed egli pensieroso più dell' usato. Bussò. Chi venne ad aprirgli fu Marta, la vedova d'un pescatore che Caterina alla morte del marito aveva fatto venire in casa per le bisogne domestiche, e per non rimaner tutta sola con la figliuola, quando don Carlo fosse partito. La Marta, che già conosceva il giovine, « Non c' è nessuno, signore! » disse, restando su la porta. « Don Carlo è dal nostro signor curato, Caterina e Maria sono in chiesa al rosario; e non tornano ancora. » « Dunque me n'andrò! » disse Arnoldo, col cuor malcontento. « Ma, se volesse fermarsi, possono tardar poco.... » « Non importa! Ma sì, aspetterò, bisogna ch' io parli a don Carlo. » - E seguendo la donna, attraversò le due stanze a terreno, e per la scala che riusciva in un canto del salotto, ascese nella camera dell'amico. Marta pose giù sur uno scrittoio il lume, e se n' andò. Poco stante egli s'accorse che le due donne erano tornate a casa; intese la voce di Maria cercar di Marta, quella voce a lui così cara. Poi rispondersi, bisbigliare fra loro, e non far zitto.... Certo Marta aveva detto alle donne ch' egli era là, e s'eran ritirate nell'ultima cameretta, dar altra parte della casa. Intanto Arnoldo aspettava. E lo guardo suo errava distratto su le carte e su' pochi libri, de' quali era sparso lo scrittoio del prete: un volume delle Opere di sant'Agostino, un Tommaso da Kempis, un Dante di vecchia edizione, il Breviario e la Bibbia; e qua e là, fra que' volumi, vide gettati a caso alcuni fogli e quaderni manoscritti. Ne prese uno, l'aperse, lo guardò. Eran pensieri scritti in questo o in quel giorno, nel tempo della solitudine, in ore di tristezza o di meditazione. Lesse in que' fogli amare parole, parole di sconforto e di sdegno, dettate, senza dubbio, da una potenie e gelosa cura, poi temperate da un voto di pace, da un ricordo di pietà o di rassegnazione, da un augurio di virtuosa coscienza. Una pagina, ch' egli trascorse con rapido sguardo, diceva: A' 30 d'aprile 18... « Il mio povero padre è morto! - E io non lo vidi nella sua ultima ora, non ebbi il conforto di bagnar del mio pianto la sua testa moribonda! - Oh che lagrime avrei sparse, e con che fervide parole pregato!... Ma no: anche questa misera speranza doveva esser vana. - un' altra prova che il Signore mi ha mandata!... » A' 2 di maggio. « .... Le lagrime di mia madre, il dolore tacito e rassegnato della mia dolce sorella, hanno umiliata l' anima mia. E a me tocca di consolarle, a me di sorridere, col cuore serrato dall' affanno! Datemi forza, o Signore, e benedite, benedite sempre a quelle pietose e cristiane creature! » E più sotto, a caratteri rapidi, intralciati, che mostra vane la foga dello scrivere: «....Perchè il cielo è così sereno, e la natura così feconda e lieta? - Una storia di secoli di sangue, inutile insegnamento a' miei fratelli - una contrada senza nome e senza avvenire - un' età grave a sè stessa - uomini vili e ciechi, che non sanno se vivano, e perchè....! Non è uno scherno della provvidenza?... O forse è la pena di un eterno peccato, la dimenticanza della prima virtù che Dio ci ha data, la virtù del volere?... No! no! via da me questi mortali e terribili pensieri! - Non ho madre e sorella, a cui preparare una sorte migliore, non ho tanti poveretti, a' quali un dovere più sacro della vita e della morte mi lega per sempre?... » Volse la pagina e continuò: « - Jeri ho incontrato quel giovine straniero. Non so perchè egli brami tanto di conoscermi e di leggermi in cuore. Pure, l'anima sua mi pare schietta e nobile, vorrei rivederlo; poichè mi sarebbe dolce lo spargere qualche consolazione in un cuore ben fatto, in una vita giovine e capace di bene. - Stasera quando raccontai a mia madre l' impensato incontro, Maria mi disse d' aver veduto più d' una volta quel solitario giovine, che da qualche tempo dimora in questi contorni; e avend' io soggiunto ch' era un gentiluomo inglese, si maravigliò come cercasse di farsi amico mio. - Buona sorella, le dissi, tu non sai di quali oscuri mezzi talvolta si valga il Signore per il nostro bene! Chi sa che quell' anima traviata e deserta non trovi nella calma delle mie parole, nella povera virtù d'un uomo ignoto, com' io sono, un occulto consiglio, un nuovo conforto a miglior meta, la prima parola forse d' una verità aspettata, nè ancor conosciuta!... Allora ben me n'avvidi, il puro intelletto dell' ingenua fanciulla comprese d'un lampo il mio segreto proposito. Oh la purezza del cuore e del costume sono la più vera luce del pensiero!... » - Buona e infelice Maria! Penso bene spesso a te, e ti compiango, perchè l' anima tua parmi destinata a patir molto quaggiù. Il tuo cuore sente troppo, e troppo. di buon' ora hai gustato i piaceri dell' anima, per viver contenta nella tua meschina sorte.... Ecco a che si riduce la benevolenza del ricco!... Con te, io non ho mai fatto parola di ciò.... Ma oggi bastò una lagrima che ti cadde dagli occhi ad agghiacciarmi il cuore. Essa mi parlava del giovine forestiero. Oh! con quale accento, con che sorriso celeste mi disse: Egli dev' esser buono, e pare infelice! E tu devi consolarlo, o fratello: oh se le tue parolgli toccassero il cuore!... Io non potrei sopportare il pensiero ch' esso abbia ad andar perduto in questo mondo e nell' altro!... » Arnoldo non lesse più innanzi. Gettò dispettoso il libro, un amaro sogghigno errava su le sue labbra. Ristette, lo sguardo fisso, le braccia serrate al petto, con un, brivido nel cuore e uno strano tumulto ne' pensieri. Dopo alcun tempo don Carlo, tornato a casa, salì nella stanza; e, veduto l' amico in atto di sì profonda occupazione, che non s'accòrse del venir suo, lentamente gli s'avvicinò. « Arnoldo, voi m' avete aspettato, non è vero? » « Siete voi? » rispose, riscuotendosi, il giovine. « Ero venuto a cercarvi. Non vi aveva riveduto da alcuni giorni, temevo non foste partito. » « Converrà bene che vi lasci presto; forse non resterò oltre domani.... » « Come? » « Da parecchie settimane son qui. Oramai, le poche brighe che domandavano la mia presenza sono finite. Jeri mi fu consegnata la tutela di mia sorella, e di quel poco ben di Dio che le tocca; quest' oggi ho riscossa porzione d' un vecchio credito, che mio padre teneva verso un tale di Lecco. Adesso, mi richiamano altrove doveri assai più sacri. » « V' assicuro che mi sa male che partiate. Ma, lo prometto, verrò a trovarvi, e vi scriverò. Il vostro nome non è di quelli che si dimenticano cosi presto; e la conoscenza nostra, spero, non morrà come tante che profanano la virtù e la fiducia dell' amicizia. » « Dio il voglia! E quanto a me, vi confesso che una certa tristezza mi prende nel lasciare questa mia povera casa, e mia madre, e Maria.... Esse qui resteranno con la compagnia di molti travagli; e io non potrò, solo e lontano da loro.... » « Oh! ne siate certo, finchè io starò qui, verrò di frequente a visitare la buona vostra madre; e verranno meco le mie sorelle, e farò conoscer loro Maria. Ed esse s' ameranno, perchè anche Elisa e Vittorina sono due affettuose fanciulle.... Oh voi noi sapete ancora! Ho seguito il vostro consiglio; e furon esse che calmarono lo sdegno di mio padre, che m'hanno ricondotto al suo seno.... Dacchè non ci siam veduti, la pace fu fatta: domandai perdono a mio padre d'una colpa non mia; ma lo feci di cuore.... Oh da tanto tempo non avevo intesa la sua voce! » « È dunque vero? Ora, dovete essere felice! Il vostro cuore gusterà una di quelle gioie che solo sono concesse alla virtù cristiana, d'umiliarsi. » Don Carlo ringraziò l' amicò per la sua cortese pro- messa; poi, prima di prender commiato, volle dirla anche a sua madre. Usciti di là e passati per un piccolo corridore, vennero nella stanza dov'erano le donne, le quali non aspettavano quella visita. Era la cameretta di Maria. La parete ignuda e bianca; da un lato un letticciuolo, a capo del quale pendeva un quadretto a olio, l' immagine della Madonna addolorata; e sotto, una candela benedetta e un crocifisso d'argento. Era il letticciuolo coperto d' una coltre di color cilestro, e le lenzuola ripiegate sovr' essa così candide che non parevano ancor tocche. Da un altro lato, una piccola finestra che guardava nel cortile verso il lago, mezzo nascosta da una tendetta bianca. Qualche seggioia di paglia, un rozzo tavolino, suvví una piccola spera, e un vecchio armadio in un canto compivano la suppellettile della cameretta. Arnoldo sentì una tacita gioia in cuore, quando il suo sguardo s'arrestò su quella scena modesta e casalinga. I raggi pallidi, che fuggivan di sotto il coperchio della lucerna, mandavano una quieta luce su l' angelica faccia della fanciulla, e su le piccole sue mani intese a lavorar di maglie; i bruni capegli le rilucevano lisci e spartiti su la fronte, ricadendole dietro le orecchie in folte e facili anella fino a toccarle il seno, china com' era; una veste semplice di percallo cenerino, e un nero fazzoletto appuntato nella cintura aggiungevano una grazia pudica al con- torno della sua leggiadra persona. La madre sedeva anch'ella presso la tavola, occupata a rimendare coll' ago alcuni vecchi lini; e la Marta più addietro, presso la parete e sur un trespolo, attenta all'arcolaio, dipanava. - Il lume della lucerna, disegnando con varia movenza d'ombre e di chiarore quel gruppo così raccolto dava all'umile scena un incanto di quiete e d'armonia: pareva uno di que' cari quadretti fiamminghi così semplici, così veri. « Sapete, madre mia? » disse don Carlo, entrando « bisogna ch'io parta domani: ho deciso. « Come? non ne sapevo nulla: è proprio vero? do- mani, mattina?... » domandò con turbato accento Maria, sollevando la faccia. Voleva dir di più, ma s'accòrse che con suo fratello anche un altro era là: chinò il capo, e ristette tra pentita e peritosa di quella domanda, che le era uscita dal cuore. « È necessario, » rispose il prete; « stetti qui con voi più ancora che non avrei dovuto. » E Caterina intanto scuoteva la testa, in atto di rassegnazione malcontenta, e mormorava piano: « Già son avvezza a mandar giù di più, amari bocconi.... dunque, pazienza! » « Sì! abbiate pazienza. Anche questa volta, mamma Caterina la confortava Arnoldo. « La speranza del rivedersi è intanto qualche cosa: io poi vi darò spesso notizie di vostro figlio, perchè gli ho promesso d'andare a visitarlo a****. » « Lei è proprio un buon signore! » rispose, in atto di render grazie, la madre. « Oh sì, » aggiunse Maria, con voce soave, ma così timida e fioca che Arnoldo l' intese appena. « Fatevi pur cuore, nè mettete di malanimo anche me. Già bisogna che sia così! » diceva don Carlo. « Ma credetelo, amico, » riprese Arnoldo, « m'ero assuefatto così bene a passare i dì con voi, in questa contrada! « Errando in vostra compagnia da qualsiasi banda, ogni paesetto, ogni villa aveva la sua storia, ogni montagna, ogni rupe il suo nome; e temo che mi costerà il divezzarmi.... » « Lei è un signore » soggiungeva Caterina, « e non vorrà pensare a noi.... » « Che cosa dite? anzi, se non me lo negate, voglio far conoscere le mie sorelle a voi e a vostra figlia, che siete così amorevoli e buone. » « Oh signore! noi avremo vergogna » rispose la madre. « No, non può essere, ve n' assicuro. » « Oh desideriamo tanto di conoscerle » soggiunse vivamente e arrossendo alcun poco Maria: « tra noi ci vorremo bene. » Quella sera, l' ultima ch' egli passava presso de' suoi, chi sa per quanto tempo, don Carlo rimase fino a ora tarda con le donne, le quali a malincuore pensavano al domani. Anche Arnoldo stette un buon pezzo in quella modesta compagnia, fra que' dolci colloquii familiari, in cui si ripetono tante lievi e care cose, e s'avvicendano parole di consiglio, di ricordo, d'aspettazione. L' animo suo sentiva una pura contentezza; e quando, salutato di novo l'amico, tornò per la riva del lago alla villa, ripensava alla buona famiglia, e gli pareva che il suo cuore rimanesse là, in quell' angusta cameretta.

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La giovinetta campagnuola

208035
Garelli, Felice 3 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Prima di tutto preparerai l'ingrasso che ti occorre; perchè di letame non ce n'è abbastanza nemanco per le grandi coltivazioni del podere. Perciò raccoglierai, in mucchio separato dal letamaio, la spazzatura della casa e dell'aia, lo sterco delle galline, le ceneri livisciate, la fuligine del camino, e il tutto bagnerai con le acque del bucato, e di lavatura dei piatti. Così, senza uscire dall'aia, e quasi senza fatica, avrai più ingrasso per l'orto, che non ne abbia il letamaio pei campi, e con esso otterrai legumi più che ne abbisognino alla famiglia.

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E a farle più malsane, quasi non lo fossero già abbastanza, si aggiunge il letamaio. Questo lo si mette proprio sull'uscio di casa; e non si bada a raccoglierne il sugo, che in neri rigagnoli solca l'aia, e qua e là si spande in laghetti. Bisogna proprio essere senza naso, per non sentire la puzza ammorbante che ne esala! Per quanto si abbia una tempra robusta, come si può vivere sani in luoghi sì fatti? A dormire in camere umide, scure, c'è, pei ragazzi specialmente, da perdere la salute per sempre. Quasi tutte le malattie dei contadini, le febbri, le infiammazioni, i dolori nelle articolazioni, sono cagionate dalle abitazioni malsane. Nella casa di Gian Pietro si ammalarono tutti, un dopo l'altro, dello stesso male; e due ragazzi ne morirono. Il medico dichiarò la malattia essere un tifo, e ne diede la causa all'acqua del pozzo, guasta dalle infiltrazioni del vicino letamaio: e infatti l'acqua di quel pozzo, lasciata per un giorno in un bicchiere, puzzava di marcio. Oh che! Ci vuol tanto a fare il letamaio lontano dal pozzo, e dietro casa?

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Con sola polenta, solo riso, o sole patate, non si è nutriti abbastanza: questi cibi rimpinzano lo stomaco, ma un'ora dopo il pasto si è vuoti, e sfiniti come prima. Bisogna dunque mangiare un po' meno di tali cibi, e aggiungervi latticini, o una minestra di legumi, castagne, o pane, e, una o due volte la settimana, un po' di carne. Non è quel che si mangia che fa bene, ma quel che si digerisce. Per digerire facilmente i cibi, bisogna prima di tutto masticarli bene. Dunque non mangiare in fretta e in furia; non è buona creanza, e ti fa male. Mangia con moderazione d'ogni sorta di frutta. Bada, se vuoi schivar le coliche, e le indigestioni, di non mangiare pane ammuffito, carne che puzza, frutta acerba o mezza, legumi mal cotti, patate o rape colpite dal gelo, o in via di germinazione, castagne crude, o infortite, vino torbido o guasto, funghi sospetti. Bevi poco. Un po' di vino fa bene, specialmente agli adulti, e ai vecchi; dà vigore al corpo, rallegra il cuore, e lo spirito. Ma alla tua età se ne deve bere poco, annacquato, e ben di rado puro. Crescendo negli anni, e fino alla più tarda età, devi ancora berne poco, ma buono.

