Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La stampa terza pagina 1986

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Levi, Primo 12 occorrenze

Ci mettono undici anni abbondanti, ma arrivano fino a noi abbastanza distinte. Io, per esempio, ho imparato così la vostra lingua. Trovo interessanti i vostri sketch pubblicitari: sono molto istruttivi, e credo di essermi reso conto di come mangiate e di quello che mangiate, ma nessuno di noi ha idea di come digerite. Perciò la prego di rispondere alla mia domanda. _ Be' , sa, io ho sempre digerito bene e non saprei darle molti dettagli. Abbiamo un ... un sacco che si chiama stomaco, con degli acidi dentro, e poi un tubo; si mangia, passano due o tre ore, e il mangiare si scioglie, insomma diventa carne e sangue. _ ... carne e sangue, _ ripeté la voce, come se prendesse appunti. Elio notò che quella voce era proprio come quelle che si sentono in tv: chiara ma insipida e snervata. _ Perché passate tanto tempo a lavarvi e a lavare gli oggetti intorno a voi? Elio, con un certo imbarazzo, spiegò che non ci si lava che per qualche minuto al giorno, che ci si lava per non essere sporchi, e che se si sta sporchi c' è il rischio di prendere qualche malattia. _ Già, era una delle nostre ipotesi. Vi lavate per non morire. Come morite? A quanti anni? Muoiono tutti? Anche qui la risposta di Elio fu un po' confusa. Disse che non c' erano regole, si moriva sia giovani sia vecchi, pochi arrivavano ai cento anni. _ Capito. Vivono a lungo quelli che usano lenzuola bianche e dànno la cera ai pavimenti _. Elio cercò di rettificare, ma l' intervistatore aveva fretta, e continuò: _ Come vi riproducete? Sempre più imbarazzato, Elio si invischiò in una imbrogliata esposizione sull' uomo e sulla donna, sui cromosomi (su cui appunto era stato informato pochi giorni prima dalla tv), sull' eredità, sulla gravidanza e sul parto, ma lo straniero lo interruppe: voleva sapere a quanti anni incomincia a svilupparsi il vestito. Mentre Elio, ormai spazientito, gli stava spiegando che il vestito non cresce addosso, ma si compera, si accorse che stava spuntando l' alba, e nella luce incerta vide che la voce proveniva da una specie di pozzanghera ai suoi piedi; o meglio, non proprio una pozzanghera, ma come una grossa chiazza di marmellata bruna. Anche lo straniero si doveva esser accorto che era passato parecchio tempo. La voce disse: _ Mille grazie, scusi per il disturbo _. Subito dopo la chiazza si contrasse e si allungò verso l' alto, come se tentasse di staccarsi dal suolo. Parve a Elio che non ci riuscisse, e si udì ancora la voce che diceva: _ Per favore, lei che è così gentile, potrebbe accendere un cerino? Se non ho un po' di aria ionizzata intorno delle volte non mi riesce di decollare _. Elio accese un cerino, e la chiazza, come se succhiata da un' aspirapolvere, salì e si perse nel cielo fumoso del mattino.

