Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbastanza

Numero di risultati: 5 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

La storia dell'arte

253405
Pinelli, Antonio 5 occorrenze

Ci sono dipinti, per fortuna abbastanza rari, il cui soggetto è per noi un vero e proprio enigma e rischia di rimanerlo forse indefinitamente, nonostante gli sforzi di interpretazione iconologica messi in atto dagli storici dell’arte. Basti pensare a dipinti celeberrimi come la Flagellazione di Piero della Francesca o la Tempesta di Giorgione che, nonostante l’accanimento interpretativo con cui sono stati stretti d’assedio da decine e decine di agguerritissimi studiosi, sembrano esser rimasti inaccessibili e conservare gelosamente il proprio segreto. Più spesso, invece, il soggetto è palese e a tutti ben noto. Ma a volte, sotto un’apparente superficie di ovvietà, si celano piccoli e grandi enigmi che è necessario decifrare. Eccone un esempio: la Natività, con la grotta, la mangiatoia, l’asino, il bue, i pastori in adorazione, l’arrivo dei tre re Magi. Chiunque sa riconoscere questo soggetto. Ma perché, ad esempio, in certe Natività, la grotta assume l’aspetto di un tempio in rovina, come ad esempio nell 'Adorazione dei Magi del pittore bolognese Amico Aspertini (fig. 4), dove la canonica capanna di legno si appoggia agli archi e alle colonne dirute di un antico tempio? E perché in certi casi, come ad esempio nella Natività del senese Francesco di Giorgio Martini (fig. 5), in luogo della capanna o dei ruderi del tempio, alle spalle della Sacra Famiglia compare un arco trionfale in rovina? Nulla è a caso. Nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze, un testo medievale che raccoglie un’infinità di leggende relative alla vita di Cristo e dei Santi, si legge che al tempo della nascita di Gesù i Romani, vivendo da parecchi anni senza guerre, eressero un Tempio della Pace, e poiché l’oracolo di Apollo aveva predetto che quel Tempio sarebbe durato fino a quando una vergine non avesse partorito un figlio, avevano posto sull’edificio l’incauta iscrizione: «Templum Pacis Aeternum». Le rovine classiche di tante Natività alludono dunque a questa pia leggenda, che si conclude con il crollo del Tempio durante la notte di Natale. La misera capanna di legno che sorge sulle rovine di un antico tempio pagano allude dunque a questa leggenda, simboleggiando l’era cristiana che sorge sulle grandiose rovine della civiltà pagana, raccogliendone l’eredità, ma rinnovandola dal profondo.

Pagina 10

Un’altra particolarità da rilevare in quest’opera è la presenza della firma OPUS PETRI DE BURGO S[an]c[t]i SEPULCRI che si trova nella base del trono di Pilato: è abbastanza singolare, infatti, che Piero della Francesca abbia sentito il bisogno di firmare e datare, e per di più in lettere capitali maiuscole ad imitazione delle epigrafi latine, questa tavoletta che è tutto sommato molto piccola e potrebbe sembrare, a prima vista, lo scomparto di una predella. Uno degli enigmi più intriganti di questo quadro è, infatti, proprio quello concernente la sua destinazione e funzione originaria. Attualmente esso è custodito tra le raccolte della Galleria Nazionale in Palazzo Ducale, ma da un manoscritto settecentesco apprendiamo che in quell’epoca era conservato nella sagrestia del Duomo urbinate. Ma era la sua collocazione originaria? Difficile, comunque, che possa essersi trattato di uno scomparto di predella: non abbiamo infatti notizie di una predella di Piero che possa aver implicato un simile soggetto. Inoltre, proprie la presenza della firma induce a far scartare l’ipotesi che sia stato uno scomparto di predella. Possibile, infatti, che sia sopravvissuto solo uno scomparto e per di più proprio quello su cui il pittore aveva scelto di apporre la propria firma? Tanto più che, di norma, i pittori apponevano la propria firma sulla pala d’altare e non sulla predella.

