Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La fatica

169987
Mosso, Angelo 14 occorrenze
  • 1892
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Tale malattia conosciuta col nome di crampo degli scrivani, è abbastanza frequente. Il sintomo più caratteristico è una grande stanchezza che si sente nella mano, ed una difficoltà nei movimenti, limitata al pollice, all'indice e al dito medio. In alcune persone basta lo scrivere poche righe per stancare la mano; esse debbono smettere non solo perchè la scrittura si cambia, e si fa inintelligibile, ma anche per il dolore, il formicolio e il senso di tensione che provano nei muscoli della mano. Il crampo dei muscoli quando si mostra nei suonatori di piano o di violino li obbliga pure al riposo. Generalmente queste sono persone ipocondriache, un po' isteriche o nervose, che abusano dell'attivita dei muscoli, e sono talmente eccitabili che basta un lavoro di pochi minuti per far produrre in esse la contrattura. Vi sono dei nuotatori abilissimi che non osano allontanarsi dalla spiaggia del mare, perchè temono i crampi alle polpe. Tutti abbiamo provato la molestia che danno questi crampi, quando compaiono improvvisamente la notte mentre dormiamo. Di solito si producono in seguito ad una contrazione dei muscoli, ma nelle persone molto nervose succedono anche mentre le gambe stanno immobili. Toccando la gamba si riconosce quale sia il muscolo che rimane contratto, e malgrado ogni sforzo della volontà, non possiamo rilasciarlo e il dolore può durare parecchio tempo. Nelle donne isteriche la contrattura è frequente: e il medico l'osserva anche in alcune malattie del midollo spinale. Questo prova che la contrattura è un fenomeno dipendente dal sistema nervoso, ma può anche essere locale. Vi sono delle persone isteriche nelle quali basta comprimere leggermente un muscolo, perchè entri in contrattura e non possano più rilasciarlo così che si può produrre un torcicollo artificiale, strisciando leggermente o anche solo col toccare il muscolo sternoeleidomastoideo. Nell' ipnotismo si vede bene qualche volta comparire nei muscoli uno stato che venne descritto col nome di flessibilità cerea. Le dita, le braccia, i muscoli del tronco e del collo, le gambe, mantengono senza, resistenza la posizione che loro vien data, come se la persona fosse fatta di cera. Questa condizione particolare dei muscoli è pure conosciuta col nome di catalessi, e comparisce più specialmente nell' ipnotismo, tanto che alcuni autori vollero chiamarlo catalessia sperintentale. Toccando i muscoli della faccia o anche quelli degli occhi, si producono delle contratture e delle smorfie che possono durare parecchie ore. Qualche volta la contrattura diviene una malattia grave, e vi sono delle isteriche nelle quali le estremità rimangono fisse in certe posizioni senza, che si possano più rilasciare. Solo per mezzo del cloroformio si rilasciano i muscoli, ma la contrattura, appena cessa l' azione dell' anestetico, torna a riprodursi. Certe donne che hanno un braccio piegato, e che malgrado ogni sforzo della volontà non possono distenderlo, quando si svegliano lo trovano in un'altra posizione, ma sempre contratto e rigido, perchè durante il loro sonno coll'uso del cloroformio gli fu variato di posizione, ed esse di nulla si accorsero. Questa è la contrattura spastica, come la si vede qualche volta anche nel sonnambulismo e può durare pochi minuti, alcune ore, e anche dei giorni. La patologia della contrattura fu studiata specialmente da Charcot, che scrisse delle pagine da grande maestro su questo argomento, nei suoi trattati delle malattie nervose, e ci ha riprodotte colla fotografia delle immagini raccapriccianti di questi ammalati.

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Se si diminuiva il tempo del riposo, se ad esempio tra una serie di contrazioni e l' altra si lasciava trascorrere solo un' ora invece di due, era naturale che il muscolo desse un lavoro minore, perchè non si era riposato abbastanza. Ma si può anche ridurre il lavoro a metà, e ridurre pure a metà il riposo. Supponiamo che un muscolo per esaurirsi completamente avesse bisogno di fare trenta contrazioni; si trovò che facendogliene fare la metà, cioè solo quindici contrazioni, si poteva ridurre il riposo ad un quarto, cioè a solo mezz'ora, senza che il muscolo risentisse gli effetti della maggiore brevità del riposo. Queste osservazioni dimostrano che l' esaurimento della forza nelle prime quindici contrazioni è assai minore che nelle susseguenti; e che la stanchezza non cresce in proporzione del lavoro fatto. Ed invero sommando le altezze successive alle quali venne alzato il peso, si ottiene nelle prime contrazioni una quantità di lavoro meccanico molto superiore a quella che venne eseguita nelle successive quindici. In ciascuna di queste esperienze si cominciava il mattino e continuavasi fino alla sera a ripetere ogni mezz'ora il tracciato che corrispondeva a quindici sollevamenti. E questo periodo di riposo vedevasi che era sufficiente per lasciar riposare il muscolo perchè i tracciati erano tutti eguali in altezza dal primo all'ultimo. Da questa esperienza, che non riferisco nei suoi particolari, risultò,che, se non si esaurisce completamente la forza del muscolo, e lo si esonera dalle ultime contrazioni che esso compie, si stanca assai meno, e resta capace di produrre una quantità di lavoro meccanico superiore al doppio di quanto produrrebbe lavorando sino a completa stanchezza nelle condizioni più favorevoli di riposo. Chiunque abbia fatto un’ ascensione sopra una montagna si sarà accorto che l'ultima parte della salita per toccare la vetta, costa uno sforzo assai maggiore che non abbiano costato altri passi più difficili, quando si era meno stanchi. Il nostro corpo non è fatto come una locomotiva che consuma la stessa quantità di carbone per ogni chilogrammetro di lavoro. In noi, quando il corpo è stanco, una quantità anche piccola di lavoro meccanico produce degli effetti disastrosi. La ragione l'ho già accennata nel precedente capitolo, ed è che le prime contrazioni, il muscolo le fa consumando sostanze differenti da quelle che consumerà in ultimo quando è stanco. Per servirmi di un esempio dirò che anche per il digiuno nel primo giorno si consumano dei materiali che abbiamo nel corpo, i quali sono diversi da quelli che spremeremo per così dire dai nostri tessuti negli ultimi giorni della inanizione. Ho detto che il nostro corpo risente un danno maggiore per il lavoro che fa quando è già stanco. Una delle ragioni di questo fatto è che un muscolo avendo consumata nel lavoro normale tutta l'energia della quale poteva disporre, si trova obbligato per un soprappiù di lavoro ad intaccare per così dire, altre provvigioni di forza che teneva in riserbo; ed a far questo occorre che il sistema nervoso lo aiuti con una maggiore intensità dell'azione nervosa. Ma quantunque lo sforzo nervoso sia più cospicuo, il muscolo stanco si contrae debolmente. Quando solleviamo un peso vi sono due parti che si affaticano: l'una è centrale, puramente nervosa, cioè la parte impulsiva della volontà, l'altra è periferica, ed è il lavoro chimico che si trasforma in lavoro meccanico dentro alle fibre muscolari. Kronecker aveva già detto che il peso non stanca ma che l'eccitamento stanca. Ho voluto provare se questa legge trovata nelle rane è pure vera per l'uomo. Adattai all' ergografo una vite, V (fig. 5. capitolo IV). Girando questa vite che passa dall'altra parte del montante I fra le due sbarre d' acciaio, nelle quail si move il corsoio N, si dà al peso un punto di appoggio più vicino alla mano: e il dito medio viene esonerato dal peso nel principio della sua contrazione. Se mentre il muscolo si contrae per fare un tracciato della fatica, noi giriamo avanti la vite V dell' ergografo, possiamo far sì che il dito lavorando, prenda il peso ad altezze successivamente minori. Scaricandolo a questo modo del peso, vediamo che nel principio quando il muscolo è riposato non si accorge della differenza. Il muscolo pare dunque indifferente al peso che solleva quando è nella pienezza delle sue forze. Una volta dato l'ordine al muscolo di contrarsi, questo produce il massimo del suo raccorciamento sia che il peso debba sollevarlo per tutta la contrazione, o solo durante una parte della medesima. In questa prima parte delle mie esperienze venne confermato quanto Kronecker aveva osservato nelle rane. Quando l' energia del muscolo è diminuita per effetto della fatica, il muscolo sente un beneficio se lo si scarica, dandogli un appoggio che lo liberi da una parte del peso. Chi dopo essersi affaticato solleva con stento 50 chilogrammi, troverà che uno di più è troppo pesante. Ma se non è stanco e ne solleva 80 o 100, uno o due di più oltre il cinquantesimo passano inavvertiti. Avremo occasione di esaminare meglio questo fatto, intanto possiamo, da quanto ho detto, paragonare i movimenti alle sensazioni. Vediamo ripetersi qui ciò che tutti abbiamo provato in un concerto, dove non ci accorgiamo se nell'orchestra vi sono 35 o 40 violini. Entrando in una sala sfarzosamente illuminata, non ci accorgiamo se le candele accese solo 90 o 100, ma quando non vi sono più che due candele accese, o due violini che suonano, ci accorgiamo subito se uno cessa di suonare o l'altra di splendere. Così noi intravediamo una prima legge della fatica e delle sensazioni, che cioè l'intensita loro non è del tutto proporzionale all'intensità della causa esteriore che le provoca.

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E queste oscillazioni si ripetono per un tempo abbastanza lungo, fino a che scompaiono del tutto. Le medesime oscillazioni si percepiscono pure negli altri sensi. Quando si mette la fronte in contatto con una lastra fredda di vetro, per esempio dinanzi alla vetrata di una finestra, si sente che l'impressione del freddo dura per un certo tempo, dopo che è cessato il contatto col vetro. Questa sensazione non decresce uniformemente in intensità, ma si hanno delle sensazioni consecutive ora di caldo e ora di freddo; l'intensità della sensazione si rinforza quattro o cinque volte, poi cessa del tuttoBEAUNIS, Physiologie humaine, 1888. Vol. II, pag. 593.. Mi sono trattenuto a parlare alquanto estesamente di questi periodi perchè essi ci lasciano intravedere la rapidità colla quale si stancano i centri nervosi. Ritengo come molto probabile che la stanchezza in una cellula nervosa del cervello compaia dopo soli tre o quattro secondi di lavoro. L'attività, prolungata del cervello, malgrado questo esaurirsi rapidissimo dei suoi elementi, si spiega pensando che nelle circonvoluzioni cerebrali abbiamo due miliardi di cellule, e che queste possono supplirsi nei loro uffici. Già fino dal 1874 in una serie di osservazioni che ho fatto in Lipsia col dottor Schön avevo veduto che quando si copre un occhio e coll'altro, senza punto fissare, si guarda una superficie uniformemente colorata, come ad esempio il cielo, una nube od una parete imbiancata, il campo visivo si oscura e si rischiara a periodi regolari. Il campo visivo nell' oscuramento appare di un colore giallo verdognolo, talora azzurro, spesso di un colore indistinto. Questi oscuramenti hanno nelle varie persone una durata differente, e si ripetono in media da cinque a dodici volte al minutoA. Mosso, Sull'alternarsi del campo della visione. Giornale della R. Accademia di medicina di Torino, 1875. Vol. XVII, pag. 124..

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Il suo cervello non lavora abbastanza rapidamente per poter dare un ordine pronto ai muscoli, e scansare ogni nuova figura che gli viene innanzi improvvisamente nel suo campo visivo. Non può cambiare con sveltezza la direzione: ciò riesce facile all'italiano senza che egli sappia di più, chè anzi è molto meno istruito. E perchè ciò? Perchè da noi le grandi città colla loro folla sono un prodotto dei tempi moderni, perchè il popolo viene giù dalle montagne e dalle colline lontane, dove la turba non è stretta e pigiata in piccolo spazio. L'italiano invece ereditò una coltura che fiorisce da migliaia di anni, che si è sviluppata nelle città; egli possiede i nervi dei suoi progenitori, e preparato ai rapidi cambiamenti perchè i suoi nervi lavorano più presto." Io sono convinto che il mio amico Gaule ha ragione. Se fosse necessario aggiungere un'altra prova gli ricorderei che la scherma è una dalle arti caratteristiche, in cui gli italiani ed i francesi superano fino ad ora tutti gli altri popoli. Nella scherma occorre appunto una grande forza dell'attenzione, che riduca al minimo il tempo della reazione fisiologica, è necessaria una prestezza grande di percezione e di risoluzione, una agilità somma nei muscoli, perchè il più abile schermitore è il più pronto. Certo è un fatto singolare che fino ad oggi i tedeschi e gli inglesi, che pure ci superano in tante altre cose più importanti, non possono rivaleggiare coi più abili tiratori della razza latina.