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Poi, rivolto ai genitori, aggiunse una spiegazione abbastanza confusa: possibile che loro non sapessero nulla? Non leggevano i giornali? Non vedevano la televisione? _ È un caso di Grande Mutazione, il primo in Italia, e proprio qui da noi, in questa valle dimenticata! _ Le ali si sarebbero formate a poco a poco, senza danni per l' organismo, e poi altri casi ci sarebbero stati nel vicinato, forse tra i compagni di scuola della bambina, perché la faccenda era contagiosa. _ Ma se è contagiosa è una malattia! _ disse il padre. _ È contagiosa, pare che sia un virus, ma non è una malattia. Perché tutte le infezioni virali devono essere nocive? Volare è una bellissima cosa, piacerebbe anche a me: se non altro, per visitare i clienti delle frazioni. È il primo caso in Italia, ve l' ho detto, e dovrò fare rapporto al medico provinciale, ma il fenomeno è già stato descritto, diversi focolai sono stati osservati in Canada, in Svezia e in Giappone. Ma pensate che fortuna, per voi e per me! Che proprio fosse una fortuna, Isabella non ne era tanto convinta. Le penne crescevano rapidamente, le davano noia quando era a letto e si vedevano attraverso la camicetta. Verso marzo la nuova ossatura era già ben visibile, e a fine maggio il distacco delle ali dal dorso era quasi completo. Vennero fotografi, giornalisti, commissioni mediche italiane e forestiere: Isabella si divertiva e si sentiva importante, ma rispondeva alle domande con serietà e dignità, e del resto le domande erano stupide e sempre le stesse. Non osava parlare con i genitori per non spaventarli, ma era in allarme: va bene, avrebbe avuto le ali, ma chi le avrebbe insegnato a volare? Alla scuola guida del capoluogo? O all' aeroporto di Poggio Merli? A lei sarebbe piaciuto imparare dal dottorino della mutua: o che magari le ali fossero spuntate anche a lui, non aveva detto che erano contagiose? Così dai clienti delle frazioni ci sarebbero andati insieme; e forse avrebbero anche superato le montagne e avrebbero volato insieme sul mare, fianco a fianco, battendo le ali con la stessa cadenza. A giugno, alla fine dell' anno scolastico, le ali di Isabella erano ben formate e molto belle da vedere. Erano intonate con il colore dei capelli (Isabella era bionda): in alto, verso le spalle, macchiettate di bruno dorato, ma le remiganti erano candide, lucide e robuste. Venne una commissione del CNR, venne un sussidio considerevole dell' Unicef, e venne anche dalla Svezia una fisioterapista: si era sistemata nell' unica locanda del paese, capiva male l' italiano, niente le andava bene, e faceva fare a Isabella una serie di esercizi noiosissimi. Noiosi e inutili: Isabella sentiva i nuovi muscoli fremere e tendersi, seguiva il volo sicuro delle rondini nel cielo estivo, non aveva più dubbi, e provava la sensazione precisa che a volare avrebbe imparato da sé, anzi, di saper già volare: di notte ormai non sognava altro. La svedese era severa, le aveva fatto capire che doveva ancora attendere, che non doveva esporsi a pericoli, ma Isabella aspettava solo che le si presentasse l' occasione. Quando riusciva a isolarsi, nei prati in pendio, o qualche volta perfino nel chiuso della sua camera, aveva provato a battere le ali; ne sentiva il fruscio aspro nell' aria, e nelle spalle minute di adolescente una forza che quasi la spaventava. La gravezza del suo corpo le era venuta in odio; sventolando le ali la sentiva ridursi, quasi annullarsi: quasi. Il richiamo della terra era ancora troppo forte, una cavezza, una catena. L' occasione venne verso Ferragosto. La svedese era tornata in ferie al suo paese, e i genitori di Isabella erano in bottega, indaffarati con i villeggianti. Isabella prese la mulattiera della Costalunga, superò il crinale e si trovò sui prati ripidi dell' altro versante: non c' era nessuno. Si fece il segno della croce, come quando ci si butta in acqua, aprì le ali e prese la corsa verso il basso. A ogni passo, l' urto contro il suolo si faceva più lieve, finché la terra le mancò; sentì una gran pace, e l' aria fischiarle alle orecchie. Distese le gambe all' indietro: rimpianse di non aver messo i jeans, la gonna sbandierava nel vento e le dava impaccio. Anche le braccia e le mani la impacciavano, provò a incrociarle sul petto, poi le tenne distese lungo i fianchi. Chi aveva detto che volare era difficile? Non c' era nulla di più facile al mondo, aveva voglia di ridere e di cantare. Se aumentava l' inclinazione delle ali, il volo rallentava e puntava verso l' alto, ma solo per poco, poi la velocità si riduceva troppo e Isabella si sentiva in pericolo. Provò a battere le ali, e si sentì sostentata, a ogni colpo guadagnava quota, agevolmente, senza sforzo. Anche mutar direzione era facile come un gioco, si imparava subito, bastava torcere leggermente l' ala destra e subito voltavi a destra: non c' era neppure bisogno di pensarci, ci pensavano le ali stesse, come pensano i piedi a farti deviare a destra o a sinistra quando cammini. A un tratto provò una sensazione di gonfiore, di tensione al basso ventre; si sentì umida, toccò, e ritrasse la mano sporca di sangue. Ma sapeva di che cosa si trattava, sapeva che un giorno o l' altro sarebbe successo, e non si spaventò. Rimase in aria per un' ora buona, e imparò che dai roccioni del Gravio saliva una corrente d' aria calda che le faceva acquistare quota gratis. Seguì la provinciale e si portò a picco sopra il paese, alta forse duecento metri: vide un passante fermarsi, poi indicare il cielo a un altro passante; il secondo guardò in su, poi scappò alla bottega, ne uscirono sua madre e suo padre con tre o quattro clienti. In breve le vie brulicarono di gente. Le sarebbe piaciuto atterrare sulla piazza, ma appunto, la gente era troppa, e aveva paura di prender terra malamente e di farsi ridere dietro. Si lasciò trasportare dal vento al di là del torrente, sui prati dietro il mulino. Scese, scese ancora finché poté distinguere i fiori rosa del trifoglio. Anche per atterrare, sembrava che le ali la sapessero più lunga di lei: le sembrò naturale disporle verticalmente, e mulinarle con violenza come per volare all' indietro; abbassò le gambe e si trovò in piedi sull' erba, appena un poco trafelata. Ripiegò le ali e si avviò verso casa. In autunno spuntarono le ali a quattro compagni di scuola di Isabella, tre ragazzi e una bambina; alla domenica mattina era divertente vederli rincorrersi a mezz' aria intorno al campanile. A dicembre ebbe le ali il figlio del portalettere, e subentrò immediatamente al padre con vantaggio di tutti. Il dottore mise le ali l' anno dopo, ma non si curò di Isabella e sposò in gran fretta una signorina senz' ali che veniva dalla città. Al padre di Isabella le ali spuntarono quando aveva già passato i cinquant' anni. Non ne trasse molto profitto: prese qualche lezione dalla figlia, con paura e vertigine, e si lussò una caviglia atterrando. Le ali non lo lasciavano dormire, riempivano il letto di penne e di piume, e gli riusciva fastidioso infilarsi la camicia, la giacca e il soprabito. Gli davano ingombro anche quando stava dietro il banco della bottega, così se le fece amputare.

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Per questa via ho appreso che Mertens aveva letto i miei libri sui Lager, e verosimilmente anche altri, perché non era un cinico né un insensibile: tendeva a rifiutare un certo segmento del suo passato, ma era abbastanza evoluto per astenersi dal mentire a se stesso. Non si regalava bugie, ma lacune, spazi bianchi. La prima notizia che ho di lui risale alla fine del 1941, epoca di ripensamento per tutti i tedeschi ancora in grado di ragionare e di resistere alla propaganda: i giapponesi dilagano vittoriosi in tutto il Sud-Est asiatico, i tedeschi assediano Leningrado e sono alle porte di Mosca, ma l' era dei blitz è finita, il collasso della Russia non c' è stato, e sono cominciati invece i bombardamenti aerei delle città tedesche. Adesso la guerra è affare di tutti, in tutte le famiglie c' è almeno un uomo al fronte, e nessun uomo al fronte è più sicuro dell' incolumità della sua famiglia: dietro le porte delle case la retorica bellicista non ha più corso. Mertens è chimico in una fabbrica metropolitana di gomma, e la direzione