Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679092
Perodi, Emma 22 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Statemi dunque a sentire: "Il Diavolo", dice il proverbio, "non è mai così brutto come si dipinge", e il Diavolo dei Marcucci, che consisteva nel timore di non poter sbarcare l'inverno, fu anzi un Diavolo abbastanza umano, piuttosto allegro che no. Dopo che la Regina ebbe ottenuto da Maso che la data del matrimonio dell'Annina con Carlo Buoni fosse anticipata di alcuni mesi, tutte le donne di casa si diedero a preparare il corredo per la sposa. Carlo, da Firenze, ov'era tornato per dirigere l'albergo, aveva un bello scrivere che non si dessero brighe, che al corredo ci pensava lui. Sì, era come dire al muro, e lo stesso effetto producevano le parole della signora Durini. Le Marcucci erano attaccate agli usi domestici, e siccome nessuna del loro parentado si era maritata senza portare nella nuova casa un abbondante corredo fatto in famiglia, così pareva loro che all'Annina dovesse mancare ogni cosa se non aveva la roba filata, tessuta e cucita da esse. L'Annina, che era tornata a casa negli ultimi tempi, le lasciava fare, benché sapesse che di quella roba, che esse preparavano con tanta fatica, non avrebbe potuto servirsene a Firenze, e si lasciava sgridar dalla mamma per la sua indifferenza rispetto a quella faccenda, che aveva per la Carola e per le altre una importanza così capitale. Ella, invece, cuciva il corredino per il bimbo della Vezzosa e soleva dire ridendo: - In casa nostra dobbiamo essere sempre ventisei; quando escirò io, verrà lui, e prenderà il mio posto. - Di certo, - rispondeva la moglie di Cecco, - e se sarà una bimba le metteremo il tuo nome. Il Natale si avvicinava a grandi passi, con le nevi e il tramontano. In quel giorno tutti attendevano Carlo che doveva venire da Firenze per far le feste con la sposa e tornare poi a Capo d'anno per celebrare il matrimonio. Egli giunse la vigilia, portando seco un grosso baule coperto d'incerato, e quando l'aprì, le donne rimasero a bocca aperta. Vi era in esso biancheria, scarpe, vestiti, ed anche un bell'abito di morbida lana bianca per le nozze e un candido e soffice velo con un mazzetto di fiori d'arancio. Alcuni oggetti d'oro, semplici ma belli, completavano questo corredino degno di una signorina. Il resto era preparato a Firenze, nel quartiere dello sposo. - Carlo fa di te una principessa! - dicevano le zie toccando ogni oggetto con riguardo, per timore di sciuparlo. - No, faccio dell'Annina una cittadina; - disse Carlo, - ma non crediate che non desideri il momento di ricondurla per sempre in campagna, in una casa nostra, vicino a questo podere, cui sono tanto affezionato. L'Annina non ragionava più, tanto era sbalordita. Fra tutta quell'allegria, che fece dimenticare alle donne perfino la messa di Natale, e durante quella lunga veglia in cui furono vuotati diversi fiaschi di vino, nessuno si accorgeva del pallore della Vezzosa e delle sue sofferenze. Senza turbare l'allegria generale, a un certo punto, non potendone più, ella prese da parte Cecco e gli disse: - Credo che il nostro bimbo nascerà stanotte, come Gesù; io vado in camera, tu va' a chiamare la levatrice; ma stai zitto, perché non voglio disturbare nessuno. Cecco uscì infatti, ed ella salì in camera sua. Quando il bell'artigliere tornò da Poppi in calesse con la levatrice, la cucina era buia, e la Vezzosa spasimava. Però, prima che l'alba diradasse le tenebre, Cecco le presentava un bel maschietto che ella baciava con passione. Nessuno aveva sentito nulla, perché la camera di Vezzosa era in fondo al corridoio, e i contadini hanno il sonno duro. Così la mattina, un po' tardi, quando i Marcucci si alzarono a uno a uno, rimasero meravigliati vedendo un bimbo di più, che Cecco presentava a tutti dicendo: - Baciatelo, è il nostro Gesù bambino. La Regina lo aveva veduto prima di ogni altro, perché Cecco glielo aveva portato sul letto, ed ella aveva confuso in un abbraccio tenerissimo il figlio prediletto e l'atteso nipotino, e poi, mezza vestita, era corsa dalla Vezzosa a sgridarla perché non le aveva detto niente la sera prima. - Non ho voluto farvi perdere una nottata, mamma, - rispose la giovane madre. - Oggi dovete essere arzilla e presiedere il pranzo di Natale. Quel pranzo serbava ai Marcucci una nuova sorpresa. Carlo, quando furono a mangiare un bell'arrosto di tordi, ammazzati la mattina da Maso, si alzò e disse: - Ormai mi considero come di casa, e per questo credo di potervi trattare da parenti. Ebbene, propongo, come nipote di Cecco e di Vezzosa e come cugino del bimbo nato stanotte, che egli sia battezzato domani, che è domenica. Sono giorni di festa per noi, e ce li dobbiamo godere. Non pensate al rinfresco; il compare è stato avvertito e arriverà domani. Pensate soltanto a invitare molta gente e a stare allegri. La Carola e le cognate avrebbero invitato tutto il Casentino, tanto si struggevano di far vedere a tutti che bel giovane sposava l'Annina, e i regali che le aveva fatti. Perciò, appena alzate da tavola, mandarono tutti i figliuoli, chi di qua e chi di là, ad avvertire i parenti e gli amici che la Vezzosa aveva avuto un bel bimbo, e che il giorno dopo si battezzava con pompa. La matrigna, il babbo e le sorelle di Vezzosa erano stati avvertiti prima, e capitaron tutti, anche nel dopopranzo di Natale. La Maria salì subito dalla giovine mamma, ma le ragazzine rimasero con l'Annina a vedere il corredo e i regali, e guardavano ogni cosa con occhi di meraviglia. - Annina, che fortuna! - ripetevano. - Ogni mille una, e quell'una sei tu. La notizia della nascita del bimbo e dell'arrivo di Carlo col corredo, s'era sparsa in un battibaleno nei poderi vicini, così che la sera di Natale, benché la neve fioccasse, la casa Marcucci si empì di gente. E le donne curiose, che erano in maggior numero, guardavano alla sfuggita il neonato e mettevano invece tutta la loro attenzione agli oggetti del corredo, che consideravano come altrettante meraviglie. Se dicessi che l'invidia per la sorte toccata all'Annina non germogliava negli animi delle donne, asserirei il falso. Ragazze e mamme fissavano intensamente l'Annina, per sapere che cosa Carlo aveva trovato di speciale in lei; e il resultato di quella osservazione intensa, era che l'Annina non differiva dalle altre contadine par suo, che non era una bellezza né una ragazza intelligente. L'invidia le accecava davvero, perché l'Annina, senz'esser veramente bella, aveva un che di soavemente dolce nel visino pallido, e uno sguardo che penetrava nel cuore. Inoltre, in quei pochi mesi passati in casa Durini, ella aveva acquistato un fare composto e un garbino da persona bene educata, che si addiceva mirabilmente alla dolce espressione del suo viso e la faceva apparire molto più bella di prima. Quelle qualità dell'animo, che il volto rispecchiava, avevano legato Carlo a lei. Era la modestia e la bontà che egli cercava nella moglie, e che credeva con ragione di aver trovate nell'Annina. La mattina dopo giunse un telegramma del professor Luigi, il quale annunziava di non potersi muovere, perché leggermente indisposto. Egli pregava Carlo di rappresentarlo come compare, e dopo aver fatto gli augurî e i mirallegri a Vezzosa, annunziava l'invio di un regalo. Poco dopo arrivò da Firenze una cesta piena di liquori, paste e confetti, che i bimbi di casa Marcucci guardarono con certi occhi di golosi, girandovi intorno, finché non fu aperta. Nel dopopranzo, quando Carlo, Cecco, la signora Durini, scesa da Camaldoli per far da comare, e il bimbo, erano andati alla chiesa di Poppi per il battesimo, le donne imbandirono sopra una lunga tavola, coperta da una tovaglia di bucato, tutti i dolci e i liquori contenuti nella cesta. E la tavola non era ancora imbandita quando incominciarono a giungere gl'invitati. Un bel fuoco ardeva nel camino, e la Regina, vedendoli intirizziti, li faceva, con la sua buona grazia, accostare alla fiamma. Ma gli occhi di tutta quella gente si portavano involontariamente sulla tavola coperta di dolci, ornata di canditi e di zuccherini e su quelle montagne di confetti; e appena due si trovavano in disparte e potevano scambiare una parola, dicevano: - Eh! che lusso! I Marcucci hanno proprio avuto fortuna! I gioielli dell'Annina poi destavano l'ammirazione delle ragazze. Tutti le toccavano l'orologio, la catena, il braccialetto d'oro a forma di cordone, e uno spillo semplice e bello, ornato di alcune perline. Quando il corteo tornò dalla chiesa e il bimbo fu riportato alla mamma, la signora Durini scese a mescolarsi fra gl'invitati; furono tagliate le torte e distribuiti i confetti. La signora Durini aveva regalato alla giovane mamma una posata d'argento col bicchiere, e Vezzosa era lietissima di mostrare il dono alle amiche, perché nessuno in quei paesi possedeva simili cose. Fino a tardi, quella sera, si bevve e si mangiò, e i bimbi di casa e quelli degli invitati andarono a letto nascondendo i confetti sotto il capezzale. Carlo si compiaceva di destare la meraviglia di tutti i contadini del vicinato, perciò fece venire da Arezzo quattro carrozze coperte per condurre la famiglia e i testimoni in chiesa e al municipio, e da Firenze mandò pasticci, dolci e fiori in quantità. L'effetto di quella cucinona, ornata di fiori e piena di persone di città e di campagna, era qualcosa da non descriversi, e la sposina, vestita elegantemente di bianco, non pareva davvero una contadina. Vezzosa, anche lei, aveva voluto assistere al pranzo di nozze, e appariva più bella che mai, pallida com'era e un po' sofferente. Al momento della partenza degli sposi non mancarono le lacrime da parte dell'Annina e dei parenti, ma furono lacrime di gioia, perché tutti sapevano che la separazione doveva terminare presto e incominciare una vita lieta. Partita che fu l'Annina, la famiglia Marcucci riprese le faticose occupazioni e la esistenza di continuo e serio lavoro. La vecchia Regina, che adorava il bimbo di Vezzosa e di Cecco, era la sola che oziasse per divertirlo, e la buona vecchia pareva ringiovanita ora che teneva di continuo fra le braccia quel caro piccino, che soleva chiamare il suo Gesù, perché era nato la notte di Natale. Però la felicità non arride di consueto molto a lungo alle famiglie, e la vita ha più giorni tristi che lieti. La buona vecchia fu presa a un tratto dalla febbre e dovette mettersi a letto. Questo avveniva ai primi di maggio, e il medico, chiamato in fretta da Cecco, disse che si trattava di un raffreddore e null'altro. Ma dopo una settimana, invece di potersi alzare, come aveva detto il medico, la Regina era sempre più abbattuta e nulla valeva a renderle il vigore. Verso i primi di giugno volle fare uno sforzo e si fece portare al sole sull'aia, ma dopo pochi minuti che era lì a guardare i fiori e a sentire il lieto bisbiglio dei bimbi, fu presa da una mancanza, e le nuore dovettero portarla a letto a braccia. Da quel giorno non si alzò più, e il 15 di giugno spirò in mezzo ai suoi, non esclusi l'Annina e Carlo, venuti da Firenze per riabbracciarla. Morì la buona e cara vecchia, senza aver perduto la lucidità della mente, raccomandando ai figliuoli di restare uniti per amor suo, raccomandando ai nipotini di seguire l'esempio dei genitori e d'essere uomini laboriosi e onesti. Non è possibile dire quale vuoto lasciasse in casa la morte della Regina e quanto fosse pianta da tutti. Con lei spariva la mente illuminata, l'anima della famiglia, la donna esperta e di buon consiglio alla quale erano soliti ricorrere nei momenti solenni e difficili della vita.

La Regina tornò dunque a Farneta con una missione abbastanza grave, che non avrebbe accettata se non si fosse trattato di appagare un desiderio di Carlo. Conosceva il figliuolo, e sapeva che ritornava mal volentieri sopra una risoluzione presa; ma Carlo l'aveva pregata con tanta dolce insistenza, chiamandola "nonna cara", che ella non aveva saputo negargli la promessa di fare un tentativo con Maso. La Regina era tornata una domenica mattina d'ottobre, e potete figurarvi se Gigino e gli altri nipoti le avessero fatto festa. Ella se li era baciati, come se non li avesse veduti da anni, e aveva detto loro che nella cesta ci aveva tanti regalini. Questo annunzio, naturalmente, aveva fatto attaccare tutti i nipotini alla sottana della nonna, e siccome il vetturino che aveva accompagnata Regina aveva posato la cesta in cucina, essi guardavano ora la Regina, ora quella cesta misteriosa, che celava tante sorprese. La Regina, un po' stanca, un po' infreddolita, s'era posta nel canto del fuoco, e la Carola, intanto che le rivolgeva tante domande sull'Annina, le preparava il caffè per riscaldarla. Allorché la buona vecchia si fu alquanto riavuta, leggendo in viso ai bimbi l'impazienza, aprì la famosa cesta, e a chi dette cioccolatini inviati dalla moglie dell'ispettore, a chi balocchi, a chi oggetti di vestiario. La signora non aveva dimenticato nessuno, e Gigino aveva avuto tutto ciò che occorre per fare il giardiniere, cioè un minuscolo annaffiatoio, pala, vanga, rastrello, e con tutta quella roba fra le braccia corse nell'orto a lavorare. Allorché le donne di casa ebbero saputo per filo e per segno quello che faceva l'Annina, i regali che aveva ricevuto da Carlo e dal futuro suocero, informarono la vecchia delle faccende della famiglia. Il vino, fatto da Maso per conto di Carlo, era riuscito una meraviglia, e speravano di venderlo a un prezzo molto elevato. Questa notizia consolò la buona vecchia, e nel dopopranzo di quel lieto giorno, seduta sotto la cappa del camino, narrò ai figli e ai nipotini una bella novella. - C'era una volta, - ella disse, - in questo nostro bel Casentino, un uomo perverso, di nome Bardo. Si diceva che avesse fatto morir di crepacuore la moglie, e invece di pensare ai due figli, che la poveretta gli aveva lasciati, li mandava a chieder l'elemosina in campagna. Questi bimbi movevano a compassione tutti, tanto erano laceri e scarni, e non vi era massaia che negasse loro di scaldarsi intorno al fuoco e che non avesse un po' di minestra o un pezzo di pane per sfamarli. Una donna, specialmente, una certa Fortunata, persona assai ricca e anziana, li aveva presi a benvolere, vedendoli così disgraziati, e ogni tanto dava loro uno scialle vecchio o un mantello usato per coprirsi; e i due bimbi, non sapendo come ricompensarla della sua bontà, le recavano funghi e lamponi che coglievano nei boschi. La sera, quando Nando e la Lisa tornavano alla capanna isolata del babbo, questi voleva sapere per filo e per segno dov'erano stati e come avevano trovato da mangiare. Così venne a conoscere che la Fortunata li proteggeva, e una mattina, prima che i figliuoli uscissero, disse loro: - Stasera non tornate; fatevi mettere a dormire dalla Fortunata in cucina; caso mai io venissi a passar di lì, busserò; allora apritemi e torneremo a casa insieme. Badiamo veh! siate muti; non voglio ciarle! Questa raccomandazione era inutile, perché i due bimbi, avviliti dalla miseria, non aprivano mai bocca. Essi girarono tutto il giorno, e, venuta la sera, capitarono sull'aia della Fortunata mentr'ella mandava a dormir le galline. - Piccini, buona sera, - disse la buona donna vedendoli. - Vi ho serbato una bella fetta di pattona per uno; entrate e pigliatevela; è nella madia. I bimbi entrarono in cucina e ritornarono fuori con la pattona in mano, senza però accostarsela alla bocca. - Che avete oggi? non vi tormenta la fame, bimbi? buon segno! chi non mangia ha ben mangiato. - Fortunata, - disse la Lisa, che era la maggiore, senza alzar gli occhi, - ci potreste dar da dormire stanotte? Mentre la piccina rivolgeva questa domanda alla loro benefattrice, sentiva un tremito in tutta la persona, una smania, quasi un rimorso; e Nando, intanto, la tirava per la sottana per indurla a stare zitta. La risposta della Fortunata non si fece aspettare. - Volentieri, bambini, se vi adattate a stare in cucina. Stasera appunto non tornano né il capoccia né i figliuoli grandi, perché sono andati alla fiera a Dicomano, e io dovrei dormire sola con i piccini. Ma perché avete bisogno di chiedermi da dormire? Che forse quel malanno di Bardo vi ha cacciati di casa? I bimbi chinarono la testa; non volevano dire una bugia e neppure volevano disubbidire al babbo, che aveva imposto loro di tacere. La Fortunata interpretò il loro silenzio come una conferma delle proprie supposizioni, e disse fra i denti: - Che padre, guarda lì! Non ha altro che due bimbi e li caccia come cani! Intanto la Lisa si offriva di aiutare la massaia nelle faccende, e Nando la pregava di comandargli qualche cosa. - Vedo che vi volete guadagnare l'alloggio, - disse la Fortunata. - Ebbene, Nando, tira su l'acqua dal pozzo ed empimi il trogolo dei maiali; e tu, Lisa, va' a fare un po' d'erba per le bestie. I bimbi andarono volenterosi ad accudire alle faccende, e la massaia preparò da cena. Intanto diceva fra sé: - Almeno per una sera queste creature anderanno a letto con un po' di cena ammodo sullo stomaco. Poveri piccini! Se non avessi cinque figli, glieli leverei io a quel birbante, che non si sa come campi e non vuole intender di lavorare. E la buona donna, invece di far quella sera la minestra soltanto, staccò alcuni rocchi di salsicce, sbatté una dozzina d'uova, e quando i bimbi tornarono, trovarono la zuppa calda e una bella frittata con le salsicce. La Fortunata li fece sedere a tavola insieme con i figli, e dopo avere sparecchiato tirò il paletto; ma prima di salire in camera disse ai suoi piccoli ospiti: - Adesso sdraiatevi sulle panche accanto al fuoco e dormite in pace. Ma Nando e Lisa non poterono prender sonno. - Senti, - diceva la bambina al fratello, - perché mai il babbo ci ha mandati qui stanotte? - E perché ci ha detto di aprirgli, se bussa? - domandava l'altro. - Io ho paura. - Di che hai paura? - chiedeva la Lisa turbata sempre più, sentendo che anche il fratello divideva i suoi timori. - Che voglia fare un tiro e che, una volta in casa ... - Noi non dobbiamo aiutarlo a fare del male alla Fortunata, che è tanto buona con noi. - No davvero; non gli apriremo, - disse risolutamente il bambino. Presa che essi ebbero questa risoluzione, invece di star coricati sulle panche si sederono uno accanto all'altra, tenendosi stretti per farsi reciprocamente coraggio, e attesero. A ogni lieve rumore che udivano, facevano uno scossone; ma alla lunga la stanchezza li vinse e si addormentarono. Verso la mezzanotte, Bardo, insieme con due figuri suoi amici, si accostò alla porta della casa di Fortunata. Prima di bussare però chiese sottovoce a uno dei compagni: - Li hai proprio veduti qui, stasera, i miei figliuoli? - Altro! - rispose l'interrogato. - Prima li ho visti a cena, e poi ero qui accanto, nascosto, quando la massaia ha messo il chiavistello all'uscio. - Il capoccia e i suoi figliuoli maggiori li ho veduti io sulla via di Dicomano, dunque si può fare liberamente il tiro, - aggiunse Bardo. - In casa ci sono i quattrini che la Fortunata ha riscossi ieri dall'eredità dello zio prete, e noi, quando saremo entrati, ce li faremo dare con le buone o con le cattive. Dopo aver detto questo, si accostò all'uscio, e bussò leggermente con le nocche; nessuna risposta. - Si saranno addormentati quei due fannulloni! - disse. E bussò di nuovo. - Ora mi faccio sentire! - esclamò. E accostando la bocca al buco della chiave, si mise a chiamare: - Nando! ... Lisa! ... Nessuna risposta. - Ah! non vogliono aprire? - disse. - Ora apriranno! E accostate alcune fascine e della paglia alla porta, batté l'acciarino e appiccò il fuoco. La paglia si accese, le fascine crepitarono e ad un tratto si alzò un gran chiarore; ma la casa rimaneva chiusa, silenziosa, come se dentro non vi fosse nessuno. Intanto le fiamme salivano fino al tetto, strisciavano sulle imposte delle finestre, che ardevano pure, e circondavano la casa da ogni lato. I due compagni di Bardo fuggivano spaventati, ma egli, invece, alimentava l'incendio con nuove fascine, preso da una furia bestiale di distruzione. Se non poteva impossessarsi dei quattrini ai quali aveva già fatto la bocca, e che dovevano servirgli a fuggire da quel luogo, dove si presentavano poche occasioni di fare un buon tiro, dove era inviso a tutti e segnato a dito come un malfattore, quei quattrini non doveva goderli nessuno. E sempre metteva fascine, bracciate di paglia, e l'incendio cresceva. A un tratto sentì spalancare una imposta al primo ed ultimo piano, e vide la Fortunata affacciarsi chiedendo aiuto. Bardo, in quel momento, ebbe paura e fuggì, ma le fiamme pareva che lo perseguitassero; gli s'erano attaccate al vestito, l'avvolgevano tutto ed egli soffriva atroci spasimi. Le grida della Fortunata furono udite da alcuni coloni vicini. Essi, nonostante che la casa fosse avvolta dalle fiamme, appoggiarono scale alla finestra e la discesero insieme ai suoi bimbi. Allorché ella fu in salvo, si rammentò che giù in cucina c'erano Nando e la Lisa, e tanto pregò, tanto supplicò i suoi salvatori, che questi, abbattuta facilmente la porta, penetrarono nella cucina. I due piccini parevano addormentati ancora, stretti l'uno all'altra. Con grande fatica i contadini li portarono fuori, ma per quanto cercassero di rianimarli non vi riuscirono. Intanto la casa era caduta con gran fracasso e la povera Fortunata, piangente in mezzo ai suoi piccini, guardava ora i due piccoli cadaveri, ora le macerie fumanti, come inebetita dal dolore. Ma torniamo a Bardo. Egli fuggiva come il vento e, giunto all'Arno, vi si gettò, credendo di spegnere le fiamme che lo circondavano; ma, invece, anche nell'acqua ardeva sempre e soffriva atroci spasimi. Cercò di trascinarsi sulla riva e costì rimase, come piantato in terra. A poco a poco perdé ogni effigie umana, le sue carni si disfecero come cera e le fiamme, che avevano ridotto il suo corpo come un lungo e grosso cero, si spensero; ma sul suo capo continuò ad ardere una fiammella che gli dava dolori atroci, come se gli consumasse l'ultimo resto di vita. Allora corse all'infuriata, senza accorgersi che tornava verso la casa cui aveva appiccato il fuoco. Ma allorché fu a poca distanza, vide l'aia abbandonata, le macerie fumanti, e i cadaveri dei suoi bimbi, stretti l'uno all'altro. In quel momento Bardo capì il suo misfatto e soffrì più per il rimorso che per le bruciature delle carni. Egli sentì che il suo corpo, ridotto come un cero di carne fumante, prendeva radici nel suolo. Volle di nuovo fuggire da quel luogo, ma non poté, e dopo poco, i pietosi contadini, preceduti dal prete e dalla bara, andando a prendere i cadaveri di Nando e di Lisa, lo videro piantato in terra, ardente nella sommità e gocciolante lacrime di cera, che erano le lacrime della sua anima desolata. Il sacerdote e i pii uomini che lo seguivano, si accòrsero che quel cero umano era il corpo di Bardo e non tardarono a capire che egli era l'autore dell'incendio. Nonostante ebbero pietà dei suoi patimenti; il prete lo asperse di acqua santa e i contadini pregarono affinché fosse liberato da quel supplizio atroce. Ma Bardo rimase piantato in terra. Durante la notte egli mandava una fiamma viva e continui lamenti, e durante il giorno una luce assai più mite e copiose lacrime. La Fortunata e il marito non ebbero coraggio di riedificare la casa. Dopo avere tolte le macerie e ricuperati i denari che vi erano rimasti sotterrati, essi si costruirono, lontano da quel luogo, un'altra casa, e lì eressero una cappella, detta del Perdono, alla quale affluiva la gente da ogni parte del Casentino per pregare riposo a Bardo ed anche per vedere quel prodigio di cero umano. Ma le preghiere di tutta quella gente non ottenevano nulla; Bardo continuava a patire l'atroce supplizio. Allora un giorno, fra tanta folla di gente, comparve una donna pallidissima e scarna, con i capelli scendenti sulle spalle, i piedi scalzi e una pesante croce di legno sulle spalle. Ella, invece di andare alla cappella del Perdono, s'inginocchiò dinanzi al cero ardente, e, piantata in terra la croce, si mise a pregare e vi rimase tutta la notte. La folla, allorché fu sopraggiunta la sera, si allontanò da quel luogo; peraltro, alcune persone, fra le più curiose, vi rimasero, e a un certo punto videro scendere dal Cielo due angioletti, i quali si posero ai fianchi della donna pregante e unirono le loro orazioni a quelle di lei. Alcuni fra i presenti pretesero di riconoscere in quei due angioletti i figli di Bardo, morti nella casa incendiata. Però, prima che l'alba imbiancasse la campagna, gli angioletti erano rivolati in Cielo, lasciando la donna, la quale, senza alzarsi mai, continuava a pregare. La gente, commossa, le portava cibo e acqua per ristorarsi; ma ella, con un gesto umile della mano, ricusava tutto, e rimaneva inginocchiata senza voler rompere il digiuno che pareva si fosse imposta, senza toglier neppur un istante lo sguardo di sul cero ardente. L'unico sollievo che costei si concedesse, consisteva nell'aprir la bocca ogni tanto durante la notte e all'alba per ricevere la carezza del vento fresco. A forza di pregare, la sua voce si era fatta rauca, e dopo tre giorni non le usciva dalla gola altro che un suono inarticolato. La folla non si moveva più dalla cappella del Perdono, per vedere la donna e accertarsi che non mangiava né dormiva mai, e per attendere la discesa degli angioli dal Cielo. La quarta notte, i due angioletti, invece di collocarsi accanto alla donna genuflessa, andarono ai fianchi del cero umano e con le loro manine rosee lo afferrarono là dove stava conficcato nella terra e da quella lo divelsero. Il cero gemé più forte del solito, ma essi, senza badare a quei gemiti, lo portarono, volando per l'aria, su alla cappella degli angioli della Verna, collocandolo dinanzi all'altare. Intanto la donna s'era alzata e, caricandosi sulle spalle la pesante croce, si avviava su per l'aspro monte, inciampando ogni momento e rialzandosi con fatica. Quando ella fu giunta alla Verna, stramazzò e cadde senza potersi rialzare. I frati, vedendo gli angioli, il cero umano e quella donna caduta sotto la croce, immaginarono che stesse per compiersi un miracolo e mossero in processione verso la chiesina. Ma gli angioli erano già volati via e il cero rimaneva dritto, senza alcun sostegno, dinanzi all'altare. Allora la donna fu sollevata di sotto la croce, ed ella fece cenno che desiderava di esser portata dinanzi all'altare insieme con la croce. I frati si misero a pregare, ed ella, non potendo più articolare nessuna parola, pregava con lo sguardo supplice, rivolto sull'immagine di san Francesco, dipinta sull'altare, e su quella della Madonna. A un tratto si vide il Santo muovere le labbra e si udì una voce dolcissima domandare: - Bardo, sei pentito? - San Francesco beato, - rispose il cero spargendo lacrime abbondanti, - è tanto il mio pentimento che ringrazio il Signore del supplizio che mi ha imposto, e lo supplico di prolungarlo, se questo può lavarmi dall'orribile peccato. Il Santo sorrise di beatitudine e allora la donna, che pareva morta, si riebbe e, alzatasi, si avvicinò al cero e lo abbracciò. In quel momento si aprì la vôlta della chiesina e scesero da quella i due angioli, i quali, con le loro manine, unsero di un balsamo celeste tutto il cero. La fiammella si spense e Bardo riprese effigie umana. Quindi gli angioli, cantando, sollevarono sotto le ascelle la povera donna e insieme con essa volarono al Cielo. Nel medesimo tempo la vôlta della chiesina si richiudeva, e san Francesco faceva udire di nuovo la sua dolce voce: - Bardo, tu sei perdonato. Le preghiere dei tuoi figli, convertiti in angioli di Dio, e le suppliche di tua moglie, la quale, per salvarti, aveva rinunziato alla gloria del Cielo, hanno operato il miracolo. Ora ritorna fra gli uomini e cerca, col buon esempio, di cancellare la memoria del tuo peccato. Bardo si alzò e uscì dal convento. Egli, invece di fuggire i luoghi ove era conosciuto, andò per primo alla casa della Fortunata. La buona donna, nel vederlo, si mise a gridare dalla paura; il marito prese un forcone per cacciarlo, minacciandolo di morte. Ma Bardo non si mosse e disse: - Colpitemi, uccidetemi pure, io non temo né i patimenti né la morte. Vi ho fatto un gran danno e voglio cercare di rimediarlo. Lavorerò per voi come un cane e non avrete servo più devoto di me. E da quel giorno lavorò i campi del capoccia, fece l'erba per le bestie, badò che nessuno gli rubasse l'uva e non chiese mai nulla, cibandosi di radici e d'erbe. Il capoccia avrebbe voluto mandarlo via con la forza, ma la Fortunata, impietosita da quel pentimento, lo lasciava lavorare e gli avrebbe dato qualcosa di meglio da mangiare e un ricovero per la notte. Bardo, però, ricusava il cibo come ricusava l'alloggio, e passava le nottate sulla nuda terra, sotto la vôlta del cielo. Per anni e anni egli servì così la famiglia della Fortunata. Dopo un certo tempo, anche il capoccia si abituò a lui e cessò dal vilipenderlo e dal maltrattarlo, accettando l'opera di Bardo con piacere, vedendo che l'infelice, profondamente pentito, vegliava di continuo sulla casa sua e sui suoi. Un giorno, la figlia minore della Fortunata e del capoccia era andata a guardare le pecore sul monte. Bardo, che non aveva nulla da fare, la seguì. Dopo aver lungamente camminato per trovare una piaggia erbosa, perché l'autunno era inoltrato, la ragazzina si fermò sopra un ripiano, a fianco di una selva di abeti, e, sedutasi sopra un sasso, lasciò le pecore pascere a loro piacere. Bardo s'era posto dietro un masso e intrecciava un canestro di vimini, senza perder d'occhio la ragazzina, la quale, stanca per la lunga corsa, reclinò il capo sul petto e si addormentò profondamente. Di lì a poco, un lupo sbucò fuori dal bosco, seguìto da una lupa. Ristette un momento, poi, assalito alle spalle il cane della pastorella, gli ficcò i denti nella carne, mentre la lupa si avvicinava alla ragazzina dormente. Le pecore s'erano date a fuga precipitosa vedendo i loro nemici. Bardo, veloce come il lampo, uscì dal suo nascondiglio e, afferrato un sasso, lo lanciò contro la lupa famelica senza colpirla. Quindi, vedendo che essa stava per azzannare la mano della ragazzina, fece un lancio e si mise fra la dormente e la belva. Questa, infuriata, gli saltò addosso sbranandogli le carni. Il poveretto, non curante del dolore, urlava: - Salvati! Salvati! La ragazzina si destò e, sentendo l'avvertimento, diedesi a fuga precipitosa. Appena vide un albero vi si arrampicò sopra come uno scoiattolo. Bardo, che era rimasto alle prese con la lupa, mentre il cane lottava col lupo, cessò di difendersi appena vide in salvo la figlia della Fortunata e fu orribilmente sbranato. Le due belve, allorché furono sazie, tornarono nel bosco, e la ragazzina, vedendo passato il pericolo, scese dall'albero, riunì le sue pecore e tornò a casa tremante e spaventata, narrando il tragico fatto. La Fortunata, che aveva perdonato da un pezzo a Bardo, non volle che il corpo di lui rimanesse insepolto, e tanto disse e tanto fece che indusse il marito e alcuni altri uomini ad andarlo a prendere, insieme con un prete. Il cadavere, orribilmente mutilato, fu portato al camposanto, e gli venne data onorevole sepoltura. Quello che sia avvenuto di Bardo nel mondo di là, non lo so davvero; so che in casa della Fortunata nessuno malediva la sua memoria, anzi, parlavano di lui con riconoscenza, e la buona donna non sapeva darsi pace che egli fosse morto per salvare la figlia di lei. Ogni giorno la buona famiglia di contadini recitava preci per il riposo dell'anima di Bardo, e la ragazzina specialmente gli serbava un grato ricordo di lui. - Ora la novella è finita, - disse la Regina, - e presto non potrò più raccontarvene. - Perché, nonna? - domandarono i bimbi. - Perché tutte quelle che sapevo le ho già dette, meno una, la più bella, che vi narrerò domenica prossima. Io non sarei capace di cavarmele dal cervello. Tutte quelle che ora ho raccontate, mi erano state dette più di una volta, e perciò le sapevo quasi a mente; ma ora non ne so più e non saprei inventarne altre. Dunque, per l'inverno prossimo, per le lunghe veglie settimanali, dovremo ricorrere a qualche altro passatempo. - Purché sia divertente! - esclamarono i bimbi. - Il solo divertimento non basta, - replicò la Regina. - Fin d'ora dovete assuefarvi a cercare nelle cose più il lato utile che quello divertente; dovete pensare che la missione dell'uomo è molto seria, e bisogna prepararvisi fino da piccoli con la riflessione. Chi cerca nella vita solo il divertimento, va avanti poco bene, ve lo assicuro io. Maso confermò le osservazioni della vecchia, e disse ai figli e ai nipoti che, durante le veglie dell'inverno, avrebbero ascoltato la lettura di buoni libri, fatta da Cecco alla famiglia riunita. - Tu ci leggerai Le mie prigioni di Silvio Pellico, - disse Vezzosa, la quale ricordava con tenerezza l'episodio che si riferiva a quel libro e che era il primo forse della catena dolcissima del loro affetto. - Leggerò tutto quello che mi chiederete, - rispose Cecco, - ma credo che sarà difficile che in essi troviate maggior diletto e maggior utile che nelle novelle della nonna. Ella, in mezzo a narrazioni fantastiche, vi ha insegnato tante cose; ogni novella racchiudeva esempi di fortezza di carattere, di virtù e di rassegnazione nelle sventure, e con tatto squisito ella sceglieva quelle più adattate al presente stato dell'animo nostro ... Mamma, - aggiunse volgendosi verso di lei, - voi non sapete quanto bene ci avete fatto nei momenti di scoraggiamento e di dolore. La vecchia non rispondeva, e grossi lacrimoni le scendevano lungo le guance e le bagnavano il viso. Anche Vezzosa, che s'era fatta pallida e sofferente in quegli ultimi tempi, piangeva. Ogni piccola commozione la turbava, e pareva che attendesse trepidante la nascita del bambino, della cui venuta non si parlava nemmen più, ora che il matrimonio dell'Annina occupava tutti quelli di casa. - Maso, - disse la Regina riportando il pensiero a Camaldoli, - aspetta che siano tutti a letto; ho da parlarti. - Mamma, - rispose il capoccia turbandosi, - forse che quel che dovete dirmi è cosa che la famiglia non possa sentire, è cosa che faccia vergogna? - No, Maso; ma certe cose si dicono meglio a quattr'occhi; sai bene che io non sono buona a chiedere. Dopo questa dichiarazione, le donne portarono a letto i figliuoli. I fratelli andarono a fumare sull'aia, e quando la vecchia e il capoccia furono soli, questi disse: - Ora, mamma, parlate? - Parlate! - ripeté la Regina. - Ti assicuro che ricomincerei fin da principio tutte le novelle, piuttosto che dirti quello che devo; e se non l'avessi promesso, tacerei. - Mamma, mi spaventate! - Non c'è motivo. Ebbene, sappi dunque che Carlo, conoscendo sempre meglio l'Annina, vorrebbe sposarla prima del termine fissato per il loro matrimonio. Egli deve tornare subito a Firenze, e d'inverno sarà per lui molto difficile di assentarsi per venirla a vedere. Io ti consiglierei di appagare il suo desiderio. Un anno è lungo a passare. - Son tutte belle parole quelle che dite, mamma, - rispose il capoccia interrompendola, - ma il matrimonio è una cosa seria e non bisogna contrarlo altro che dopo averci pensato bene. Mi pare che Carlo abbia il difetto di tutti i giovani e degli uomini d'oggigiorno: l'impazienza e la fretta. Vi ricordate che, prima di sposare la Carola, andai a veglia da lei tre anni, e quando il mio suocero, buon'anima, mi metteva con le spalle al muro per farmela sposare presto e dare intanto la via a una delle sue quattro figliuole, io gli rispondevo che al matrimonio, come a tutte le risoluzioni gravi che si prendono nella vita, bisognava pensarci prima, per non pentirsi poi. Vedete che a tardare me ne son trovato bene, e quando ho sposato la Carola, sapevo che virtù e che difetti aveva, e per questo siamo andati sempre d'accordo. - Tu hai ragione, ma la Carola potevi vederla quando volevi, perché le nostre case erano a poca distanza e la sera andavi sempre da lei; ma Carlo sta a Firenze, l'Annina a Camaldoli, e in capo a un anno essi si conosceranno quanto ora e non più di certo. In quest'anno, se Carlo avrà moglie, farà maggiore economia, e così potrà ricondurre più presto l'Annina in Casentino e incominciar quella vita di proprietario ch'è il suo sogno. Non ti pare che, in vista di queste considerazioni, tu potresti cedere e non ostinarti a restar fedele ai principî di quel che è detto è detto? Nella vita sopravvengono spesso tanti avvenimenti, che ci costringono a derogare dalle risoluzione prese, e questo prepotente affetto di Carlo per l'Annina è cosa da esser presa in considerazione. Rifletti, e poi dimmi che cosa debbo fare scrivere da Vezzosa a Carlo. Il capoccia rifletté qualche tempo e poi disse: - Io non lo capisco quest'affetto che non può aspettare un anno, come se un anno fosse la vita di un uomo. Ma se voi credete che l'Annina sia seria abbastanza per maritarsi e che Carlo sia capace di tenerla bene e dimostrarle affezione, derogherò volentieri dal mio principio per compiacervi; ma badiamo poi che voi, mamma, non dobbiate pentirvi della vostra bontà, ed io della mia condiscendenza. - Spero che Iddio mi risparmi questo dolore, - disse la vecchia sorridendo, - e finché sarò in vita aiuterò la giovane coppia con i miei consigli, e, dopo morta, con le mie preghiere. - E batti! - esclamò Maso che non voleva sentir parlar di malinconie. - Quando la finirete di parlar di cose tristi? Regina non rispose, ma sorrise affettuosamente al figliuolo per la concessione fattale.