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Mi ero già alzato da una settimana e benchè non mi sentissi guarito del tutto, avevo ripigliato a scrivere: lentamente sì, ma il lavoro procedeva abbastanza bene. Quando capitò un mio amico, un professore tedesco, venuto in Italia col proposito di imparar l' italiano. Io non potevo naturalmente sconsigliarlo e invece di discorrere in tedesco come eravamo abituati, egli cominciò a parlare italiano. Sembra che non avrei dovuto stancarmi, perchè la conversazione si manteneva forzatamente nei limiti di proposizioni semplici e facili. Per parte mia dovevo stentare un po' a capirlo e correggerlo, del resto nulla. Ma quanto ho sofferto, quanto mi sono esaurito, non può iminaginarlo se non chi l'ha provato. Dopo mezz' ora, gli proposi d'uscire e così mi ritirai un momento nella mia camera per riposarmi. Io speravo che l'aria libera avrebbe giovato a distrarmi: ma fu peggio; perchè si moltiplicarono d'un tratto le occasioni per chiedermi il nome delle cose che si vedevano intorno. Se queste righe gli capiteranno sotto gli occhi spero vorra perdonarmi, perchè anch'egli è medico e comprenderà che una volta che mi ero messo in capo di fare un' esperienza su di me stesso, egli è innocence della mia caparbietà. Dopo un' ora di questa conversazione, che in altre circostanze non mi avrebbe certo affaticato, io ritornai a casa come disfatto e ho dovuto mettermi disteso su di un canapè e far chiudere le imposte; ero così stanco che mi parve di soffrire un principio di vertigine. La fatica quando è molto forte, sia che ci siamo stancati in un lavoro intellettuale od in un lavoro muscolare, produce un cambiamento nel nostro umore e diventiamo più irritabili, sembra quasi che la fatica abbia consumato ciò che vi era di più nobile in noi, quell'attitudine per la quale il cervello dell' uomo civile si distingue da quello dell'uomo primitivo e selvaggio. Non sappiamo più dominarci quando siamo stanchi, e le passioni hanno degli scoppi violenti che non possiamo più trattenere e correggere colla ragione. L'educazione che teneva compressi i moti involontari rallenta i suoi freni, e succede di noi come se discendessimo alcuni gradini più in basso nella gerarchia sociale. Ci manca la resistenza al lavoro intellettuale, e la curiosità e la forza dell' attenzione, che sono le caratteristiche più importanti dell'uomo superiore ed incivilito. Le persone che soffrono di malattie croniche del sistema nervoso, sono generalmente irascibili. Vedremo più tardi che l'isterismo è uno stato del sistema nervoso paragonabile a quello che producesi per effetto della fatica. La fisonomia espressiva, il gesto vivace, la potenza dello sguardo, e lo stato nervoso che caratterizza gli artisti, la melanconia, o l'eccessiva allegrezza, e certe abitudini e modi che possono ad alcuni sembrare strani, dipendono in loro, per grande parte, dalla diminuita resistenza del sistema nervoso, da una specie di esaurimento e di isterismo, prodotto dalla fatica continua del cervello. A questo eccitamento che si nota in alcuni, fa riscontro in altri una depressione della sensibilità. È come il cavallo stanco che non reagisce più alla frusta. Molti avranno provato uno stato simile dopo una lunga marcia. La stanchezza, passato il primo periodo della eccitazione, si trasforma poco per volta in un esaurimento che ci rende insensibili, che ci procura una emozione piacevole, e si è meravigliati di non più sentire lo sforzo del camminare, quasi andassimo innanzi per la sola forza acquistata. Nel giornale dei GoncourtJournal des Goncourt. T. 1, pag. 219. è descritto questo fenomeno: "L'excès du travail produit un hébétement tout doux, une tension de la tête qui ne lui permet pas de s'occuper de rien de désagréable, une distraction incroyable des petites piqûres de la vie, un désintéressement de l'existence réelle,une indifference des chores les plus sérieuses telle, que les lettres d'affaires très pressées, sont remisées dans un tiroir, sans les ouvrir."

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Sulle Alpi la neve non scende a fiocchi larghi come nella pianura, è una neve fina, polverosa; sono granellini di ghiaccio che il vento spinge impetuosi nella faccia, che saltellano e penetrano da per tutto, e scorrono sulla pelle, che nessun vestito, per quanto chiuso, difende mai abbastanza. Il vento sospinge la neve furiosamente, spazzandola sui pendii, accumulandola nelle forre. A volte si vede il turbine che attraversa vorticosamente la strada e fa scrosciare la selva dei pini, scendendo a valle. Il sibilo della tormenta, il frastuono e il rombo delle valanghe devono produrre un' impressione terribile su quegli infelici viandanti. E guai a loro se per disperazione si fermano: se intirizziti o scoraggiati cercano un riparo! Chi si riposa è perduto; perchè lo sorprenderà il sonno. Questo ultimo e supremo conforto della miseria chiuderà loro dolcemente gli occhi, e non sentiranno più, e non vedranno la triste fine che li attende: dal sonno passeranno alla morte. La seconda volta che attraversai il gran San Bernardo, fu nell'agosto del 1875, e nella camera mortuaria vidi parecchi cadaveri che pareva fossero stati messi là pochi giorni prima. Il frate che mi accompagnava mi disse che erano morti fino dal novembre dell'anno precedente, e mi raccontò coi più minuti particolari la storia di quei disgraziati. La Feuille d'Aoste del 25 novembre 1874 descrive quell' accidente con queste parole: "Giovedi mattina a pochi passi dall' ospizio si trovarono due morti che si crede siano segatori di travi. Si organizzò una spedizione per vedere se vi fossero altri disgraziati in pericolo. Due canonici dell'ospizio, partiti con un servo, trovarono trenta persone sulla montagna della Pera. Questi trenta viandanti avevano vissuto per 24 ore con un po' di farina bagnata con acqua e sale. Il venerdì si decisero a lasciare la Pera e Si incamminarono con grande fatica verso l'ospizio. Un cumulo di neve Nel dialetto valdostano tali cumuli di neve fatti dal vento si chiamano confle.sbarrò loro la strada e li seppellì tutti. "Un cane del San Bernardo, giunto all' ospizio in uno stato che faceva compassione, diede l' avviso della disgrazia; tutti gli altri canonici partirono per recare soccorso. Incontrarono dapprima uno dei loro ed un operaio piemontese, che erano riusciti a tirarsi da sè fuori della neve. Si prodigarono loro tutti i soccorsi, ma poco dopo morirono. "Si estrassero dalla neve sei cadaveri, e due operai ancora vivi morirono poco dopo. Oltre i due canonici, che primi erano accorsi a portar aiuto, vi morì anche il servo dell'ospizio. Due operai piemontesi sono usciti vivi dopo essere stati ventidue ore sotto la neve.

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Solo eccezionalmente in Germania vi sono dei professori di Pandette, che fanno scuola tre ore, ma ho visto a Lipsia che negli intervalli abbastanza lunghi, gli studenti mangiavano allegramente dei panini gravidi. Ho sentito a Lipsia dei corsi di due ore, ma mi annoiavo terribilmente: e li seguivo solo perchè avevo dovuto pagarli prima. In Italia sono rari i professori che facciano scuola un'ora e mezza o due ore di seguito. Ne conosco però di quelli che fanno tre corsi di un'ora,uno dopo l'altro, e li compiango. Per conto mio confesso che non potrei parlare più di un'ora senza stancarmi eccessivamente. Uno di questi mi diceva che dopo aver parlato per due ore, provava un bisogno irresistibile di tacere, e come un senso di oppressione al petto: oltre il disgusto della parola, notò che sentendo gli altri a discorrere sonnecchiava. Siccome questa molestia non compariva che dopo alcuni minuti dacchè era finita la lezione, egli l'attribuiva ad una iperemia del polmone, e a consecutiva anemia del cervello. Credo non abbia torto, perchè egli si lagnava con me di aver provato qualche volta una leggera vertigine, e un senso di vuoto nella testa. Un mio collega, che qualche volta dimentica l'ora, come dice lui, sente una debolezza grande della vista dopo aver fatto una lezione troppo lunga. Questo fenomeno lo avverte specialmente nel principio dell'estate, quando il caldo eccessivo gli altera un po' la digestione. Allora basta un piccolo strapazzo del cervello, e specialmente una lezione di un'ora e mezzo per annebbiargli la vista, tanto che dopo non può più leggere. È un'astenopia che viene dall'esaurimento del sistema nervoso, e scompare poche ore dopo finita la lezione.

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Aducco quando il lavoro del cervello si prolunghi per un tempo abbastanza lungo. Altre esperienze fatte dal prof. Aducco sull' influenza degli esami diedero il medesimo risultato. Per brevità mi astengo dal riferire i risultati di queste esperienze, ma desidero riferire per ultima un' esperienza nella quale si vedono consociati i due effetti del lavoro intellettuale e di una emozione. Il giorno 29 ottobre 1890, alle 2 pom., il professore Aducco scrive il tracciato normale coll'ergografo sollevando 3 chilogrammi col dito medio della mano sinistra ogni due secondi: fa 38 contrazioni e il lavoro meccanico di chilogrammetri . 3.897 Cifra quasi eguale a quella trovata in un altro tracciato che aveva fatto il mattino. Gli esami cominciarono come al solito alle 2, ed essendovi solo quattro esami il lavoro intellettuale era di un'ora e venti minuti: ma disgraziatamente fra i candidati si presentò un suo amico, che il professore Aducco con suo grande dispiacere dovette rimandare. Quest' ultimo esame lo impressionò molto, e ritornato al laboratorio, rosso in volto, scrisse alle 3.30 il tracciato della fatica che consta di 47 contrazioni che rappresentano il lavoro in chilogrammetri di. 5.112 Alle 6 ritornò a scrivere il tracciato della fatica: fece 43 contrazioni e il lavoro meccanico di chilogrammetri. 4.368 Dove si vede che l'effetto eccitante della emozione non era ancora scomparso dopo tre ore. Dobbiamo ora cercare la causa per la quale aumenta la forza dei muscoli nel primo periodo della fatica intellettuale e nelle emozioni. Questa è un' altra perfezione meravigliosa del nostro organismo. A misura che si consuma l'energia del cervello e si indebolisce l'organismo aumenta l’eccitabilità del sistema nervoso. Qui appare un congegno automatico col quale la natura provvede ad una difesa più efficace dell'organismo a misura che questo si indebolisce. Vi è un aumento nell' acutezza dei sensi e nella eccitabilità del sistema nervoso quando un animale diviene meno atto a combattere per effetto del digiuno e della fatica. Ne abbiamo un esempio nel fatto che le persone meno forti e robuste sono più sensibili. Nei malati gravi la denutrizione altera i centri nervosi, e produce un' agitazione grande, delle scosse e delle convulsioni. Le vigilie, il lavoro intellettuale esagerato, destano gli accessi convulsivi nelle persone che vi sono predisposte. Alcuni sventurati che soffrono di epilessia sperano di rendere meno forti gli insulti con indebolire il sistema nervoso con qualche eccesso, e specialmente coll'amore, ma l'esperienza dimostra infallantemente che la malattia peggiora. Le convulsioni epilettiche si ripetono più spesso e più forti quanto più si esauriscono le forze del sistema nervoso. Parlerò ancora di questo nel prossimo capitolo; intanto abbiamo veduto che la differenza tra il dottor Maggiora e il prof. Aducco per il loro modo di comportarsi nella fatica intellettuale è più apparente che reale. Nel prof. Aducco il primo periodo della fatica, cioè l'eccitamento, dura a lungo, ma anche in lui compare infine la debolezza dei muscoli. Nel dottor Maggiora il periodo dell'eccitamento dura poco, e vi succede subito l'esaurimento. Nello studio dei fenomeni nervosi dobbiamo dare poca importanza alla intensità ed alla durata loro purchè la successione e l'ordine dei fenomeni e la loro concatenazione colle cause rimanga costante. Succede la stessa cosa per tutti i medicamenti. Nel mio Laboratorio ebbi a fare molte prove in proposito: ne cito una sola che vale per tutte: benchè si tratti delle cose pia elementari della medicina. Avevo bisogno di fare delle esperienze sul cuore e sul respiro durante l'azione del cloroformio. Parecchi miei amici e colleghi si prestarono con grande abnegazione ad uno studio che non era senza pericolo. Il prof. L. Pagliani mi aiutava, e siccome durante l'esperienza dovevo stare attento ai miei apparecchi, avevo bisogno di un amico come lui, che mi inspirasse la più grande fiducia per affidargli la cloroformizzazione. Un giorno capitò che uno dei nostri amici perdette la coscienza dopo poche inspirazioni, dopo aver inalato al massimo due grammi di cloroformio. Fummo sorpresi: ma sapevamo che alcune persone molto sensibili erano morte per una dose eguale ed è per questo che procedevamo sempre colla massima cautela. Nel giorno successivo il prof. Daniele Bajardi si offrì gentilmente per farsi cloroformizzare. Era il medesimo cloroformio e ne inalò circa 50 grammi senza provare alcun effetto. Gli domandammo ciò che intendeva di fare ed egli ci disse di continuare a dargliene dell'altro, che avrebbe finito per addormentarsi. Si continuò per quasi mezz'ora e finalmente perdette la coscienza e poi la sensibilità quando si erano consumati oltre cento grammi di cloroformio. Finita l'esperienza e svegliatosi, fu tanta la quantità di cloroformio che egli eliminava dai polmoni che parlando con lui si sentiva dal fiato l'odore. Ritornato a casa dopo più di un'ora, i suoi parenti si lamentarono della puzza che egli aveva portato in casa e che essi non sapevano cosa fosse.