dell' azienda gli fa una proposta che è quasi un ordine: avrà vantaggi di carriera, e forse anche politici, se accetta di trasferirsi ai Buna-Werke di Auschwitz. La zona è tranquilla, lontana dal fronte e fuori del raggio dei bombardieri, il lavoro è lo stesso, lo stipendio è migliore, nessuna difficoltà per l' alloggio: molte case polacche sono vuote .... Mertens ne discute coi colleghi; in maggior parte lo sconsigliano, non si baratta il certo con l' incerto, e inoltre i Buna-Werke sono in una brutta regione paludosa e malsana. Malsana anche storicamente, l' Alta Slesia è uno di quegli angoli d' Europa che hanno cambiato padrone troppe volte, e che sono abitati da genti miste e fra loro nemiche. Ma contro il nome di Auschwitz nessuno ha obiezioni: è ancora un nome vuoto, che non suscita echi; una delle tante città polacche che dopo l' occupazione tedesca hanno cambiato nome. Oswiecim è diventata Auschwitz, come se bastasse questo a far diventare tedeschi i polacchi che vi abitano da secoli. È una cittadina come tante altre. Mertens ci pensa su: è fidanzato, e mettere su casa in Germania, sotto i bombardamenti, è imprudente. Chiede un permesso e va a vedere. Che cosa abbia visto in questo primo sopralluogo, non è noto: l' uomo è tornato, si è sposato, non ha parlato con nessuno, ed è ripartito per Auschwitz con la moglie e i mobili per stabilirsi laggiù. Gli amici, quelli appunto che mi hanno scritto questa storia, lo hanno invitato a parlare, ma lui non ha parlato. Neppure ha parlato nel corso della sua seconda ricomparsa in patria, nell' estate del 1943, in ferie (perché anche nella Germania nazista in guerra, in agosto la gente andava in ferie). Adesso lo scenario è cambiato. Il fascismo italiano, battuto su tutti i fronti, si è sfasciato, e gli alleati risalgono la penisola; la battaglia aerea contro gli inglesi è perduta, e nessun angolo della Germania è ormai al riparo dalle spietate ritorsioni alleate; i russi non solo non sono crollati, ma a Stalingrado hanno inflitto ai tedeschi, e a Hitler stesso che ha diretto le operazioni con l' ostinazione dei folli, la più bruciante delle sconfitte. I coniugi Mertens sono oggetto di una cautissima curiosità, perché a questo punto, a dispetto di tutte le precauzioni, Auschwitz non è più un nome vuoto. Qualche voce ha circolato, imprecisa ma sinistra: è da porre accanto a Dachau e a Buchenwald, pare anzi che sia peggiore; è uno di quei luoghi su cui è rischioso fare domande, ma si è fra amici intimi, di vecchia data: Mertens viene di là, deve pure sapere qualcosa, e se la sa la dovrebbe raccontare. Ma, mentre si incrociano i discorsi di tutti i salotti, le donne parlano di sfollamenti e di borsa nera, gli uomini del loro lavoro, e qualcuno racconta sottovoce l' ultima storiella antinazista, Mertens si apparta. Nella camera accanto c' è un pianoforte, lui suona e beve, torna in salotto ogni tanto solo per versarsi un altro bicchiere. A mezzanotte è ubriaco, ma il padron di casa non lo ha perso di vista; lo trascina al tavolo e gli dice chiaro e tondo: _ Adesso tu ti siedi qui e ci dici che cosa diavolo succede dalle tue parti, e perché devi ubriacarti invece di parlare con noi. Mertens si sente conteso tra l' ubriachezza, la prudenza e un certo bisogno di confessarsi. _ Auschwitz è un Lager, _ dice, _ anzi, un gruppo di Lager: uno è proprio contiguo alla fabbrica. Ci sono uomini e donne, sporchi, stracciati, non parlano tedesco. Fanno i lavori più faticosi. Noi non possiamo parlare con loro. _ Chi ve l' ha proibito? _ La direzione. Quando siamo arrivati ci hanno detto che sono gente pericolosa, banditi e sovversivi. _ E tu non gli hai mai parlato? _ chiese il padron di casa. _ No, _ rispose Mertens versandosi un altro bicchiere. Qui intervenne la giovane signora Mertens: _ Io ho incontrato una donna che faceva le pulizie in casa del direttore. Mi ha solo detto "Frau, Brot": "signora, pane", ma io .... _ Mertens non doveva poi essere tanto ubriaco, perché disse seccamente alla moglie _ Smettila _ e rivolto agli altri: _ Non vorreste cambiare argomento? Non so molto del comportamento di Mertens dopo il crollo