Bisogna sapere che la Vezzosa s'era data per malata, e nessuno le aveva più visto la punta del naso, né quelli di casa né quelli di fuori, dopo una certa scena, abbastanza tempestosa, in cui aveva detto chiaro e tondo alla matrigna, che il marito se lo voleva scegliere da sé, e quello che ella le proponeva non l'avrebbe preso neppure ricoperto d'oro. Il giorno ella stava sempre a letto con le coperte tirate fin sopra alla testa, e la notte, quando sentiva che in casa tutti dormivano, scendeva in cucina in punta di piedi a tagliarsi una fetta di pane, e poi tornava a letto, ma non dormiva. E nella veglia sentiva Cecco cantare per lei da lontano, e mandarle quel saluto che era solito ormai di darle ogni giorno. Ma la voce di Cecco, invece di calmarla, la indispettiva, e diceva fra sé: - Se mi volesse bene, mi leverebbe da quest'inferno! Son tutti buoni a parole, ma a fatti! ... Anche mio padre dice che mi vuol bene, e intanto mi lascia martoriare da quella donna dispettosa che ha preso il posto della povera mamma! E dopo essersi sfogata così, invece di dormire, pensava al mezzo di andarsene di casa. Voleva recarsi a Firenze al servizio, almeno se un padrone la maltrattava, ella avrebbe potuto cercarsene un altro, mentre invece, di lì non sarebbe uscita mai. Cecco, che si sfogava a cantare la notte, non se n'era stato con le mani in mano. Il lunedì aveva parlato subito alla mamma di voler sposare Vezzosa, e la Regina lo aveva lasciato dire; e poi, aprendo la bocca sdentata a un sorriso, aveva risposto: - Lo sapevo, e quella monella può dire di avermi stregata; sarei più contenta di te di vedermela in casa. Cecco, incoraggiato da queste parole, era andato a cercar Maso, il quale non aveva risposto né sì, né no. - Tutte le nostre donne hanno portato una dote, - aveva risposto il contadino, e così abbiamo potuto comprare due vacche, i trapeli, i maiali, e metter qualche cosa da parte. Vezzosa non ha dote; ma se le cognate e i fratelli son contenti, per me non ho nulla in contrario. I fratelli, interrogati che furono, sollevarono anch'essi la difficoltà della dote, e così la settimana passò senza che nessuno andasse a chieder la Vezzosa. Giunta la domenica, Regina, ora con un pretesto, ora coll'altro, sperando di vederla giungere, non si risolveva a incominciare la novella, quando l'Annina, vedendo sbadigliare i fratelli, fece osservare alla nonna che era tardi, e quella prese a dire: C'era una volta un signore di Caprese, qui in Casentino, della famiglia Catani, che avea nome Beltramo, al quale era morta la moglie, dando alla luce una bambina che fu chiamata Lavella. Beltramo fece dare alla sua donna onorata sepoltura, ma appena fu passato un po' di tempo pensò di prendere un'altra moglie, e la scelse della casa Ubertini di Arezzo. Costei non era né bella, né graziosa, né buona di carattere, ma di questo il conte Beltramo se ne accòrse soltanto quando l'ebbe menata a casa sua, a Caprese, e allora non c'era più rimedio. Le prime parole che madonna Chiarenza disse a Lavella, furon queste: - Che brutta creatura! Per fortuna Lavella non capì, perché era ancora poppante; ma capì bene la sua balia, la quale pensò che quella non sarebbe stata mai altro che una tormentatrice per la piccina, e non permise che Chiarenza la vedesse mai. I primi anni della vita di Lavella trascorsero tranquilli, perché la buona balia ebbe di lei ogni cura; ma quando ebbe toccati i sette anni, Chiarenza volle occuparsene, dicendo al marito che se la lasciava affidata alle mani della contadina, sarebbe cresciuta rozza e villana. Chiarenza non aveva dato al marito altro che una figlia, la quale aveva tre anni quando Lavella toccava già i sette; ma se la primogenita era bella e bianca come un giglio e rossa come un garofano, l'altra era gialla come una mela vizza e stentata da parere più una morticina che una creatura viva. Quando Chiarenza vide le due bambine, una accanto all'altra, fu presa da una tremenda invidia per la figliastra, e non cessava un momento di tormentarla. Per ottenere che dal volto di Lavella scomparisse l'incarnato, non la faceva mai uscire dalle sue stanze, e le imponeva di star tutto il giorno curva sul telaio a trapuntare tappeti o gonfaloni, o a pregare inginocchiata sulle lastre di pietra della scura cappella. Ma neppur questa vita di reclusione alterava la bellezza della bambina; ella si faceva un po' più delicata, ma non più brutta. Anzi pareva che ogni giorno che passava si compiacesse di imprimerle sul volto nuove attrattive, e nel cuore maggior dose di bontà e di dolcezza. Dalla sua bocca non usciva mai un lamento, e i paggi e i valletti del castello di Caprese la chiamavano l'angioletta, tanto dal suo volto emanava un sorriso celestiale. Le donne della contessa Chiarenza, invece, per secondare la loro signora, non cessavano di parlare di lei con disprezzo, e se la potevano accusare di qualche cattiveria verso la sorella, se ne ingegnavano. Il conte Beltramo non udiva né le lodi dei valletti e dei paggi, né le denigrazioni delle donne. Egli passava la vita a caccia o in guerra, e quando tornava al castello, non permetteva che in presenza sua alcuno parlasse, ad eccezione del frate Uguccione, un monaco che in gioventù aveva vestito l'armatura di cavaliere e avea visto più battaglie che non avesse capelli in capo. Padre Uguccione allietava gli ozî del Conte narrando della corte di Urbino, dov'era stato, della corte di Rimini e di tanti prodi cavalieri incontrati nei suoi pellegrinaggi attraverso l'Italia, prima di vestir la tonaca. Durante quelle veglie, Chiarenza stava in un'altra parte della sala in mezzo alle sue donne, ascoltando con orecchio attento i racconti, senza osare di metter bocca. Ma quando Beltramo e la moglie si ritiravano nelle loro stanze, il Conte non si stancava mai di dirle che era afflitto di non avere un maschio, un erede bello e forte per addestrarlo nelle armi ed al quale trasmettere il suo nome ed i suoi feudi. - Neppur la tua prima moglie seppe darti un maschio, rispondeva la Contessa. - Ma almeno Lavella è bellissima, e la tua Selvaggia è un mostro di cui mi vergogno, - replicava Beltramo. Questo confronto faceva andare sulle furie madonna Chiarenza, ma in faccia al suo marito e signore riusciva a dominarsi; appena però le capitava Lavella davanti, faceva scontare alla disgraziata figliastra tutto il suo risentimento. Se Dio ne guardi la bambina sbagliava un punto nei ricami che le dava a fare, eran nerbate sulle dita; se piangeva, ordinava che fosse rinchiusa per ore ed ore in uno stanzino buio; ma Lavella taceva sempre e non si ribellava mai contro la matrigna, che le infliggeva tante punizioni. Però bisogna dire che ogni volta che aveva le nerbate sulle dita, sentiva farsi, da una mano invisibile e dolcissima, tante carezze che le facevano passare il bruciore, e quando Chiarenza la rinchiudeva nello stanzino buio, quel bugigattolo s'illuminava subito di una luce chiara, e varie voci armoniose cantavano cori sacri. Lavella univa la sua alle voci melodiose, e così il tempo le passava presto. Appena però qualche passo si avvicinava, le voci tacevano, spariva la luce, ma sul bel volto di Lavella continuava quella espressione di beatitudine, che tanto indispettiva la matrigna. Così Lavella giunse ai quindici anni, e tutti coloro che la vedevano, restavano a bocca aperta a guardarla, tanto era bella e portava scritto in fronte la bontà del cuore. La matrigna, nonostante che le sue donne non si stancassero di dirle: "Lavella imbruttisce, Lavella si fa un mostro", pure vedeva che ogni giorno la fanciulla acquistava grazia e leggiadria; e, accorgendosi che Selvaggia, invece, restava gialla e grinzosa come quando era piccina, se avesse potuto, avrebbe sbranata la figliastra con le proprie mani. Lavella aveva quindici anni, e il conte Beltramo, era altero di lei e incominciava a volerla condurre a caccia seco. Molte volte, quando egli cavalcava ai castelli di Chitignano o di Bibbiena, oltre a farsi accompagnare dalla moglie, invitava anche Lavella a seguirlo. Lavella, per l'avarizia e la perfidia della matrigna, non aveva da vestirsi come si conveniva a damigella di nobile famiglia, e nonostante che non fosse punto vana della sua bellezza, adduceva pretesti per non accompagnare il padre. Ma su dieci volte le veniva fatto di potersene rimanere a Caprese appena due, e intanto la fama della sua bellezza si spargeva per tutto il Casentino, e già correvano di bocca in bocca le canzoni che i trovatori avevano inventate in onore di lei. Una volta Lavella fu condotta a una giostra a Bibbiena, e il più bello e prestante cavaliere di casa Ubertini vestì i colori di lei per iscendere nella lizza. Chiarenza si morse le mani dalla rabbia, vedendo che il cavaliere, dopo aver vinto i suoi avversarî, andò a inginocchiarsi dinanzi alla bella fanciulla e la proclamò Regina del torneo. - Me la pagherà! - diceva fra sé la matrigna tutta indispettita. Poco tempo dopo, Beltramo partiva per andare per certi suoi affari a Siena. - Quando torno faremo le nozze; - diceva alla moglie, - Guglielmo Ubertini è innamorato di Lavella, tutto il parentato è contento di questa unione, e io non potrei desiderare per successore un cavaliere più prode e bello del vincitore del torneo di Bibbiena. Chiarenza storceva la bocca e diceva che Lavella era troppo giovane per prender marito. - Ma che giovane! Eppoi io voglio concludere il matrimonio alla svelta perché le cose lunghe diventan serpi. Ti consiglio, anzi, di profittare di questa mia assenza per preparare il corredo, e da Siena, dove si tessono così bei drappi, io le porterò abiti ricchissimi. "Tu fai i conti senza di me, - pensò Chiarenza, - Lavella non si mariterà e soltanto lo sposo di Selvaggia erediterà il nostro castello." Il conte Beltramo partì con i suoi valletti e con buona scorta di armati, e prima di salire in sella abbracciò la figlia maggiore, raccomandandole di starsene allegra durante il tempo della sua assenza, ché al ritorno le avrebbe data una notizia molto, ma molto lieta. Sorrise Lavella, e finché poté scorgere il padre scender giù per le balze di Caprese, lo salutò col fazzoletto, quindi tornò nella sala dove la matrigna soleva lavorare insieme con le sue donne. - Lavella, - le disse Chiarenza appena la vide, - ora sei affidata a me soltanto, e siccome so che tu hai molta avversione per me, voglio risparmiarti il tedio della mia compagnia. Va' nella tua camera e non ne uscire altro che al ritorno di tuo padre. Lavella, senza dir nulla, chinò la testa e uscì; ma quando fu in camera sua, pianse tanto tanto tenendosi il bellissimo volto fra le mani. Mentre se ne stava così angosciata, sentì una carezza blanda sui capelli, e, alzando gli occhi, vide dinanzi a sé un angiolo, con le ali bianche, la veste bianca, e i gigli in testa a guisa di corona. - Chi sei, angiolo bello, e chi ti manda da me? - domandò Lavella. - Sono il tuo angiolo custode. Tua madre, salendo al Cielo quando tu eri piccina piccina, mi pregò di vegliare su di te, di rallegrare la tua infanzia e proteggerti sempre. Ora la tua matrigna vuol farti morire, prima che torni il conte Beltramo. Non accettare, Lavella, nessun cibo dalle mani di lei, né da quelle delle sue donne; conterrebbe certo il veleno. Mangia solo ciò che ti porto io, e il cibo che ti viene da altri, sminuzzalo sul pavimento; verranno le formiche, verranno i sorci a portarlo via. Sono io che ho accarezzato le tue manine colpite dalle nerbate, io che ho chiamato gli altri angioli ad allietare col canto le lunghe ore di prigionia; abbi dunque fiducia in me. - In te solo, angiolo bello! - rispose Lavella sorridente. L'angiolo le posò in grembo un liuto e sparì. La ragazza, consolata da quelle buone parole, trasse dal liuto alcuni accordi, ed accompagnando il suono con la voce, si mise a cantare una dolce canzone provenzale. - Sentite, canta quella dispettosa! - diceva alle sue donne Chiarenza. - Le avverrà come alle cicale: dopo aver cantato un mese, creperà. Le donne, per adulare la signora, risero di quella stupida facezia, ripetendo: - Creperà! Creperà! - ma non sapevano il truce significato di quelle parole, perché non capivano il pensiero di madonna Chiarenza. Quella perfida donna, che conosceva le qualità di certe piante malefiche, col pretesto di far respirare l'aria fresca del mattino a Selvaggia, andava nei boschi con la figlia e non si faceva seguire altro che a distanza dalle sue donne. Ella cercava sul terreno quelle piante velenose, e quando le aveva trovate, le nascondeva fra i mazzi di fiori. Poi, quando giungeva a casa, pestava quell'erbe e le univa al cibo che mandava a Lavella. Ma la ragazza, appena il cibo le era presentato, lo deponeva per terra e lo sminuzzava alle formiche ed ai topi, i quali lo riportavano nei loro ripostigli, e si guardava bene dal mangiarne, aspettando l'angiolo che non la lasciava mai digiuna e ogni notte volava sulla finestra della camera in cui Lavella era prigioniera, recandole frutti dei boschi e miele odoroso. - Come sta Lavella? - domandava ogni mattina madonna Chiarenza alla servente che le recava il cibo. - È bianca come un giglio e rossa come un garofano, - rispondeva la donna. La Contessa, udendo quella risposta, si mangiava le mani. Come mai tutto il veleno che le metteva nel cibo non le produceva nessun effetto? Questo fatto ella non sapeva spiegarselo, se non che col tradimento della donna alla quale affidava il cibo destinato a Lavella, e per questo disse: - Da mangiare glielo porterò io! E glielo portò infatti quel dì stesso; ma la mattina dopo, quando aprì la camera, Lavella cantava come una capinera e stava meglio di lei. Chiarenza, furente, prese per un braccio la figliastra e la fece uscire da quella prigione nella quale sospettava che alcuno penetrasse a sua insaputa, e, fattale imboccare una scala, le ordinò di salire su su fino in cima. Lavella la ubbidì, e la Contessa saliva dietro a lei, e tanti erano gli scalini che, giunta in cima, aveva la lingua fuori. In vetta a quella scala c'era una specie di soffitta, senza finestre, chiusa da una porta di ferro con tre chiavistelli e tre chiavi, una differente dall'altra. - Qui, carina, non avrai visite, - le disse in tono canzonatorio. E, senza aggiunger altro, uscì, chiuse i tre chiavistelli, girò le tre chiavi, e quando fu giunta in fondo alla scala serrò pure la porta della torre e andò a preparare il cibo avvelenato per la figliastra. Verso sera, quando salì nella torre per portarglielo, sentì partire un canto dolcissimo dalla prigione, e supponendo qualche tradimento, fece gli scalini a due a due per scoprirlo; ma quando giunse in cima tutta trafelata, il canto cessò a un tratto e nella prigione non trovò che Lavella. Allora le venne in mente che la figliastra fosse una strega, ma non per questo rinunziò a offrirle il cibo avvelenato, anzi la costrinse a mangiarlo in sua presenza. Ma Lavella, che rammentava bene la raccomandazione dell'angiolo, lasciavasi cader di mano pane e companatico nel portarlo alla bocca, e i topi correvano a frotte e pulivano il pavimento senza che la Contessa si accorgesse di nulla. Ella uscì dalla prigione pensando che quella volta Lavella era bell'e spacciata, perché non era possibile che tutto il veleno che ella aveva messo nel cibo, non producesse l'effetto voluto; ma mentre usciva dalla porta, l'angiolo entrava da una fessura che si apriva nel muro, e faceva vedere alla ragazza che i topi più ingordi, quelli che avevano mangiato il cibo recato dalla Contessa invece di portarlo nei nascondigli, si contorcevano sul pavimento dagli spasimi. - Ma che ho fatto alla Contessa perché mi voglia veder morta? - diceva la povera ragazza piangendo. - Nulla, Lavella, non piangere. In breve tu sarai consolata ed ella pagherà il fio di tanta perfidia, - le rispondeva l'angiolo. - Preparati a una grande gioia. Senti, - aggiungeva stando un momento in orecchio, - il corno echeggia su queste balze; uno dei valletti di tuo padre viene ad annunziare il suo prossimo ritorno . Sii forte, Lavella, non ti rimane altro che una prova da sormontare. L'angiolo, dopo averla così confortata, sparì, e Lavella si rasciugò le lacrime e tese l'orecchio per afferrare il suono del corno, che le annunziava la prossima liberazione. La torre ove la Contessa teneva rinchiusa la figliastra era l'ultima del castello e guardava il valico del monte; perciò, essendo dalla parte opposta della via, i suoni del corno vi giungevano debolmente; ma Lavella sentì bene che a un tratto cessarono, segno quello che il ponte levatoio era stato calato e il valletto si trovava già fra le mura del palazzo. Poco dopo che ella aveva cessato di udire i suoni del corno, sentì un rumor di chiavi e di chiavistelli e vide entrare la matrigna con gli occhi fuori della testa. Lavella si alzò, la matrigna fece un passo addietro spaventata e fuggì via senza neppure voltarsi. Tuttavia non mancò di chiudere la porta e di lasciare la ragazza a marcire in quella torre. - Non è crepata! È una strega di certo; - borbottava la perfida donna scendendo le scale, - ma se non crepa stanotte, non so più liberarmi di lei. Quella sera Lavella fu al solito visitata dall'angelo che le portò gran copia di fragole odorose e di profumati lamponi, e prima di lasciarla le diede un vasetto, raccomandandole di sciogliersi i capelli, e di ungerli bene avvolgendosi in essi a guisa di manto. Dopo la consueta preghiera, Lavella si ristorò con quei frutti freschi e quindi si distese sulla nuda terra, avendo cura di avvolgersi nei capelli unti prima col balsamo. Non s'era ancora addormentata, che sentì un forte rumore alla porta. Le pareva che qualcuno vi accatastasse fascine sopra fascine. Ma non per questo si spaventò, poiché le parole dell'angiolo le risuonavano ancora all'orecchio e sperava nel ritorno del padre per essere liberata. Ella si addormentò dunque fiduciosa, ma dopo poco fu destata da un crepitare fortissimo di legname. Aprì gli occhi e vide che la porta era in fiamme e queste si spingevano con furia dentro la prigione. Lavella non si perdé d'animo. Balzò in piedi, si avvolse nei capelli e con un lancio varcò quel rogo acceso accanto alla porta della prigione; quindi si diede a scender le scale per fuggire. Ma giù trovò la porta della torre chiusa e le convenne di fermarsi. Ogni tanto sentiva crollare un pezzo di muro e incominciava a dubitare che fosse giunta la sua ultima ora. Ma a un tratto la porta fu aperta e una turba di uomini si precipitò sulla scala per salire in vetta alla torre e abbatterla affinché il fuoco non si comunicasse al restante del castello. Però, appena la videro, rimasero come inchiodati, credendola un'apparizione, ed ella approfittò di quel momento di timore, per farsi largo ed uscire. Appena fu fuori si diede alla fuga, e trovando abbassato il ponte levatoio, perché era stato sonato a stormo e i terrazzani giungevano già per dar mano a spengere l'incendio, ella corse per la campagna e andò ad appostarsi in un bosco, poco lungi dalla strada per la quale il conte Beltramo doveva giungere. A un certo momento della notte la torre cadde con grandissimo fracasso e la contessa Chiarenza, che stava dalla sua finestra a guardare l'incendio, esclamò: - Questa volta la perfida è ben sotterrata fra i rottami, e il conte Beltramo non saprà rinvenirvela. Dirò che è fuggita, e nessuno potrà contraddirmi! La perfida Contessa, che aveva vegliato tutta la notte attendendo che la torre crollasse, si coricò; ma il rimorso le impedì di dormire, e all'alba era già alzata e si faceva acconciare dalle sue donne, alle quali raccontava che Lavella aveva appiccato il fuoco alla torre ed era fuggita. Esse fingevano di credere al racconto, e, per adulare la signora, dicevano che Lavella così doveva finire, perché era insubordinata, altera e sprezzante. I suoni del corno, che salivano dalla valle, fecero impallidire Chiarenza. Nonostante ella si fece animo e, terminatasi di acconciare, mosse incontro al suo signore, dando la mano a Selvaggia. Madonna Chiarenza attese il Conte nella grande sala d'armi e quando lo vide comparire fece per abbracciarlo; ma egli la respinse, e con piglio severo le chiese: - Dov'è mia figlia? - Eccola! - rispose la perfida donna spingendogli nelle braccia Selvaggia. - Io non intendo parlare di questa, - disse il Conte, - ma di Lavella, così dolce, buona e leggiadra. - Ahimè, signor mio! Quella insubordinata mi ha dato molta pena nella vostra assenza. Ed io, per restituirvela come me l'avevate consegnata, avevo stimato bene di tenerla chiusa nella torre; ma neppur là dentro ho potuto custodirla, poiché ella vi ha appiccato il fuoco ed è fuggita. - Madonna, voi siete una perfida, - disse il Conte. - Che cosa avete fatto a Lavella? Se l'infelice è perita per mano vostra, voi pure perirete. - Più che rinchiuderla io non potevo fare, e chiamo il Cielo a testimonio delle mie intenzioni. - Non bestemmiate! - urlò il Conte, e fattosi sulla porta fece un cenno. Pallida, con i capelli disciolti, le vesti bruciate, comparve Lavella. La Contessa mandò un grido vedendola, ma ricompostasi subito disse: - Vedete che è vero quello che vi dicevo; prima ha dato fuoco alla torre, e poi è fuggita. - No, non sono io che ho appiccato l'incendio, ma colei che mi voleva morta, - rispose Lavella pacatamente. - Il Signore, la Vergine Santissima e il mio angelo custode, mi hanno salvata dal veleno che ponevate nei miei cibi, e dall'incendio. Che cosa vi ho fatto, madonna, per meritare il vostro odio? - Sentite, signor mio, come mi accusa quella sfrontata; fatela tacere! - disse Chiarenza. Lavella, colpita da quelle parole, abbassò gli occhi e tacque, e il conte Beltramo non sapeva se credere al racconto delle sevizie patite, fattogli da Lavella, o alle accuse che la moglie aveva formulate contro di lei, quando Selvaggia, che era uscita per un momento, entrò con una fetta di torta in mano, nella quale poneva avidamente i denti. Chiarenza fece un lancio, le strappò la torta di mano e poi aprendole la bocca, smarrita dal terrore, le gridava: - Sputa! Sputa! È veleno! - Ecco il cibo che voi preparavate per Lavella; osereste negare il vostro delitto? - disse il Conte. Chiarenza non l'udì. Inginocchiata accanto alla figlia, la guardava ansiosamente e le poneva le dita in gola per farle rigettare la torta avvelenata. Ma Selvaggia, da gialla che era si era fatta livida. - Aiuto! Salvatela! - urlava la Contessa. Accorse padre Uguccione, le dette subito alcuni farmachi, ma Selvaggia, invece di riaversi, si contorceva come i topi nella prigione di Lavella, e strillava come se la uccidessero. La figliastra se ne stava in disparte, guardando atterrita quella scena in cui riconosceva la giustizia di Dio. Selvaggia spirò fra atroci dolori e la madre se la strinse fra le braccia cercando di rianimarla col suo fiato. Il Conte fece atto di trascinare via la moglie, ma Lavella, guardandolo pietosamente, gli disse: - Non vi pare che ella sia abbastanza punita della sua perfidia? - Hai ragione, - rispose il Conte. - Lasciamola al suo dolore e al suo rimorso; e tu, figlia mia, va' a farti bella, perché fra poco giungerà il bel cavaliere Guglielmo degli Ubertini, colui che vestì i tuoi colori alla giostra di Bibbiena, per domandarti in isposa. Lavella uscì, e quelle stesse donne che avevano dimostrato per lei tanto odio quando Chiarenza la torturava, le furono d'attorno facendo a gara ad acconciarla e a proclamarla bella. Gli sponsali si fecero quel giorno stesso con molta pompa, e Lavella sentiva dintorno a sé un coro di voci celestiali, che gli altri non udivano. La contessa Chiarenza compose la figlia nella bara, e mentre la sala echeggiava di suoni e di liete conversazioni, lei sola assisteva ai funerali della figlia. Il giorno dopo, madonna Chiarenza partiva per ordine del marito e andava a rinchiudersi in un convento di Arezzo, mentre Lavella, figlia e sposa felice, restava signora del castello. La novella non dice come finisse Chiarenza, ma si sa che Lavella si mantenne sempre buona e leggiadra, e visse lungamente a fianco dello sposo, al quale die' numerosa figliuolanza. - Ma quanto patì quella poverina! - osservò l'Annina, quando la nonna ebbe terminato di narrare. - Bambina mia, - replicò la vecchia, - ogni creatura che resta senza madre è da compiangere, e Dio non vi faccia mai provare una matrigna. Appena ebbe pronunziato quel nome, Cecco diventò rosso, e, facendosi forza, domandò alla cognata e ai fratelli: - Dunque, la volete o no in casa la Vezzosa? - Come sarebbe a dire? - rispose Maso. - Io, ormai, ho fatto proposito di sposarla, - riprese l'artigliere. - Se l'accettate in casa e la mamma nostra è contenta, la sposo subito; se no mi cerco un poderetto, prendo meco la nostra vecchina, e la sposo lo stesso. Lavoreremo come cani da principio, ma non avrò più il martirio di saper quella povera ragazza nelle mani della matrigna. - La nostra vecchia non uscirà di casa! - dissero tutti in coro. - E allora? - domandò Cecco che aveva fatto una provvista di coraggio. - Senti, - disse Maso dopo aver riflettuto. - Noi si ha bisogno almeno di un po' di roba, e non possiamo caricare il podere di una nuova famiglia. Capisco che a te vada giù male di veder patire Vezzosa, ma finché si piange soli, le lacrime non sono amare come quando si piange in compagnia. - Ma quella ragazza soffre, - osò dire la Regina. - Allora che devo dire? Sposala, e facciamola finita, - replicò Maso. - Lo sai che tocca a te a chiederla? - osservò la vecchia. - L'avrei da sapere; non ho già chiesto tutte le cognate? - Chiedila, dunque, e fai contento Cecco. - Ebbene, la chiederò. Cecco non poté dire una parola, e, per nascondere i lucciconi, abbracciò la sua vecchia.

. - La Repubblica fiorentina tiene un Podestà molto strano in questa sua terra di Stia, - disse il capitano rivolto ai suoi, ma in tono abbastanza alto da farsi sentire anche da ser Bandino. - Non è un rappresentante che le faccia onore. L'infelice avrebbe preferito di essere ancora rimpiattato in cantina dietro la botte e minacciato dall'ira degli insorti, piuttosto che di trovarsi di fronte a quel superbo, cui non poteva ricacciare in gola le offese. Però dovette celare nel cuore il dolore e la rabbia che provava, e mettersi al seguito del condottiero, il quale non lo aveva neppur invitato a cavalcargli accanto. Se il primo incontro era stato amaro per ser Bandino, la permanenza di Alessandro Vitelli a Stia, fu un lungo e non interrotto supplizio. Il condottiero, non solo era entrato nel palazzo da padrone, senza curarsi per nulla del Podestà, ma aveva dato carta bianca ai suoi di esigere imposte, di reclutare uomini atti a portare armi, e di comandare, insomma, come se il rappresentante della Repubblica non esistesse, come se il Podestà fosse un fantoccio. Ser Bandino vedeva tutto e fremeva. Inoltre v'era una continua processione di gente a far reclami presso di lui per le ingiustizie che commetteva il condottiero, e questa gente gli rimproverava acerbamente la sua debolezza; ma ser Bandino non osava parlare ad Alessandro Vitelli. Un giorno, però, incalzato da tante e tante lagnanze, si fece animo e si presentò al capitano, il quale, squadratolo da capo a piedi, con fare burbanzoso, gli disse: - Chi vi ha ordinato di venire da me? - Sdoveri sdello stato smio, slagnanze sdegli Stiani! - Andate al Diavolo voi, le vostre esse e i vostri Stiani! - rispose il capitano. - Finché sto qui, intendo di comandar io, e voi non dovete farvi vedere, se no vi rinchiuderò in prigione. Bandino dovette fare una prudente ritirata; ma ridottosi in camera sua pianse amaramente sulla propria sventura e si raccomandò fervidamente alla Santissima Annunziata di liberarlo presto dalle infermità che gli procuravano tanti tormenti. Però, nonostante le promesse della vecchia, le lacrime e le preghiere, il supplizio continuò per più giorni, e il Podestà si ammalò dalla pena. Mentre era a letto, più malato d'animo che di corpo, il condottiero ricevé l'ordine di portarsi subito sopra Città di Castello; di notte tempo fece i preparativi della partenza e se ne andò, senza neppur curarsi del Podestà. I cittadini di Stia respirarono vedendo partire il Vitelli, che in pochi giorni li aveva dissanguati, e il Podestà guarì subito. Ma siccome una consolazione non vien mai sola, il brav'uomo, nell'alzarsi dal letto, si accòrse che gli era sparita la deformità del naso e che parlava speditamente. Lieto, lietissimo di ciò, invece d'inveire contro i monelli del paese, contro tutti quelli che avevano dato mano al saccheggio del palazzo, annunziò con un pubblico bando che voleva iniziare il suo governo con un generale perdono, tanto più che il popolo era stato abbastanza provato dal passaggio di messer Alessandro Vitelli. Questo atto magnanimo lo rese popolarissimo a Stia, dove ser Bandino terminò in pace la vita. Qui la Regina tacque ed ebbe dai signori villeggianti gli stessi complimenti ricevuti la domenica precedente. Mentre essi parlavano di Stia, dove volevano andare a fare una gita, giunse una carrozza di ritorno da Camaldoli e si fermò dinanzi alla viottola. Il vetturino schioccò la frusta per chiamar qualcuno, e tre o quattro dei ragazzi accòrsero subito alla chiamata. Un momento dopo tornarono gridando: - La signora dell'Annina manda a dire che viene domani a desinare dalla sua mamma. - E l'Annina non ce la conduce? - domandò la Carola. - Sì, conduce anche lei. Vengono tutti. Tirate il collo a due galline, mamma, - disse Beppe. - Alle frutta ci pensiamo noi: vedrete che lamponi e che fragole! A quella notizia la gioia ricomparve sul viso della massaia, e anche la Regina sorrise con quel sorriso buono che era il riflesso della felicità dei suoi.

Tutti lodarono moltissimo la squisita bocca di dama; ma Regina si accorgeva che i suoi non erano abbastanza rassicurati. Allora prese a dire: - È una giornata afosa; volete che racconti ora la novella? Più tardi, per il fresco, i signori preferiranno di andare a far due passi. - Brava! brava! - esclamarono tutti. E la Regina, che voleva dimostrare di sentirsi bene, subito incominciò: - C'era una volta un vecchio di Arezzo, che tutti credevano molto ricco, perché era tanto elemosiniero che nessuno gli chiedeva mai invano la carità. Quest'uomo viveva solo con i suoi due figli; il primo aveva nome Enzo e l'altro Barnaba. La moglie gli era morta da molti anni, e servi non ne voleva intorno sé. Un giorno egli venne a morte, e quando sentì che per lui non v'era più speranza di guarigione, chiamò due amici, nonché suo figlio Enzo, e disse: - È mio desiderio che tutti i miei beni passino a questo mio primogenito; voi potete testimoniare che questa è la mia volontà. Poi fece uscire Enzo e chiamò Barnaba, al quale disse: - A tuo fratello ho lasciato il mio patrimonio; a te non lascio altro che questo berretto che mi fu dato da un uomo che beneficai, e sono sicuro che questo lascito ti renderà più felice delle ricchezze, perché ti darà la saggezza. Nel dir questo, gli dette un logoro berretto di rozzo panno marrone. Il figlio avrebbe voluto respingere il dono e supplicare il padre di metterlo a parte dell'eredità; ma in quel momento lo udì rantolare, e poco dopo era morto. I due testimoni si accòrsero bene che Barnaba non era contento; ma sapendo che era d'animo mite, lo esortarono a rispettare i voleri del padre e a non maledire la memoria di lui, che lo aveva, forse per suo bene, condannato alla povertà. Un altro figlio che si fosse veduto diseredare come Barnaba, sarebbe fuggito di casa senza neppur assistere ai funerali del padre; ma Barnaba era un buon figliuolo, e rimase. Però, vedendo Enzo che subito incominciava ad atteggiarsi, anche con lui, a padrone, attese che il cadavere del padre fosse rinchiuso in un avello della chiesa di San Francesco, e poi, senza prendere neppure gli abiti che gli appartenevano, si mise in testa il berretto e, con pochi piccioli nella scarsella, si pose in cammino per Roma. Prima d'intraprendere il viaggio si sentiva afflitto e accorato; ma appena si fu messo il berretto di rozzo panno, si sentì consolato e gli parve che tutti i beni ereditati a suo danno dal fratello Enzo, non meritassero alcun rimpianto. Egli aveva camminato poche ore quando giunse a un'osteria e chiese pane e vino per rifocillarsi. Nello spiedo giravano delle grasse beccacce, l'ostessa era tutta affaccendata a preparare il fritto e la minestra, e una tavola era già imbandita nel centro della cucina. Dai discorsi dell'oste e della moglie, Barnaba capì che erano attesi due cavalieri di riguardo, che avevano inviato innanzi un servo ad avvertire del loro arrivo. Infatti i due cavalieri non tardarono a giungere insieme con numeroso seguito. Erano ambedue assai giovani e riccamente vestiti, e parevano fra loro amici sviscerati. Essi si sederono a tavola, e Barnaba li vide senza invidia mangiare le pietanze gustose, mentr'egli si contentava di pane e coltello, annaffiato da un vino così aspro da far allegare i denti. - Non sono io felice quanto loro, - diceva fra sé, - dal momento che quel poco che ho mi basta e non provo nessuna invidia? Mentre i due cavalieri mangiavano, presero a parlare delle loro faccende, e Barnaba capì che essi venivano da Firenze, dove avevano combattuto a difesa della città nelle schiere di Malatesta Baglioni. Uno di essi accusava il capitano di aver venduto la città ai Medici e ai loro alleati; l'altro difendeva il Malatesta. Intanto che discutevano animatamente, essi tracannavano bicchieri di vino, che infondeva loro maggior fuoco. Così presero a scambiarsi parole offensive; da queste passarono alle minacce, e finalmente misero mano alle spade. Barnaba si alzò allora e, con mossa rapida, gettò il suo berretto in testa al più accanito dei combattenti, il quale, tiratosi indietro e abbassata la spada, dette in una risata, dicendo: - Amico, siamo due pazzi! - Perché? - domandò l'altro sbalordito dal cambiamento dell'avversario. - Perché a noi non deve premer punto se Malatesta è un traditore o no. Noi non siamo fiorentini: mettemmo la nostra spada al servizio della Repubblica; ci siamo coraggiosamente battuti; abbiamo avuto il danaro promessoci, e perché dovremmo ucciderci per una cosa che non ci riguarda? L'altro, però, non si mostrava convinto e sosteneva di essere stato offeso e di voler riparazione. Allora Barnaba tolse il berretto di testa al cavaliere saggio, e lo fece volar sul capo dell'ostinato, il quale si calmò subito, e disse: - Riconosco, amico, che tu hai ragione; stringiamoci la mano e ritorniamo a bere. - Una parola, messere, - rispose Barnaba. - La vostra saggezza vi viene dal mio berretto; ora che siete divenuti ragionevoli, vi prego di restituirmelo, perché esso è la mia sola ricchezza. I due cavalieri, meravigliati, invitarono il giovine alla loro tavola e gli domandarono spiegazione delle sue parole; e Barnaba narrò loro come suo padre, in punto di morte, glielo avesse consegnato. Egli stesso aveva esperimentato su se stesso la sua virtù, poiché, invece di arrabbiarsi vedendosi spogliato di ogni avere, aveva sopportato in santa pace la sua sventura e si sentiva pago e contento del proprio stato. - E su di noi pure l'hai esperimentata, - dissero i cavalieri. - Noi ti siamo grati di averci trattenuti dal commettere una vera pazzia; e, per dimostrarti la nostra gratitudine, ti preghiamo di accettare questa borsa, in memoria della nostra riconciliazione. Barnaba l'accettò, perché sapeva di averla meritata, e riprese il viaggio, sentendosi il più felice dei mortali. Un passo dopo l'altro giunse a Cortona, e appena posto il piede nell'antica città, vide un insolito correr di gente affaccendata. I mercanti chiudevano lo sporto delle botteghe, i servi sbarravano i portoni dei palazzi, e la campana del palazzo pretorio faceva udire i suoi rintocchi chiamando i cittadini alle armi. "Qui c'è da far per me", pensò Barnaba. E si diresse verso la piazza municipale, supponendo che là vi fosse bisogno del suo aiuto. Ma prima di farlo, volle sapere di che cosa si trattava, e, domandatone a una donna, fu informato che il popolo, malcontento del gonfaloniere Venuti, che era accusato di parteggiare per i Medici, lo voleva destituire per sostituirgli un Diligenti. Il Gonfaloniere non voleva cedere, e aveva fatto dare nella campana. Intanto il Diligenti, riuniti i suoi partigiani, si preparava a dare l'assalto al palazzo pretorio, nel quale il Gonfaloniere si era rinchiuso. - Correrà del sangue, - concluse la donna tristamente. - Non correrà, - rispose Barnaba. E fattosi indicare da qual parte sarebbe giunto il Diligenti, lo attese sul canto di una via. In breve vide una turba di cittadini armati, e dietro a loro un cavaliere bello e ardito, che la gente acclamava al grido di: "Viva il nostro Gonfaloniere!". Il Diligenti, poiché era proprio lui, salutava agitando il cappello, Barnaba approfittò di quel momento in cui il cavaliere era a capo scoperto per lanciargli in testa il suo berretto. All'improvviso, messer Diligenti, mentre stava per entrare sulla piazza, fermò il cavallo, come se fosse assalito da un subito pentimento alla vista del palazzo pretorio. - Avanti! Avanti! - gridava la folla vedendo che esitava. - Un momento, amici, - disse il capo dei rivoltosi. - Non dobbiamo distruggere un monumento, che è vanto della nostra città. Lasciatemi solo; io andrò a parlare col Gonfaloniere, ed egli mi cederà il governo di Cortona. Il berretto era caduto di testa a messer Diligenti, ma la saggezza gli era rimasta nel cervello. Infatti egli scese da cavallo, ordinò alla folla di sgombrare la piazza, e si avviò solo verso l'imponente edifizio, sormontato dalla torre. Barnaba gli tenne dietro e lo fermò. - Messere, - gli disse, - voi dovete la saggezza al mio berretto; permettetemi di accompagnarvi, perché possa infonderla anche al Gonfaloniere. Messer Diligenti guardò il giovane meravigliato, ma rammentandosi di aver sentito svanire dal cervello i bellicosi propositi appena quel berretto, che ora vedeva in testa a Barnaba, gli aveva sfiorato il capo, annuì, e insieme con lui chiese di essere ammesso alla presenza del Gonfaloniere. Questo permesso non gli fu negato, sperando che volesse far atto di sottomissione, e venne introdotto alla presenza di messer Lorenzo Venuti. - Che volete da me, messere? - gli chiese il Gonfaloniere appena lo vide. - Nulla, - rispose l'altro. - Voglio rammentarvi soltanto che noi siamo entrambi figli di questa terra e che sarebbe perfidia se per le gare che ci dividono si esponessero alla morte i cittadini. - Dunque fate atto di sottomissione? - domandò il Gonfaloniere. - Piena ed intera. Voi, però, dovete sgombrare questo palazzo, che sarà affidato alla custodia degli Anziani, ed essi eleggeranno il nuovo Gonfaloniere. Se voi rimanete qui, io non potrei trattenere i miei partigiani dal dar l'assalto al palazzo, e il sangue correrebbe a rivi per le vie. Il Gonfaloniere stava per rispondere che non si sarebbe mosso di lì, quando Barnaba, accostatosi a lui, gli mise in testa il proprio berretto. Sparì a un tratto dal volto di messer Venuti l'espressione di truce risentimento e, sorridendo, disse: - Non capisco davvero perché io fossi così ostinato a rimaner qui a dispetto del popolo, che non mi ci vuole. Il posto di gonfaloniere, se ci penso bene, non mi ha dato altro che noie; e io ci rinunzio. - Siete pronto a fare in pubblico questa rinunzia? - domandò il Diligenti. - Sì, pronto a tutto. - Ebbene, venite. E i due pretendenti andarono sul balcone del palazzo dove messer Diligenti fece cenno ai suoi di avanzarsi. Essi si avvicinarono, e messer Diligenti disse: - Cittadini, il Gonfaloniere rinunzia alla sua carica, e fra poco lascerà il palazzo. Un grido di giubilo partì dalla folla, e allora messer Venuti disse: - Cittadini, riconosco di aver governato con poca saggezza, e me ne vado, chiedendovi scusa. Infatti, pochi istanti dopo, il Gonfaloniere scese lo scalone e comparve sulla piazza, e quello stesso popolo che si era ammutinato contro di lui e lo voleva morto, gli fece una calorosa dimostrazione. Ma fu ben sorpreso quando, dietro al Gonfaloniere, vide uscire anche messer Diligenti. - Perché ve ne andate? - gli domandò la folla. - Amici, - rispose il cavaliere, - io mi riconosco più inetto a governarvi del mio predecessore. Lasciatemi sorvegliare i miei poderi; io non ho l'ambizione di essere il primo cittadino di Cortona, ma il suo figlio più fedele. Questa saggezza e quella di cui ha dato prova messer Venuti, ce l'ha infusa questo giovane. E accennava Barnaba, il quale aveva ripreso il berretto. - Egli è veramente saggio, e, se dovessi darvi un consiglio, vi spingerei a metterlo a capo della vostra città. Ma Barnaba, di certi onori non voleva saperne, e il popolo, rinsavito anche esso ora che non era più sobillato alla rivolta, si mostrò gratissimo a colui che aveva risparmiato a Cortona gli orrori della guerra, e lo festeggiò in ogni modo. I principali cittadini lo volevano loro ospite, e nella prima seduta che tennero gli Anziani, gli decretarono un ricco donativo in denaro. Messer Venuti e messer Diligenti gli fecero pure ricchi regali e gli dettero un cavallo per sé e uno per un servo, sapendo che egli aveva intenzione di proseguire il viaggio fino a Roma. Salutato, acclamato dall'intera cittadinanza e assai ben provvisto di denaro, il nostro Barnaba prese la via della città eterna. Giunto a Orvieto, egli prese alloggio in un modesto albergo di fronte al superbo palazzo dei Gualterio, e stando alla finestra udì grida strazianti partire da una stanza sotterranea di quel palazzo. La curiosità lo spinse a domandare all'oste chi si lagnava così insistentemente, e seppe che l'infelice era la figlia stessa del Conte, che la matrigna, donna vana e ambiziosa, teneva sempre rinchiusa in una stanza terrena, aspettando che avesse l'età per entrare in un convento. Il Conte era vecchio e malaticcio, e la moglie, gelosa della bellezza della figliastra, non voleva essere esposta a un odioso confronto con lei, motivo per cui la condannava alla reclusione in casa, e poi in monastero. - Io debbo parlare alla Contessa, - disse Barnaba fra sé, - ma come fare? Allora, pensa e ripensa, partì per Viterbo, e là comprò ricche stoffe e monili. Tornato che fu a Orvieto, si spacciò per mercante, facendo vedere ai frequentatori dell'osteria le cose preziose che aveva seco. Naturalmente la notizia giunse anche agli orecchi della contessa Gualterio, la quale, vaghissima com'era di ornarsi, fece dire al mercante di andare al palazzo e recarle le sue mercanzie. Barnaba scelse le più belle stoffe, e, accompagnato dal proprio servo che recava gl'involti, andò dalla Contessa, la quale lo accolse cortesemente, e pareva invaghita di tutto. Egli le disse molte cose circa le nuove fogge di abiti e di acconciature usate dalle dame fiorentine, che vantavasi di servire, e poi, mostrandole un drappo d'oro, aggiunse che esse solevano foggiarsene berretti, con i quali si ornavano il capo. - E qual forma hanno questi berretti? - chiese la dama. - La forma di quello che io porto, madonna. Provatevelo, e vedrete come si dice bene al vostro volto. La Contessa se lo provò, e parve, dopo essersi specchiata, contenta, così che domandò a Barnaba se gliene sapesse foggiare uno simile in drappo d'oro. Ma prima che egli le avesse risposto, esclamò: - Ma per chi dunque mi orno? Mio marito è vecchio e cagionevole; ora spetta a Selvaggia ad ornarsi. E preso un mazzo di chiavi scese in fretta, e risalì in compagnia di una giovinetta pallida, scarna, ma bella come un occhio di sole. Barnaba fu commosso nel vederla, e in cuor suo benedì suo padre per avergli legato quel portentoso berretto, cui doveva la liberazione della bellissima Selvaggia. Costei era rimasta sbalordita, vedendosi trattare così bene dalla matrigna, dalla quale era solita sentirsi sempre schernire, e guardava ora il mercante ora la Contessa, non sapendo a che cosa attribuire quel repentino cambiamento. Barnaba, però, che non aveva fede che la semplice imposizione del berretto potesse aver virtù di sradicare l'invidia dal petto della perfida donna, la persuase ad affidargli la commissione di foggiare un berretto di drappo d'oro per lei, e uno per Selvaggia. La Contessa annuì, e dopo aver comprato alcune stoffe, lo congedò. Il giovine, appena fu ritornato all'osteria, mandò in cerca di una cucitrice e le fece fare due berretti quasi simili, soltanto, in quello destinato per la Contessa fece porre, fra la stoffa e la fodera, il suo berretto di lana, e operò saggiamente, perché non era ancora notte, che udiva di nuovo i lamenti dell'infelice Selvaggia. La matrigna, pentita di aver ceduto a un impulso di compassione, l'aveva rinchiusa nella solita stanza. La mattina dopo, Barnaba portava i due berretti alla Contessa, la quale, appena si fu posto in testa il proprio, mandò a liberare la figlia e, fattala venire in sua presenza, le ornò il capo con quello destinatole. Barnaba allora, profittando delle buone disposizioni che leggeva in volto alla vana signora, e acceso sempre più d'affetto e di compassione per l'infelice Selvaggia, prese a dire che doveva essere ben difficile collocare una signorina in una piccola città, che il pensiero dell'avvenire della figliastra doveva certo essere tedioso per una signora. Una parola tira l'altra, e così, incoraggiato dalle domande della Contessa, rivelò chi era, a qual famiglia apparteneva, e come con la sua abilità si fosse in breve tempo acquistata una certa fortuna, che era sicuro di triplicare appena giunto a Roma. Disse pure che aveva intenzione di ammogliarsi e che avrebbe sposato una ragazza, anche senza dote, purché fosse di buona famiglia. La Contessa lo ascoltava, e siccome non s'era tolto di capo il ricco berretto che celava quello della saggezza, così la sua mente era piena di saggi pensieri. Ella rifletteva che Barnaba, cortese di modi, educato e civile, sarebbe stato un eccellente partito per la figliastra. Inoltre, maritandola senza dote, avrebbe serbato tutto ai propri figli, e così, senza sacrificarla alla vita monastica, si sarebbe liberata di lei. Barnaba si accorgeva dei pensieri che aveva suscitati nella mente della signora, e chiamatala in disparte le fece la proposta di sposar Selvaggia. La Contessa rispose che avrebbe dovuto interrogare il marito, ed invitò Barnaba a tornare la sera stessa. Intanto egli era riuscito a dire a Selvaggia: - Abbiate fiducia in me, io vi porto la liberazione. Il volto pallido dell'infelice ragazza si era illuminato a quelle parole, nelle quali egli aveva trasfuso tutta l'anima sua. La sera Barnaba si vestì riccamente e tornò a palazzo. La Contessa era raggiante di gioia, e lo condusse dal conte Gualterio, il quale disse: - Prendetevi questa povera figlia mia e rendetela felice. Selvaggia, piena di gratitudine per il suo liberatore, gli dette la sua manina a baciare, e Barnaba disse che le nozze dovevano esser celebrate subito, perché aveva fretta di condurre la sposa a Roma. La Contessa era tutta felice che gli portasse via la figliastra, e non fece nessuna opposizione. Con le stoffe donate a Selvaggia da Barnaba, le furono preparate ricche vesti nuziali, e il giovane disse che alla famiglia della moglie non chiedeva altro che il berretto di drappo d'oro della Contessa e una lettiga. Il matrimonio fu celebrato senza alcuna pompa e i due sposi partirono. Selvaggia, in quei pochi giorni, pareva divenuta un'altra e la gioia le si leggeva in viso. Però, quando furono a qualche distanza da Orvieto, Barnaba, che era di animo gentile, scese da cavallo, ed accostatosi alla lettiga in cui era adagiata Selvaggia, le disse: - Madonna, io ebbi pietà delle vostre sofferenze, e vedendo che il solo mezzo di liberarvi era quello di darvi il mio nome, vi chiesi e vi ottenni in isposa. Però io non voglio violentare per nulla la vostra libertà, e se voi non avete per me nessun affetto, siete libera di ordinarmi di condurvi dai parenti di vostra madre, che sono a Foligno, e io sarò sempre lieto di ubbidirvi. - Sposo mio, io vi ho accettato perché ho indovinato che avete un cuore generoso, e questa ultima proposta me lo conferma. Io vi seguirò ovunque, altera e lieta di affidarmi al vostro affetto e di non avere altri che voi sulla terra. Barnaba fu contentissimo della risposta della moglie, e giunto a Roma, si stabilì in una casa modesta, dove, lasciandosi guidare dalla saggezza, il giovane divenne in breve uno dei più ricchi e stimati mercanti della città. Selvaggia fu moglie affettuosa e lo pagò largamente del bene che le aveva fatto. - E ora la novella è finita, - disse la Regina - e chiedo scusa ai signori di averli tediati così lungamente. - Se ce ne raccontaste un'altra, saremmo molto lieti di ascoltarla, - disse la signora Durini. - Ora però c'è altro da fare. Prego tutti di lasciarmi un momento sola con la Regina, la Carola e Maso. Il rimanente della famiglia Marcucci uscì dalla stanza, e allora la signora disse: - Volete maritare l'Annina? Io ho per lei un buon partito. - Ma ha soltanto quindici anni! - osservò la Carola. - Lo so, - replicò la signora, - ma non tutti i giorni capitano certe fortune. Voi sapete che a Camaldoli c'è il direttore dell'albergo, un uomo assennato, che gode la fiducia dei suoi padroni. Egli ha un figlio, per nome Carlo, che ora ha ventiquattro anni. Costui segue la carriera del padre ed è pur direttore in un altro albergo a Firenze. È un giovane serio, ben educato e abbastanza facoltoso. Ha visto l'Annina, gli è piaciuta e me l'ha chiesta in moglie. Io non ho potuto risponder nulla; sta a voi a risolvere. - E l'Annina l'ha interrogata, lei? - domandò la Carola. - No, ma mi sono accorta che Carlo le piace. Se ricusate, io non lo farò venir qui; ma se accettate, domani torna a Firenze e ve lo manderò. - E a lei che gliene pare, signora? Che farebbe se l'Annina fosse sua figlia? - domandò Maso. - Io gliela darei a occhi chiusi. - Allora me lo mandi, ma non dica nulla all'Annina. - Non dirò nulla. Il matrimonio si farebbe l'anno venturo in estate, da quanto ho potuto capire, e Carlo provvederebbe la sposa anche del corredo. La Regina piangeva dalla gioia e pregava, pregava che la felicità potesse arridere all'adorata nipotina. Maso e la Carola erano sbalorditi.