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Accade alla maggior parte degli studiosi di non avere aiuto nel principio della loro carriera e di scoraggiarsi perchè non si credono abbastanza forti. Questi in un libro come quello che ho accennato, potrebbero trovare un consiglio ed anche forse un aiuto, non fosse altro vedendo che altri più deboli e poco favoriti dalla natura riuscirono pure a fare delle cose eccellenti. La storia è piena di uomini che si fecero immortali malgrado una salute vacillante, e che colla sola perseveranza conseguirono dei risultati che non erano da sperarsi. Valga per tutti l' esempio glorioso che ci diede Carlo Darwin di una lotta combattuta giorno per giorno fino alla fine della sua esistenza. Tornato da un viaggio di circumnavigazione, andò cosi rapidamente peggiorando la sua salute, che egli, essendo ancora giovane, si decise di abbandonare Londra, per vivere nella solitudine di un piccolo villaggio. Carlo Darwin ci lasciò dei documenti interessantissimi intorno alle sue facoltà mentali e al modo come lavorava. Nella sua autobiografia, dice: La Vie et la corrispondence de Charles Darwin publiées par son fils M Francis Darwin. - Paris, 1888."La scuola come mezzo di educazione fu per me un semplice zero. Io fui incapace durante tutta la vita di vincere le difficoltà per apprendere una lingua qualunque. "Non ho la grande rapidità di concepimento o di spirito, tanto notevoli in qualcuno degli uomini intelligenti. Sono un critico mediocre. La facoltà che permette di seguire una serie lunga e astratta di pensieri è molto limitata in me, e non sarei mai riuscito nelle matematiche e nella metafisica. "La mia memoria è estesa, ma confusa, e basta appena per avvertirmi vagamente che ho letto od osservato qualche cosa di opposto o di favorevole alle conclusioni che tiro. La mia memoria lascia talmente a desiderare, che non ho mai potuto ricordarmi più di qualche giorno, una semplice data o un verso di poesia. "Ho tanto spirito d'invenzione, di senso comune, e di giudizio, quanto ne ha un avvocato od un medico di forza comune, a quanto io credo, ma non di più". Un uomo che si credeva in così scarsa misura fornito dei doni dell' ingegno, in quarant' anni di assiduo lavoro, è riuscito a far cambiare la faccia alla scienza. Egli era così debole e sofferente che non poteva neppure ricevere gli amici nella rustica e silenziosa sua casetta, perchè tutte le volte che cercava di sforzarsi, l'emozione e la fatica gli davano sempre dei brividi e dei vomiti. Eppure quest'uomo di abitudini campagnuole, che si occupava, solo del suo giardino e dei suoi libri, trasfuse una vita nuova nella filosofia, ed ha fecondato, si può dire, tutto lo scibile del nostro secolo. Nel piccolo villaggio di Down, sotto l'ombra dei grandi alberi, che circondavano la casa di Darwin, si è meditato e combattuto vittoriosamente una lotta gigantesca; di là si sono aperte nuove vie e nuovi orizzonti al pensiero dell'umanità. E Darwin fu così fortunato, che prima di morire vide trionfare le sue idee e crescere l’ edificio della scienza sulle basi che egli prima aveva gettate. "Il mio spirito, dice DarwinOpera citata. Tomo I, pag. 102., è vittima di una fatalità, che mi fa stabilire in primo luogo la mia esposizione, o la mia proposizione, sotto una forma difettosa, e disadatta. Nel principio avevo l'abitudine di riflettere molto alle mie frasi prima di scriverle; dopo parecchi anni ho capito che guadagnavo tempo a scarabocchiare delle pagine intere colla maggior fretta possibile, raccorciando e troncando le parole a mezzo, ed a correggere in seguito con mio comodo. Le frasi gettate giù a questo modo sono spesso migliori di quelle che avrei potuto scrivere con riflessione. Avendo così esposto la mia maniera di scrivere, devo aggiungere che per le mie voluminose opere consacravo molto tempo ad un ordinamento generale della materia. Facevo prima un abbozzo grossolano in due o tre pagine; alcune parole ed anche una sola, rappresentavano una discussione intera od una serie di fatti. Ciascuna di queste divisioni era aumentata o trasposta prima di cominciare il libro in extenso. Siccome ho sempre lavorato sopra più soggetti ad un tempo, devo ricordare che avevo organizzato da trenta a quaranta portafogli dentro a dei mobili che portavano le loro etichette e che mettevo in questi gli appunti staccati o le note. Ho comperato un grande numero di libri, e alla fine di ciascuno aggiunsi una tabella di tutti i fatti che riguardavano il mio lavoro; se il libro non era mio ne facevo un sunto. Ed avevo un cassetto pieno di questi estratti." Appena ritornato dal suo viaggio intorno al mondo, Darwin scriveva a Lyell: "Mio padre spera che lo stato della mia salute possa appena migliorarsi fra qualche anno. E il prognostico è grave per me, perchè sono convinto che la corsa sarà guadagnata dal più forte e non farò altro nella vita che seguire le tracce lasciate dagli altri nel campo della scienza." Un' altra volta scrivendo da Londra a Lyell, dice: "Ho adottato il vostro sistema di non lavorare che due ore di seguito, dopo le quali esco di casa per le mie faccende, poi rientro e mi rimetto al lavoro. Così d'un giorno ne faccio due". Riferisco ancora qualche tratto caratteristico della figura di Darwin, quantunque la vita scritta dal suo figliolo sia molto conosciuta. "Due particolarità, del suo modo di vestire in casa, consistono in ciò, che egli portava sempre uno scialle sulle spalle, e dei grandi stivali di panno foderati che calzava sopra le scarpe di casa. Come il maggior numero delle persone delicate, egli soffriva tanto il caldo, quanto il freddo. Il lavoro mentale gli dava sovente troppo caldo, ed egli si levava il paletot, se nel corso del lavoro qualche cosa non gli andava a suo genio. Si alzava di buon'ora, e faceva, una piccola passeggiata prima della colazione; e considerava il tempo che passa fra le otto e le nove e mezzo, come il momento dei suoi studi migliori: alle nove e mezzo ritornava colla famiglia, si faceva leggere le lettere e qualche pagina dei giornali, di un romanzo o di viaggi. Alle dieci e mezzo ritornava nel suo studio; dove lavorava fino a mezzo giorno o mezzogiorno e un quarto." A questo momento egli considerava come finito il lavoro della sua giornata e diceva spesso con soddisfazione, "ho fatto una buona giornata di lavoro". Egli usciva allora a passeggiare, senza badare se era sole o se pioveva. Suo figlio ricorda un motto di Darwin che egli ripeteva spesso, cioè che noi arriviamo a fare il nostro compito economizzando i minuti. Darwin faceva questa grande economia del tempo per la differenza, che egli sentiva tra il lavoro di un quarto d'ora e quello di dieci minuti. La maggior parte delle sue esperienze, dice Francis Darwin, erano così semplici che non richiedevano preparativi, e credo che queste abitudini egli dovesse in grande parte al desiderio di risparmiare le sue forze e di non logorarsi in cose poco importanti. "Io fui spesso sorpreso, dice egli, del modo con cui mio padre lavorava fino all'estremo limite delle sue forze; spesso, dettandomi, s'arrestava tutto di un tratto e diceva : credo che bisogna che io mi fermi". Darwin durante quarant'anni non ebbe mai un giorno di buona salute come gli altri uomini. Il segreto suo fu la pazienza di arrestarsi a riflettere (come diceva lui) per degli anni interi sopra un problema inesplicato; e di esser nato colla forza di non poter adattarsi in verun modo a seguire ciecamente la traccia degli altri. E Darwin per queste sue virtù, malgrado che soccombesse ogni giorno sotto il peso della fatica per qualunque piccolo sforzo, fece maravigliare il mondo per le importanti leggi scoperte, per la interpretazione più logica che diede della formazione degli esseri viventi, per la luce che ha gettato su molti fenomeni della natura. E nel secolo nostro, Darwin rimarrà immortale per la novità dei suoi concetti elevatissimi, per un ideale sublime, come non era uscito mai dalla mente dei filosofi che avevano meditato sull'origine della vita.

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Ma però ebbi più tardi a ricredermi, quando nell'opera Zur Farbenlehre del Göthe, lessi nell'ultimo volume, questa, sua confessione: "I miei contemporanei fino dal primo apparire dei miei tentativi poetici si mostrarono abbastanza benevoli verso di me, o per lo meno riconobbero che io aveva talento poetico ed inclinazione. Eppure i miei rapporti coll' arte della poesia, erano meravigliosamente strani e del tutto pratici, in quanto che io, un soggetto che mi colpisse, un modello che mi eccitasse, un processo che mi attirasse, lo portavo così lungamente nell'interno del mio sentimento, fino a che ne risultasse qualche cosa che potesse considerarsi come un mio prodotto, e dopo che per anni lo avevo formato silenziosamente; finalmente tutto d’un tratto, e quasi istintivamente come se fosse maturo, lo mettevo sulla carta ".Opera citata, tag. 277. Flaubert lavorava quattordici ore al giorno, e tutti sanno che in questo scrittore la ricerca della perfezione dello stile era divenuta una malattia. Di lui si raccontano tanti aneddoti; fra gli altri che si alzava la notte per correggere una parola; che rimaneva immobile per delle ore colle mani nei capelli, chino sopra di un aggettivo. Lo stile lo tiranneggiava, era una passione per lui l'affaticarsi cercando insaziabile la legge misteriosa di una bella frase, e finalmente questa disperazione dell'anima finì per diventargli un ostacolo insuperabile al lavoro. Nella vita del Flaubert vi sono alcuni lati originali che interessano il fisiologo. Flaubert disse penser c'est parler e nessun altro scrittore forse lo ha superato nello studio dei rapporti fra il pensiero e la parola. Egli provava il ritmo dei suoi periodi sul registro della propria voce. Una frase cattiva, diceva, è un peso al torace e si trova fuori delle condizioni della vita se non va d' accordo colla fisiologia del linguaggio, se armoniosamente non si puo recitare ad alta voce .Journal des Goncourt, pag. 277. Stricker ha fatto degli studi fisiologici intorno a questo argomento, e dimostrò che mentre pensiamo ad una parola la pronunciamo silenziosamente e che possiamo sentire i movimenti della laringe, come se parlassimo senza dar suono alle parole. Tutti abbiamo visto le mille volte nella strada, delle persone che parlano ad alta voce, e passando loro vicino si chetano , e quando abbiamo fatto pochi passi innanzi riprendono a parlare. La presenza nostra li distrasse dal loro pensiero, e poscia subito vi ritornarono involontariamente e ricominciarono a parlare. Del legame indissolubile che unisce il pensiero colla parola, offrono begli esempi le biografie dei grandi scrittori, quelli specialmente che lasciarono nelle opere loro un'impronta più evidente delle forti passioni che agitavano il loro animo. Alfieri ritornato a venti anni dall'Olanda, col cuore pieno traboccante di malinconia e di amore, sentì la necessità di applicare la sua mente a qualche forte studio. Si mise a leggere Plutarco."Le vite di quei grandi, egli dice, sino a quattro e cinque volte le rilessi con un tale trasporto di grida, di pianti e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato ".Vita di Vittorio Alfieri, Capitolo VII. Balzava in piedi agitatissimo e fuori di sè, e lagrime di dolore e di rabbia gli scaturivano dagli occhi. Balzac Onorato, il celebre romanziere, che ebbe una tale fecondità, da non essere paragonabile che alla maravigliosa vivacità della sua, fantasia, produsse tanti libri, che non si crederebbe essergli potuto avanzare il tempo per correggerli tutti. Pure c' è qualche cosa in lui che fa stupire più della sua facilità ed è appunto la faticosa ed improba difficoltà del suo modo di lavorare. Ecco come egli componeva i suoi libri: meditava a lungo il suo argomento, poi ne buttava giù un abbozzo informe in poche pagine. Quest' abbozzo mandava alla stamperia; di là gli rimandavano in larghi fogli le prime bozze di stampa. Egli riempiva queste bozze di aggiunte e di correzioni per tutti i versi, cosicchè tali correzioni parevano un fuoco d'artificio venuto fuori da quel primo suo getto. Si rifacevano le bozze, e già nelle seconde era scomparso tutto il testo delle prime: egli lo rimaneggiava ancora, lo modificava, lo mutava instancabilmente e profondamente. Alcuni romanzi furono tirati sulla dodicesima prova di stampa, altri toccarono la ventesima. I compositori si disperavano quando avevano che fare con un suo manoscritto; gli editori si rifiutavano di sopportare le spese delle sue giunte e correzioni.