della Germania. So che lui e sua moglie, come molti tedeschi delle regioni orientali, sono fuggiti davanti ai sovietici lungo le interminabili strade della disfatta, piene di neve, di macerie e di morti; e che in seguito lui ha ripreso il suo mestiere di tecnico, ma rifiutando i contatti e chiudendosi sempre più in se stesso. Ha parlato un po' di più parecchi anni dopo la fine della guerra, quando non c' era più la Gestapo a fargli paura. A interrogarlo, questa volta c' era uno "specialista", un ex prigioniero che oggi è un famoso storico dei Lager, Hermann Langbein. A domande precise, ha risposto che aveva accettato di trasferirsi ad Auschwitz per evitare che al suo posto andasse un nazista; che coi prigionieri non aveva mai parlato per timore di punizioni, ma che aveva sempre cercato di alleviare le loro condizioni di lavoro; che delle camere a gas a quel tempo non sapeva nulla perché non aveva chiesto niente a nessuno. Non si rendeva conto che la sua obbedienza era un aiuto concreto al regime di Hitler? Sì, oggi sì, ma non allora: non gli era mai venuto in mente. Non ho mai cercato di incontrarmi con Mertens. Provavo un ritegno complesso, di cui l' avversione era solo una delle componenti. Anni addietro, gli ho scritto una lettera: gli dicevo che se Hitler è salito al potere, ha devastato l' Europa e ha condotto la Germania alla rovina, è perché molti buoni cittadini tedeschi si sono comportati come lui, cercando di non vedere e tacendo su quanto vedevano. Mertens non mi ha risposto, ed è morto pochi anni dopo.

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È quindi abbastanza probabile che io abbia modestamente contribuito all' organizzazione delle cosiddette saraski sovietiche, e non è impossibile che il misterioso lavoro di Goldbaum fosse quello descritto da Solzenicyn. Risposi agli Z. che avrei dovuto recarmi a Londra in aprile: un loro viaggio in Italia era inutile, avremmo potuto vederci là. Vennero all' appuntamento in sette, appartenenti a tre generazioni, mi assediarono, e subito mi mostrarono due fotografie di Gerhard, scattate verso il 1939. Provai una specie di abbagliamento; a distanza di quasi mezzo secolo, il viso era quello, coincideva perfettamente con quello che io, senza saperlo, recavo stampato nella memoria patologica che serbo di quel periodo: a volte, ma solo per quanto riguarda Auschwitz, mi sento fratello di Ireneo Funes "el memorioso" descritto da Borges, quello che ricordava ogni foglia di ogni albero che avesse visto, e che "aveva più ricordi da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini vissuti da quando esiste il mondo". Non occorrevano altre prove: lo dissi alla nipote, leader della famiglia, ma invece di allentarsi la loro pressione si fece più forte; non parlo per metafore, avrei dovuto intrattenermi anche con altre persone, ma gli Z. mi avevano incapsulato come fanno i leucociti attorno a un germe, mi premevano intorno e mi tempestavano di domande e di informazioni. Alle domande non seppi rispondere, salvo che a una: no, Goldbaum non doveva aver sofferto troppo per la fame; lo attestava il fatto stesso dell' averlo io subito riconosciuto in fotografia. Mancavano dalla mia immagine mentale i segni della fame estrema, inconfondibili e a me noti; il suo mestiere, fino agli ultimi giorni, gli doveva aver risparmiato almeno quella sofferenza. E fu sciolto anche il nodo dell' Olanda. Era una conferma ulteriore: la nipote mi disse che al tempo dell' annessione dell' Austria Gerhard si era rifugiato in Olanda, dove, ormai padrone della lingua, aveva lavorato alla Philips fino all' invasione nazista. Apparteneva alla Resistenza olandese; come me, era stato arrestato come partigiano, e poi riconosciuto come ebreo. L' affettuoso e tumultuoso clan degli Z. venne disperso a fatica da un improvvisato "servizio d' ordine", ma prima di lasciarmi la nipote mi consegnò un involto. Conteneva una sciarpa di lana: la porterò nel prossimo inverno. Per ora, l' ho riposta in un cassetto, provando la sensazione di chi tocchi un oggetto piovuto dal cosmo, come le pietre lunari, o come gli "apporti" vantati dagli spiritisti.