Pagina 205

In alcuni esagoni (tavv. 2a-c) vediamo teste dipinte in modo abbastanza rozzo e sommario, con timidi scorci prospettici ed un linguaggio aspro e stentato, che ben poco ha a che fare con quello dell’Angelico e del suo entourage. Grazie ai documenti d’archivio che ci parlano della presenza nel cantiere, nell’estate del ’48, di un pittore locale, Pietro di Nicola Baroni, intento a completare l’incorniciatura ornamentale delle vele, è pressoché inevitabile ipotizzare che l’autore di queste teste piuttosto mediocri e sostanzialmente estranee alla cultura figurativa angelichiana possa essere stato proprio lui. Ipotesi che trova piena conferma da un confronto con un suo polittico della Galleria Nazionale di Perugia (tav. 2d), che ci mostra figure dipinte con un analogo stile piuttosto rustico e scarsamente espressivo, alcune delle quali presentano caratteristiche pressoché identiche a quelle delle testine orvietane anche sotto il profilo fisiognomico.

Pagina 220

Entrambe sono marginali rispetto alle corrispondenti scene figurate, di cui costituiscono la ricca intelaiatura ornamentale, ma mentre la cornice ghibertiana è ben visibile e può essere apprezzata in dettaglio da chi osserva le porte, le fasce ornamentali orvietane sono ad oltre dieci metri d’altezza rispetto al visitatore della Cappella che, pur ricavandone una percezione d’insieme abbastanza precisa, non è in grado di distinguere ogni singola testa dipinta negli esagoni e di apprezzarne la posa, la qualità e i dettagli. In altre parole, le testine non furono dipinte per essere osservate ed apprezzate una per una e nei dettagli, ma hanno un carattere squisitamente accessorio ed ornamentale, avendo come solo scopo di contribuire a rendere più ricco ed ornato l’effetto d’insieme.

Pagina 220

In questo dipinto il tema è declinato in modo abbastanza diverso da come lo era nel sarcofago antico, ma emerge con particolare evidenza un elemento comune alle due scene: il braccio inerte del cadavere, che segna un apice drammatico della composizione caravaggesca, tanto da apparire come il suo principale fulcro spaziale ed emotivo. Il grande storico dell’arte e della cultura Aby Warburg coniò per questo tipo di immagini, che troviamo più volte ripetute in diverse epoche e contesti, la definizione di pathosformeln (singolare: pathosformel), formule espressive. Nel 1793 Jacques-Louis David estrapolerà proprio questo particolare del braccio inerte, così carico di storia e di suggestioni emotive, per adattarlo ad un dipinto in cui non è rappresentato né il cadavere di Meleagro né quello di Fig. 31. Morte e trasporto funerario di Meleagro, 150-160 d.C. ca, Istanbul, Museo Archeologico. Fig. 32. Luca Signorelli, Trasporto del corpo di Cristo, 1500 ca., Orvieto, Duomo, Cappellina dei Corpi Santi. Fig. 33. Raffaello Sanzio, Trasporto del corpo di Cristo, 1507, Roma, Galleria Borghese. Fig. 34. Michelangelo da Caravaggio, Deposizione di Cristo, 1602-04, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana. Cristo, ma quello del rivoluzionario Jean-Paul Marat, ucciso a tradimento da Charlotte Corday (fig. 35). Ma ritroviamo questa pathosformel anche in un’opera recentissima del grande videoartista Bill Viola, che non è nuovo al dialogo con opere d’arte del passato, e che nel caso di questa scena (fig. 36), tratta dal suo video Emergence del 2002, ha rievocato il tema del «braccio di Meleagro» all’interno di un’emozionante rivisitazione di una quattrocentesca Pietà ad affresco di Masolino da Panicale (fig. 37).

Pagina 50

Cerca

Modifica ricerca