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Donnina forte

208662
Bisi Albini, Sofia 1 occorrenze
  • 1920
  • R. Bemporad & figlio
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Li ho visti e li ho sentiti abbastanza anche quelli che si danno delle arie tanto gravi, da parer che dispensin parcamente il loro spirito. Il Sanmarano informi.... L' Elisa spalancò tanto d' occhi. - Vorresti dire che non è simpatico? che è un grullo, lui! - esclamò. - Oh, è allegro, lo ammetto;... è disinvolto: è l'anima della società: quando lui non c' è, la serata è morta. Manca il direttore del cotillon e delle quadriglie: mancano i bons mots.... non è vero, Elisa? - Sei insopportabile, Conny, questa sera! - disse ella, indispettita sul serio. Suo marito rideva. - Già! hai imparato da Filippo a far l'originale per progetto!... Ma che cosa te ne pare. Gian Carlo? Trovar da ridire persino sul Sanmarano che è uno dei giovani più ammodo della nostra società! - Ammodo! esclamai. - Ci vuol così poco per essere ammodo al giorno d'oggi? Basta occuparsi molto di cavalli e essere molto annoiato di tutto il resto. Basta allungarsi con indolenza sul canapè; mandar in aria con grazia il fumo della sigaretta.... accavallar le gambe e mettere in mostra le scarpette lucide e le calze di seta? In quella vidi dondolare davanti a me il piede di Carletto e tacqui arrossendo. Ma egli mi disse con quel suo bellissimo sorriso: - Avanti, avanti, Conny! - Ho finito - risposi. - Ma! - esclamò Filippo. - Hai dimenticato che un giovane ammodo deve avere anche certe risatine improvvise, e certi improvvisi silenzi che turbano e fanno pensare, e certe lunghe occhiate insultanti, scusate! volevo dire insinuanti, e parlar a enimmi, a giochi di parole.... e la sua parola deve scoppiettare e scintillare come un razzo.... - Ma Filippo, Filippo! - supplicò l' Elisa. - .... di un fuoco d'artifizio. Un giovane serio e timido che si siede ritto su una sedia e fa un discorso pieno di buon senso, quello non è ammodo, e vi fa l'effetto d'una doccia d'acqua gelata: non è forse vero Elisa? - Io battei le mani ridendo. Mia cugina si alzò indignata: Carletto, con una gamba sopra l'altra, si dondolava mandando in aria con grazia il fumo della sigaretta. È un orrore! - esclamò l' Elisa. - Credete di far dello spirito, e non capite che vi rendete ridicoli col vostro puritanismo. È un'affettazione!... Dammi un po' di fuoco, Carletto.... - e si chinò su lui ad accendere la sigaretta. - Di un gio-vane disinvolto e spigliato che accavalla le gambe perchè così gli piace, voi me ne avete fatto uno sciocco, tutto affettazioni e tutto pose! Dio mio! ora non si bada più a certe stupide etichette! - Carletto rideva con indolenza. - Mi piace di veder con che calore te la pigli! Si direbbe che tu sia un giovane ammodo. Impara da me, cara Elisa: non vedi come son tranquillo? Ho visto partire la sassata e sono rimasto fermo al mio posto. - Filippo se n'andò nell'altro angolo della sala a discorrere con miss Jane. - M' ha fatto dispetto, ecco! - conti-nuò l' Elisa stizzita come una bambina. - Per me, lo confesso un giovane come il suo giovane ammodo mi piace! Lo trovo franco, svelto: sono sicura che il suo carattere è pieno di slancio e di sincerità. Mi par che tutti dovrebbero essere così, in questi tempi di libertà. Sbaglio? ma un giovane come quella doccia di Filippo...! - Ah, ah! quella doccia! - esclamò Carletto. - Non t' è parso di veder il Rinaldi col suo fare stecchito? - È vero! - rispose l' Elisa. - Conny, ammetterai almeno che il Rinaldi è terribilmente pesante! - Ha però un bel carattere - dissi. - Che cosa importa, quando non sa essere piacevole? - Mi pare che sia un gentiluomo per- fetto, Elisa! Per me t'assicuro che preferisco mille volte Rinaldi al Sanmarano. Con Sanmarano ci si diverte forse per dieci minuti, ma non interessa punto. In ogni suo discorso c' entra l'io, e questo benedetto io dice e fa le più strane cose; tutte le avventure più curiose accadono a lui, egli sa sempre tutte le novità più palpitanti come dice la zia. È un uomo fortunato, via! - Carletto si mise a ridere. - Non gli si può negare, - disse - che non abbia un' immaginazione fervidissima e una loquacità sorprendente. Ho una gran paura, però, che quelle storielle abbiano già fatto il giro del Fliegende Blätter e del Mondo umoristico. - E quelle freddure che una non aspetta l'altra! Mi par che delle parole succeda nella sua testa come dei bussolotti nelle mani di un prestidigitatore. Voi gli date un anello ed egli vi restituisce un ovo. È una cosa che stupisce e che fa ridere, non c' è che dire! Conclusione, - aggiunse Filippo riavvicinandosi - egli è un amabile chiacchierone, che tutti accolgono con festa e colmano di cortesie. - Non tutti, non tutti; - corressi io sorridendo - vi è chi rimpiange che il coraggio di trovar un secondo fine a una buona azione ci sia sempre, ma non quello di svergognare uno sciocco orgoglioso. - Elisa, allungata in una poltrona, disse con aria stanca: - Come si capisce benino che stai molto con mio marito. Hai preso tutto il suo fare di predicatore. - Davvero? me ne vanto! - esclamai allegramente, e corsi a fare il tè. In quella Carletto si alzò, dicendo che aveva un appuntamento al Club e salutò tutti: poi si avvicinò a me, ch' ero ritta accanto alla tavola, poco lontana dall' uscio. - Non pigli una tazza di tè ? - gli dissi. Grazie; no, - mi rispose serio, troppo serio e mi stese la mano senza parlare, guardandomi fisso negli occhi, con un' espressione strana. - Buona sera - dissi un po' confusa. Egli s' inchinò, fece un passo verso l' uscio, poi tornò; mi prese di nuovo la mano e disse a voce bassa, serio, quasi severo: - Conny, tu sei ancora una bambina. Non t'offendere.... Aspetta a giudicare la società: vivi ancora un pochino. Di qui a qualche anno ci riparleremo: allora le tue teorie saranno meno contraddicenti: allora mi dirai che i partiti eclusivi sono ingiusti, ma mi mostrerai anche col fatto che sai quello che dici. Allora ti sarai persuasa cara Conny, che a questo mondo non c' è nessuno che sia buono sotto tutti i rapporti, nè completamente cattivo. Credimi: serietà e leggerezza sono confuse più o meno insieme, e spesso le debolezze e i piccoli difetti non sono che una nebbia che nascondono le grandi e belle qualità. Mi credi?... lo tentai di parlare, ma non ci riuscii: un senso indefinito di soggezione m' invase tutta. Soggezione di mio cugino Carletto? di lui al quale avevo parlato con tanta arditezza, e che avevo guardato anche un momento prima con tanto disprezzo! No, no: sollevai la testa, sorrisi: ma le labbra mi tremavano e non potei staccare gli occhi dalla sua cravatta. - Mi credi? - ripetè egli con quella sua voce lenta, sommessa e dolce. Il suo alito caldo mi passava sulla fronte: la sua mano morbida stringeva la mia. Un brivido mi corse da capo a piedi. - Si, si! mi pareva che mi si ripetesse in fondo all' anima. Ma alzai gli occhi, li fissai in quelli di lui.... - No, - risposi, e risi: ma la risata mi si strozzò in gola. ............... Quando presentai la tazza di tè a Filippo, non lo guardai, ma sentivo fissi su me quei suoi occhi rotondi e sporgenti. - Conny, lascia che veda, - mi disse. - Che cosa - dimandai alzando la testa. - Ho già visto - mi rispose. - Ma che? non capisco, Filippo. - Il primo sintomo di una malattia: ma non mi spavento: sei robusta, sei forte. Son di quelle malattie che risanano una costituzione come la tua. - Tentai di sorridere. - Ma se sto bellone! l'assicuro! - Davvero? sei proprio la Conny di cinque minuti fa? calma, allegra.... - Ma si, Filippo; sono sempre la sua donnina forte! - E sollevai il viso; ma vidi nello specchio di contro ch' esso era pallido di inquietudine. *** La sera di Santo Stefano l' Elisa doveva passare a prendermi colla carrozza per andare alla Scala. Perchè ero così inquieta e mi occupavo tanto di quella benedetta camelia bianca che mi faceva un corno sulla testa? Non ero io la Conny? la famosa Conny che ha suscitato, - me lo ha detto la zia - una discussione in casa T*** per decidere se sia coquette o ingenua: se nel suo modo di vestire semplice e severo ci sia dello studio e una posa di classicismo, o invece mancanza di vanità? Davvero, che se dovessi rispondere io, sarei un pochino imbarazzata. Vanità? Che cos'è? Mi par che in questo caso s' intenda una puerile preoccupazione di ornarsi di fronzoli; la parola stessa lo dice, e un ricorrere a cose vuote e leggiere per piacere altrui. No, no, io non sono vanitosa. Quando mi vesto io non penso agli altri: non faccio che contentare il mio occhio, e siccome a me piacciono i contorni decisi, le linee nette, non ho mai sopra di me nè tulle, nè nastri. Certe testoline tutte fiori e spilloni, mi han qualcosa di raffazzonato, di non ben definito che (sono io forse un'originale) mi fa dubitare del carattere della signora. È barocco infine, e il barocco in arte non mi piace. Sentii una scampanellata. - She here is - e miss Jane mi buttò sulle spalle il mantello. Sull'uscio m' incontrai in Carletto; come fui sciocca di arrossire! - Addio, Conny, - mi disse respirando a fatica per la corsa fatta su per le scale: il suo viso era pallido e negli occhi grandi, castani e profondi, v'era un velo di tristezza. È un fatto ch'egli è uno dei più bei giovani ch' io conosca: in quella sera la sua testa piccola e bionda risaltava stupendamente su quel largo bavero di lontra. M'offerse il braccio senza parlare, e scendemmo. - Sei troppo gentile, dissi tentando di dar alla mia voce un tono di ironia. - Incomodarsi per una signorina! Egli si volse a guardarmi, poi posò la mano sulla mia ch'era appoggiata al suo braccio, e disse con un suono di voce che mi turbò: - Conny, io mi sono riconciliato colla signorina; ora tu, buona e intelligente, non devi ostinarti, per puntiglio, nella tua.... via! nella tua antipatia per il giovane.... ammodo. Ma in quella la vocina allegra dell' Elisa l' interruppe. - Siete qui? che cosa hai detto, Conny? - Non è strano...? - continuò mentre salivo in carrozza - Gian Carlo che di solito se ne sta al caffè Cova ad aspettarci, e viene per compiacenza nell'atrio del teatro quando ci vede arrivare.... - e rideva. Sprofondata nell'angolo oscuro della carrozza, io vedevo brillare davanti a me gli occhi di Carletto, che cercavano i miei. Si entrò al teatro: lo spettacolo era già incominciato e la musica assorbi tutta la mia attenzione: non vedevo e non sentivo altro; nemmeno le chiacchiere incensanti di mia cugina. Quando l' atto finì, battei le mani. - Cara Conny, non usa più di star così attente allo spettacolo, - disse l'Elisa ridendo. - Lo so; ma sai che io non bado a ciò che usa. Sono venuta in teatro per il Don Carlo, non.... - Per don Carletto? - domandò il conte Rinaldi con la sua imperturbabile serietà, e si alzò per salutarmi. Non l' avevo veduto nè sentito entrare. Mia cugina rise: e Carletto mi guardò con un' espressione seria. Io arrossii, ma dissi stendendo la mano al Rinaldi: - Oh! non per don Carletto. - In quel punto mi sentii fissata, e mi voltai istintivamente. Era una signorina nel palco di casa Borromeo la quale abbassò subito il canocchiale, e due grandi occhi neri si fissarono ne' miei con un' espressione cupa e nello stesso tempo così fredda, che mi strinse il cuore. Era bruna, pallida, bellissima: vestiva un abito di crespo bianco scollato senz'altro ornamento che una crocetta d' oro ap-pesa a una catenella. Mi domandai perchè aveva quella posizione strana; pareva che colle spalle si puntasse allo schienale della sedia: il suo seno si sollevava e s'abbassava, e le braccia allungate, colle mani unite che tenevano stretto il binoccolo, sembravano rigide come di marmo. - Carletto, - dissi - chi c' è nel palco di casa Borromeo? - Non li conosco - mi rispose senza guardare, e stava per avviare un discorso con Rinaidi, ma questi disse forte rispondendo alla domanda fatta da me a mio cugino: - È la signorina De Lami con sua madre e suo fratello. - Ah, è vero! - disse Carletto - non li avevo riconosciuti. - I De Lami di Piacenza? - chiesi io. - Sì, - mi rispose il Rinaldi - ma da poco più di un anno stabiliti a Milano, perchè vi hanno qui la figliuola maggiore che ha sposato il Marenzi. - È quella bella signorina di cui tu, Elisa, mi hai parlato con tanto entusiasmo quest' estate? - Io?... è vero; ma ha un' espressione antipatica. C' è qualcosa di maligno in quegli occhi scuri, non è vero Rinaldi? - Non mi pare - rispose egli serio. - Ci trovo solo una grande alterezza, - dissi io. - Gira intorno gli occhi in un modo che par che dica: " Mi degno !... - Ma nello stesso tempo più la guardo, e più mi piace. Sai che effetto mi fa? che abbia un gran dolore e che voglia nasconderlo. - Carletto si alzò ridendo. - Badate, Rinaldi! - esclamò - mia cugina vede romanzi dappertutto. Dimandatele che cosa pensa di voi: sentirete che intreccio! - Poi s' inchinò ed aggiunse: - Se permettete, vado a far una visitina a donna Giulia, - e usci ridendo sempre. Sul viso lungo e sbiadito del conte Rinaldi non apparve un sorriso, e disse lentamente, con serietà: - Questa volta io credo che donna Conny abbia ragione. La signorina De Lami pare anche a me una bella statua del dolore. Ah, ah! mi fate ridere! - esclamò l' Elisa allegramente. - Peccato che Gian Carlo sia andato via: lui vi può dire com'è simpatica la vostra signorina De Lami! E poi bisogna esser ciechi, caro Rinaldi. Mi pare che le si veda chiaro negli occhi ch' ella ha un' anima cattiva. Gian Carlo mi diceva che di tutte le cose ella vede subito il lato brutto. Guarda Conny come è pettinata male la Maria. Dunque dicevo che piglia tutto in cattiva parte, e vede in ogni azione un secondo fine: insomma è invidiosa e permalosa peggio di una zittellona. - Ella la conosce intimamente, contessa? - dimandò il Rinaldi. Mi trovai coi De Lami la scorsa estate a San Bernardino, e quindi posso dire di conoscerla appena di vista, ma mio fratello è amico dei Marenzi, e credo che abbia conosciuto in casa loro la signorina De Lami, la quale è sorella di Lucia Marenzi. - Oh! Carletto ha frequentato molto anche la casa della signorina.... - replicò il Rinaldi. Davvero che quel suo tono di voce sempre uguale, e quel suo viso freddo e immobile, cominciava a irritarmi anche me. Ella mi diede un' occhiata che voleva dire: - Dio mio: com' è pedante! - Ma intanto entrò il tenente Alfieri, e il Rinaldi venne a sedersi vicino a me. Cominciò il secondo atto: i miei occhi si fissarono sulla scena, e per quanto mi sforzassi non riuscii a concentrare la mia attenzione nella musica. Vedevo laggiù il viso pallido e severo della signorina De Lami, poi fra mia cugina e il tenente s'era intavolata una di quelle conversazioni leggiere, maldicenti e pettegole, che mi seccano tanto e mi metton i nervi sottosopra. Mi par una viltà indegna di persone che pretendono di essere educate e oneste. Mia cugina è di quelle che giudicano in bene o in male secondo ciò che sentono raccontare o riferire in società, fra un piccolo gruppo di conoscenti, e non pensano che quasi sempre il male che si dice è una calunnia, o, per lo meno, un' esagerazione. lo mi misi a discorrere col conte Rinaldi. Egli non è punto bello, è troppo alto e troppo angoloso. La sua lunga figura, quando appare nel vano di un uscio, mi par un ritratto antico nella sua cornice: e, non so perchè, quando l' ho vicino mi par di sentire quell'odore di carte vecchie e di muffa che c'è nella nostra biblioteca di campagna. Io credo ch' egli viva fuori di questo mondo, in un mondo tutto ideale; è un originale, e forse, anzi, certo per questo, mi piace. Parla poco e lento, ma la sua parola è sempre gentile, convincente e utile come dice ridendo l'Elisa. È letterato e archeologo, e scrive qualche volta dei serii articoli nella Nuova Antologia o nella Rassegna Nazionale che tutte le signore leggono, ma non capiscono, e di cui, naturalmente, gli fanno le congratulazioni e gli elogi più intelligenti. Il suo babbo è membro della Consulta Archeologica, non c' è da stupirsi quindi ch' io abbia una spruzzatura storico-artistica nella mia testa, che mi vien buona nelle mie conversazioni col conte Rinaldi. Ho detto conversazioni, ma veramente, io, così chiacchierona nell' intimità, in società parlo pochissimo, ed è uno de' miei più grandi piaceri quello di trovarmi a quattr' occhi con chi ne sa più di me per poter ascoltare senza che nessuno interrompa, e abbandonarmi al godimento d' imparar cose nuove, e molte volte anche a quello, un po' maligno, di scrutare e tentar di toccare il fondo alla coltura degli altri. Ma non era a quella di Rinaldi che si potesse veder facilmente il fondo. Quella sera egli era insolitamente eloquente, e descrivendomi certi oggetti scoperti negli scavi delle antiche mura di Milano m' interessò tanto da farmi dimenticare la musica. Ma a un tratto s' interruppe chiedendone scusa. - Lei ascolta in un modo da dar l' illusione che si stia raccontandole cose molto interessanti - disse inchinandosi senza guardarmi. lo l' assicurai che m' aveva realmente divertita ed egli rispose sempre senza guardarmi: - Che ella sia una signorina un po' diversa dalle altre è facile a capirsi, ma che si debba divertire a questi studi, via, sarebbe troppo.... originale. - Non me Io ripeta, conte, perchè forse sarebbe il modo d' invogliarmi a mettermici sul serio, sa? - Egli alzò gli occhi finalmente, e disse colla voce più piana: - Se fosse vero, che si potesse avere ancora la dama colta e seria! l' antica gentildonna che ha l' orgoglio della propria onestà e del proprio nome, che mette la famiglia e gli studi avanti a tutto, e riunisce intorno al marito e ai figliuoli tutto ciò che la coltura, la cortesia, l'onestà, ha di più eletto! Di queste signore - aggiunse - io ne ho trovate parecchie in provincia: ne conosco a Ferrara, a Ravenna, a Bologna, a Perugia, nel Friuli... Ma nelle grandi città com' è difficile d' incontrarne! La signora è portata via, di voglia o controvoglia, dal turbine delle occupazioni mondane, e non ha più tempo di esser seria. - E meno egoista.... - dissi io ridendo. - Da noi le signore si prodigano e non hanno tempo di pensare a sè. Bisogna aver pietà di loro, conte. - In quel frattempo mia cugina si alzò. - Aspetta un momento, - disse Carletto ch' era rientrato in quel punto. - Conny desidera certo di rimanere sino alla fine. - Oh no, andiamo, andiamo pure - risposi. Mentre Carletto mi metteva sulle spalle il mantello, vidi che nel palco di casa Borromeo non c' era più nessuno. - Vorrei incontrarmi sulle scale con lei - pensai, e uscimmo. Arrivate nel corridoio della prima fila vidi venire verso di noi la signorina. Alta, portava la testa con fierezza, e dietro a lei una signora attempata camminava adagio, sostenuta da un giovinotto. Mio cugino, che mi dava il braccio, si fermò bruscamente, voltandosi a dimandare a sua sorella se voleva passare dal Cova per prendere un tè. lo guardavo la famiglia De Lami. Vidi il giovane rialzare la fronte, e sopra le nostre teste, passò, come una palla di fucile, il lampo orgoglioso dei suoi grandi occhi neri. La signorina ci passò dinanzi e scese lentamente cogli occhi fissi avanti a sè, bianca e fredda come una statua di marmo. Mi voltai al conte Rinaldi che mi era vicino e gli dissi piano: - Forse hanno ragione i miei cugini. C'è in lei qualcosa che allontana. Non le pare? - No: mi pare invece che dovrebbe avere tutta la simpatia di una persona come lei. - Perchè? - Non so se Rinaldi rispose: un senso indefinibile di tristezza m' invase all' improvviso; Carletto a cui davo il braccio, chiacchierava con sua sorella e col tenente, ma sentivo il suo braccio avvicinarsi sempre più al suo petto e mi sembrò di sentir battere il suo cuore sotto la mia mano. Un momento che fummo sospinti dalla folla nell'atrio, la sua mano carezzò la mia, e la sua voce mi chiese sommesso, con un' inflessione dolcissima come se dicesse parole affettuose: - Sei stanca ? - Le idee mi turbinarono, e il cuore, non so perchè, mi battè con violenza. Feci cenno di no, senza guardarlo. Si arrivò alla carrozza, io salii e mia cugina dopo di me. Carletto si scusò, dolente di non poterci accompagnare. - Ma dove hai la testa, Conny? mi disse l' Elisa. - Non senti che il Rinaldi ti saluta?- lo sporsi la mano dallo sportello e soltanto quando me la sentii stretta dalla mano lunga e magra del conte, mi riscossi e mi risvegliai come se avessi sognato. *** Non ho mai capito perché Filippo abbia sposata mia cugina Elisa. Lui ha cinquant'anni e lei trenta: lui è brutto e lei bellissima. Lui ama.... veramente non so che cosa ami: fa insomma una vita quieta, regolata: la casa e il Cova: il Cova e la casa: la Perseveranza e la Revue de deux Mondes, la Revue e la Perseveranza, e sempre così. Cioè, mi dimenticavo di mettere, dopo il Cova, la mia poltroncina rossa. Lei è elegantissima, vivacissima, e per star bene, dice, ha bisogno di moto, di visite, di teatri e di balli. Marito e moglie non si vedono dunque che a tavola. Ma è ammodo anche questo, lo sapete. Dunque Filippo viene spesso da me: soprattutto quando il babbo è a Roma. Egli.... ha! ecco trovato chi ama! Ama me! in un modo un po' brusco, ma che, forse appunto per questo, mi piace, mi commove e m' ispira tutta la fiducia. Credo che abbia ragione l' Elisa, la quale dice che un po' del mio carattere sincero.... e del mio fare franco I' ho preso da lui; il mondo lo conosco perchè lui me l' ha descritto, e siccome lui, in fatto di società, è molto scettico, io... ma voi sapete già come la penso io. Filippo dice che non c' è nessun angolo di salotto più simpatico e comodo del mio: ed io ogni tanto gli facevo la sorpresa di una nuova comodità: oggi era il tavolino da fumare accanto alla sua poltroncina rossa: domani era un paralume, un' altra volta un libro uscito di fresco. Le prime volte quasi si offendeva : mi diceva che lo avvezzavo male, che lui voleva servir me e non esser servito, che lui è de' tempi passati, quando era una villania il fumar sul viso alle signore e lo sdraiarsi nelle poltrone.... Da due settimane non lo vedevo. Una mattina, verso mezzogiorno, egli entrò nel mio salotto: io mi ero appena alzata, perchè avevo ballato tutta la notte in casa S***. Non so perché rimasi confusa a vederlo e non trovassi modo di avviare un discorso. Egli fece i suoi inchini forse con maggior gravità del solito: aspettò che gli dicessi di sedere, ringraziò, si sedette e mi fece i suoi complimenti per il furore che avevo destato in casa S***. Glielo aveva detto sua moglie, e un amico che aveva trovato quella mattina al caffè Cova. Ma ad un tratto mi domandò: - Sei in collera Conny? - In collera! no; - risposi - perché dovrei essere in collera? - e sorrisi. - Davvero?... È però molto tempo che non ci vediamo: lo sai? - Oh certo! ma di chi è la colpa se non di chi non viene a trovarmi? - Egli si chinò per guardarmi negli occhi. Perché io non li alzai, non gli lasciai leggere che cosa passava nel mio sguardo? - Senti, cara ragazza: parliamo un pochino sul serio, eh? Abbiamo forse finora parlato per ridere? - Egli mi prese una mano: - Conny, Conny: non tentar di scherzare quando non ne hai voglia! Tu non sei buona di fingere. Mi vuoi ascoltare? - Ma si figuri! - Vi fu un momento di silenzio. Conny, - disse finalmente - il tuo babbo è lontano, ed io mi credo quasi in dovere di pigliare il suo posto: io, il solo, ricordatelo! il solo e vero amico che tu abbia. Oh, ti prego, non buttarti anche tu in quella vita leggiera che ha per iscopo gli abbigliamenti e le feste. È un pericolo, sai! Una donna è raro che si conservi buona in società. Si vede ammirata, corteggiata e finisce per concentrar tutto in sè, per non occuparsi che di sè, e la sua mente si rimpiccolisce e il suo cuore si raffredda. - Oh, a me pare che saprò essere sempre buona, Filippo! - dissi. - Eh, eh! sicura come sarai di piacere, non penserai ad amare. La tua bellezza e i tuoi successi ti terranno luogo di tutte le gioie più sante e più care! - Io sollevai la testa: tutto il sangue m' era salito al viso. - Filippo! - dissi con una voce che tremava di sdegno e di dolore. - La mia vita tranquilla fra il babbo e lei, in mezzo ai miei libri, è stata troppo bella perchè io vi voglia rinunciare. Voi mi avete detto e ripetuto troppo che sono buona, che sono colta, che sono una donnina forte, perchè io lo possa dimenticare, per il piacere di sentirmi dire che sono bella! Lei poi, Filippo, ha fatto di tutto per instillar qui dentro delle idee sode e serie, e un briciolo di quel buon senso che in tanti casi della vita, dicono, val più dell' ingegno.... Filippo, Filippo! se c' è una persona che non deve dubitare di me, è lei! - mi copersi il viso colle mani dando in uno scoppio di pianto. Vi fu un po' di silenzio: la mano larga di Filippo passò e ripassò sulla mia testa, e finalmente mi disse colla voce tremante: - Guarda, figliuola! non puoi credere che piacere è per me questo tuo scoppio di sdegno. Mi fidavo di te: sapevo che nessuno al mondo avrebbe potuto mutare quel tuo cuore così lealmente buono: ma avevo bisogno che tu me lo dicessi: e se t' ho offesa è stato per provocare questo sfogo più che per altro, Conny. Per te io metterei la mano sul fuoco: ma non vorrei che tu, per esser brava, dovessi soffrire e far sacrifici. Vorrei vederti amata come lo meriti, da un uomo serio, buono, che conoscesse tutta la tua anima come la conosciamo tuo padre ed io.... Tu, cara Conny col tuo spirito d'osservazione e la tua superiorità, riesci sempre a scoprire tutte le debolezze delle persone che ti circondano: ma sei ancora troppo giovane, e il tuo cuore è troppo buono e la tua mente è troppo serena, perchè tu non possa nemmeno sospettare certe colpe e certe ipocrisie. Povera la mia donnina! tu mi guardi spaventata.... Oh, ma verrà pur troppo il giorno in cui conoscerai che cos' è la società, e diventerai scettica anche tu. - Si alzò. Io singhiozzai. - Le mie parole ti hanno fatto male figliuola, - mi disse accarezzandomi i capelli - ma ti faranno pensare, ed è quello ch' io voglio. Non t' ho detto tutto, ma tu capirai anche quello che ho taciuto.... Oh, credi! è bene che una parola seria venga a scotere in mezzo agli svaghi e alle emozioni dei giorni felici.... - Quando alzai la testa ero sola nel mio salotto. Provai come uno spavento.... - Oh, si: è bene: ma è però doloroso! - esclamai con un singhiozzo. *** C' era stato l'ultimo ballo di carnevale, m'ero alzata tardi, stavo pensando che cosa avrei dovuto fare in quella giornata, quando entrò mia cugina. - Buon giorno Conny, come stai ? Sei Stanca ? Dio mio, che freddo! - Tirò una poltrona vicino alla bocca del calorifero e vi si rannicchiò mettendosi il manicotto sul viso. - Sono venuta a piedi, lo sai? Che gelo! - e picchiava i piedi sul pavimento. - Pensa! il mio cocchiere stanotte s' è pigliato un raffreddore! Dica quel che vuole mio marito, ma un cocchiere che ha il petto delicato più di una signora io non lo tengo! - Gli hai detto di venire a prenderci alle tre, e invece siam rimaste fino alle sei. Ne avrà certo pigliato del freddo! - dissi io. - Non si va a fare il cocchiere quando non si può sopportarlo. Ma vuoi ridere, Conny?... Figurati che Filippo avrebbe voluto che si mettesse la pelliccia come il servitore! Il cocchiere che è stato là sotto la pioggia tutte quelle ore. Dio sa come l'avrebbe conciata! " O tutt' e due o nessuno; - mi diceva. Lui non pensa che Gaetano deve venir nell' anticamera ad accompagnarci e a prenderci. Che bella figura avrebbe fatto senza pelliccia, in mezzo alle stupende pellegrine di martora di casa Turati e di casa Ponti! - Ah! ma vedi, Elisa! Filippo ha delle ingenuità strane: lui credeva che le pellicce fossero fatte per tener caldo, e che il cocchiere, che doveva star fuori allo scoperto tre ore ad una temperatura di otto gradi sotto lo zero, ne avesse bisogno più del domestico. - L' Elisa mi guardava con un'aria desolata. - Oh, Conny! ti prego.... - supplicò colla sua voce dolce di bambina. - Non ridiventare quella brutta e antipatica Conny di una volta ! - balzò in piedi, e mi buttò un braccio al collo. lo risi e la baciai sulla punta del suo nasino che pareva si fosse voltata in su allora allora, per guardarmi anch' essa e dirmi: -Son carina, non è vero? - Elisa, tu mi hai affascinata: finirai col farmi diventare una donna indolente.... e poco seria come te! - Poco seria! - esclamò scandalizzata. - Conny! come sei cattiva! Vedi, mi vuoi far credere che sono io che t' ho