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Quando uno di notte è perseguitato nei sogni dalle preoccupazioni del giorno, e al mattino si accorge di non essersi riposato abbastanza, non ha bisogno di consultarsi col medico; egli deve distrarsi, altrimenti succederanno dei guai maggiori. Un altro Deputato dopo di essersi affaticato eccessivamente alla Camera, trovandosi ad un pranzo ufficiale ove avrebbe avuto a parlare, fu preso da palpitazione, non potè più fare il suo discorso, e dovette limitarsi ad un brindisi di poche parole. Da quel giorno il cardio-palmo si ripeteva con accessi più frequenti, ed aveva delle nausee, se era obbligato di lavorare al tavolino. Soffriva di insonnia e di un tremolio notevole delle gambe e delle mani, che veniva ad accessi, e più specialmente quando trovavasi in pubblico. Talora facendo un discorso gli capitò di doversi sedere, perchè il tremolio delle gambe gli dava troppa molestia. Il più piccolo disordine dietetico era seguito da una diarrea, che durava due o tre giorni. Tutti questi fenomeni sono tanto più caratteristici, in quanto che si tratta di una persona di buona costituzione, senza precedenti ereditarii, che godette sempre buona salute prima che entrasse nella vita politica. Si lagnava col medico di essere diventato irritabile, e per lui che era stato sempre di un carattere buono e pacifico, ogni scoppio di ira lo umiliava e doveva trattenersi e compiangersi. Negli uffici della Camera non poteva, più scrivere, se gli era vicino qualcheduno che gli dèsse un po' soggezione. Non avendo il coraggio di interrompere le sue gravi occupazioni e darsi ammalato, lo stato suo andò sempre più aggravandosi, finchè si accorse di un mutamento anche nei suoi discorsi alla Camera. La loquela gli si era fatta più rapida, e nel parlare gli avveniva di saltare delle sillabe e delle parole senza accorgersene. Gli pareva di essere meno sicuro della sua memoria, perchè i pensieri gli si affollavano alla mente e subito svanivano, ed era questo il tormento maggiore per lui, che avendo la fantasia eccitata e una grande profusione di parole e di immagini, riusciva ad esprimersi male e confusamente, e di quando in quando precipitava talmente il discorso che, senza poter dire che vi fosse in lui un difetto, si capiva dalla pronuncia e dall'incertezza della parola che egli non era più in stato normale. Il peso del corpo diminuì in poco tempo di 15 chilogrammi, e di notte soffriva di insonnia e di sudori profusi. Bastò un mese di riposo e di cure, perchè scomparissero tutti questi sintomi e migliorassero le condizioni generali della nutrizione. Un mio amico che non è medico, il quale sa che sto raccogliendo delle osservazioni sulla fatica intellettuale, mi raccontò di un Deputato col quale gli accadde di fare un viaggio da Roma a casa. Questo Deputato gli apparve così esaurito nel cervello che egli mi domandava se poteva essere una malattia grave del sistema nervoso, o non piuttosto una debolezza, della mente per eccessivo lavoro. Nel parlare questo Deputato perdeva continuamente il filo del discorso. La più piccola digressione, una parentesi anche di poche parole, bastava per farlo restare a bocca aperta, senza che sapesse più raccapezzarsi. Poi, di tratto in tratto si dimenticava che erano stati compagni di studio e gli dava del Lei. Il mio amico lo avvertì due o tre volte mettendo la cosa in scherzo, ma poi tacque, perchè gli faceva compassione e lasciò che gli dèsse del Lei e non cercò più di raddrizzare i suoi discorsi sconclusionati. So che questo Deputato fu nuovamente eletto e credo perciò non fosse una malattia grave del sistema nervoso, ma che piuttosto fosse l' effetto di uno strapazzo del cervello. Un mio collega mi faceva notare che molti uomini politici soccombono rapidamente alle malattie infettive, e muoiono giovani, e che ciò deve attribuirsi allo stato di indebolimento del sistema nervoso.

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Avrei ancora molte altre cose da dire sulla fatica del cervello e dei muscoli; ma per questo volume, il lettore ne ha abbastanza.

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Schmidt avevano già dimostrato che i muscoli di un cane, vivono abbastanza lungo tempo quando sono staccati dal corpo, se si fa circolare artificialmente del sangue defibrinato nelle loro arterie. Kronecker, eliminando alcune cause di errore, ed esperimentando sulle rane, diede alla legge della fatica la sua espressione più semplice. Kronecker nei muscoli staccati dal corpo, riuscì a scrivere 1000 e anche 1500 contrazioni, l' una dopo l'altra, colla più grande regolarità. Ripetendosi le contrazioni, a misura che cresce la fatica diviene minore la loro altezza e vanno regolarmente digradando sino a cessare del tutto. Kronecker ne trasse la legge che "la curva della fatica di un muscolo che si contrae in eguali spazi di tempo e con delle scosse di induzione egualmente forti, è rappresentata da una linea retta. " Un'altra legge formulate da Kronecker si è che: la differenza dell' altezza delle contrazioni diminuisce quando crescono gli intervalli del tempo: ossia l'altezza delle contrazioni diminuisce tanto più presto quanto è più frequente il ritmo col quale si eseguiscono le contrazioni, e viceversa. Kronecker studiò i mutamenti che succedono nella sostanza dei muscoli affaticati, e dimostrò le differenze individuali profonde, che tanto gli animali a sangue caldo, quanto le rane presentano nella resistenza alla fatica. Vi sono dei cani che dopo fatte 150 contrazioni non rispondono più, ed i muscoli eccitati presentano un raccorciamento minimo ed appena visibile, mentre altri cani in condizioni identiche di esperienza danno 350, 500 e anche 1500 contrazioni, sollevando 40 o 50 grammi prima di esaurire completamente la loro forza. Intorno ad altre parti del lavoro fondamentale del Kronecker, avrò occasione di parlare più tardi.

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Egli resistè meglio alla fatica, e la sua curva mentre oggi nella prima, parte va rapidamente decrescendo, che questo è appunto il suo carattere personale, si mantiene nella seconda parte abbastanza resistente al lavoro prima che si esaurisca l'energia. È inutile che io soggiunga che anche qui egli sollevava 3 chilogrammi col ritmo di 2 secondi. Del dottor Maggiora e del professor Aducco, siccome lavorarono con me per lo spazio di sette anni circa, conservo tutta la serie delle curve durante questo periodo di tempo, chè non passò mai mese che per qualche ragione non facessimo delle esperienze coll'ergografo. Ho dunque tutte le trasformazioni, gli alimenti e le diminuzioni che per cause diverse, presentò la loro forza. Ho notato che le variazioni sono più evidenti nei miei colleghi che sono giovani, di quello che siano sopra di me in cui il tipo è rimasto invariato. Per ottenere ogni giorno le medesime curve bisogna che il nostro corpo lo mantemamo pure in condizioni identiche. Il regime, il riposo della notte, le emozioni, la fatica intellettuale esercitano una influenza evidentissima sulla curva della fatica. Basta che uno digerisca o dorma male o faccia qualche eccesso, perchè subito la curva cambi non solo per la durata del lavoro, cioè per il numero delle contrazioni ma nel tipo stesso della sua curva, così che uno che abbia una curva come quella del professor Aducco, può sotto l’ influenza di cause debilitanti, dare una curva che rassomiglia a quella del dottor Maggiora. Le differenze si riferiscono non solo alla quantità del lavoro meccanico ed alla figura della curva, ma anche al tempo che è necessario al ristoro dei muscoli, così che dovrà aspettarsi un tempo più lungo del normale perchè il muscolo si reintegri nella sua forza. Vedremo cioè che dopo un esaurimento della forza due ore non bastano più, ma ci vorrà un tempo più lungo per dare nuovamente una curva normale. Una differenza notevole nella forza si produce col cambiare delle stagioni: di questo mi convinsi con ripetute esperienze sopra il professor Aducco nel quale il calore della state modifica d' assai la nutrizione del suo organismo. L'esercizio, di tutte le cause che modificano le condizioni del corpo, e quello che aumenta di più la forza dei muscoli. Lo vediamo nel tracciato 10 del professor Aducco, che è quasi lungo il doppio del precedente, perchè qui fa 80 contrazioni, e la loro altezza totale è di 2m959 -. Questo tracciato fu scritto mentre il cilindro si moveva più rapido che nel tracciato della figura 7 : perciò le linee sono alquanto più staccate l’ una dall'altra: ma il ritmo delle contrazioni è sempre di due secondi. Il lavoro meccanico compiuto in questo tracciato per esaurire la forza dei muscoli flessori del dito medio è di chilogrammetri 8.577. Vediamo cioè che dopo un mese di esercizio fa