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A questo paradosso si potrebbe aggiungere che chi nella propria vita ha avuto l' occasione di verificare queste affermazioni, anche se non fra i felici, è tuttavia da annoverarsi fra i fortunati, perché se i desideri alla cui soddisfazione dobbiamo rinunciare diventano troppi, o se essi contano fra i bisogni vitali, allora non è più il caso di parlare di felicità: l' infelicità che proviene da eccesso di soddisfazione, e da difetto di lotta per la vita, è tutto compreso di un tipo abbastanza raro, e infatti Russell stesso la definisce "infelicità byroniana", distinguendola da altre, più comuni e più concrete, che sono di segno opposto. In modo analogo si potrebbe osservare che, mentre è sgradevole essere giudicati, ed è umiliante e debilitante trovarsi continuamente sotto giudizio, il pretendere di sottrarsi a ogni giudizio è innaturale e pericoloso. È certamente difficile stabilire caso per caso quali giudici possano essere accettati e quali "ricusati", ma ricusare tutti i giudici è, oltre che presuntuoso, inutile. Inutile, perché ogni svolta della vita, ogni incontro umano, comporta un giudizio emesso o riscosso, e di conseguenza al riscuotere e all' emettere giudizi è bene abituarsi da giovani, quando è più facile contrarre abitudini. In mancanza di questo allenamento, che non si vede perché non debba coincidere con la carriera scolastica, e con la vaccinazione dei giudizi riscossi a scuola (sotto forma di voti o sotto qualsiasi forma: è indifferente), il primo giudizio negativo che si riceverà nella vita potrà essere percepito come una ferita profonda, o aggredire con la violenza di un morbo. Ora, questo giudizio negativo è inevitabile, perché nella vita ci si trova a confronto con i fatti, e i fatti sono giudici ostinati e spietati. Si deve essere cauti nell' accettare un giudice esterno, ma bisogna pure accettarne almeno uno: non se ne può fare a meno, dal momento che nessuno riesce a giudicare se stesso (chi lo fa, consapevolmente o no, riproduce i giudizi esterni che emotivamente gli appaiono più corretti, siano essi positivi o negativi), e dal momento che vivere senza che le proprie azioni vengano giudicate significa rinunciare a una retroazione che è preziosa, e quindi esporre se stessi e il prossimo a rischi gravi: è come pilotare una barca senza bussola, o come pretendere di mantenere costante una temperatura senza consultare un termometro. Per questo motivo, mentre è giusto insorgere contro una selezione scolastica impostata (di fatto, anche se non di nome) sul censo o sullo stato sociale, e contro un sistema scolastico fondato esclusivamente sulla selezione, mi pare sbagliato che si chieda una scuola che non abitui a ricevere un giudizio. Sarebbe forse un' istituzione caritativa e assistenziale, ma solo a breve termine: non credo che ne uscirebbero cittadini veramente liberi e responsabili.

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La rima è un' invenzione abbastanza tarda, ma "probabile": voglio dire, è una di quelle invenzioni che stanno nell' aria, e poi si materializzano in diversi luoghi. La si trova infatti in tradizioni poetiche lontanissime fra loro nel tempo e nello spazio. La sua eclissi odierna, nella poesia occidentale, mi pare inspiegabile, ed è certamente temporanea. Ha troppe virtù, è troppo bella per sparire. Segnala con discrezione la fine del verso o della strofa. Ristabilisce l' antica parentela fra poesia e musica, entrambe figlie del nostro bisogno di ritmo: c' è chi sostiene che lo acquistiamo prima della nascita, ascoltando il battito del cuore materno, per cui saremmo tutti poeti fin dalla matrice. Sottolinea le parole-chiave, quelle su cui va attirata l' attenzione del lettore. Ma vorrei insistere su due altri vantaggi della rima, uno a favore di chi legge versi, l' altro a favore di chi scrive. Chi legge buoni versi desidera portarseli dietro, ricordarli, possederli. Spesso non ha neppure bisogno di studiarli: tutto va come se l' incisione avvenisse spontaneamente, naturalmente, senza dolore (mentre è dolorosa, o almeno faticosa, l' incisione di testi