affascinata! ma sei invece tu, più alta, più istruita, e, via.... più seria di me, che colle tue dita lunghe mi avvoltoli e mi fai girare e mi strapazzi come ti piace. Oh, non ti guardo più, va'! - E tornò a sedere nella sua poltrona coi piedi contro la bocca della stufa. - Io presi una seggiola e mi sedetti dietro di lei, voltandole le spalle. - Eppure - dissi calma calma - scommetterei qualunque cosa che ora tu mi fai attaccar i cavalli per forza, e mi conduci dove tu vuoi. - Una risatina allegra e un colpetto della sua testa contro la mia, accolse le mie parole: poi ella arrovesciò le braccia e mi prese per gli orecchi. - Ah, sei la più furba, la più intelligente creatura del mondo! Sei un tesoro, ecco! - Grazie, grazie! ma mi fai male! - Ella rideva ch' era un piacere a sentirla, poi si volse, s' inginocchiò sulla sua poltrona e mi arrovesciò la testa. - Li fai attaccare, non è vero! - mi chiese con una voce supplichevole. - Che cosa ? - I cavalli. Sì, sì! falli attaccare, andiamo insieme a far tre o quattro visite che so già di non trovare; poi andiamo sui bastioni. Mettiti il tuo vestitino corto: dopo scendiamo e facciamo un giro a piedi. Va bene, Conny? dimmi di sì dunque! - E s' io volessi dir di no? Non sei buona. - Eppure.... - Oh Conny, Conny! non essere scortese! - e mi stampò un gran bacio sulla fronte. Chi avrebbe resistito? Ordinai che attaccassero. Mentre mi vestivo, l' Elisa, seduta alla mia toeletta si accomadava il cappellino. - Sai ? - diceva - la mamma stamattina è venuta a trovarmi. Era ansiosa di sapere com' era andata la festa: aveva però incontrato l'Antonietta e sapeva già di quel cotillon così poco spiritoso. Le ho detto dell' orribile abito dell' Emma! N' è rimasta sorpresa anche lei.... Ti pare che mi stia bene questo cappellino, Conny?.... Senti: le ho detto del tuo successone: ne è stata felicissima: se non isbaglio s' è riconciliata con te. Non te ne sei accorta? - lo stavo per rispondere, ma ella continuò: - Ah, sai? Gian Carlo mi ha tormentata per sapere dove si andava; non volevo dirglielo: finii col dargli ad intendere che si andrà sui bastioni nell'ora che non c' è nessuno, poi si sarebbe finite al Cova a mangiare una tartina. Ma scommetto che riesce a trovarci ugualmente quel matto: vedrai! - Conny! - mi dimandò a un tratto mentre si strappava un pelo che le spuntava ostinato da un piccolo nèo, e arricciava il naso per il dolore. - Ahi! che peccato! mi s' è rotto senza strapparsi: Senti dunque.... Che cosa ti dicevo? - Nulla. - Ma sì: ti ho domandato se ti piace mio fratello. - Mi provai a ridere, ma non ci riuscii. - Che domanda originale! - dissi. - Oh Dio mio! che cosa c' è? Ti fa la corte, tutti se ne sono accorti: e niente di più naturale che egli ti sia simpatico. Che occhi, non è vero? e poi quei denti! È tutto bello!... Ma che creatura fredda, Dio mio! mi fai stizza, Conny! Di' dunque ti piace? - Non so. - Non lo sai ?! - e picchiò il piede sul pavimento con stizza. - Non lo meriti davvero. Se non credessi di dargli un dispiacere, glielo direi, guarda! - Ah! ah! dispiacere? - e misi in furia la veletta sul viso perchè ella non potesse vedere come avevo arrossito. - Ma sì; non ho mai visto mio fratello così entusiasta di una signorina. Una volta non si degnava nemmeno di guardarle.... Oh ecco un altro pelo! qua! ma t'assicuro, Conny, che mi vien la barba! - Diedi in una risata più rumorosa e prolungata di quel che fosse necessario, sperando di concentrare tutta la sua attenzione nella barba. - Dirò a Filippo di far un baraccone a Porta Genova e di farti vedere al pubblico. Avanti, avanti signori! qui si vede una donna non mai veduta! che ha la barba vera come un uomo! A chi non ci vuol credere è permesso di tirarla! - Eravamo già in carrozza e si rideva ancora come due bambine. *** Si andò a far tre visite : cioè a lasciare i nostri biglietti, perchè non c' era nessuno in casa; ma donna Beppina c' era e ne fui contenta perchè la stimo tanto. Entrammo quasi insieme con una bella signora elegantissima, grassotta, che aveva un viso aperto e due grandi occhi chiari pieni di sincerità e di allegria. - Chi è? - domandai all' Elisa. - Non lo so - mi rispose; e visto che non è più di moda far le presentazioni, dovetti tenermi la mia curiosità. V' erano altre signore, ed esaurito il discorso del teatro, del ballo di casa S*** e del concerto del Quartetto; quella signora disse: - Hai sentito Beppina, della povera Clara? - La sua fisonomia era così serena, anzi così gioconda, che quella povera Clara non impietosì nessuno. Ma vidi donna Beppina farsi subitamente seria, e mi colpì il tono un po' asciutto della sua risposta, come se quel discorso non le andasse a genio. - Sì, disse - è venuta a salutarmi ieri. Povera Clara, oggi ha trovato un conforto. - E si alzò dicendo: Fa un po' caldo, qui dentro. Non è vero? - e andò a chiudere la bocca della stufa; poi chiamò l' Elisa per mostrarle dei ritratti che c'erano sul tavolino. Intanto il discorso della povera Clara continuava intorno a me. - Che colpo è stato per me! - diceva una signora piccolina, tutta esclamazioni tragiche. È venuta la settimana passata a farmi visita con sua madre; aveva un abito che le stava a pennello.... chi avrebbe detto che tre giorni dopo si sarebbe fatta monaca! Che bella monaca col sóggolo bianco! - disse tranquillamente una terza signora. - In che convento è entrata? È partita per Troyes per fare il noviziato fra le Soeurs du Bon Secours. - Oh Dio mio! per curar malati poveri: e i feriti nelle guerre! ma possono mandarla nel Tonchino! - esclamò la signora piccolina, spalancando gli occhioni con terrore e stringendosi con un brivido le mani nel manicotto. Povera creatura! - disse con un sospiro la signora grassotta. - Oramai la sua vita era un tale tormento, che qualunque fatica materiale le riuscirà indifferente. Povera, povera Clara! - Ma perchè? - dimandò una terza signora - non si tratta di vocazione? - Oh signora! è tutto un triste dramma facile a indovinarsi. Non c' era proprio altra liberazione per lei, che d' andare a farsi monaca. Ma che rimorso oggi per sua sorella! - Come! Lucia Marenzi?! - Ma certo! non sapeva...? - lo ebbi un sussulto. Parlavano forse della signorina De Lami? In quel momento la padrona di casa tornò a noi con Elisa e si sedette di nuovo chiedendo con vivacità se sapevamo del fidanzamento di Paola Varenna. - Che! la Varenna? Ah era tempo! ormai come signorina era un po' matura, ma che bella marchesa sarà! eclisserà sua cugina. - Tutte s'interessarono di sapere come la cosa era accaduta, e la povera Clara era già dimenticata. Ma io non riuscivo a strappare il mio pensiero da lei. L'avevo vista una volta sola la sera di Santo Stefano alla Scala, ed era strano come fin d'allora mi aveva interessata quella pallida, altera figura che mi era parso, a ragione, che nascondesse un dolore. Provavo un' emozione che mi toglieva il respiro, pensando che mai più nella vita l'avrei incontrata, ch' ella era partita per il vasto mondo dove non avrebbe udito che lamenti e gemiti, dove non avrebbe visto che lagrime e piaghe, lei vissuta fino allora in mezzo alle agiatezze e alle eleganze. Mi pungeva una curiosità non mai pro-vata, di saperne di più, di conoscere tutta la storia di lei, e un momento che l' Elisa e le altre signore parlavano fra loro, con gran vivacità, del matrimonio di Paola, io dimandai alla signora grassotta che mi era vicina: - Scusi, signora, mi vuol dire se parlavano della signorina De Lami? - Precisamente. Non la conosce? - La conoscevo di vista, e mi era tanto simpatica. - Oh lo credo! se l'avesse poi conosciuta da vicino! un carattere, sa! colta, seria e nello stesso tempo così semplice nel suo modo di fare, e così piena d'entusiasmi e di fede! troppa fede! fu la sua disgrazia. Certe brutture le parevano impossibili fra persone educate. C' è chi dice ch' è stata una bimba e una sciocca a illudersi, ma noi amici abbiamo visto come ha saputo lui insinuarsi nel suo cuore. Io badavo ad aprir gli occhi a sua madre: " Voi non conoscete il marchese, - le dicevo " diffidate. - Ma erano appena venuti a Milano non avevano un' idea di questi sfaccendati eleganti, che non credono a nulla, non rispettano nulla e si stimano padroni del mondo. Il fatto è ch' ella fu presa per lui da una di quelle affezioni che sono la vita di una donna. E quando più supponeva d'essere amata e sua madre s'aspettava da un momento all'altro che egli le chiedessse di potersi dire fidanzato che è, che non è, la luce si fa, per lei prima che per gli altri; la sorella, quella maritata Marenzi.... Una brutta storia insomma! - Orribile.... - mormorai rabbrividendo. - Antonietta! - chiamò in quel momento la padrona di casa - permetti che faccia le presentazioni che ho dimenticate la contessa Elisa di*** che, sai, è figliuola della marchesa*** e sua cugina, donna Conny***. - Poi disse a noi. - La signora Gemmi, moglie del Senatore, una delle mie più buone amiche, una patronessa preziosa dei nostri Asili. - E sorrise respirando liberamente, ma non capì che non era arrivata a tempo. La signora Gemmi mi fissò co' suoi grandi occhi grigi, con un turbamento così visibile da accrescere il senso di malessere che quella triste storia mi aveva dato; poi a un tratto, non so come, fui colpita come un fulmine dalla percezione viva della verità, come se la cosa io l'avessi sempre sospettata, come se tutto fosse stato detto, come se un nome fosse stato pronunziato. Impallidii? non lo so: so che Elisa mi guardava con inquietudine. Dopo un minuto la Signora Gemmi si alzò e nel salutarmi mi strinse forte la mano guardandomi negli occhi; poi mi disse con una voce piena di bontà e quasi commossa: - Cara signorina, permetta che la baci. - E mi abbracciò stretta. Non ricordo come io sia uscita di là; so che mi trovai in carrozza cogli occhi sbarrati che non vedevano nulla. I polsi mi battevano, le orecchie mi sibillavano, un sudore freddo mi inumidiva il viso, e mi pareva che qualcosa si fosse spezzato in me. Una risatina di Elisa mi fece trasalire con uno spasimo. - Ah ah, se si dovesse credere a tutte le ciarle che si fanno in società! Tu non hai sentito Conny, quanti commenti e quante supposizioni buttate là con la sicurezza di fatti veri, a proposito del matrimonio di Paola Varenna! E tu, Conny, di che discorrevi con quella signora.... Oh Dio, ma come sei pallida, che cos'hai?... Era molto stupida quella signora.... come si chiama? non mi ricordo più. Dev' essere la moglie di un bottegaio arricchito, lo scommetterei! Un dolore intenso, improvviso ai cuore mi tolse il respiro e mi fece chiudere gli occhi. L'Elisa mi afferrò una mano spaventata. - Ma Conny, non capisco! si direbbe che ti sei turbata per la storia di quella Clara, come se.... Ah brava, mi avevi spaventata!... Senti dunque, cara: tu che ti dài le arie di donna forte, ti commovi di tutto. Mi fa ridere: scommetto che quella signora Gemma o Diamante, che sia, ti avrà raccontato che la Clara si fa monaca per una disillusione d'amore. Com' è poetico!... ma non è più di moda! Par il titolo di un romanzo di quarant'anni fa. L'ingenua tradita!... ah ah! Ma già, ha ragione mio fratello.... - Che cosa dice? - domandai colla voce dura. - Dice.... cioè diceva che le signorine come voi sono tante grullerelle, perché pigliate sul serio la cortesia più comune, e come una dichiarazione di amore una parola gentile. Vedete subito grande il doppio ogni cosa.... - Ah!... - In quel momento la carrozza si fermò: eravamo sui bastioni. - Che c' è?... - dimandò l' Elisa. - Il signor marchese - rispose il domestico. E allo sportello della carrozza apparve la figura elegante e bella di mio cugino. Il suo volto era raggiante di allegrezza. - Ah, ah! vi ci ho preso! Ma che cos'hai Conny? ti senti male!... Che cosa è accaduto? - disse spaventato, e tutta la sua fisonomia si rannuvolò. Mi pareva d'essere impietrita: immobile nel fondo della carrozza, con gli occhi fissi in quelli di lui, avrei voluto penetrare con lo sguardo fino in fondo alla sua anima. Egli passò dalla parte mia e mi prese le mani; io le ritirai con ispavento: - No! - dissi con voce rauca. - Ma che cos' hai? Conny! parla, oh parla! Mi vuoi far morire?! - il suo viso si era coperto di pallore. - Scendiamo, scendiamo! - disse con impazienza l' Elisa saltando a terra. - Egli ha qui il phaeton, non è vero? - dissi. - Potresti tornare a casa con lui. Conny.... scendi.... ti prego! - Perchè quella voce esercitava su me un fa- scino così irresistibile ? Perchè mi lasciai prendere le mani e scesi di carrozza e lasciai che mi guardasse negli occhi, e mi dicesse con quella sua voce sommessa e dolce che mi fa tremare: - Grazie! - Era una giornata fredda e nebbiosa dei primi di febbraio: sui bastioni non c' era anima viva. L' Elisa volle passare sul viale che guarda giù nella strada di circonvallazione per vedere il tranvai. lo camminavo come trasognata: Carletto mi prese la mano.... un brivido mi corse dalla testa ai piedi.... se la posò sul suo braccio. Egli rispondeva a tutte le domande curiose della sorella; e il suo braccio si stringeva sempre più al suo petto, come quella sera di Santo Stefano. Si arrivò sul ponte della barriera Principe Umberto: nessuno parlava; poco lontano scalpitavano i nostri cavalli: i tranvai e le vetture passavano rumorosamente sotto di noi, e nella stazione fischiavano e sbuffavano le locomotive. Tutto questo mi rimbombava nella testa dolorosamente. Carletto si appoggiò alla sbarra del ponte e mise una mano sulla mia perchè non la ritirassi; poi rivolse il viso verso di me, ch' ero rimasta ritta e immobile accanto a lui. Oh, no, no! non volevo guardarlo, non volevo essere guardata a quel modo! Mi parve di veder rizzarsi accanto a noi, cogli occhi neri e cupi la povera Clara e mi sfuggì un grido d'angoscia. - Non guardarmi così! ti odio! Conny! mia Conny! abbi pietà di me!... - E le sue labbra di fuoco si posarono sul polso gelato della mia mano. Non so che cosa sia accaduto. Mi ricordo solo, come in un sogno, che ero in carrozza e che mia cugina parlava, parlava, e io ascoltavo senza capire; due cavalli ci rasentarono come un fulmine ed io pensai: perché i miei cavalli non corrono? e mi prese un'ansietà, un' inquietudine affannosa, avrei voluto precipitarmi giù, per correre a casa a piedi, sola! Finalmente la carrozza entrò in casa; scesi e dissi al domestico: - Riconducete la signora Contessa a casa sua, - ed io salii lentamente la scala, entrai in casa, apersi l' uscio del mio salotto e trasalii. Egli era là, ritto davanti a me, pallido e serio. S' inchinò e mi stese tutt' e due le mani. lo m'appoggiai colle spalle al muro: non avevo più un filo di forza né di fiato. - Conny.... sono qui: dimmi perché mi odii. lo ti dirò poi, perché ti adoro. - Mi copersi il viso con le mani e singhiozzai senza piangere. - Oh, non posso, Carletto!... non posso! è una cosa così orribile!... Morirei se la dicessi! Va', va,! per amor di Dio!... Abbi pietà di te stesso se non vuoi averla di me.... Va'! ti risparmio una vergogna. - E rialzai la testa con disprezzo. L' uscio si aperse e entrò miss Jane che si fermò cogli occhi spalancati di spavento. lo le corsi incontro. Ella mi disse: - Don Emanuele è arrivato, lo sapete? m' ha fatto chiamare nello studio perché venissi a dirvi che desidera di par- larvi. - Mi volsi e dissi freddamente: - Addio Gian Carlo. - Egli s' inchinò ed uscì. *** Era uscito; era partito per sempre, lui! l' unico uomo che m'aveva parlato d'amore; quegli che mi adorava! Avevo io il diritto di condannare lui e me al dolore, senza una spiegazione, senza lasciargli modo di giustificarsi?... Dio! Dio! che cosa avevo fatto? In società si raccontano tante cose che non son vere: da cosa mi veniva la certezza che si trattasse di lui? Nessuno aveva pronunziato il suo nome. Oh no, non era possibile, non poteva esser vero! Mi lasciai cadere sul sofà, piangendo di disperazione. Chi mi salvava ora? Nessuno; nessuno avrebbe potuto restituirmi il suo amore, perchè io lo avevo insultato! e un uomo come lui non perdona un insulto! Lady Conny, che avete? - mi domandò miss Jane piangendo. - Nulla, sono una pazza, ecco cosa sono! - e mi alzai, mi asciugai gli occhi e mi guardai nello specchio. - Avete detto che è arrivato il babbo? - Sì, e vi cercava. - Ella corse a pigliare il fiocchetto della cipria: me lo passò sugli occhi e fece scomparire la traccia delle lacrime. - Ecco, milady: potete andare. - Entrai nello studio del babbo, ma mi fermai sulla soglia dell' uscio. Egli non era solo: ritto accanto a lui, davanti al camino, c' era il conte Rinaldi. Il babbo mi venne incontro: io gli buttai le braccia al collo e lo baciai con una commozione e una tenerezza tutta nuova: anch'egli m'accarezzò e mi baciò commosso, come se leggesse nella mia anima desolata. Ma poi il suo viso si illuminò di gioia. Mi prese per mano e mi disse con un sorriso: - È vero, Conny, che hai piacere che Rinaldi rimanga a pranzo da noi? Immagina ch'egli temeva di non essere nelle tue simpatie; gli riferii una certa conversazione del giorno di Natale. Conny disprezza i giovani ammodo, ma apprezza molto i giovani seri come Rinaldi. Non è forse vero? - Io lo ascoltavo trasognata, non trovando parole per rispondere. - Conny, il conte Rinaldi è venuto a prendermi a Roma: siamo ritornati un'ora fa insieme. - Credo che ne' miei occhi sia apparso come uno spavento, perché il babbo si chetò, guardandomi inquieto. Lui, il conte, ritto dietro una seggiola colle mani aggrappate alla spalliera, mi guardava col viso contratto d' emozione. Non sapevo bene perché, ma io fui presa da un tremito: non ancora rimessa dal profondo turbamento di pochi minuti prima, tentavo inutilmente di sorridere, di trovar la voce per parlare, di lottare contro un penoso presentimento che le parole del babbo e il contegno di Rinaldi mi avevano fatto sorgere nell' animo. - Conny, non ti senti bene? che cos'hai? - Ho preso freddo.... sui bastioni. Infatti non sto affatto bene, - e mi passai una mano sulla fronte, perché mi pareva che tutto girasse intorno a me. Rinaldi mi spinse una poltrona dietro. - Su, riscaldati un poco vicino al fuoco - Disse il babbo - vuoi che chiami miss Jane? - No, ti prego, sto bene qui. - Alzai il viso verso il Rinaldi ritto accanto a me, e ci guardammo. Lesse egli ne' miei occhi spauriti e supplichevoli? io lessi ne' suoi, pieni di un desolato dolore.... Restò a desinare con noi. Il babbo credette tutta la sera che io mi sentissi male, ma era assorto in una gran beatitudine, povero babbo, per le attenzioni affettuose di Rinaldi, che, senza mai guardarmi negli occhi, mai.... non si occupò di me, accorgendosi che non mangiavo, che ero presa da brividi: mi fece portare uno scialle, mi versò un bicchierino di bordeau insistendo perché lo bevessi, e poco dopo aver preso il caffè si alzò per andarsene, dicendo che io avevo bisogno di riposo. Si chinò sul sofà sul quale mi aveva fatto distendere: io gli ubbidivo colla docilità di una bambina: una bambina colpe-vole che ha molto da farsi perdonare. - Buona sera donna Conny, - mi disse forte; io gli stesi tutt' e due le mani, egli le prese, esitò, poi le baciò. - Mi perdoni, - mormorò pian piano con voce soffocata - il mio sogno era stato forse troppo ardito.... Non tèma: non ci tornerò più. - Io gli sfiorai colla punta delle dita i capelli, dicendo con filo di voce: - Che Dio la benedica! - Ed egli partì. *** Erano passati alcuni giorni: la zia e l' Elisa avevano chiesto di vedermi, ma io mi chiusi in camera, e miss Jane ebbe l'ordine di dire sempre a tutti che avevo un forte mal di capo e dormivo. Filippo non era mai venuto. Sapevo che la zia aveva avuto dei lunghi e vivaci colloqui col babbo, ma egli non mi diceva nulla, ed io, che il primo giorno gli avevo promesso di parlargli, ora non ne trovavo più il coraggio. Era una domenica, e uscii con lui per andare alla Messa. Sulla bottega della fruttaiola c' era il bambino: mi fermai a baciarlo. Era un pezzo che non lo salutavo più.... ora volevo tornare a tutte le abitudini di una volta. - Dove andiamo, babbo? non a San Francesco veh! c' è uno sfoggio di cappellini eleganti, e di libri da messa colle cifre.... non ci si prega bene. - Dove vuoi andare? - In cerca di qualche chiesina fuor di mano: dove non ci sia che qualche povera donnetta, e dove il prete abbia una pianeta scolorita da cui escano i fili d' oro! - Il babbo passò il mio braccio sotto il suo, e disse, incamminandosi a passo lesto verso il corso di Porta Venezia: - Brava la mia Conny, torna allegra come una volta: e intanto che siamo soli.... vuoi tu dirmi quel che mi avevi promesso? Vuoi tu spiegarmi.... - Si rannuvolò, e la sua voce divenne seria quando aggiunse: - È stato per me un gran dolore, non te lo posso nascondere, lo scoprire che il tuo cuore non aveva scelto Rinaldi, che mi pareva fatto per te; ma forse a ragione mia sorella: è un giovine troppo vecchio. Tu sei espansiva, allegra, ardente, e hai bisogno di un uomo che, non solo ti voglia bene, ma te lo dica.... Conny, non vuoi proprio confidarmi nulla? - Io respiravo a fatica: avevo un nodo alla gola, che m' impediva di parlare. Si camminò un poco in silenzio: il Corso era quasi deserto. Sperai che si entrasse nella chiesa di San Babila, ma invece si andò innanzi. - Conny, ieri sera sono andata da mia sorella: lo sai? - No, non me lo avevi detto. - Ho dovuto andar io.... perché c' era qualcuno che non voleva venir da me. - Mi sentii un colpo nel cuore. Perché il babbo me ne parlava? Non capiva che soffrivo? Egli continuò: - Qualcuno che non vuol rimettere il piede in casa nostra senza il permesso della signorina Conny: ma che ti prega, ti supplica, in nome di quello che hai di più caro, di dargli questo permesso: egli vuole una spiegazione.... di che? né io né sua madre siamo riusciti a saperlo. Dice che è un vostro segreto. Io mi fido di te, Conny... e di Carletto: per questo non ho insistito perchè tu parlassi. - Io mi ero accostato il manicotto sulla bocca per soffocare i singhiozzi. - Dio mio! perchè mi diceva tutte quelle cose, nella strada, in mezzo alla gente? Non sentiva che mi trascinavo a fatica, e che il respiro mi si faceva sempre più breve? - Conny: di' la verità: vi amate: di questo non ne dubito: vi siete bisticciati per qualche sciocchezza.... e a quest' ora tu sei pentita, povera la mia bambina!... Dunque appena ritornati a casa, gli scrivo che la signorina Conny permette al marchese Gian Carlo di venire a vederla. Che! piangi? - Sì, piangevo: piangevo perché avevo bisogno di sfogare tutto il dolore che mi aveva empito il cuore in quei giorni.... Che era accaduto? dunque una parola sola, la speranza del suo ritorno bastavano a fugare tutto il disprezzo ch' io avevo provato per lui? Come lo amavo! come lo amavo se mi avvilivo al punto da non credere a ciò che avevo sentito, e da esultare perch' egli mi amava. Sollevai la testa e sorrisi perché nel mio cuore non era rimasta che una gioia immensa che mi pareva un sogno. Eravamo arrivati quasi a Porta Venezia. - Ma dove si va, babbo? Qui non ci son più chiese! Se fossimo ai tempi dei Promessi Sposi direi che si va alla chiesa de' Cappuccini! Ma si svoltò in una via deserta, chiusa in fondo dal bastione, in via Borghetto. - Vedi quella porticina a destra?... - mi disse il babbo. Quella è una chiesina proprio come la vuoi tu: nuda e stretta. Vedrai che pulpito! par troppo piccolo per un uomo. - In quella, una voce allegra, ma che parlava un dialetto sguaiato, mi fece alzar la testa. Una ragazza elegante scendeva a salti dalla stradetta a zig-zag del bastione, e dietro a lei.... Sentii una imprecazione soffocata del babbo, e il suo braccio strinse il mio come per sostenermi. Tutti i miei nervi avevano sussultato con spasimo: ma fu un lampo: la testa mi si rizzò, e mi sembrò di essere diventata più alta e che tutta la mia anima si fosse ad un tratto mutata.... Dietro a lei scendeva, ridendo e chiacchierando, un bel giovane biondo, con un lungo cappotto chiaro. Ci vide, e il suo viso si coperse di pallore, poi diventò rosso come di fuoco: il mio sguardo tagliente come una lama gli deve essere penetrato fino in fondo al cuore. Il babbo spinse la porticina della chiesa: io lo seguii, ma prima di richiuderla mi voltai. La ragazza s' era appoggiata al braccio di lui, e mi passarono davanti: mio cugino si guardava la punta degli stivali. Ciao, Conny! - gridò ad un tratto la fanciulla. Mi sentii un tuffo nel sangue e la guardai cogli occhi scintillanti di sdegno e di ribrezzo. Era la Lisetta; quella mia compagna di scuola di cui mi aveva parlato la fruttaiuola. Mi parve che mio cugino trasalisse stupito, e certo respinse il braccio di lei. Ma ella vi s'aggrappò di nuovo dicendo forte: - Che stupida quella Conny! Siamo state compagne di scuola e finge di non conoscermi. - La porta si richiuse dietro di me e mi trovai in chiesa. M' inginocchiai: i miei occhi erano fissi a una candela che ardeva sull'altare, e quella fiammella agitandosi mi pareva che s'allargasse e formasse delle grandi stelle che m'abbagliavano: ma non pensai di guardar altrove. Una povera donna, inginocchiata vicino a me, diceva al suo bambino: - Di': Buon Dio, beneditemi, fatemi diventare un bravo giovane, sincero e onesto. - E nelle orecchie mi si ripeteva: " un bravo giovine sincero e onesto.... - E nella mente, fisso, questo pensiero: L'ho amato! l'ho amato! e mi chiusi il viso nelle mani con un senso doloroso di vergogna. *** Quando fui sulla soglia del mio salotto mi passai una mano sulla fronte. Non mi pareva vero d'esserci arrivata; mi pareva un gran pezzo ch'ero assente da casa mia, che non vivevo la mia vita tranquilla e felice. Filippo era seduto nella mia paltroncina rossa colla Revue fra le mani; si alzò spalancò serio e compassato, ma poi mi guardò, gli occhi e aperse le braccia. lo mi vi buttai singhiozzando. - Finalmente! - disse. - Ringrazia Iddio che ti sei svegliata in tempo.... domani sarebbe troppo tardi.... Povera figliuola! hai avuto il tuo momento di vertigine anche tu, forte e ragionevole. Era forse necessario: hai fatto la tua esperienza. - Io m'aggrappai stretta e convulsa al suo collo. - Non è stato a tempo Filippo; - disse il babbo con una voce soffocata dall'emozione - l' altro giorno ha rifiutato Rinaldi. Rinaldi! - esclamò Filippo con sorpresa, e le sue braccia mi strinsero, quasi con tremito. - Era il mio sogno - mormorò. - L' unico uomo che ti meritava. Emanuele, - disse poi con una voce ferma e forte, - ti giuro che io ho fatto di tutto per evitare alla tua figliuola questo dolore: ma non ho potuto! Nessuna donna sa resistere al fascino del suo sguardo; è lui stesso che lo ha detto una sera: l' ho sentito io, e so che ha fatto l'esperienza su parecchie signore della nostra società. Questa volta, è vero, aveva tutta l' intenzione di finire al municipio: il mese scorso ha perduto al gioco non so quanto, e aveva bisogno di rifarsi.... - Abbi pietà di questa povera creatura! - gridò risentito il babbo. - Oh! non conosci la tua figliuola; ella ha bisogno di veder chiaro in tutto, di non essere ingannata: non è vero Conny? Vedi, io mi ero detto: Conny è buona e seria. Conny conosce il mondo - e sorrise con amarezza. - Conny, che ha letto i filosofi e i metafisici, analizza, capisce tutto, e sa che cosa bisogna fare per resi- stere alle vanità e alle seduzioni di quella brutta bestiaccia che si chiama società. Conny ha vissuto finora in mezzo a libri sani e a vecchi onesti, ma sa istintivamente quante leggerezze, quante slealtà e quante colpe si trovano nella giovane società: e saprà capire, studiare e rimaner sempre in alto, sopra a tutti, la donnina forte! Questo mi ero detto, cara figliuola; e questo voleva dire: non c' è bisogno di metterla in guardia: non sa ancora che cosa sia l'amore, ma ella saprà distinguere il falso dal vero, il complimento dalla dichiarazione, la parola dal sentimento, la leggerezza dalla serietà. - Tacque. lo tenevo il viso nascosto contro il suo petto e piangevo in silenzio. A un tratto alzai la testa, mi guardai, attorno, e dissi: - Filippo, non ne parliamo più, la prego! - e gli stesi la mano: egli me la baciò ed uscì. - Babbo, staremo sempre insieme! mi condurrai a Roma con te, non è vero? - Sì, cara figliuola; mi asciugò gli occhi, poi mi baciò con tenerezza. - L' indomani mi svegliai pallida ma calma. C' era nel mio sguardo una luce nuova profonda, cupa, e un lampo pieno d'alterezza e qualche volta di sarcasmo, che credo mi durerà tutta la vita. FINE