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Fisiologia del piacere

170573
Mantegazza, Paolo 12 occorrenze
  • 1954
  • Bietti
  • Milano
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Ma quando anche i frammenti dei primi oggetti sono abbastanza studiati, egli, alzando le manine colle sue piccole dita distese, cerca nuova materia ai suoi bisogni. Se l'ottiene, essa gli darà tanto maggior piacere quanto più diversa sarà dalla già nota, e sopra di essa ritenterà le prime esperienze di analisi distruttiva. Così a poco a poco l'uomo-bambino, diventando fanciullo e adolescente, perde una sorgente di gioie, perchè gli oggetti che lo circondano sono da lui abbastanza conosciuti, e l'abitudine gli ha reso indifferenti le sensazioni che gli hanno dato tanti piaceri nei primi giorni della vita. Ma se un uomo adulto non può assolutamente, con tutti gli sforzi possibili dell'attenzione e della fantasia, trarre da un foglio di carta tutti i piaceri che un bambino gode nello stracciarlo, i piaceri del tatto specifico non gli sono negati. Vi sono alcuni corpi che, anche conosciuti, possono, per la loro particolare struttura, fornirci sensazioni piacevoli, qualora, non avendo la mente preoccupata da altra idea, si ponga su loro una sufficiente attenzione. Così nei momenti di ozio o di riposo si possono provare grandissime voluttà nel passare il palmo della mano sopra il velluto o sopra la seta, o nel fare scorrere le dita fra lunghe e fine chiome, o nel premere, passeggiando, uno strato sottile di neve appena caduta; mentre un uomo, preoccupato o disattento, potrebbe coi piedi nudi camminare sopra una pelliccia di martora senza provarne la minima sensazione di piacere. Anche ammettendo però che si presti un'attenzione speciale ad una sensazione tattile, non sempre essa riesce piacevole. Per godere di questi piaceri delicatissimi è necessaria una squisita sensibilità concessa a pochi individui. Si hanno piaceri particolari toccando o fregando corpi lisci, come sarebbero i marmi, i metalli, il talco, la pietra saponaria, ecc. In questi casi il piacere dura pochi istanti e non si diffonde quasi mai più in là della parte del corpo che viene toccata: esso è tanto maggiore quanto più nuovo è il contatto, e quanto meno la parte è esercitata alle impressioni tattili. Così il contatto con una vasca di marmo, per un individuo che non si sia mai bagnato così, è assai più voluttuoso del contatto della sola mano con la stessa materia. Si provano piaceri tattili mettendo la pelle in contatto di corpi che hanno una superficie molto suddivisa, come le pellicce, le matasse di seta, i capelli; nel premere col piede i cristallini della neve, ecc. Altri piaceri si hanno dal contatto di corpi alquanto scabri, sia scorrendone la superficie, sia strofinandone la polvere fra le mani. In questi casi pare che il piacere venga prodotto da una leggera irritazione che accumula sopra una serie di punti staccati della pelle sensazioni piuttosto forti. Si ha un'altra specie di piacere tattile nel maneggiare un corpo molle che, senza sporcare la pelle, si modelli sotto la pressione, cambiando ad ogni tratto di forma. Sensazioni simili si hanno premendo fra le dita la mollica del pane, la creta, o altre materie consimili; nel preparare il glutine, chiudendo la farina in un sacchetto di tela e pigiandola sotto un filo d'acqua; nel premere fra i denti il mastice, ecc. Altri piaceri si hanno facendo scorrere fra le mani vari corpi cilindrici di piccolo diametro, come sarebbero cannucce matite, cilindretti metallici, ecc. Il piacere è leggero e puramente locale. Si hanno piaceri tattili facendo girare sotto il palmo della mano un corpo perfettamente sferico. Il piacere è locale, ma può arrivare tuttavia ad un certo grado d'intensità. Un'altra fonte di piaceri tattili consiste nel maneggiare corpi elastici che, cedendo ad una leggera pressione, ritornano ad invitare la parte che preme a rinnovare il contatto. Si provano piaceri consimili maneggiando la gomma elastica, o materie affini, come le lamine d'acciaio, i giunchi, o premendo fra le mani un pallone di cuoio pieno d'aria, ecc. Altri piaceri tattili vengono prodotti dal gettare nell'aria un corpo di un certo peso e nel riceverlo nel palmo della mano per rimandarlo di nuovo in alto, oppure nel determinare il peso di un corpo che sotto piccolo volume sia molto pesante, piaceri dei quali si può formarsi un'idea facendo saltellare sulla mano una palla da fucile, oppure maneggiando una piccola sfera. Queste sensazioni, come quelle della categoria precedente, riescono piacevoli specialmente per l'alternarsi del riposo coll'esercizio del senso. Altre sensazioni piacevoli derivano dall'esercitare una azione qualunque con un corpo sopra un altro, che cede più o meno facilmente. Per questa via si hanno infiniti piaceri, ad esempio tagliando a fette il molle tessuto d'una zucca con un coltello molto tagliente, o conficcando un chiodo entro una lastra metallica. Fra queste sensazioni estreme, di una resistenza minima e di una resistenza massima, stanno le altre del cacciare un chiodo in una tavola di legno, del segare, del trapanare, del formare la capocchia a una verghetta di ferro conficcata fra due lastre metalliche forate, del piallare, e infinite altre che sarebbe inutile e improba fatica enumerare. Tutti questi piaceri, per lo più, sono resi molto complessi dal bisogno di esercitare i muscoli, dal piacere di riuscir nell'intento, e da altri elementi che possono anche provenire dalle facoltà superiori.

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La fisonomia di questi piaceri ha pochi lineamenti, perchè essi sono abbastanza calmi per scaricarsi a poco a poco entro di noi. Il più delle volte gli occhi esprimono la gioia brillando in un modo insolito, mentre le labbra si atteggiano ad un muto sorriso. Qualche volta il giuoco della fisonomia è accompagnato da fregatine di mano, da salti, da esclamazioni di gioia o da alcuni moti bizzarri. Ognuno può consultare la propria memoria e ricordarsi qualche caso personale.

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Non si può amare che una persona di diverso sesso e nell'età feconda; ciò che prova abbastanza la ragione necessaria dell'affetto. Dal ceppo di una stessa pianta l'industre giardiniere può ritrarre un rampollo da frutto, come può educare una gemma che esaurisca la sua vita nel fiore e nelle foglie. Ogni ramo però, sia che s'adorni soltanto di fronde e di fiori, o sia carico di semi, ha pur sempre la stessa origine, e spetta sempre alla stessa pianta. Lo stesso avviene dell'amore. Nell'ordine naturale questo sentimento ci dà le foglie nelle sue gioie più pure, ci dà i fiori nei piaceri misti che si possono indovinare, e ci rallegra coi frutti quando arriva al suo sviluppo completo. Come un albero può crescere alto e rigoglioso senza dar fiori nè frutti, così l'amore può illuminare di gioia la vita di due individui, senza che mai abbiano insieme spasimato nei piaceri del senso. Ma non per questo è men vero che la natura destina l'albero a tramandare la sua vita per mezzo dei semi, come accende il fuoco dell'amore perchè tramandi il calore della vita. Nello stesso modo con cui la vita d'una pianticella si prolunga, quando le si impedisce di portar fiori o frutti; così la vita dell'amore si protrae assai più a lungo, quando si accontenta di porgerci le foglie sempre verdi delle gioie platoniche. Quando la pianta ha dato i suoi frutti, il fine della natura è raggiunto, e se la vita, e conseguentemente l'amore, si prolunga ancora, ciò si deve alla generosità della provvidenza.

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Quando gli individui sono nati alla vita fisica ed educati alla vita morale, in faccia alla natura i genitori hanno vissuto abbastanza, e la vita dell'umanità sussiste anche senza l'affetto filiale. Il sentimento filiale però esiste, e può esser forte, violento, capace dei più grandi sacrifici; pure non cessa per questo di essere un affetto di lusso. Si dice sempre che i figli hanno il dovere di amare i loro genitori, e questo comandamento fu scritto in tutti i codici del mondo. Non si parla invece quasi mai di dovere, quando si tratta dell'affetto dei genitori verso i figli, e quasi sempre si dimentica d'imporlo come un comandamento. Ciò è naturale: sarebbe stato lo stesso come imporre all'uomo di respirare. Noi siamo dotati di moltissime facoltà morali di puro lusso, le quali non cessano per questo di essere meno nobili e sublimi. Sebbene la musica non sia necessaria alla vita fisica, non cessa per questo di essere un'arte divina che sparge a profusione le gioie più vive. Così è dell'affetto filiale. Quantunque esso non sia indispensabile alla vita morale delle generazioni è però uno dei sentimenti più delicati e soavi, che elevano appunto ad una grande altezza l'umana dignità, perchè non si fonda sulle leggi della materia viva, ma posa il piede nelle regioni misteriose del bello, del vero, del buono. Se non possiamo consolarci col pensiero di poter ricambiare i nostri genitori colla stessa misura d'affetto che essi ci prodigano, possiamo però confortarci di amarli quanto possiamo e quanto dobbiamo, il che è tutto dire. Si corre sempre verso la perfezione, anche essendo sicuri che non la si può raggiungere; or bene, si deve amare il proprio padre e la propria madre fin dove è umanamente possibile, quand'anche si sappia che noi non potremo mai pagare il nostro debito. Bisogna proprio, in questo caso, rassegnarci ad esser debitori, anche quando si è milionari di sentimento. Se noi avremo figli, sconteremo sicuramente in parte il nostro debito, diventando creditori verso di essi. Il padre e la madre si possono amare colla stessa forza, ma non mai nella stessa maniera. Per la madre si ha un affetto più caldo, più confidente e, direi quasi, più gonfio di quella sensualità del cuore che si può comprendere ma non definire. Per il padre, invece, si ha un amore più ideale, più elevato, e nel quale entra assai più la venerazione e la gratitudine. Si ama sempre la madre coll'ingenuità gaia ed espansiva del cuore fanciullo, mentre si ama il padre colla calma e colla prudenza del cuore già adulto. Colla madre si piange e si racconta, col padre si sorride e si ragiona. Chi non ha conosciuto sua madre può appena immaginare le gioie soavi di chi la possiede. Quando, riandando le nostre memorie, cerchiamo di distinguere le forme vaghe e nebulose. che vagano oscillando nel più lontano nostro orizzonte, rammentiamo qualche scena di famiglia nella quale campeggia l'ombra di nostra madre; ricordiamo qualche dolore che cessò all'apparire di quell'angelo consolatore; qualche immensa gioia provata fra le sue braccia o sulle sue ginocchia. Avvicinandoci al presente, rileviamo più distinte le immagini delle nostre reminiscenze: sentiamo più caldi i fremiti delle ombre che ci passano davanti; vediamo nostra madre quando ci insegnava nell'alfabeto gli elementi della più sublime e pericolosa fra le scienze; sentiamo ancora scorrere la sua mano affettuosa nei ricciuti capelli che coprivano la nostra testolina. Non ricordiamo forse quelle giornate lunghe e misteriose che passavamo con lei, quelle indefinite chiacchiere, quei giuochi interminabili, quando ella si sedeva sul suolo per farsi più vicina a noi, per farci ridere, per farci rotolare sul molle tappeto erboso sotto una salva di carezze, rese tempestose e convulse dall'affetto? Se avete labile la memoria, e duro il cuore, saltate più avanti; se avete corta la vista, non guardate alle piccole gioie, rammentate soltanto le grandi. Non vi ricorre alla mente qualche sventura fanciullesca che vi obbligava a singhiozzare profondamente, che vi faceva disperare e che pure sparì ad un tratto al solo apparire del vostro angelo consolatore? Io sento ancora i baci che mia madre mi improntava caldi e ripetuti sulle mie guancie, sento ancora le sue parole soavi e generose, credo ancora di vedere il sorriso indefinito con cui ella, guardandomi, col dito del comando m'imponeva la gioia e mi faceva ridere di mezzo alle lacrime che mi scorrevano a rivi. Nè sol questo ricordo. Gli arcani silenzi della chiesa, le trepide paure notturne, le ire e le busse de' miei coetanei, la storia interna de' miei dolori e delle mie gioie si riannodano sempre a mia madre, che, come un angelo, dopo avermi data la vita, mi ha fatto palpitare ai più generosi sentimenti; che, dopo avermi insegnato a parlare, a leggere, a scrivere, dopo avermi dato insomma in mano gli strumenti che mi dovevano fare operaio della grande manifattura sociale, mi ha mostrato la via che guida alla gloria, e mi ha detto che la migliore prova d'affetto ch'io le avrei potuto dare sarebbe stata una corona di incorrotti allori...

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Altre volte l'odio viene eliminato in parte dai nobili affetti, e non essendo forte abbastanza da eccitare all'offesa, sorride però di compiacenza all'altrui sventura. Nei gradi massimi l'azione è veramente necessaria a spegnere la forza straordinaria accumulata in un cuore che si consuma nell'odio più veemente, e i delitti sono le barbare gioie che sodisfano questo crudele sentimento. Più d'una volta fu visto l'uomo sorridere alla fatale sventura di una calunnia creduta vera, e contemplare con feroce smania gli ultimi aneliti di una vittima colpita a morte. Misurate lo spazio immenso che separa il fanciullo che gode nel tormentare un povero insetto, e l'assassino che prova un'atroce voluttà nel sentire sotto la sua mano le viscere palpitanti della vittima che spira domandando pietà: voi avrete un'idea del numero infinito di gioie più o meno morbose, che coltiva il sentimento dell'odio. Forse, meno pochissimi eletti, tutti gli uomini hanno nel cuore un germe di odio, che, atrofizzato e isterilito dai nobili affetti che da ogni parte rigogliosi lo circondano, dà quando in quando deboli segni di vita, oppure, con una subitanea esplosione, erutta lave ardenti che non offendono alcuno. Le forme più innocenti con le quali l'odio si sviluppa in questi casi, sono gli accessi di collera, gli irrefrenati scatti d'ira e atti di avversione, e moltissimi individui mediocri, in cui l'odio non dà mai scintilla o fiamma, senza commettere positivamente un'azione colpevole, sono sempre indispettiti e col muso ingrugnito, pronti ad aggredire astiosi.