Il ragazzo, spirato quel tempo, credé di avere abbastanza rimunerato la donna per il piccolo servigio resogli, e le disse: - Sapete, ho intenzione di andarmene per il mondo. Sono abbastanza abile per guadagnarmi ovunque la vita. Queste parole dispiacquero alla donna. Ella aveva sperato di guadagnare molto vendendo ai frati della Verna i mobili fabbricati da Fazio, e siccome era avara, già sognava di veder assai aumentato il capitaletto che teneva nascosto sotto una pietra dell'impiantito, in cucina; perciò gli disse: - Senti, Fazio, perché non rimani meco? Io ti fornirò il legname, e quando venderò i mobili che tu fabbricherai, ti darò un terzo del guadagno. Fazio si lasciò adescare da questa promessa e lavorava per dieci, ma non vedeva mai un picciolo. La donna ogni tanto gli faceva un vestito grossolano, un paio di scarponi, ma quattrini non gliene dava, e quando egli la richiamava ai patti, soleva rispondergli: - Li avrai tutti insieme; che te ne faresti dei quattrini ora? Sul finir dell'inverno la donna ammalò gravemente e Fazio l'assisté con amore di figlio. Lui correva a Bibbiena a cercarle il medico e le medicine; lui la vegliava notte e giorno e non c'era caso che l'abbandonasse mai. - Sei più che un figlio per me, - disse la donna una notte che era proprio in fin di vita, - e voglio ricompensarti. Sotto la terza pietra dinanzi al focolare è nascosto il mio tesoro e anche il frutto del tuo guadagno. Appena sarò morta, smuovi la pietra, prendi ogni cosa e va' dove vuoi. Però, prima di partire, fammi una cassa e cura che io sia sepolta nel camposanto della Verna. Fazio s'era affezionato alla donna e piangeva sentendola parlare così. Però non voleva farla morire senza assistenza, e corse alla Verna per cercare un frate. Quando tornò, ella era agonizzante e poté ripetere soltanto: - Rammentati la terza pietra davanti al focolare ... E spirò. Fazio le costruì la cassa, la fece trasportare nel camposanto, e quando ebbe pregato e pianto sulla tomba della donna, ritornò a casa, rimosse la terza pietra del focolare, e, cavatone una grossa bisaccia di cuoio piena di fiorini, se la caricò sulle spalle insieme con gli arnesi e scese a Bibbiena. Costì, invece di andar mendicando di porta in porta, com'aveva fatto alcuni mesi prima, prese in affitto una bottega, comprò del legname e si mise a costruire mobili. A un tratto si sparse la notizia che Fazio aveva fatto fortuna, e questa notizia giunse agli orecchi di certi parenti della morta, i quali sapevano che ella aveva tenuto in casa Fazio. Questo bastò per insospettirli. La loro parente aveva fama di donna denarosa. Fazio dunque doveva avere spogliato la casa a danno loro. Essi andarono prima alla casetta isolata della donna, trovarono la pietra smossa dinanzi al focolare e dissero: - Fazio ha preso il tesoro! Allora tornarono a Bibbiena, e ingiunsero al ragazzo di restituire quello che aveva rubato. - Non ho rubato nulla; - protestò Fazio, - quello che ho, me lo sono guadagnato in parte, e in parte me lo ha lasciato la morta. Gli avidi contadini non intesero ragioni. Pochi mesi prima, Fazio era uno straccione, un mendicante; come poteva dunque aver accumulato de' danari senza averli rubati? Questo fu il ragionamento che fecero e che fecero fare ai paesani, e anche al Potestà. Fu fatta una perquisizione nella bottega del ragazzo, dove trovarono la borsa di cuoio; e Fazio fu condotto in prigione come un malfattore. L'antica antipatia contro quel ragazzo col testone circondato di capelli rossi come il fuoco, si ridestò fra la gente, che cominciò a dire, come di solito: "Rosso, mal pelo" e "Uomo rosso e can lanuto, piuttosto morto che conosciuto"; e non v'era più alcuno che non lo credesse colpevole, financo di avere assassinato la donna, per impossessarsi del tesoro. A farla breve, le sue proteste d'innocenza, le sue lacrime, le sue suppliche non valsero a nulla. Il Potestà disse che ci voleva un esempio per trattenere altri di darsi così giovani al vizio, e lo condannò ad essere impiccato di domenica sulla pubblica piazza, dove solevan fare il "Bello Pomo". Tre giorni soli trascorsero fra la condanna e l'esecuzione della sentenza, e Fazio li passò pregando continuamente il suo protettore san Giuseppe di far palese la sua innocenza. Non gl'importava di morire, ma gli doleva acerbamente di macchiare il nome onorato di suo padre, di portare nella tomba il marchio del ladro. La domenica, dopo la messa, quando la piazza era affollata di gente intenta a esaminare la forca, che da tanti anni non era stata più veduta in paese, Fazio fu tolto dal carcere e, in mezzo alle guardie, venne condotto al patibolo. La gente lo fischiava, gli gettava insulti, gli sputava in faccia chiamandolo: "ladro! assassino!" e il povero innocente piangeva a calde lacrime sentendosi vilipendere. - Confessa! - gli diceva il frate che lo accompagnava. - Sono innocente! Innocente, e san Giuseppe lo sa! - Zitto, ladro! assassino! - ripeteva la folla. Fazio fu fatto salire sopra uno sgabello, il carnefice gli passò la testa nel nodo scorsoio, e dato un calcio allo sgabello lo tirò su fino al palco. In quel momento Fazio fece una nuova invocazione a san Giuseppe e si rassegnò a morire, pregando che gli fosse tenuto conto, almeno nel mondo di là, della sua innocenza. Ma invece di soffrire le pene che soffrono gl'impiccati quando pendono dal patibolo, egli si sentì sostenuto da tante mani invisibili, in modo che la corda non gli stringeva la gola, né gli mancava il respiro, e udì una voce dolce che gli sussurrava nell'orecchio: - Coraggio! La prova è quasi passata, tu sarai salvo; io ti sono accanto e non ti abbandono. Allora l'impiccato, invece di mostrare al pubblico un volto contratto dallo spasimo dell'agonia, prese a sorridere e a dire: - Vedete se sono innocente! Il mio glorioso protettore non permette che muoia infamato. Io vivo e vivrò per provare che non sono un ladro né un assassino, e che il danaro l'ho preso perché la vecchia me lo ha lasciato in premio de' miei servigi. La gente, nel vederlo sorridere, nel sentirlo parlare con tanta calma e con voce naturale, fu presa da sgomento e incominciò a fuggire, in modo che di lì a poco non rimasero attorno al patibolo altro che le guardie e il carnefice, i quali si guardavano sbigottiti da tanto miracolo. In quel momento comparve sulla piazza un frate della Verna, spronando un asino tutto coperto di sudore. - Fermate! - urlava il frate, che era lo stesso che aveva raccolte le ultime parole della donna. - Fermate! Voi impiccate un innocente. Quando fu giunto sotto al patibolo, narrò come egli stesso avesse udito la donna indicare a Fazio dove stava il tesoro e aggiunse: - Dormivo ancora stamane quando mi è apparso il glorioso sposo di Maria, san Giuseppe, e mi ha detto: "Inforca un asino e corri a Bibbiena a salvare un innocente ragazzo che viene impiccato per ladro! Si tratta di quel Fazio, sai, con i capelli rossi". Sono corso, ma non avrei fatto in tempo senza un intervento celeste, e a metà strada l'asino s'è messo a galoppare come un cavallo di buon sangue, e le ultime miglia le ha volate. Allora le guardie tagliarono il capestro, che legava il collo del ragazzo, e questi, come se avesse avuto, invece del supplizio, un abbraccio di due mani amorose, scese sano e sorridente sulla piazza. Si vide poscia un vero miracolo che persuase popolo e guardie dell'innocenza del condannato. Le solide travi del patibolo caddero tagliate in mille pezzi, come se cento seghe invisibili vi avessero lavorato intorno alacremente per più ore. Il Potestà, riconosciuta l'innocenza di Fazio, volle che gli fossero restituiti i denari trovati nella bottega; ma il giovine li cedé generosamente ai parenti della donna, ai quali perdonò pure, e chiese soltanto che gli fossero resi gli strumenti del mestiere. Il giorno dopo dell'impiccagione egli riprese a lavorare nella bottega come se nulla fosse accaduto, e in poco tempo accumulò più danaro di quello ereditato. Fazio divenne un uomo, e quindi un vecchio, e la gente, vedendolo prosperare, non si accorgeva neppur più che avesse quel testone circondato da capelli rossi, perché egli sapeva farsi amare per il suo buon cuore e per le amorevolezze che mostrava verso i miseri e i bisognosi. Trovandosi possessore d'immense ricchezze, accumulate mercè la facilità con cui lavorava con gli strumenti donatigli da san Giuseppe, volle con esse costruire in Bibbiena una chiesa in onore del Santo, e fece venire da Firenze architetti, scultori e pittori perché l'adornassero splendidamente, e quella chiesa era la più bella e ricca che fosse stata mai eretta in tutto il Casentino. Fu in quel tempo che da noi crebbe molto la venerazione per san Giuseppe, e di lui non erano soltanto devoti i falegnami, ma anche i boscaiuoli e quanti maneggiavano legname. Quando Fazio venne a morte, lasciò gli strumenti del mestiere al più indigente dei falegnami; ma essi non avevano più le virtù di un tempo, e se l'uomo voleva guadagnare, doveva faticosamente lavorare. Fazio fu sepolto in quella chiesa; ma la chiesa venne distrutta da un incendio, e di essa e del suo fondatore adesso rimane soltanto la memoria. - E avevate soggezione di me? - esclamò il professor Luigi, quando la Regina ebbe cessato di narrare. - Se io avessi la vostra abilità, non me ne starei qui, ma andrei nelle principali città, e vi assicuro che la gente colta e intelligente correrebbe a sentirmi. Anzi, - aggiunse egli, - se mi permettete, la prossima volta che voi racconterete una novella, io la scriverò, e in seguito darò alle stampe la narrazione raccolta dalla vostra bocca, senza cambiarvi una parola. - E dirà il nome e cognome della nonna? - domandò l'Annina. - Altro! lo stamperò a grossi caratteri sopra la novella. Non le spetta forse quest'onore? La Regina era confusa, ma i figli, le nuore e i nipoti esultavano, vedendo apprezzata la loro cara, la loro buona vecchietta. E allora il professor Luigi disse alla famiglia Marcucci come molti altri prima di lui si fossero studiati di raccogliere dalla bocca del popolo le novelle, specialmente quelle narrate dagli abitanti delle montagne, dove la tradizione e la lingua si mantengono più pure. Così avevano raggiunto un doppio e utilissimo scopo: quello di ricercare in quelle novelle le credenze, le superstizioni e gli usi antichi di ciascun paese, e di ringiovanire ed arricchire la lingua con vocaboli andati in disuso nelle città, dove l'affluenza di gente di altre regioni la corrompe continuamente. I contadini stavano a bocca aperta a sentirlo parlare. La Regina ruppe il silenzio, dicendo: - Non credevo mai, signor professore, che noi ignoranti e zoticoni si potesse insegnar qualche cosa alla gente di città. Mi pare che abbiamo tutti da imparare, e non mi sognavo davvero che il nostro linguaggio potesse esser preso ad esempio. - Voi potete insegnare molto, e se rimanessi qui vorrei pregarvi di raccontarmi tutte le novelle che sapete per pubblicarle in un bel volume, come è stato fatto per quelle montalesi; ma, purtroppo, debbo tornare in città! - Dunque ci sta volentieri qui da noi? - Tanto volentieri, - rispose il professor Luigi, - che se non avessi altri obblighi fisserei la mia dimora in questo bel paese. Voi non capite quanto siete felici! - Tutti abbiamo i nostri guai, - disse Maso sospirando, - e se conoscesse i nostri, non vorrebbe sicuro fare a baratto. - Chi lo sa! - replicò il professore. - È certo che la vita semplice e ritirata espone l'uomo a minori dolori. Prima di tutto godete un'aria che vi dà la salute ... - Questo è vero, - replicò Maso. - È ben difficile che il medico entri in casa o che lo speziale veda in faccia i nostri quattrini; eppure siamo dimolti in famiglia. - Poi avete la pace ... Anche questo è vero. - E le occupazioni vostre sono quelle che mantengono fresca la vecchiezza. Vedete: la Regina è più vecchia di me, eppure è tutt'arzilla e io sono decrepito. Gli è che lei ha respirato aria buona, ha faticato col corpo, e io con la mente. E, credetemi, più l'uomo vive secondo la natura, più sta vicino alla madre terra, meno si espone alle malattie e alle sofferenze. Il professore lo diceva e bisognava crederci; ma molti dei Marcucci avrebbero cambiato la loro esistenza con quella di lui, stimandosi felici del cambiamento. La signora Maria, cui quella conversazione non riusciva gradita perché richiamava alla mente del marito i proprî acciacchi, volle troncarla. - Ma incomincia a far fresco, - fece ella osservare, - e tu devi interrompere la conversazione per tornare a casa. Se tu prendessi un malanno, addio villeggiatura! Il professore cedé al desiderio della moglie, e per quella sera non parlarono d'altro.

E preso dalla legnaia un ceppo di lecciolo, lo misurò al ginocchio dello storpio per vedere se era largo abbastanza per potervelo appoggiare; poi, lo assottigliò da un lato con l'accetta, vi fece con lo scalpello una specie di buco dal lato opposto, e, fasciato quell'armeggio con alcune cinghie di cuoio che tolse da una sua bisaccia, lo affibbiò alla gamba inferma. - Cammina, - ordinò il contadino a Lapo. Lo storpiato non se lo fece dir due volte e incominciò a battere in terra, gridando: - Ora il mio passo è accompagnato dalla musica: bim, bum; bim, bum! Nella sua allegria di potersi movere, Lapo aveva dimenticato la promessa fatta a san Rocco, e appena fu sulla strada maestra, invece di domandare al primo che incontrava quale via avrebbe dovuto seguire per giungere al gran sasso della Verna, domandò dove poteva trovare un'osteria, e, saputolo, si diresse a quella volta. Sotto una pergola v'erano alcuni soldati della sua compagnia che bevevano e giuocavano ai tarocchi. Appena lo videro gli corsero incontro dicendogli che lo avevan creduto morto, e domandandogli come aveva fatto a scampar dalla ferita. Lapo si mise a raccontare per filo e per segno quello che gli era occorso, ma quando chiamò il cane per mostrare agli amici il suo salvatore, chiama che ti chiamo, il cane non c'era più. Lo storpio non ci fece caso, perché era assuefatto a vederlo sparire ogni momento, e una volta imbrancato con gli antichi compagni bevve e giuocò tutto quanto aveva in tasca, finché, disperato di trovarsi senza un soldo, bestemmiò tutti i santi del Paradiso, compreso san Rocco, per non far parzialità. L'oste, sapendo che era al verde, non volle dargli da dormire, e Lapo dovette passare la notte allo scoperto. Ma trovandosi così abbandonato, gli venne il pentimento per quello che aveva fatto, e pianse e si raccomandò come un bambino, non solo a san Rocco, ma anche agli altri santi, che non gli levassero la loro protezione. Peraltro il cane non ricomparve, ed egli rimase tutta la notte con le spalle appoggiate ad un albero a pensare alla sua sorte. La mattina dopo, all'albeggiare, appoggiandosi sul troncone dell'asta e zoppicando, si avviò sulla via maestra chiedendo l'elemosina a quanti incontrava; ma tutti gli rispondevano: - Ben ti sta del tuo malanno, can d'un fiorentino! - Ma che si son dati l'intesa, che tutti mi rispondono a un modo? - esclamò Lapo, che sempre parlava a voce alta con se stesso. - Forse mi riconoscono a questo giglio che mi feci rapportare sul giustacore; ma se arrivo alla Verna voglio vestire il saio, e allora il giglio non mi farà più inviso a nessuno. E senza sgomentarsi per l'erta via, passa sotto Bibbiena e si inerpica sull'aspro monte. Quella salita si fa male con due gambe; figuriamoci quel che sia il farla con una gamba sola ed a stomaco vuoto! Lapo doveva fermarsi ogni momento, e quando si sedeva sopra un sasso, si lamentava più della notte dopo la battaglia, quando era in mezzo ai morti e ai feriti. Mentre era colà in preda alla disperazione, vide salire per l'erta un frate cercatore, che guidava un asino carico di bisacce. - Frate benedetto, - gli disse con voce piagnucolosa, - ho promesso al mio santo protettore, a san Rocco, di compiere il pellegrinaggio della Verna; ma con una gamba sola mi è assai disagevole il far la salita; mi faresti portar dal tuo asino? - Non vedi, - rispose il Frate, - che egli già s'inginocchia sotto il peso? - Ma di quello lo libererò io, - replicò Lapo, - e lo caricherò sulle mie spalle. Il Frate, che era un semplicione e al convento non lo impiegavano altro che alla cerca, non s'accòrse che l'asino avrebbe portato lo stesso il carico, ed aiutò Lapo a salire sul ciuco. Ma questi, a forza di frusta mosse due passi e poi fece una genuflessione come se si fosse veduto davanti san Francesco in carne e ossa, che aveva virtù di comandare agli uccelli, ai pesci e persino ai lupi. - Il tuo asino è stanco, - disse Lapo cui era tornato l'umor faceto. - Fa' una cosa: caricati sulle spalle queste bisacce e tu guadagnerai il Paradiso, perché avrai sudato per portare al convento l'elemosina per i poveri. Il Frate, assuefatto all'ubbidienza, si mise le bisacce sul groppone e arrivò al convento, rosso e trafelato, mentre Lapo vi giunse comodamente. Lassù, come avviene a tutti i pellegrini, egli fu refocillato e ospitato. - Ora che ci sono e che ho compiuta la penitenza, - disse Lapo, - è bravo chi mi manda via. Per fare il soldato non son più buono, ma per vestire il saio, sì. Per molti giorni Lapo rimase alla Verna, e gli pareva d'essere in Paradiso in mezzo a quella frescura, fra quella gente che gli diceva buone parole. Dipingeva allora una cappelletta detta degli Angeli, un certo frate Bigio fiorentino, il quale, attaccato discorso con lo zoppo, si fece narrare come era rimasto impedito nella gamba nonché tutte le avventure capitategli dopo, e financo il sogno. Lapo non aveva la lingua punto legata, sicché frate Bigio, dopo esserlo stato a sentire una mezz'ora, sapeva vita, morte e miracoli di lui, ed essendo persuaso che il sogno e l'aiuto miracoloso del cane significassero che lo storpiato aveva in Cielo qualche santo protettore, volle acquistarlo al convento, affinché la protezione si estendesse anche su questo. Così con bei modi prese a dimostrargli come il mestiere del soldato portava gli uomini alla eterna perdizione, perché oltre i vizî che in quella vita randagia s'incontrano e l'uso del mal parlare, avviene sovente che sieno colpiti improvvisamente dalla morte, senza che abbiano tempo di raccomandar neppure l'anima a Dio. - Frate Bigio, lo so anch'io, - rispondeva Lapo, - e anche prima di esser ferito, avrei voluto campare altrimenti; ma non sono atto a far nulla. - Vedremo, vedremo, - replicava il Frate. - Ti contenteresti, per esempio, d'indossar l'abito e andare in giro per la cerca? - Magari mi contenterei; ma come volete che me ne vada per le salite e per le scese con questa gamba unica? - C'è il somaro che ne ha quattro e che ti potrebbe portare. - Allora dico di sì subito, e se mi fate presto toglier da dosso quest'abito e questo elmetto, che mi rivelano per fiorentino in questo paese dove i fiorentini sono discacciati come se fossero diavoli, io vi prometto, frate Bigio, che dirò per voi tutti i giorni la coroncina a san Rocco, mio protettore. - Io te ne sarò grato, e avrò caro che tu resti fra noi, poiché ciò che m'hai narrato è così strano che io voglio raffigurarti, mentre ricevi la visione di san Rocco in qualcuno degli affreschi di cui vado ornando il refettorio. Perciò conserva codesti abiti anche quando avrai vestito il saio, affinché io possa farteli riprendere al momento in cui mi occorrerà di ritrarti. Lapo non tardò ad ascriversi all'Ordine, ma senza aspirar però né a dir messa né a confessare, poiché non conosceva l'a dalla zeta e anche il pater noster lo seminava di una ventina di strambotti. Appena ebbe vestito il saio se ne andò alla cerca, e nessuno degli altri cercatori riportava al convento tanti donativi quanti egli ne recava. - Come fai? - gli domandavano gli altri frati. - San Rocco mi aiuta, - rispondeva egli. Ma non era, davvero, mercé l'aiuto di san Rocco, che Lapo mangiava e beveva a crepapelle e poi riportava tanta roba su alla Verna. Tutta quella grazia di Dio la doveva alle sue ladre fatiche, perché è d'uopo sapere che sebbene egli avesse vestito l'abito di san Francesco, era più ribaldo che mai. Ecco che cosa aveva fatto. Prima di tutto aveva pregato frate Bigio che gli facesse un quadretto da appendersi nella chiesa del convento, nel quale egli fosse raffigurato mentre san Rocco gli mandava il cane a leccargli la ferita; e, non contento di questo, aveva ottenuto dal buon Frate che da un lato della tavola dipingesse il sogno, poi la sua conversione, e che sotto al quadro scrivesse il racconto di quel periodo della sua vita. Poi, dallo stesso Frate si fece fare un buon numero di abitini di tela da portarsi al collo, con l'immagine di san Rocco e il cane. Naturalmente ogni giorno una gran quantità di gente saliva per devozione alla Verna, vedeva il quadro di frate Bigio, era informato del miracolo, e quando quella gente tornava a casa, spargeva in tutto il contado la notizia. Così, quando fra' Lapo si presentava a chieder la carità con la gamba di legno e il saio, tutti lo pregavano d'intercedere per loro san Rocco, e non lesinavano nel dare al Frate ogni ben di Dio. Lapo ringraziava umilmente, e ai donatori più generosi lasciava l'abitino. A pregare per gli oblatori non ci pensava neppure, anzi, se aveva alzato il gomito più del consueto, snocciolava a voce alta per la via una litania di bestemmie da far venir la pelle d'oca. Così durò il Frate alcun tempo, e più grande si faceva nel contado la sua nomea di sant'uomo, e più prendeva baldanza. Né si limitava a regalare soltanto gli abitini, ma se era richiesto da qualche malato per ottenere da san Rocco la guarigione, portava delle erbe che diceva gli erano state additate dal Santo come salutari, e pronunziava parole che non appartenevano a nessuna lingua. E di questi inganni fra' Lapo non provava nessun rimorso. Egli non si dava cura altro che di mangiare e bere. Una sera, mentre tornava sull'imbrunire al convento, egli diceva fra sé: - Con queste erbe e con questi esorcismi ho trovato un tesoro. Oltre il grano, il vino e i polli, mi dànno anche elemosine in denari. Quando ne avrò raggruzzolati abbastanza, butto il saio in un burrone e mi metto la via fra le gambe per tornare a Signa. E allora, Lapo mio, che baldorie! Mentre così diceva, era giunto a un bosco molto folto, e il somaro s'impuntò senza voler fare un passo avanti. Lapo gli dette un paio di frustate, ma l'asino tenne duro. Allora a un tratto uscì dal bosco il solito can da pastori, che un tempo aveva soccorso Lapo, e con un morso gli staccò tre dita della mano destra; poi fuggì di nuovo a rintanarsi fra gli alberi. Fra il dolore e la paura, Lapo credé di morire, e non trovava neppur la forza di spronare il somaro per uscire da quel luogo cupo e solitario. Prima che il somaro si rimettesse in moto, tal quale come nel sogno, Lapo vide scendere dalla vetta altissima di un poggio un'aquila con le ali spiegate, che si mise a fare cerchi sulla testa di lui. - È finita! San Rocco pietoso aiutatemi, mi pento, salvatemi! E si buttò di sotto dal somaro. Alla invocazione di san Rocco il cane era tornato accanto a Lapo e lo aveva afferrato per la gamba sana, mentre l'aquila s'era attaccata con gli artigli a quella di legno e tirava anch'essa. Tira tira, le cinghie cederono, e l'aquila scappò via scorbacchiata con quell'armeggio fra le zampe; anche il cane lasciò la presa, e, come aveva stagnato a Lapo il sangue della gamba sul campo di battaglia, così questa volta gli stagnò quello che gli usciva dalle dita mozzate. Come Dio volle fra' Lapo risalì sul ciuco e si diresse al convento. - Torno in un bello stato, - disse al frate portinaio, - mi mancano tre dita e la gamba. - Foste forse assalito dai predoni? - domandò l'altro. - Così m'hanno ridotto il Cielo e l'Inferno, - rispose fra' Lapo. - Fratello, qui non si scherza, bisogna prepararsi a morire! - Noi ci prepariamo ogni giorno e ad ogni ora al gran passo. Per questo la morte non ci coglie mai alla sprovvista. - Così potessi dir io! - esclamò Lapo tutto afflitto, - ma sono ancora un gran peccatore. - Fate pubblica confessione. - La farò domattina. Infatti la mattina dopo, Lapo si fece portare nella chiesina degli Angeli, perché non poteva più camminare senza l'armeggio di legno; ma quando a voce alta si mise a narrare tutti i suoi inganni, i frati incominciarono a gridare: - È maledetto! È maledetto! E lo fecero portare fuori del recinto della Verna. - Ieri l'Inferno e il Paradiso si disputavano l'anima mia; oggi non mi vuole né Cristo né il Diavolo. Aspettiamo per veder quello che succede, - disse Lapo. E tanto per consolarsi, trasse fuori dalla scarsella i quattrini accumulati con frode e con inganni e si diede a contarli; ma eccoti che mentre contava gli vola in grembo una gazza, piglia i fiorini nel becco e fugge. - Ora son bell'e spacciato! - disse, - mi pigli anche il Diavolo non me ne importa più nulla! E difatti, nel colmo della notte scese il Diavolo, e, afferratolo, se lo portò all'Inferno. I ragazzi capirono che la novella era finita e ringraziarono la vecchia, la quale trattenne i piccoli invitati, dicendo loro: - O che la pattona non la volete? - Orsù, servitevi! - disse la Carola. Nessuno si fece pregare. E ne mangiarono anche i grandi, specialmente Cecco, che al reggimento non l'aveva mai neppur veduta. - Ora andate a casa, - diss'egli agli amici dei nipoti, - e se la novella e la pattona vi son piaciute, tornate la vigilia di Capo d'anno. - Verremo! - risposero i bambini uscendo tutt'allegri.

Siccome è giusto che tutti i poveri che incontro per via, e i nostri monaci ne approfittino, così non posso prestarvelo altro che fino a stasera, ma è abbastanza perché assaggiate una volta quei pranzi dei ricchi, che fanno nascere in voi tanti desiderî. Il vecchio Sbrigoli e la moglie ringraziarono con grande effusione il Frate, il quale raccomandò loro prima di andarsene di trar profitto del tagliere, senza perder tempo. Appena che il Diavolo fu uscito, i due vecchi, che non avevano mai mangiato a sazietà, posarono il tagliere sulla tavola e pensarono a quello che dovevano chiedere. - Voglio un pasticcio di maccheroni, - disse la vecchia guardando il tagliere con occhio di cupidigia. Subito comparve un pasticcio di maccheroni, coperto di una bella pasta color d'oro, e che mandava un odore che pareva dicesse: "Mangiami!". I due vecchi gettarono un grido di meraviglia e allungarono nello stesso tempo il coltello per partirlo. Ma dopo i primi bocconi, il marito disse: - Mi pare una sciocchezza di cominciare con una cosa dolce; perché non abbiamo chiesto invece una buona minestra di taglierini nel brodo di cappone! Domandiamola? - Chiedi invece un bel prosciutto di maiale, cotto in forno, - disse la moglie. - O un arrosto di tordi, - aggiunse il marito. - Con un pan di lepre, - ribatté la donna. - E un fritto di cervello, - continuò il vecchio. - Non bisogna dimenticare il pan fine. - Né il vin di Pomino. Tutto quello che avevan nominato copriva non solo il tagliere, ma anche la tavola, e i due poveretti guardavano tutta quella grazia di Dio con certi occhi e stavano per mettersi a mangiare, quando la moglie esclamò a un tratto: - Gesù mio! non avevamo pensato che oggi sono le quattro tempora. Lo Sbrigoli rimase a testa bassa. - Le quattro tempora! - ripeté, - giorno di magro e di astinenza. - Non si può mangiar la carne senza far peccato, - osservò la donna. - Eppure, - disse il marito - se non mangiamo oggi, domani non avremo più il tagliere miracoloso! - È vero! la festa andrà a monte. - E non tornerà più. - Dio mio, lasciare il pan di lepre! - E non assaggiare il prosciutto, cotto in forno! - E non saper se i tordi sono cotti a puntino! - E neppure il pasticcio di maccheroni! Il vecchio e la vecchia guardavano tutte quelle pietanze, da cui si sprigionava un fumo grasso e appetitoso che, entrando loro per le narici faceva da stimolo all'appetito. - Sarebbe però un peccato anche quello di non mangiare tanta roba buona, - osservò il vecchio. - Senza contare, - aggiunse la vecchia, - che il frate ci ha permesso di mangiarne. - Davvero? ... - Oh bella! Se no; che ci avrebbe egli dato a fare il miracoloso tagliere? - Hai ragione; eppoi il tagliere non fu regalato dalla Madonna a un santo? - In questo caso non può indurci a peccare; è una cosa sacra. - Come tutto quello che viene dalla gran madre di Dio, Maria. - E si può mangiare tutto quello che il tagliere ci fornisce senza scrupolo. - Mangiamo allora. - Mangiamo. Tutti e due incominciarono dalla minestra, quindi attaccarono il prosciutto di maiale, poscia il pan di lepre, i tordi arrosto e il pasticcio di maccheroni, senza pensar più alle quattro tempora; la gola li aveva rovinati. Il Diavolo, che era stato a guardarli dal buco della chiave, si fregò le granfie convertite in mani di frate, e tutto contento si diresse verso l'abitazione della famiglia Verri. In quella casa vi era una vedova insieme con la figlia sua e un cugino di questa, il quale aveva coltivato la vigna e il campo delle due donne e ora stava per condurre in moglie la ragazza. In cucina due sarte erano occupate a cucire il corredo della sposa, e nel resto della casa un falegname accomodava i mobili della camera nuziale. Il giovane conte Marco Saccone, signore del paese, stava giù in un piccolo orticello e parlava con il futuro sposo della compra di un cavallo. La vedova e la figlia accolsero affabilmente il Frate cercatore, e dopo aver parlato del tempo cattivo, della malattia che colpiva i polli e che aveva distrutte tutte le loro galline, nonché della festa della Verna, la madre uscì per andare in dispensa a prender le elemosine che era solita di fare a fra' Leonardo. Il Frate rimase a parlare con la ragazza del suo prossimo matrimonio. - Ragazza mia, voi state per abbracciare uno stato molto aspro, e, per sopportarlo, occorre una grande forza, - disse il Diavolo facendo la voce di predicatore. - Le spose dei gentiluomini, una volta maritate non debbon pensare ad altro che a indossare ricchi vestiti di seta o di vaio, andare in chiesa, seguir le cacce ed assistere a conviti; ma la moglie di uno che lavora la terra deve dire addio a ogni piacere e a ogni riposo; deve coricarsi tardi, perché è durante la veglia che ella fila, cuce e fa il pane; deve svegliarsi ad ogni momento per allattare i figli ed esser la prima alzata ad accendere il fuoco. - È vero, fra' Leonardo, la vita delle maritate povere è molto aspra, - disse Nicolina sospirando. - E poi, - continuò il falso Frate, - la meschina rendita dei poveri non è al coperto dalle sventure, come quella dei ricchi. La grandine rovina la vigna, e la famiglia non ha di che sfamarsi. Allora è la moglie soprattutto che soffre, perché intanto che il marito lavora fuori, è lei che sente le offese dei creditori e le grida dei bambini. - È vero, fra' Leonardo, quel che dite è verissimo! - ripeté la ragazza spaventata. - Senza contare che gli uomini, i quali si affaticano nei lavori manuali, sono spesso di pessimo umore, - continuò il Diavolo, - e invece di esser cortesi con le mogli come i signori lo sono con le loro, le trattano come bestie da soma. - Gesù mio! - esclamò Nicolina, - e Piero che bastona tanto le bestie! - Vedete dunque che Iddio vi sottopone a una dura prova, - continuò il Diavolo con fare umile. - Ma voi benedite la croce che vi dà a portare, figlia mia, e gioite in cuor vostro di non essere una dama nobile, la quale non conoscerebbe altro che i piaceri e le vanità della esistenza. - Sì, sì, fra' Leonardo, - disse Nicolina singhiozzando, - gioisco; ma, Dio mio, a questo che mi dite non ci avevo pensato! Nicolina prese la cocca del grembiule per asciugarsi le lacrime che le scendevano sulle gote bianche e rosse. Il Frate parve che s'intenerisse. - Statemi a sentire, povera innocente, - disse. - Io voglio aiutarvi in questa afflizione e assicurarvi l'affetto del vostro futuro sposo. Prendete quest'anello di ferro, nero come i vostri capelli. Esso apparteneva a un santo vescovo e possiede la virtù miracolosa di costringere l'uomo cui lo metterete in dito, di fare la vostra volontà. Anche se l'uomo fosse un conte o un duca, appena porterà quest'anello lo vedrete divenire vostro schiavo fedele. La ragazza prese l'anello e ringraziò caldamente il Frate, il quale, dopo aver posto nella bisaccia l'elemosina della vedova, se ne andò accompagnato fino all'uscio da Nicolina. Questa andò nell'orto per cercarvi di Piero, ma esso era uscito dalla porta di dietro, ed invece incontrò il Conte, che stava per portar via il cavallo comprato poco prima. Il conte Marco Saccone era un giovine alto e robusto, col viso acceso, e in tutto il Casentino passava per il più bel gentiluomo che vi fosse. Nicolina, vedendolo, si mise a pensare a quel che le aveva detto fra' Leonardo, e l'anello di ferro che le aveva dato. Ella paragonava la vita di una donna nobile a quella di una contadina e poi guardava quell'anello, che, al dir del Frate, aveva la virtù di farla amare da un conte o da un duca. "Se provassi su di lui, soltanto per vedere se il Frate ha detto il vero!" pensava Nicolina, mentre traversava l'orticello per rientrare in casa. Il Conte la vide e le disse: - Nicolina bella, dunque si fanno le nozze, e presto avrai un padrone? - L'ho già, - rispose la ragazza abbassando la testa, volendo dire che lei come tutti gli abitanti di Bibbiena, erano sottoposti all'ubbidienza della famiglia Saccone, che era entrata nei diritti dell'arcivescovo Tarlati di Arezzo. - Se io dunque sono il tuo padrone, Nicolina, a me spetta il primo bacio. E il Conte l'abbracciò; ma mentre la ragazza tentava di svincolarsi da lui, il signore vide l'anello di ferro che portava nell'indice, e le domandò da chi l'aveva avuto. Nicolina rispose che l'aveva trovato sulla proda di un fosso nel far l'erba. - Se è così l'anello mi spetta, perché sono il padrone della terra. E ridendo lo tolse di dito alla ragazza e se lo mise nel mignolo. Ma subito sentì accendersi il sangue e il cuore da un violento amore per Nicolina, e guardandola fisso con gli occhi scintillanti, le disse a bassa voce: - Bisogna che questo anello sia quello della nostra unione, Nicolina. Sali meco su questo cavallo e ti condurrò in una villa dove c'è tutto quello che puoi desiderare; avrai vesti di seta, gioielli e paggi. Nicolina fu così stupefatta da queste parole che non seppe rispondere; allora il Conte la sollevò da terra, la pose a sedere sulla sella e il cavallo partì di trotto facendo le faville sui ciottoli della strada. Il Diavolo, che era nascosto dietro un muricciolo, fece una capriola dalla contentezza e poi, riprendendo l'aspetto umile del Frate cercatore, si diresse verso la casa dei Dovizii. Questi erano tre fratelli, possidenti di terreni. Ognuno aveva la sua parte di terra, che coltivava a modo suo; ma il patrimonio paterno restava indiviso, e i fratelli vivevano fra loro d'amore e d'accordo. Il Frate li trovò riuniti in una stanza terrena occupati a tagliare col coltello i dentali per l'aratro. Nel veder fra' Leonardo si alzarono e vollero offrirgli da bere, ma il Diavolo li ringraziò. - No, brava gente, son venuto soltanto a prendere l'elemosina per il convento. - Scusateci, fra' Leonardo, ora siamo da voi. Si preparano i dentali per l'aratro, ché quelli che abbiamo son consumati, - disse il maggiore de' tre fratelli. - Eppure, - continuò il secondo, - furon fatti da poco col legno di querciolo; ma la nostra terra è dura come il sasso, e si suda molto a lavorarla. - Figuratevi, - aggiunse il terzo fratello Dovizii, - che in una giornata si stancano due paia di manzi; a mantenere tante bestie c'è da andare in rovina. - Capisco che vi lamentiate, figli miei, - rispose il Diavolo, - e voglio aiutarvi. Questo dentale fu fabbricato da san Giuseppe. Quando vi s'innesta il vomero, esso lavora tutto il giorno da sé e fa tanti solchi quanti non ne farebbero quattro aratri tirati dai manzi. Disgraziatamente questo dentale non può avere altro che un padrone e bisogna che appartenga a uno solo di voialtri. - Tiriamo a sorte per vedere a chi tocca! - esclamarono i fratelli. Il Frate acconsentì, e quando i Dovizii ebbero tirato, il dentale toccò al minore, che aveva nome Ciapo. Fra' Leonardo glielo diede e andò via avendo ricevuto una larga elemosina, dopo di aver raccomandato ai due fratelli maggiori di non esser gelosi del minore. Questi andò a prender l'aratro, lo portò in un campo, che non era stato lavorato da tre anni, e inserì il vomero nel nuovo dentale. Subito il vomero si mise in moto, volando sulla terra come un uccello cacciato dalla tempesta e facendo un solco più profondo per due volte di quello che suol fare il vomero. I due fratelli maggiori, che erano andati per vedere, rimasero immobili dalla sorpresa, ma in quel momento sparì dall'animo loro l'affetto per il fratello e provarono per lui un'invidia indicibile. Ciapo, invece, si gonfiava d'orgoglio. - È stato fortunato davvero di vincere il dentale! - sussurrarono essi a bassa voce, - noi avevamo tanti diritti quanto lui, ma il caso lo ha favorito. Ciapo udì questi discorsi e si volse irato. - Non fate come i reprobi, - disse, - che chiamano caso la volontà di Dio. Se ho ottenuto questo dono prezioso, vuol dire che ero stimato più degno di voi di riceverlo. I due fratelli gli risposero per le rime e lo chiamarono vanaglorioso. Quest'epiteto fece andare in bestia Ciapo. - Andatevene! Andatevene! - esclamò, - non mi fate uscir dai gangheri, perché con il mio aratro posso ammassare in breve molte ricchezze, e quando sarò un signore, se mi salta il ticchio, vi riduco alla miseria. Questa minaccia fece salire ai due fratelli maggiori tutto il sangue alla testa. Essi erano ciechi di rabbia e dissero: - Abbi giudizio, borioso maledetto, perché se tu ci minacci, ti spoglieremo di ciò che costituisce la tua superbia! - Se avete il coraggio, fatelo pure, - rispose Ciapo alzando il roncolo che portava alla cintura e ponendosi a difesa del suo tesoro. I fratelli, pazzi di furore, vedendogli in mano quel ferro, estrassero i coltelli e lo crivellarono di ferite, cessando soltanto quando Ciapo cadde morto davanti a loro. Una risata maligna echeggiò in quel momento dietro a una siepe. Era il Diavolo che rideva dalla contentezza e se ne andava felice dell'opera sua. Prima di giungere in Bibbiena, lasciò le vesti di Frate cercatore, e prendendo l'aspetto di un mercante di buoi, entrò in una osteria e chiese da cena. La serva gli portò in tavola un par di rocchi di salsicce, una frittata e un fiasco di vino. Mentre il Diavolo mangiava, entrò un uomo tutto commosso, narrando che i vecchi Sbrigoli erano crepati a tavola dal troppo mangiare e dal troppo bere. Il Diavolo si strofinò le mani e ordinò alla serva un altro fiasco di vino, ma di quello vecchio, stravecchio. Mentre sorseggiava il primo bicchiere entrò nell'osteria un altro uomo, annunziando che il conte Marco, mentre cavalcava per recarsi a una sua villa, dopo aver rubato la bella Nicolina Verri, era stato sorpreso dalla piena, guadando l'Archiano, ed era morto. - Anche la ragazza? - domandò il Diavolo. - S'intende, e il cavallo pure, - rispose l'uomo. - Il cadavere del conte Marco è stato ripescato, ma nessuno ha avuto ancora tanto coraggio da portare la notizia del disastro al padre suo. Il Diavolo, dalla contentezza, scese nell'orto e ballò come un burattino. Quando si fu rimesso a tavola, altri giunsero nell'osteria raccontando che i due fratelli Dovizii avevano ucciso Ciapo, e poi, dallo spavento del delitto commesso, si erano dati alla fuga. Il Diavolo mandò un grido di gioia e chiese che gli portassero un fiasco di vin santo. Intanto la gente era sgomenta da quel succedersi di disgrazie e di delitti in poche ore, e si faceva il segno della croce temendo che fosse prossimo il giorno del giudizio. Il Diavolo centellinava l'ultimo bicchierino di vin santo quando Gesù Cristo si presentò sull'uscio. - Satana, - disse, - la giornata è trascorsa e tu devi tornare alle fiamme dell'Inferno. - Son pronto, Nazzareno, - rispose Satanasso asciugandosi la bocca, - ma ti assicuro che non farò il viaggio solo. Porto meco tutti quelli che ti eran cari in questo paese. - Quali arti diaboliche hai tu impiegato per condurre a te quelle anime timorate di Dio? - domandò Gesù Cristo. - Un mezzo semplicissimo: li ho beneficati. Tu mi avevi proibito di tormentare gli Sbrigoli, i Verri e i Dovizii, e io non ho trasgredito la tua volontà; invece di molestarli, li ho arricchiti. Questo fatto ti servirà d'esempio, Nazzareno. Tu saprai un'altra volta che per perdere gli uomini vi è un mezzo ben sicuro; quello di beneficarli. Addio! E il Diavolo fece un lancio e sparì nell'oscurità della notte. Mentre Gesù Cristo, afflitto dalla dannazione di quelle anime, riprendeva il pellegrinaggio, alla luce delle torce vide recare sopra una barella il cadavere del conte Marco, che riportavano al palazzo. Poi, ammanettati in mezzo ai soldati, scòrse i due fratelli Dovizii. Il Signore si coprì la faccia e pianse esclamando: - Il Diavolo è più potente di me! - Come raccontate bene, Regina! - esclamò Vezzosa. Vi si starebbe a sentir degli anni. Me l'avevano detto che non ci era nessuno che narrasse le novelle come voi, ma non ci credevo. Ora non posso più dire così, ed è un piacere davvero l'ascoltarvi. - La mamma, - rispose la Carola, - ci fa parer corte le veglie d'inverno, e se tu ci fai bene attenzione, ogni novella contiene uno o più ammaestramenti. Io lo dico sempre, ai miei figliuoli, che son ben felici di avere una nonna come lei. Cecco aveva una voglia matta di unire le sue lodi a quelle altrui, ma la presenza delle donne di fuori lo tratteneva e avrebbe taciuto se la Vezzosa non l'avesse stuzzicato dicendo: - Scommetto che di quanti siamo qui, il solo che non piglia gusto alle novelle della Regina, è Cecco. Lui, assuefatto in città, deve ridere delle nostre fandonie. - Io? - rispose Cecco arrossendo. - Sì, proprio voi; al reggimento disimparate tutte le usanze del paese, e invece di sentir raccontare volentieri i fatti veri o immaginarî che riguardano il Casentino, leggete i fattacci che stampano i giornali. Ne ho visti tanti che sono ritornati da fare il soldato, e tutti avevan cambiato pensiero e disprezzavano ciò che prima piaceva loro. - Vi sbagliate, Vezzosa, - rispose Cecco vincendo il ritegno. - Io sono stato volentieri sotto le armi, perché ho imparato a montare a cavallo, a puntare un cannone, a sopportare le fatiche delle marce, e, all'occorrenza, sarei buono anch'io a difendere il nostro paese, che non è il Casentino solo, ma bensì tutta l'Italia. Ma anche quando ero nelle grandi città, il mio pensiero si volgeva sempre qui, e non vedevo il momento di tornare a casa per abbracciare la mia vecchietta e aiutare i fratelli. Io non credo che si possa essere buoni soldati, se non si comincia dal fissare le proprie affezioni a una casa, a un pezzetto di terra, e da queste non si estendano a una regione e poi alla grande patria, che il soldato deve essere pronto a difendere. - Cecco, voi parlate come un libro e non l'avrei mai creduto; ma già siete figliuolo della Regina. Godo davvero di sentire che voi siete rimasto un buon casentinese anche sotto le armi; vuol dire che alla vostra casa e alla vostra mamma siete affezionato davvero. Cecco non rispose, ma scambiò con la Regina uno sguardo pieno d'affetto. - Quand'è mamma che ci racconterete un'altra novella? - domandò la Carola. - Domenica, se non c'è nulla in contrario. - Allora, Vezzosa, non mancare domenica prossima; e siccome sarà entrato il carnevale, dopo la novella farete due salti. Avverti le compagne, e Cecco suonerà l'organino. - Cecco ballerà, - disse Vezzosa. - In paese non ce n'è tanti dei ballerini come lui, ed è meglio che suoni chi non può dimenar le gambe. Il bell'artigliere non poteva soffrire che quella ragazza si occupasse sempre di lui, e per levarle ogni speranza disse: - Su di me non ci contate, io non so ballare. - Si vedrà! - rispose Vezzosa che non voleva darsi per vinta. Per dare un'altra piega al discorso, Cecco disse: - Si può sapere, mamma, quello che ci racconterete domenica? - Se posso rammentarmene bene, vi racconterò la novella di Adamo il falsario; me la raccontava sempre la mia nonna; ma sono tanti e tanti anni che può essermi uscita di mente. - Oh, ve la rammenterete, nonna! - esclamò l'Annina, - voi non dimenticate mai nulla, e domenica saprete farvi onore davanti a molta gente! Poi balleremo e voi ci starete a vedere. - Io andrò a letto, bimba; alla mia età si ha bisogno di riposo. - Ora ne avete bisogno davvero, andate a letto, mamma. La vecchia, aiutata da Cecco, si alzò e andò in camera. Quando il bell'artigliere fu tornato in cucina, Vezzosa gli si piantò davanti, dicendogli: - Siamo tutte donne sole; vi dispiace, Cecco, di accompagnarci? Egli non poté rifiutarsi e uscì fischiando; ma invece di mettersi accanto alla Vezzosa, com'ella avrebbe voluto, s'imbrancò con i bambini, e con lei non scambiò altro che la felice notte sull'uscio di casa.

Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero fare un giuramento sulla crocellina d'oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l'ebbe posata nell'orticello del tessitore, l'avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all'uscio di cucina, che dava sull'orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra' Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra' Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

In casa Marcucci erano tutti così impazienti che quei quindici giorni passassero, per veder la sposina fra loro, che quasi quasi se la pigliavan col tempo il quale, a sentir loro, non era galantuomo abbastanza. La domenica delle Palme era una bella giornata primaverile, e invece di stare in cucina, i Marcucci, che avevano desinato presto, s'eran seduti sull'aia a prendere il fresco; le donne sul muricciolo, gli uomini sopra una trave posata in terra, e la Regina sola sopra una seggiola. - Oggi ci narrate una novella allegra? - domandò la Carola alla vecchia. - Non tanto; ma però vi prometto che non vi farò fare sognacci a nessuno. Che ho da cominciare? Non ho mai raccontato di giorno, e chissà se con tutta questa luce avrò la parola facile. - Per questo siamo sicuri che non vi impappinerete, - disse la Carola. - Se i nostri figliuoli sapessero parlare come voi, potrebbero andare al Consiglio Comunale! - E magari al Parlamento e farci una bella figura fra tutti quei signori! - ribatté Maso ridendo. - Per noi ci voglion le braccia forti e il groppone duro: con le chiacchiere non si vanga questa terra che pare un masso. È meglio che noi abbiamo la forza, e la mamma il cervello pronto e la lingua sciolta. Su, mamma, diteci la novella. E la Regina cominciò: - Al tempo de' tempi, quando gli abeti della Verna erano ancor piccini, c'era a Rassina, giù verso Arezzo, una povera vedova per nome Maddalena; ma tutti la chiamavano Lena per far più presto. Lena, dunque, era figliuola d'un signore nobile e ricco, il quale, morendo, aveva lasciato un castello, molte terre, cavalli, buoi, vacche, pecore, e poi grano, olio e vino in quantità, senza contare i quattrini, che li aveva a sacchi. E siccome la figliuola s'era maritata maluccio e, rimasta vedova, era tornata a casa, così, lui, al letto di morte, aveva raccomandato ai figliuoli di metterla a parte dell'eredità. Ma i fratelli, quando il vecchio ebbe chiuso gli occhi, fecero tutto mio come le civette, e non le dettero nulla. Piero, che era il maggiore, prese il castello, le terre e i cavalli; il secondo, che aveva nome Cosimo, prese le vacche, le pecore e l'olio; Cambio, che era l'ultimo, ebbe i buoi, il vino e il grano, e così a Lena non rimase altro che una capannuccia, che non aveva neppure la porta, dove rimettevano qualche volta i carri. Ella vi faceva portare i suoi pochi mobili, quando Cosimo, fingendo di aver pietà di lei, le disse: - Voglio condurmi verso di te come un buon fratello e un buon cristiano. C'è nella stalla una vacca nera che dà appena tanto latte da nutrire un bimbo di nascita. Puoi prenderla, e Biancospina la condurrà a pascere nei prati. Biancospina era la figliuola della vedova, una bambinuccia di circa dieci anni, ma così pallida e esile che faceva pietà. Pareva davvero uno di quei delicati fiorellini di siepe di cui portava il nome. Lena se ne andò dunque dalla casa paterna insieme con la pallida bambinuccia, la quale si trascinava dietro la magrissima vacca, donata da Cosimo alla sorella. Biancospina stava tutto il giorno nei prati a guardare la vacca nera che raccapezzava a stento qualche filo d'erba esile, seccato dalle brine, ed ella passava il tempo a far delle crocelline di spini, sulle quali infilava i fiori di ginestra, e intanto diceva le orazioni alla Madonna, perché aiutasse la sua mamma, che era tanto povera. Un giorno ella cantava l'Ave Maris Stella che aveva imparata alla chiesa di Rassina, quando vide a un tratto un pettirosso che andò a posarsi sopra una delle piccole croci di fiori di spini e ginestra, che ella aveva piantate in terra, e si mise a gorgheggiare, movendo la testa e guardandola come se volesse parlarle. La bimba, meravigliata, gli si avvicinò e prestò l'orecchio, ma non poté capire che cosa diceva. L'uccellino aveva un bel gorgheggiare più forte, agitar le ali, svolazzare intorno a Biancospina, questa non capiva nulla, proprio nulla. Nonostante provava tanto piacere a vederlo e a udirlo, che non s'accòrse neppure che s'era fatto notte. Finalmente l'uccello volò via, e quando Biancospina alzò gli occhi per vedere in quale direzione andava, s'accòrse che il cielo era coperto di stelle. Allora ella corse a cercare la vacca nera per condurla a casa; ma, per quanto la cercasse e urlasse per chiamarla, la vacca nera non dava cenno di sé. Biancospina camminò un pezzo, frugando dietro le siepi, dentro i fossi, e avrebbe cercato ancora se non si fosse sentita chiamare da sua madre con voce spaventata. Corse da lei e la trovò tutta sgomenta sul limitare del prato, all'imboccatura della viottola che menava alla capanna. Accanto alla vedova c'era la carcassa della vacca nera. I lupi, scesi dalla montagna, la avevano sbranata, non lasciando altro che le corna e gli ossi. Biancospina si sentì tutta rimescolare, e cadendo in ginocchio si mise a piangere disperatamente. Era tanto tempo che portava a pascere la vacca e le s'era affezionata molto. La bimba ripeteva fra i singhiozzi: - Vergine Santa! perché non mi avete fatto vedere il lupo. Avrei tracciato il segno della croce col bastone e sarebbe fuggito. La vedova, che era davvero una santa donna, cercò di consolare la figlia, e le disse: - Non bisogna piangere la vacca nera come piangeresti un parente morto, piccina mia. Se i lupi sono contro di noi, il nostro Signore Iddio ci proteggerà. Aiutami a caricare questo fastello di legna secche e torniamo a casa. Biancospina fece quello che le comandava la madre, ma ad ogni passo mandava un sospiro e le lacrime le cadevano a una a una sulle gote. "Povera vacca, - pensava, - povera vacca, così docile, che mangiava di tutto e cominciava a ingrassare! Che peccato che i lupi l'abbiano divorata!" Quella sera Biancospina non riuscì a buttar giù un boccone, e andò a letto senza cena. Nella notte poi si svegliò cento volte di soprassalto, perché le pareva di sentir mugghiare la vacca nera, e quando era desta piangeva, e inumidiva il guanciale di lacrime. La mattina dopo si levò avanti giorno e andò scalza sul prato. Appena vi fu giunta, vide il pettirosso sulla croce di spine e ginestre che vi aveva piantata il giorno prima. L'uccellino cantava e pareva che la chiamasse, ma ella non riusciva a capir quello che diceva, e stava per andarsene, quando vide brillare qualche cosa per terra. Ella credé che fosse un fiorino d'oro, e cercò di rivoltarlo col piede; ma non ci riuscì, perché invece di una moneta era erba d'oro, Però, appena l'ebbe toccata, capì quello che le diceva l'uccellino col suo gorgheggio. L'uccellino diceva: - Biancospina, ti voglio bene; Biancospina, ascoltami! - Chi sei? - domandò la bimba meravigliata di capire a un tratto il linguaggio degli uccelli. - Sono il pettirosso che seguì Cristo al Calvario e che ruppe una spina della corona che gli lacerava la fronte. In ricompensa di questo servigio Iddio mi ha permesso di vivere fino al giorno del Giudizio e d'arricchire ogni anno una povera creatura. Quest'anno ho scelto te. - Ma dici davvero, pettirosso? - esclamò Biancospina tutta felice. - Potrò dunque comprarmi una crocellina d'argento e le scarpe? - Avrai una croce d'oro e scarpe di seta e di velluto come le ragazze nobili. - E che cosa debbo fare? - Devi seguirmi dove ti condurrò. Biancospina disse che era pronta e si mise a correre, guidata dal pettirosso, il quale le fece traversare dei prati, poi delle colline, e finalmente, cammina cammina, giunsero in un bel prato sull'Alpe di Catenaia. Quivi il pettirosso si fermò e disse alla bambina: - Non vedi niente sull'erba? - Si, - rispose Biancospina, - vedo un paio di calzari da frate e un bastone da pellegrino. - Mettiti i calzari e prendi il bastone. - Eccoti ubbidito. - Ora, - soggiunse il pettirosso, - cammina su questa scogliera finché non troverai un picco di montagna, fanne il giro e fermati soltanto quando scorgi una ginestra celeste come il firmamento; coglila e fanne un laccio con lo stelo. Dopo percuoterai il sasso col baston da pellegrino e ne uscirà fuori una vacca. Legala col laccio e conducila a tua madre per consolarla della perdita della vacca nera. Biancospina fece quello che le aveva detto il pettirosso , e quando batté la pietra, ne uscì infatti una vacca, con uno sguardo mansueto come quello di un cane, e un pelo liscio come un gatto. Aveva le mammelle rosee piene di latte e si lasciò condurre alla capanna della vedova, che fu lietissima che il Cielo le avesse mandato quell'aiuto. Quando Lena si mise a mungerla, rimase a bocca aperta, perché il latte le usciva a fonte dalle mammelle senza smetter mai. Lena, con quel latte, empì tutti i fiaschi che aveva, poi le mezzine e finalmente dovette ricorrere alle damigiane perché il latte sgorgava sempre. - Santa Vergine, ma questa non è una vacca come tutte le altre! potrebbe nutrire tutti i bimbi del Casentino. In breve a Rassina e nei dintorni non si parlò d'altro che della vacca della vedova, e per vederla capitavano da tutte le parti. Anche il curato andò da Lena, supponendo che quella vacca fosse un dono del Diavolo; ma dopo averle fatto in fronte il segno della croce, disse che non c'era nulla da temere. I possidenti dei dintorni offrivano a Lena prezzi favolosi per aver quella vacca. Per ultimo vi andò anche Piero, il fratello maggiore, e disse alla vedova: - Rammentati che siamo figli dello stesso padre e che la stessa madre ci ha partoriti; dammi dunque la preferenza sugli altri acquirenti. Lasciami portar via questa vacca e te ne darò dieci in cambio. - Essa non vale soltanto quanto dieci vacche, ma quanto tutte quelle che pascolano in Casentino, - rispose la vedova. - Ebbene, sorella, io ti darò, per averla, la villa dove sei nata con tutti i poderi e il bestiame che v'è. Lena accettò l'offerta e andò a prender possesso della villa e delle terre, e quindi consegnò la vacca a Piero, che la condusse a Firenze, dove sperava di fornir di latte tutta la città e far quattrini a palate. Biancospina pianse molto quando vide andar via la vacca, e rimase afflitta tutto il giorno. Allorché la sera andò nella stalla per rivedere il posto dove stava la vacca, si mise a dire: - Perché non c'è più la buona vacca? Quando la potrò rivedere? Non aveva terminato di dir queste parole, che sentì mugghiare alla porta e capì che la vacca diceva: - Eccomi ritornata, padroncina. Biancospina si voltò e riconobbe la vacca. - Sei tu! - esclamò tutta meravigliata. - E chi ti ha ricondotta? - Non potevo appartenere al tuo zio Piero, perché la mia natura non mi permette di rimanere con quelli che sono in stato di peccato. Così sono ritornata per appartenerti come prima. - Allora bisognerà che la mamma renda la villa e i poderi? - No, perché tutto questo le era stato usurpato ingiustamente da suo fratello. - Ma lo zio verrà a cercarti qui e ti riconoscerà? - No, no, a questo non ci pensare. Va' subito a cogliere tre foglie di genziana e ti dirò quel che devi fare. Biancospina andò sul monte, e dopo poco tornò colle tre foglie di genziana. - Ora, - disse la vacca, - strofinami queste foglie dalla punta delle corna fino alla punta della coda e di' sottovoce per tre volte: "Sant'Antonio benedetto!". Biancospina strofinò le foglie di genziana dalla punta delle corna alla punta della coda della vacca, e quando ebbe detto per la terza volta l'invocazione, la vacca s'era trasformata in un bellissimo cavallo. La bimba rimase a bocca aperta a guardarlo. - Ora, - disse il cavallo, - tuo zio Piero non mi riconoscerà davvero, perché fra una vacca e un cavallo c'è una bella differenza. La vedova, nel sapere quel che era successo, ebbe moltissimo piacere, e il giorno dopo volle provare il cavallo per mandarlo a Pratovecchio a portare del grano. Ma figuratevi un po' come rimase meravigliata quando vide che la schiena dell'animale s'allungava quanto più lo caricavano, così che poteva portare da sé solo tanti sacchi quanti ne portavano tutti i cavalli di Rassina! Questa notizia si sparse in breve per tutto il vicinato, e giunse anche alle orecchie di Cosimo, il fratello secondogenito della vedova, il quale andò alla villa, e, dopo aver guardato l'animale ed averlo veduto caricare, disse alla sorella se voleva venderglielo. - Ben volentieri, - rispose, - ma questo cavallo vale molto. - Lo so, - disse il fratello, - e ti propongo di darti in cambio tutte le mie vacche. - È poco, - replicò la vedova. - Ci aggiungerò anche le pecore, - disse Cosimo. Il contratto fu conchiuso e Lena andò a prendere possesso delle mandrie e del gregge, come aveva fatto dei poderi. Cosimo si portò via il cavallo. La sera, però, l'animale era già tornato da Biancospina, che andò a cogliere, come aveva fatto al ritorno della vacca, tre foglie di genziana, e le strofinò dalla punta degli orecchi alla punta della coda del cavallo ripetendo tre volte: "Sant'Antonio benedetto!". Alla terza invocazione il cavallo si trasformò in un montone coperto di un pelame lungo, morbido e lucente come seta. La vedova, informata del fatto, andò nella stalla per vedere questo nuovo miracolo, e disse a Biancospina: - Figlia mia, va' a cercare le cisoie del pastore, perché questo povero montone non può reggere tutto il suo vello. Ma allorché volle tosare l'animale, Lena s'accòrse che la lana cresceva quanto più la tagliava, così che quel montone solo valeva quanto tutti quelli del Casentino messi insieme. Di questo nuovo miracolo corse la voce fino ad Arezzo, ove abitava Cambio, il terzo fratello della vedova, il quale andò alla villa, e die' a Lena tutto quello che possedeva, purché gli consegnasse il montone. Ma mentre tragittava l'Arno col montone, questo si buttò nell'acqua e vi sparì, inghiottito dalla corrente. Biancospina, che era solita veder tornare gli animali che i suoi zii compravano a così caro prezzo, aspettò il montone tutta la sera, lo chiamò ripetutamente senza vederlo giungere, neppure il giorno seguente. Allora corse nel prato dove un tempo portava a pascere la vacca nera, e vide il pettirosso posato sopra un ciuffo di ginestre. - Ti aspettavo, padroncina mia. Il montone non tornerà più, ma avrai ancora bisogno del mio aiuto benché tu sia divenuta una ricca signorina come ti avevo promesso, e tu possa portare la croce d'oro e le scarpe di seta e di velluto. Quando ti accadrà qualche cosa di funesto, rammentati che il pettirosso del Calvario è qui per aiutarti. Biancospina tornò a casa tutt'afflitta e raccontò alla mamma l'accaduto, e la vedova pure si turbò alle parole della figlia; ma aveva fiducia in Dio e sperava da Lui misericordia. Non erano passati tre giorni dacché il pettirosso aveva parlato, che giunse alla villa di Lena il fratello Piero, armato fino ai denti, e incominciò a tempestare che rivoleva i suoi poderi e ogni cosa perché la vacca gli era scappata, e per quanto l'avesse ricercata, non aveva potuto trovarla. Appena Biancospina lo vide, corse tutta tremante nel prato, dove un tempo conduceva a pascere la vacca nera, e chiamò il pettirosso. - Che cosa vuoi, padroncina? - Lo zio Piero minaccia di spogliarci, - diss'ella. - Rivuol la roba sua di riffa o di raffa, e se non gli si rende, menerà il bargello, i soldati e chissà chi altro. - Non temere, Biancospina. Tu devi rabbonirlo e farlo sedere a tavola per mangiare, promettendogli che indurrai la mamma a restituirgli ogni cosa. Nel vino tu gli metterai tre granellini di sabbia d'Arno, di quella su cui corre sempre l'acqua. Vedrai che dimenticherà la vacca, il contratto e tutto, e non rammenterà altro che l'usurpazione commessa a danno della sorella. Biancospina, prima di tornare a casa, corse all'Arno, prese i tre granellini di sabbia, e, tornata alla villa, si accostò allo zio senza temere le sue minacce. Dopo averlo condotto in disparte, gli parlò con tanta manierina di voler indurre la mamma sua alla restituzione dei poderi, che egli incominciò a pensare che sarebbe meglio riaverli con le buone che con le cattive, e si rabbonì. Quando Biancospina lo vide più calmo, lo invitò a sedersi a mensa e gli servì da colazione, non dimenticando di mettergli nel vino i tre granelli della sabbia d'Arno, che dovevano dargli l'oblìo. Essi operarono subito il miracolo. Piero rimase a tavola lungamente, senza rammentarsi più né della vacca, né d'altro, ciarlando del più e del meno, e verso sera, tutto affabile, prese commiato dalla sorella, e, risalito a cavallo, se ne tornò a Firenze. - E uno! - esclamò Biancospina. - Ora vedremo comparir gli altri due. La mattina dopo, come aveva previsto la bimba, mentre tutti erano ancora a letto, udirono colpi ripetuti alla porta di casa. Era Cosimo, armato anche lui fino ai denti, che rivoleva di riffa o di raffa le sue vacche e le sue pecore, dal momento che il cavallo, il famoso cavallo, con la schiena che si allungava a seconda del carico, gli era scappato subito. Biancospina si vestì in fretta e furia e scese giù ad aprire allo zio. - Rendetemi il cavallo e il resto! - urlava Cosimo. - Piano, - disse Biancospina tutta umile. - La mamma dorme ancora, e quando si sveglierà, voi le direte le vostre ragioni, ed ella, che è così giusta e rassegnata a tutto, vi ascolterà. Intanto venite a vedere che il vostro cavallo non è davvero nella nostra stalla. Nel dir così essa condusse Cosimo nella stalla e lo fece accertare che il cavallo non c'era, e non c'era stato da un pezzo. Lo zio sbraitava sempre, perché l'avarizia lo pungeva, ma era meno in collera. - Vorreste mangiar qualche cosa? - gli domandò Biancospina. - Mangiamo per aspettare che tua madre si desti, - rispose Cosimo. Biancospina finse di andare in dispensa a prender da colazione, e invece in due salti fu nell'orto e di lì sul greto dell'Arno a prender tre granelli di rena. Tornò a casa, raccomandandosi a Dio che facesse perder la memoria a Cosimo, come l'aveva fatta perdere a Piero, e si mise a preparare la colazione. - S'ha da aspettare un pezzo? - domandava lo zio, che incominciava a impazientirsi. - Un momento solo, - rispondeva Biancospina con la sua vocina dolce. - Rivolto la frittata e vengo. Abbiate pazienza! Essa portò in tavola quello che aveva preparato, e lo zio si mise a mangiare brontolando, ma più mangiava e meno sbraitava. Intanto Biancospina gli mesceva da bere del buon vino, nel quale aveva messo i tre granelli di sabbia. Quando egli ebbe visto il fondo del boccale, non brontolava più, era invece tutto ilare e sereno, come colui che ha ben mangiato e meglio bevuto. Certo non si rammentava più del cavallo con la groppa che si allungava secondo il carico, né delle vacche e delle pecore che aveva date in cambio dell'animale. Biancospina, a vederlo così tranquillo, supponeva che la rena avesse già prodotto il suo effetto; ma ne fu convinta quando vide l'accoglienza che egli fece alla sorella e le cortesie che le disse sulle gentilezze della figlia. Cosimo si trattenne tutto il giorno, e, dopo aver pranzato con la sorella come se nulla fosse, montò a cavallo per tornare a casa sua. - E due! - disse Biancospina. - Ora c'è da servire il terzo! E infatti, il giorno dopo, giunse pure Cambio, rosso, stizzito che pareva, Dio ci salvi, una bestia. Appena arrivato rovistò la stalla, la casa, la cantina, salì in soffitta brontolando: - Agli altri due l'avete fatta; me non mi gabbate, streghe! Questo insulto lo rivolgeva di continuo alla sorella e alla nipote, che lo seguivano in su e in giù, mogie mogie, e avevano appena coraggio di dire ogni tanto una parola, temendo di farlo andare in furia più che mai. Quando ebbe frugato per tutto ben bene, disse alla sorella: - Ora ti servo io! Non ti accuso di furto, ma di malìa, e vedrai se mi levo il gusto di farti morire sulla forca. Strega, strega! Biancospina soffriva a sentir trattare in quel modo la sua mamma; ma offriva al Signore ogni umiliazione e ogni insulto, e lo pregava di darle pazienza, molta pazienza. - Zio mio, zio caro, - gli diceva, - rientrate in voi stesso: vi pare che si possa esser responsabili noi se il montone s'è annegato? - Ma io sono povero, povero, perché vi ho dato tutto per aver quel montone, e io rivoglio il mio. - Venite a ristorarvi e poi parleremo. - No; non mangerei neppure un uovo in casa vostra, avrei paura del veleno. Streghe, streghe! - Almeno bevete! - Peggio! Non voglio altro che la mia roba. Cambio parlava con tanta stizza, che Biancospina dovette perdere ogni speranza d'indurlo a mangiare e bere. Essa lo lasciò un momento insieme con la sua mamma e corse al prato dove invocò il pettirosso. - Che cosa comandi, Biancospina? - domandò l'uccello presentandosi a lei. - Non comando, chiedo, e chiedo umilmente. Lo zio Cambio pare un diavolo per aver perduto il suo montone; non vuol bere, non vuol mangiare, e io non posso fargli buttar giù la sabbia dell'oblìo. - Sapresti strofinargli la faccia con la rena, oppure soffiargliela negli occhi? Tre granellini entran presto in bocca o nel naso, e appena entrati, addio memoria! - Mi proverò, - rispose Biancospina. E andò via di corsa. Quando ebbe fatti alcuni passi, si sentì chiamare. - Biancospina! Biancospina! - Che vuoi, pettirosso? - Senti: ormai credo che tu non avrai più bisogno di me; i fratelli di tua madre sono puniti, voialtre siete ricche, dunque ti dico addio. - Addio, pettirosso, e grazie di tutto! L'uccellino volò via in cerca di un'altra bimba da arricchire, e Biancospina, dopo aver preso una grembiulata di rena asciutta sul greto dell'Arno, andò a casa di corsa. - Dunque, zio, non la volete fare un po' di colazione? - domandò a Cambio tutta umile. - La risposta te l'ho già data: rendetemi la roba mia. - Non volete neppur bere? Dovete aver la lingua secca! - Neppure! Fossi matto! Allora Biancospina aprì il grembiule e aspettò il vento. Sottovoce ella pregava Gesù, che ne mandasse una folata sola, tanto da sollevare un po' di sabbia e portarne tre granellini in bocca di Cambio. Il vento invece si levò impetuoso, la rena che Biancospina aveva nel grembiule si trasformò in una nuvola che avvolse la bimba e lo zio. Il vento però cessò subito e Cambio si mise a gridare con altro tono di voce: - Per carità, soccorretemi, sono accecato, ho la bocca piena di rena! Biancospina corse in cerca di un bacile pieno d'acqua e lo portò a Cambio, il quale la ringraziò tanto tanto. Egli non rammentava più nulla, neppure lo scopo della sua gita a Rassina, e si affliggeva soltanto di aver la bocca e gli occhi pieni di rena. Si lavò ben bene, ebbe parole di ringraziamento per la nipotina, e dopo aver mangiato copiosamente, rimontò a cavallo, e tutto in pace se ne tornò ad Arezzo. - E tre! - disse Biancospina. - Ora vedremo se si potrà campare un poco in pace. La pace, infatti, non fu turbata da nessun avvenimento insolito. Biancospina si godé le ricchezze donatele dal pettirosso, e a suo tempo sposò un signore ed ebbe nobiltà molta, ma si mantenne sempre affabile e compassionevole per i poveri. E qui, bambini e grandi, la novella è finita, e mi par tempo di entrare in casa, perché l'aria si fa pungente, - disse Regina. La cena era già preparata, una cena frugale ma appetitosa. - Tu resti? - domandò Cecco a Vezzosa. - Per stasera no; ma debbo chiederti un favore: Di' a Maso che per domenica, che è Pasqua, inviti il babbo e la Maria. Vorrei che anche lei dimenticasse il passato e i miei scatti; che facesse come i tre zii di Biancospina, insomma! - Sarai contentata. Ma ci credi tu alla virtù della rena d'Arno? - domandò Cecco. - No davvero, ma credo a quella della dolcezza, che fa svanire i risentimenti, piega i caratteri più ribelli e cura tutte le malattie dell'animo. - Dunque è la dolcezza che hai usato con la tua matrigna. - Forse! ... - rispose la ragazza, - ma chi è stato che me l'ha infusa nel cuore? Tu solo. Dunque il miracolo l'hai operato tu. Cecco non ci credeva ai miracoli, specialmente ai proprî, e ne attribuiva invece la specialità a Vezzosa, che lo aveva corretto della selvatichezza e della ruvidezza, due mènde che s'era trascinate sempre seco nella vita. Il battibecco minacciava di durare un pezzo, senza l'intromissione della Regina, che sentenziò fra i due contendenti: - Vezzosa ha operato un miracolo incivilendo Cecco; Cecco ne ha operato un altro facendo perdere a Vezzosa un monte di difettucci: la vanità, l'alterigia e la smania di passar per vittima, che inaspriva la Maria. - Dunque siamo due santi? - domandò Vezzosa ridendo. - No, santi no; siete due buone creature fatte per volervi bene, - disse Regina ponendo le mani grinzose sulla testa degli sposi, i quali si avviarono soli verso la casa di Momo; ma a un certo punto furon raggiunti da Maso. - Avevi forse paura che rubassi Vezzosa? - gli domandò il bell'artigliere scherzando. - Il sospetto non m'era passato davvero per il capo. Venivo a domandarti se ti farebbe piacere che si facesse la Pasqua insieme con la famiglia di Vezzosa. - Vezzosa lo desiderava, - disse Cecco. - E io son contento d'aver indovinato il desiderio della cognatina. Ora lo dico a Momo, e nessuno mi dirà di no. L'invito, naturalmente, fu accettato con piacere, e la Pasqua prometteva d'essere una vera solennità per quelle due famiglie di contadini.

. - Voi chiedete troppo, - risposero i cittadini, - la prima è una infelice già abbastanza provata dalla sventura; la seconda è una povera vedova; lasciatele dunque vivere, giacché non hanno mai fatto alcun male a nessuno. - Riflettete, - disse il Diavolo. - Se le ucciderete, i vostri bimbi ritorneranno in paese; se le lascerete vivere, non li vedrete più. Il finto frate, dopo aver pronunziate queste parole, sparì. I cittadini rimasero perplessi. Però non potevano risolversi a mettere a morte due innocenti; no, non potevano. - Il loro sangue ricadrebbe su noi in tanta maledizione, - dicevano i più saggi, - lasciamole vivere; Iddio ci renderà i nostri figli. E inteneriti e resi migliori da quella grande sventura, si riversarono nelle chiese, si prostrarono dinanzi agli altari e ripresero a recitare le preci che eran soliti innalzare a Dio allorché il Romito era di continuo in mezzo a loro, sostenendoli con la dolce e persuasiva sua parola. E spinti di nuovo sulla via del bene, liberarono i tre prigionieri che avevano condotto a Bibbiena il Romito, e le preci di questi e delle due donne salvate dalla carità popolare, operarono un vero miracolo. Il Romito, nella sua capannuccia, ebbe un avvertimento nel sonno. Egli si sentì chiamare da una voce celeste, che gli disse: - Va' in città; lassù hanno bisogno di te. Il Romito si alzò nel cuor della notte dal suo giaciglio di foglie secche, e si avviò, in mezzo alle tenebre, verso Bibbiena. Il Diavolo però, che non lo perdeva di vista, gli suscitò contro una quantità di ostacoli. Prima di tutto il sant'uomo fu avvolto da una nebbia impenetrabile, ed egli, in mezzo alle alte piante, non trovava il sentiero battuto tante volte, di modo che dovette fermarsi per non camminare in una direzione opposta alla sua mèta, attendendo che sorgesse il sole. Poi, quando questo ebbe diradata la nebbia, si scatenò all'improvviso un temporale fortissimo. Fulmini spaventosi squarciavano le nubi, il vento turbinoso schiantava gli alberi, l'acqua torrenziale convertiva in fiumi i rigagnoli, la grandine percuoteva il volto del viandante, il quale dovette di nuovo fermarsi. Quando il temporale si fu sfogato, due serpenti, sbucati fuori da un ciuffo di felci, gli si avviticchiarono alle gambe, in modo che egli non poteva più camminare. Allora il Romito, supponendo che tutti quegli ostacoli fossero creati dal Diavolo, toccò con la croce i due rettili spaventosi, e questi si sviticchiarono e fuggirono via. Da quel momento egli poté continuare il cammino senza ostacoli, e giunse a Bibbiena. Il popolo, vedendolo, gli corse incontro esultante, e inginocchiatosi intorno a lui, gli disse: - Rendeteci i nostri figli; noi siamo peccatori indegni di perdono, ma intercedete per noi. E allora il sant'uomo s'inginocchiò in mezzo alla piazza della Pieve, e il popolo unì le sue preci a quelle di lui. Dopo aver lungamente pregato, il Romito volle venti uomini robusti e disse loro: - Seguitemi. Ed essi lo seguirono giù nella valle, ubbidienti ad ogni suo cenno. Mentre camminavano, egli pregava ancora. Allora si vide una bianca colomba staccarsi da un albero e volare prima verso un balconcino dove erasi affacciata una giovanetta e poi volare dinanzi a lui. Il Romito la seguiva, e finalmente ella si fermò sopra un grosso macigno. - Qui sono i vostri figli, - disse il Romito, - qui deve averli celati il finto frate. E i venti uomini si diedero, con quanta forza avevano, a smovere il macigno, ma non riuscirono neppure a scostarlo. - Qui è inutile arrabattarsi, - dissero, - ci vogliono delle corde e diverse paia di manzi! E lasciando il Romito a guardia del luogo, gli altri tornarono al paese a provvedersi dell'occorrente. La colomba intanto non si moveva dal posto ov'erasi posata, come per dire che i piccini di Bibbiena erano lì davvero. E vi rimase finché gli uomini andati in città non furono tornati con cinque coppie di bei manzi alti e poderosi, e muniti di corde e di catene. Avvolsero queste intorno al macigno, vi legarono le corde, e i buoi si misero a tirare; ma tira tira, il sasso non si moveva. Gli uomini sudavano freddo, il Romito era sgomento, e i buoi, stanchi, si rifiutavano di tirare ancora. - Figli miei, - disse il sant'uomo, - mi accorgo che il macigno è sigillato al monte da una forza soprannaturale. Andate, abbiate fede, e se le mie preci saranno ascoltate lassù ove tutto si può, io vi ricondurrò a Bibbiena i vostri figliuoli. Fra i venti uomini andati nel bosco a liberare i bambini, v'erano i due giovani figli del vecchio, quelli, cioè che nonostante il divieto del finto frate, avevano ricondotto il Romito a Bibbiena ed erano stati rinchiusi in prigione. Essi pregarono il santo vecchio di conceder loro di rimanere a fargli compagnia, e il Romito non seppe rifiutare a quei due buoni giovani ciò che gli chiedevano. Gli altri diciotto se ne tornarono dunque in paese a testa bassa, tutti pensosi, disperando quasi di rivedere i loro piccini, e non sapendo come dar la dolorosa notizia, che non erano riusciti a nulla, alle mamme ansiose e piangenti. Il Romito, appena rimasto solo con i due fratelli, disse: - Figli miei, preparatevi a passar una notte angosciosa; il Diavolo cercherà di sgomentarci con ogni mezzo. - Siamo pronti a tutto, - essi risposero. Appena le ombre della sera si allungarono sul bosco, un'aquila gigantesca incominciò a descrivere giri attorno al macigno. La bianca colomba, spaventata, volò via, ma l'aquila la inseguì e la ghermì. Un grido straziante echeggiò nel bosco, indicando che l'innocente uccello era stato vittima del suo poderoso aggressore. Poco dopo il bosco fu pieno di urli di lupo. Pareva che quei famelici animali fossero scesi a branchi dalle vette più alte in cerca di cibo. Uno di essi si accostò ai due fratelli, con la bocca spalancata, pronto ad azzannarli, ma il Romito si fece avanti coraggiosamente e invece di lanciargli contro un sasso, lo toccò con la croce del rosario. L'animale barcollò e diedesi a fuga precipitosa. Allora, sul macigno comparvero due diavoli, che mandavano fuoco dagli occhi e dalla bocca e tenevano a distanza chiunque per il fetore che emanava dai loro corpi. Il Romito alzò la mano e fece tre grandi croci nell'aria, e subito i diavoli sparirono. Ma le prove dei tre uomini non eran terminate, e poco dopo che avevano visto sparire i diavoli, si presentò Satana in persona, non più sotto le sembianze del frate francescano, ma con la sua effigie stessa, spaventosa a vedersi. - Romito, - diss'egli, - tu hai troppo potere sull'animo dei mortali; io non voglio che tu continui a vivere. - Io vivrò finché piacerà al Signore Iddio di tenermi su questa terra e con l'aiuto del Cielo spero che la mia anima non ti apparterrà mai. Il Diavolo pronunziò due parole magiche, due sole, e una schiera di demoni s'impossessò del vecchio e diedesi a soffiargli fuoco sulle carni. Queste bruciavano orribilmente, e il santo vecchio pregava, con lo sguardo rivolto al cielo. A un tratto comparve su quello una stella luminosa che via via si avvicinava alla terra spandendo una luce più mite del sole, ma egualmente bella. Quella stella si fermò di fronte al Romito e lo avvolse tutto nei suoi raggi, come avvolse il macigno, il quale incominciò a liquefarsi come se fosse stato di cera molle esposta al fuoco. Quando il macigno, ridotto liquido, ebbe lasciato aperto l'ingresso della grotta, la stella lentamente si allontanò per andarsi a confondere con le sue sorelle del cielo. Allora il Romito, cessando di pregare, chiamò a sé i compagni e disse loro: - Andiamo, con l'aiuto di Dio. E s'internarono nelle viscere della terra. Giunti che furono a una vôlta bassissima, sotto la quale bisognava andar carponi, la stella ricomparve, e i raggi di lei, invece di battere in faccia al Romito e ai due fratelli, si mossero verso il punto opposto. - Là, là debbono essere i bambini, - disse il santo vecchio, e strisciando il corpo sul terreno si avanzò seguìto dai compagni. Giunto nel punto in cui la vôlta toccava quasi il suolo, il Romito vide una pietra posata in modo da far supporre che al di là vi fosse una grotta, e rimossala fu sorpreso di scorgere una specie di sala che prendeva luce dall'alto, nella quale centinaia di bambini erano distesi per terra come morti. La stella allora li toccò con i suoi raggi, ed essi, stropicciandosi gli occhi, si alzarono e vedendo aperta la porta della prigione, ne uscirono frettolosi, curvandosi per passare. Il Romito li trattenne e disse loro di lasciarlo prima uscire con i due giovani ed essi sarebbero venuti poi; i bimbi si fermarono ubbidienti, poi lo seguirono in silenzio. Giunti che furono all'imboccatura della camera, la stella, che fino allora aveva rischiarate le buie gallerie, s'alzò splendente nel cielo e andò a posarsi sulla città di Bibbiena. Gli abitanti, vedendola, sperarono subito che essa fosse annunziatrice di felicità e mossero incontro al Romito. Questi camminava in mezzo alla turba dei bimbi, esultanti per la ricuperata libertà. Così lo videro i Bibbienesi da lungi. Impossibile descrivere la loro gioia. Ognuno chiamava a nome i figli, ognuno se li prendeva fra le braccia, e quando furono tornati in paese, le grida, le esclamazioni, i pianti delle mamme coprirono ogni altro rumore. Il Romito riprese da quel tempo le sue prediche, e Bibbiena ebbe un lungo periodo di calma dovuta alle parole del santo vecchio. Il Diavolo, per quanto facesse onde combatterne il potere, rimase sempre vinto e scorbacchiato e dovette rinunziare all'impresa, aspettando rabbiosamente che il Romito morisse. E quando questi ebbe chiusi gli occhi nella pace del Signore, tornò a regnare in Bibbiena, come regna in molti paesi, ove non c'è un'anima santa per tenerlo lontano. - E qui la novella è finita, bambini, - disse la Regina, - e forse per qualche settimana non ne racconterò altre. - Perché? - domandarono essi. - Perché la signora Durini mi vuole per un po' di tempo a Camaldoli per insegnarle a conservare le frutta, e io non posso rifiutarle questo favore. I bimbi fecero il broncio, ma tacquero, perché erano assuefatti a rispettare la volontà della nonna.