L'uccellino azzurro

213280
Maeterlink, Maurice 7 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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TYLTYL Non importa, ne rimangono sempre abbastanza.... LA LUCE E ne vedrai tanti altri, a mano a mano che si spargerà nei giardini l'influsso del Diamante.... Vi sono sulla Terra molti più Piaceri di quel che non si creda; ma la maggior parte degli Uomini non sa scoprirli.... TYLTYL Eccone alcuni piccolini che vengono verso di noi.... Andiamo loro incontro.... LA LUCE È inutile. Quelli che più c'interessano passeranno di qui. Ci manca, il tempo di conoscere anche tutti gli altri. (Una brigata di Piaceri piccolini, ridendo e saltellando, arriva, di corsa dal fondo verdeggiante e si mette a ballare un girotondo intorno ai due bambini). TYLTYL Come sono bellini!... Chi sono? Di dove vengono?... LA LUCE Sono i Piaceri dei bambini.... TYLTYL Posso parlare con loro?... LA LUCE È inutile. Cantano, ballano, ridono, ma non sanno ancora parlare.... TYLTYL (saltellando) Buongiorno! Buongiorno! Guarda quel grassone lì, come ride!... Che belle gotine che hanno!... E come sono ben vestiti!... Sono forse tutti ricchi qui?... LA LUCE No, no. Qui, come dappertutto, sono molti più i poveri che i ricchi.... TYLTYL E dove sono i poveri?... LA LUCE Non si possono distinguere gli uni dagli altri.... Il Piacere di un bambino è sempre rivestito da ciò che di più bello esiste sulla terra e nei cieli. TYLTYL (eccitato ) Vorrei ballare con loro.... LA LUCE No, caro, non è possibile; ci manca il tempo.... Ho già visito che l'Uccellino Azzurro non e' è neanche qui.... E del resto, vedi, hanno fretta, son già scomparsi.... Non hanno tempo da perdere neanch'essi: l'infanzia è breve..... (Un'altra brigatella di Piaceri, un po' più grandi dei precedenti, si precipita nel giardino cantando a squarciagola: «Eccoli! Eccoli! Ci hanno visto! Ci hanno visto!» e si mettono a ballare intorno ai due bambini un'allegra faràndola. Quando questa è finita, colui che sembra il capo della piccola schiera si avvicina a Tyltyl porgendogli la mano). IL PIACERE Buongiorno, Tyltyl!... TYLTYL E anche lui mi conosce!... (alla Luce) Tutti mi conoscono, un po' per volta—. Chi sei?... IL PIACERE Non mi riconosci? Scommetto che non riconosci nessuno dei miei compagni?... TYLTYL (un po' imbarazzato) No... Non so, non mi ricordo di avervi mai visto.... IL PIACERE Avete sentito?.. Ne ero sicuro?... Non ci ha mai visto!... (Tutti i Piaceri scoppiano in una risata). E io invece ti dico, mio caro Tyltyl, che ci conosci, e molto bene anche!... Siamo sempre intorno a te!.. Con te mangiamo, beviamo, ci destiamo, respiriamo, viviamo!... TYLTYL Si, si, va bene, lo so.... Mi ricordo.... Ma vorrei sapere come vi chiamate. IL PIACERE E io invece capisco benissimo che non sai nulla.... Sono il capo dei Piaceri-della-tua, casa; e questi che vedi, sono tutti gli altri Piaceri che vi abitano con te. TYLTYL Come! Ci sono dunque dei piaceri a casa mia ?. (Tutti i Piaceri scoppiano in una risata). IL PIACERE Avete sentito?... Chiede se ci sono dei Piaceri a casa sua!... Ma, povero scioccherello, la tua casa ne rigurgita!... Noi ridiamo, noi cantiamo, noi sappiamo creare tanta gioia da buttar all'aria i muri, da scoperchiare il tetto. Ma è inutile. Tu non vedi niente, tu non senti niente.... Spero però che d'ora innanzi metterai giudizio.... E intanto, ora saluterai i più autorevoli.... Così, quando sarai tornato a casa, ti sarà più facile riconoscerli e potrai, al chiudersi di una bella giornata, incoraggiarli con un sorriso, ringraziarli con una parola, cortese. Perchè, credilo, fanno il possibile per renderti facile e piacevole la vita.... E io, per il primo, il servitor tuo, il Piacere-di-essere- in-buona-salute—. Non sono il più bello, ma sono il più serio. Saprai riconoscermi? Ed ecco qua il Piacere-dell'aria-pura, che è quasi trasparente.... Ecco il Piacere-di-voler bene-ai-propri-genitori, vestito di grigio e sempre un po' triste perchè nessuno lo guarda mai.... Ecco il Piacere-del-cielo-azzurro, vestito naturalmente di azzurro; e il Piacere-della- foresta, non meno naturalmente vestito di verde, e che rivedrai ogni volta che ti affaccerai alla finestra.... Ed ecco anche il buon Piacere- delle-ore-soleggiate, color di diamante, e il Piacere-della-Primavera color di smeraldo.... TYLTYL E tutti i giorni siete belli così?... IL PIACERE Sì; quando gli occhi si aprono, ogni giorno è giorno di festa, in ogni casa.... E poi, quando vien la sera, ecco il Piacere-dei-Tramonti, più bello di tutti i re della terra, seguìto dal Piacere-di- veder-spuntar-le-stelle, dorato come un dio del tempo antico.... Poi, quando viene la cattiva stagione, ecco che arriva il Piacere- della-pioggia coperto di perle, e il Piacere-del- fuoco-invernale che schiude alle manine gelate il sue bel mantello di porpora.... E non ti parlo del migliore di tutti noi, del più luminoso, del Piacere-dei-pensieri-innocenti, perchè è quasi fratello delle Grandi Gioie limpide che vedrai fra poco.... E poi, ecco, anche.... Ma no, son troppi davvero!... Non si finirebbe più, e devo invece avvertire le Grandi Gioie che sono lassù, in fondo, presso la porta del cielo, e che nulla sanno ancora del vostro arrivo.... Manderò incontro a loro il Piacere-di-correre- a-piedi-nudi-sulla-rugiada, che è il più svelto di tutti.... (Al Piacere or ora nominato, e che si avvicina facendo delle capriole). Va' ! Corri!... (In questo punto una specie di diavoletto in maglia nera, gettando grida inarticolate e dando spinte a destra e a sinistra, si avvicina a Tyltyl e saltellando pazzamente intorno a lui lo carica di calci, di scappellotti e di motteggi). TYLTYL (stupito e indignatissimo) Chi è questo selvaggio?... IL PIACERE Ma guarda un po'!... è il Piacere-d'essere- insopportabile, fuggito un'altra volta, dalla caverna delle Sventure! Non si sa più dove rinchiuderlo. Riesce sempre a svignarsela, tanto che le stesse Sventure non vogliono più saperne di tenerlo con loro. (Il Diavoletto continua a tormentare Tyltyl, che cerca inutilmente di difendersi; poi, a un tratto, con una gran risata, scompare come era venuto, senza che si sappia il perchè). TYLTYL Ma che ha? È pazzo? LA LUCE Non lo so. Dicono che somiglia a te quando sei cattivo.... Ma ora bisognerebbe pensare all'Uccellino Azzurro.... Potrebb'essere che il capo dei Piaceri-della-casa! sapesse dov'è.... TYLTYL (al Capo dei Piaceri) Dov'è?... IL PIACERE Non sa dov'è l'Uccellino Azzurro!... (I Piaceri-della-casa scoppiano tutti in una risata). TYLTYL (seccato) No, non lo so.... Non mi pare che ci sia nulla da ridere. (Nuovi scoppi di risa). IL PIACERE Via.. non te la prendere a male.... E noi, siamo seri.... Se non lo sa, non vuol dire che sia per questo più sciocco e più ridicolo della maggior parte degli Uomini.... Oh ecco le Grandi Gioie che si avvicinano a noi, chiamate dal Piacere-di-correre-a-piedi-nudi-sullar rugiada!... (Infatti alcune alte e belle figure angeliche, coperte di vesti luminose, si avvicinano lentamente). TYLTYL Come sono belle!... Ma perchè non ridono?... Non sono forse felici?... LA LUCE Non è già quando si ride che si è più felici.... TYLTYL Chi sono?... IL PIACERE Sono le Grandi Gioie.... TYLTYL Come si chiamano? Lo sai?... IL PIACERE Certo; giochiamo spesso insieme.... Ecco, innanzi a tutte, la Grande-Gioia-d'esser- giusta, la quale, ogni volta che si ripara a un'ingiustizia sorride. Io son troppo giovane e non l'ho mai vista sorridere.... Dietro di lei, la Gioia-d'esser-buona, che è la più felice, ma anche la più melanconica: e alla quale è difficile impedire di andar a trovare le Sventure, ch'essa vorrebbe. consolare. A destra, ecco la Gioia-del-lavoro-compiuto, e accanto a lei, la Gioia-di-pensare. Poi la Gioia-di-comprendere, che cerca sempre suo fratello, il Piacere-di- non-capir-nulla.... TYLTYL Ma io l'ho veduto, questo suo fratello!... E andato dalle Sventure insieme coi Grassi- Piaceri.... IL PIACERE Lo prevedevo!... Ha preso una cattiva piega, i cattivi compagni l'hanno corrotto.... Ma non parlare di lui con sua sorella. Potrebbe venirle la voglia di andare a cercarlo, e noi perderemmo una delle gioie più belle.... Ecco anche, fra le più grandi, la Gioia-di-veder-ciò- che-è-bello, che ogni giorno aggiunge qualche raggio alla luce che regna in questo luogo.... TYLTYL E quella laggiù, lontano lontano, fra le nuvole d'oro, che riesco appena a vedere rizzandomi sulla, punta dei piedi?... IL PIACERE È la Grande-Gioia-di-amare.... Ma per quanto tu faccia, non la potrai veder tutta. Sei troppo piccola... TYLTYL E quelle laggiù, in fondo, tutte velate e che non si avvicinano a noi?... IL PIACERE Sono le Gioie che gli Uomini non conoscono ancora.... TYLTYL E le altre, che cosa fanno?... Perchè si tirano in disparte?... IL PIACERE Fanno largo alla nuova Gioia che si avanza, forse la più pura fra tutte quelle che si trovano qui.... TYLTYL Chi è? IL PIACERE Non l'hai ancora riconosciuta?... Guarda meglio, apri i tuoi occhi fino al fondo dell'anima!... Ti ha veduto, ti ha veduto!!... E ti corre incontro a braccia aperte!... È la Gioia di tua madre, è la Gioia-incomparabile-dell'amor-materno!... (Le altre Gioie, accorse da ogni parte, dopo averla accolta con acclamazioni, si traggono silenziosamente in disparte). L'AMOR MATERNO Tyltyl!... E c'è anche Mytyl!... Ma come, voi, voi ritrovo quassù!... Non me lo sarei aspettato davvero!... Mi sentivo così sola a casa, ed ecco che tutti e due siete saliti fino al cielo dove l'anima di tutte le madri sfavilla di gioia!... Ma datemi prima tanti baci, tanti tanti.... Venite tutti e due fra le mie braccia; che cosa può dare al mondo maggior felicità?... Tyltyl, non ridi?... E neanche tu, Mytyl?... Non riconoscete dunque l'amore della vostra mamma?... Ma guardatemi bene!... Non sono questi i miei occhi, le mie labbra, le mie braccia?... TYLTYL Sì, sì, riconosco tutto, ma non sapevo.... Somigli, sì, alla mamma, ma sei molto più bella.... L'AMOR MATERNO È naturale! Io non invecchio più.... E ogni giorno che passa mi dà nuova forza, nuova gioventù, nuova felicità.... Ogni tuo sorriso mi toglie un anno.... A casa, tutto questo non si vede. Ma qui shi vede tutto, e la verità è questa.... TYLTYL (meravigliato, guardandola e abbracciandola alternativamente). E codesto bel vestito, di che cosa è fatto?... Di seta, d'argento o di perle?... L'AMOR MATERNO No. È fatto di baci, di sguardi, di carezze.... Ogni bacio aggiunge un raggio di luna oppure un raggio di sole.... TYLTYL Curiosa! Non avrei mai creduto che tu fossi tanto ricca.... Dove la nascondevi, la tua ricchezza?... Forse in quell'armadio che il babbo tiene chiuso a chiave?... L'AMOR MATERNO No no, non la nascondo, ma non si vede perchè nulla si vede quando gli occhi son chiusi.... Tutte le madri sono ricche quando amano i loro figli.... E non esiste al mondo una madre povera, una madre brutta, una madre vecchia.... Il loro amore è sempre la più bella fra tutte le Gioie!... E sei talvolta sembrano tristi, basta un bacio dato o ricevuto perchè tutte le lacrime si trasformino dentro ai loro occhi in stelle.... MAURICE MAETERLINK. - L'Uccellino azzurro. 12 TYLTYL (guardandola con stupore) Ma già, è vero?... I tuoi occhi son pieni, di stelle. Sono, sì, i tuoi occhi, ma, tanto più belli.... E riconosco anche la tua, mano, con l'anellino al dito.... C'è sempre il segno di quella bruciatura che ti facesti una sera accendendo il lume.... Ma, è più bianca, e la, pelle così trasparente?... Sembra quasi di vederci scorrer dentro la luce.... Questa, mano lavora meno, non è vero, della mano di casa?... L'AMOR MATERNO è sempre la stessa mano. Non t'eri mai accorto che diventa bianca, bianca e si riempie di luce quando ti carezza?... TYLTYL E poi non capisco, mamma.... Riconosco, sì, la tua voce; ma parli tanto meglio che a casa L'AMOR MATERNO A casa c'è troppo da fare e il tempo manca.... Ma dentro al cuore si sente tutto quello, che non si dice.... E ora che mi hai veduta, mi riconoscerai sotto la mia veste logora quando tornerai domani nella nostra capanna?... TYLTYL Non voglio tornarci.... Poichè sei qui anche tu, voglio rimanere qui, finchè ci stai tu.... L'AMOR MATERNO Ma non vedi che è la, stessa cosa abito laggiù, abitiamo tutti laggiù.... Quassù sei venuto soltanto per comprendere e per imparare finalmente a saper vedermi quando siamo laggiù.... Capisici, Tyltyl mio?... Tu credi d'essere in cielo; ma, il cielo è dovunque noi possiamo darci un bacio.... Non si possono avere due madri, e tu hai me sola.... Ogni bambino ne ha una sola, sempre la stessa, e sempre la, più bella di tutte. Ma bisogna conoscerla, e saper guardare bene.... Ma tu come hai fatto ad arrivare fin quassù e a trovare una strada che gli Uomini stanno cercando da quando sono scesi sulla terra?... TYLTYL (additando la Luce che, per discretezza, si è allontanata) Ci ha, condotti lei.... L'AMOR MATERNO Chi è?... TYLTYL La Luce.... L'AMOR MATERNO Non l'ho mai veduta.... Sapevo che vi voleva bene e che era tanto buona.... Ma perchè si nasconde?... Perchè non mostra mai il suo volto?.... TYLTYL Sì.... ma teme che i Piaceri si spaventino se ci vedono troppo chiaro.... L'AMOR MATERNO Ma non sa dunque che l'aspettiamo ansiosamente!... (chiamando le altre Grandi Gioie) Venite, venite, sorelle! Venite, accorrete tutte, la Luce viene finalmente da noi!... (Fremito di commozione fra le Grandi Gioie che si avvicinano gridando: «La Luce è venuta?... La Luce !... La Luce...»). LA GIOIA-DI-COMPRENDERE (scostando le altre Gioie per andare ad abbracciare la Luce). Sei la Luce e noi non lo sapevamo!... Sono anni ed anni che ti aspettiamo. Mi riconosci?... Sono la Gioia-di- comprendere.... Ti cerco da tanto tempo.... Siamo felici, sì, ma non possiamo veder di là dal nostro essere.... LA GIOIA-D'ESSER-GIUSTA (abbracciando alla sua volta la Luce) Mi riconosci?... Sono la Gioia-d'esser-giusta, che ti aveva tanto pregata di venire..... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dalle nostre ombre.... LA GIOIA-DI-VEDERE-CIò-CHE-È-BELLO (abbracciandola anch'essa) E me, mi riconosci?... Sono la Gioia-della- bellezza, che ti ha sempre voluto bene.... Siamo felici, sì, ma non possiamo vedere di là dai nostri sogni.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Via; via, sorella cara, non farci più a lungo aspettare.... Siamo abbastanza forti, abbastanza pure.... Scosta dunque questi veli che ci nascondono ancora le ultime verità e le ultime felicità.... Guarda, le mie sorelle s'inginocchiano tutte ai tuoi piedi.... Sei la nostra regina e la nostra ricompensa.... LA LUCE (avvolgendosi più, ancora nei suoi veli). Sorelle, sorelle mie belle, io obbedisco al mio Signore... L'ora non è ancora venuta, ma forse scoccherà presto: e allora, tornerò senza timori e senza ombre.— Addio, rialzatevi, abbracciamoci ancora come sorelle che si ritrovano, in attesa del giorno che spunterà ben presto.... L'AMOR MATERNO (abbracciando la Luce). Siete stata così buona verso i miei poveri piccini.... LA LUCE Sarò sempre buona verso coloro che si amano.... LA GIOIA-DI-COMPRENDERE Che il tuo ultimo bacio si posi sulla mia fronte.... (Si baciano lungamente: quando si staccano l'una dall'altra, i loro occhi sono pieni di lacrime). TYLTYL (sorpreso) Perchè piangete?... (guardando le altre Gioie) Oh bella! Anche voi piangete.... Ma perchè tutti gli occhi sono pieni di lacrime?... LA LUCE Zitto, bambino mio.... CALA LA TELA

Ne hai abbastanza?... Ne vuoi ancora?... To', to'!... LA LUCE, TYLTYL e MYTYL (precipitandosi per separarli) Tylô!... Sei impazzito?... Che diavolo fai?... Giù, a cuccia!... Finiscila!... S'è mai vista una cosa simile?... Aspetta!... Aspetta!... (Separano con energia i due contendenti). LA LUCE Che c'è? Che succede?... LA GATTA (piagnucolando e asciugandosi gli occhi) La colpa è del Cane, signora Luce.... Mi ha ingiuriata, mi ha messo dei chiodi nella minestra, m'ha tirato la coda, m'ha picchiata, mentre io non avevo fatto nulla, proprio nulla, ecco!... IL CANE (rifacendole il verso) Proprio nulla, proprio nulla? (A bassa voce, facendole una sberleffa). Non importa; ne hai toccate, ne hai toccate, e di quelle buone e ne avrai dell'altre!... MYTYL (stringendo la Gatta fra le braccia) Dove ti ha fatto male, mia povera Tylette? Ora mi metto a piangere anch'io.... LA LUCE (al Cane, con accento severo) La tua condotta è tanto più riprovevole in quanto che hai scelto, per darci questo triste spettacolo, il momento, già, tanto penoso per se stesso, in cui stiamo per separarci da questi poveri bimbi.... IL CANE (la cui ira svanisce a un tratto) Stiamo per separarci da, questi poveri bimbi?... LA LUCE Sì, sta, per scoccare quella tale ora che già, sapete.... Fra poco rientreremo nel regno del Silenzio.... Non potremo più rivolgere loro la parola.... IL CANE (urlando a un tratto disperatamente e gettandosi sui Bambini, che copre di carezze violente e tumultuose) No, no!... Non voglio!... Non voglio!... Io parlerò sempre!... D'ora innanzi mi comprenderai, non è vero mio piccolo dio?... Sì, sì, sì!... E ci diremo sempre tutto, tutto, tutto!... Sarò buono, vedrai.... Imparerò a leggere, a scrivere e a giocare a domino!... E mi terrò sempre pulito.... E non andrò più a rubare in cucina.... Vuoi che faccia qualche cosa di eccezionale?... Vuoi che abbracci la Gatta?... MYTYL (alla Gatta) E tu, Tylette?... Non ci dici nulla?... LA GATTA (fredda, enigmatica) Io vi voglio bene a tutti e due, secondo i vostri meriti.... LA LUCE E ora, bambini miei, tocca a ma di darvi l'ultimo bacio.... TYLTYL e MYTYL (aggrappandosi alle vesti della Luce) No, no, no, non andartene, cara Luce!... Rimani qui con noi!... Il babbo non dirà nulla, vedrai.... Diremo alla mamma che sei stata tanto buona con noi.... LA LUCE Non è possibile, purtroppo.... A noi non è concesso di oltrepassare quella porta, e debbo TYLTYL E dove andrai, così sola sola?... LA LUCE Non andrò molto lontano, cari bambini: vado laggiù, nel paese del Silenzio delle cose. TYLTYL No, no, non voglio!.... Veniamo con te.... Dirò alla mamma.... LA LUCE Non piangete, cari piccini.... Io non ho la voce, come l'Acqua; ho soltanto il mio splendore, che l'Uomo non sa vedere.... Ma veglierò lo stesso su di lui fino alla fine del mondo.... E a voi parlerò da ogni raggio di luna che si diffonde all'intorno; sarò in ogni stella che vi sorriderà, in ogni aurora che si alzerà nel cielo, in ogni lampada che si accenderà, in ogni pensiero buono e luminoso che sboccerà nella vostra anima.... (Suonano le otto, dietro il muro). Sentite!.. Scocca l'ora.... Addio! La porta si apre!... Entrate, entrate, entrate!... (Spinge i bambini nel vano della porticina che si è aperta, e che ora si richiude dietro di loro. Il Pane si asciuga una lacrima furtiva: lo Zucchero, l'Acqua, tutta in lacrime, e gli altri fuggono a precipizio e spariscono a destra e a sinistra, fra le quinte. Urla del Cane, da un angolo. La scena rimane per un istante vuota; poi il fondo, che rappresenta il muro entro il quale si trova la porticina, si apre nel mezzi. e scopre l'ultimo quadro).

Abbiamo chiacchierato abbastanza; il tempo stringe.... Si tratta del nostro avvenire.... Avete sentito quel che ha detto la Fata? La fine di questo viaggio segnerà pure la fine della nostra esistenza.... Bisogna dunque prolungarlo il più possibile e con ogni mezzo.... Ma non basta dobbiamo pensare alla sorte della nostra razza e al destino dei nostri figli.... IL PANE Bene! Bene!... La Gatta ha ragione!... LA GATTA Ascoltatemi.... Noi tutti qui presenti, animali, cose ed elementi, possediamo un'anima che l'uomo non conosce ancora. Per questo conserviamo tuttora un resto d'indipendenza; ma se egli riesce a trovare l'Uccellino Azzurro, saprà tutto, vedrà tutto, e saremo completamente in sua balìa.... La mia vecchia amica la Notte, che è al tempo stesso la custode dei misteri della Vita, me lo diceva poco fa.... Dobbiamo dunque impedire in ogni modo che si trovi l'Uccellino Azzurro, a costo anche della vita dei bambini.... IL CANE (indignato) Che cosa dice?... Ripetile, che non ho sentito bene! IL PANE Silenzio!... Non avete la parola!... Presiedo io l'Assemblea.... IL Fuoco Chi vi ha nominato Presidente?... L'ACQUA (al Fuoco) Silenzio!... Di che cosa v'immischiate?... IL Fuoco Io faccio il mio dovere.... Non voglio osservazioni da voi.... Lo ZUCCHERO (in tono conciliante) Permettete.... Non bisticciamoci.... L'ora è grave. Dobbiamo anzitutto metterci d'accordo sulle decisioni da prendere.... IL PANE Sono interamente del parere dello Zucchero e della Gatta.... IL CANE Che sciocchezze!... L'Uomo è l'Uomo, e basta! ... Dobbiamo obbedirgli e fare tutto quello che vuole!... Questa è la sola verità?... Io non conosco che lui!... Viva l'Uomo!.. Per la vita, per la morte, tutto per l'Uomo!... L'Uomo è dio!... IL PANE Sono in tutto d'accordo col Cane. LA GATTA (al Cane) Ma bisogna dare delle buone ragioni.... IL CANE Non ci sono ragioni! Amo l'Uomo, e basta!... E se osate congiurare contro di lui, prima vi strozzerò, e poi gli rivelerò ogni cosa.... Lo ZUCCHERO (con dolcezza) Scusate.... Non inveleniamo la discussione.... Da un certo punto di vista avete ragione tutti e due.... C'è il prò e il contro.... IL PANE Sono interamente d'accordo con lo Zucchero!... LA GATTA Non siamo forse noi tutti, Acqua, Fuoco, e anche voi, Pane e Zucchero, vittime di una tirannia senza, nome?... Ricordate il tempo in cui, prima della venuta del despota, potevamo liberamente vagabondare sulla faccia della, Terra?... L'Acqua e il Fuoco erano i soli padroni del mondo; e ora, guardate come sono ridotti!... In quanto a noi, meschini discendenti dei grandi animali da preda.... Zitti!... Facciamo finta di nulla.... vedo avvicinarsi, la Fata e la Luce... La Luce si è posta dalla parte dell' Uomo: è la nostra peggiore nemica.... Eccole.... (Entrano da destra la Fata e la Luce, seguite da Tyltyl e Mytyl). LA FATA Ebbene?... Che c' è di nuovo?... Che cosa fate lì in quel cantuccio?... Sembrate tanti cospiratori.... È ora di mettersi in cammino.... La Luce sarà la vostra guida.... Voi obbedirete a lei come obbedireste a me; e a lei affido la mia bacchetta.... I bambini andranno stasera a trovare i nonni morti.... Voi, per discretezza, non li accompagnerete.... Passeranno la serata in seno alla loro famiglia defunta.... Nel frattempo preparerete tutto quanto occorre per la tappa di domani, che sarà lunga.... Su, in piedi; andiamo, e ognuno al proprio posto!... LA GATTA (con ipocrisia) Stavo dicendo per l'appunto questo, signora Fata.... Li esortavo a compiere coscienziosamente e coraggiosamente il loro dovere. Ma il Cane purtroppo m'interrompeva sempre.... IL CANE Che cosa dice?... Aspetta, aspetta!... (sta per slanciarsi sulla Gatta, ma Tyltyl, che se n' è accorto, lo ferma con un gesto minaccioso). TYLTYL A cuccia, Tylô!... Bada: se osi un'altra volta sola di.... IL CANE Mio piccolo dio, tu non sai; è lei che.... TYLTYL (minaccioso) Zitto!.. LA FATA Via, finiamola!... Il Pane, stasera, consegnerà la gabbia a Tyltyl.... Potrebb'essere che l'Uccellino Azzurro si nascondesse nel Passato, dai nonni.... In ogni modo conviene cercare anche là... Ebbene, Pane, dov'è la gabbia? IL PANE (con solennità) Un momento, prego, signora Fata.... (Col tono di un oratore che prende la parola). Voi tutti siete testimoni che questa gabbia d'argento, che mi fu affidata da.... LA FATA (interrompendolo) Basta!... Non facciamo frasi.... Usciremo da questa parte, mentre i bambini usciranno da quell'altra.... TYLTYL (con inquietudine) Andremo soli?... MYTYL Ho fame!... TYLTYL Anch'io!... LA FATA (al Pane) Apri un pro' il tuo vestito alla Turca, e dài loro una fetta del tuo buon ventre.... (Il Pane si apre il vestito, sfodera la scimitarra, e taglia dal suo pancione due fette di pane che offre ai, bambini). Lo ZUCCHERO (avvicinandosi ai bambini) Permettetemi di offrirvi un po' di zucchero filato.... (spezza l'una dopo l'altra le cinque dita della sua mano sinistra, e le offre ai bambini). MYTYL Che cosa fa?... Si rompe tutte le dita!... Lo ZUCCHERO (modestamente) Assaggiatele, sono squisite.... Dei veri zuccherini!... MYTYL (succhiando uno dei diti) Dio, com'è buono!... Ne hai molti?... Lo ZUCCHERO (c. s.) Sì, quanti ne voglio.... MYTYL Senti molto male a spezzarti le dita così?... Lo ZUCCHERO No, affatto.... Anzi, è una gran bella cosa; rispuntano subito, é così ho sempre le dita pulite e nuove.... LA FATA Via, bambini, non mangiate troppo zucchero.... Ricordatevi che fra poco cenerete dai nonni.... TYLTYL Son qui, i nonni?... LA FATA Li vedrete or ora.... TYLTYL Come faremo a vederli, se sono morti?... LA FATA Ti par possibile che sieno morti veramente, se vivono così nel vostro ricordo?... Gli uomini non conoscono questo segreto, perchè conoscono ben poche cose!... Tu invece, grazie al Diamante, vedrai fra poco che i morti dei quali serbiamo il ricordo vivono felici come se non fossero morti.... TYLTYL La Luce viene con noi?... LA LUCE No, è meglio che siate in famiglia, senza nessun altro.... Io vi aspetterò qui vicino, per non aver l'aria d'essere indiscreta.... Non sono stata invitata.... TYLTYL Da che parte andiamo?... LA FATA Di qua.... Eccovi sulla soglia del Paese del Ricordo. Appena avrai girato il Diamante, vedrai un cartello attaccato al tronco di un albero molto alto e capirai che sei arrivato.... Ma non dimenticate che dovete esser di ritorno tutti e due alle otto e tre quarti... è una cosa molto importante.... Mi raccomando, siate puntuali.... Andrebbe a monte ogni cosa, se tardaste.... A rivederci presto.... (Chiamando la Gatta, il Cane, la Luce, ecc.). Passate di qua, voi.... E i bambini di là (Esce da destra con la Luce; gli animali, ecc. mentre i bambini escono da sinistra). CALA LA TELA.