di cui non percepiamo la bellezza). Ora, per la registrazione in memoria la rima è d' aiuto fondamentale: un verso trascina l' altro o gli altri, il verso dimenticato può essere ricostruito, almeno approssimativamente. L' effetto è così forte che, nel magazzino misterioso ma limitato della nostra memoria, la poesia senza rima spesso cede posto a quella rimata, anche se questa è meno nobile. Ne segue una conseguenza pragmatica: i poeti che desiderano essere ricordati ("portati in cuore": e in molte lingue studiare "a memoria" si rende con "per cuore") non dovrebbero trascurare questa virtù della rima. L' altra virtù è più sottile. Chi si prefigge di comporre in rima si impone un vincolo, che però è remunerativo. Egli si impegna a terminare un verso non con la parola dettata dalla logica discorsiva, bensì con un' altra, più strana, che va attinta fra le poche che terminano "alla maniera giusta". È quindi costretto a sviarsi, a uscire dalla strada facile perché prevedibile; ora, leggere ciò che prevediamo ci annoia e non ci informa. Il vincolo della rima obbliga il poeta all' imprevedibile: lo forza a inventare, a "trovare"; ad arricchire il suo lessico con termini inusitati; a torcere la sua sintassi; insomma, a innovare. La sua situazione è simile a quella del muratore che accetti di usare mattoni irregolari, poliedrici o prismatici, commisti a quelli comuni; il suo edificio sarà meno liscio, meno funzionale, forse anche meno solido, ma dirà di più alla fantasia di chi lo guarda, e porterà il segno di chi l' ha costruito. La rima, e in generale la regola, acquistano quindi anche la funzione di rivelatori della personalità di chi scrive; e in effetti si osserva che le distanze reciproche sono maggiori tra i poeti che tra i prosatori. L' attribuzione di una poesia è più facile che quella di una prosa. Di fronte all' ostacolo metrico, l' autore è costretto (si costringe) a un volteggio che è acrobatico, e il cui stile è strettamente suo: firma ogni verso, che lo voglia, lo sappia, o no.

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Fra i molti desideri del lettore di quotidiani ce n' è uno il cui soddisfacimento mi pare abbastanza poco costoso. Sarebbe opportuno che il cronista addetto alla descrizione degli incidenti, o a maggior ragione delle catastrofi, si servisse di un linguaggio adeguato e preciso, come fanno il suo collega cronista teatrale, lo sportivo, il finanziario eccetera. Ho in mente, già lo si sarà intuito, due casi recenti: la sciagura della Val di Fiemme e lo scandalo dei vini austriaci. Sarebbe sciocco pretendere che le relative cronache fossero state subito affidate a un geologo e rispettivamente a un enologo. Sarebbe utopico postulare un cronista capace di precipitarsi in Val di Fiemme e di smascherare al primo colpo le bugie dette sul luogo, in buona o mala fede, resistendo all' urto degli interessi locali, che (come sempre in casi simili) sono enormi. Eppure, non sarebbe stato difficile, anche per un "generico", interrogare la gente del posto, e sapere e descrivere come erano fatti i due bacini di decantazione, quanto erano grandi, da quanto tempo erano lì, com' erano gli argini. Abbiamo visto, nei giorni seguenti, una fotografia dell' impianto così come si presentava prima della sciagura: era malamente leggibile, ma spaventosa; dunque i due argini verso valle erano così, ripidissimi, quasi a picco? Ed erano, come è stato detto, di terra battuta? Un geometra del luogo, uno studente, non avrebbero dovuto avere difficoltà a darcene uno schizzo. Non è una richiesta dettata solo dalla curiosità: il cittadino non deve e non vuole accontentarsi delle interviste e delle relazioni dei periti, vuole e deve giudicare da sé, e deve averne gli elementi. Se colpa c' è, ha il diritto di indignarsi, ma desidera essere messo in condizione di scegliere in modo autonomo la qualità, la quantità e (soprattutto) l' indirizzo della sua indignazione. Diffida, o dovrebbe diffidare, della barbarica istituzione del capro espiatorio. Sa che la sentenza verrà, se verrà, a distanza di mesi o anni, e che sarà scritta nel linguaggio astruso dei magistrati