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Alcuni, incapaci di questo sacrificio, non potranno mai arrivare ad una gioia purissima; altri non la raggiungono perchè la fatica dell'imparare, essendo troppo sproporzionata alla debolezza delle loro facoltà mentali, non viene ricompensata abbastanza dal piacer di sapere. Chi arriva sulla cima del monte stanco e sfibrato non può godere del sublime spettacolo che di là si contempla, perchè il piacere ch'egli prova viene soverchiato dalla sua sofferenza; così lo scolaro, che zoppica, e suda, e piange sul sentiero della scienza, non può amarla, e la maledice come una delle tristi necessità della vita. I piaceri dell'imparare variano in una scala infinita secondo la natura delle cognizioni. Chi presta un culto speciale alle matematiche può sbadigliare sur un libro di storia; un altro linguista, può rimanere indifferente alla lezione più interessante di chimica, e così via. Inoltre altre condizioni fuori e dentro di noi possono modificare i piaceri che si hanno dall'acquisto di cognizioni; ma l'elemento onnipossente che misura quasi sempre il piacere, è la fede nella scienza umana. Il bisogno di imparare può accompagnarci con tutta la sua passione fino all'estrema età, conservandosi sempre giovane; mentre lo spirito di osservazione è sempre adulto, spesso anche vecchio. Se il primo può andar compagno della mente meno evoluta, il secondo invece è sempre indizio sicuro di certa superiorità. Le gioie in quest'ultimo caso sono più calme, delicate, direi quasi sottili, e sembrano irradiarsi in tutto campo del pensiero. Nell'atto di osservare, tutta la mente pende intenta sopra un oggetto, aspettando di elaborare le scoperte che essa va facendo ad ogni istante. Il piacere di osservare, si può benissimo confrontare alla compiacenza che prova l'operaio nel disporre in bell'ordine i suoi strumenti e nel contemplare il lavoro che sta per cominciare. In generale si adopera la parola osservazione per indicare l'attenzione che la mente presta alle impressioni che arrivano ad essa per mezzo della vista; ma nel senso più vasto si può osservare anche un fenomeno interno. I piaceri che si provano nell'acquisto delle cognizioni o nell'osservare, esercitano quasi sempre un'azione benefica sulle facoltà intellettuali. L'amore del sapere da solo è una facoltà affatto neutra; ma siccome è sodisfatto dalla scienza, ne viene che chi prova le sue gioie diventa sempre più avido di gustarle, e trascurando i piaceri meno nobili o più pericolosi, acquista la vera passione dello studio. Studio e osservazione sperimentale sono i due mezzi per arricchire la mente: col primo si approfitta della esperienza e del sapere accumulato per secoli dalla umanità; con la seconda si acquistano direttamente le cognizioni con la esperienza propria e con l'applicazione personale delle nostre facoltà. Le gioie dell'osservazione sono più intense e rendono acuto lo sguardo della mente, avvezzato alla riflessione calma e riposata; e sebbene da sole non insegnino ancora a pensare, pure esercitano la mente ad uno dei più preziosi esercizi e preparano i buoni materiali d'opera per rendere più facile e fruttuoso il lavoro. Coltivando questi piaceri con affetto, si può accrescere la temperanza e la prudenza del pensare; o farle nascere quando mancano. L'osservazione è il miglior freno che possa contenere l'impetuoso destriero della fantasia; è il precettore più severo che educa e castiga i capricci puerili e le strane bizzarrie della mente; è il miglior compagno di viaggio che si possa dare alla poesia nel suo cammino verso la verità. Tutte queste gioie sono meglio coltivate dall'uomo che dalla donna. La civiltà le diffonde con l'educazione a un maggior numero di individui, ma ciò che le misura con diversa proporzione è il sistema cerebrale.

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La mimica d'un pigro che al mattino sta godendo il passaggio dal sonno alla veglia e dalla veglia al sonno, è abbastanza espressiva per dimostrare che i piaceri che gode sono vari e numerosi. Egli comincia ad aprir gli occhi alla luce, e le immagini degli oggetti che lo circondano, confondendosi cogli ultimi fantasmi della notte, formano mille combinazioni fantasmagoriche; ma le palpebre ricadono lentamente per riaprirsi poco dopo, stando in questo modo ad indicare gli alterni passaggi dal mondo esterno al nulla, dove incerte ombre vagano sole a dinotare la vita latente d'una mente sonnacchiosa. Ma il respiro si fa più frequente e il sangue, scorrendo più caldo e più celere per tutti i tessuti, a poco a poco ridesta a vita la mente; e il beato mortale si agita lentamente, stira le membra ed effonde in un lungo sbadiglio la pienezza di voluttà che lo innonda. La mimica di un piacere che nasce dal movimento è affatto diversa da quella del riposo. La faccia è animata, e gli occhi brillano. Il riso, i gridi, i moti estesi delle membra sono altrettante espressioni di questi piaceri, che non si godono completamente che dopo il riposo; come questo non si gode in tutta la sua pienezza che dopo una lunga fatica. I piaceri negativi, che provengono dalla cessazione dei dolori, possono avere una fisonomia molto significativa, tanto più viva quanto più forte era il dolore. I lunghi e ripetuti sospiri, il riso, il canto, i gridi di gioia, la calma e il languore della fisonomia, sono altrettanti elementi, che si combinano fra loro in diverso modo, sì da dare alla fisonomia una mobilità tale da variarla secondo un'infinità di circostanze. Il piacere complesso che si gusta dopo un lento pasto può avere una mimica molto espressiva. Chi lo prova, sta seduto ed atteggiato ad un calmo riposo. La sua fisonomia è turgida e rossa, la bocca è semiaperta, e gli angoli, ritraendosi alquanto simulano il principio di un sorriso, e allargano le gote, gli occhi sono lucenti e, movendosi lentamente in un ristretto orizzonte, vedono senza guardare. Le mani sono per lo più incrociate sul ventre, quasi a sentire i voluttuosi fremiti del cibo che va elaborandosi in chimo. L'espressione generale è quella insomma di una sovrana beatitudine. L'esercizio di questi diversi piaceri influisce a perfezionare il senso tattile in generale, che giunge a modificare l'intero organismo e lo predispone a godere di tutti gli altri piaceri.

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Egli è abbastanza vicino alla miseria per poter conoscere l'aridità di quel suolo, e per poter apprezzare degnamente le pingui pianure nelle quali è nato; e d'altra parte non è così lontano dalla ricchezza da dover disperare di arrivarvi. Se l'ingegno o la fortuna gli sono propizi, nessuno più di lui sa apprezzarne e goderne le delizie. Il povero, quando vi arriva, ne rimane inebbriato e sbalordito, piuttosto che beatificato; e, d'altronde, l'ottusità de' suoi sensi non gli permette di godere nella loro squisita delicatezza le nuove gioie. In tutte le condizioni sociali si può esser felice; ma il povero lo è rare volte, perchè i dolori lo rendono incapace a godere molti piaceri che esigono riposo e calma. Il ricco ha nelle proprie mani tutti i mezzi per aspirare alla felicità, ma può più facilmente d'ogni altro farne abuso. Per essere felice egli deve avere il genio dell'economia, il quale è concesso a pochissimi. L'uomo invece che nasce sotto la zona temperata dell'aurea mediocrità, e quello che senza genio e senza alta morale può esser felice a più buon mercato di tutti. È una verità vecchia come la società umana, e che tutti i filosofi e tutti i poeti del mondo hanno ripetuto su tutti i toni. I ricchi, dopo esser nati in una terra di fiori, non possono sicuramente uscirne senza pigliare un forte malanno; ma spesso vi sbadigliano e vi si annoiano a morte. A noi soli beati mortali la natura ha concesso di abitare il mondo intero; e se dopo aver corso a lungo pei sentieri della vita, riusciamo a ripararci nell'età adulta in più tiepido clima, vi assicuro che non ne soffriamo il più piccolo incomodo. Chi desidera di diventar ricco sperando di essere più felice, il più delle volte non si inganna, e d'altronde aspira alla cosa più naturale del mondo; ma chi vorrebbe esser nato ricco, a meno ch'egli non abbia il genio dell'economia politica, desidera un bene pericoloso e un male probabile. Ogni professione ha i propri piaceri: una gioia speciale caratteristica con varie altre minori e secondarie; oppure una gioia alla quale si riuniscono vari piaceri sotto forme e proporzioni diverse in modo da costituire un gruppo speciale. La storia dei piaceri di ogni professione sarebbe certamente un lavoro molto interessante, se ad esse fosse unita la storia dei dolori, i quali, confondendosi e cementandosi insieme ai piaceri, presenterebbero la formula viva e fisiologica nelle diverse condizioni sociali. Il separare, nella storia delle professioni, i piaceri dai dolori, è un guastare uno dei più bei quadri di storia dell'uomo morale. Si possono dare diverse classificazioni più o meno razionali delle professioni umane, e si possono anche dividerle secondo la natura dei piaceri che in esse predominano. I piaceri del senso tattile puro e semplice sono più numerosi in tutte le professioni manuali ed artistiche, e la scultura sta forse al disopra di tutte. Le facili gioie del gusto sono, in generale, più vive nelle professioni del cuoco, del soldato e del medico. La grandissima differenza che esiste nella sensibilità dei nasi fa sì che nessuna professione possa esercitare sui piaceri dell'olfatto tale influenza da vincere in un modo sensibile l'organizzazione del senso. Se ciò non fosse, i fabbricatori e i venditori di essenze dovrebbero essere i privilegiati. I maestri di musica e gli artisti gustano più che gli altri dei piaceri dell'udito. I piaceri della vista si godono meglio nelle professioni di viaggiatore, di micrografo e di pittore. I piaceri dell'onore possono essere di tutte le professioni, ma si gustano più spesso in quella del soldato. Le gioie della gloria sono concesse a tutti, ma per aspirarvi bisogna essere almeno d'intelligenza aperta e di cuore fermo. Possono aspirarvi scienziati e artisti. L'ambizione con tutte le sue varietà minori concede maggiori piaceri a quelli che esercitano una professione di governo o hanno in mano il potere. I piaceri del possesso sono più vivi nelle professioni di banchiere, di negoziante e di possidente, se questa può ritenersi professione. I naturalisti e gli specialisti di ogni genere provano quasi sempre più degli altri i piaceri del raccogliere. I piaceri della benevolenza pratica dovrebbero essere più largamente concessi ai medici, ai sacerdoti e a tutti gli addetti a stabilimenti di beneficenza. L'amor patrio dovrebbe concedere gioie più vive al soldato. Le gioie religiose dovrebbero essere più squisite nella professione del sacerdote. I piaceri della lotta si gustano meglio nelle professioni del soldato, del cacciatore, dell'avvocato, del medico, del gladiatore, dello sportivo. Le gioie della giustizia sono tesori più largamente concessi al buon volere dei giudici. Le gioie della speranza sono largamente concesse a tutte le professioni nelle quali si lavora molto e si guadagna poco. I piaceri dell'odio e del furto spettano a tutti coloro che non hanno senso morale e rispetto per la proprietà. I piaceri che non ho nominati spettano a tulle le professioni, le quali vi esercitano una influenza così debole che il più delle volte sfugge ai nostri mezzi d'investigazione.

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L'esser portati in carrozza è una sensazione che può essere piacevole quando il moto sia abbastanza uniforme e il corpo si trovi in condizioni favorevoli per godere questa maniera di moto indiretto. Il piacere riesce maggiore quando noi siamo tirati nella direzione in cui siam soliti muoverci; il moto contrario per alcuni individui è molesto e induce nausea e mal di capo. I nostri antichi, nei loro carri senza molle e sulle loro strade ineguali o sassose, non avranno certamente provati i piaceri che gode un cittadino moderno, il quale mollemente seduto sui cuscini elastici d'un'auto scorre rapidamente sul liscio lastricato della città. Per molti individui questo piacere è quasi indifferente, mentre per altri è voluttuoso e assai salutare. Le ore del giorno, la diversità delle stagioni e molte altre circostanze, modificano questo piacere. I mezzi di trasporto attualmente hanno assunto una varietà e molteplicità di forme, che la carrozza ha ormai quasi perduta ogni sua importanza. La bicicletta, le motociclette coi carrozzini, le automobili, le ferrovie, con la maggiore velocità e tutte le comodità relative, sono atte a produrre sensazioni piacevoli, delle quali è facile trovare la ragione. I mezzi coi quali d'ordinario si viaggia sulle acque possono dare vari piaceri del tatto, ma per lo più molto attenuati. Il viaggiare in un piroscafo o in una barca sopra una superficie d'acqua tranquilla produce sensazioni tattili appena sensibili; mentre, se il vento fa ondulare il naviglio, gli alterni moti possono produrre sensazioni piacevoli, simili a quelle che si hanno nell'altalena. Per molti anche l'appoggiare il piede sopra un piano mobile e che ad ogni tratto vacilla, è voluttuoso. L'essere trasportato nelle regioni dell'atmosfera nella navicella d'un areoplano, produce sensazioni tattili che, specialmente per la loro varietà, possono riuscire molto piacevoli. Le incerte ondulazioni, il rapido volo e le varie impressioni del mobilissimo campo nel quale si trova immerso l'apparecchio non possono non procurare piaceri intensi e di varia natura. Molti giuochi devono la principale loro attrattiva ai piaceri del tatto. L'altalena, il giuoco della palla o del pallone, il calcio, il tennis, le bocce, il podismo, il ciclismo, l'alpinismo, il bigliardo, la giostra e molti altri appartengono ad essi, e i piaceri che procurano constano dei vari elementi che ho fin qui analizzati, e che si combinano fra loro in diverso modo. Quasi sempre la compagnia e l'emulazione formano la parte principalissima di queste gioie.