Ora, conosciamo abbastanza l'Uomo; per non dubitare della sorte che ci sarà riservata quand'egli sarà in possesso del nostro segreto.... Ogni esitazione da parte nostra sarebbe dunque, oltre che stupida, delittuosa. Il momento è grave; bisogna far sparire il bambino, prima che sia troppo tardi.... Che cosa dice?... IL CANE (gironzolando intorno alla Quercia e mostrando i denti) Li vedi i miei denti, brutta vecchiaccia?... IL FAGGIO (con indignazione) Osa insultare la Quercia!... LA QUERCIA È il Cane?... Cacciatelo via!... Non dobbiamo tollerare la presenza fra noi di un traditore!... LA GATTA (piano a Tyltyl) Mandate via il Cane.... C'è un malinteso.... Lasciate fare a me, accomoderò io la faccenda.... Ma intanto mandatelo via subito.... TYLTYL (al Cane) Vattene: hai capito?... IL CANE Permettimi prima di strapparle le pantofole di muschio, a quella vecchia gottosa!... Voglio ridere un po'!... TYLTYL Zitto!... Via di qua!... Ma vattene dunque una buona volta, brutta bestiaccia!... IL CANE Va bene, va bene, me ne andrò, sì.... Tornerò quando avrai bisogno di me.... LA GATTA (a bassa voce, a Tyltyl) Sarebbe più prudente metterlo a catena, altrimenti farà qualche sciocchezza.... Gli Alberi andranno in collera e chi sa che cosa, succederà. TYLTYL Non so come fare, ho perduto il guinzaglio.... LA GATTA Ecco l'Edera che si avvicina: porta con se dei solidi lacci.... IL CANE (brontolando) Ma tornerò, tornerò, non dubitiate!.. Gottosa!... Vecchia catarrosa!... Siete una massa di rammolliti, di radici decrepite.... È la Gatta che mena la faccendal... Ma, me la pagherà?... Cosa' vai borbottando, tu, Giuda! Tigre! Traditrice!... Bau! Bau! Bau!... LA GATTA Sentite, e insulta tutti quanti.... TYLTYL È vero, è insopportabile, non si può più Signora Edera, vorrebbe avere la cortesia di legarlo ?... L' EDERA (avvicinandosi timorosa al Cane) Ma non morderà?.... IL CANE (ringhioso) Anzi, anzi!... Ti abbraccerà!... Aspetta, aspetta, ora vedrai... Vieni, vieni avanti, ammasso di vecchie cordacce!... TYLTYL (minacciandolo col bastone) Bada, Tylô!... IL CANE (strisciando ai piedi di Tyltyl e agitando la coda) Che cosa devo fare, mio piccolo dio?... TYLTYL A cuccia!... Obbedisci all'Edera. Lasciati legare: se no.... IL CANE (borbottando fra i denti, mentre l'Edera lo lega strettamente) Corda da impiccati!... Laccio da vitelli!... Catena da porci!... Guarda, guarda che cosa mi fa, mio piccolo dio.... Mi taglia le gambe.... Mi strozza!... TYLTYL Peggio per te!... L' hai voluta: ben ti sta. Zitto lì, quieto!... Sei insopportabile!.. IL CANE Va, bene: però t'inganni, sai, sul loro conto.... Hanno delle cattive intenzioni.... Guàrdati, mio piccolo dio!... Ah, mi chiude la bocca.... Non posso più parlare!... L'EDERA (dopo aver legato solidamente il Cane) Dove devo portarlo?... L' ho imbavagliato ben bene.... Non può più muoversi.... LA QUERCIA Legalo stretto qua sotto, dietro al mio tronco, alle mie radici.... Vedremo poi che cosa converrà di fare.... (L'Edera, aiutata dal Pioppo, porta il Cane dietro al tronco della Quercia). L'avete legato?... Ebbene, ora che ci siamo liberati da questo testimonio fastidioso, da questo rinnegato, deliberiamo secondo la nostra giustizia e la nostra verità..... Non ve lo nascondo: sono profondamente, penosamente commossa.... Per la prima volta ci è dato di giudicare l'Uomo e di fargli sentire la, nostra, potenza. Dopo tutto il male che ci ha fatto, dopo le mostruose ingiustizie patite, non rimane il minimo dubbio, credo, sulla, sentenza che sarà pronunziata... (Tutti gli Alberi e tutti gli Animali, in coro) No, no, no!... Nessun dubbio!... L'impiccagione!... La morte!... C'è troppa ingiustizia! L'Uomo ha abusato troppo di noi!... E da troppo tempo ormai!... Schiacciarlo, bisogna! Divorarlo!... Subito!... Subito!... TYLTYL (alla Gatta) Perchè gridano così?... Che cosa vogliono?... LA GATTA Non ci badare.... Sono un po' arrabbiati perchè la Primavera è in ritardo.... Lascia fare a me, accomoderò tutto io.... LA QUERCIA Questa unanimità era prevedibile.... Ora si tratta di sapere, per evitare ogni rappresaglia, quale sarà, il supplizio più pratico, più facile, più spiccio e sicuro; che lascerà, dietro di sè minori tracce accusatrici, quando gli Uomini ritroveranno il piccolo cadavere nella foresta TYLTYL Che cosa significa tutto questo? A che cosa mirano?... Comincio ad essere seccato. La Quercia deve darmi l'Uccellino Azzurro, poichè ce l' ha: e basta.. IL TORO (avanzandosi) Il sistema più pratico e più sicuro è una buona cornata nello stomaco. Volete che mi butti addosso a lui?... LA QUERCIA Chi parla?... LA GATTA Il Toro. LA VACCA Farebbe meglio a starsene tranquillo.... Io, Per esempio, mi guardo bene dall'immischiarmi in questa faccenda.... Devo mangiare tutta l'erba di quel prato che si vede laggiù, illuminato dalla, luna.... Ho abbastanza da fare.... IL BOVE Anch'io. In ogni modo, approvo tutto fino da ora.... IL FAGGIO In quanto a me, offro il mio più alto ramo per impiccarli.... L'EDERA E io il nodo scorsoio.... L'ABETE E io le quattro assi per la piccola bara.... IL CIPRESSO E io la concessione perpetua.... IL SALICE Il mezzo più semplice sarebbe di affogarli in uno dei miei fiumi.... Me ne incarico io.... IL TIGLIO (in tono conciliante) Via, via, è proprio necessario giungere a questi estremi?... Sono così giovani ancora!... Basterebbe semplicemente impedir loro di nuocere, imprigionandoli in un recinto chiuso che m'incaricherei di costruire io stesso piantandomi tutt'intorno.... LA QUERCIA Chi parla così?... Mi par di riconoscere la voce melata del Tiglio.... L'ABETE Infatti.... LA QUERCIA C'è dunque un rinnegato fra noi, come fra gli Animali?... Non avevamo da deplorare finora se non la defezione degli Alberi fruttiferi ; ma essi non sono veri Alberi.... IL PORCO (girando intorno gli occhi ingordi) Io dico che bisogna prima di tutto mangiare la bambina.... Dev'essere così tenera?... TYLTYL Che dice quello là?... Aspetta, aspetta, canaglia!.... LA GATTA Non capisco con chi ce l'abbiano, ma mi pare che la faccenda prenda una cattiva piega.... LA QUERCIA Silenzio! Bisogna sapere chi di noi infliggerà il primo colpo; chi distoglierà dalle nostre cime il più grande pericolo che abbiamo mai corso dopo la nascita dell'Uomo.... L'ABETE Quest'onore tocca a voi, regina nostra e signora.... LA QUERCIA È l'Abete che parla?... Ahimè, sono troppo vecchia!... Sono cieca, inferma, e le mie braccia intorpidite non mi obbediscono più.... La gloria di compiere il nobile gesto della nostra liberazione spetta a voi, fratello mio, sempre verde, sempre dritto: a voi che vedeste nascere la maggior parte di questi alberi.... L'ABETE Vi ringrazio, madre mia venerata.... Ma siccome avrò già l'onore di seppellire le due vittime, temerei, accettando, di destare la giusta gelosia dei miei colleghi... Credo che, dopo di noi due, il Faggio sia il più antico e il più degno, quello che possiede la clava più potente..., IL FAGGIO Sono tutto imporrito, lo sapete, e la mia clava, non è punto sicura.... L'Olmo e il Cipresso, piuttosto, hanno delle armi potenti.... L' OLMO Non chiederei di meglio: ma posso appena reggermi in piedi.... Una talpa, questa notte, mi ha storto il pollice del piede.... IL CIPRESSO In quanto a me, son pronto a tutto.... Ma anch' io, come il mio buon fratello Abete, avrò, se non il privilegio di seppellirli, quello almeno di piangere sulla loro tomba.... Accumulerei illegittimamente troppi onori.... Domandate piuttosto al Pioppo.... IL PIOPPO A me? Dite sul serio?... Ma se il mio legno è più tenero delle carni di un bambino!... poi, non so che cosa io abbia, oggi.... Tremo dalla febbre.... Guardate le mie foglie.... Forse ho preso freddo stamani, al levar del sole. LA QUERCIA (con uno scoppio d' indignazione) Avete paura dell' Uomo, questa è la verità!... Perfino questi due bambini, soli e senza armi, v'incutono il terrore misterioso che fece sempre di noi gli schiavi che siamo!... Ebbene, no!... Basta!... Poichè è così, e d'altra parte l' occasione è unica, andrò io, sola, vecchia, rattrappita, tremante, cieca come sono, contro il nemico ereditario!... Dov'è?... (Si avanza a tastoni, appoggiandosi al bastone, incontro a Tyltyl). TYLTYL (estraendo di tasca il coltello) Ce l' ha con me quella vecchiaccia, col bastone?... (Alla vista del coltello tutti gli Alberi, con un urlo di terrore s'intromettono fra i due trattenendo la Quercia). GLI ALBERI Ha il coltello!... Badate!... Ha il coltello!.., LA QUERCIA (dibattendosi) Lasciatemi!... Che m' importa del coltello o dell'ascia!... Chi mi trattiene?... Come!... 128 Siete qui tutti?... Come, voi tutti volete.... (Gettando via il bastone). Ebbene, sia!.... Vergogna!... Lasciamo dunque agli animali il còmpito di liberarci!... IL TORO SI!... Me ne incarico io!... E con una sola cornata!... IL BOVE e la VACCA (trattenendolo per la coda) Di che cosa t' immischi, tu?... Non fare sciocchezze!... È un affare sballato!... Andrà a finir male.... Riderà bene chi riderà l'ultimo!... Lascia andare.... Tocca agli Animali selvatici.... IL TORO No, no!... Tocca a me!... Aspettate!... Ma tenetemi, fermo, dunque, se no succede qualche guaio!... TYLTYL (a Mytyl, che getta acute grida) Non temere!... Mettiti qua, dietro a me... Ho il coltello.... IL GALLO Èspavaldo il piccino!... TYLTYL Dunque, è proprio vero, ce l'hanno con me?... L'ASINO Ma certo, piccino mio. Ce n'è voluto, perchè tu capissi!... IL PORCO Puoi dire le tue preghiere; è giunta la tua ultima ora.... Ma non cercare di nascondere la piccina.... Voglio godermela intanto con gli occhi.... La mangerò per la prima.... TYLTYL Che cosa vi ho fatto dunque?... IL MONTONE Nulla, piccino mio.... Hai soltanto mangiato il mio fratellino, le mie due sorelle, i miei tre zii, mia zia, il nonno, la nonna.... Aspetta, aspetta che ti buttino in terra, e ti accorgerai se ho denti anch'io.... L'ASINO E io buoni zoccoli!... IL CAVALLO (scalpitando con fierezza) Vedrete.... quello che vedrete!... Preferite che lo dilanii coi denti o che l'abbatta a forza di calci?... (Si avanza fieramente verso Tyltyl, che si difende mostrando il coltello. Ma a un tratto, preso da panico, il Cavallo volta il dorso MAURICE MAETERLINK. L'Uccellino Azzurro. 9 e fugge a gambe levate). Ah, cosi no!... Non è giusto!... Non è buon giuoco!... Si difende.... IL GALLO (che non può nascondere la sua ammirazione) È coraggioso, però, il piccino!... IL PORCO (all'Orso e al Lupo) Precipitiamoci su di loro tutti insieme.... Io vi sosterrò per di dietro.... Li getteremo a terra, e allora ci divideremo fra tutti la piccina.... IL LUPO Attirateli da quella parte.... Io, intanto faccio una manovra avvolgente.... (Gira dietro a Tyltyl, lo investe e lo getta quasi lungo disteso per terra). TYLTYL Giuda!... (Si rialza a mezzo, sorreggendosi su un ginocchio; indi, brandendo il coltello, copre, come può, col proprio corpo la sorellina la quale, atterrita, urla disperatamente. Vedendolo quasi a terra, tutti gli Animali e gli Alberi si precipitano su di lui tentando di colpirlo. Tyltyl invoca aiuto, gridando). A me!... A me!... Tylô! Tylô!... Dov'è la Gatta?... Tylô!... Tylette! Tylette!... Venite! Venite qua!... LA GATTA (in disparte, ipocritamente) Non posso.... M'hanno schiacciata una zampa.... TYLTYL (parando i colpi e difendendosi come può) A me!... Tylô! Tylô!... Non ne posso più!... Sono troppi!.. C'è l'Orso! Il Porco! Il Lupo! L'Asino! L'Abete! Il Faggio!... Tylô! Tylô! Tylô!... (Il Cane, trascinando con sè i lacci spezzati, balza, fuori di dietro al tronco della Quercia, e sgominando Alberi e Animali si getta davanti a Tyltyl, e lo difende rabbiosamente). IL CANE (dando morsi a destra e a sinistra) Eccomi, eccomi, mio piccolo dio!... Non aver paura! Forza!... Ho buoni denti, io!... Tieni, questo è per te, Orso, nel tuo grosso deretano!... Su, chi ne vuole ancora?... Questo è per te, Porco, e. questo per te, Cavallo, e questo per la tua coda, Toro! Ecco! Ho dilaniato i calzoni del Faggio e la sottana della Quercia!... L'Abete se la dà a gambe.... Che fatica, però .. TYLTYL (accasciato) Non ne posso più!... Il Cipresso m'ha dato un gran colpo sulla testa.... IL CANE Ahi!... Questo è un colpo del Salice.... Mi ha, rotto una gamba!... TYLTYL Tornano alla carica, tutti quanti!... Questa volta, li guida il Lupo.... IL CANE Aspetta, aspetta che lo stritolo! IL LUPO Imbecille !... Sei nostro fratello!... I suoi genitori hanno affogato i tuoi cuccioli!... IL CANE Hanno fatto bene!.... Tanto meglio!... Perchè somigliavano a te ! TUTTI GLI ALBERI E TUTTI GLI ANIMALI Rinnegato!... Sciocco!... Traditore! Fellone! Balordo!... Giuda!... Lascialo! A morte! A noi! IL CANE (ebro di ardore e di abnegazione) No, no!... Solo contro tutti!... No, no!... Fedele al mio piccolo dio! al migliore! al più grande!... (A Tyltyl) Attento, ecco l'Orso!... Diffida del Toro.... ora gli salto al collo.... Ahi!... Che calcio!... L'Asino m' ha spezzato due denti.... TYLTYL Non ne posso più, Tylô.... Ahi!... Il Pioppo mi ha colpito.... Guarda, mi sanguina la mano... È stato il Lupo, o il Porco.... IL CANE Aspetta, mio piccolo dio.... Lascia che ti baci.... Qua, una buona leccata.... Ti guarirà.... Sta' qui dietro di me.... Non osano più avvicinarsi.... Sì! Eccoli, tornano!... Ora la faccenda si fa seria!... Teniamo duro!... TYLTYL (lasciandosi cadere a terra) No, non ne posso più.... IL CANE Vien qualcuno!... Lo sento all'odore.... TYLTYL Di dove?... Chi?... IL CANE Di laggiù!... Ah, è la Luce!... Ci ha ritrovati!... Siamo salvi, mio piccolo re!... Abbracciami!... Salvi!... Guarda!... Si mettono in guardia.... Si scostano.... Hanno paura!... TYLTYL La Luce!... La Luce!... Vieni dunque!... Presto!... Si sono ribellati!... Tutti contro di noi!... (Entra la Luce; via via che s'inoltra, l'Aurora si alza sulla foresta, che ne è tutta illuminata). LA LUCE Che cosa succede? Che cos'è? Ma, disgraziato, non lo sapevi?... Gira il Diamante! Rientreranno così nel Silenzio; e nell'Oscurità: e tu non vedrai più i loro sentimenti.... (Tyltyl gira il Diamante. Ed ecco, tutte le anime degli Alberi si precipitano nei rispettivi tronchi, che tosto si richiudono. Anche le anime degli Animali spariscono; e si vedono, lontano, una Vacca e un Montone pascolare tranquillamente. La foresta riprende il suo aspetto innocente. Stupito, Tyltyl guarda intorno a sè). TYLTYL Dove sono andati?... Che cosa avevano?... Erano forse pazzi?... LA LUCE No, no, Sono sempre così: ma noi non lo sappiamo perchè non possiamo vedere dentro di loro.... Te l'avevo detto: è pericoloso destarli nella mia assenza.... TYLTYL (asciugando il coltello) Non c'è che dire: se non ci fosse stato il Cane, e se io non avessi avuto il coltello.... Ah, non avrei mai creduto che fossero così cattivi!... LA LUCE Come vedi, l'Uomo è solo contro tutti, nel mondo.... IL CANE Non ti sei fatto mica troppo male, mio piccolo dio?... TYLTYL Niente di grave.... In quanto a Mytyl, non l' hanno nè anche toccata.... Ma tu, piuttosto, mio povero Tylô!... Hai la bocca insanguinata, la zampa rotta.... IL CANE Non vale la pena di parlarne.... Domani non si vedrà più nulla.... Ma è stato un affar serio!... LA GATTA (sbucando fuori zoppicando, dal fitto di un cespuglio) Altro che serio!... Il Bove m'ha dato una cornata nel ventre.... Non si vede il segno, ma mi fa tanto male.... E la Quercia m'ha rotto una zampa.... IL CANE Quale? Mi piacerebbe di saperlo!... MYTYL (accarezzando la Gatta) Povera la mia Tylette!... Davvero?... Ma dov'eri?... Non ti ho vista.... LA GATTA (con ipocrisia) Sono rimasta ferita subito, mammina cara, mentre assalivo il Porco che voleva mangiarti.... La Quercia mi assestò allora quel colpo tremendo che m' ha stordita.... IL CANE (alla Gatta, fra i denti) In quanto a te, sai, ho da dirti due paroline.... Mai non perdi niente ad aspettare!... LA GATTA (con accento lamentoso a Mytyl) Mammina, lo senti? M'insulta.... Vuol farmi male.... MYTYL (al Cane) Vuoi o non vuoi lasciarla stare, bestiaccia?.... (Escono tutti). CALA LA TELA.