Questa ragazza era abbastanza brutta, e i suoi genitori, disperando di maritarla, la spingevano a entrare nel convento delle Camaldolesi di Pratovecchio; ma Gualdrada non se la sentiva di rinchiudersi in convento e aspettava sempre che le capitasse un partito per maritarsi. Viveva a Staggia un esule fiorentino della nobile famiglia de' Cerchi, molto povero e alquanto avanzato in età, il quale, tanto per avere l'appoggio di una famiglia potente, chiese Gualdrada in isposa. E il Conte, piuttosto che vedersi invecchiare in casa quella figliuola, acconsentì al matrimonio. C'era un bel divario fra il castello turrito e la casetta ove andò ad abitare la novella sposa; ma a Gualdrada anche quella catapecchia pareva più bella del convento nel quale avrebbe dovuto finire i suoi giorni, e si mostrò molto riconoscente a ser Berto per averla salvata da quella sepoltura di donne vive. I due sposi vissero alcuni anni tranquillamente, facendosi veder poco a Porciano e aspettando un figlio che rallegrasse la loro vita solitaria. Questo figlio nacque alla fine, ed era così bello e delicato, che il padre volle chiamarlo Gentile, e non vedeva il momento che fosse grande per addestrarlo nel mestiere delle armi. La famiglia Cerchi era una delle più potenti di Firenze; per parte di madre, Gentile era parente con i Guidi di Porciano e di Romena, e ser Berto sperava che tutte queste aderenze fossero per il figlio un valido appoggio nella vita. Quell'uomo che era così modesto per sé, aveva ambizioni smodate per l'unico figlio suo, e avrebbe voluto vederlo collocato fra i dominatori della terra. Ma prima che Gentile fosse in età di appagare le sue speranze, ser Berto morì a un tratto, lasciando i suoi privi di mezzi e di appoggio. Madonna Gualdrada, naturalmente, ricorse al padre suo, il quale, seccato di vedersela tornare a casa, l'accolse freddamente, ma non poté esimersi dal prendere il nipotino in qualità di paggio. Bisogna sapere che il Conte aveva un figlio maschio, già ammogliato e padre di due giovinetti, press'a poco dell'età di Gentile. Ma tanto questi era bello, cortese e nobile d'animo, altrettanto i suoi cugini erano brutti, screanzati e vili; perciò appena seppero che la sventura toccata a Gentile lo costringeva a chiedere l'ospitalità al nonno, incominciarono a trattarlo d'alto in basso, quasi che nelle vene del giovinetto non scorresse lo stesso sangue che scorreva nelle loro, ed egli non fosse di stirpe nobile. Gentile rimase offeso nel vedersi trattato a quel modo; ma tacque e neppur si sfogò con la sua mamma, la quale abitava una camera appartata nel castello e sfuggiva la compagnia dei parenti, sapendosi tollerata a malincuore da loro. Il Conte aveva voluto che un vecchio soldato, che era al suo servizio, ammaestrasse nelle armi i due nipoti; e quando giunse al castello anche Gentile, ordinò che egli pure fosse istruito dal vecchio Borso. Fino dai primi giorni, Gentile, che era agile e snello, divenne più destro dei cugini, e Borso, che non aveva preferenze, lo additava ai due fratelli come esempio da seguirsi e non cessava dal dirgli: - Ser Gentile, voi sarete un giorno un forte cavaliere! Queste parole facevano digrignare i denti a ser Guido e a ser Salvatico, e li spingevano a odiare il cugino, il quale non desiderava altro che di giungere in età da lasciare il castello e conquistarsi la gloria con la prodezza e il coraggio. Ogni giorno che passava, la sua condizione di parente povero, ospitato per carità, trattato da subalterno, mentre si sentiva nell'animo la fierezza propria delle genti assuefatte al dominio, gli pareva più dura. Le cose erano a questo punto, quando capitò al castello di Porciano un giullare, o buffone, detto Banfio. Costui faceva tirare una carrettella coperta da un cavallo balzano, che aveva ornato di sonagli e di stracci rossi, e pretendeva che il cavallo avesse virtù di leggere nel futuro. Banfio era noto alle corti e nei castelli, e per le sue burlette il signor di Porciano gli die' l'ospitalità. - Te la pagherò, non credere, - disse il buffone. - Anzi, voglio esser generoso e ordinerò al mio Brancaleone, - Brancaleone era il cavallo balzano, - di leggere nell'avvenire la sorte tua e dei tuoi nipotini. Banfio, vedendo attorno al vecchio i tre giovinetti, li aveva creduti fratelli, non accorgendosi che Gentile vestiva in lutto e Guido e Salvatico, no. Il Conte prese in parola il giullare, e gli disse che subito la mattina dopo doveva, nel cortile del castello, mantener la promessa fatta e dilettarlo con le prodezze del suo cavallo. - Bada, - rispose Banfio, - si tratta di un animale, e dice la verità ai signori come ai poveri. - Che la dica pure; - replicò il Conte, - anche ai buffoni è concesso questo privilegio, eppure noi non andiamo in collera neppur quando ne abusate. Così la mattina seguente il Conte, seguìto dal figlio, dai tre nipotini, dai paggi e dai valletti, scese nel cortile dove già era Banfio col suo cavallo, al quale aveva messo più sonagli e più fronzoli del giorno prima. - Saluta la nobile compagnia, - ordinò il giullare al cavallo, toccandolo con un bastoncino. Il cavallo ubbidì e, piegate le ginocchia, inchinò tre volte la testa. - Messere il Conte, - disse allora Banfio, - ordina tu a chi deve per primo tirar l'oroscopo questo sapiente animale, che ha fatto strabiliare re, imperatori e sultani. Il Conte indicò che incominciasse da Guido, e a un cenno del padrone il cavallo si mise di fronte al giovinetto. - Vivrà a lungo? - domandò Banfio. Il cavallo stette un momento fermo, e poi a una nuova toccatina del giullare si sdraiò lungo disteso per terra alzando le zampe. - Quello che risponde il mio cavallo non è un lieto oroscopo, - disse Banfio. - Non importa, - rispose il Conte, - palesa tutto. - Ebbene, egli dice che messer Guido morirà repentinamente in età giovanile. Il Conte rabbrividì, ma non volendo far vedere che si lasciava commuovere dalle predizioni, aggiunse: - Vorrei sapere di che morte morirà? Intanto messer Guido s'era fatto bianco come un cencio di bucato, e non batteva palpebra. - Hai capito la domanda? - disse Banfio al cavallo. Questo accennò di sì e quindi girò un pezzo per il cortile; finalmente andò a toccare col muso la misericordia, che il Conte portava infilata alla cintura. Il vecchio tremò e Guido si sentì vacillare le gambe, ma non fece nessuna esclamazione. - Ordina al tuo cavallo di rivelare l'avvenire di messer Salvatico, - disse il Conte. Banfio rivolse le solite domande al cavallo, il quale si sdraiò egualmente in terra per significare che anche lui sarebbe morto presto, e interrogato di quale morte sarebbe perito, toccò col muso la spada del Conte. Il vecchio si fece sempre più pallido e pensoso, ma non fece nessuna esclamazione e disse al giullare di volergli rivelare l'avvenire di Gentile. Il cavallo, a un cenno di Banfio, si mise di fronte a Gentile, piegò le ginocchia e inchinò tre volte la testa salutandolo; poi, senza attendere ordini dal padrone, squassò la criniera e i sonagli e si diede a correre allegramente. - Lo vedi, signore, il mio cavallo dice che messer Gentile figurerà in molte giostre in campo chiuso, e sarà prode cavaliere. Il cuore del discendente dei Cerchi balzava di giubilo. Intanto il cavallo s'era fermato nel centro del cortile, e con la zampa scavava il terreno. - E questo che cosa significa? - domandò il vecchio. - La spiegazione è facile. Il mio cavallo dice che ser Gentile avrà il dominio di questo castello. Queste parole fecero tremare non solo il vecchio, ma anche Guido e Salvatico, i quali rivolsero sul cugino uno sguardo pieno d'ira. - Dimmi: di quale morte morirà questo giovinetto? - domandò Banfio al cavallo. L'animale alzò la testa, fissò il vecchio Conte, e con la testa gli sfiorò i bianchi capelli. - Morirà vecchio, di morte naturale, - rispose il buffone senza domandar altro all'animale, mentre questo era andato a collocarsi accanto a Gentile e nitrendo e sbuffando pareva lo invitasse a inforcarlo. Il giovinetto, lieto della predizione, senza riflettere a quello che faceva, balzò in sella. Il cavallo si aprì un varco fra la gente, e via di corsa trasportò il suo cavaliere attraverso il ponte e giù per la ripida china. - Fermalo, Gentile! - gridava il vecchio. - Fermalo! - urlava Banfio disperato. Ma o che Gentile non potesse o non volesse trattenerlo, il fatto sta che il cavallo correva come il vento, e ben presto sparì fra gli alberi dei boschi. - Signor mio, sono rovinato! - gridava Banfio, - quel cavallo era la mia consolazione; a lui dovevo il sostentamento. - Ne avrai un altro! - diceva il vecchio. - Tu non sai, signore, che da cavallo a cavallo ci corre quanto fra questo tuo nipote Guido e Gentile? Sono tutti e due nipoti tuoi, eppure qual differenza! Aspetta, aspetta, era giunto il meriggio, s'era fatto notte, e ser Gentile né il cavallo si vedevano tornare. La madre del giovanotto, avvertita dal fatto, si struggeva in lacrime; il Conte era afflitto; chi gongolava invece erano Guido e Salvatico. Se Gentile era precipitato in un burrone, se era morto, essi non avevano più da temere che un giorno o l'altro il dominio del castello e delle terre di Porciano passasse nelle mani di quell'odiato parente, che li vinceva in bellezza, in destrezza e in cortesia. Tanto meglio se era sparito per sempre! Il Conte fece salire a cavallo molti uomini e ordinò che percorressero i boschi e gli riportassero morto o vivo il nipote, perché in fin dei conti non poteva veder Gualdrada disperarsi in quel modo. Essi uscirono dal castello, recando in pugno faci di resina, e si dispersero per la campagna cercando e chiamando. La povera madre si struggeva in lacrime e, rinchiusa nella sua camera, s'era gettata in ginocchio dinanzi a un'immagine della Madonna addolorata e pregava che le fosse reso il figlio suo, il suo Gentile, la consolazione della sua vita. Mentre stava così plorante e supplicante, vide il volto afflitto della Madonna illuminarsi di un sorriso e le labbra schiudersi. Gualdrada credeva di sognare, ma a un tratto dalla bocca della Madonna udì queste parole: - Non tremare per il figlio tuo; qui l'invidia lo avrebbe cacciato in una prigione. Ho fatto fuggire il cavallo per sottrarre il giovinetto a questo supplizio. Gentile è destinato a grandi cose, e, per consolarti della sua assenza, te lo farò vedere ogni notte in sogno. Spera! Il volto della sacra immagine si fece di nuovo afflitto, ma nel cuore della madre continuò a brillare un raggio di viva consolazione. Ella si rasciugò le lacrime e, lieta, si pose a dormire. Appena il sonno le ebbe appesantite le palpebre, Gualdrada vide il suo Gentile in una camera signorile, disteso sopra un letto e sorridente nel sonno. La mattina dopo, quando gli uomini inviati sulle tracce del giovinetto tornarono al castello, non riportarono al Conte altro che un piccolo tocco di velluto guarnito di una penna di airone, che Gentile forse aveva perduto nella corsa. Furono fatte nuove ricerche, ma senza risultato, e il vecchio Conte pianse Gentile come se fosse morto. I due cugini invece si rallegrarono di non averlo più per compagno e di non dover più sostenere uno svantaggioso paragone con lui. Gentile aveva passato l'Appennino di Romagna e si trovava alla Corte dei Malatesta di Rimini, dove il signore lo aveva creato suo paggio e lo prediligeva sopra ogni altro per la sua destrezza e cortesia. La buona Gualdrada lo vedeva ogni notte in sogno, ora seduto alla ricca mensa del signore, ora cavalcando il suo balzano nelle corse a fianco di lui, ora sorridente in un circolo di nobili donne e di prestanti cavalieri, sempre più forte della persona, sempre più bello e più gentile. Così passò un anno, e in quel tempo una grave sventura si abbatté sul castello di Porciano. Il padre di Guido e di Salvatico, l'unico figlio maschio del vecchio Conte, s'era ammalato a un tratto di una malattia che nessuno aveva conosciuto, ed era morto dopo un mese di sofferenze. Il vecchio signore s'era afflitto immensamente di quella perdita, tanto più che i due nipoti che gli restavano non erano capaci d'infondergli speranza, né di dargli consolazione di sorta. Nessuna delle occupazioni degne dei gentiluomini era a loro gradita. Né la caccia, né il maneggio dell'armi, né il cavalcare. Se non erano sorvegliati, correvano a giuocare con i famigli e a udire le sconce narrazioni di quegli uomini ignoranti e ineducati. Al fisico poi divenivano ogni giorno più brutti e più deformi, e la rozzezza dell'animo si rispecchiava nei loro volti. Il vecchio Conte non poteva assuefarsi all'idea di dover trasmettere il titolo e il dominio di Porciano nelle mani di Guido, perché era sicuro che non avrebbe saputo far rispettare quel titolo, né difendere quel possesso dagli attacchi dei vicini. Per questo si crucciava immensamente e temeva di morire. Ora avvenne che i due fratelli andando un giorno a passeggiare a cavallo per la via maestra, s'imbattessero in un cavaliere romagnolo, seguìto da numerosa scorta, che era di passaggio nel Casentino. Quando il cavaliere fu a poca distanza dei due fratelli, fermò il cavallo e li salutò. Essi, che si vantavano di scortesia, non risposero al saluto. Allora il cavaliere romagnolo spronò il cavallo e, accostandosi a Guido, gli disse: - Perché, messere, non rispondi alla mia garbatezza? - Perché mi pare inutile rispondere, - rispose lo screanzato. Il cavaliere, che già era offeso di non vedersi restituire il saluto, lo fu ancora più da questa sgarbata risposta, e, fattosi pallido in viso, disse a denti stretti: - Difenditi, villano! In pari tempo cavò la spada e assalì Guido. Ma nell'assestargli un colpo di fendente sul capo, l'arma gli scivolò di mano. Guido aveva pure cavata la spada e cercava di difendersi. Il cavaliere, vedendosi disarmato, assalito ora dall'avversario, cavò dalla cintura una specie di pugnale, detto misericordia, e, fatto fare uno scarto al cavallo per evitare la spada di Guido, gl'immerse la misericordia nel collo. Guido cadde, e l'uccisore già spronava il cavallo alla fuga, quando fu raggiunto da Salvatico, che, con la spada sguainata, cercava di colpirlo alla schiena. Il cavaliere romagnolo non disse nulla, ma fece fare un repentino voltafaccia al cavallo, e dette con la misericordia un colpo secco alla spada del giovine per modo da fargliela schizzar di mano. - Ora sei in mio potere; ma io voglio essere generoso quanto tu sei vile. Vuoi batterti con armi eguali? Salvatico dovette rispondere affermativamente, e allora uno della scorta del cavaliere raccolse le due spade e le offrì ai combattenti. Ma se le armi erano eguali, era così diversa la mano che le reggeva che il duello durò pochissimo e terminò con un grido di Salvatico, il quale cadde da cavallo. - Ora raccomandiamoci ai nostri cavalli, - disse il cavaliere alla sua scorta. - Se essi non ci trasportano molto lontano, prima che si conosca questa doppia morte, noi saremo trucidati come cani, e tutto il Casentino si leverà a difenderli, poiché i due morti sono i conti Guidi di Porciano! Gli uomini armati che seguivano il cavaliere, invece di continuare il viaggio per la via maestra, voltaron briglia dietro il suo esempio, e saliti sino a Camaldoli ripassaron l'Appennino e ritornarono in Romagna, di modo che essi erano assai distanti quando si sparse la novella della uccisione dei due nipoti del conte di Porciano. Ma torniamo a messer Gentile. A Rimini, dov'egli era rimasto tutto quel tempo, ser Gentile aveva conquistato il cuore del conte Malatesta, che non vedeva più altro che per gli occhi di lui. Divenuto valentissimo nelle armi, il Conte lo aveva armato cavaliere, e dalla sua bocca non usciva altro che un rimpianto e un lamento: - Perché, perché non ho un figlio, e perché quel figlio non sei tu? Bisogna sapere che il conte Malatesta aveva tre femmine, ma nessun maschio, nessun erede della sua signoria; e siccome aveva da ogni lato pericolosi nemici, il non poter affidare nelle mani di un discendente valoroso e prode la sua eredità, era il cruccio maggiore che potesse colpirlo. Però messer Gentile, mentre non risparmiava parole di conforto al suo benefico signore, non s'era mai lasciato sfuggir di bocca la promessa di restare a Rimini e di usare la sua spada in difesa dei diritti della famiglia Malatesta. Ricordava bene che nel castello di Porciano aveva la madre e il nonno, e nonostante che egli fosse ormai maggiorenne, sentiva di dipender da loro. Inoltre rammentava anche la scena nel cortile del castello e le predizioni del cavallo balzano, e anche se non le avesse rammentate, la vista di quell'animale, che lo faceva uscire vittorioso da ogni giostra e da ogni combattimento, gliele avrebbe richiamate alla mente. La fama di quel cavallo correva in Romagna unita a quella del cavaliere, e ormai si contavano pochi campioni che osassero misurarsi con messer Gentile, perché erano sicuri di essere scavalcati per la valentìa di lui e la foga di quel balzano, che appena vedeva luccicare scudi e sentiva il tintinnìo delle spade pareva avesse il diavolo addosso. Le virtù di messer Gentile meravigliavano non solo i cavalieri, ma anche le dame, tanto è vero che tutte e tre le figlie del conte Malatesta speravano, in segreto, di esser da lui preferite. Però messer Gentile non aveva occhi, non aveva pensieri altro che per la minore, la bionda Clemenza, ed era l'affetto per la dolce fanciulla che lo tratteneva alla Corte di Rimini, altrimenti egli avrebbe corso il mondo per lungo e per largo conquistando sempre maggior fama. Ma gli occhi di Clemenza avevano il potere di ammaliarlo, e la voce di lei era la musica più dolce che potesse accarezzargli l'orecchio. Le cose erano a questo punto quando alla Corte dei Malatesta giunse un messo del conte di Porciano con una lettera per messer Gentile. Quella lettera, scritta con mano tremante per il cordoglio e per la vecchiezza, ingiungeva al giovine di tornare in Casentino per prendere di fatto il governo del castello e delle terre di Porciano. Il vecchio Conte narrava la uccisione dei suoi nipoti e diceva di sentirsi così debole e affranto per tante sciagure da temer di morire da un momento all'altro. Messer Gentile, senza quel dolce affetto per Clemenza, sarebbe partito subito per ubbidire alla volontà del nonno; ma la separazione gli riusciva dolorosa. Però, siccome nel castello di Rimini si era parlato dell'arrivo del messo, così egli non poté celare al conte Malatesta il contenuto della lettera. Sospirò profondamente il signore udendo che la morte dei due giovani rendeva necessaria la presenza di messer Gentile a Porciano, e gli disse con gli occhi umidi di lacrime: - Va', figlio mio, poiché il dovere ti chiama; ma prima di partire prendi tutto ciò che ti è caro, affinché tu serbi grata memoria del tuo soggiorno presso di me. Il cuore di messer Gentile balzò a quelle parole, ed egli stava già per dire al Conte che gli lasciasse portar via la bella Clemenza; ma il pensiero di dover prima ottenere il consenso del nonno, gli fece morire le parole sulle labbra, e, chinato il capo, rimase pensoso. I giorni passavano dopo l'arrivo del messo, e messer Gentile non poteva risolversi a partire da Rimini. Dal canto suo il Conte cercava con mille pretesti di trattenerlo, tanto gli riusciva dolorosa la separazione. A un primo messo ne tenne dietro un altro, munito di una lettera ancor più stringente; e allora messer Gentile dovette fare gli addii ed inforcare il suo balzano. Prima di partire, però, egli ricevé dalle mani di Clemenza una sciarpa azzurra, finamente trapunta di seta e d'oro. Ma la fanciulla nel consegnargliela impallidì e non poté dir altro che queste parole: - Vi sovvenga di me! Il conte Malatesta offrì al giovane signore ricchi doni, gli diede numerosa scorta, e gli fece una sola raccomandazione: - Torna, torna presto! Dopo pochi giorni di viaggio, messer Gentile giunse al castello di Porciano, e appena la vedetta annunziò il suo arrivo, Gualdrada gli corse incontro nel cortile ed abbracciandolo gli disse: - Io vedevo le tue esitazioni e ne conosco la causa, poiché la Madonna ogni notte mi dava la consolazione di farmiti vedere in sogno; ma se tu tardavi ancora, non rivedevi più il nonno e non ricevevi il feudo dalle mani di lui. Salì presto il giovane nella camera del Conte e lo trovò agonizzante. Però il vecchio, prima di morire, ebbe la forza di cavare da un libro di preghiere una lettera già scritta molto tempo prima all'Imperatore, con la quale gli chiedeva per il nipote, Gentile de' Cerchi, l'investitura del castello di Porciano, e raccomandò al nipote di spedirla immediatamente. Quindi volle che lo vestissero, e, fattosi portare nella sala d'armi del castello, dove già erano adunati tutti i suoi terrazzani, ordinò loro di prestar giuramento di fedeltà a Gentile e di ubbidirlo in tutto e per tutto come avrebbero ubbidito a lui stesso. Compiuta questa cerimonia, il vecchio si fece riportare a letto e spirò tranquillamente. Ma appena di questa morte furono informati i Guidi di Pappiano, di Montemignaio e di Staggia, che vantavano diritti sull'eredità del conte, si collegarono, e, uniti, mossero all'attacco di Porciano. Messer Gentile, che aveva preveduto questo, ordinò che si munisse di provviste il castello, che si alzasse il ponte levatoio, si armassero le torri, e, fatto accendere il fuoco nella fucina, fece riparare le armi e costruirne delle nuove. Egli, come talismano, aveva cinta la sciarpa donatagli da Clemenza, e col pensiero rivolto alla bella fanciulla, nel cui nome voleva lottare e vincere, sorvegliava i preparativi della difesa, intanto che la contessa Gualdrada, inginocchiata dinanzi alla immagine della Madonna addolorata, pregava per la salvezza del figlio. Il vecchio Conte era appena chiuso nell'avello dove riposavano i suoi, che già un piccolo esercito era adunato attorno ai fianchi del colle dove sorge il castello, e dopo aver devastato le terre batteva in breccia le porte e le torri. Però gli assalitori non credevano di trovare tanta valida resistenza. A ogni loro attacco, Gentile faceva rispondere a dovere e non cessava un istante di molestarli, ora ordinando che fossero scagliate pietre, ora facendo volare quadrella. Ogni giorno le fila dei collegati a danno di Porciano si assottigliavano; era morto un figlio del conte di Pappiano, era morto un Guidi di Staggia, erano morti molti validi campioni del piccolo esercito; ma il desiderio della conquista era così potente che, nonostante queste morti, gli assalitori continuarono a tener campo intorno a Porciano; e intanto nel castello le provvisioni venivano man mano a mancare. Messer Gentile, per non esporre i suoi uomini agli strazî della fame, tentò una mossa disperata per far togliere l'assedio. Lasciati pochi uomini soltanto a difesa delle solide torri, affinché non apparissero sguarnite, riunì gli altri in un sotterraneo e fece loro scavare un passaggio che mettesse nella campagna. Quando fu terminato, prese di nottetempo per la briglia il suo cavallo e, seguìto da buon numero dei suoi, riuscì in un bosco; poi, prendendo alle spalle gli assalitori, invase come un fulmine il loro campo. Quelli, credendo che fosse giunto un rinforzo ai porcianesi, si videro perduti. Il cavallo balzano faceva nella mischia veri miracoli. Saltava contro i nemici, li atterrava, li calpestava, ed essi, non potendo fuggire, non vedendo scampo, si arrendevano. A giorno, quando si accòrsero del tranello, si mordevano le mani; ma era tardi. Già molti dei capi eran rinchiusi nelle torri di Porciano come ostaggi, molti erano morti, e i porcianesi esultavano e acclamavano il loro signore. Quel giorno stesso giunse la risposta dell'Imperatore, il quale investiva nel titolo e nei feudi del defunto Conte, messer Gentile de' Cerchi. Allora, quando il conte Gentile vide assicurato il suo dominio, ripensò con tenerezza sempre crescente alla bella Clemenza, e confidò alla madre il segreto del suo cuore. - Lo conoscevo, - rispose Gualdrada, - come conoscevo ogni atto della tua vita, ogni pensiero della tua mente. Ma se tu vuoi ottenerla in moglie, parti, corri, figlio mio, poiché Clemenza sta per farsi sposa di un altro signore. Quella notte stessa il conte Gentile inforcò il suo balzano e prese la via di Romagna. - Corri, corri! - diceva al cavallo. Il balzano correva come il vento, e, senza mai fermarsi, spronato, incitato, condusse il suo signore fino alla porta del castello dei Malatesta, dove cadde morto. Gentile sentiva le campane suonare a festa, e temendo che la cerimonia nuziale fosse già compiuta, non aveva il coraggio di farsi introdurre presso il Conte; egli stava incerto se dovesse retrocedere o no, quando vide scendere dallo scalone Clemenza, vestita da sposa, in mezzo alle sorelle, e dietro a loro un lungo corteo di donne, di cavalieri e di paggi. Il giovine mandò un grido e barcollò; ma il conte Malatesta, che lo aveva veduto, fu pronto a soccorrerlo. Nel medesimo istante Clemenza cadeva svenuta nelle braccia delle sorelle. A farla breve, la bella fanciulla, invece di prendere il velo, com'era sua intenzione, credendosi abbandonata da Gentile, sposò il giovane conte di Porciano con grandissimo piacere del padre e con dispetto immenso delle sorelle. Gentile condusse la sua sposa con molta pompa in Casentino, dove vissero lungamente felici. - E qui, cari miei, la novella è finita; - disse la Regina, - ma nel parlare di Porciano, me n'è venuta in mente un'altra molto bella, che vi racconterò la settimana ventura. Per ora, buona notte, io sono stanca e vado a dormire.

La vostra mente, mamma, è il tesoro della famiglia, e non vi sapremo mai benedire abbastanza. Quella risoluzione presa lì per lì mise in moto le teste delle donne e dei bimbi. Tutti facevano proposte: chi voleva cedere la propria camera, chi i mobili, e ognuno si attribuiva una parte di lavoro. Era bastata quell'idea della buona vecchia per sollevare gli animi abbattuti della famiglia, o ora l'avvenire non appariva più a nessuno così triste come quando ella aveva preso a narrar la novella. La Vezzosa, che non aveva messo bocca nel discorso, perché le pareva che, essendo da poco in casa, non spettasse a lei a parlare, accompagnando in camera la vecchia, le buttò le braccia al collo commossa. - Mamma, - le disse, - che ci siate lungamente conservata; voi siete la nostra benedizione!

Quando credé di essere abbastanza forte per circondare d'assedio Poppi, fece alzare di nottetempo il ponte levatoio del castello, e, traversato l'Arno, salì quatto quatto con i suoi al forte dominio del conte Guido, e in quella notte stessa si diede a batter le mura e a lanciar dei sassi nell'abitato. I terrazzani si destarono sgomenti e corsero ad avvertire il conte Guido, il quale già era sveglio e armato, e disponeva i suoi uomini alla difesa. La Contessa pure era balzata dal letto, e, circondata dai figli, andava in cerca del marito; raggiuntolo, lo chiamò da parte e gli disse: - Signor mio, prima ancora che io fossi scossa dal sonno da questo trambusto, ho avuto una visione che debbo narrarti. - Non è tempo questo di ascoltare le parole di una femmina, - rispose il Conte con disprezzo, - ritirati nelle tue camere e lasciami fare. - Signor mio ascoltami, - insisté la Contessa. - Io ho veduto in sogno il poverello d'Assisi, il quale, mostrandomi le palme trafitte, mi ha detto: "Che ne ha fatto il tuo Signore del pio vecchio che gli avevo affidato? Sappi che egli era una benedizione per la vostra casa, e se il conte Guido non lo riconduce a Poppi, tutte le sventure si abbatteranno sulla sua famiglia, sulla sua casa, su tutti voi. Il conte Guido aveva promesso larghe elemosine alla Verna, e non ha mantenuto la parola. Io sono impotente a stornar da lui l'ira celeste". - Quando avremo battuto quel ribaldo conte di Lierna, penseremo ai tuoi sogni, - rispose il Conte, e spinse la moglie e i figli dentro una stanza, di cui tolse la chiave. La Contessa piangeva come una vite tagliata, ma nessuno l'udiva, perché ogni persona era intenta alla difesa del castello. L'infelice rimase in quella stanza fino a sera, ma in quel giorno il conte Guido vide cadere il fiore dei suoi soldati, e quando la moglie a notte lo rivide, egli non era più il baldo cavaliere della mattina, tutto infiammato dal desiderio della pugna. - Signor mio, - ella disse, - io non posso esserti di aiuto alcuno nella difesa del nostro castello. Lascia che, passando per il cammino sotterraneo, che è scavato nei fianchi del monte, io esca nell'aperta campagna e mi riduca alla Verna a portar le elemosine da te promesse al convento, e a supplicare il vecchio di Gerusalemme di tornar fra noi. - Va', e che Dio t'accompagni! Quella notte stessa la Contessa spogliò i ricchi guarnelli di seta, trapunti di oro, tolse le gemme che le ornavano il collo e i polsi e, indossata una gonnella di mezza lana e un busto di panno, scese nei sotterranei del castello senza nessuna scorta, varcò l'Arno e s'inerpicò sul monte. Ella aveva le bisacce ben guarnite di gigliati d'oro, ma sotto quelle umili vesti nessuno supponeva si nascondesse la nobile signora, che vedevano di tanto in tanto cavalcare da Romena a Poppi e fino ad Arezzo, sulla giumenta bianca, riccamente bardata, e con numerosa scorta di cavalieri, paggi, valletti ed armigeri. Senza esser molestata da alcuno, giunse la pia donna al convento, e dopo aver deposta sull'altare della Cappella degli Angeli la sua ricca elemosina, fece chiamare il vecchio di Gerusalemme e lo pregò umilmente di seguirla, facendogli capire coi cenni più che con le parole, il pericolo che minacciava la propria casa. Il vecchio accondiscese alle preci di lei e, indossato il saio dei Francescani per non dar nell'occhio alla gente, scese insieme con lei al piano, e per il cammino sotterraneo giunse al castello. Bisogna sapere che il vecchio non aveva lasciato alla Verna la sua cappamagna né il turbante, perché gli rincresceva molto di separarsi da quei ricordi della sua patria. Egli aveva nascosto l'una e l'altro in una bisaccia, come usano portare i frati che vanno alla cerca. Appena che la Contessa e il vecchio giunsero al castello di Poppi, appresero che la giornata era stata ancor più funesta agli assediati che quella precedente, perché molti altri soldati del conte Guido erano caduti, e il signore stesso era stato colpito da un dardo alla spalla sinistra. Pallido e affranto, questi stava nella sala d'armi del castello. Allorché vide la sua donna e il vecchio, li chiamò accanto a sé e li ringraziò con grande effusione. - Che cosa mi consigli di fare, saggio vecchio? - domandò quindi allo straniero. - Eccoti il mio turbante, - rispose questi. - Sai come il conte di Lierna fuggisse quando lo vide sul ponte che è a valico dell'Arno. Ordina che questo turbante sia posto a una delle finestre del castello. Quando il conte Odeporico lo vedrà, toglierà l'assedio. - Che tu possa dire il vero! - esclamò il conte Guido. E quella notte stessa fece issare un'asta alla finestra centrale del castello, e in cima a quella ordinò fosse infilato il turbante. Allorché le tenebre furono diradate dal sole nascente e il conte di Lierna vide quel turbante in cima all'asta, disse: "Povero me; qui si combatte con armi disuguali; io col ferro, e il mio nemico con gl'incantesimi!", e come aveva predetto il vecchio di Gerusalemme, Odeporico riunì le sue genti, e tolse l'assedio in un battibaleno. Da quel giorno nessuno osò più molestare il conte di Poppi, che si diceva in possesso di un talismano, e la Contessa visse tranquilla finché la morte non la colse. Il vecchio di Gerusalemme l'aveva preceduta nella tomba, e il conte Guido gli aveva fatto erigere un mausoleo nella cappella del castello. Il turbante poi era stato rinchiuso in una cassa d'argento di lavoro pregevolissimo, e i conti Guidi lo conservarono nel tesoro di famiglia finché il conte Francesco fu battuto da Neri Capponi, capitano de' fiorentini, il quale lo portò a Firenze con le altre robe. - E qui la storia del turbante è finita, - disse la Regina, e se mi sono scordata di qualche cosa, Cecco ve l'aggiunga. - Di nulla, mamma; voi la raccontate ora come vent'anni fa. - Come trentacinque! - ribatté Maso, - e io provo piacere a sentirvi ora, come quando ero alto quanto un soldo di cacio. - Anche noi ce l'abbiamo il nostro turbante, il nostro talismano, - disse Cecco battendo una palma sull'altra, - e non saranno di certo i fiorentini che ce lo porteranno via! - E qual è? - domandò la vispa Annina. - È la nostra vecchietta, la nostra mamma, che Iddio ce la conservi! Ora bevete un buon bicchieretto di vino, perché dovete aver la gola secca. - E preso il fiasco ne mescé prima alla Regina e poi agli altri. Quando tutti i bicchieri furono colmi, Maso per il primo alzò il suo e disse: - Alla salute del nostro talismano! I fratelli, i bimbi e le nuore fecero coro al capoccia, e dopo essersi trattenuti un altro po' a ragionare del più e del meno, i Marcucci se ne andarono a letto e tutti i lumi si spensero al podere di Farneta, sul quale vegliava la concordia e la pace, meglio che il turbante del vecchio di Gerusalemme sul castello del conte Guido di Poppi.