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Chi è casto abbastanza da non aver mai conosciuto questo genere di piaceri, non deve rifiutarsi a ritenere questo vizio quasi universale; ma, interrogando i suoi amici, osservando e studiando, deve persuadersi del vero, ed esercitare la benefica influenza dell'esempio e del consiglio su quelli che lo avvicinano. Chi affermasse che questi piaceri non possono essere gustati che da persone d'intelletto ottuso e di sentimenti depravati, si ricordi che, fra i pochissimi uomini grandi, che ebbero a scrivere la propria biografia, due di essi si confessarono colpevoli di questa depravazione del senso: Goethe e Rousseau. Le cause che trascinano l'uomo con una potenza invincibile a gustare dei piaceri riprovati dalla natura sono infinite. L'ammaestramento e l'esempio sono nell'età della fanciullezza e dell'adolescenza i mezzi più frequenti coi quali questo vizio si diffonde come un contagio. Non di rado, per puro accidente, un fanciullo, portando le mani ai genitali, può imparare ad abusare di se stesso: ma appena ha appreso il fatale mistero, aspira con avida brama ad insegnarlo a' suoi coetanei, sia per manifestare la scoperta da lui fatta; sia perchè i piaceri condivisi sono più vivi; e più ancora perchè queste gioie riferendosi all'istinto della generazione, quantunque si allontanino dalle vie naturali, pure portano in sè una tendenza all'avvicinarsi dei corpi, e al dedicare i piaceri che si provano ad un essere immaginario o lontano. Qualche rara volta alcune malattie, inducendo un'irritazione grandissima e un prurito ai genitali, sono causa di onanismo, e ad esse si riferiscono specialmente le affezioni erpetiche, i fiori bianchi nelle bambine, i calcoli orinarii, ecc. In qualunque modo poi siasi appreso l'uso riprovevole, infinite sono le cause che tendono a non farcelo più dimenticare. Fra queste sono da annoverare l'amore al piacere, l'ozio, la mancanza di persone dell'altro sesso nelle quali sodisfare i bisogni del senso, i pericoli che possono venire dalla copula, la veemenza dei desideri, il dispetto e il malumore, la noia dei piaceri naturali, l'abitudine, ecc. Infiniti sono i gradi di lascivia nei diversi individui, secondo l'istinto e la ragione di ciascuno, per cui molto diversi sono gli effetti che seguono la sodisfazione di solitari piaceri. Fortunatamente i casi di onanismo spinto agli estremi gradi, od anche soltanto alla massima tolleranza dell'organismo, sono rari, sebbene alcuni autori, che scrissero sopra questo argomento, abbiano da essi esagerate le conseguenze di questo vizio, falsando in questo modo la verità. E ciò con grandissimo discapito dei colpevoli, i quali, leggendo questi libri possono aver trovato di non avere alcun sintomo della terribile tabe dorsale, e, deridendo l'autore che li aveva voluti spaventare con lo spauracchio di mali tremendi, possono aver continuato nelle loro pessime abitudini. La verità si deve rispettare e adorare come una religione, e per amore di essa si deve riconoscere che la più parte degli uomini dediti ai piaceri dell'onanismo non commettono mai tali eccessi da esser condotti a malattie gravi o mortali. Non per questo però le loro colpe vanno impunite, e la natura li condanna a discendere d'un grado dalla scala intellettuale nella quale li aveva posti. O giovani, voi siete nell'età in cui le facoltà del senso, del sentimento e dell'intelletto sono in tutta la loro potenza d'azione, e vi aprono orizzonti infiniti di gioie. La vostra fantasia vi abbellisce gli oggetti che vi circondano, e vi fa battere il cuore alla magnifica fantasmagoria dei sogni dell'avvenire. L'amore, l'amicizia, la gloria, la scienza, vi fanno trepidare di speranza, e sospirare al pensiero che la vostra vita sarà troppo breve per poter abbracciare e comprendere il mondo che vi circonda. Eppure voi sacrificate tutto questo a un miserabile piacere di pochi istanti, che vi lascia avviliti, stupidi e impotenti di tutto. La lucida intelligenza si oscura, la tenace e pronta memoria della vostra età si fiacca, l'immaginazione non riflette, più nel lucido suo specchio i fulgidi colori delle vostre fantasie, la volontà si spunta; una molesta inquietudine vi tormenta e vi fa penare lunghe ore in uno stato di indifferenza e di ozio intellettuale, che dovreste aborrire più che la morte. Anche il vostro corpo è compagno di dolore al sentimento e all'intelletto: le digestioni si fanno difficili; si provano dolorose sensazioni; spesso si ha la nausea; la pelle, specchio della salute generale, impallidisce; e la fisonomia acquista un tal carattere sbattuto e squallido, che quasi sempre svela la colpa all'occhio di un acuto osservatore. Ma tali incomodi riescono tollerabili, e il giovane si accontenta di passare alcune ore nella sonnolenza o in lievi occupazioni, aspettando che il processo riparatore lo abbia messo ancora in grado di abusar di se stesso. Allora l'organismo abituale in cui vengono tenuti gli organi genitali dalle lascive immagini della mente lo fa ricadere nella colpa. Altre volte lo scoraggiamento e l'impotenza di eccitare altre sensazioni per le quali si richiederebbe tutta l'energia, trascinano al malaugurato piacere onde provare una scossa e sentire di vivere. Una vita passata fra occupazioni languide, fra lunghe ore di sonno o di sonnolenza, fra momenti d'ira e di dispetto, e segnata qua e là dalle abitudini sozzure, è miserabile e vile. Voi tutti che, incatenati dai pregiudizi, vi siete chiusi nell'angusto sentiero di una vita modellata dalle esterne circostanze che vi ballottano e vi urtano; voi che vivete senza esservi mai domandato perchè e a che vivete, voi che non siete che morte cifre nella formula di una generazione; continuate pure nelle vostre abitudini depravate, dacchè non potete intendere gioie più elevate o men basse. Ma tutti voi altri che avete infrante le catene del pregiudizio e salendo sulle alture del pensiero spaziate libero lo sguardo sull'orizzonte che vi circonda; voi che intendete la sublime voluttà del pensare, e che indirizzate la vostra vita ad uno scopo, come la religione, la scienza, la gloria o l'affetto; per quanto vi è sacra la vostra dignità di uomo, non cedete ad un vizio che vi farebbe precipitare dall'alto, e vi spezzerebbe fra le mani quelle armi, con le quali dovete combattere i formidabili nemici che ingombrano la via del vero, del bello e del buono. Se ancora non conoscete i solitari piaceri, non tentateli affatto, perchè la prova sarebbe pericolosa. Se fatalmente li imparaste a conoscere in un'età nella quale l'intelletto era ancora bambino, combattete il nemico coll'arme più potente concessa all'uomo, colla suprema facoltà della sua mente: la volontà. Educate questa potenza preziosa: vogliate tutto ciò che è difficile a conseguire; vogliate combattere ciò che è quasi invincibile: vogliate fabbricarvi la vita fin dove in natura ve lo concede; e allora proverete la sublime compiacenza dell'aver voluto e dell'aver vinto, la quale vale assai più del sacrifizio dei fremiti più voluttuosi. Se la natura non vi ha concesso che un fiacco volere, associatevi ad altri, confidate il vostro segreto ad un amico, unitevi a lui per vincere il nemico, e rendetevi degno di una delle vittorie più difficili.

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Ben di rado poi essa può pretendere alla sublime voluttà della creazione, come lo prova abbastanza la statistica dei compositori di musica. L'uomo-bambino comincia a sentire i piaceri della musica, ma questi si riducono alla pura sensazione uditiva, che è anche incompleta e confusa. Divenuto fanciullo gode più assai di questi piaceri, ma la sua continua distrazione e l'imperfezione delle facoltà intellettuali gli impediscono di gustarli in tutta la loro pienezza. È nell'età della fantasia e del genio che la musica apre tutti i suoi tesori di armonia, portando al massimo grado di esaltazione tutte le facoltà cerebrali. Nell'età adulta l'esperienza supplisce, come nelle altre sensazioni, alla raffinatezza del piacere, per cui questo è più calmo, ma può essere ancora intenso e delizioso. Quando l'uomo scende per la curva della parabola, ritornando d'onde venne, allora l'udito si fa ottuso, la fantasia si fa opaca e i piaceri dell'udito impallidiscono.

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Uno stesso oggetto, veduto in diversi tempi, ci dà immagini diverse, quando noi abbiamo sensi abbastanza delicati per distinguere i minimi gradi di differenza delle sensazioni. L'abitudine di guardare ci addestra all'osservazione e all'analisi, e in questo modo educa la mente agli studi più difficili e severi. La natura degli oggetti che noi osserviamo spesso tende pure ad ispirarci i sentimenti e le idee che vi si riferiscono, concorrendo in questo modo a segnarci un sentiero nelle lande della vita. Così la vista delle scene della natura c'ispira una serenità di mente e di cuore che tende a spargere una calma soave su tutta la vita; così la vista continua dei capolavori della pittura e della scultura ci educa al sentimento del bello. Ma la ragione di questo fenomeno sta nelle leggi che reggono l'intelletto.

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Sull'Oceano

171384
De Amicis, Edmondo 6 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
  • UNICT
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La compagnia, in somma, presentava una varietà abbastanza soddisfacente per un osservatore. Notai fra gli altri uno strano viso di color bronzeo, d'un uomo sui trentacinque anni, di fisionomia grave, e vagamente malinconica, dal quale non potei staccare gli occhi per un pezzo quando l'avvocato m'ebbe detto ch'era un Peruviano; poichè mi pareva che la forma oblunga del capo e la grande bocca e Ia barba rada rispondessero alle descrizioni che si leggon nelle storie di quegli Incas misteriosi, che m'avevan sempre tormentato la fantasia. Me lo raffiguravo vestito di lana rossa, con una benda intorno al capo e gli orecchini dorati, inteso a segnare i suoi pensieri coi fili variopinti d'una cordicella a nodi, e vedevo sfolgorare dietro di lui le gigatesche statue d'oro del palazzo imperiale di Cuzco, circondato di giardini scintillanti di frutti e di fiori d'oro. Ed era invece il proprietario d'una fabbrica di zolfanelli di Lima, che discorreva prosaicamente della sua industria col commensale che gli stava di faccia. Alle frutta le conversazioni s'animarono un poco. Sentii che il Comandante raccontava un'avventura di quando era capitano di bastimento a vela; un'avventura il cui scioglimento, a giudicarne dal gesto, doveva essere una solenne distribuzione di scapaccioni fatta da lui in non so che porto straniero a non so quale mascarson, che gli aveva mancato di rispetto. In fondo alla tavola gli Argentini provocarono più volte delle risate sonore pigliandosi spasso, a quanto mi parve, d'un commesso viaggiatore francese dai capelli grigi, il solito commesso che si trova in tutti i piroscafi, il quale rispondeva con la disinvoltura imperturbabile d'un vecchio monello, profondendo le spiritosaggini del solito prontuario, che tutti i suoi colleghi hanno a memoria. Mentre servivano il caffè, il piroscafo fece due o tre mosse più forti, e allora s'alzò da tavola, guardata da tutti, una bella signora argentina, che non avevo ancora veduta; ma essendosene andata barcollando, sorretta da suo marito, non mi potei accertare della "grazia maravigliosa d'andatura" che gli scrittori di viaggi attribuiscono alle donne del suo paese. Mi potei però accorgere, dalla curiosità ammirativa di tutti gli sguardi, che già le doveva esser stato riconosciuto il primato estetico tra le signore del Galileo, e che difficilmente sarebbe stata scoronata nel corso del viaggio. Poco dopo tutti gli altri s'alzarono, tornarono a guardarsi da capo a piedi, con la coda dell'occhio, come all'entrata, e poi si sparpagliarono a poppa, nel fumatoio e per i camerini, mostrando già sul viso la noia delle sei ore eterne che li dividevano dal pranzo.