TYLTYL Eh sì, abbastanza.... Ma questa notte Natale va dai bambini ricchi.... MYTYL Ah sì?... TYLTYL Guarda!... La mamma ha dimenticato di spengere il lume!... Mi viene un'idea.... MYTYL ?... TYLTYL Se ci alzassimo?... MYTYL La mamma non vuole, lo sai.... TYLTYL Ma già che nessuno ci vede.... Guarda le imposte!... MYTYL Che è quella luce ?... TYLTYL Sono i lumi della festa. MYTYL Quale festa ? TYLTYL Qui dirimpetto, dai bambini ricchi. C'è l'albero di Natale. Apriamo le imposte?... MYTYL Ma si può? TYLTYL Quando ti dico che nessuno ci vede.... Senti la musica?... Alziamoci.... (I due bambini si alzano, corrono verso la finestra, salgono sullo sgabello e aprono le imposte. Una luce vivissima penetra nella stanza. I due bambini spingono curiosamente lo sguardo fuori). TYLTYL Si vede tutto!... MYTYL (che ha poco posto sullo sgabello) Io non vedo nulla.... TYLTYL Nevica!... Guarda, guarda, due carrozze a sei cavalli!... MYTYL Scendono dodici bambini!... TYLTYL Sciocca !... Sono bambine!... MYTYL Ma se hanno i calzoni!... TYLTYL Non capisci niente.... Non mi spinger così!... MYTYL Io? Se non ti ho neanche toccato!... TYLTYL (che occupa tutto lo sgabello) Prendi tutto il posto tu.... MYTYL Non è vero! Sono io che non ho posto! TYLTYL Zitta, guarda l'albero!... MYTYL Che albero?... TYLTYL L'albero di Natale, non vedi?... Ma se guardi verso il muro.... MYTYL Guardo il muro perchè non posso vedere altro.... TYLTYL (facendole a malincuore un po' di posto sullo sgabello). Ecco.... Sei contenta?... Adesso il posto migliore l'hai tu.... Guarda! Quanti lumi! Quanti lumi!... MYTYL Che cosa fa tutta quella gente che fa tanto rumore?... TYLTYL Suonano. MYTYL Sono in collera, non è vero?... TYLTYL No, ma è faticoso, sai, sonare. MYTYL Un'altra carrozza tirata da cavalli bianchi!... TYLTYL Zitta!... Guarda, piuttosto. MYTYL Che cosa sono quei cosini d'oro che pendono giù dai rami dell'albero?... TYLTYL Non capisci?... I balocchi, o bella!... Sciabole, fucili, soldati, cannoni.... MYTYL E bambole, dimmi, non ce ne sono?... TYLTYL Bambole?... Non c'è sugo; non si divertono mica, con le bambole.... MYTYL E che è tutta quella roba sulla tavola?.... TYLTYL Dolci!.... Frutta!... Torte di crema..... MYTYL Io ne ho mangiate una volta, di quelle cose, quand'ero piccina.... TYLTYL Anch' io. Sono più buone del pane, ma quando ce ne danno, ce ne danno troppo poche.... MAURICE MAETERLINK. - L'Uccellino Azzurro. 2 MYTYL Ma quei bambini lì non ne hanno mica troppo poche.... Ce n'è la tavola piena!... Credi che ne mangeranno?... TYLTYL Certo; che cosa dovrebbero farne?... MYTYL Perchè non le mangiano subito?... TYLTYL Perchè non hanno fame.... MYTYL (con stupore) Non hanno fame!... Perchè TYLTYL Perchè mangiano quando vogliono.... MYTYL (incredula) Tutti i giorni?... TYLTYL Credo di sì.... MYTYL Mangeranno tutto?... Non ne regaleranno neanche un pochino?... TYLTYL A chi?... MYTYL A noi.... TYLTYL Ma se non ci conoscono!... MYTYL Però, se si chiedesse.... TYLTYL Non si deve chiedere. MYTYL Perchè?... TYLTYL Perchè non sta bene. MYTYL (battendo le manine) Oh belli!... Belli!... TYLTYL (entusiasmato) Come ridono!... Come ridono!... MYTYL Guarda, guarda come ballano i piccini.... TYLTYL Sì, sì, balliamo anche noi!... (Battono i piedi, allegramente). MYTYL Oh come mi diverto!... TYLTYL Ecco, ora i grandi danno i dolci ai bambini.... Li possono toccare!... Li mangiano!... Mangiano! Mangiano!... MYTYL Mangiano anche i più piccini!... Due, tre, quattro dolci!... TYLTYL (fuori di sè dalla gioia) Oh come sono buoni!... Come sono buoni!... MYTYL (contando dei dolci imaginari) A me ne hanno dati dodici!... TYLTYL E a me quattro volte dodici!... Ma ne darò qualcuno anche a te.... (Bussano alla porta). TYLTYL (calmandosi a un tratto, impaurito) Chi sarà?... MYTYL (spaventata) È il babbo!... (I bambini non si decidono ad aprire, e si vede il saliscendi alzarsi da sè cigolando. La porta si schiude e dallo spiraglio entra una vecchietta vestita di verde, con un cappuccio rosso in capo. È zoppa, gobba e guercia; il naso e il mento si toccano; cammina curva sul bastone. Non c'è dubbio: è una fata). LA FATA Bambini, avete per caso l'erba che canta oppure l'uccellino azzurro?... TYLTYL Abbiamo dell'erba, si, ma però non canta.... MYTYL Tyltyl ha un uccellino.... TYLTYL Sì: ma non lo posso dare.... LA FATA Perchè?... TYLTYL Perchè è mio. LA FATA È un'ottima, ragione, di certo. E dov'è quest'uccellino?... TYLTYL (additando la gabbia) Nella gabbia.... LA FATA (inforcando le lenti per osservare l'uccello) Non lo voglio; non è abbastanza azzurro. Bisognerà che andiate a cercarmi voi l'uccellino di cui ho bisogno. TYLTYL Ma io non so dov'è.... LA FATA Neppur io. Appunto per questo bisogna andar a cercarlo. Posso, a rigore, fare a meno dell'erba che canta; ma all'Uccellino Azzurro non posso assolutamente rinunziare. Ne ho bisogno per la mia bambina, che è malata. TYLTYL Che cos'ha?... LA FATA Non si capisce bene: vorrebbe essere felice.... TYLTYL Ah!... LA FATA E voi, sapete chi sono io?... TYLTYL Somigliate un poco alla nostra vicina di casa, la signora Berlingot.... LA FATA (sdegnata) Neppure per idea.... Non c'è nessuna somiglianza fra noi due.... Impertinente! Io sono la Fata Beriluna.... TYLTYL Oh! Davvero?... LA FATA Bisognerà partire subito. TYLTYL Verrai con noi, non è vero?... LA FATA No, non posso. Ho messo stamani la pentola al fuoco, e se sto via più di un'ora dà subito di fuori.... (Additando successivamente il soffitto, il focolare e la finestra). Volete uscire di su, di là, o di costà? TYLTYL (mostrando timidamente la porta) Non potrei uscire di lì?... LA FATA (inquietandosi di nuovo) È impossibile! È una bruttissima abitudine. (Accennando alla finestra). Usciremo di là.... Ebbene?... Che cosa aspettate?... Vestitevi subito.... (I bambini obbediscono e si vestono lesti lesti). Aiuterò io Mytyl.... TYLTYL Non abbiamo scarpe.... LA FATA Non importa. Vi darò io un cappellino meraviglioso. Dove sono i vostri genitori?... TYLTYL (mostrando l'uscio a destra) Sono di là; dormono.... LA FATA E i vostri nonni?... TYLTYL Sono morti.... LA FATA E i vostri fratellini e le vostre sorelline?.. Ne avete?... TYLTYL Sì, sì, abbiamo tre fratellini.... MYTYL E quattro sorelline.... LA FATA Dove sono?... TYLTYL Sono morti anche loro.... LA FATA Vi farebbe piacere di rivederli?... TYLTYL Oh sì!... Subito!... Fammeli vedere subito!... LA FATA È facile a dirsi.... Ma guardate che bella combinazione: potrete vederli passando dal Paese del Ricordo, che si trova appunto sulla strada per andare dall'Uccellino Azzurro. Subito a sinistra, dopo il terzo crocicchio. Che cosa stavate facendo quando ho bussato?... TYLTYL Si giocava a mangiare i pasticcini.... LA FATA Avete dei pasticcini?... Dove sono?... TYLTYL Sono nel palazzo dei bambini ricchi.... Vieni a vedere com'è bello!... (Trascina la Fata verso la finestra). LA FATA (guardando dalla finestra) Ma son quegli altri che li mangiano!... TYLTYL È lo stesso, poichè possiamo stare a guardarli.... LA FATA Non sei stizzito con quei bambini?... T YLTYL Perchè?... LA FATA Perchè mangiano tutto loro.... Dovrebbero vergognarsi di non darne un pochino anche a te.... TYLTYL Ma che! È naturale. Loro sono ricchi.... Com'è bella quella casa, non è vero?... LA FATA Non è mica più bella della tua. TYLTYL Oh! Come puoi fare a dirlo!... La nostra è più buia, più piccola, e poi non ci sono dolci.... LA FATA Eppure è eguale a quella lì, ti assicuro. Ma tu non ci vedi bene... TYLTYL Sì, sì, ci vedo benissimo!... Ho gli occhi buoni, io!... Posso distinguere perfino l'ora all'orologio della chiesa, che il babbo non si sogna neanche di vedere.... LA FATA (inquietandosi) E io ti ripeto che non ci vedi!... Sentiamo: come mi vedi, me?... Come sono fatta?... (Tyltyl tace, imbarazzato). Rispondi dunque! Voglio sapere se ci vedi bene.... Sono bella o brutta?... (Tyltyl continua a tacere, sempre più imbarazzato). Non mi vuoi rispondere?... Sono giovane o vecchia?... Ho la pelle rosea o la pelle gialla?... Ti pare forse ch'io abbia la gobba?... TYLTYL (con tono conciliante) No, no, appena appena.... LA FATA Dalla tua espressione si direbbe che ce l'abbia, e molto grossa, anche!... E il naso? Ho forse il naso a uncino, e un occhio solo?... TYLTYL No, non dico questo.... Ma come hai fatto a perdere l'occhio? LA FATA (sempre più stizzita) Non l' ho perduto niente affatto!.. Insolente! Mascalzone!... È anzi più bello dell'altro; più grande, più luminoso, azzurro come il cielo.... E i miei capelli, li vedi bene? Non sono forse biondi come il grano maturo?... Non sembrano oro puro?... La testa mi pesa da tanti che ne ho.... Scappano fuori da tutte le parti.... Non li vedi qui fra le mie mani?... (Mostra due misere ciocche di capelli grigi). TYLTYL Sì, ne vedo infatti qualcuno.... LA FATA (indignata) Qualcuno!... Vuoi dire una massa, un'onda, un fiume d'oro!... Lo so, c'è chi dice che non ne vede punti; ma tu non sei, spero, uno di quei cattivi.... e ciechi? TYLTYL No, no, vedo benissimo tutti quelli che non sono nascosti.... LA FATA Bisogna saper vedere anche gli altri, con lo stesso coraggio!... Curiosi, gli uomini!... Da quando sono morte le fate non ci vedono più, e non se ne accorgono nemmeno.... Fortuna che mi porto sempre dietro tutto quanto occorre per rianimare gli occhi spenti.... Guarda un po' che cosa tiro fuori dalla borsa!... TYLTYL Oh che bel cappellino verde!... Che c' è sulla coccarda, che brilla tanto? LA FATA È il grande diamante che fa vedere..., TYLTYL Ah!... LA FATA Sì: quando ci si mette il cappello in capo, si gira un poco il diamante, da destra a sinistra, per esempio. Così, vedi?... Il diamante preme allora sopra un bernoccolo della testa che nessuno sa di avere, e che fa aprire gli occhi.... TYLTYL Fa male?... LA FATA Ma che!... È fatato.... Allora si vede subito quello che si nasconde dentro alle cose: l'anima del pane, per esempio; del vino, del pepe.... MYTYL Si vede anche l'anima dello zucchero? LA FATA (inquietandosi) Naturalmente!... Perché fai queste domande inutili?... E poi, come se l'anima dello zucchero fosse più interessante di quella del pepe.... Ecco, vi ho dato tutto quello che avevo per aiutarvi a trovare l'Uccellino Azzurro.... Lo so: forse l'Anello-che-rende-invisibile o il Tappeto- Volante vi sarebbero più utili.... Ma ho perduto la chiave dell' armadio nel quale li avevo riposti.... Ah, dimenticavo.... (mostrando il diamante). Vedi: tenendolo così, e facendolo girare un po' più, si rivede il passato..... Un pochino di più ancora, e si vede l'avvenire.... È una cosa curiosa e pratica e non fa punto rumore.... TYLTYL Il babbo me lo prenderà.... LA FATA No, perchè non lo vedrà. Nessuno lo potrà vedere finchè l'avrai sul capo tu.... Vuoi provare ?... (Mette in testa a Tyltyl il cappellino verde). Ora, gira il diamante.... Un giro, e poi.... (Appena Tyltyl gira il diamante, ogni cosa a un tratto si trasforma come per prodigio. La vecchia fata diventa una bellissima principessa; le pietre con le quali sono costruiti i muri della capanna s'illuminano, brillano di una luce azzurrina, diventano trasparenti, scintillano, abbagliano come se fossero pietre preziose. I mobili poverissimi si animano e luccicano. La rozza tavola di legno bianco assume l'aspetto nobile e grave di una tavola di marmo. Il quadrante dell'orologio occhieggia e sorride allegramente, mentre lo sportello della cassa dentro la quale il pendolo oscilla, si schiude per lasciar scappare fuori le ore, che tenendosi per la mano e ridendo pazzamente si mettono a danzare al suono di una musica deliziosa. Naturale sorpresa, mista a spavento, di Tyltyl, il quale, mostrando le Ore, esclama): TYLTYL Chi sono tutte quelle belle signore? LA FATA Non aver paura: sono le ore della tua vita, felici di esser libere e di lasciarsi vedere un momento.... TYLTYL E perchè le pareti sono così lucenti? Sono forse di zucchero oppure di pietre preziose? LA FATA Tutte le pietre sono eguali, tutte le pietre sono preziose. Ma l'uomo ne vede soltanto alcune.... (Nel frattempo la scena magica si svolge completandosi. Le anime dei Pani tondi da quattro libbre, sotto l'aspetto di omìni in maglia color crosta di pane, sbalorditi e infarinati, sbucano fuori dalla madia e si mettono a saltellare intorno alla tavola. Li raggiunge il Fuoco, il quale, guizzato fuori dal focolare con una maglia gialla e rossa, li rincorre torcendosi dalle risa). TYLTYL Chi sono quei brutti omìni? LA FATA Gente da poco. Sono le anime dei Pani Tondi da quattro libbre che approfittano del Regno della Verità per uscir fuori dalla madia dove stavano un po' ristretti.... TYLTYL E quel diavolone rosso che ha cattivo odore?... LA FATA Ssst!... Non ti far sentire. È il Fuoco.... Ha un caratteraccio!... (Durante questo dialogo la scena magica continua a svolgersi. Il Cane e la Gatta, raggomitolati ai piedi dell'armadio, gettano simultaneamente un grido e spariscono in una botola. In loro vece compaiono due personaggi, l'uno dei quali porta una maschera di can mastino e l'altro una testa di gatta. Subito dopo l'omìno dalla maschera di mastino - che d'ora innanzi chiameremo Cane - si precipita su Tyltyl, lo abbraccia violentemente e lo copre di carezze impetuose; mentre la donnina dalla maschera di gatta - che per semplificare chiameremo Gatta - si avvicina a Mytyl, dopo essersi ravviati i capelli, lavate le mani e lisciati i baffi). IL CANE (urlando, saltando, buttando tutto all'aria, dando noia a tutti) Mio piccolo dio!... Buongiorno, buongiorno, mio piccolo dio!... Finalmente, finalmente posso parlare!... Avevo tante cose da dirti!... Avevo un bell'abbaiare e scodinzolare!... Tu non capivi.... Ma ora!... Buongiorno! buongiorno! ... Come ti voglio bene!... Come ti voglio bene!... Vuoi che faccia qualche cosa di straordinario?... Vuoi che mi metta a camminare sulle mani d che balli sulla corda?... TYLTYL (alla Fata) Chi è questo signore con la testa di cane? LA FATA Non vedi? È l'anima di Tylô, da te liberata or ora.... MAURICE MAETERLINK. - L'Uccellino azzurro. 3 LA GATTA (avvicinandosi con prudenza a Mytyl e porgendole cerimoniosamente la mano) Buongiorno, signorina,.... Come siete bella stamani!... MYTYL Buongiorno, signora.... (alla Fata) Chi è?... LA FATA Non indovini?... È l'anima di Tylette che ti porge la mano.... Su, via, dàlle un bacio.... IL CANE (dando uno spintone alla Gatta) Anch'io!... Voglio abbracciare il piccolo dio!... Voglio abbracciare la bimba! Voglio abbracciare tutti! Bene!... Come ci divertiremo!... Voglio far paura a Tylette.... Bau! Bau! Bau!... LA GATTA Signore, non ho il piacere di conoscervi. LA FATA (minacciando il Cane con la sua bacchetta) Sta' fermo, tu; se no ti faccio rientrare nel silenzio fino alla fine dei tempi.... (Nel frattempo la scena magica continua a svolgersi. L'Arcolaio in un angolo si è messo a girare vertiginosamente dipanando dei meravigliosi raggi di luce. Dall'altra parte la Fontanella si mette a cantare con voce acutissima, e, trasformandosi in fontana luminosa, inonda l'acquaio di un torrente di perle e di smeraldi dove si getta l'anima dell'acqua, simile a una fanciulla scapigliata, grondante di pioggia, e tutta in lacrime. Essa si azzuffa subito col Fuoco). TYLTYL E quella signora tutta bagnata?... LA FATA Non temere. È l'Acqua, che scappa fuori dalla cannella.... (Il Bricco del latte si rovescia, cade in terra, si spezza. Dal latte sparso s'inalza una figura alta, bianca e pudica, che ha l'aria di aver paura di tutto). TYLTYL E quella signora in camicia, così spaurita?... LA FATA È il Latte che ha rotto il suo bricco.... (Il Pan di zucchero posato ai piedi dell'armadio cresce a poco a poco e rompe l' involucro di carta, dal quale sbuca fuori un essere sdolcinato e mellifluo, vestito con una cappa mezza bianca e mezza celeste, che sorridendo beatamente si avanza verso Mytyl). MYTYL (impaurita) Chi è?... LA FATA Non vedi? È l'anima dello Zucchero!... MYTYL (rassicurata) Chi sa se avrà lo zucchero filato?... LA FATA Sì, certo; in tasca non ha che zucchero filato, e ogni dito della mano è di zucchero filato.... (La Lampada cade a terra, e appena caduta, la sua fiammella si raddrizza e si trasforma in una vergine luminosa d' incomparabile bellezza. È coperta da lunghi veli trasparenti e abbaglianti, e rimane immobile, come in estasi). TYLTYL È la Regina!... MYTYL È la Madonna!... LA FATA No, bambini miei. È la Luce. (Intanto le cazzeruole sulle mensole si mettono a girare come tante trottole. L'armadio della biancheria spalanca i suoi sportelli, e ne escono fuori stoffe magnifiche color di sole e color di luna, alle quali si uniscono dei cenci e degli stracci dall'aspetto non meno sontuoso, che scendono giù dalla scaletta del granaio. Ma a un tratto si odono tre colpi bruschi alla porta a destra). TYLTYL (spaventato) È il babbo! Ha sentito!... LA FATA Gira il diamante!... Da sinistra a destra.... (Tyltyl gira in fretta il diamante). Non così in fretta! Dio mio! È troppo tardi.... L'hai girato troppo presto.... Non faranno più a, tempo a riprendere il loro posto e avremo delle noie, ho paura.... (La Fata riappare di nuovo sotto l'aspetto di una brutta. vecchia; le pareti della capanna perdono il loro splendore, le Ore ritornano dentro all'orologio, l'Arcolaio si ferma, ecc. Ma nella fretta e nella confusione generale, mentre il Fuoco corre pazzamente intorno alla stanza in cerca del focolare, uno dei Pani Tondi da quattro libbre che non è riuscito a trovar posto nella madia, scoppia in singhiozzi urlando dallo spavento). Che cosa c'è?... IL PANE (piangendo) Non c'è più posto nella madia?... LA FATA (guardando dentro alla madia) Ma sì, ma sì.... (spingendo gli altri Pani che hanno ripreso il loro posto). Via, presto, stringetevi un po'.... (Bussano di nuovo alla porta). IL PANE (smarrito, sforzandosi invano di entrare nella madia) Non c'è rimedio.... Mi mangeranno prima degli altri! IL CANE (saltando intorno a Tyltyl) Mio piccolo dio!... Io son sempre qui!... Posso parlare ancora!... Ancora! ancora! ancora... LA FATA Come, anche tu?... Sei sempre qui?... IL CANE Ho avuto fortuna!... Non sono potuto tornare nel silenzio. La botola si è chiusa troppo presto.... LA GATTA E la mia pure.... Che cosa succederà?... Siamo forse in pericolo?... LA FATA Ecco, debbo dirvi la verità: tutti quelli che accompagneranno i due bambini, moriranno alla fine del viaggio.... LA GATTA E quelli che non li accompagneranno?... LA FATA Sopravviveranno pochi minuti.... LA GATTA (al Cane) Vieni, rientriamo nella botola.... IL CANE No, no, non voglio!... Voglio accompagnare il mio piccolo dio!... Voglio parlargli sempre!... LA GATTA Scimunito!... (Bussano di nuovo alla porta). IL PANE (piangendo a calde lacrime) Non voglio morire alla fine del viaggio!... Voglio tornar subito dentro la madia!... IL Fuoco (che nel frattempo non ha smesso un istante di correre vertiginosamente intorno alla stanza, con sibili d'angoscia) Non trovo più il focolare!... L'ACQUA (tentando invano di rientrare nella cannella) Non mi riesce più di rientrare nella, cannella!... Lo ZUCCHERO (affannandosi intorno all'involucro di carta) Ho lacerato la, carta che m'involtava... IL LATTE (linfatico e pudico) Mi hanno rotto il bricco! LA FATA Che stupidi, Dio mio!... Stupidi e vili.... Preferireste dunque di continuare a vivere in quelle brutte scatole, nelle botole o dentro alle cannelle piuttosto che accompagnare i bambini nella ricerca dell'Uccellino Azzurro?... TUTTI (eccettuati il Cane e la Luce) Sì, sì! Lo preferiamo!... Oh, la mia cannella!... La mia madia!... Il mio focolare!... La mia botola!... LA FATA (alla Luce, che contempla pensosa i resti della sua lampada infranta) E tu, Luce, che cosa ne pensi?... LA LUCE Io accompagnerò i bambini.... IL CANE (abbaiando di gioia) Anch'io!... anch'io!... LA FATA Meno male! È troppo tardi, in ogni modo, per tornare indietro. Non sta più in voi di scegliere; perciò verrete tutti con noi.... Ma tu, Fuoco, abbi cura di non avvicinarti a nessuno; e tu, Cane, non punzecchiare la Gatta e tu, Acqua, procura di star bene diritta e di non sgocciolare dappertutto.... (Si odono novamente dei colpi violenti alla porta di destra) TYLTYL (ascoltando) È il babbo, di nuovo.... Questa volta si è alzato davvero, lo sento camminare.... LA FATA Usciamo dalla finestra.... Verrete tutti a casa mia, e cercherò di vestire come si conviene gli animali e le cose.... (Al Pane) Tu, Pane, prendi la gabbia nella quale metteremo l'Uccellino Azzurro.... L'affido a te.... Presto, presto, non perdiamo tempo.... (La finestra si allunga a un tratto e si trasforma in una porta. Escono tutti, dopo di che la finestra riprende la sua forma primitiva, e si richiude come se nulla fosse. La stanza è ritornata buia, e i due lettini sono immersi nell'ombra. L'uscio a destra si schiude, e attraverso lo spiraglio fanno capolino Babbo Tyl e Mamma Tyl). IL BABBO Non era nulla, te lo dicevo.... è il grillo che canta.... LA MAMMA Li vedi?... IL BABBO Sì. Dòrmono quieti quieti.... LA MAMMA Li sento respirare.... (L'uscio si richiude). CALA LA TELA

Poi Tyltyl, accarezzando l'uccellino): TYLTYL Ti pare che sia abbastanza azzurro?... LA BAMBINA Si, sì, sono tanto contenta.... TYLTYL Io però ne ho veduti di quelli molto più azzurri.... Ma quelli che sono proprio azzurri, sai, per quanto si faccia, non si riesce a prenderli.... LA BAMBINA Non importa; questo qui è molto bello.... TYLTYL Gli hai dato da mangiare?... LA BAMBINA Non ancora.... Che cosa mangia?... TYLTYL Mangiai di tutto: grano, pane, orzo, cicale.... LA BAMBINA E come fa, dimmi, a mangiare?... TYLTYL Mangia col becco. Guarda, ora ti faccio vedere.... (sta per prendere l'uccello dalle mani della bambina; questa si oppone, istintivamente, e la tortorella, approfittando di quel momento, si libera dalla stretta e vola via). LA BAMBINA (gettando un grido disperato) Mamma ! Mamma! È fuggito via!... (Scoppia in singhiozzi). TYLTYL Non è niente.... Non piangere.... Lo riacchiapperò.... (Andando verso la ribalta e indirizzandosi al pubblico). Se qualcuno trovasse per caso l' Uccellino Azzurro, vorrebbe far il piacere di rendercelo?... Ne avremo bisogno un giorno per poter essere felici.... CALA LA TELA. FINE.

Ebbene, ne hai abbastanza, ormai?... Come vedi, qui non c'è nulla da fare.... TYLTYL Io devo veder tutto.... La Luce vuole.... LA NOTTE La Luce vuole così!... è facile a dirsi per chi ha paura e resta a casa!... TYLTYL Andiamo verso quest'altra porta. Che cosa c'è là dentro?... LA NOTTE Qua dentro stanno rinchiuse le Tenebre e i Terrori.... TYLTYL Si può aprire?... LA NOTTE Sì, certo.... Anch'essi, come le Malattie, sono tranquilli, ormai.... TYLTYL (schiudendo la porta con una certa diffidenza, e gettando uno sguardo nella caverna) Non c'è nessuno.... LA NOTTE (guardando essa pure dentro alla caverna) Ebbene, Tenebre, che cosa state facendo? Uscite per un momento: vi farà bene, vi scioglierà i muscoli.... E anche voi, Terrori.... Non abbiate paura.... (Alcune Tenebre e alcuni Terrori, sotto l'aspetto di persone velate, quelle con veli neri, questi con veli verdognoli, arrischiano timidamente qualche passo fuori della caverna; ma a un gesto appena abbozzato di Tyltyl, rientrano precipitosamente). Su, coraggio!... Non vedete che è un bambino?... Che male può farvi?... (A Tyltyl). Sono diventati costì timidi, tutti, meno i più grandi, quelli laggiù in fondo.... TYLTYL (guardando in fondo alla caverna) Dio! Mettono spavento a guardarli... LA NOTTE Sono incatenati.... Essi soli non hanno paura dell'Uomo.... Ma ora chiudi la porta; se no si arrabbiano.... TYLTYL (andando verso la porta appresso) Guarda!... Questa qui è ancora più cupa. Che cosa c'è qua dentro?... LA NOTTE Dietro a questa porta ci sono molti Segreti.... Se proprio ci tieni, puoi aprirla.... Ma ti consiglio di non entrare.... Sii prudente; e noi, teniamoci pronti a richiuderla presto, come abbiamo fatto per le Guerre.... TYLTYL (schiudendo la porta con infinita precauzione, e inoltrando timidamente il capo attraverso lo spiraglio) Oh!... Che freddo?... Mi frizzano gli occhi!.... Presto, chiudete!... Spingete forte!... Fanno forza dal di dentro contro la porta... (La, Notte, il Cane, la Gatta e lo Zucchero chiudono a forza la porta). Oh che cosa ho visto!... LA NOTTE Che cosa? TYLTYL (sconvolto) Non so, ma metteva spavento!... Stavano lì seduti come tanti mostri senza occhi.... Chi era il gigante che voleva acciuffarmi?... LA NOTTE Probabilmente era, il Silenzio; ce l' ha lui in custodia questa porta.... Ma era dunque tanto spaventoso a vedersi?... Sei ancora pallido e tremi tutto.... TYLTYL Sì. Non avrei mai creduto.... Ho le mani gelate.... LA NOTTE Vedrai qualcosa di ancora più terribile se ti ostini a voler andare avanti.... TYLTYL (andando alla porta accanto) E dietro a questa?... Ci sarà qualcosa altrettanto orribile?... LA NOTTE No.... Qui c'è un po' di tutto.... Ci metto le Stelle disoccupate, i miei profumi personali, alcune Luci di mia particolare proprietà, come i Fuochi fatui, le Lucciole.... Ci rinchiudo dentro anche la Rugiada e il Canto degli Usignoli.... TYLTYL Ah, le Stelle, il Canto degli Usignoli!... Dev'essere proprio questa.... LA NOTTE Apri, apri pure, se vuoi.... Tutte cose innocue.... (Tyltyl spalanca la porta. Le Stelle, sotto l'aspetto di belle giovinette velate da luci multicolori, fuggono subito fuori dalla loro prigione; corrono qua e là per la sala e formano sui gradini e intorno alle colonne dei graziosi girotondi rischiarati da una specie di penombra luminosa. I Profumi della Notte, quasi invisibili, i Fuochi fatui, le Lucciole, la Rugiada trasparente si uniscono ad esse, mentre il Canto degli Usignoli, uscendo a fiotti dalla caverna, inonda il palazzo della Notte). MYTYL (entusiasmata, battendo le mani) Oh! Che belle signore!... TYLTYL E come ballano bene!... MYTYL E come sono profumate!... MAURICE MAETERLINK. - L'Uccellino Azzurro. 7 TYLTYL E come cantano bene!... MYTYL Chi sono quelli laggiù che si vedono appena?... LA NOTTE Sono i Profumi della mia ombra.... TYLTYL E quegli altri che sembrano fatti di vetro filato?... LA NOTTE Sono le Rugiade delle foreste e delle pianure.... Ma ora basta. Non la smetterebbero più!... Se sapeste che fatica ai farli rientrare là dentro, se fanno tanto di cominciare a ballare!... (Battendo insieme le mani). Via, presto, voialtre Stelle!... Non è il momento, ora, di ballare.... Il cielo è coperto, grossi nuvoloni appaiono qua e là.... Via, sbrigatevi, rientrate tutte, altrimenti chiamo un raggio di sole.... (Le Stelle, i Profumi, ecc. fuggono via spaventati e si precipitano nella caverna la cui porta si richiude dietro di loro. Intanto cessa anche il Canto degli Usignoli). TYLTYL (andando verso la porta di fondo) Eccoci al grande portone centrale.... LA NOTTE (con accento solenne) Non aprirlo!... TYLTYL Perchè?... LA NOTTE Perchè è proibito. TYLTYL Allora è segno che là dentro c'è l'Uccellino Azzurro.... La Luce me l'aveva detto.... LA NOTTE (maternamente) Ascoltami, bambino mio.... Sono stata finora buona e compiacente.... Ho fatto per te quello che non avevo mai fatto per nessuno.... Ti ho rivelato tutti i miei segreti.... Ti voglio bene, sento pietà per la tua giovinezza, per la tua innocenza, e ti parlo come ti parlerebbe una madre.... Ascoltami, dàmmi retta, bambino mio; rinunziaci, non andare più oltre, non tentare il Destino, non aprire quella porta!... TYLTYL (un poco scosso) Ma perchè?... LA NOTTE Perchè voglio salvarti.... Perchè nessuno, intendi, nessuno di coloro che hanno osato di socchiuderla, appena appena, foss'anche per lo spessore di un capello, è ritornato vivo alla luce del giorno.... Perchè tutto quello che si può imaginare di più spaventoso, tutte le peggiori angoscie, tutti gli orrori di cui si parla nel mondo, sono un nulla in paragone a ciò che di meno terribile assale l'uomo non appena il suo sguardo si affissa sull'orlo di quell'abisso al quale nessuno osa dare un nome.... Tanto che io stessa, vedi, se tu nonostante tutto ti ostinassi a voler aprire quella porta, io stessa dovrei pregarti di aspettare finchè io fossi al riparo dentro alla mia torre senza finestre.... E ora rifletti, decidi tu.... (Mytyl, tutta in lacrime, getta urli di terrore cercando di trascinare via con sè Tyltyl). IL PANE (battendo i denti dalla paura) Non aprite, non aprite, padroncino caro! (Gettandosi in ginocchio). Abbiate pietà di noi!... Ve lo chiedo in ginocchio.... La Notte ha ragione.... LA GATTA State per sacrificare la vita di noi tutti.... TYLTYL È inutile.... Debbo aprire quella porta!... MYTYL (singhiozzando e pestando i piedi) Non voglio!... Non voglio!... TYLTYL Voi, Zucchero e Pane, prendete Mytyl per la mano e scappate con lei.... Ora apro LA NOTTE Si salvi chi può!... Presto!... Presto!... (Fugge). IL PANE (fuggendo smarrito) Aspettate almeno finchè siamo arrivati in fondo alla sala.... LA GATTA (fuggendo anch'essa) Aspettate! Aspettate!... (Si nascondono entrambi dietro alle colonne, dalla parte opposta della sala. Tyltyl resta solo col Cane, presso la porta monumentale). IL CANE (affannosamente, pieno di terrore contenuto) Io rimango.... rimango con te.... Non ho paura, io.... Io rimango!... Rimango vicino al mio piccolo dio.... Io rimango! Io rimango!... TYLTYL (accarezzando il Cane) Bravo, Tylô, bravo.... Qua, un bacio.... Siamo in due.... E ora, in guardia!... (Introduce la chiave nella serratura. Un urlo di terrore parte dal punto opposto della sala, dove si sono rifugiati quelli che sono fuggiti. Non appena la chiave ha toccato la porta, i grandi battenti si aprono nel mezzo, scorrono lateralmente e spariscono a destra e a sinistra, nella grossezza del muro, scoprendo a un tratto, immerso nella luce notturna, un maraviglioso, irreale, sconfinato giardino di sogno nel quale, fra le stelle e i pianeti, dei fantastici uccellini azzurri, illuminando tutto ciò che toccano, volando senza posa di pietra in pietra, da un raggio di luna all'altro, fanno perpetue armoniose evoluzioni fino agli estremi confini dell'orizzonte. Sono innumerevoli, e paiono essi il soffio, l'azzurra atmosfera, l'essenza stessa del giardino maraviglioso. Tyltyl, abbagliato, sperduto, immerso nella luce che emana dal giardino). Oh!... il cielo!... (volgendosi agli altri che erano fuggiti). Venite!... Venite!... Eccoli!... Son loro! Son loro! Son loro!... Finalmente!... Migliaia di uccellini azzurri!... Milioni!... Miliardi!... Troppi!... Vieni, Mytyl!... Vieni, Tylô! Venite tutti!... Aiutatemi! (Gettandosi fra gli uccellini). Si possono prendere con le mani!... Non sono selvatici, no.... Non hanno paura di noi!... Venite qua! Venite qua!... (Mytyl e gli altri accorrono. Entrano tutti, meno la Notte e la Gatta, nel giardino maraviglioso). Guardateli!.... Son troppi.... Vengono sulle mani!... Guardate, si nutrono di raggi di luna?... Dove sei, Mytyl?... Ci sono tante ali azzurre, tante piume in giro, che non ci si vede più.... Non morderli, Tylô!... Non far loro male!... Prendili piano piano.... MYTYL (tutta circondata da uccellini azzurri) Ne ho già presi sette!... Oh, come sbattono le ali!... Non posso, teneteli.... TYLTYL Nè anch'io!... Ne ho troppi!... Volano via!.. Tornano!... Anche Tylô ne ha presi!... Ci portano in alto con loro.... Ci portano in cielo!... Vieni, usciamo da questa parte!... La Luce ci aspetta.... Come sarà contentai... Venite di qua, di qua.... (Fuggono via dal giardino, le mani piene d'uccellini che si dibattono, e attraversando la sala in una confusione di ali azzurre escono a destra, da dov'erano prima entrati, seguìti dal Pane e dallo Zucchero i quali, soli fra tutti, non hanno preso neanche un uccellino. La Notte e la Gatta, rimaste sole, risalgono verso il fondo, guardando ansiosamente verso il giardino). LA NOTTE Non l'hanno mica preso, spero?... LA GATTA No, lo vedo lassù, su quel raggio di luna.... Non hanno potuto raggiungere, era troppo in alto.... (Cala la tela. Subito dopo, davanti al sipario calato, entrano simultaneamente, da destra la Luce, e da sinistra Tyltyl, Mytyl e il Cane, tutti quasi nascosti sotto gli uccellini che hanno preso. Ma questi appaiono giù inanimati, e, il capo penzoloni e le ali spezzate, non sono più nelle loro mani se non delle spoglie inerti). LA LUCE Dunque, lo avete preso?... TYLTYL Sì, Sì ! E non uno solo!... Ce n'erano a migliaia!... Eccoli!... Guarda!... (Guarda gli uccellini, nell'atto di porgerli alla Luce, e si accorge che sono morti). O Dio! Sono morti.... Come mai?... Anche i tuoi, Mytyl?... Anche quelli che ha, preso Tylô!... (Gettando con collera in terra i cadaveri degli uccellini). Ah no, è una cosa terribile!... Chi li hai uccisi?... Oh, come sono infelice!... (Si nasconde la testa col braccio, e scoppia in singhiozzi). LA LUCE (stringendolo maternamente fra le braccia) Non piangere, bambino mio.... Tu, non avevi preso l'uccellino che può vivere alla luce del giorno.... Quello era volato via, chi sa dove.... Ma lo ritroveremo!... IL CANE (guardando gli uccellini morti) Mi permetti di mangiarli?... (Escono tutti da sinistra).