Scava, scava, aveva fatto una buca abbastanza profonda, quando le sue dita incontrarono la pietra. - Qui non c'è una fonte, ma un macigno! - esclamò egli indispettito. - Smuovi la pietra che impedisce all'acqua di sgorgare e troverai la fonte, - rispose Oliva. - Ma io sono stanco, - osservò il giullare. - Non ho mai lavorato la terra prima d'ora! - Prima d'ora non fosti neppur ricco né marito felice, amor mio caro, - disse la vecchia. - Non ti stancare; ogni felicità deve esser conquistata con molta fatica. Se non fosse stato il desiderio della ricchezza, il giullare sarebbe scappato via, sì poco gli sorrideva l'altro di sposare quella strega; ma l'oro aveva un gran potere sull'animo di lui, e si piegò anche alla fatica di smuovere la pietra che tratteneva l'acqua. Questa, ormai libera, s'inalzò in una bellissima colonna, e ricadde sul prato coprendo i fiori e l'erba; poi, trovato un punto più basso, scorse, a guisa di piccolo rivo, verso il piano. - E lo spino dov'è? - domandò Banfio. - Sollevami ancora nelle tue braccia amorose e te lo indicherò, - disse Oliva. Il buffone dovette obbedire, e la vecchia lo guidò alla estremità opposta del prato, dove, col bastone, gli ammiccò che da quel lato cresceva una siepe di spini. - E la famosa campana, dov'è? - Vedi, - rispose la vecchia, - tutto lo spazio che corre fra la fonte e la siepe? - Lo vedo. - Quanto calcoli che sia? - Quattrocento passi almeno. - Ebbene, la campana d'oro che tu cerchi è larga altrettanto alla base. Gli occhi di Banfio brillavano di cupidigia e, dimenticando quello che gli era stato detto, si buttò in terra e si mise a scavare con le mani. Scava, scava, trovò il macigno. Allora fece una buca, a qualche distanza dalla prima, e lì pure sentì dopo poco sotto le unghie un masso di durissima pietra. La vecchia stava accanto a lui e rideva. - Amor mio caro, senza la sega che io sola possiedo e che per cento anni ho unta ogni giorno col grasso di topo, tu non riuscirai a intaccare codesto macigno. - Dammi subito quella sega! - disse Banfio accecato dalla brama di possedere quel tesoro. - Ho giurato di non darla altro che allo sposo mio, - replicò la vecchia bavosa. - Se vuoi, quest'altro sabato faremo le nozze. - E sia! - esclamò Banfio. - Ora, sposo mio diletto, ricopri la fonte e riconducimi dal fratel mio, - disse Oliva. Quando furono a casa del Romito, la vecchia, con mille leziosaggini, annunziò alle sorelle che era sposa, che il sabato venturo si facevano le nozze e che in quella settimana aveva da fare un mondo per preparare la casa e il corredo. Prima che fosse giorno ella si fece aiutare a salir sopra una mula, e soltanto dopo aver baciato e ribaciato Banfio, sbavandogli tutto il viso, se ne andò in compagnia delle sorelle. Il buffone, quando l'ebbe vista sparire fra gli alberi del bosco, credé di aver sognato e s'avviò verso Porciano con la testa imbambolata. Il tesoro lo voleva, ma quella vecchia cisposa e bavosa, no davvero! Peraltro, quel giorno, attratto dalla cupidigia, tornò al prato dov'era stato la notte e misurò la distanza che correva fra la fonte e la siepe di spini. - Con quest'oro si compra un reame! - esclamò. - Se non posso averlo senza sposar la vecchia, è meglio che la sposi; poi a farla crepare presto ci penserà la morte, che pare si sia scordata di venirsela a prendere, o ci penserò io a rammentarla al Diavolo. In quella settimana la via fra Porciano e il prato non mise erba; Banfio la faceva tre o quattro volte il giorno, calcolando sempre quanto avrebbe potuto valere quella grande campana d'oro fino, e pensando a tutte le soddisfazioni che si sarebbe potuto procurare quando quell'oro fosse suo. Altro che le ricchezze del conte Gentile! Il signor di Porciano gli pareva uno straccione, anche quando lo vedeva seduto a mensa, sotto il baldacchino frangiato di oro, o a cavallo, alla testa di una schiera di paggi e di valletti. Una cosa sola invidiava a Gentile: la bella e giovane sposa. Quando pensava a Oliva, gli s'agghiacciava il sangue nelle vene. Eppure tutta la notte il povero Banfio se la vedeva davanti agli occhi, come quel sabato che l'aveva portata sul prato. La settimana passò presto e la sera del sabato, Banfio, mogio mogio, andò a bussare alla casa del Romito. Quella volta la porta gli fu subito spalancata, e la sposa gli andò incontro tentennando, benché si appoggiasse sul bastone. - Dolce amor mio, tutto è pronto, non si aspettava altro che te, - gli disse baciandolo con la bocca bavosa. Infatti, sopra una parete era preparato un altare illuminato, e sopra a quello c'era un'immagine velata. Il Romito consegnò l'anello a Banfio perché lo infilasse nel dito alla sposa; le due sorelle fecero da testimonî e appena terminata la cerimonia si misero a tavola a mangiare. Il Romito beveva per dieci e dopo poco russava come un ghiro; le sorelle si addormentarono e Banfio e la sposa rimasero a parlare. - Ora che ti ho sposata, - disse a Oliva il giullare, - non mi potresti dare la sega per segare il macigno? - No, amor mio; - rispose la vecchia, - prima che io ti faccia ricco, devi dimostrarmi il tuo affetto e la tua gratitudine. A trovare il tesoro c'è tempo; che furia hai! Banfio, che si vedeva burlato, ebbe voglia di strozzarla; ma tentò di prenderla con le buone per ottener l'intento. - Carina, - le disse, - la morte ci potrebbe cogliere da un momento all'altro; perché non si debbono gustar subito le ricchezze che possiamo appropriarci? - La morte può colpirti, non dico; ma in quanto a me è impossibile; io ho fatto un patto con lei, e questo patto si rinnova ogni volta che mi rimarito. - Dunque, - disse Banfio spaventato, - io non sono il tuo primo consorte? La vecchia rise mostrando le gengive sdentate. - Il numero dei miei mariti è così grande che io non rammento neppure più quanti ne ho avuti, né come si chiamavano. Il desiderio di avere il tesoro li ha spinti a centinaia a sposarmi. - E son tutti morti? - Tutti: non per colpa mia, ma per colpa loro. Chi ha voluto uccidermi per impossessarsi della sega; chi mi ha maltrattata; chi ha tentato di fuggire. Ti avverto perché tu mi sei specialmente caro e vorrei serbarti lunghi anni al mio fianco, vorrei che tu fossi l'ultimo. Banfio sudava freddo addirittura. Dunque quella vecchiaccia gli avrebbe sopravvissuto, e senza il beneplacito di lei non poteva far nulla. - Ora andiamo a casa nostra; - disse la vecchia, - desta le mie care sorelle, aiutale a salir sulla mula; tu mi prenderai in groppa alla tua per avermi più vicina, dolce amor mio! Il pover'uomo dovette ubbidire e andare a casa della vecchia. Il giorno seguente e quelli successivi, la vecchia, col pretesto che nei primi giorni del matrimonio nessuno lavora, come nei giorni di festa, si rifiutava di consegnare a Banfio la sega per segare il macigno, e se lo teneva sempre d'attorno a farsi servire e accarezzare. Finalmente un giorno, a forza di moine, egli la indusse a consegnargliela, e appena l'ebbe nelle mani corse al prato, scavò la terra e quand'ebbe scoperto il macigno si diede a segarlo. Il ferro entrava nella pietra come un ago in un masso di ghiaccio, e con poca fatica Banfio giungeva a toccar l'oro; l'oro, mèta di tutti i suoi desiderî, delle sue brame sfrenate. Sega, sega, aveva staccato molti pezzi di macigno e vedeva tutta la parte superiore della campana, che, oltre ad essere di metallo prezioso, era ornata di finissimo lavoro e tempestata di gemme. Venne la sera, ma Banfio non si poteva staccar da quel posto e non pensava più alla moglie né ad altri. Venne la notte, ed egli lavorava ancora. Insomma, a farla breve, lavorò tanto, senza cessar mai, che quando spuntò l'alba aveva messo allo scoperto tutto un lato della campana e vi era penetrato sotto. Quando vide quell'immensa vòlta tutta d'oro massiccio, esclamò: - Quella strega, raccontandomi di tutti i mariti che ha fatto morire prima di me, ha voluto sgomentarmi. Scommetto che lo ha fatto per tenermi cucito alla sottana. Ora son ricco; marameo! chi s'è visto, s'è visto! Appena aveva pronunziato queste parole, si sentì acchiappare per la cintola delle brache dal gancio del batacchio e "din don" fu mandato di qua e di là, quasi che venti braccia tirassero la fune della campana. Questo scherzo durò per un pezzo, e Banfio si sentiva più morto che vivo. Aveva la testa tutta ammaccata, le braccia e le gambe rotte dai colpi, e pensava con terrore che anche a lui era riservata la sorte de' suoi predecessori, e che le ricchezze che lo circondavano non le avrebbe mai godute, mai! Ma appena la campana si fermò, egli riprese coraggio e pensò che sarebbe stato più prudente di andare a Porciano ad avvertire della scoperta il conte Gentile. Era quello un signore giusto di animo, e se gli avesse proposto di terminare lo scavo, che non poteva far da solo, mediante un tanto di compenso, il Conte lo avrebbe aiutato anche a trasportare la campana e a dividerla in tante parti per poterla fondere ed esitar l'oro. Lieto di questa pensata, Banfio si disponeva a rifare la via già fatta per discendere sotto la grande vòlta d'oro, quando, che è che non è, ecco che compare Oliva con gli occhi tutti lacrimosi. - Marito mio caro, già ti piangevo morto! - esclamò ella buttandogli al collo due braccia, che parevan pale da mulino a vento. - Perché, perché mi hai tenuta in tanta angustia? Banfio fremeva dalla rabbia a vedersi capitar quel fulmine a ciel sereno, e voleva indurre la vecchia a tornare a casa e a lasciarlo lavorare ancora; ma ella protestò che non voleva farlo morir di fatica, e lo persuase a sdraiarsi per terra e dormire. Il pover'uomo era stanco e non tardò a prender sonno. Quanto egli dormisse non lo so; però è un fatto che quando si svegliò sentì sonare a morte. Era un doppio funebre, malinconico, e il più curioso si è che era proprio la campana d'oro che sonava quel doppio. Banfio, non vedendosi più Oliva alle costole, pensò che quello era il momento opportuno per correre dal signore di Porciano a fargli la proposta; ma quando fece per camminare, la campana cessò di sonare, le gambe gli si fecero pesanti come se fossero state di piombo, ed egli dovette mettersi di nuovo a giacere per terra. Allora s'accòrse che la campana si stringeva lentamente, come se tutto l'oro che la formava tendesse a riunirsi in un sol masso. - Sono morto! - gridò. - Oliva, Olivuccia, Olivina mia bella, salvami! A questo grido nessuno rispose, mentre la campana si stringeva sempre e le pareti interne di essa già gli toccavano la testa e i piedi. Per non rimanere schiacciato, Banfio dovette alzarsi; ma dopo poco si trovò chiuso come in un astuccio, e la paura di morire lo assalì. Non chiamava più Oliva, che non gli rispondeva, ma gridava, sperando di essere udito da qualche pastore, e insieme con la paura di morire gli venne quella di esser dannato per sempre. Allora si diede a invocare tutti i santi del paradiso. Intanto la campana lo schiacciava e si restringeva sempre. - Vergine santa, - gridò allora, - mi pento di aver bramato le ricchezze, mi pento di tutto, salvatemi! Dopo questa fervida invocazione, la campana incominciò ad allargarsi sensibilmente, e Banfio poté uscir all'aria libera. Appena fu fuori si gettò in ginocchio e pregò. Banfio riprese coraggio e, senza fermarsi mai, corse a Porciano dove narrò tutto al conte Gentile, il quale esortò il giullare a cambiar vita e a rinunziare alle brame smodate di ricchezze, nate in lui per suggerimento del Demonio. Il conte Gentile, per convincere Banfio, lo condusse alla casa del Romito, e appena la toccò con una croce che aveva al collo, la casa sprofondò nella terra e il Romito sparì in una voragine. Poi ordinò a molti cavatori di pietra di scavare nel luogo ove Banfio aveva veduta la campana d'oro; ed essi, scava scava, non trovarono altro che un masso di tufo. Convinto il buffone che tutto quello che gli era successo non fosse altro che opera infernale, e per impedire che altri dopo di lui fosse tratto nei lacci del Demonio, fece pubblica confessione de' suoi peccati e quindi andò a farsi monaco a Camaldoli, dove visse molti anni disimpegnando gli uffici di converso. Ma l'esempio di Banfio non levò dalla testa degli abitanti di Porciano che nel loro territorio vi fosse il tesoro, e ancora, se andate nel paesetto costruito sotto il castello, vi diranno che: A Porciano, in Casentino, Tra una fonte ed uno spino, Si trova una campana d'oro fino, Che vale quanto tutto il Casentino. Però, nonostante la leggenda, nessuno l'ha scavata, e nessuno è arricchito. Qui Regina tacque e l'occhio suo corse a Vezzosa, che durante la narrazione della novella s'era alzata una diecina di volte per andare sulla via maestra a spiare il ritorno di Cecco. Il resto della famiglia andò a letto; la vecchia massaia e la giovane sposa, inquiete tutte e due, rimasero ad aspettare l'assente. - Mamma, - disse Vezzosa, - vi sembro meritevole che Cecco mi tenga in tanta angustia? - No, figlia mia; ma sii indulgente con lui, non lo rimproverare quando giunge. Mostragli la tua afflizione, non il tuo rincrescimento; la prima intenerisce, il secondo irrita. - E se Cecco si sviasse da casa? - Allora saprei richiamarlo io al dovere; ma per una volta sii indulgente. - Eccolo, - gridò Vezzosa che lo aveva veduto comparire nella viottola del podere. Era lui, infatti, ma taciturno e turbato. Si vedeva che era pentito di essere stato tante ore fuori di casa, e nel giungere diede appena la buona sera. - Che cosa t'è successo? - gli domandò Vezzosa. - Nulla. Quando siamo in compagnia, una ciarla tira l'altra, un bicchiere tira l'altro, e s'è fatto quest'ora. E senza aggiungere nessuna spiegazione, entrò in casa. - Mamma, a Cecco è successo qualche cosa, lo sento, me ne accorgo; fatelo confessare voi, io non ne ho il coraggio! - esclamò Vezzosa correndo a piangere in camera sua. Ma anche alle vive e tenere insistenze della mamma, Cecco rispose con lo stesso laconismo, e invece di salire a rassicurare la Vezzosa, s'indugiò molto nella stalla e non andò a letto altro che quando suppose che la moglie fosse addormentata.

Santina e Gosto si empirono le tasche di pietre preziose, e la ragazza ordinò al bastone di diventare una nave abbastanza grande per portare sulle coste di Romagna tutta la gente che ella aveva salvata. Il bastone di san Francesco ubbidì subito, e prima che il bastimento salpasse, Santina toccò lo Scoglio del Diavolo col coltello di san Donato, e lo Scoglio sprofondò nei gorghi del mare. Dopo pochi giorni, Santina e Gosto tornarono al podere delle Grazie, vicino ad Arezzo, e invece di comprar soltanto un paio di manzi e un maiale, acquistarono terre in quantità e celebrarono le nozze con molta pompa. Alla cerimonia assistevano tutte le persone liberate da Santina, le quali, dopo aver avuto ricchi presenti dagli sposi, se ne tornarono a casa loro benedicendo l'accortezza della giovine. Santina fu buona moglie, com'era stata buona fidanzata, ed educò con amore i proprî figli, i quali salirono in alto grado, e fatti nobili dall'Imperatore, posero nel loro stemma un coltello, un campanellino ed un bastone. Mercè loro sorsero in Casentino tre chiese in onore di san Romano, di san Donato e di san Francesco, che erano stati i santi protettori della madre. Il coltello, il campanellino e il bastone perdettero ogni virtù appena la famiglia di Gosto e di Santina fu ricca e felice, ma i discendenti dei due sposi serbarono la fedeltà e la prudenza, che erano stati i veri talismani della loro avola, la quale morì vecchissima, in concetto di santità, e le fu eretta una tomba tutta di marmo dalla famiglia riconoscente. - E qui la novella è finita, - disse Regina. - Nonna, - prese a dire l'Annina, - quest'altr'anno io non sarò più qui accanto a voi a sentirvi raccontare i fatti meravigliosi dei cavalieri, delle dame e dei santi. - Sei forse pentita della risoluzione presa? - domandò la vecchia. - Non dico questo, ma la domenica sera e le feste io penserò con tenerezza a casa mia. - E farai bene a pensarci, perché qui tutti ti hanno voluto bene, cominciando da me; ma nello stesso tempo ti sentirai felice d'imparare, e di bastare alla tua esistenza. Anche per noi, destinate a vivere in campagna ed a guidare la modesta e rozza casa del contadino, l'istruzione è un patrimonio. Non parlo, si capisce, di quella che hanno le persone di città; ma dell'altra che s'acquista vedendo far bene i lavori, vedendo guidare con criterio una famiglia. L'ago, specialmente se adoprato con giudizio, è un risparmio immenso in una casa, e ti esorto a imparar bene a cucire, a stirare e a far da cucina. Una massaia abile è una benedizione per il marito e per i figli. La Regina era stata ascoltata con grande attenzione dalla sua famiglia, e l'Annina specialmente fu commossa dai saggi avvertimenti della nonna, la quale colse quell'occasione per tesser gli elogi di Vezzosa, che erasi allontanata un momento insieme col suo Cecco. - Vedi, - diceva rivolta all'Annina, - tua zia Vezzosa non ha portato un soldo in casa, ma nessuno di noi è pentito di averla accettata senza dote. - Nessuno certo! - esclamò Maso. - Ella s'industria in ogni modo per rendersi utile alla famiglia; - continuò la Regina, - ella sa fare di tutto, e sotto le sue dita abili, anche un cencio prende un aspetto decente. Se fosse stata invece disadatta a ogni cosa e ci avesse magari portato un migliaio di lire, la rendita di quel piccolo capitale ci avrebbe forse dato tanto vantaggio quanto ne risentiamo dalla sua intelligente operosità? No certo. Impara dunque, bambina mia, a farti una dote che nessuno ti potrà mai togliere, altro che Iddio, la dote vera: l'abilità unita all'operosità. Quando la Regina, parlando, toccava argomenti seri e dava ammonizioni, la sua voce prendeva un suono solenne ed affettuoso a un tempo, che commoveva la famiglia, come il suono di una voce che venisse dall'alto. L'Annina, nell'ascoltarla, aveva gli occhi pieni di lacrime e non trovava parole per risponderle. - Dunque, non hai capito quel che ti ha detto la nonna? - domandò la Carola. - Sì, che ho capito, e non lo dimenticherò; state sicura, mamma, non lo dimenticherò. Il ritorno di Vezzosa col marito pose termine a quella conversazione. La giovane sposa tornava col grembiule pieno d'insalata per la cena, e l'Annina si asciugò in fretta le lacrime e si diede ad apparecchiar la tavola.

Il mestiere nostro non mi soddisfa punto; e appena avrò messo assieme abbastanza da comprarmi una casetta e un podere, cesserò d'essere l'umilissimo servo dei signori forestieri e mi metterò a lavorare l'orto. Questo è il mio sogno, che non potrei certo effettuare con una moglie assuefatta in città. - Se è così, - aveva detto Maso, - io son contento. Però pensi che l'Annina ha poco o nulla. - Lo so, - aveva risposto Carlo, - io non posso pretendere ricchezze, e quello che avrà mia moglie, voglio che lo debba a me. Ora vado a Firenze, ma fra una diecina di giorni al massimo tornerò qui, e allora mi permetterete d'interrogare l'Annina, perché se lei non è contenta, non se ne fa nulla. - La interroghi pure, io son contento e non muto opinione. - E io pure, - disse la Carola, che già pensava all'invidia dell'altre ragazze. - La nonna non parla? - domandò il padre Buoni. - Sì, parlo anch'io! - esclamò la Regina, - e dico che confido con piacere a quel bravo giovane la mia cara nipotina. La sola raccomandazione che gli faccio, è quella di volerle bene. - Per questo non c'è da temere: - replicò Carlo, - l'ho scelta liberamente; voi me la confidate, e io sarei un vero birbante se non cercassi di renderla felice. Il padre Buoni guardò l'orologio e fece osservare al figlio che mancava appena una mezz'ora alla partenza del treno da Poppi. Maso però non volle che i suoi ospiti risalissero in carrozza senza bere un bicchierino di aleatico, e si fece promettere che al ritorno, il padre si sarebbe fermato un momento, prima di risalire a Camaldoli, tanto, lì, doveva prendere un trapelo. Naturalmente la Carola aveva messo a parte le cognate della chiesta, e queste, che volevan bene all'Annina come se fosse loro figliuola, eran molto contente della fortuna che capitava alla ragazza (poiché Maso s'era informato e aveva saputo che il padre Buoni era ricco e che il giovane era una persona onestissima), e non rifinivano di ciarlare fra di loro di quel fatto. Ciò che maggiormente le colpiva, si era che l'Annina, maritandosi, avrebbe migliorato le sue condizioni. - Porterà il cappello! - dicevano. - Si vestirà come una signora! Non se la potevano figurare, quella ragazza, in una casa con i mobili da città, non più serva in casa altrui, ma padrona in casa propria. E tutte quelle buone donne affrettavano col pensiero il momento del matrimonio, per assistere a quella trasformazione. Ai ragazzi Marcucci non era stata fatta alcuna confidenza, perché essi bazzicavano a Camaldoli, accompagnandovi i forestieri che andavano e venivano di frequente in quella calda stagione; ma essi si erano accorti che avveniva qualche cosa d'insolito e dicevano fra loro: - C'è roba in pentola! La settimana passò veloce per tutti, e la domenica la famiglia Marcucci era sola. Il professor Luigi e la moglie erano andati a pranzo dalla figlia, e così le donne si erano concesse un poco di riposo nel dopo pranzo, poiché era tanta la premura che esse dimostravano ai loro ospiti, che stavano in continue faccende. Quando scesero sull'aia, gli uomini vi erano già adunati. Essi avevan giuocato alle bocce per un'oretta, e ora parlavan fra loro del tema preferito: del matrimonio dell'Annina. Nel veder giungere la nonna, i ragazzi corsero a chiedere la novella. La buona vecchia, con la mente rivolta a quel grande avvenimento, avrebbe in quel giorno fatto a meno di raccontare; ma cedé alle dolci insistenze dei piccini e incominciò: - C'era una volta, a Romena, una ragazza brutta, aiutatemi a dir brutta. La gente del paese, incontrandola, si faceva il segno della croce; e, nonostante che essa fosse figlia di un sensale di bovi e avesse una bella dote, pure non c'era stato nessuno che si fosse attentato a chiederla in moglie, tanto era ripugnante. Questa ragazza, che tutti chiamavano la Teresona, era alta quanto un gigante, e oltre ad avere il labbro leporino che le metteva in mostra le zanne, aveva tutto il viso coperto da una lanugine rossa come i capelli, che la faceva somigliare ad una bestia. Teresona era evitata da tutti, e, accorgendosi della repulsione che ispirava, si era inselvatichita a tal punto che non sapeva neppure più parlare. La madre le era morta da molto tempo e il babbo stava sempre fuor di casa per i suoi traffichi, così ella non scambiava mai una parola con nessuno. La gente diceva che parlava soltanto col Diavolo, perché non la vedeva mai andare in chiesa. Ma non era vero. Teresona non bazzicava né alla messa né al vespro, per non esporsi alle guardatacce della gente; ma era una buona creatura, timorata di Dio, e non avrebbe fatto male a una mosca. Un giorno la Teresona era andata a coglier fragole nei boschi, per farle trovare al suo babbo che tornava quella sera, quando vide disteso in terra, pallido, estenuato, un uomo giovane ancora e d'aspetto signorile, benché fosse malamente vestito. Teresona, che aveva un cuore affettuoso e non poteva veder soffrire la gente, cercò di rianimarlo, bagnandogli la fronte con l'acqua di una sorgente, scuotendolo, parlandogli; ma l'uomo rimaneva inerte, come morto, e soltanto un lieve respiro che gli usciva dalle labbra indicava che l'anima non erasi ancora distaccata dal corpo. La Teresona, disperata nel vederlo così abbandonato, pensò che non poteva lasciarlo in quel luogo, e, curvatasi su di lui, se lo caricò sulle spalle fortissime e pian piano lo portò a casa. Però, sapendo che suo padre era molto avaro e che le avrebbe ordinato di riportare quell'infelice dove lo aveva trovato, invece di metterlo sul letto del sensale o sul suo, lo nascose in soffitta, facendogli alla meglio un letto con foglie di granturco, fieno e coperte. "Se si riavrà, - pensava, - gli darò di che proseguire il viaggio; se morirà, gli scaverò una fossa; ma abbandonare così quest'infelice, non posso." Intanto lo sconosciuto non riprendeva conoscenza, per quanto Teresona gli stropicciasse le tempie e il naso con l'aceto, e cercasse di fargli trangugiare certo vino, che avrebbe rianimato un morto. L'ora del ritorno del padre si avvicinava, perciò Teresona chiuse a chiave la soffitta e, nonostante le rincrescesse di abbandonare l'infelice, scese in cucina a preparare la cena. Il sensale tornò a casa di cattivo umore; in quel giorno non aveva guadagnato un picciolo e, quando gli accadeva un fatto simile, se la prendeva per solito con la figliuola, che accusava di essere sprecona e di non sapere che cosa gli costasse a guadagnare tanto da tirare avanti la vita. Teresona non rispose, perché era una buona figliuola e lo lasciò sfogare quanto volle. Quando lo vide andare a letto e sentì che russava, si levò le scarpe, per non far rumore, e corse in soffitta a veder come stava lo sconosciuto; ma appena ebbe aperta la porta e, al lume della lucerna, ebbe veduto lo sconosciuto in piedi, mandò un grido e tremò da capo a piedi. - Chi m'ha portato qui? - domandò egli. - Io; - rispose umilmente la ragazza, - vi ho trovato svenuto nella selva e non ho voluto abbandonarvi. L'uomo, che aveva gettato uno sguardo di repulsione su quel mostro femmina, sentendo che ella lo aveva soccorso, vinse la ripugnanza che gl'ispirava e, avvicinandosi a lei, disse con voce dolcissima: - Vi sono grato di ciò che avete fatto per me; ma, per carità, non mi abbandonate. In seguito a gravi dolori ho dovuto fuggir da Firenze, e da molti giorni mi aggiro come una belva nei boschi. Sono stato còlto anche da questi lunghi, lunghissimi svenimenti; sono un infelice, soccorretemi! Teresona si sentì intenerire a quelle suppliche e, nonostante temesse l'ira del padre, pure promise allo sconosciuto che, se si contentava di stare in quella soffitta, lo avrebbe ricoverato e nutrito per alcuni giorni; e dopo esser riscesa a prendergli un po' di minestra avanzata dalla cena e un tozzo di pane, lo rinchiuse di nuovo e se ne andò a letto. La mattina dopo il padre uscì al solito per i suoi traffichi, e Teresona, rimasta sola e sicura ormai che per tutto il giorno il padre non sarebbe tornato, invitò lo sconosciuto a scendere per respirare una boccata d'aria. Ma egli ricusò dicendo che si sentiva tanto spossato che non aveva neppure la forza di alzarsi dal giaciglio di foglie e di fieno. Allora Teresona, che era assuefatta a vedersi respinta da ognuno per la sua bruttezza, gli domandò molto umilmente se gli faceva dispiacere che rimanesse a fargli compagnia. - Mi fate un piacere, anzi, - le rispose lo sconosciuto. - Non potete credere come la simpatia di una creatura buona scenda dolce nel cuore dell'esule. Era la prima volta che qualcuno le parlava così affettuosamente, e Teresona fu tutta commossa. Ella prese la rôcca e si mise a filare in un cantuccio della soffitta, senza parlare, accostandosi soltanto allo sconosciuto per domandargli se voleva prendere ristoro. Per quel giorno il forestiero parlò poco, ma il giorno seguente incominciò a narrare a Teresona la sua triste storia e le disse che era un signore fiorentino della famiglia Spini, preso di mira dal partito che governava la città, per la opposizione fatta a certe leggi ingiuste che quel partito voleva imporre. Avvertito in tempo da un contadino che lo cercavano per arrestarlo, era fuggito a cavallo, ma senza nulla. Vagando però nel contado aveva saputo che avevano messo una taglia sulla sua persona, e che i suoi beni erano stati confiscati. Mentre parlava, il ricordo forse delle angustie patite lo fece cadere in un nuovo svenimento. Teresona, vedendo che il giorno incominciava a declinare e temendo che il padre tornasse, dovette lasciare messer Spini svenuto e correr giù a preparare la cena. La povera ragazza era più morta che viva, e mentre attizzava il fuoco, pregava la Madonna che rendesse almeno la salute a quell'infelice, così misero, così solo! Quella sera ella mise una quantità d'olio nella minestra di fagioli, si scordò di salare il castrato, e quando suo padre giunse, nulla era ancor pronto. Il sensale la rimproverò acerbamente e non volle mangiare altro che un pezzo di pecorino dicendo che da allora in poi voleva cenare all'osteria, e a lei non avrebbe lasciato altro che pane e pattona, perché non voleva andare in rovina per quella sprecona di figliuola. Difatti mise ad effetto la minaccia, e fattosi dar la chiave della dispensa, dove teneva la carne salata, il vino e l'olio, la ripose in un canterano dove teneva i quattrini. Teresona andò a letto piangendo. - Madonna Santa, - diceva la ragazza, - come farò a sostenere quell'infelice che è più morto che vivo? E con la testa sul guanciale pensava e ripensava, senza trovare un mezzo per uscire da quel bertabello. Intanto si struggeva di non potere andare in soffitta dal fiorentino a vedere se si era riavuto, perché suo padre, che era rimasto in cucina col fiasco davanti, continuava a brontolare e pareva non avesse nessuna voglia di andare a letto. Teresona era al buio, in preda alla desolazione, quando a un tratto vide dinanzi agli occhi un gran chiarore come se il sole penetrasse sfolgorante dalla finestra, e, in mezzo a quella luce vivissima, scòrse una vecchia dall'aspetto venerando, che si avvicinava a lei, senza che i piedi toccassero il pavimento. - Ragazza mia, - disse la vecchia con voce dolcissima, - la diletta Figlia mia, la Santissima Vergine, che ha pietà degli afflitti e ne raccoglie le preghiere, mi manda a te. Se tu vuoi salvare messer Spini, questa notte stessa devi portarlo via da questa casa. Domani tuo padre andrà a rovistare in soffitta, e se lo trova lo consegnerà alla giustizia come ladro. Rammentati che io sono sant'Anna ... rammentalo! Dopo che la vecchia ebbe detto queste parole, la camera ritornò nelle tenebre e l'apparizione scomparve. Teresona lì per lì fu consolata, ma quando udì che il padre si mise a cantare in cucina con voce avvinazzata, disse fra sé: - Come farò a portare messer Spini fuori di casa, se il babbo non va a letto? Vergine Santa, aiutatemi voi! L'aiuto non le mancò, poiché poco dopo sentì un gran tonfo per terra e udì russare forte il vecchio sensale. Allora si vestì in fretta, senza mettersi le scarpe, e salita nella soffitta l'aprì. Messer Spini era sempre svenuto sul giaciglio. Ella cercò di destarlo, ma era fatica sprecata. Allora se lo caricò sulle spalle, e via, via, finché non lo ebbe deposto sopra un letto di musco a qualche distanza da casa. Però Teresona capì che, vestita da donna, sarebbe stata subito riconosciuta dalla gente, beffeggiata e vilipesa; perciò ella tornò a casa, si tagliò i capelli, si tolse le sue vesti, indossò i panni del babbo e via. Quando fu sulla soglia di casa ebbe un momento d'esitazione. Le dispiaceva di lasciar quell'uomo che, in fin de' conti, era suo padre; quella casa dove aveva vissuto ... e le pareva di far male ad andarsene; ma mentre stava così esitante, credé di udire una voce che le dicesse: - Tuo padre sarà contento di essersi liberato di te; non ti accorgi che non ti può soffrire? mentre l'altro ti vuol bene e ha bisogno del tuo aiuto. La voce era quella di sant'Anna, apparsale poco prima. Teresona non esitò più, e corse in cerca di messer Spini. Questi non era più immobile come Teresona lo aveva lasciato. Ma si dibatteva per terra e mandava gridi che somigliavano a urli di lupo affamato. - Madonna santa, ha il lupo mannaro! - esclamò la ragazza. E fece atto di fuggire; ma, vinta dalla compassione, si fermò, e, curvatasi sull'infelice, gli cinse la testa con le braccia poderose per impedirgli di ferirsi. Così rimase lungamente nel folto del bosco, sgomenta da quegli urli che potevano richiamar gente, sgomenta di non aver nessun mezzo per far cessare il male. A giorno, il malato si calmò; non urlava più, non si batteva più, e finalmente aprì gli occhi inebetiti. - Bisogna fuggire, - disse Teresona, - mio padre si desterà e si metterà a cercarmi; non bisogna che ci trovi qui. Messer Spini capiva poco quello che ella gli diceva, ma Teresona lo alzò da terra e, sorreggendolo, lo fece camminare in direzione del Pian di Campaldino. In mezzo alla vasta pianura sorgeva una casetta disabitata, dove la ragazza fece entrare l'infelice, e anche li trovò il modo di preparargli un letto di foglie e di fieno; ma come avrebbe fatto mai a nutrirlo? Peraltro Teresona era una ragazza coraggiosa, e le pareva che quegli abiti maschili che aveva indossati dovessero renderla irriconoscibile. Così, dopo aver raccomandato all'esule di non muoversi, andò fuori, sperando che le capitasse di guadagnar qualche cosa. Ma prima di uscire passò alcuni minuti in orazione e supplicò la Vergine Maria e sant'Anna di vegliare sul disgraziato fiorentino. La ragazza camminava alla ventura sulla via maestra in direzione di Poppi, quando le accadde di imbattersi in un grosso frate camaldolese, montato sopra un somaro. L'animale s'era impuntato e non voleva andare né avanti né addietro, e il monaco tirava la briglia, menava frustate; ma sì! era come dire al muro. Teresona, che era forte quanto un toro, prese il ciuco per la briglia e lo costrinse a camminare; ma appena lo lasciava, il ciuco impuntavasi di nuovo. - Giovinotto, - disse il monaco, - come vedi io son troppo pingue per far la strada a piedi e debbo trovarmi a Bibbiena prima di mezzogiorno: accompagnami fin là e ne avrai da me larga ricompensa. Teresona non se lo fece dir due volte, e seppe così bene costringer l'asino a camminare, che il monaco alle undici era già sulla piazza della Pieve. Egli scese di sella, e dopo aver messa una moneta d'argento in mano al suo accompagnatore, lo pregò di andarlo a riprendere il giorno dopo per accompagnarlo a Camaldoli, e gli avrebbe dato il triplo. La ragazza si sentì allargare il cuore, e dopo aver comprato a Bibbiena quello che occorreva per nutrire il malato e un pan tondo per sé, mangiando con grande appetito, tornò alla casetta del Pian di Campaldino. Il forestiero non era più così abbattuto come ella lo aveva lasciato, e le domandò come mai non si trovava più nella soffitta ed ella aveva preso abiti maschili. Teresona gli raccontò le sue angustie della notte, e il giovane s'intenerì sapendo di quale abnegazione essa era stata capace pur di non abbandonarlo. - Se un giorno io riacquisterò i miei beni, - le disse, - tu, eccellente ragazza, sarai signora e padrona in casa mia; te lo giuro da cavaliere. Teresona s'intenerì e sempre più prese affetto per quell'infelice. Il giorno passò senza che messer Spini ricadesse nel letargo; ma appena la luna inondò con la sua luce argentea la vasta pianura, egli si addormentò, e dal sonno passò alle convulsioni; si dibatteva, mandava bava dalla bocca, e urlava come un lupo affamato. Ora bisogna sapere che la casetta, nella quale Teresona si era rifugiata insieme con l'ammalato, apparteneva a certi contadini i quali non l'abitavano altro che nei due mesi che precedevano la vendemmia. Essi solevano passarvi la notte per abbadare che non rubassero loro l'uva; il resto dell'anno non ci capitavano mai. Ma quella era appunto la stagione in cui l'uva aveva bisogno della sorveglianza notturna dei contadini, e due di essi si avviarono alla casupola, quando sentirono uscirne urli di lupo. I contadini stettero in ascolto un momento; poi, udendo che gli urli continuavano, non pensarono più all'uva e via di corsa. Quegli urli erano stati uditi anche da altri contadini, così che la mattina nel vicinato non si parlava d'altro che della presenza del lupo mannaro nel Pian di Campaldino. Come avviene sempre in certe circostanze, vi era pure chi asseriva di aver visto la bestia spaventosa correre di notte, mentre la luna era alta, per i campi e per i boschi, così nessuno si attentava più a uscir di casa la notte, e i contadini avrebbero lasciato piuttosto marcir l'uva sulle viti, che attentarsi a incontrare il lupo mannaro. Intanto Teresona, sostenuta dal desiderio di rendersi utile all'infelice cui affezionavasi ogni giorno più, non rifuggiva da nessun lavoro, per faticoso che fosse, pur di guadagnare qualche cosa. Aveva riaccompagnato il monaco a Camaldoli e da lui aveva ottenuto una larga ricompensa; poi s'ingegnava a far legna, che andava a vendere a Poppi e a Bibbiena, e se incontrava nei boschi qualche squadra di taglialegna, offriva l'opera sua per ottenerne qualche soldo. Una notte, vedendo messer Spini dibattersi furiosamente in preda alle convulsioni, Teresona aveva detto: - Sant'Anna benedetta, non vi pare che quest'infelice abbia patito assai? guaritelo, per carità di lui e di me! La luminosa visione le era di nuovo comparsa, e sant'Anna le aveva risposto: - Se la diletta Figlia mia non avesse esaudito le tue preghiere, tu e l'esule non avreste più neppure questo ricovero. Non capisci che sono gli urli di lui che tengono lontana la gente da questo luogo? - Chino il capo alle savie disposizioni della Provvidenza, - rispose Teresona umilmente. - Così va bene; - disse sant'Anna, - quando la persecuzione contro messer Spini cesserà, egli sarà guarito. La visione scomparve, ma gli urli continuarono e il terrore era sparso nei dintorni. Intanto i contadini, che vedevano marcire la loro uva sulle viti nel Pian di Campaldino, erano andati dall'abate di Strumi, che aveva nomea di santo, e gli avevan detto, con voce tremante e spaventata: - Abate maggiore, il lupo mannaro è in paese, e noi si perde la raccolta dell'uva. L'abate si era fatto spiegare il come e il perché di quella perdita, e dopo aveva detto: - Domani farò una processione fino alla casetta nel Pian di Campaldino e con l'acqua santa caccerò il lupo mannaro. Infatti il giorno dopo aveva adunato i suoi monaci, e, preceduto dalla croce, si era diretto al luogo dove tenevasi nascosto messer Spini. Egli era in un momento di calma e, seduto per terra col dorso appoggiato alla rozza parete, esprimeva a Teresona, che lo ascoltava con le lacrime agli occhi, l'ammirazione che ella gl'ispirava per la sua illimitata bontà. - Ti voglio bene, Teresa, - le diceva, - più che alla madre mia, più che alle sorelle, agli amici, alla patria stessa, e non saprei vivere senza di te. La donna, che stava sempre in ascolto temendo una sorpresa, udì salmodiare e, guardando da uno spiraglio della porta, vide la processione di monaci dirigersi alla volta della casupola. - Siamo perduti! - esclamò. E, senza cercar di fuggire, perché lo reputava inutile, s'inginocchiò e pregò fervidamente sant'Anna e la Vergine. In quel momento messer Spini fu assalito dalle convulsioni; egli incominciò ad urlare, e il suo corpo prese a un tratto l'aspetto orribile di una bestia villosa, con una testa enorme e una bocca fornita di zanne minacciose. L'animale, sempre urlando, si fece sulla porta, e pareva pronto a gettarsi addosso al primo che si accostasse. Il giovane monaco che recava la croce ed era in testa alla processione, appena vide il mostro, fuggì; l'abate che sperava tanto nell'acqua santa, se la diede a gambe, e in breve Teresona vide le tonache bianche dei monaci sparire dalla pianura di Campaldino. Quando nessuno più rimase in quei dintorni, messer Spini riprese sembianze umane e Teresona respirò. Tutti e due capirono che quella trasformazione era avvenuta per intervento celeste, e ringraziarono le loro Protettrici. Dopo qualche giorno messer Spini non fu più assalito dalle convulsioni. Soltanto quando qualcuno voleva avventurarsi vicino alla casa, mandava urli da lupo, e se v'era qualche spirito forte che si accostava con l'intendimento di uccidere il lupo mannaro nella sua tana, il fiorentino prendeva subito le sembianze del mostro e faceva fuggire il mal capitato. Così Teresona e l'esule rimasero padroni di una zona di terreno, dalla quale essi ricavavano in parte il nutrimento. La ragazza però non cessava d'industriarsi andando a vendere erbaggi a Bibbiena, e laggiù apprese che a Firenze non governava più il partito avverso a messer Spini, e che a questi era stato revocato il bando e la confisca dei beni. Tutta lieta ella andò a comunicare la notizia all'esule, il quale pianse di gioia e, approfittando della notte, volle subito partire per Firenze. Teresona fu molto afflitta da quella risoluzione del fiorentino e gli disse: - Signor mio, quando sarete in patria, ricordatevi qualche volta di me. - Ma tu mi accompagni! - rispose messer Spini, - mi sei stata compagna, sostegno, appoggio nella brutta sorte, sarai dunque la compagna dei giorni lieti. Così partirono, e dopo molti giorni di viaggio faticoso, messer Spini bussava alla porta del suo palazzo e, riconosciuto dai suoi concittadini, tornava al possesso del patrimonio e delle cariche del governo della Repubblica. Teresona aveva ripreso gli abiti femminili, ma non appariva più a nessuno così brutta come per il passato, forse perché messer Spini narrava a tutti la devozione di cui era stata capace quella creatura così buona e coraggiosa. Nonostante Teresona si sentiva a disagio nel bel palazzo, e ormai che messer Spini era guarito e ritornato in patria, ella voleva riandarsene in Casentino, per aver notizie del padre suo e ottenerne il perdono. Ma messer Spini non glielo concesse e, anzi, per dimostrarle la sua gratitudine, volle farla sua moglie. Teresona credé d'impazzire dalla gioia allorché il suo signore le comunicò questa risoluzione. Le nozze furono celebrate senza pompa nella cappella del palazzo Spini, dove la sposa visse lunghissimi anni venerata e stimata dal marito e dagli amici di lui, e dove morì in tarda età. Appena messer Spini e la Teresona furono partiti dal Casentino, certi contadini che passavano una mattina sul limitare della pianura di Campaldino videro il cadavere di un mostro, simile in tutto e per tutto a quello che aveva tanto spaventato l'abate maggiore di Strumi e tutta la processione. Essi andarono a raccontare a Poppi che il lupo mannaro era crepato, e allora il popolo dei dintorni, guidato dai proprietari della pianura, andò a vedere la bestiaccia che era stata per tanto tempo il terrore di tutto il paese. - Bruciamola! - disse uno. - Bruciamola! - risposero tutti. Allora lì per lì fu messa insieme una catasta di legne secche; la bestiaccia pelosa vi fu posta sopra a forza di stanghe, perché nessuno voleva toccarla, e in breve fu avvolta dalle fiamme e incenerita. Da quel giorno nessuno ha più udito né veduto il lupo mannaro in quei luoghi, e i contadini sono ritornati ogni anno a badare all'uva matura, senza essere turbati nelle loro veglie dagli urli del lupo. - E ora la novella è finita, - disse la Regina. In quel momento tornavano da Camaldoli il professor Luigi e la moglie, e con loro c'era anche l'Annina. - Come mai sei venuta? - le domandò la nonna. - Non so, - rispose la ragazza, - la signora mi ha detto che era meglio che passassi qualche giorno a casa, ed ho ubbidito. La signora Maria prese da parte la Carola e le disse che la signora Durini, sapendo che Carlo Buoni doveva tornare mercoledì o giovedì della settimana seguente, aveva creduto più conveniente che si abboccasse con l'Annina e le aprisse l'animo suo in casa dei genitori, piuttosto che alla villa dell'ispettore. Dopo quell'abboccamento le avrebbero rimandato la ragazza, dalla quale non intendeva separarsi fino al giorno del matrimonio. L'Annina doveva sospettar qualche cosa, perché era turbata e guardava tutti come se volesse leggere nell'animo dei suoi il segreto che era sicura le celavano; ma non domandò nulla, per il momento, ai grandi. Però, imbrancatasi con i piccini, che le avevano fatto una gran festa vedendola giungere, li aveva condotti nell'orto, e abilmente, senza dimostrare curiosità, li aveva interrogati. Essi erano stati tutti contenti di raccontarle che in settimana avevan avuto visite, che c'erano stati i Buoni, padre e figlio, e che durante la loro visita essi erano stati mandati via di cucina. - E dopo che hanno fatto? - domandò l'Annina. - Dopo aver molto parlato, il capoccia ci ha mandati a prendere l'aleatico; essi hanno bevuto, e son partiti per Poppi. Però il Vecchio, al ritorno, s'è fermato qui di nuovo. - E com'era il babbo? - Tutto felice, come quando torna dal mercato e ha venduto bene un paio di manzi. - E voi, che cosa avete supposto? - chiese di nuovo l'Annina. - Che il capoccia, la nonna, le nostre mamme e la Vezzosa hanno paglia in becco. L'Annina era troppo furba per non aver capito tutto. Il cuore le batteva forte forte, e quel certo mistero che ancora avvolgeva un fatto di cui non poteva aver più dubbio, le faceva provare una grande, una immensa felicità. Non sapeva spiegarsi come il sor Carlo avesse proprio scelto lei, e quando fu a letto, sicura che nessuno la vedeva, pianse e rise dalla grande felicità.