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. - Non si fa abbastanza per chi soffre, - disse; - eppure.... non c'è altro da fare al mondo.... tutto è lì. - Se le fossero bastate le forze del corpo, avrebbe certo consacrato la vita a qualche grande apostolato di carità, e in quello sarebbe morta: lo diceva l'espressione della sua bocca tenerissima, e quella della sua fronte risoluta, sulla quale passava ogni tanto un'ombra leggiera, come il pensiero dell'egoismo e della tristizia umana, ch'ella doveva aver piuttosto indovinato che esperimentato nella sua breve esistenza. E nonostante le grandi dissomiglianze, mi passava per la mente, guardandola, il viso bianco e ispirato d'una di quelle fanciulle nichiliste che dipinse lo Stepniak, divorate dall'ardore della loro fede e pronte a morir per essa. Parlava con gli occhi all'orizzonte, con una voce d'una dolcezza inesprimibile, accarezzando con una mano la sua croce nera, e quel povero alito di bambina inferma che gli usciva dalla bocca pareva anche più tenue e compassionevole davanti a quel soffio immenso di vita che le mandava in fronte l'oceano. Aveva coscienza del suo stato? Argomentai di sì dall'indifferenza che dimostrava, come se già vivesse in un altro mondo, per le sue compagne di viaggio e per gli altri passeggieri di prima, che confondeva gli uni cogli altri, domandando: - Chi? Quale? - e facendo uno sforzo per ricordarseli. Ed era rassegnata veramente? Cercai di scoprirlo poco dopo, mentre discorreva con la bella ragazza genovese, a cui aveva portato in regalo un piccolo astuccio di cuoio, con gli strumenti da cucire. Cercai nei suoi occhi, nel momento che la fissava, se la vista di quella bella gioventù salda e florida, e quasi risplendente di vita, le destasse un sentimento anche sfuggevole di invidia, un rimpianto, il pensiero triste del paragone. Nulla. La grande rinunzia era già fatta, senza dubbio. L'amore e il desiderio della vita, partiti prima di lei, eran già nel sepolcro. In quel punto sentii dietro di me un fruscìo vivo di gonnelle e una risatina trillante. Era la signora bionda, vestita di color celeste, incipriata da una parte sola e profumata come un mazzo di fiori, che veniva per la prima volta a visitar la prua, in compagnia del Secondo, un giovialone color di rosa, alto due metri, col quale pareva già in domestichezza. Passò, sfringuellando, e guardando qua e là; ma si vedeva che non vedeva nulla di nulla, che per lei poppa, prua, macchine, emigranti, miseria, Atlantico e Mediterraneo, eran tutte cose che non la riguardavano, che non la distraevano neppure un momento dalla sua gaia coscienza di bella donnetta scervellata, libera e felice nel pieno esercizio delle sue funzioni. E osservai allora il senso acuto che hanno gli uomini del popolo nel giudicare lì per lì anche le donne della "signoria." Non l'avevano mai vista; ma la riconobbero al fIuto; e non si scansavano apposta, i sornioni, per farsi strisciare le ginocchia dal vestito celeste; le facevan dietro il verso di chi sorbe un'ostrica, o si baciavan la palma della mano, ridacchiando. Si scansarono invece, ma di mala grazia; davanti alla signora della spazzola, che le veniva dietro, sola, portando un pacco in mano, vestita con eleganza stridente. Da due giorni essa aveva preso a scimmiottare, la signorina veneta, e faceva distribuzione di confetti e frutta ai ragazzi. Ma, Dio mio! aveva l'aria d'una ispettrice, il sorriso rassegato; e mentre con la mano porgeva il dolce, con I'occhio si guardava dai contatti: tutta la sua persona rivelava la borghesuccia impastata d'invidia per chi le sta sopra e di disprezzo per chi le sta sotto, capace di commettere una vigliaccheria per entrare in relazione con una marchesa, e di dimezzare il pane ai figliuoli per strascicare del velluto sui marciapiedi. I piccini accettavano, ma le occhiate che le tiravano i grandi esprimevano la più cordiale avversione. Mentre la seguitavo con gli occhi in mezzo alla folla, vidi venire innanzi, con la sua ragazzina, quella tal signora "decaduta" delle terze classi, che il Commissario m'aveva indicato nei primi giorni: malandata di salute peggio d'allora, e resa più miserevole all'aspetto da un vestito di seta nera sciupato e sgualcito. Ci sono delle piccole umiliazioni nella sventura che fanno più pietà della sventura stessa. Tutte e due, madre e ragazza, timidamente, chi sa dopo quanta esitazione, s'accostarono a uno del cernieri dell'acqua dolce, e vergognandosi un poco, dopo essersi guardate intorno, si chinarono a succhiare i bocchini di ferro, nell'atteggiamento delle bestie all'abbeveratoio, come facevan tutte le altre: poi, vedendo che tornava in qua Ia signora svizzera, si ritirarono in fretta col capo basso, e scomparvero nella calca. Alcuni emigranti che avevan notato quella scena, ne risero a voce alta, con ironia. La signora bionda, intanto, a un cenno del Secondo, s'era soffermata a guardare la genovese, Ia cui fama di "bellezza virtuosa" le doveva già essere arrivata all'orecchio. E mi parve che la trovasse bella. Ma nel suo sguardo ridente e benevolo vidi come balenare una espressione di pietà: la pietà con cui un ardito e fortunato industriale guarderebbe un ricco inetto che tenesse a dormire nella cassa forte un capitale prezioso. Poi se n'andò, salutando con un cenno della mano suo marito, che stava in alto, - sul terrazzino del palco di comando, - a esaminare la struttura del fanale rosso.

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O miseria errante del mio paese, povero sangue spillato dalle arterie della mia patria, miei fratelli laceri, mie sorelle senza pane, figli e padri di soldati che han combattuto e che combatteranno per la terra in cui non poterono o non potranno vivere, io non v'ho mai amati, non ho mai sentito come quella sera che dei vostri patimenti, della diffidenza bieca con cui ci guardate qualche volta, siamo colpevoli noi, che dei difetti e delle colpe che vi rinfacciano nel mondo, siamo macchiati noi pure, perchè non v'amiamo abbastanza, perchè non lavoriamo quanto dovremmo pel vostro bene. E non ho provato mai tanta amarezza come in quell'ora di non poter dare per voi altro che parole. All'ultimo sogno di Fausto pensai: aprire una terra nuova a mille e a mille, e vederla fiorire di messi e di villaggi sui passi d'un popolo operoso, libero e contento. Per questo solo importerebbe di vivere, perchè la patria e il mondo siete voi, e finchè voi piangerete sopra la terra, ogni felicità degli altri sarà egoismo, e ogni nostro vanto, menzogna.

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E mi sembrava che avesse a durare un tempo incalcolabile, non sapendo immaginare una cagione abbastanza potente per cui quell'enorme commovimento dovesse aver fine. Mi sembrava ineredibile che non tutto l'oceano e il mondo intero fossero a soqquadro come quel mare, che ci fossero poco lontano e poco al di sotto di noi delle acque tranquille, e della gente sulla terra che attendeva in pace alle proprie faccende. Ma mentre mi passavano questi pensieri, che erano come un breve respiro dell'anima, ecco un'altra ondata di fiasco, come un colpo di cannone da costa, un altro sussulto del piroscafo, come di balena ferita al cuore, un altro schianto di travi, d'assiti, di tavoloni scricchiolanti e gementi, il senso dell'imminenza del disastro, Ia morte sull'uscio, un addio a tutto. l'angoscia d'un anno in un minuto. Dio eterno! Quanto durerà quest'agonia?

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Non mi potevo levar dal cuore che ci avevano pure una gran parte di colpa, in quella miseria, la malvagità e l'egoismo umano: tanti signori indolenti per cui la campagna non è che uno spasso spensierato di pochi giorni e la vita grama dei lavoratori una querimonia convenzionale d'umanitari utopisti, tanti fittavoli senza discrezione nè coscienza, tanti usurai senza cuore nè legge, tanta caterva d'impresari e di trafficanti, che voglion far quattrini a ogni patto, non sacrificando nulla e calpestando tutto, dispregiatori feroci degli istrumenti di cui si servono, e la cui fortuna non è dovuta ad altro che a una infaticata successione di lesinerie, di durezze, di piccoli ladrocini e di piccoli inganni, di briciole di pane e di centesimi disputati da cento parti, per trent'anni continui, a chi non ha abbastanza da mangiare. E poi mi venivano in mente i mille altri, che, empitisi di cotone gli orecchi, si fregan le mani, e canticchiano; e pensavo che c'è qualche cosa di peggio che sfruttar la miseria e sprezzarla: ed a il negare che esista, mentre ci urla e ci singhiozza alla porta.

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Ma aveva rischiato d'ammalare dalla rabbia nell'ultima traversata, portando da Buenos Ayres a Genova un'intera compagnia lirica, e un corpo di ballo di cento e venti gambe; a tener a segno le quali non ci sarebbero stati sul piroscafo abbastanza assi nè chiodi; e tutta la sua eloquenza minacciosa nella lingua del scì non aveva impedito che il Galileo si convertisse in un paradiso maomettano, filante dodici miglia all'ora. In condizioni ordinarie, peraltro, quando non era soverchiato dal numero e dall'audacia del nemico, era rigoroso al punto da non tollerare nemmeno un corteggiamento discreto. Ma si vantava di far stare tutti a segno senza mancare menomamente alle leggi della cortesia, di saper dir tutto a tutti senza offendere. Quando un passeggiere si stringeva troppo intorno a una signora, egli lo chiamava in disparte, e gli diceva rispettosamente: - Mi scusi, lei comincia a diventar nauseante (angoscioso). Porcaie a bordo no ne vêuggio. - Del rimanente, un galantuomo. Il vecchio maestoso che gli stava accanto - l'Hamerling -, era un chileno, un gran signore, chiamato a bordo quello che fa forare una montagna, perchè aveva fatto quel po' di viaggio dal suo paese (trentacinque giorni di mare) per andare a comprare delle perforatrici in Inghilterra, non trattenendosi in Europa, dallo sbarco all'imbarco, che due settimane precise. Serio, come sono i chileni in generale, e di modi aristocratici, aveva bazzicato nei primi giorni la brigata degli argentini; ma questi avendolo punto in una disputa sull'eterna questione dei confini meridionali delle due repubbliche, egli se n'era scostato, e non parlava più che col comandante e col prete. Altri non conosceva, per il momento, il mio vicino. Ma andava spiando un giovane toscano sbarbatello e azzimato, seduto a tavola davanti alla moglie del professore, addosso alla quale lasciava gli occhi, assorto a tal segno che qualche volta gli rimaneva Ia forchetta per aria, a mezza via tra il piatto e la bocca, come colpita anch'essa d'ammirazione. Costui aveva l'aspetto d'un Don Giovannino affamato, che facesse la prima volata lunga fuori di casa; ma dotato, sotto quell'apparenza di primo amoroso esordiente, d'un'audacia unica; e mentre circuiva la svizzera, che doveva aver conosciuto a terra, faceva ogni momento delle escursioni a prua, fiutando l'aria come un poledro stallino, la sera in special modo, con molto rischio di farsi spolverare dagli emigranti i panni attillati, ch'ei cambiava due volte al giorno. Ciò dicendo, l'agente fece rotolare un'arancia fin quasi sul piatto dello sposo, e tese improvvisamente la mano, dicendo: - Favorisca... - Povero sposo! Proprio in quel momento, approfittando della solita confusione d'ogni fin di pasto, egli lasciava spenzolare il braccio destro sotto la tavola, mentre la sposa teneva nascosto nello stesso modo il braccio sinistro: alla improvvisa domanda, le due mani risalirono vivamente sopra la mensa, separate, è vero, ma troppo tardi: la "casta porpora" aveva già tradito il segreto. - Son troppo felici, - mi disse sotto voce l'agente; - gli voglio amareggiare la vita. - Poi s'alzò, e mezz'ora dopo, salendo sul cassero, lo vidi sul castello centrale, che discorreva con un prete delle seconde classi. Ma queste, quasi spopolate, non dovevano offrire gran pascolo alla sua curiosità. C'eran due preti vecchi che leggevano quasi sempre il breviario; una vecchia signora sola, con gli occhiali verdi, che sfogliava dalla mattina alla sera una raccolta di antichi giornali illustrati, e una famiglia numerosa, tutta vestita a lutto, che formava in mezzo al piroscafo un gruppo nero e triste, immobile per ore intere. Solamente i due ragazzi più piccoli facevano qualche volta, per il ponte pénsile, una scappata fin sul cassero di poppa, dove la signorina dalla croce nera li carezzava mestamente, con le sue manine affilate d'inferma.

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