Quell'estate al castello

213709
Solinas Donghi, Beatrice 9 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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Qui tirai fuori la mia scoperta: - In fondo dev'essere un tipo abbastanza umoristico. - Oh sí: specialmente per mortificarmi, è di un umorismo che non ti dico. Il colmo dello spirito e della simpatia, proprio - . Naturalmente si capiva benissimo che pensava tutto il contrario. Di botto fece: - Ma non parliamone qui, vieni su in camera mia. In camera fece dietro - front e mi guardò fissa negli occhi. - Voglio dirti una cosa. Te la dico perché sei mia amica, ma guarda che è un segreto. C'era davvero, allora, il segreto o mistero. Mi pareva bene. - E tu dilla. - Non la ripeterai a nessuno? - Certo che no. - Ebbene, ecco: io mio zio non lo posso soffrire. Né lui né la zia. Tutto qui? Non lo trovavo per niente un segreto interessante, anzi mi dava persino un po' fastidio. - Ma dài! - dissi soltanto. Non mi veniva in mente altro. - Parlo sul serio. Ho le mie buone ragioni, sai. Strano: non mi venne nemmeno la curiosità di domandarle quali fossero queste ragioni. Anzi non volevo saperne niente, come se avessi paura di scoprire qualcosa che potesse rovinarmi la vacanza. Di nuovo mi sembrò che quella tale farfalla mi toccasse con la punta delle ali. Un tocco leggero leggero; freddino, però. Cosí - Oh, piantiamola adesso con questi discorsi! - Proprio a muso duro, tanto che mi riuscí di bloccarla, almeno per il momento. - Fammi sentire un disco, piuttosto. Difatti il grammofono portatile mi faceva voglia, era una cosa abbastanza di lusso allora e solo un'altra ragazza in classe nostra l'aveva, a parte Ippolita. Ascoltando dischi ci siamo messe a parlar d'altro e dopo un po' fu quasi come se non fosse successo niente. Però al trovatore e alla dama non abbiamo piú giocato, dopo quel primo giorno.

Ormai ero abbastanza vicina al buco profondo e buio che era l'apertura del condotto. Mi catapultai avanti slittando di qua e di là senza piú farci caso, buttai le braccia con pila e tutto dentro a quel buco, trovai qualcosa di vivo che rideva rannicchiato lí dentro e lo tirai fuori con uno strappo, cosi che piombò in piedi nell'acqua vicino a me, facendo uno splaf gigante che mi schizzò fino agli occhi. Ed era Ippolita in stivali di gomma, che continuava a ridere col singhiozzo e diceva: - Come eri bu-u-uffa! Quando hai detto «gridando uh accipicchia», oh che bu-u-uffa eri! Prima cosa, le mollai uno schiaffone, dicendo: - Potevi ben rispondermi, stupida! Ed ecco che mi si mette a piangere come una fontana. Finalmente, pensai. Era proprio ora che piangesse. Però da un lato mi rincresceva che lo facesse per causa mia. Non l'avevo mica picchiata con malanimo, io; solo per il nervoso della paura che avevo patita. Le dissi di smetterla, che se no cresceva il livello dell'acqua e rischiavamo di annegare tutt'e due. Ricominciò a ridere col singhiozzo, e il momento dopo, giú di nuovo a piangere a cateratte. Insomma, proprio una bella scena. Andando avanti di questo passo il groppo che aveva sul cuore non ci avrebbe messo molto a sciogliersi, però mi sembrava inutile aspettare che succedesse proprio lí sottoterra e con l'acqua a mezza gamba. Cominciai a tirarmela dietro e lei a seguirmi senza fare resistenza. Siamo uscite fuori dal serbatoio, e poi dalla grotta, un po' ridendo e un po' piangendo, slittando da tutte le parti, sventolando le braccia e le pile (anche Ippolita aveva portato la sua) per mantenere l'equilibrio, cosí che i tondini di luce saltavano qua e là come se anche loro avessero perso completamente la tramontana. Non so che cosa ne pensassero i pipistrelli. Chi se ne ricordava più, dei pipistrelli. Non so nemmeno se si facessero di nuovo vedere; magari davanti all'invasione di queste due pazze scatenate che sventolavano tondini di luce dappertutto, avran pensato che fosse piú prudente starsene quatti nei nascondigli della volta. Al chiaro del giorno ci siamo riviste in faccia. Eravamo uno spettacolo: bagnate, spettinate, infangate fino in cima agli stivali e piene di freghi verdicci e marroncini dove gli schizzi di quell'acqua puzzolente avevano lasciato il segno. Cosí come eravamo siamo subito risalite al castello, dove nel frattempo gli zii erano tornati dal cercare Ippolita in su e aspettavano, friggendo, che tornasse Remigio dal cercarla in giú. Le feste che ci hanno fatto non si possono ridire. E anche la Vittorina e l'Adele, che appena ci sentirono (e non era una cosa difficile, perché eravamo rientrate cantando Suoni la tromba a squarciagola) non si sarebbe riusciti a trattenerle in cucina nemmeno con le catene. E anche Remigio, quando tornò sbuffando per la salita. Mi buscai un sacco di baci e di abbracci, anche dalla contessa, che piangeva addirittura mentre me li dava; ma quel che mi fece piú piacere fu di sentirmi dire da Remigio: - Però, che brava! alla seconda volta l'ha proprio indovinata lei -. Mi ci voleva, questa soddisfazione, dopo che mi ero tanto mortificata quando invece non l'avevo indovinata affatto. Le feste, come si vede, non erano mica solo per Ippolita ritrovata sana e salva. Anche per me, ex vipera, ex verme, ma ora amica eroica, che era andata a salvarla nel centro della terra. Be', quasi.

Io adesso con la Vittorina ci avevo abbastanza confidenza, non era piú come ai primi giorni, quando mi faceva soggezione per via della sua divisa da cameriera inappuntabile, col grembiule bianco coi pizzi e tutto. Quel discorso del groppo sul cuore me lo fece per l'appunto in confidenza, la mattina dopo in camera mia. Non era una ragazza che avesse studiato e magari non era nemmeno tanto intelligente («quella mente acuta di Vittorina», diceva certe volte il conte, per far capire che pensava il contrario); però in questo aveva proprio ragione, secondo me.

Lei faceva la disinvolta ma cominciava a stare abbastanza sulle spine. Il carabiniere era poi un appuntato: un tizio giovane giovane, roseo come un bebé. Mica stupido, però, come presto si sarebbe veduto. Prima cosa, anche lui le domandò: - Come ti chiami? - Rosabella Rosamini - . Ormai era in ballo e non poteva rispondere diversamente. - Dove hai detto di voler andare? - A Parigi, a raggiungere mia madre che abita là. - Lo sai che ci vuole il passaporto, per andare in Francia? - Ce l'ho. Lo tirò fuori trionfalmente dalla borsetta, brava polla. Cosí l'appuntato ebbe solo da aprirlo per conoscere il suo nome vero. Un'altra cosa che Ippolita non aveva pensato era che anche a X quel nome, cioè quel cognome, che naturalmente era lo stesso degli zii, doveva per forza essere abbastanza conosciuto. Ci andavano per far compere di vestiario, per il dentista, e tante altre cose. I carabinieri poi, nemmeno a farlo apposta, li conoscevano di persona per via di un furto che c'era stato al castello l'anno prima. Dunque l'appuntato, leggendo il cognome sul passaporto, capí subito di chi era parente. Lei voleva continuare a fingere; ma niente da fare. La fuga era fallita, l'avventura finita. Si sarebbe messa a piangere ben volentieri, se non fosse stato per non dare soddisfazione alla gente che stava a guardare, compreso l'impiegato coi baffi. Stava con la testa piú alta che mai, per non rischiare che le colassero le lacrime. Quelle persone devono aver pensato che era una gran superba, oppure una delinquente incallita. Insomma l'appuntato la accompagnò al comando. Là anche il maresciallo guardò il suo passaporto e fece qualche domanda; poi telefonò al castello, come già detto. Torniamoci, al castello, per vedere cosa successe dopo la telefonata. Intanto successe che, dieci minuti dopo, Remigio era pronto con l'automobile davanti al portone. (Quello davanti, si sa.) Lo zio, pure. La zia, pronta anche lei, inappuntabile con cappellino e borsetta, perché aveva deciso di accompagnarlo. Io ciondolavo lí nei dintorni, senza perderli di vista. Li vidi entrare nell'auto. Un momento ancora, il tempo che Remigio chiudesse la portiera e tornasse al volante, e sarebbero partiti. Di botto sentii che mi tornava su un coraggio proprio eroico e mi infilai dietro a loro. - Vengo anch'io, - dissi, a muso duro. Era importante che la povera prigioniera, nel momento d'essere riacchiappata dai suoi aguzzini, avesse accanto almeno una persona che teneva dalla sua parte. Lo zio mi guardò un po' male. La zia invece disse: - Si, forse sarà meglio - . Sottovoce aggiunse: - Almeno con lei la bambina potrà sfogarsi, se... se ne avesse bisogno. Con noi non lo farebbe mai. Dal tono sembrava amareggiata. Quasi quasi mi faceva di nuovo pena. Ma cosa mi prendeva, di aver sempre pena della aguzzina della mia migliore amica? Parlottò ancora un po' col marito, sempre molto sottovoce. Capivo solo pissi pissi pissi, e sí che ero seduta di fronte, su una specie di sgabellino ripiegabile che si tirava giú quando serviva. (Non ce n'è piú di sgabellini nelle auto di adesso. Questa era molto bella, dentro, come un salottino tutto foderato di velluto. C'era perfino un vasetto smilzo smilzo per metterci dei fiori. Remigio però oggi non li aveva messi, non aveva avuto il tempo di pensarci.) A un certo punto la zia disse, un po' piú forte: - Ma perché? Non capisco che cosa avesse in mente, ecco: dato che ancora non sa, non c'era ragione di... Non me lo spiegavo tanto, questo discorso. Che cos'era che non sapeva ancora, Ippolita? Che cosa c'era, da sapere o non sapere? Mi uscí subito di testa, perché adesso la contessa si era messa a guardarmi e a me quasi mi prendeva un colpo di accidente pensando a tutte le domande imbarazzanti che poteva farmi. La domanda venne. - Senti, cara. Ippolita ti aveva forse detto qualcosa che potesse far pensare a... a questa scappata? Cielo aiutami. Cercai di tenermi nel vago. - Mah, ecco, cosí, era triste di aver la mamma lontana... Era già una risposta compromettente? D'altra parte, meno di cosí non potevo dire. Per fortuna la zia sembrò che se ne accontentasse, almeno per il momento. Strano ma vero: non aveva l'aria di sospettare di me. Nessuno disse piú niente. L'auto filava. Tutto restava indietro in un baleno, alberi, case, pali del telegrafo. Era una mattinata di un bello! le nuvolette come fiocchi di panna montata, le foglie verdi lustre che brillavano al sole. Da piangere, a pensare come ci toccava passarla male. Avrei voluto non arrivare mai. Mi ero figurata che al comando dei carabinieri dovesse esserci come una cella, magari con delle sbarre, per chiuderci i delinquenti. Invece a vederlo cosí era un ufficio come gli altri. Forse la cella era da un'altra parte (nei sotterranei?) con Ippolita chiusa dentro. Difatti lí nell'ufficio non c'era. Il maresciallo era un omone tagliato senza risparmio che batteva qualcosa a macchina pestando sui tasti con due manone come prosciutti. Smise di battere per venirci incontro, cioè venne incontro ai signori conti, io non c'entravo. Però vide che c'ero, infatti dopo i saluti domandò: - E questa ragazzina? - Una amica di nostra nipote. - Ah, bene. Anche lui doveva aver afferrato al volo che era meglio che ci fossi, caso mai Ippolita facesse delle difficoltà. Mi lasciarono in disparte parlottando fra loro tre, di nuovo pissi pissi pissi, uffa che barba. Anche l'appuntato era in disparte impalato vicino a una porta, e magari si annoiava pure lui. Avevo persino voglia di attaccare discorso, sarebbe stato giusto che ci facessimo compagnia tra noi due, dato che gli altri ci mettevano al bando. Ma forse non avrebbe risposto, per via della disciplina. - Se vogliono passare di là, - disse dopo un momento il maresciallo e l'appuntato apri la porta. Proprio allora, guarda il destino, entrò nell'ufficio un tizio scalmanato che aveva da denunciare qualcuno o qualcosa. Che cosa, o chi, non l'ho mai saputo di preciso, perché era una storia complicata. C'entravano certi vicini, un cane, anzi due cani e anche delle galline, sembrava l'arca di Noè. Il maresciallo tornò a dirci di passare. Si capiva che voleva venire di là con noi, ma quel tale era un tremendo attaccabottoni e non lo mollava. Era inutile dirgli che i signori conti c'erano da prima: lui non rispettava nessun conte e nessuna precedenza. Continuava a ripetere: - Lei ce lo deve dire, maresciallo, a quegli altri là! - Quegli altri là erano i vicini. E diceva anche: - Se mi velenano il mio, - (di cane), - io ci veleno il loro! Questa è giustizia! Anzi diceva giustissia, con due esse. Aveva la bava alla bocca, non c'era verso di calmarlo né di interromperlo. Allora disse, il maresciallo: - Entrino, prego Li raggiungo subito. Io pensavo che certo, nel mentre che dava retta all'attaccabottoni, avrebbe mandato l'appuntato a prendere Ippolita nella cella o in qualsiasi altro posto fosse. Insomma siamo passati di là, i conti e io, senza altro accompagnamento. C'era come una specie di sala d'aspetto, divisa a metà da una panca di legno scuro con lo schienale molto alto. Non c'era altro mobile, almeno nella metà che si vedeva. L'altra era nascosta dallo schienale della panca. (È importante spiegare bene tutto, se no dopo non si capisce.) Il conte andò a mettersi davanti a una finestra che c'era nella metà visibile. Mica che guardasse fuori; si tirava solo i baffi, con aria seccata. Sua moglie si sedette in punta alla panca. L'aria che aveva lei, era di star pensando a tutte le persone poco fini, come dire delinquenti e parenti di delinquenti, che potevano essersi sedute in quel medesimo punto; e di averne un grandissimo ribrezzo. - Non me lo sarei mai aspettato, - cominciò infatti a dire, - di dover venire a cercare una mia nipote in un posto simile. Non me lo aspettavo proprio da Ippolita, che ci costringesse a questo. Una simile ingratitudine! Ingratitudine, ah questa poi. Si aspettava che le fosse anche riconoscente, dopo i bei trattamenti che le aveva fatto? Era tanto grossa che scoppiai fuori quasi senza accorgermene: - Be', ma è colpa loro, in fondo! Non capirono; o facevano finta. - Loro... di chi? Mi feci piccola piccola: - Be', vostra. Subito dopo avrei voluto scomparire, essere inghiottita dal pavimento, qualsiasi cosa. Mi guardavano, tutt'e due, come se fosse stata la panca a mettersi a parlare e per di piú avesse detto chissà quale enormità. - Prego? - fece il conte, molto dall'alto in basso. Da congelarmi sul posto. E lei, idem: - Che cosa vuoi dire? spiegati. Congelata o no, ormai dovevo andare avanti per forza. - c'è la faccenda delle lettere, - dissi, sulla difensiva. - Naturale che Ippolita l'abbia presa male. - Lettere? - Pareva proprio che cascassero dalle nuvole. - Quelle di sua madre, no? - Ero tutta sudata, ma zitta non stavo, nossignori. - È tanto ormai che non ne riceve. E sarebbe colpa nostra? - fece il conte. - Be', per forza. Chi altri potrebbe avergliele nascoste? Era detta. Calò un silenzio da affettare col coltello. La contessa pareva diventata una statua. Poi strinse le mani sul manico della borsetta - forse aveva voglia di tirarmela in testa - e disse queste precise parole: - Piccola vipera! Fu la prima e l'ultima volta in vita mia che mi beccai questo titolo. Mica male, per una che aveva fin la stufa di passare sempre da brava ragazza giudiziosa! Non si fermò qui. Continuava che era una bellezza. - Osi insinuare che saremmo capaci di sottrarre delle lettere destinate a nostra nipote? di tenergliele nascoste, sapendo con che ansia le aspetta? Ma come ti è potuto venire in mente? Mai, tientelo per detto, mai, mai mio marito o io faremmo una cosa simile! Con ogni mai dava uno scrollone alla borsetta, da tanto parlava con convinzione. Di botto mi venne un pensiero terribile, cioè che probabilmente stava dicendo la pura verità. Suo marito invece non diceva niente. Mi guardava soltanto, tra compassionevole e schifato; ma più schifato, almeno mi pareva. Come se non fossi nemmeno una vipera, solo un miserabile verme. - Ma allora, - balbettai, sentendomi verme, - le lettere che non arrivavano... Se non erano stati loro a farle sparire, forse non era nemmeno vero che fossero degli aguzzini e Ippolita loro prigioniera. E allora che cosa venivo ad essere io, per averlo pensato? Risposta: un verme. Stavolta parlò lui: - Non arrivavano, perché sua madre ultimamente non gliene ha scritte. Poi lei, a ruota: - Aveva delle difficoltà a farlo. Ha scritto a me, ieri, pregandomi di preparare Ippolita a... a quello che aveva da comunicarle - . (La busta crema. Era questo, allora, che c'era dentro.) - Ma la bambina è tanto chiusa, con noi... È cosí difficile trovare il modo giusto per parlarle... Pareva che le venisse da piangere. Capii in un lampo che, altro che aguzzina, era una pasta di donna, questa qui, anche se era un'aristocratica. Capii, cioè, che io e Ippolita non avevamo capito niente: era tutto più meno all'incontrario di come ci eravamo figurate. - Non solo il modo, anche il momento, - proseguÍ, rimestando nella borsa per cercare il fazzoletto. - Ieri non c'era verso, nemmeno a farlo apposta eravate sempre insieme, ancora più del solito -. Mi ricordai di come aveva cercato di separarci per la passeggiata e non c'era riuscita. - Volevo dirglielo stamattina, ma lei era già andata via... Allora, per un momento, ho persino pensato che... ho avuto paura che l'avesse saputo, chissà in che modo, e fosse scappata per il dispiacere. Assurdo: perché non poteva ancora esserne a conoscenza, naturalmente. - Ma essere a conoscenza di cosa? Crepavo, a questo punto, se non me lo diceva. - Ma si, è bene che anche tu lo sappia. Sei cosí una buona amica, per Ippolita. Dunque non ero già più una vipera. Questo mi avrebbe fatto sentire ancora piú verme, se non fossi stata tanto occupata a crepare di curiosità. - Il fatto è, - concluse, - che a New York sua madre si è risposata. Rimasi un po' lí. Cosí sul momento non mi sembrava una notizia tanto tragica, da dover fare dei preparativi speciali prima di decidersi a darla. Dipende dai casi, si sa. Certo che a me sarebbe dispiaciuto da matti, se la mia mamma da un giorno all'altro avesse sposato uno che non fosse mio papà. Non riuscivo nemmeno a figurarmela, una cosa simile. Ma avevo già visto che Ippolita in questo non ragionava proprio come me. - Forse non le rincrescerà tanto, - dissi, ottimista. - Per lei sua madre ha sempre ragione. Basta che possano tornare a stare insieme, poi... - Ma non capisci. È proprio questo il punto. In pratica, risposandosi, mia cognata (la mia ex cognata, ormai) rinuncia a tenerla con sé. - Non solo in pratica, Augusta, - precisò il conte. - Fa differenza anche di fronte alla legge, se interviene un secondo matrimonio. In quel preciso momento... Ossignoresignoresignore, se ci penso mi viene ancora male. Sentii un rumore, un movimento dietro lo schienale, nel punto dove stavo appoggiata. Poi, proprio sopra di me, una voce sottile fece: - Non è vero! Scattai su come se avessi preso la scossa e sopra lo schienale della panca vidi la testa di Ippolita. La testa sola, collo compreso. La faccia grigia, da tanto che era pallida. E quella faccia continuava a dire, sempre con lo stesso vocino sottile, da non riconoscerlo per suo: - Non è vero! Non può essere vero! La mia mamma non può avermi fatto questo! Ci misi un momento a capire come era andata la faccenda.