La madre piangeva e non s'attentava a toccare quel bambino con i due testoni; la vecchia brontolava perché nel corredino non trovava cuffie abbastanza grandi per quel mostro, e Parri era scappato in uno stanzino buio, perché non lo poteva vedere. In un momento di disperazione, il pittore esclamò: Belzebù, Belzebù, Mel donasti, ripiglialo tu! Non aveva appena pronunziate queste parole, che si udì un gran rumore, e una luce viva illuminò la stanza. In mezzo a quel chiarore comparve l'invocato da Parri, il Diavolo in persona, col viso arcigno, il piede di capro e la coda. - Che cosa vuoi, uomo incontentabile? - gli domandò il Diavolo. - Voglio che tu mi liberi da quel mostro, io non posso vederlo. - Ti pare un mostro perché non è fatto sullo stampo degli altri uomini, - rispose il Diavolo ghignando. - Sei artista, e tu pure ti permetti certe licenze col pennello. Anche tu hai dipinto draghi con più teste e aquile bicipiti, eppur non vi sono in natura. Se io, che son pure un grande e ingegnoso artista, mi son permesso questa licenza, non ho fatto un gran danno. Tanto cervello, quanto tu ne volevi per il figliuol tuo, in una testa sola non c'entrava, e gliene ho regalata una seconda; contentati. - No, re dell'Inferno, io non mi contento, tu devi ripigliartelo; io non voglio mostri. In casa nostra non c'è mai stato nessun deforme, e non voglio che il primo sia il figlio mio. - Uccidilo; ci vuol tanto poco; così, quando avrai commesso il delitto, verrai nel mio regno, dove ti farò dipingere tutte le pareti dell'Inferno, e staremo allegri. Parri si sentì gelare a quelle parole, e si fece presto presto il segno della croce. Il Diavolo allora scomparve, com'era venuto, con moltissimo fracasso. - Un prete! Un prete! Voglio che questo mostro sia battezzato subito! - gridava il pittore per la casa. Fu chiamato il parroco, ma appena alzò la coppa con l'acqua santa per aspergere il capo del bimbo, l'acqua si convertì in fuoco. E per quanto il parroco ritentasse di battezzarlo, di pronunziar preci, di far segni di croce, tutto fu inutile, e finalmente egli fuggì dicendo: - Qui sotto c'è una diavoleria! Tutti, tutti avevan paura del mostro; tutti, anche la madre sua, che si ricusava d'attaccarselo al seno. Arezzo è una piccola città, e il fatto della nascita del mostro di Parri di Spinello Spinelli si riseppe subito, e si riseppe anche che il prete non era riuscito a dargli l'acqua santa. Corsero allora alla casa del pittore i parenti della moglie, corsero i parenti di Parri e gli artisti, e tutti interrogavano il padre e la madre del mostro; ma essi eran più morti che vivi, e non potevano rispondere. I parenti allora chiamaron l'arcivescovo per vedere se a lui riusciva di battezzare il bambino; ma sì! l'acqua anche quella volta si convertì in fuoco, e il mostro non fu battezzato. - Portiamolo a Badia, - dissero i parenti. Ve lo portarono; ma quando stavano per salire i gradini dell'altar maggiore, tutta la chiesa incominciò a tremare come per il terremoto, e se non facevano presto a scappare, sarebbe rovinata di certo. In fretta e in furia i parenti riportarono il mostro a casa di Parri, e dopo di averlo dato alla vecchia serva, scapparono via per non rimettere più piede in quel palazzetto. Intanto fra marito e moglie c'era l'inferno. - Vedi che bell'erede che m'hai dato! - diceva Parri. - Vedi che cosa s'ottiene a pregare il Demonio! - rispondeva lei. - Io me ne torno a casa mia, e tu, tienti pure il tuo mostro. E mentre litigavano così, il bambino strillava dalla fame. La vecchia Marta, che aveva allattato il padrone, non poteva sentire quegli strilli, e andò in cerca di una capra. Il bambino si attaccò subito all'animale e con le due bocche le vuotò tutte e due le mammelle; poi dormì come un ghiro. Madonna Lena, la madre del mostro, mantenne la parola, e, un giorno, fatto il fagotto, se ne tornò a casa di Braccio suo padre, e non volle più vedere il marito. Parri non cercò neppure d'impedirle di andarsene. Anche lui aveva voglia di fuggir lontano, tanto, ormai, in chiesa a dipingere non poteva più entrarci, e la vista di quel mostro lo turbava a segno tale da scombussolargli il cervello. Ma prima di partire mandò Marta a Bibbiena da certi nipoti che ella aveva, dandole anche il figlio, e ingiungendole di non dire che era suo, ma di un forestiere dal quale era stata a servizio negli ultimi tempi. La vecchia, che era affezionata al suo padrone, si sottomise agli ordini di lui, e partì col mostro e con la capra. Figuriamoci le meraviglie che fece tutto il popolo di Bibbiena, quando, dai parenti di Marta, fu divulgata l'esistenza del mostro! Correvano da tutte le parti a vederlo, ma nessuno osava accostarglisi, perché il piccino appena vedeva gente sgranava tutti e quattro gli occhi in una certa maniera da mettere i brividi a chi lo guardava, e invece di crescere a occhiate, come fanno gli altri bimbi, cresceva addirittura a salti. Di modo che, quando ebbe un anno non volle più sapere né di latte, né di pappine, né di dande, e correva via per la campagna come una lepre. I ragazzini, a veder quelle due teste dondolare, scappavano, e il mostro mandava fuori certe vociacce per canzonarli, che li facevano tremar tutti. Marta s'era guardata bene dal raccontare che nessun prete, neppur l'arcivescovo, aveva potuto battezzare il bambino, e lo lasciava correre come voleva, sperando che un giorno non sarebbe tornato più, ed ella non si sarebbe più veduta davanti quel ragazzo con le due teste. Quello che egli facesse a giornate intere in campagna, non lo sapeva nessuno; ma quando tornava a casa la sera, meravigliava Marta e i parenti di lei con la sua sapienza. Senza maestro alcuno che gl'insegnasse, aveva imparato a leggere non solo in volgare, ma anche in latino, e spiegava ogni fenomeno della natura meglio dei dotti. E quel che più meravigliava tutti, si è che non potevano avere un pensiero senza che egli lo leggesse meglio che se lo avessero portato scritto in fronte. Sapeva dunque chi gli voleva bene e chi gli voleva male, e quando Marta, nel vederlo andar via la mattina, formulava in cuor suo il desiderio che non tornasse più, egli, con la testa che aveva volta di dietro, le faceva un cenno e diceva: - Non sperare inutilmente; stasera torno! E tornava difatti e portava sempre uccelli e lepri vivi, che nessuno sapeva come facesse ad acchiappare. C'era in Bibbiena un ricco signore della famiglia dei Dovizii, il quale aveva un cavallo bellissimo e bravo come non ce n'eran altri. Messer Donato voleva un gran bene a quel cavallo e ne era molto orgoglioso, perché lo aveva fatto uscire più volte vincitore dalle giostre. Bisogna sapere che i parenti di Marta, e per conseguenza il mostro, abitavano a poca distanza dalla casa di messer Donato, e il ragazzo con due teste s'era fermato più volte a vedere strigliare il cavallo, fissandolo con certi occhi cupidi da non dirsi. Una mattina che il cavallo era legato sulla porta della stalla, il mostro venne a passare, come al solito, e, vedendo che non v'era il mozzo, si accostò all'animale e disse: Belzebù, Belzebù, Vo' quel cavallo, dammelo tu! Sul momento il cavallo incominciò a calciare, a dare strattoni alla corda, e spiegava tanta forza che portò via la campanella di ferro che era murata nella casa. Il mostro allora si mise a correre, e il cavallo dietro, giù per la scesa del paese. Il mozzo di stalla, sentendo tutto quel fracasso, andò in istrada e si mise a inseguire l'animale; ma sì! questo pareva che avesse il lupo alle costole; non correva, ma volava; e tanto il cavallo quanto il mostro sparirono dopo poco nel fitto di un bosco. Una volta in possesso del cavallo, il ragazzo a due teste si divertì un pezzo a guardarlo da tutti i lati e a fargli eseguire dei lanci. Poi lo legò a un albero e si mise sotto a quello a dire: Belzebù, Belzebù, Son figlio tuo, nutriscimi tu! Aveva appena parlato, che gli uccelli che eran sull'albero e sugli altri vicini volavano giù come sbalorditi, e andavano a posarglisi in grembo. Il ragazzo schiacciava loro la testa, li pelava alla meglio, e poi, infilatili in un sottil ramo verde, li metteva a cuocere davanti a una fiammata. Quando ebbe mangiato bene bene con tutte e due le bocche, disse: - Lucifero, prepariamoci a partire; voglio andare ad Arezzo per consolare l'affettuosa madre mia, che ha avuto tanta cura di me. Il cavallo, nel sentirsi chiamare, rizzò le orecchie e nitrì. Il mostro salì agilmente in sella, nonostante le due teste che gli pesavano non poco sul busto, e, per conseguenza, sulle gambe, e via verso Arezzo. Ora dovete sapere che madonna Lena, dopo aver fuggito la casa del marito, era rimasta un pezzo presso Braccio, padre di lei; ma poi, venuto egli a morte, si era ritirata in casa di una zia vedova, e menava vita allegra frequentando festini e conversazioni. Al marito non pensava mai, e quando si rammentava di quel figlio mostruoso, si faceva il segno della croce e sperava di non rivederlo mai più. Il mostro galoppava, come il vento, sulla via d'Arezzo, e quando fu vicino alla porta, disse: Belzebù, Belzebù, Dove vo' andare, guidami tu! Il cavallo, senza bisogno di tiratine di briglia, condusse il cavaliere in una straduccia tortuosa, e lì si fermò di bòtto. - Ho capito! - disse il mostro, - l'affettuosa madre mia deve stare giù di qui. Egli non scese di sella e attese come un soldato in vedetta, sbirciando tutta la strada con quei quattro occhiacci che vedevano certo meglio di due. Ma intanto che stava lì ad aspettare, gli si radunò intorno una folla di curiosi, e tutti dicevano: - Guarda il figlio di Parri Spinelli e di madonna Lena di Braccio! Il vocìo era tanto forte, le risate dei monelli così squillanti, che attirarono alla finestra anche madonna Lena, la quale, appena ebbe udito pronunziare il suo nome e scòrse il mostro, diventò bianca come la neve e tremò tutta. - Non ce lo voglio dintorno a casa, non voglio vederlo! Il Diavolo me lo ha mandato, e il Diavolo se lo ripigli! Madonna Lena sbatacchiò la finestra, chiuse anche le altre e continuò a inveire contro la sua sorte, stracciandosi da dosso le ricche sue vesti. Intanto il mostro non si muoveva di dov'era, ma la folla intorno a lui si faceva sempre più compatta e più clamorosa, ed egli rimaneva imperterrito a guardarla. A un tratto si aprì la porta della casa di madonna Lena e comparve sulla soglia la zia di lei. La donna alzò le braccia e disse in modo da essere udita da tutti: - Mostro, ritorna all'inferno di dove sei venuto; madonna Lena preferisce la morte alla tua vista. - Torna in casa, vecchia, - gridò il mostro. - La mia tenera madre è già nelle braccia della morte e la sua anima vola dritta in grembo a Belzebù. La vecchia si mise le mani agli orecchi, sbatacchiò la porta e corse in casa. Intanto il tumulto nella via cresceva e la folla non rideva più del mostro, ma lo minacciava da vicino. In quel mentre una delle finestre della casa di madonna Lena si spalancò, e la zia, affacciandosi, si mise a urlare: - È morta davvero; costui è il Diavolo! ... Dàlli! dàlli! Il popolo allora si gettò sul mostro; ma egli, spingendo il cavallo sulla folla, rovesciava e calpestava quanti gl'impedivano il passo, e col volto che aveva dalla parte di dietro, faceva, fuggendo, certe boccacce e certi occhiacci di scherno a chi voleva inseguirlo, che mettevano orrore. Il cavallo correva così veloce, che nessuno poteva raggiungerlo, e in breve fu sulla via Fiorentina. Quando il mostro non si vide più inseguìto, fermò il cavallo e, sceso di sella, disse: Belzebù, Belzebù, Ov'è il padre mio? Dimmelo tu! Il cavallo fiutò l'aria e nitrì. Il mostro allora lo inforcò di nuovo e gli lasciò la briglia sul collo, sicuro che l'animale lo avrebbe condotto da Parri. Infatti camminò tutta la notte, e a giorno si fermò a poca distanza da Firenze, alla Badia di San Salvi. Il mostro rimase a cavallo, in vedetta. Di lì a poco egli vide uscire, da una casetta attigua alla Badia, un uomo giovane ancora, ma curvo, che s'incamminava per una viottola deserta, parlando a voce alta come suol fare chi è oppresso da grave cruccio. Il cavallo si pose dietro a quell'uomo e il mostro capì subito che l'infelice che parlava da solo era Parri. Al rumore che faceva il cavallo camminandogli alle calcagna, Parri si voltò fissando il mostro. Poi, invece di fuggire o di sbraitare come avea fatto la moglie, si fermò e, fissando il mostro, gli stese le braccia piangendo e disse: - Non avevo coraggio di venire a te; ma dal momento che sei qui, rimani, e che tu sia il benvenuto. La solitudine e il rimorso dell'abbandono in cui ti ho lasciato, sono troppo dolorosi. Chiunque ti abbia mandato a me, Iddio o il Diavolo, io lo ringrazio di questa consolazione. L'ambizione di avere un figlio che avesse più ingegno, più fama di ogni uomo, mi fece ascoltare i suggerimenti insidiosi del Demonio; ma tu sei carne della mia carne, e io ti voglio bene e ti benedico. Il mostro, mentre Parri sfogava così il suo dolore, era balzato di sella e s'era gettato nelle braccia dell'uomo buono, che era suo padre. In quel momento un pensiero subitaneo, una speranza, balenarono nel cuore e nella mente dell'artista. Egli si mise a camminare trascinandosi dietro il figlio, e, giunto sotto il portico della Badia, si fermò dinanzi a una soave Madonna, dipinta da lui sul muro, allorché era a Firenze giovinetto a studiar l'arte. Per quella immagine egli aveva una straordinaria venerazione. Fece inginocchiare il figlio, gli pose le mani sulle due teste e disse: - Madonna santa, voi sapete con quanta devozione io vi ho dipinta; abbiate pietà di me; io non ho più altra ambizione che quella di vedere il figlio mio con un aspetto come tutti gli altri. Maria Santa, redimetelo! Dagli occhi della soave immagine sgorgarono a un tratto due lacrime, e il mostro, intenerito, chinò la testa. Quelle due lacrime gli caddero su una delle due teste, e dal cielo scesero allora due schiere di angeli cantando "Osanna!" e circondarono il mostro. Allorché essi, cantando, risalirono al cielo, le lacrime della soave immagine s'erano terse, e sul volto di lei si vedeva un sorriso di beatitudine. - Figlio mio, figlio mio! - esclamò Parri mirando il giovane, il quale, rimasto in ginocchio, nell'atteggiamento di prima, mostrava una sola testa, come tutte le creature umane. Prima cura del pittore fu quella di far battezzare e cresimare il suo figliuolo, e, sentendosi ormai liberato da quell'infernale persecuzione, ritornò ad Arezzo ove riprese a dipingere le figure lasciate incomplete nel Duomo, e molte altre di cui ornò tante chiese della città. Il figlio, che ora cristianamente si chiamava Giovanni, fu pittore assai valente, e in una parete di San Domenico ad Arezzo dipinse il miracolo avuto in suo favore a San Salvi. - E ora la novella è terminata, e io do la buona notte, - disse la Regina.

La massaia non aveva braccia abbastanza per preparare da mangiare per tutti e pensare ai suoi figlioli; le altre dovevano fare il bucato, il pane, e rassettare vestiti e biancheria. Anche i bimbi lavoravano: chi portava via i sassi dai fossi e dai campi, chi conduceva i maiali a pascolare nel bosco, chi faceva l'erba per le bestie e accompagnava i viaggiatori col trapelo fino al pian dell'Antenne, sotto Camaldoli. Tutta quella operosità, aumentata in quell'anno, per la previdenza di Vezzosa che aveva l'argento vivo addosso, doveva, senza casi imprevisti, recare l'agiatezza alla famiglia Marcucci. - Ma perché ti stanchi tanto? - domandava la Regina all'ultima delle sue nuore. - Non mi stanco, mamma; sono assuefatta al lavoro e non so star con le mani in mano, - ella rispondeva; ma non diceva che s'era imposta di lavorare per due e di far dimenticare alla sua nuova famiglia che non aveva portato nulla, proprio nulla di dote. In casa l'avevano soprannominata Caterina, in memoria dell'ultima novella, e Maso e la Carola, scherzando, le domandavano se san Romano aveva dato anche a lei l'anello con le tre pietre. Vezzosa rispondeva sorridendo che la sua pietra rossa era l'affetto per Cecco; quella verde, la speranza di rendersi utile; e quella color dell'alba, la fede che per ogni fatica v'ha un premio e poi una ricompensa. Una domenica, all'ora del tramonto, erano tutti raccolti sull'aia e parlavano del famoso anello; la Regina, vedendosi tutta la sua famiglia, e anche quella di Vezzosa, adunate d'intorno, prese a dire: - Non vi sarà discaro, suppongo, che vi narri anche oggi di una coraggiosa donna, giacché diceste che l'ultima novella vi era piaciuta. - Raccontate quella che volete; - risposero in coro i figli e i nipoti più grandicelli, - sapete bene che vi si ascolta sempre a bocca aperta. - C'era dunque molti, ma molti anni addietro, un vicario di Poppi, inviato dalla Repubblica Fiorentina, che tutti temevano in paese per la sua perfidia. Questi avea nome Bindo Sergrifi, ed era di famiglia nobilissima. La moglie di lui, madonna Bice, lo temeva più degli altri, perché, se era duro con i suoi dipendenti, si mostrava intrattabile in famiglia e non c'era caso che sorridesse mai. Oltre a questo, era avaro e sprezzante quanto mai, e non permetteva nemmeno che madonna Bice, la quale tuttavia discendeva dalla nobile famiglia degli Agli, si sedesse a mensa insieme con lui, e le faceva indossare abiti più adattati per una contadina che per una gentildonna. Però, anche vestita poveramente, madonna Bice, giovane e amabile, era bellissima e ser Bindo era brutto come il diavolo nonostante i giustacori di velluto e di seta e le zimarre di drappo foderato di pelliccia. Quando la Repubblica inviò ser Bindo a Poppi, egli aveva da poco menato in moglie la bella madonna Bice, ma già la trattava come una serva, ed ella sopportava tutto senza mai lagnarsi, come si conviene ad una buona e devota moglie. Multe, imprigionamenti, impiccagioni, furono gli atti con i quali ser Bindo inaugurò la sua vicarìa; madonna Bice, per conto proprio, visitava i poveri, soccorreva le famiglie dei carcerati ed aiutava tutti coloro che sapeva colpiti dalla prepotenza del marito. Questa pietà della bella donna frenava le ire dei malcontenti, e ser Bindo avrebbe dovuto ringraziarla dalla mattina alla sera per averlo, con queste sue opere caritatevoli, salvato dal coltello degli offesi. Invece non faceva altro che rimproverarla, e la povera donna doveva attendere che egli fosse partito a cavallo, per recarsi nelle case dei bisognosi e portarvi conforto. Dopo pochi mesi che madonna Beatrice era a Poppi, mise al mondo un maschietto; ma un po' forse per la vita disagiata, un po' per gli spaventi avuti mentre lo portava nel seno, il bambino nacque con un piede rivoltato in dentro. Ser Bindo, appena lo vide, invece di consolare la madre piangente, disse con la sua vociaccia di disprezzo: - Meriterebbe che lo gettassi dal merlo più alto della torre; per i deformi non ci dovrebbe essere posto nel mondo. - Che nome gli daremo? - domandò la signora piangente. - Quello che ti pare; per me sarà sempre lo storpio, - rispose ser Bindo. La nascita del primo figlio, che è sempre una gioia, una grandissima gioia per ogni donna, fu dunque per madonna Bice un accrescimento di pena. Il vicario, irritato dalla vista di quel povero bimbo deforme, fuggiva le stanze della moglie e aggravava la mano sui suoi dipendenti. Le condanne fioccavano, e la gente era presa dal terrore. L'eco di questo malcontento giungeva agli orecchi della povera signora, la quale, cullando il suo bambino, lo copriva di lacrime. In capo a un anno madonna Bice mise al mondo un altro bambino, ed anche questo aveva una gamba storpia. Figuriamoci le furie di ser Bindo! Diventò una iena e coprì di vituperî la moglie, che non aveva nessuna colpa di quella doppia sventura che la colpiva. - Quale nome daremo a questo secondo figlio? - domandò madonna Bice al marito. - Chiamalo pure come ti pare; per me sarà sempre lo storpio, - rispose ser Bindo irato. E se dopo la nascita del primo figlio era diventato un cane per i suoi sottoposti, ora diventò un orso, ma che dico? un aspide, e non sorrideva altro che quando, a forza di condanne, di torture e di supplizî vedeva tutti piangere dintorno a sé. Per un raffinamento di barbarie, tolse i due bimbi alle cure di madonna Bice e le proibì di vederli. Essi furono affidati alle balie, e vennero relegati in una stanza attigua alla torre del castello. La povera madre correva su da loro appena vedeva ser Bindo uscire a cavallo, e allora si sfogava a baciarli e a coprirli di lacrime. In capo al second'anno, madonna Bice mise al mondo un terzo bambino, e l'infelice donna si sentì morire quando vide che invece di essere storpio da una gamba sola, come i due fratellini maggiori, costui lo era da tutte e due. - Questo è troppo! - esclamò ser Bindo quando vide il suo terzo figlio, - questo è un malefizio di madonna Bice; e se ella è capace di malefizio, deve esser trattata da strega. Pianse la povera donna udendo queste parole, che significavano per lei la condanna al rogo, e vedendo il marito irremovibile nell'accusarla, lo supplicò di risparmiarle la vita; essa aggiunse che di nottetempo avrebbe prese le sue tre creature, e sarebbe andata a rimpiattarsi in qualche luogo selvatico, affinché ser Bindo non vedesse più né lei né i tre storpi. Così egli non si sarebbe macchiato del sangue di quattro innocenti. - Va' pure; ma se hai la disgrazia di capitarmi dinanzi agli occhi con i tre mostri che hai fatti, per te è finita, e non vi sarà tortura che io ti risparmi prima di farti morire. La povera signora, benché si reggesse appena in piedi, non volle, rimanendo qualche giorno ancora nel castello, esporre i suoi bimbi a una morte sicura. Ella accomodò i due maggiori in un gran canestro coprendoli bene di pannolini; prese il piccino in collo, e, postosi in tasca il poco denaro che aveva, verso sera uscì, piangendo, dal castello e camminò finché le forze la ressero, per allontanarsi più che poteva dalla dimora del marito; ma ad un tratto cadde sfinita per terra e nel cadere disse: - San Francesco, voi che aveste tanta pietà dei poverelli, abbiate pietà dei miei piccini! Dopo aver proferito queste parole, madonna Bice rimase distesa per terra, ma non lasciò andare Landino, che aveva in collo, e neppur Grifo e Leone che aveva accomodati nel canestro. Il beato san Francesco scese dal Cielo, dove gode la gloria di Dio, si fermò sulla strada dove giaceva la sconsolata madre, e toccandola con la mano che aveva operato tante guarigioni e miracoli, la fece passare istantaneamente dallo svenimento al sonno; poi, con quella dolce voce cui ubbidivano tutti, dalle fiere agli uccelli, chiamò a sé una capra, la quale accorse subito e presentò le mammelle piene di latte a Grifo ed a Leone, mentre col contatto del suo corpo cercava di riscaldare Landino. I bimbi maggiori popparono in gran copia il latte caldo della capra, e, quando si furono satollati, l'animale presentò la mammella al minore. Così quando madonna Bice si destò dal sonno, trovò i suoi bimbi più freschi e più tranquilli, e vide accanto a sé la capra, inviatale dal Santo e n'ebbe grande consolazione. Ma alzando gli occhi la colpì la vista dell'altissima torre del castello di Poppi, che le diceva com'ella fosse ancor troppo vicina al palazzo ove dimorava il persecutore suo e de' suoi piccini. Così, dopo aver mangiato alcune castagne, che erano per terra, riprese la via, e, senza curare la fatica, sostenuta e spronata dal desiderio di allontanarsi da Poppi, camminò buona parte del giorno, sempre seguìta dalla capra. Verso sera, quando si sentiva mancar le forze, s'internò in un bosco di querci per passarvi la notte a riparo; ma aveva fatto appena pochi passi , quando vide una capanna di paglia, spalancata, dentro la quale ardeva il fuoco sopra una pietra. Ella vi entrò e la capra la seguì. In quella capanna vi era un soffice giaciglio di fieno, del pane e del vino, così che madonna Bice poté ristorarsi, dopo aver custodito i suoi bimbi, e dormire tranquillamente fino all'alba. Ma durante la notte incominciò a nevicare, e nevicò tanto, che la neve otturò la porta della capanna. Quando la povera madre si vide circondata e quasi seppellita dalla neve, alzò gli occhi al cielo e invocò l'aiuto di san Francesco. Il Santo scese dal Cielo per visitare la povera madre nella capannuccia di paglia. Appena ella lo scòrse, si gettò in ginocchio e gli presentò i suoi piccini, supplicandolo di non sottoporla allo strazio di vederli morire di freddo e di fame. - Non temer nulla: - disse il Santo, - le mammelle della capra daranno sempre latte; il pane e il fuoco non ti mancheranno mai. Si consolò madonna Bice alla promessa ricevuta dal Santo, e, sedutasi accanto al fuoco, attese pazientemente. Intanto ser Bindo, pentito di aver lasciato partire la moglie e temendo che ella se ne andasse a Firenze a raccontar tutto alla propria famiglia e alla Signoria, era montato a cavallo e s'era dato a cercarla dovunque; ma la neve caduta nascondeva la capanna e sottraeva la madre e i bambini alle sue indagini. Le quali furono di breve durata, come il suo pentimento, e in capo a due giorni non pensava più a madonna Bice, quasi che ella non fosse mai stata sua moglie. La stagione si mantenne crudissima, e sulla neve già caduta ne cadde altra, per modo che la madre rimase davvero sotterrata per più di un mese; ma il fuoco non si spense mai nella capanna, perché ogni notte gli angioli scendevano giù dalla cappa del camino e mettevano legna e legna sul focolare. E neppur mancò mai erba fresca alla capra, né pane alla donna, poiché gli angioli portavano ogni notte abbondanti provviste, e si fermavano attorno al giaciglio di fieno, che madonna Bice aveva preparato ai suoi bambini, cantando cori celestiali, che Grifo e Leone ripetevano con le loro vocine infantili, guardando gli angioli con gli occhi sbarrati e i volti sorridenti. Era un paradiso per la povera donna quel soggiorno nella capanna; almeno lì non sentiva le aspre parole di ser Bindo, non udiva i lamenti della gente oppressa da lui, non vedeva le occhiatacce che egli lanciava sui figli suoi ogni volta che li scorgeva da lungi in collo alle loro balie. Ora ella non aveva altro che gioie e carezze; carezze dai bimbi, dalla capretta, e sorrisi dagli angioli bianchi e circonfusi di luce che andavano a visitarla. Con lo sparire delle nevi, madonna Bice ebbe timore di essere scoperta dal marito trattenendosi a così breve distanza da Poppi, e allora risolvette di partire; ma nel mettere la testa fuori della capanna, si accòrse che giro giro, a una certa distanza, i pruni erano cresciuti così folti da nasconderla a qualunque sguardo. Soltanto al di sopra la capanna era libera, ed era di sopra che scendeva il sole e faceva nascere l'erba dintorno, per modo da formare un bel prato, nel mezzo al quale zampillava una purissima sorgente. Mentre madonna Bice, gettatasi in ginocchio, ringraziava san Francesco di quel nuovo miracolo operato per sottrarla, insieme con i figli, alle ire del marito, il Santo le apparve e le disse: - Madonna, non tentar di uscire da questa fortezza di pruni. Qui crescerà tutto ciò che è necessario al sostentamento del corpo tuo e a quello de' tuoi figli; il sostentamento dell'anima cercalo nella preghiera. Con quest'acqua, che ha virtù salutari, bagna le gambe de' tuoi storpiati ed esse saneranno. Il Santo benedisse la donna, i bambini, l'acqua e la terra, e risalì al cielo. La madre, consolata da quella apparizione, prese subito il suo Grifo e, condottolo accanto alla fontana, bagnò con quell'acqua la gamba storpia, ma nel momento non vide che quella si raddrizzasse. Nonostante, era tanta la fede che ella aveva nel Santo, che bagnò anche la gamba storpia di Leone e quelle di Landino, e quindi li ripose sui loro giacigli di fieno, lasciandoli alle cure della capra, che scherzava con loro, li nutriva e li riscaldava. Allora madonna Bice si diede a esaminare lo spazio di terreno che correva fra la capanna e la barriera di pruni, e vide che quel tappeto verde, che a prima vista le era parso di erba, si componeva di tante pianticelle di legumi, che crescevano miracolosamente sotto gli spruzzi dell'acqua che scaturiva dalla fontana. V'erano rape, cavoli, fagiuoli, zucche, e, mentre nei campi quelle piante avevano bisogno di spazio e di un lungo periodo di tempo per giungere a maturazione, lì crescevano una accanto all'altra, e in una sola giornata erano buone da mangiare. Lo stesso avveniva degli alberi, che crescevano a vista d'occhio e con tanti rami da fornir fascine per il fuoco alla povera donna, nonché frutti succosi ai due bimbi più grandicelli. Madonna Bice non aveva mai goduto una pace più grande dacché era moglie di ser Bindo, e dal suo cuore partiva a ogni ora del giorno un inno di ringraziamento al suo Santo protettore. Ella non si stancava di bagnare le gambe dei suoi bambini con l'acqua miracolosa, e quelle gambe prendevano forza, si coprivano di carne e di muscoli, tanto che i piccini incominciavano a potersene servire e a zampettare sul prato, rincorrendo la capra e i caprettini che ella aveva partoriti. A farla breve, in capo a un anno, madonna Bice era circondata da tre bimbi belli e forti, che erano il suo orgoglio e la sua consolazione, e in quell'angusto spazio di terreno non le pareva di esser prigioniera, ma bensì libera, perché in quel circuito ristretto crescevano piante e fiori, e il suo sguardo poteva contemplare il sole e le stelle, e riportarsi sui bimbi, che erano per lei il mondo intero. Ser Bindo, invece, tormentato da una terribile malattia, era inchiodato da più mesi nel letto, con immensa soddisfazione dei suoi sottoposti. Una specie di cancrena gli aveva mangiato la polpa delle gambe, e da tutto il suo corpo emanava un puzzo così forte, che nessuno poteva avvicinarglisi. Il temuto e prepotente signore era dunque costretto a raccomandarsi ai servi che gli portassero il vitto, i quali spesso, neppur con le raccomandazioni più umili, riuscivano a sormontare la ripugnanza che provavano. La sola persona che avesse misericordia di lui era una vecchia serva di madonna Bice; ma la vista di quella donna era un tormento per ser Bindo, poiché ella invocava di continuo la buona padrona, e diceva: - Questa vostra malattia è una punizione mandata dal Cielo per aver discacciato la moglie vostra e i figli. Per non udire questi rimproveri, che in altre condizioni sarebbero costati la vita alla imprudente donna, ser Bindo faceva a meno di farsi assistere da lei, e preferiva essere abbandonato giorno e notte come un cane. Il dottore l'aveva bell'e spacciato; le donne del paese che conoscevano la virtù delle piante, non lo volevano curare; e ser Bindo, in mezzo ad atroci spasimi, si vedeva davanti la morte, che gli metteva un grande spavento perché sapeva che, una volta nel mondo di là, avrebbe dovuto render conto delle sue azioni, e specialmente delle barbarie commesse verso il sangue suo. Un giorno, mentre spasimava e gridava come un cane arrabbiato, si presentò sull'uscio della sua camera un servo, annunziandogli che un frate francescano si offriva di curarlo. - Fatelo entrar subito, - ordinò ser Bindo. Il frate fu introdotto. Era un vecchio con la lunga barba bianca, curvo, cadente. - Fratello, - disse al malato, - io ti reco la salute, affinché tu abbia tempo di pentirti della vita che hai menato. Anche infermo, ser Bindo conservava la violenza dell'animo. Perciò divenne rosso in volto a quel rimprovero, e, drizzatosi sul letto, rispose con voce minacciosa: - Frate, è inutile che tu rimanga presso il mio letto; io non tollero accanto a me chi osa giudicare le mie azioni; vattene! - e con l'indice teso gli accennava la porta. - Non sono le tue ingiurie che mi faranno partire. Vecchio e cagionevole come sono, ho fatto il disagioso cammino dalla Verna a qui, per ordine del beato san Francesco, il quale mi ha ingiunto di disputare la tua vita alla malattia e la tua anima al suo eterno nemico, il demonio. Tu potresti anche minacciarmi di morte, ma io rimarrei! Ser Bindo, non potendosi muovere, urlò, sbraitò, senza che nessuno accorresse alle sue grida; e il frate pregava senza prestar orecchio alle villanìe che il vicario si lasciava uscir di bocca, come se non fossero dirette a lui. Così rimase il frate tutto il giorno accanto al letto dell'infermo, e questi, stanco alfine d'inveire contro di lui, e sentendo aumentare gli spasimi, disse con la sua solita manieraccia: - Se hai un rimedio, usalo, perché io mi sento morir dal dolore. Il frate era sicuro che si sarebbe venuti a questi ferri. Egli cavò da una bisaccia un vasetto di balsamo, e, sfasciate le gambe dell'infermo, le unse tutte con quello, recitando a bassa voce una preghiera. Dopo poco lo spasimo cessò, e ser Bindo, il quale non sapeva più che cosa fosse sonno, dormì profondamente per più ore. Al suo destarsi vide il frate inginocchiato che pregava, benché la notte fosse nel colmo. - Che cosa fai costì? - gli domandò il vicario. - Prego per te e attendo che tu mi chieda di assisterti, - rispose fra' Celestino. - Quale interesse ti spinge a questo? - Nessuno, fratello, altro che quello di redimere un'anima. - Non lo credo. Fra' Celestino non rispose e continuò a pregare. Ser Bindo, invece, si addormentò, ma poco dopo si destò, gridando come un dannato. - Che hai, fratello? - gli domandò fra' Celestino alzandosi e curvandosi su di lui. - Soffri forse nuovi spasimi? Il vicario accennava di no col capo, e quando si fu riavuto un poco rispose: - Frate, io ho veduto in faccia la morte, che mi voleva acchiappare, e dietro a lei v'era una voragine ardente, che ella mi accennava. Dimmi, sull'anima tua, credi tu che quella sia la pena che mi aspetta? - Se non ti penti, lo credo fermamente. L'infermo non aggiunse altro, e poco dopo si riaddormentò. Il frate continuò a pregare con maggior fervore di prima, implorando da san Francesco che intenerisse con un raggio della sua fede quell'anima indurita nel peccato. E san Francesco apparve in sogno al vicario e gli parlò con quella voce dolce che ammansiva le fiere, dimostrandogli la sua perfidia, non solo verso la gente affidata al suo governo, ma principalmente verso la moglie e i figli suoi; e gli fece vedere madonna Bice ramminga per i boschi, portandosi faticosamente in collo i tre bimbi, i tre poveri bimbi storpi, che ella guardava con beatitudine, come se fossero tre angioli di bellezza. - Quella madre è felice, - disse il Santo, - e tu pure potresti esser consolato, poiché la felicità le viene dal sentimento di aver fatto il suo dovere, dalla consolazione di dedicarsi a quelle tre creature. Il cuore indurito del vicario si commosse a quelle parole di san Francesco. - Se potessi ritrovare madonna Bice e ricondurla presso di me! - esclamò. - Se il tuo pentimento è sincero, la ritroverai, e io ti darò una guida sicura per rintracciarla, - disse il Santo, e sparì. Quella volta ser Bindo si destò senza gridare, senza spasimare, e vedendo fra' Celestino inginocchiato e pregante, gli disse: - Frate, metti un poco del tuo balsamo sulle mie ferite: io ho bisogno di guarire, perché debbo rintracciare mia moglie e i miei figli. Il frate non si meravigliò udendolo parlare in quel modo, perché sapeva che san Francesco aveva la virtù di operare grandissimi miracoli; e col balsamo unse le piaghe del vicario. Quelle piaghe si rimarginavano a vista d'occhio, e l'infermo non cessava di domandare quando sarebbe stato guarito, perché era punto dal desiderio di partire presto. Allorché in capo a tre giorni le gambe ritornarono sane come prima, ser Bindo disse al frate: - Ora che il corpo è guarito, curiamoci l'anima, venerando fratello. E inginocchiandosi dinanzi a lui, fece ampia confessione de' suoi peccati, accompagnando la narrazione con lacrime di sincero pentimento. Il frate pure piangeva commosso, vedendosi dinanzi quel grande peccatore ammansito dalla parola di san Francesco, e ringraziava umilmente il venerato capo del suo ordine di averlo scelto per istrumento della conversione di ser Bindo. Appena il vicario si fu alleggerito la coscienza da quel peso, ed ebbe pronunziato l'atto di contrizione, promettendo di scontare con tante opere di carità le sue azioni malvage, ordinò che gli fosse sellato un cavallo, e, vestitosi in fretta, partì alla ricerca di madonna Bice e dei suoi figli. Fra' Celestino lo accompagnò con le sue preghiere, e quando ser Bindo ebbe sceso il monte di Poppi, vide avverarsi la promessa del Santo, poiché da una siepe sbucò fuori un cane da pastori, che prima abbaiò per salutarlo e quindi si pose avanti al cavallo, servendo di guida al cavaliere. Così camminarono lungamente, finché il cane non si fermò sul limitare di un bosco. Il vicario vi spinse il cavallo e avrebbe voluto andar oltre, ma il cane si diede a saltargli alle gambe, quasi lo volesse trattenere. Era già notte, e ser Bindo capì che doveva pernottare in quel luogo, forse per non turbare il riposo della madre e dei bambini. Egli scese dunque da cavallo, e dopo aver mangiato le poche provviste che aveva seco, legò il cavallo a un albero sotto il quale si distese e dormì placidamente come non aveva dormito dopo che la sua anima s'era macchiata da tanti peccati. Gli uccelli, che salutavano il nuovo sole, lo destarono al far del giorno. Allora ser Bindo rimontò a cavallo, e questa volta il cane non si oppose alla sua andata; anzi, abbaiando festosamente, lo guidò fra i castagni, fino a una siepe di foltissimi pruni, che si diede a strappare con le zanne. Il cavaliere capì, e, balzando di sella, trasse la spada e cercò di aprirsi un varco nel prunaio. Ma in questo lavoro si forava le mani, lasciava la pelle attaccata agli spini e sanguinava da tutte le parti. Nonostante non cessava di tagliare per giungere alla moglie; ma ogni tanto il pensiero di vedersi davanti i tre storpiati gli toglieva il coraggio di proseguire, e allora gli veniva la voglia di scappar lontano, di lasciare madonna Bice e i tre bimbi al loro destino. In quei momenti di scoraggiamento sentiva o gli pareva di sentire la dolce voce del Santo che gli diceva: - Prosegui nella via del pentimento; non ti saranno rimessi i peccati altro che se tu ricondurrai a casa la infelice madre e i tre bimbi. E allora ser Bindo riprendeva coraggio e tagliava con più energia i pruni. Finalmente egli forò quella folta parete, e l'occhio suo si portò nel centro della spianata dove sorgeva la fontana. E quale non fu la sua gioia quando, invece di tre bimbi macilenti e deformi, vide saltare tre creature sane, belle e allegre, che si baloccavano con un caprettino di latte e ridevano delle capriole della bestiolina. Ser Bindo, senza pensare ai pruni, fece uno strappo alla pungente barriera, e in pochi salti fu accanto ai bambini e se li strinse al cuore coprendoli di sangue. Essi gettarono un grido, e madonna Bice, che era nella capanna, accorse spaventata. Ma quando ella vide il marito che accarezzava le sue creature, non poté più camminare, non poté più parlare, e cadde in ginocchio alzando le mani al cielo, in atto di profondo ringraziamento. Ella non disse al marito una sola parola di rimprovero per le sue barbarie, e appena poté moversi, corse ad attingere acqua alla fontana e con quella gli lavò le ferite. Il sangue si stagnò improvvisamente, e ser Bindo, commosso da tanta dolcezza, s'inginocchiò dinanzi alla moglie e le disse umilmente : - Mi perdoni? Ella non poté rispondere, ma gli prese la mano e la bagnò di lacrime. Poche ore dopo ser Bindo faceva salire a cavallo madonna Bice, le poneva fra le braccia i due figli maggiori, ed egli, tolto Landino in collo, conduceva il cavallo per la briglia fino al castello di Poppi. In quel momento il cane che lo aveva guidato fece un lancio e, abbaiando, sparì. La gente accorreva meravigliata sulle porte delle case per vedere passare il prepotente signore, ora così umile, e bisbigliava che soltanto un grande miracolo poteva averlo cambiato a quel modo. - Salute, fratelli! Salute, sorelle! - diceva ser Bindo passando accanto alla gente. - Pregate per l'anima mia! Da quel giorno il vicario non commise più nessuna prepotenza a danno del popolo a lui affidato, e fu eccellente marito e padre esemplare. Egli spese tutte le sue ricchezze in elemosine e nella costruzione di una chiesa, che fece erigere nel luogo dove la moglie e i figli suoi avevano passato un anno, e che dedicò a san Francesco. L'acqua della fontana, che aveva servito a togliere la deformità ai tre storpi di madonna Bice, sgorga ancora; ma ha perduto la sua virtù; forse perché nessuno l'ha usata con la stessa fede dell'infelice madre, la quale morì in tarda età, venerata da tutti e invidiata dalle altre donne per il valore, la saggezza e la generosità dei suoi figli. Qui la Regina tacque e la Vezzosa prese a dire: - Anche voi, mamma, siete invidiata per aver d'intorno una nidiata di figliuoli sani, buoni e operosi; ma a voi sono state risparmiate le prove dolorose che ebbe a sopportare madonna Bice prima di conseguire quella felicità, non è vero? La vecchia guardò la giovine sposa, poi chinò il capo, e il suo volto, di consueto così sereno, si rannuvolò. Cecco, che aveva seguìto quella scena muta, si accostò alla moglie e la tirò per la manica, affinché non ripetesse l'intempestiva domanda; poi andò verso la mamma, e, per toglierla dall'abbattimento nel quale l'avevano piombata le parole di Vezzosa, la invitò ad andare a letto. Nessuno osò più parlare quella sera, e la veglia incominciata gaiamente, terminò molto triste. - Ma che mistero c'è sotto? - domandava Vezzosa al marito. - Lo saprai, ma ora taci; non vedi come tutti si sono fatti silenziosi?