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E anch'io, vedendo che Remigio stentava abbastanza a smuoverla, mi ricordai che quel giorno non ce l'avevamo fatta in due, dunque lei come poteva essersi infilata lí sotto da sola? Tant'è, allungavo il collo lo stesso, come se mi aspettassi di vedere chissà cosa. La cassetta del tesoro? Lo scheletro luuungo che aveva detto Ippolita, mettendoci tutti quegli u per fare la voce píú lugubre? Non c'era niente. Né Ippolita né altro, solo polvere e fiaschi vecchi. Ci siamo guardati in faccia tutti e quattro. Quattro facce che tiravano al verde, per via delle ragnatele del finestrino; ma la mia in quel momento deve essere diventata di tutti i colori, dalla vergogna. Che figura, che figura! Remigio aveva una pila e si prese il gusto di illuminare ben bene la buca in tutti gli angoli prima di farmi, tutto trionfante: - L'avevo ben detto! Andò già bene che i conti avessero troppa fretta di riguadagnare il tempo perduto per occuparsi ancora di me. Mentre tornavamo di sopra li sentivo parlare tra loro, decidendo il da farsi. Non capivo bene, perché filavo avanti per togliermi dai piedi al più presto possibile, ma mi sembra che decidessero cosí: Remigio doveva scendere lo stradone in direzione del paese con la sua bicicletta, mentre dall'altra parte, dove era tutta salita, sarebbero andati gli zii con l'automobile, che la sapeva guidare anche il conte, solo che non lo faceva quasi mai perché non gli piaceva. Beninteso che questa volta non mi sono accodata. Anzi, non mi preoccupavo d'altro che di sparire senza farmi notare. Cosí tornai in sala da pranzo. Non avevo appetito, ma rosicchiai qua e là qualcosa di quel che c'era sulla tavola, senza quasi sapere quel che facevo, tanto ero soprappensiero. Difatti mi stava baluginando un'idea. Non sapevo quale, perché non si lasciava acchiappare. Baluginava e basta, lontana e confusa, uso lumicino nella nebbia. Capii che se volevo vederci più chiaro dovevo ricapitolare tutto da capo, come quando si studia una lezione difficile. E dunque, ricapitolando: Ippolita, prima ancora di sapere che sarebbe stata infelice per quel brutto scherzo di sua madre di risposarsi senza dirle né ahi né bai, aveva parlato di rifugiarsi in un buco senza luce; però in quello della cantina non c'era. Bene, cioè male. Ma con ciò? Mica era l'unico buco, qui al castello. C'era per esempio la grotta nel muraglione in fondo al parco. Non quella delle statue rotte; quella non era un buco. L'altra con la vasca, o quel che era, il serbatoio d'acqua sotterraneo. E al di là dell'acqua c'era il condotto (o cunicolo) che serviva nei tempi andati per farla passare fino alla fontana della prima grotta. Era il cunicolo, il super- buco-nero. Una tana cosí rintanata che a ficcarsi lí dentro c'era da pensare sul serio di poter dimenticare tutto, dispiaceri, ricordi, tutto quanto. Ci aveva pensato, Ippolita? Mi sarei morsa la lingua in due piuttosto che parlarne a qualcuno. Coccodé coccodé, come una gallina che ha fatto l'uovo, e poi farmi ridere di nuovo dietro perché magari anche là non c'era niente? Grazie tante, stavolta non ci cascavo. Zitta e quatta me ne andai a cercare gli stivali di gomma al loro posto nell'armadio dell'ingresso. Non c'era nessuno in giro, avevo via libera. Remigio era partito con la sua bici, gli zii con l'auto, le donne dovevano essere ancora in cucina a fare insieme i loro commenti. Di stivali, nell'armadio, ce n'era un paio solo. Mancavano quelli di Ippolita, eppure era bel tempo, non era giornata da uscire con gli stivali. Il cuore mi fece una capriola. Adesso ero quasi sicura. Remigio aveva lasciato la pila sulla consòl. Presi anche quella e tirai giú diritta per il parco, prendendo tutti i viali in discesa e le scorciatoie fatte a scaletta. Cinque minuti dopo ero all'imboccatura della grotta. Mi ero dimenticata dei pipistrelli, cosí che sono entrata dentro a catapulta, chiamando forte «Ippolita, Ippolita». Non so dove si nascondessero, m'immagino negli angoli più bui, ma a sentir gridare a quel modo uscirono fuori tutti. Mi volteggiavano intorno a zigzag, quasi toccandomi con le punte delle ali, tanto che mi dimenticai che in genere non mi facevano impressione e tornai fuori strillando, ancora piú a catapulta di come c'ero entrata. Avevo una gran voglia di rinunciare, però mi vergognavo. Ormai dovevo proprio farla, la parte dell'amica eroica, non c'era scampo. Aspettai fuori soltanto un po' di tempo, per dare agli idem-come-sopra il tempo di calmarsi, poi strinsi i denti e tornai dentro. Gli idem-come-sopra svolazzavano ancora, ma piú radi. Parevano quei brandelli di foglie o di carta bruciata che volano per aria quando si fa un falò. Dopo il gomito della galleria cominciò il buio e non li vidi piú. Non che fosse tanto consolante, non vederli e sapere che c'erano. Andai avanti, pregando in cuor mio tutti i santi del paradiso e tenendo la pila voltata in giú per non irritarli. (I pipistrelli, mica i santi.) Faceva il solito freddino da catacomba, infatti sentivo pizzicare la pelle delle braccia e del collo. Sciac sciac, i passi. Tututún tututún, il cuore. Tutto come quella volta della nostra prima esplorazione, ma molto peggio, perché adesso ero sola. Sola nelle catacombe coi pipistrelli, in cammino verso il centro della terra. Sembra un'esagerazione, ma era proprio cosí che mi sentivo. Mi fermai al solito muretto, che era poi la sponda del serbatoio, alzando adagio la pila per illuminare il buco del condotto dall'altra parte. Il raggio laggiú arrivava appena, non si vedeva altro che una macchia scura e confusa. - Ippolita, sei lí? Vieni fuori, dài! Risposta, nix. Non osavo chiamare piú forte per non scatenare di nuovo gli idem- come-sopra. In conclusione: o Ippolita non c'era, oppure, se c'era, dovevo andare io di persona a prenderla fin laggiú, attraverso tutta quell'acqua sotterranea, col suo odore di marcio. Non era affatto un bel pensiero. Mi calai con precauzione giú dalla sponda. Per fortuna l'acqua era abbastanza bassa, non mi arrivava nemmeno in cima agli stivali. Adesso i passi facevano splaf splaf. Andavo avanti molto adagio, perché c'era una roba viscida sul fondo che a ogni passo mi faceva slittare un po' . Davanti a me slittava sull'acqua il tondino di luce della pila. E intanto, come se non bastassero il buio e il silenzio e i pipistrelli e le catacombe e il centro della terra, mi venivano in mente le cose piú terrorizzanti, per esempio lo scheletro della botola (cioè quello che sotto la botola non c'era). Mi pareva di vederlo che arrivava a nuoto, bianco nell'acqua nera, con tutte le sue costole allineate. Brrr!! Adesso non dovete credere che fossi scema: lo sapevo bene che non esisteva, che me lo stavo inventando io. Però non me lo toglievo dalla mente. Per pensare a qualcosa di piú allegro ho persino provato a figurarmi il mio scheletro ricco col cilindro e glí anelli. Be', ci credete? laggiú al buio mi metteva paura anche lui. Non potevo mica continuare cosí. Impossibile. Provai a mettermi a cantare, per tirarmi su. La canzone della campagnola, prima; ma la voce non mi usci fuori per niente. Riattaccai con Suoni la tromba e questo andò meglio. Cantavo piú forte che potevo, impipandomene degli idem-come- sopra perché ormai avevo tanta di quella paura che pipistrello più, pipistrello meno non mi faceva proprio nessuna differenza.

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Si era messa una tovaglietta a trafori in testa, per fare da velo, e devo dire che come dama convinceva abbastanza. Io facevo ancora resistenza. - Guarda che non ci riesco, non son capace di cantare se intanto devo inventare le parole. - Fa niente, anche se declami va bene lo stesso, però fai plin plin ogni tanto, cosí figura che ti accompagni col liuto. Si mise in posizione giungendo le mani sulla balaustra e guardando in su con gli occhi sognanti, io imbracciai il liuto che non c'era e attaccai: - Plin plin, plon plon. O dama che da quel balcone... - ...verone... - ...che da quel verone spenzoli i tuoi codinzoli... - Scema! mi fai venir da ridere. Inventa qualcosa di piú medioevale. Riattaccai dal principio, dandomi piú slancio. - O dama che t'affacci al marmoreo verone e contempli le nuvole del cielo e gli ucc... e gli augelli erranti, deh abbassa lo sguardo... - ... plin plin... - ... plin plin, su me che ai piedi dell'eccelsa tua torre consumo le ore, plin plon plon, plon plon plin, in attesa di vederti apparire. Come il sole tu sorgi, o dama gloriosa.... Mi veniva proprio benino e ci stavo prendendo gusto, quando, patatrac! chi ti esce fuori come se niente fosse da un vialetto tra le siepi delle ortensie? Il conte Ottavio, che, si vede, aveva fatto anche lui un giretto nel parco invece della siesta. Il «plin plin» che avevo già pronto non mi usci piú. Rimasi cosí, a bocca aperta, immobilizzata nel gesto di suonare il liuto, come se giocassi alle belle statuine. Il conte tirò su fino in cima alla fronte un sopracciglio color sabbia e ghignò di nuovo sotto i baffi. Non mi ero sbagliata: aveva proprio una faccia umoristica. - Amabili diporti di gaie e sciocche pulzelle, - disse, parlando anche lui alla medioevale, ed entrò in casa. Avrei voluto sprofondare, non mi ero mai sentita cosí scema in vita mia, però un po' mi veniva anche da ridere. Ippolita era sparita dal verone, voglio dire dal balcone, e siccome non si faceva piú vedere entrai anch'io per cercarla. Cominciava allora a scendere, cosí che la incontrai sullo scalone. Era tutta tirata in faccia, come succede quando si è presa una grossissima arrabbiatura. Io non capivo

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Veramente, volendo andare per ordine, prima del postino con la lettera arrivò, alle nove e mezza precise, una tale abbastanza giovane con cappellino piccolo e tondo di paglia, borsa grande e quadrata pure quella di paglia, e i baffi. Non sarà gentile dirlo, però li aveva davvero. Niente di spettacoloso: due baffetti neri neri, ma piccoli. Era la signorina Elide Ricciarelli, una del paese, che veniva per far conversazione francese con Ippolita e farle ripassare il programma scolastico dell'anno. Tutti i santi giorni, veniva, fuorché le domeniche, e cosí tra francese e ripasso, le mattinate erano bell'e sistemate. Una barbarie, la chiamava Ippolita. Magari proprio una barbarie no, però una barba lo era di certo. Quasi quasi mi veniva da darle ragione; anch'io ce l'avrei avuta con gli zii, se mi avessero fatto passare le vacanze come le facevano passare a lei. Già, perché anche nel pomeriggio, qualsiasi cosa si facesse, passeggiata o altro, a una data ora non c'erano santi, doveva fare i compiti delle vacanze, una certa quota al giorno. Io mi meravigliavo: - Ma non sei stata promossa? Non dovresti essere in vacanza? - Loro dicono che è stata una promozione stentata, - (e in quanto a questo era vero, Ippolita, che da privatista aveva fatto faville, nella nostra scuola raggiungeva appena appena il sei, erano molto tirati allora nelle scuole pubbliche, anch'io del resto arrivavo al sette solo in italiano e storia, chiusa parentesi), - e dicono che devo prepararmi per fare meglio un altr'anno - . Poi era lei che si meravigliava: - Perché, a casa tua non li fate i compiti delle vacanze? - Ma sí, però ognuno se li amministra come crede. Io per esempio me li riservo per i giorni di pioggia. Mio fratello Franco quei pochi che fa li fa subito prima di tornare a scuola. - E nessuno gli dice niente? - Be', la mamma, un po', ma poi lascia correre. - Beati voi, - sospirava Ippolita. Però, mica per dar ragione ai suoi zii, ma bisogna dire che quando poi era libera dai compiti, certe volte sembrava che si annoiasse, piú che altro. Cominciava a scalpitare coi piedi e a sbuffare; anche per il caldo, questo è vero. (C'è da dire infatti che continuava a fare un gran caldo, la signorina Ricciarelli quando arrivava alle nove e mezza aveva già i baffi sudati.) Poi domandava: - Cosa facciamo? - come se dovessi pensarci soltanto io. Una volta mi domandò invece: - E voi cosa fate durante le vacanze? - Niente. Stiamo al fresco sotto la pergola e ci divertiamo a risolvere le parole incrociate e i rebi. - Rebi? - Plurale di rebus. Giochiamo anche alle carte; mia cugina Isa è terribile, vince sempre. Oppure ascoltiamo le canzoni e i ballabili alla radio, e li balliamo. - Con chi? - Con nessuno: cosí fra noi. Io poi leggo, se ho qualche libro che mi piace, ma Isa no, non ha pazienza. Facciamo i bagni nel fiume; ah, e andiamo per funghi, quando ce n'è. Cercavo di ricordarmi tutto perché vedevo che Ippolita pendeva dalle mie labbra come se quelle normalissime occupazioni estive di una famiglia normale fossero la cosa piú interessante di questo mondo. Non era la prima volta che mi accorgevo che me la invidiava: la famiglia normale, voglio dire. Poteva far persino rabbia, da parte di una che viveva in un castello, ma non mi arrabbiai perché ormai potevo anche capirla, dopo il fatto della lettera. Come stavo dicendo all'inizio, la lettera era arrivata proprio la prima mattina del mio soggiorno al castello (la seconda, se si conta il giorno dell'arrivo), mentre Ippolita era a lezione con la signorina Ricciarelli. Io mi ero messa in ingresso ad aspettare che finissero. Non ci stavo tanto bene; non ero ancora abituata a tutta quell'imponenza e quando ero sola ricominciavo a sentirmi strana, cioè piú piccola del normale, come ho già detto, ma con le mani troppo grandi e i piedi anche. Li storcevo, i piedi, in tutte le posizioni possibili, mi stiracchiavo le mani, però ero già contenta che non ci fosse nessuno a vedermi, perché meglio sola che male accompagnata. Infatti continuavano tutti a farmi una gran soggezione, domestici compresi, anzi quasi piú loro dei padroni. Eccole finalmente che scendevano lo scalone, la signorina davanti, tic tic tic sui sandali coi tacchi, poi Ippolita che dietro le sue spalle mi faceva il gesto della gran barba che ne aveva. In quel momento lo zio Ottavio mise fuori la testa dalla porta della biblioteca (d'ora innanzi li chiamerò zii anch'io, quando mi vien bene, tanto per semplificare). Salutò la signorina e disse a Ippolita, senza dar segno di aver visto, o no, il gesto della barba: - C'è posta per te. Lei diventò rossa trasparente, proprio come quando è mancata la luce e si accende una candela; allora, se si tiene una mano davanti alla fiamma, diventa precisamente di quel rosso lí. Si slanciò a prendere la lettera dal vassoio d'argento dove Remigio metteva la posta, ma appena data un'occhiata alla busta tutto il rosso della contentezza le andò giú. Le venne un faccino appuntito e come offeso, per la delusione, e spinse da parte la lettera senza aprirla. Non che la buttasse via, ma insomma eravamo quasi lí. Lo zio aveva visto quell'atto e notai che non sembrava niente contento. Non disse niente, però, e tornò a rimbucarsi in biblioteca. Intanto la signorina se ne andava, continuando a parlare fin sugli scalini del portone di non so che regole di latino che Ippolita doveva ripassare. Era una tipa cosí, se non ripeteva le cose almeno venti volte non era contenta. Rimaste sole noi due domandai: - Di chi è la lettera? - Di mio padre. - Ma... non la apri? - Poi la apro. Non mi tornava giusto che una figlia nel ricevere una lettera di suo padre dovesse fare quella faccia derelitta, tanto che mi scappò detto ancora: - Non sei contenta che ti abbia scritto? - Ma sí, ma sí. Lui però scrive abbastanza sovente. Invece da mia madre è un po' che... Insomma, speravo che fosse di mia madre, ecco tutto. - Magari avrà messo il suo foglio nella stessa busta, - dico io, ottimista. - Guardaci, vedrai che è cosí - . A me pareva la cosa piú normale da farsi. Lei mi guardò con l'occhio freddo che in certi momenti era la sua specialità. - Impossibile, - fa, secca secca. - Non lo sai che non stanno insieme? Sono separati da piú di tre anni; anzi, adesso sono anche divorziati. - Ma non si può, - dissi, sorpresa. - Non c'è mica il divorzio in Italia - . Difatti allora non c'era. - E con questo? Loro stanno all'estero. Già: non ci avevo pensato. Se era cosí, la cosa prendeva tutt'un altro aspetto, molto ma molto piú serio. Non sapevo piú cosa dire, un po' come se Ippolita mi avesse confessato di punto in bianco di essere in realtà un'orfana o una trovatella, o di avere qualche grave malattia. A quei tempi il divorzio, quando non era un'americanata da ridere, pareva una roba dell'altro mondo, da rimanerci molto male a scoprire che fosse successa tra i genitori della propria migliore amica. - Che faccia fai, - disse la migliore amica, con una risatina spavalda. - Son cose che capitano, sai. Io mi sentii in obbligo di domandare: - Com'è successo? - sempre un po' sul tono catastrofico, come domandassi i particolari di uno scontro con morti e feriti. - Vieni su, - fa lei allora, rispondendo a pera, - ti faccio vedere com'è la mia mamma. Mentre le andavo dietro su per lo scalone riflettevo che, infatti, mentre Ippolita teneva il ritratto di suo padre sullo scrittoio dove faceva i compiti, quello di sua madre io non l'avevo mai visto. In camera andò a rovistare sotto la biancheria nel cassetto in alto del comò: dunque lo teneva nascosto, cosí come io nascondevo - e precisamente nel cassetto della biancheria - le foto degli artisti del cine, per paura delle prese in giro dei miei fratelli. Ma chi mai prenderebbe in giro una figlia perché tiene caro un ritratto della propria madre? Era un ingrandimento di fotografia, di quelli belli grandi, in una cornice d'argento. Lo sembrava proprio una diva del cine, lí dentro, la mamma di Ippolita. Aveva un gran colletto di pelo chiaro, volpe azzurra immagino, che le faceva come una nuvola intorno alla faccia, e un cappellino inclinato su un occhio, come andava di moda. L'occhio che si vedeva bene era scuro, lucente e un po' misterioso. - E molto bella, - dissi, - molto elegante. Nel dirlo mi passò per la mente che forse la mia mamma invece non era affatto bella e magari nemmeno elegante, anche se l'ultimo vestito che si era fatto, quello con le rose nere e gialle, a me sembrava una sciccheria; e che non me ne importava un fico. Voglio dire, non che non mi importasse della mamma: non mi importava un fico che non fosse bella. Ippolita sembrò contenta dell'effetto che mi aveva fatto la fotografia. - Apposta ho voluto fartela vedere, - disse, - cosí adesso puoi capire meglio. Ma renditi conto! ti sembra possibile che una donna come lei, non solo bella, anche brillante, interessante, che ha sempre avuto un gran successo in società... E tra parentesi, questo ai miei zii non andava proprio giú, non sono mai stati capaci di perdonarglielo. - Ma come mai? C'era forse qualcosa di male? Non so perché mi venisse in mente di domandarle questo. È che della vita di società non ne sapevo un'acca, di signore brillanti e interessanti io non ne conoscevo, perciò navigavo nella nebbia. Cosa voleva dire, che una signora avesse successo in società? Forse che aveva molti ammiratori? Ma Ippolita a quella mia domanda era diventata un galletto. - Macché male! Non dire stupidaggini! Se dici una parola contro la mia mamma, io... - Avevo quasi paura che mi beccasse gli occhi. - Allora vuol dire che non capisci proprio niente! - Poi per fortuna incominciò a spiegarsi. - Non è affatto questo, è che... Insomma, l'hai ben visto, no, come sono gli zii. Due gran noiosi. E apposta ti dicevo, come vuoi che potessero andar d'accordo con una donna come lei? Infatti sono sempre stati suoi nemici. Non c'è da meravigliarsi allora che non li potesse soffrire. Certo era per questo che teneva nascosto il ritratto di sua madre: non poteva farle piacere che lo guardassero, coi loro occhi di nemici. Cominciavo a capirci

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Ogni tanto di sotto in su guardavo la sua faccia, che era di quelle sul tondo e sul bianco-e-rosso, abbastanza da bonaccione. Mi era venuto in mente che nei romanzi i servitori dei castelli conoscono tutti i segreti, tutti gli intrecci piú tremendi, e niente, muti come pesci. Be', ora sapevo che un segreto c'era davvero, in questo castello qui. Quello per tenere divise Ippolita e la sua mamma. Magari era un complice anche lui! Un carceriere in piú per la principessina! Palpitante, d'accordo. Però mi scocciava dover pensare male di tutti. Dopo mangiato bisognò ancora andare in salone mentre i grandi prendevano il caffè, Il conte cianciava di questo e di quello, in tono falso-giulivo. (Falso, perché si sentiva che giulivo in realtà non lo era per niente.) E la contessa continuava a allungare il collo e sbirciare verso le finestre per vedere se spioveva. A un certo punto era spiovuto davvero, almeno un po'; e toc, lei si intestò che uscissimo a fare quattro passi lungo lo stradone. Cioè, che uscisse Ippolita con lei, perché me invece mi avrebbe lasciata a casa ben volentieri. Me lo propose, chiaro e tondo, con la scusa che forse avevo da scrivere ai miei. Ci restai male, perché mai prima di allora mi aveva fatto capire che la mia compagnia non le comodava. Ma cosa avevano oggi tutti quanti, da comportarsi in modo cosí strano? Ippolita però disse a muso duro che se non venivo io non usciva neanche lei, e cosí siamo andate in tre. La zia sul principio l'aveva presa sottobraccio e andava avanti svelta con quelle sue gambe lunghe, chiaro che cercava di seminarmi per parlarle a tu per tu, cosa diamine avrà avuto da dirle? Ma lei si liberò e aspettò che le raggiungessi. Cosí abbiamo proseguito nella solita formazione di tutte le passeggiate, noi due insieme e la zia per conto suo, piú avanti o piú indietro non aveva importanza. Fu una passeggiata barbosa. Non potevamo parlare di quel che piú importava, caso mai ci sentisse, cosí non dicevamo niente. Si sentiva solo lo sguisc sguisc dei nostri stivali di gomma (la contessa aveva le galosce). Alla curva da dove si cominciava a vedere il paese, disse che adesso potevamo anche tornare indietro. Forse si era stufata di camminare nel bagnato con due tipe col muso lungo, in stivali di gomma che facevano sguisc. A me però mi venne in mente una cosa un po' strana, cioè che al paese in fondo non ci si arrivava quasi mai. Appena qualche volta per far compere, e la domenica per la messa, si sa. Ma Ippolita non frequentava nessuno, in paese: questo volevo dire. Erano gli zii, chiaro, che la tenevano isolata, perché cosí potevano fare e disfare, nasconderle le lettere, anche chiuderla a chiave per delle settimane, se volevano! e nessuno ci avrebbe fatto caso, nessuno si sarebbe sognato di mettere il becco! Ma c'ero io. Ippolita non era del tutto abbandonata. Io potevo e dovevo fare qualcosa per impedire questa marcia ingiustizia che le facevano: alla faccia degli zii conti e del loro contorno di complici e carcerieri! Era un pensiero molto coraggioso, cosí coraggioso che mi mise paura. Quando mi trovai di nuovo sola con la mia amica mi era quasi passata la voglia di dirglielo. Tanto parlò lei, subito: - Te lo ricordi cosa dicevamo, prima che suonasse il gong? - Ma sí. Parlavamo della busta crema. Insomma della lettera che tua madre ha scritto a tua zia. E a proposito, perché lo avrà fatto? Se dici che ce l'ha antipatica... - Le avrà domandato dove sono finite le sue lettere, no? Da quel che le scrivo io deve averlo capito per forza che non mi sono arrivate. - Scrollò forte la testa, come se le avessi fatto perdere il filo. - Cosa c'entra questo, adesso! Sta' a sentire: quando ha suonato il gong io dicevo che se avessi saputo che la mamma era abbastanza vicina - a Parigi, mica piú in America - sarei andata

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Tirando il paletto aveva una paura matta che facesse rumore, invece andò abbastanza liscia. La chiave, che era grossa, si impuntò un momento e lei credeva di non farcela a girarla, poi girò di botto, gracchiando un po', ma non tanto forte. All'aperto era molto piú chiaro, però i colori non si riconoscevano ancora. Avevano messo fuori delle bottiglie vuote per lo straccivendolo, e lei le vide nere, mentre sapeva che erano di vetro verde. Poi vide un'altra cosa, che le fece spavento: una finestra con la luce accesa, in alto, dove stavano le camere della servitú. Remigio, orrore! era già sveglio. Forse l'aveva sentita e stava appunto scendendo per controllare? Le prese una fretta terribile, e sfido io. Tremava dalla agitazione e intanto nuotava nel sudore al fresco della mattina, mentre tirava la bici a forza di braccia su per la rampa di scalini che portava al viale del parco. (C'era un dislivello, perché il castello da questa parte sul dietro era parecchio piú affondato, ecco perché avevano fatto gli scalini.) Anche se Remigio, mettiamo, si stava semplicemente facendo la barba, lei era fritta lo stesso, solo che gli venisse in mente di dare un'occhiata fuori della finestra. Il primo respiro che le riuscí di tirare proprio fino in fondo, diceva poi, fu quando era già sullo stradone e filava pedalando tra le ultime pozze d'acqua rimaste dalla pioggia dei giorni scorsi. La parte bella dell'avventura cominciò qui. Mica che fosse tutto rose e fiori, si sa. Le toccò fermarsi due volte, una per legare meglio la valigetta, che stava scivolando, l'altra per slegarla di nuovo, aprirla e tirare fuori il cioccolato. Era ancora digiuna e appena passata la paura d'essere scoperta le era uscita fuori una fame da svenire. Poi c'erano le salite; lei non era tanto allenata e per superarle doveva soffiare. Eppure era un bell'andare, sullo stradone ormai asciutto, col frescolino e il cielo sempre più chiaro. Ippolita quando me lo raccontava cercava sempre di spiegarmi l'effetto speciale che le aveva fatto vedere alle finestre delle case o per la strada la gente che cominciava a svegliarsi e riprendeva le sue faccende solite. Io prima credevo di aver capito che fosse un effetto di beata superiorità. Come se pensasse: poveretti voi che continuate a fare la stessa medesima solita vita di tutti i giorni, mentre io fuggo nientedimeno che a Parigi! quanta compassione mi fate! Invece mi spiegò che no. Anzi, la cosa più speciale era di scoprire che se era meraviglioso andare a Parigi, in qualche modo anche la solita, solitissima, normalissima vita degli altri era meravigliosa. Una donna che apriva le persiane, uno specchio visto di passaggio in fondo a una camera già aperta, le sembravano cose straordinarie; e voleva bene a tutto e tutti, alla donna, allo specchio a un cagnetto che le abbaiò da un cancello a un bambino che le fece ciao ciao con la mano. Insomma, tutto era meraviglioso, ecco quale era la meraviglia. Tenendo conto delle fermate e del rallentamento alle salite doveva essere andata piuttosto forte, perché arrivò a X per tempo, Non c'era molto traffico, era una città abbastanza piccola. Per prima cosa comprò un filoncino in una panetteria. Le era di nuovo venuta fame e non voleva consumare subito tutto il suo cioccolato. Mangiò il pane da solo, seduta sui gradini di una fontana, cosí aveva anche da bere gratis. Le pareva di essere una mendicante, mi disse poi, ed era felicissima. Dopo andò filata in stazione, che era lí vicina. Lasciò la bici sul piazzale, tanto non le sarebbe servita mai piú. (Sua madre gliene poteva sempre comprare un'altra, se mai le fosse venuta voglia di una volata per quei viali parigini con tanti alberi che si vedono nelle cartoline.) Aveva il suo valigino in mano e una borsetta bianca a tracolla, scelta apposta perché non la impacciasse sulla bicicletta. Le scarpe da tennis, bianche e blu, molto impolverate e anche un po' schizzate del fango delle

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I miei amici di Villa Castelli

214363
Ciarlantini, Franco 2 occorrenze
  • 1929
  • Fr. Bemporad & F.°- Editori
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Vi sono colombi tranquilli che lasciano in pace i compagni e becchettano la loro parte con moderazione, ve ne sono altri che vogliono tutto il grano per sè, e s'affannano e si fanno largo per paura di non mangiare abbastanza. Proprio come certi bambini....

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Il ragazzo però non pensava ai balocchi, pensava invece che quel capretto era una bestiola adatta alla sua statura e che gli sarebbe stato abbastanza facile condurlo al pascolo e insegnargli qualche gioco. Per un poco esitò, poi tirò la giacca al padre e gli indicò la bestiola: ma il babbo sulle prime non capí il desiderio del figliolo e s'occupò d'altro. Mario, dopo un po', tornò alla carica, e allora il babbo sorridendo gli domandò: - Ti piacerebbe vero! Se gli affari andran bene.... - Si vede che il babbo doveva aver concluso una buona giornata, perchè sul tramonto Mario tornava al suo paese tirandosi dietro il capretto. Ma il capretto ogni tanto voleva fermarsi a brucare un po' d'erba sul ciglio. Debbo dirvi che non c'era nessuno così fiero come Mario quando entrò nell'aia col nuovo compagno! Debbo dirvi con quali grida di festa i fratelli e i coetanei lo accolsero! Ma voi potete ben immaginarlo!

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Sempronio e Sempronella

214621
Ambrosini, Luigi 1 occorrenze
  • 1922
  • G. B. Paravia e C.
  • Torino - Milano - Padova - Firenze - Roma - Napoli - Palermo
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Quando i ragazzi escono di scuola bisogna già accendere la lampada nel tinello, altrimenti non ci si vede abbastanza per fare il còmpito. Le serate sono lunghe, eterne, ma si passano allegramente in compagnia, accanto al fuoco, dinanzi alla fiamma che ha tante lingue rosse, che parlano, cantano, zufolano, schioccano.

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