Il soggiorno nella carcere era abbastanza penoso, e se quello non bastava a scioglier la lingua al ragazzo, c'era la minaccia del trabocchetto, che aveva reso arrendevoli molti uomini forti, ed avrebbe certo fatto parlare quel ragazzetto dal viso di femminuccia. Il Conte attese quindi alle consuete occupazioni, cupo e accigliato come sempre, e la sera se ne stava nell'ampia sala ascoltando fra' Odone, che gli parlava di fare intraprendere alla bella contessa Matelda un pellegrinaggio alla Verna, per ottenere la guarigione della terribile malattia che le aveva fatto cadere i morbidi e lunghi capelli, quando entrò in sala un valletto ad annunziargli che il signor di Romena chiedeva di essere ammesso nel palazzo. Il Conte ordinò che fosse subito introdotto, e poco dopo un rumore di ferro si udiva nel corridoio, e si presentava sulla soglia, col morione piumato in testa, il bel conte Alessandro. Il vecchio signore si alzò per muovere incontro al cugino; il valletto che lo aveva scortato si ritirò, e il frate Odone andò in fondo alla sala per lasciar liberi i due signori. - Cugino, - disse il conte Alessandro di Romena, - un pellegrino è venuto oggi a dirmi di aver veduto buon numero di fiorentini verso Montemignaio. Sono venuto ad avvertirti affinché domani muoviamo loro incontro prima di lasciarli scendere al piano. Fa' vegliare sul tuo palazzo e lascialo in buone mani, poiché alla testa dei fiorentini vi è quell'anima dannata di Forese degli Adimari. - Forese, hai detto? - Egli appunto; sai bene che non vi è fiorentino più crudele di lui, e dove passa, brucia, trucida e ruba; è un vero flagello. - Che mi si conduca il prigioniero! - ordinò il conte di Porciano al valletto, che attendeva sulla porta; e in breve raccontò al cugino la cattura fatta dai suoi. Pochi minuti dopo Piero era condotto nella sala e vi entrava con passo fiero, con la testa alta. Il conte di Romena lo riconobbe e gli fece un lieve cenno del capo. Piero s'inchinò. - Vuoi parlare? - gli domandò il conte di Porciano. - Chi ti ha dato quelle armi per portare a Forese degli Adimari? - Non posso dirlo, signore, - rispose con tono fermo Piero. - Io vi giuro che non sono un cospiratore, vi giuro che non voglio nuocere ad alcuno. Mi sono stati confidati quei due oggetti da consegnare a Firenze. Io non so altro. - Ma il nome, il nome di colui che te li ha affidati! - esclamò il vecchio signore. - Non posso rivelarlo. Non sono gentiluomo, ma so che un segreto bisogna serbarlo anche a costo della vita. - Bada, ragazzo, tu mi spingi agli estremi. Nel mio castello c'è un trabocchetto profondo, tutto rivestito di acutissime punte di ferro; se non parli io ti farò precipitare là dentro, - disse il vecchio col volto acceso di collera. - Quando nascosi la spada e lo scudo fra il fieno sapevo quello che facevo, signore, e sapevo anche che andavo incontro alla morte; né mi spaventa. - Ma non sai che i fiorentini sono scesi nel Casentino e che alla testa di quei ribaldi c'è appunto Forese degli Adimari? - Se lo avessi saputo, signore, invece di affrontare il viaggio, avrei atteso che egli fosse venuto a prendere le sue armi; ma io non sono stato educato nei castelli; vivo lavorando e non so quando si arma e quando si preparano invasioni. - Parla subito! - Non posso, - rispose il fanciullo. - Allora al trabocchetto! - gridò il Conte infuriato. Il signor di Romena s'interpose dicendo: - Cugino, calma il tuo risentimento e, prima di condannare alla morte questo ragazzo caparbio, mostrami le armi che egli aveva celate tra il fieno; forse quelle armi mi riveleranno quello che egli non vuol dire. Le armi erano appoggiate da un lato della sala, e appena Piero le vide, sorrise come se gli stesse dinanzi persona amica e cara, poiché esse gli rammentavano i lieti giorni trascorsi nella bottega del padre, tirando lamine di sottil metallo o forbendo armature, mentre ser Baldo lasciava la briglia alla fantasia e cantava le belle canzoni d'amore o di guerra. Il conte di Romena esaminò lo scudo e poi la spada, provandone la punta, ammirandone gli ornamenti da buon conoscitore, e quindi disse: - Questa spada mi ha parlato infatti, e mi ha detto che esce dalla bottega di ser Baldo d'Arezzo, il più abile armaiuolo che io conosca. Non è vero, giovinetto? Piero taceva e dalle finestre aperte della sala fissava la bella stella indicatagli dalla mendicante. - Dico a te, sai? - ribatté il conte Alessandro. - Non è forse una spada di Baldo, questa? - Può darsi, - replicò Piero, - se essa non vi dice altro, è segno che sa al pari di me serbare un segreto. - Tu sei un testardo! - esclamò il conte di Porciano, - ed io sono stanco di tollerare la tua insolenza. Torna dunque in prigione, e tu, Frate, dirai la messa a giorno; il condannato l'ascolterà fino al Pater e quindi sarà gettato nel trabocchetto. Se Forese degli Adimari vuol la sua spada, deve venirla a prendere fra queste mura. - Mi dispiace di morire senza aver guarito la bella contessa Matelda, - disse Piero impavido; e senza aggiungere altro si diresse verso la porta, dove era la scòrta per riaccompagnarlo in prigione. Mentre usciva, il conte di Porciano disse: - È astuto quel furfante! Voleva acquistar tempo, col pretesto di curare Matelda, sperando forse nell'aiuto dei fiorentini; ma io non sono così da poco per credergli. All'alba morrà. - Signore, - osservò a voce bassa fra' Odone, - di qui non può fuggire; perché non gli date tempo di provare la cura su vostra figlia? Il vecchio alzò le spalle senza rispondere e il conte di Romena, dopo aver cenato col cugino, uscì dal palazzo per andare in tutti i castelli dei suoi congiunti a dar l'allarme. Dopo che la contessa Matelda era stata colpita dalla terribile malattia che l'aveva privata dei lunghi e morbidi capelli, viveva ritirata nelle sue stanze senza mostrarsi più a nessuno, e piangeva di sovente pensando che a lei non avrebbero mai arriso le gioie di sposa e di madre, perché nessuno avrebbe pensato a unirsi con una ragazza colpita da una infermità come quella. Ogni sera fra' Odone andava da lei dopo cena, e mentre le donne di Matelda trapuntavano ricchi tappeti e gonfaloni di seta, ella ascoltava la lettura della vita dei Santi che il Frate le faceva, e intanto alluminava messali e copiava libri di orazione. Il conte di Porciano non sapeva leggere, ma Matelda era dotta in latino, e scriveva come un maestro. Quella sera il Frate, invece di leggere, la intrattenne dei casi della giornata, e le narrò che il prigioniero aveva detto che gli rincresceva di morire per non poter guarire Matelda dalla malattia che l'affliggeva. - Fra' Odone, quel prigioniero non deve morire! - esclamò Matelda. - Voi conoscete il Conte; non gli farà la grazia, neppure se lo supplicate voi, cui vuol tanto bene. - Fra' Odone, bisogna salvarlo. Fate gettare nel trabocchetto un cane, ingannate mio padre, ma salvate il prigioniero. Se guarisco, mio padre vi ringrazierà. - E se non guarite? Matelda stette un momento soprappensieri e poi rispose: - Ho fede e guarirò. Voglio subito vedere il prigioniero. Le donne di Matelda chiamarono il carceriere, e questi accompagnò la Contessa nel buio sotterraneo, rischiarandole la via con una torcia accesa che teneva in mano. La chiave fu introdotta nella serratura, fu tirato il catenaccio e Matelda vide il fanciullo bello e roseo inginocchiato, con le mani congiunte in atto di preghiera. - Fanciullo, - gli disse la castellana, - ti sei vantato assicurando che mi avresti guarito dal mio male. - Madonna, io ho qui un balsamo: provatelo. - Se tu avrai detto il vero, ti strapperò alla morte. - Non credo che da qui all'alba l'infermità possa esser guarita; ma chi sa: Iddio vede la mia innocenza e forse opererà per me un miracolo. Eccovi il balsamo, e se un giorno voi riavrete i capelli, nel lisciarveli pensate a Piero. La contessa Matelda prese il vasetto che le porgeva il giovinetto e disse: - Tu non morrai, neppure se Iddio non opererà il miracolo; conta su di me. La bella contessa Matelda uscì dalla prigione, e Piero cadde in ginocchio e pregò ardentemente. A un tratto gli parve che la sua cella s'illuminasse, e volgendo lo sguardo al soffitto vide la stella splendente, e fu consolato; ma non per questo cessò di pregare. Di lì a poco, senza che la pesante porta girasse sui cardini, scòrse, ritta dinanzi a sé, la mendicante del ponte di Poppi, non più con i due bambini attaccati alla sottana, ma sola e circonfusa di luce. La dolce visione gli disse: - Spera, Piero; io non ti abbandono, - e sparì. Piero, ancor più consolato, riprese a pregare, e in capo a un'ora gli comparve il pellegrino, non più cadente e appoggiato sul bastone, ma circonfuso egli pure di una luce soave e più mite di quella che avvolgeva la donna. - Il balsamo già opera il miracolo, Piero, spera! - gli disse, e sparì. Nel sotterraneo umido e buio rimase, dopo quelle due apparizioni, un profumo di rose e di gigli, come si sente in chiesa durante il maggio fiorito; ma Piero neppure dopo quelle assicurazioni cessò di pregare. Gli pareva impossibile che qualcuno lo potesse salvare, e le sinistre parole del Conte gli risuonavano sempre all'orecchio. A un tratto sentì aprire la porta della prigione, e due uomini armati lo condussero alla cappella dove frate Odone, pallido e sconvolto, era pronto a dir la messa. Una lampada e due ceri accesi davanti a una immagine della Madonna illuminavano debolmente la piccola chiesa. Piero pregava ancora con gli occhi fissi nel volto della Vergine, e si raccomandava che gli desse aiuto per morire da forte, quando al solito vide brillare la stella consolatrice sulla testa della immagine santa. La messa era giunta al Pater, e affinché il condannato non avesse l'assoluzione dei peccati fu condotto via, venne bendato e spinto nel trabocchetto, che fu richiuso sulla testa dell'infelice. Ma questi, invece di sentirsi lacerare le carni da centinaia di lame aguzze, conficcate torno torno a quel pozzo profondo, e precipitare giù, si trovò mollemente adagiato sopra un mucchio di fieno odoroso. In quel momento udì delle grida al disopra della sua testa, il trabocchetto fu riaperto e la bella contessa Matelda si affacciò a quell'apertura, gridando: - Piero! Piero! Il giovinetto rispose con voce allegra, che era vivo e sano. Allora, per ordine di Matelda, furono calate delle funi. Piero tornò sul prato, e con sua grande meraviglia vide due lunghe trecce di capelli morbidi scendere sulle spalle alla bella castellana. La stella consolatrice splendeva più che mai nel cielo imbiancato dall'alba. Al fianco di Matelda era anche il Conte. - Sei protetto dal Cielo, - disse questi vedendolo risalire dal trabocchetto, - e non puoi essere un traditore. Chiedi quello che vuoi. - Domando, signore, - rispose Piero, - che mi rendiate la spada e lo scudo, e quando li avrò consegnati a messer Forese, vi prometto di tornare qui e fabbricarvi due oggetti perfettamente simili. - Va' e torna presto. Piero non ebbe bisogno di nascondere le armi nel fieno. Salì a cavallo, e, con un salvacondotto del conte di Porciano, passò immune in mezzo ai soldati, che si riunivano in ogni parte del Casentino, chiamati dal signore. La sera stessa il giovinetto incontrava i fiorentini verso Montemignaio e consegnava a messer Forese la spada e lo scudo. Di ritorno a Porciano scrisse al padre di raggiungerlo, e fra tutti e due lavorarono alla spada e allo scudo del vecchio Conte e intanto rifecero maglie, forbirono pugnali e riaccomodarono tutte le armi che dovevano servire alla difesa del castello. Il vecchio Conte prese tanto affetto per Piero, e Matelda lo ascoltava così volentieri quand'egli cantava sul liuto la canzone delle sue avventure, che non sapeva più staccarsi da lui. Anzi, il vecchio ottenne per Piero, dall'Imperatore, il titolo di Conte, e l'investitura di Porciano, che gli trasmise alla sua morte. Matelda lo accettò per isposo, e volle che allo stemma dei Guidi, fosse aggiunta una stella. Ora, del palazzo di Porciano rimangono le torri e la porta, ma che il trabocchetto vi fosse, è cosa incerta. - E ora che la novella è finita, io vado a letto, perché sono stanca, - disse la Regina. Quella sera Cecco non accompagnò a casa la Vezzosa, perché doveva andar col baroccio a Firenze; ma ella dopo poco che era a letto udì cantare da lontano: A sentir la mia voce io spero, o bella, Io spero ben che t'abbia a rallegrare: Mando invece di me la mia favella, Perché gli é tardi e mi conviene andare; Non t'adirar perché non sia venuto, S'io non posso venir mando un saluto; S'io non posso venir mando un sospiro, Ti do la buona notte e mi ritiro.

Quando Riccio credé di averlo abbastanza impaurito, se ne andò a letto e dormì saporitamente. La mattina dopo il poetastro e il giullare s'incontrarono nella sala del castello in presenza de' signori. Ser Lapo aveva un viso giallo da far pietà e certi occhi tutti stralunati dalla paura. - Non hai dormito neppur tu, compare? - domandò Riccio. - No, - rispose brevemente l'altro, che non voleva parlare degli spiriti. - Madonna e messere, nelle nostre camere ci son gli spiriti! - disse Riccio. - La mia Collinetta amena è tutta ammaccata dai colpi che le hanno dato. - Dunque li hai sentiti anche tu? - domandò ser Lapo sgranando gli occhi. - Se li ho sentiti? Non mi hanno lasciato dormire un momento solo. - Perché non ti sei fatto vivo quando ho bussato nella tua parete? - Amico, la paura mi ha fatto morire la voce nella strozza. - Io non vi dormo più in quella stanza, con licenza di madonna e di messere, - disse Lapo. - Va' a dormire in Torre, - rispose il Conte. - E io neppure ci dormo, - disse Riccio. - Andrò in Torre anch'io. Bisogna sapere che il castello di Romena era fiancheggiato da molte torri, ma ve n'era una più alta delle altre, che guardava il pian di Campaldino, e che chiamavano soltanto Torre, mentre le altre avevano tutte un nome speciale. Così il gobbo e il poeta quel giorno stesso presero le loro carabattole e andarono a stare nella Torre. In essa non vi era altro che una stanza per piano. Lapo prese quella di sotto e Riccio quella di sopra. Intanto il giullare aveva avvertito i signori che la storiella degli spiriti era una burla preparata da lui al poeta per tenere allegra la nobile compagnia, e aveva pregato il Conte di dar ordine che nessuno, di notte, rispondesse, qualora Lapo si mettesse a urlare e chiedere aiuto. In quel giorno Riccio, approfittando dell'assenza di Lapo aveva smosso i mattoni che rispondevano sul letto del poeta e, chiappati sul tetto una diecina di pipistrelli, l'aveva rinchiusi in una cassetta. Quando fu notte e tutti erano a letto, Riccio alzò uno dei mattoni smossi, e, legati per una zampa i pipistrelli a un cordino, li spinse giù. Questi si abbatterono sul viso di ser Lapo e con le grandi ali sbatacchiavano sulle coltri, sul guanciale e facevano un vero diavolìo. Lapo, che dormiva con un occhio solo, si destò di soprassalto, e stava per balzare dal letto e correr su da Riccio, quando sentì questi che urlava: - Salvatemi! Ho i diavoli in camera! Mi scorticano vivo! Allora capì che era inutile ricorrere al buffone, e messa la testa sotto le coltri si raccomandò l'anima a Dio. Quando piacque a Riccio, i pipistrelli cessarono di sbatacchiar le ali sul letto di Lapo; ma questi non si riaddormentò più, e la mattina dopo disse al Conte che nella Torre non ci voleva più stare, perché c'erano i diavoli, e invocò la testimonianza di Riccio. - Guardami, signor mio, e ti accorgerai dal mio viso quello che io abbia passato stanotte. A centinaia sono comparsi i diavoli alati in camera mia e io ho gridato, ho tempestato, mi son fatto il segno della croce, ma tutto è stato inutile. Se non mi dài un'altra camera, io me ne torno oltralpe, da dove son venuto, - disse Riccio. La contessa Berta, che sapeva tutto, non poteva trattenere le risa, vedendo la faccia impaurita che faceva il giullare nel raccontar a sua volta le avventure della notte, e lo spavento vero che gli si leggeva negli occhi. - Ti darò un'altra camera e a te pure, messer Lapo, - disse il Conte. - Voi dormirete nelle stanze terrene, che mettono alle prigioni; queste sono vuote, e là non ho mai inteso dire che vi fossero spiriti né diavoli. Anche quel giorno il poeta e il buffone presero le loro carabattole e le portarono in due stanzoni quasi bui. Riccio faceva animo al poeta dicendogli: - Stasera, prima di andare a letto, faremo venir qui fra' Leonardo con l'acqua santa, e quando avrà benedetto le pareti non temeremo più di nulla. Riccio, nell'entrare in quegli stanzoni disabitati, aveva veduto uscirne impauriti una quantità di scarafaggi e la vista di quegli animali gli suggerì un'idea, che mise subito ad effetto appena fu solo, dando loro la caccia e acchiappandone una gran quantità. La sera, com'egli e Lapo avevano stabilito, fecero andar fra' Leonardo a benedir le camere, e poi ognuno si ritirò nella propria, lasciando socchiuso l'uscio che le poneva in comunicazione fra loro. Lapo andò subito subito a letto, perché era stanco morto della veglia delle notti precedenti, e s'addormentò; Riccio, invece, cavò con cura a uno a uno gli scarafaggi dalla cassetta ove li aveva riposti, adattò loro un moccolino sulla schiena, e poi li portò davanti l'uscio di ser Lapo, e, accesi che ebbe i moccolini, spinse gli scarafaggi dentro la camera del poeta. Poi socchiuse l'uscio in modo che gli animaletti non tornassero indietro, e si mise a gridare: - Aiuto! aiuto! Ecco i diavoli! Il poeta si destò, spalancò gli occhi e vedendo quella processione di lumicini impazzì quasi dalla paura, mentre Riccio continuava a urlare: - Ahimè! Amico, soccorrimi, dei piccoli diavoli mi salgono nel mio letto, mi camminano sulle carni, mi entrano in bocca, sono indiavolato anch'io! Ser Lapo non parlava per non aprir la bocca e non esporsi alla stessa sorte del compagno. S'era tirato le coltri fin sopra al capo e si raccomandava a tutti i santi del Paradiso, promettendo a san Francesco un pellegrinaggio alla Verna, e a san Jacopo di Campostella, uno in Gallizia, se avevano misericordia di lui e lo salvavano. Intanto Riccio urlava sempre: - Son dannato! Me ne sono entrati dieci in bocca, mi brucian le viscere, mi dilanian lo stomaco, mi strappano il cuore! Tutta la notte il buffone continuò a gridare e a smaniare, e quando fu giorno andò in camera di ser Lapo, facendo gesti di ossesso e boccacce e sgambetti, come se avesse davvero avuto cento e non dieci diavoli in corpo. Ser Lapo era più morto che vivo, e questa volta, senza vedere né messere né madonna, fece un fagottino e se ne andò da Romena per compiere il pellegrinaggio prima alla Verna e poi in Gallizia. Quello che ridessero la Contessa e il conte di Romena al racconto delle avventure di quella notte, fatto da Riccio, non si può dire con parole. La Contessa badava a dirgli basta, perché dal tanto ridere soffriva. E quest'avventura continuò a tenerla di buonumore per molto tempo e a rallegrare le veglie invernali. Intanto, l'anno pattuito per il soggiorno di Riccio al castello di Romena stava per terminare, e il giullare non si sentiva disposto a rimanere in quella solitudine. Egli era assuefatto alle Corti numerose, popolate di dame e di cavalieri, alle liete brigate, e sentiva che a lungo andare avrebbe perduta la vena comica in quel castello, dove convenivano poche persone e sempre le stesse. Voleva dunque andarsene e, senza prevenir nessuno, la mattina che compieva l'anno si presentò nella sala dov'erano messer Alessandro, madonna Berta, i loro valletti e le loro dame. - Salute alla compagnia! - disse Riccio entrando e agitando il berretto con i sonagli. - Salute a te! - rispose la Contessa. - Che vuol dir, Riccio, codesto saluto diverso dal solito? - Gli è, madonna, che oggi non è un giorno come tutti gli altri. - Come sarebbe a dire? Che io sappia, non ricorre nessuna solennità. - È giorno d'addio, madonna. È un anno che sono arrivato, e oggi, che termina l'anno, me ne vado. - Parli da senno? - Da senno, madonna; l'aria di Romena non mi si confà. - Ma tu sai, Riccio, che qui ti vogliamo bene e abbiamo mantenuto tutti i nostri patti. Hai avuto il morbido letto di piume per Collinetta amena, hai avuto quattro abiti di panno di velluto, hai avuto buoni bocconi ... - Sì, madonna; anche tu però hai avuto giorni lieti e hai imparato a ridere. - È vero. - Però Collinetta amena deve avere ancora tant'oro quanto ne può contenere. - È giusto; - rispose il Conte, - ma tu non ci lascerai, non è vero? - Io vi lascerò, e Collinetta amena vuole subito quello che le spetta. - Sia fatta la tua volontà! - disse il Conte; e presa una borsa d'oro da un forziere la fece scivolare dal collo nella gobba del giullare. Riccio intanto s'era messo una mano sotto il farsetto e guardava il Conte. - Non ti basta? - domandò messer Alessandro. - Collinetta amena può contenere altre monete, - rispose Riccio. Il Conte tornò al forziere, prese una manciata d'oro e la fece sparire nella gobba. Riccio tirò giù dall'imbottitura del farsetto una manciata di stoppa e disse al Conte: - Collinetta amena può contenere altre monete; signor di Romena, rammentati dei patti. Il Conte tornò al forziere, prese altro oro, e lo mise nella gobba; ma più lui ne buttava e più Riccio cavava capecchio. A farla breve, per empir la gobba ci volle tutto l'oro del forziere. Messer Alessandro era su tutte le furie e madonna Berta rideva. Quando la gobba fu piena zeppa di monete d'oro, Riccio si levò il berretto con i sonagli, e disse: - Collinetta amena contiene molte monete, ma l'allegria non si paga, e madonna, che ha imparato a ridere di cuore, riderà ancora per molti anni ripensando al falso gobbo. Salute alla compagnia e figli maschi! Dopo aver detto queste parole, uscì. Nel cortile, il cavallino, sul quale era giunto, era già sellato, un altro era carico della roba del giullare, e lo montava un villano. L'omino, nonostante il carico che aveva nella gobba, balzò presto in sella, perché aveva paura che il Conte si pentisse e gli riprendesse l'oro che gli aveva dato, e via. La contessa Berta rimase in sala a ridere e non dimenticò più la consuetudine presa di aprir la bocca alle franche e sonore risate, e tutte le volte che il Conte si lagnava di essere stato spogliato dal giullare, essa gli rispondeva: - L'allegria non si paga! La novella aveva messo tutti di buonumore, e Vezzosa aveva riso veramente di cuore. - Vedi se ti ho fatto dimenticare la tristezza di questa settimana? - disse la Regina a Vezzosa. - La novella mi ha fatto ridere, ma quel che ha dileguato la mia tristezza è stata la vostra accoglienza, la vostra bontà per me; io sono felice, felice, e non rammento più i brutti giorni passati. Ma ora dico come Riccio. Salute alla compagnia! e me ne torno a casa. Cecco e Maso uscirono insieme con Vezzosa, e per tutta la via non fecero altro che parlare del bel modo col quale la Regina narrava e della freschezza di mente di quella donna già tanto avanti negli anni. - È stata una benedizione per la nostra famiglia; - disse Maso, - cerca d'imitarla. Vezzosa sorrise e rispose: - M'ingegnerò. E corse su dalla malata.

Bernardo, però, non credé con questo di aver fatto abbastanza per i suoi compaesani; egli era un uomo curioso, aveva il cervello fine e una vivace allegria, non da gobbo davvero. Poiché non vi ho detto ancora che Bernardo era gobbo fin dalla nascita, ma gobbo reale, cioè con una protuberanza in mezzo alle spalle e un'altra in mezzo al petto che tuttavia non gl'impedivano di lavorare tutto il giorno, e di guadagnarsi coscienziosamente il pane. Una sera, non potendo più stare alle mosse, prese la forca e, dopo essersi raccomandato a san Francesco, andò al Pian del Castagno. Appena i Ballerini lo videro da lontano, gli corsero incontro gridando: - Ecco Bernardo! Ecco Bernardo! - Sì, omìni, sono io; - rispose quel mattacchione del gobbo, - vengo a farvi una visitina. - Benvenuto! - risposero i Ballerini. - Vuoi ballare con noi? - Scusate, brava gente, ma voi non soffrite d'asma, e io sì. - Ci fermeremo quando vorrai, - dissero i Ballerini. - Me lo promettete? - domandò Bernardo che avrebbe volentieri ballato, per poterlo raccontare. - Te lo promettiamo, - risposero i Nani. - Sulla croce del Salvatore? - Sulla croce del Salvatore. Il gobbo, convinto che quel giuramento lo garantisse da ogni sventura, entrò nella catena formata dai Ballerini, i quali incominciarono a girare cantando: Giro, giro tondo, Giro. giro tondo. Dopo un certo tempo Bernardo si fermò e disse: - Con la vostra buona grazia, signori Nani, io vi ho da dire che questo canto e questo ballo mi sembrano poco divertenti. Senz'esser poeta, credo di poter allungare la canzone. - Sentiamo! Sentiamo! - dissero i Nani. Allora il gobbo riprese: Giro, giro tondo, Un pane, un pane tondo, Un mazzo di viole, Le do a chi le vole; Le vo' dare alla vecchina; Caschi in terra la più piccina! I Ballerini fecero un gran baccano, - Avanti, avanti! - esclamarono circondando Bernardo. - Sai far versi e balli bene; ripeti, ripeti! Il gobbo ripeté: Giro, giro tondo, Un pane, un pane tondo, Un mazzo di viole, Le do a chi le vole; Le vo' dare alla vecchina; Caschi in terra la più piccina! Intanto i Ballerini giravano come tante piume spinte dal turbine. A un tratto si fermarono e, affollandosi intorno a Bernardo, gli dissero tutti a una voce: - Che cosa vuoi? che cosa desideri? Ricchezza o bellezza? Parla e noi ti contenteremo. - Dite sul serio? - chiese il bifolco. - Che si possa esser condannati a raccattare a uno a uno tutti i chicchi di grano del Casentino, se ti inganniamo, - risposero. - Ebbene, - replicò Bernardo, - dal momento che volete farmi un dono e me ne lasciate la scelta, vi chiedo una cosa sola: levatemi le due gobbe e fatemi diventar diritto come un fuso. - Bene! Bene! - risposero i Nani. - Vieni qua e vedrai. Essi acchiapparono Bernardo, gli fecero fare una capriola per aria e se lo buttarono da uno all'altro come se fosse stata una palla, finché non ebbe fatto tutto il giro del circolo. Allora egli ricadde in terra sbalordito, mezzo soffocato, ma senza gobba e ringiovanito, cresciuto, rimbellito. Era così cambiato che anche la sua mamma avrebbe stentato a riconoscerlo. Vi potete figurare che sorpresa fece ai suoi compaesani quando ritornò a Castagnaio senza gobba! Nessuno voleva credere che fosse Bernardo, e anche la moglie era in forse se dovesse riceverlo o no. Per farsi riconoscere egli dovette dirle quante paia di lenzuola aveva nel cassettone e di che colore erano le gonnelle che ella teneva nel cassetto. Finalmente, quando si furono accertati che era proprio lui, tutti vollero sapere come aveva fatto a diventare così diritto, da gobbo reale com'era prima; ma Bernardo pensò che, se lo diceva, lo avrebbero creduto il compare dei Nani, e che tutte le notti che qualcuno si fosse trovato in bisogno, avrebbe subito ricorso a lui. Perciò, a tutti coloro che lo tempestavano di domande, rispose che la guarigione era avvenuta durante il sonno e ch'egli non ne sapeva nulla, altro che s'era addormentato sulla piaggia vicina al Pian del Castagno. Allora tutti i gobbi del vicinato andarono a dormire a ciel sereno; ma rimasero sempre gobbi e pensarono che Bernardo non aveva voluto svelare il segreto. In paese c'era anche un sarto con i capelli rossi e gli occhi loschi, che chiamavano Pietro il Balbuziente, perché parlando intaccava sempre. E invece d'essere allegro e burlone, come sogliono essere i rossi, era tetro, uggioso quanto mai, e avaro, aiutatemi a dire avaro. Figuratevi dunque che egli campava a pattona e migliaccio, pur di dare i quattrini a usura, strozzando quanti gli capitavano fra mano. Bernardo gli doveva da un pezzo cinque fiorini d'argento. Un giorno Pietro andò da lui a richiederglieli. L'ex gobbo si scusò e lo supplicò di aspettare fin dopo la mietitura del grano; ma Pietro disse che non gli concedeva la proroga alla restituzione, altro che se gl'insegnava il segreto di diventar bello. Preso così alle strette, Bernardo dovette confessare, e raccontò la visita ai Ballerini dicendo quali parole aveva aggiunte alla loro canzone. Pietro il Balbuziente si fece ripetere le rime; poi se ne andò, avvertendo il suo debitore che gli concedeva dieci giorni per trovare i cinque fiorini. Ma sentendo che i Ballerini avevano offerto a Bernardo la scelta fra la bellezza e la ricchezza, il suo istinto d'avaro si ridestò e la sera stessa volle andare al Pian del Castagno per ballare fra i Nani e scegliere la ricchezza fra le due offerte che gli avrebbero fatto. Appena la luna fu alta sull'orizzonte, ecco dunque il Balbuziente che si mette in cammino verso la piaggia, con la forca in ispalla. I Ballerini, appena lo scorgono, gli corrono incontro e gli domandano se vuol ballare. Pietro acconsente, dopo aver fatto gli stessi patti di Bernardo, e si mette nella catena degli uomini neri che cominciano a cantare: Giro, giro tondo, Giro, giro tondo ... - Aspettate! - esclama il Balbuziente, - io voglio aggiungere qualche cosa alla vostra canzone. - Aggiungi! Aggiungi pure! - rispondono i Ballerini. E si mettono a cantare tutti insieme: Giro, giro tondo, Un pane, un pane tondo, Un mazzo di viole, Le do a chi le vole; Le vo' dare alla vecchina; Caschi in terra la più piccina! Allora i Nani tacquero, e il Balbuziente aggiunse solo, balbettando : E si ... si ... rompa la zu ... zucchina. I Nani mandarono un altissimo grido. - E poi? - domandarono a una voce. Si ... si ... rompa la zu ... zucchina. - Ma poi, ma poi? Si ... si ... rompa la zu ... zucchina. I Nani ruppero la catena; tutti correvano all'impazzata e, non potendosi far capire, andavano in bestia. Il povero Balbuziente rimase a bocca aperta non potendo dir nulla. Alla fine tutta quella moltitudine di omìni neri si calmò un poco; essi circondarono Pietro e mille voci gli gridarono nello stesso tempo: - Esprimi un desiderio! Esprimi un desiderio! - Un de ... de...siderio, - ripeté Pietro, facendosi coraggio. - Bernardo ha ... ha ... scel...to fra ricchezza e bellezza. - Sì, Bernardo ha scelto la bellezza e ha lasciato la ricchezza. - Ebbene, io scelgo ciò che Berna... Bernardo ha ri...cusato. - Bene, bene! - esclamarono i Ballerini. - Vieni qui, Pietro. Pietro si avvicinò tutto gongolante. Essi lo sollevarono da terra, come avevan sollevato Bernardo, lo fecero rimbalzare di mano in mano fino alla fine della catena, e quando cadde in terra aveva fra le due spalle una gobba grossa come un cocomero. Il sarto non si chiamava più Pietro il Balbuziente, ma era per di più il Gobbo balbuziente. Egli tornò a Castagnaio più svergognato di un can rognoso, e appena si seppe in paese quello che gli era accaduto, non ci fu più chi lo volesse vedere. Tutte le vecchie andavano a casa sua con una ciabatta in mano, col pretesto di chiedere un tizzo di fuoco, e appena vedevano Pietro, gliela picchiavano sulla gobba. L'infelice campava di rabbia e se la rifaceva con Bernardo, ruminando nel cervello pensieri di vendetta, perché accusava lui solo di tutti i suoi mali. Diceva che era il preferito dei Nani e aveva loro domandato certo di far quell'affronto al suo creditore. Così, appena trascorsi gli otto giorni, il Gobbo balbuziente disse a Bernardo che, se non poteva pagargli i cinque fiorini, avrebbe avvertito la giustizia per fargli sequestrare e vendere tutto quello che aveva. Bernardo ebbe un bel pregare e supplicare; l'altro tenne duro, e disse che il giorno seguente gli avrebbe messo all'incanto i mobili, gli attrezzi e il porco. La moglie di Bernardo si mise a piangere e ad urlare, dicendo che li esponeva alla berlina, che non restava loro altro da fare che prendere la bisaccia e il bastone e andar elemosinando, che non meritava il conto che Bernardo fosse diventato dritto e di bella presenza per farsi segnare a dito da tutti. Ella aggiunse molte altre cose, che è inutile riferire e che il dolore strappa di bocca ai meschini. Bernardo non rispondeva a tutte quelle lamentazioni. Diceva solamente che bisognava rassegnarsi alla volontà di Dio e di san Francesco; ma il suo cuore sanguinava e si rimproverava di non aver preferito la ricchezza alla bellezza, quando gli avevano lasciato la scelta. Ora si sarebbe adattato a riprendere le due gobbe, purché fossero state piene d'oro e d'argento. Dopo essersi lambiccato il cervello per trovare il mezzo di uscir da quel ginepraio, risolse di andare al Pian del Castagno. I Ballerini lo accolsero con grida di gioia come la prima volta, e vollero che ballasse in giro insieme con loro. Benché Bernardo non ne avesse voglia, pure non si fece pregare e si mise a saltare con tutte le sue forze. I Nani non saltavano, ma volavano come foglie secche spinte dal vento, ed erano tutti lieti. Essi ripetevano il primo verso della canzone, Bernardo ripeteva il secondo, essi il terzo, e così di seguito. Ma quel ripeter sempre le stesse parole parve un po' monotono a Bernardo, il quale disse: - Se m'azzardassi a esprimere l'opinione mia, direi che questa canzone, alla lunga, è un po' noiosa. - È vero! È vero! - gridarono i Nani. - Ebbene, - riprese Bernardo, - io ve ne comporrò un'altra più allegra. - Dilla subito, - gridarono i Nani. - Statemi a sentire: Siam piccini, siam bruttini, Siamo tutti ballerini, Ed alquanto sbarazzini; Gobba va, gobba viene, Chi l'ha avuta se la tiene. Mille gridi, che formavano un solo grido, partirono da ogni punto della piaggia. In un momento tutto il terreno fu coperto da Nani: ne uscivano dai ciuffi di erba e di ginestra, dal tronco dei castagni, dalle fessure delle rocce, pareva un alveare di omìni neri, sgambettanti tra i cespugli, e tutti gridavano: Bernardo, sei l'atteso salvatore, Se' colui inviato dal Signore! - In parola d'onore, non capisco quello che dite! - esclamò Bernardo meravigliato. - Te lo spieghiamo subito: - risposero i Nani, - Iddio ci aveva condannati a restare fra gli uomini e a ballare tutta la notte sulle piagge finché un cristiano non ci avesse inventata una nuova canzone. Tu allungasti l'altra, ma non bastava; avevamo sperato nel sarto Balbuziente, ma lui ci ha canzonati e noi l'abbiamo punito. Il tempo della nostra pena è cessato, e noi ritorniamo nel nostro regno, che si stende sotto la terra ed è più basso del mare e dei fiumi. - Se è vero che vi ho reso un servigio, - disse Bernardo, - non ve ne andate senza cavar d'impaccio un amico. - Che cosa ti occorre? - Tanto da pagare oggi, il Balbuziente, e il fornaio tutti i giorni. - Prendi i nostri sacchi! Prendi i nostri sacchi! - esclamarono i Nani. E gettarono ai piedi di Bernardo i sacchetti di panno rosso che portavano a tracolla. Egli ne raccolse quanti più poté e corse a casa tutto allegro. - Accendi la lucerna e metti il chiavistello, affinché nessuno ci possa vedere, - disse alla moglie. - Porto tante ricchezze da comprar tutto il Casentino. Bernardo posò subito sulla tavola i sacchetti e si mise ad aprirli. Ma, ahimè! aveva detto quattro prima d'aver la gatta nel sacco! I sacchetti non contenevano altro che rena, foglie secche e crini. Il povero Bernardo mandò un grido così acuto, che la moglie, la quale era andata a chiuder l'uscio, accorse spaventata. Il marito le narrò la gita al Pian del Castagno e tutto quello che era accaduto. - San Francesco, aiutateci! - esclamò la donna. - I perfidi Nani si sono burlati di te! - Purtroppo, me ne accorgo io pure! - disse Bernardo sgomento. - E tu, disgraziato, hai osato toccare quei sacchetti che hanno appartenuto ai dannati? - Credevo che contenessero qualche cosa di meglio, - rispose Bernardo tutto afflitto. - Chi non val nulla non può dar cosa di valore; - replicò la donna, - questi sacchi porteranno disgrazia alla casa. - E stava per buttarli sul fuoco, allorché ebbe un pensiero e disse: - Avessi almeno un po' d'acqua santa! Ella andò a capo al letto, staccò da un chiodo una piletta di maiolica, c'inzuppò un ramo d'olivo benedetto, e ne asperse i sacchetti. Ma appena la rugiada del Signore cadde su di essi, i crini si cambiarono in vezzi di perle, le foglie secche in monete d'oro, e la sabbia in diamanti! L'incantesimo era rotto, il miracolo era avvenuto e le ricchezze che i Nani avevano voluto nascondere ai cristiani, erano costrette a riprendere il loro vero aspetto. Bernardo rese i cinque fiorini al Balbuziente, dette una ricca elemosina a ogni povero del contado, lasciò cinquanta messe al preposto, e poi partì insieme con la moglie per Firenze, dove comprarono una casa, ebbero dei figli e morirono ricchi in età avanzatissima. E da quel momento, nel Pian del Castagno, tutti passano liberamente di notte, e nessuno ha incontrato più né Cornetti, né Ballerini, né Valletti, né Topolini. I Nani sono spariti per sempre. E la novella è finita. Il Rossino, che s'era divertito un mondo, corse ad abbracciare la nonna, ma l'arrivo dei viaggiatori da Camaldoli mise termine alle effusioni del piccino. Vezzosa, appena aveva sentito il rumore della carrozza, era corsa sulla via maestra, e Cecco le era andato dietro insieme con l'Annina. - Vedete, - disse la signora alla giovine sposa, - siamo stati di parola e accettiamo il vostro rinfresco. I due viaggiatori erano scesi di carrozza e, giunti sull'aia, risposero cordialmente ai saluti della numerosa famiglia. La Vezzosa fece sedere la signora accanto alla Regina, e subito servì la schiacciata e il vin santo. La viaggiatrice centellinava l'eccellente vino e rivolgeva domande alla vecchia, mentre l'ispettore forestale parlava con Maso. - Noi abbiamo stabilito di venire a Camaldoli nell'estate, - disse l'impiegato, - e allora mi fermerò spesso qui quando intraprenderò delle gite. Frattanto la signora parlava della bella impressione che aveva prodotta in lei il Casentino, del desiderio che aveva di passar molto tempo in quella dolce solitudine di Camaldoli insieme con i suoi bambini, quando un tuono fortissimo fece cessare la conversazione. Le donne si fecero il segno della croce, gli uomini si alzarono a un tratto, e Maso, che del tempo se ne intendeva, disse: - Avremo una gran burrasca ... Signori, favoriscano di entrare in casa, e tu, Beppe, rimetti la carrozza sotto la capanna. Voi, donne, sparecchiate; ma fate presto, se no la grandine romperà ogni cosa. Prima che tutti fossero al coperto, si era scatenato un vento d'uragano. Il cielo pareva di piombo, l'aria aveva dei riflessi verdastri e veniva giù una grandine grossa come noci, accompagnata da fulmini. - Qui non ci piove, - disse Vezzosa alla signora quando fu in casa. - È vero, - rispose quella, - ma il treno non ci aspetta, e stasera noi non potremo essere ad Arezzo. - In viaggio occorre armarsi di pazienza e far più spesso la volontà del tempo che la nostra, - rispose il marito; e dopo essere andato a una finestra per guardare il cielo, aggiunse: - E non credo che la burrasca cesserà tanto presto. Che ne dite, capoccia? Maso esitò un istante per studiar bene il cielo e poi rispose: - Io credo che il temporale durerà un pezzo, e siccome è impossibile che la signora si rimetta in viaggio con questo tempo, la prego di adattarsi da noi per stanotte. Prima che la signora dicesse se accettava o rifiutava quell'offerta fatta alla buona, Vezzosa offrì la sua camera. - Non ci staranno come a casa loro; ma la camera è pulita e io gliela offro con tutto il cuore. - Vi daremo troppo incomodo, - osservò la signora. - Non creda, - disse Vezzosa, - io vado a dormire con la mamma; Cecco va col nipote maggiore, e non rimane altro che mettere un paio di lenzuola pulite sul letto. Appena la Carola aveva sentito che quei signori restavano, era andata nella rimessa e aveva acchiappati due piccioni. Mentre li pelava, la Vezzosa, aiutata dall'Annina, era andata a preparar la camera, e le altre donne attizzavano il fuoco e apparecchiavano la tavola per la cena. Intanto l'olio cominciava a bollire nella padella; le donne sbattevano le uova, andavano a prendere in cantina il cacio, il vino e il prosciutto, per fare assaggiare ai forestieri i migliori prodotti dei paese, e si davano un gran da fare. La cena fu oltremodo lieta, e la signora godeva di vedersi dintorno tanta gente pulita, educata e di buon umore. Ella parlava di altre regioni d'Italia, dov'era stata insieme col marito, come la Basilicata e la Calabria, ed era meravigliata che corresse tanto divario fra i contadini di quei luoghi incolti e poveri e la bella regione dove si trovavano adesso, popolata da gente cortese ed educata. - Prima di tutto, mia cara, - rispondeva il nuovo ispettore, - questi sono paesi che vantano un'antichissima civiltà; e poi il sistema della divisione delle terre fa sì che il contadino si affezioni al podere che coltiva. In Calabria, in Basilicata, in quei paesi che tu rammenti con raccapriccio, perché vi hai sofferto tanti disagi, le vaste distese di terreno appartengono ai signori che vivono lontani e che non si curano di farle fruttare. Basta loro di ritirare il fitto, e se i contadini non le coltivano, peggio per loro. Qui il proprietario non affitta i poderi; li dà a mezzadria al contadino, il quale ha interesse di farli fruttare senza esaurirli, e questa cura del lavoratore per la terra, che è sempre rimuneratrice, si traduce in belle raccolte e dà al paesaggio quest'aspetto gaio, gentile, ridente. Siamo sui greppi di alti monti; la neve copre per più mesi queste terre, i vénti impetuosi vi dominano, eppure l'uomo è riuscito a dare a questi terreni l'aspetto di un verde giardino non interrotto. Oh! se tutta l'Italia fosse così! - esclamò l'ispettore. - Quanta meno miseria e quanti meno malati di pellagra! - Miseria vera da noi ce n'è poca; l'emigrazione è quasi nulla; sono soltanto gli scioperati che vanno in America, e la pellagra non si conosce, - rispose Maso che gongolava a sentir lodare il suo bel Casentino da persona competente. Così ciarlando passò la serata, e fra il nuovo ispettore e la famiglia Marcucci si stabilì un legame di simpatia, che doveva in seguito portare i suoi frutti. Fuori, la tempesta imperversava; ma né i Marcucci né i loro ospiti s'impensierivano per il tempo, perché parlavano allegramente come vecchi conoscenti; i primi, lieti di offrire l'ospitalità, e i secondi, di vedersela offrire con tanto buon garbo. E quando l'ispettore cavò di tasca l'orologio, si meravigliò che fossero già le undici e che la serata fosse passata tanto presto. Vezzosa prese il lume e volle accompagnare la signora in camera per aiutarla a spogliarsi. La sposina adempié il suo ufficio di cameriera con tanto garbo, da meritarsi gli elogi della signora.

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