ibridato con quello altrettanto astruso dei tecnici: perciò vuole avere la possibilità di costruirsi una sua propria opinione, anche se questa non potrà avere forma né effetti giuridici. Vuole capire, il che è un suo diritto; e vuole anche dire la sua: è questa una magra soddisfazione che non gli va tolta. La dirà comunque, la sua, ma se sarà stato informato in modo chiaro e corretto, la sua opinione acquisterà il peso che le viene conferito da un minimo di competenza. Il giornale deve sforzarsi di fornirgliela, quanto più presto è possibile: eviterà così assoluzioni o condanne frettolose; indifferenza, fatalismo o cacce all' untore; tranquillità pericolose o paure ingiustificate. È giusto che gli eventuali responsabili siano puniti; ma, affinché fatti simili non si ripetano, è necessario che esista una competenza diffusa, che probabilmente non esisteva fra le centinaia di persone che, a tutti i livelli, hanno messo mano a quegli argini; e ci sono cose che si vedono meglio dal basso che dall' alto. La questione del vino austriaco, almeno per il momento, sa più di imbroglio che di tragedia: si parla di un solo decesso, e per di più è assai dubbia la sua correlazione col vino bevuto. E chiaro che, in questo caso, il cronista italiano non ha potuto fare altro che ripetere, quanto meglio ha potuto, le notizie riportate dal suo collega straniero: ma questo collega è stato frettoloso e approssimativo, più proclive a destare scandalo che a fornire dati concreti. Il fatto che il glicole dietilenico, o dietilenglicole (non "glicol dietilene", che chimicamente non ha senso), sia usato come anticongelante per l' acqua che circola nei radiatori delle auto è inesatto: per questo scopo si usa di norma il glicole etilenico, suo fratello minore, che costa meno e a parità di concentrazione rende meglio; è anche più tossico, ma non risulta che nei vini sia stato trovato. Comunque, il fatto che l' uno o l' altro prodotto siano usati come anticongelanti non ha alcuna rilevanza giuridica: insistervi, come è stato fatto in tutti i giornali d' Europa, serve solo a confondere le idee. Il lettore si domanda, giustamente, che cosa può avere spinto quella gente a usare una sostanza per uno scopo così insolito: come chi legasse un salame col filo di ferro, o spazzasse le strade con una vanga. Se il sofisticatore fosse stato uno solo, si potrebbe pensare alla follia, ma erano tanti .... Ha invece rilevanza giuridica la tossicità del glicole dietilenico. Non è altissima; e, del resto, è evidente che nessun industriale sano di mente metterebbe un potente veleno nel proprio vino. Tuttavia, secondo i testi di tossicologia, è circa cinque volte più tossico dell' alcol etilico, che non è poi dire tanto poco. Nel 1937, il suo uso incauto in un farmaco ha provocato in America sessanta morti, che ne avevano ingerito una decina di grammi al giorno per diversi giorni consecutivi. Come si vede, siamo sui limiti del pericolo, se è vero che alcune bottiglie austriache ne contenevano 6 grammi per litro e anche più. Inoltre, è sempre arduo prevedere che effetto provocheranno due veleni (qui, l' alcol e il glicole), ingeriti simultaneamente: possono potenziarsi a vicenda, o viceversa l' uno può inibire l' altro; tutte questioni di cui quei produttori non pare si siano preoccupati. Si spiega facilmente perché il glicole sia stato usato. In molti paesi è vietato addolcire i vini con zucchero o con glucosio; ora, il glicole ha un sapore dolciastro che a me è decisamente sgradevole, ma che pare simuli quello di alcuni vini pregiati. Dal punto di vista del vinificatore disposto alla frode, ha un vantaggio sostanziale: è una sostanza pudica e poco appariscente, la sua presenza non salta agli occhi né del chimico analista né del consumatore. Ora, al chimico si richiede di controllare se un prodotto è conforme a determinare norme; non gli si può chiedere di accertarsi che il prodotto non contenga imprevedibili sostanze estranee, perché i composti chimici noti sono milioni. A quanto pare, un enologo austriaco dalla facile astuzia, e dalla scarsa correttezza professionale, ha dato ai suoi molti clienti il consiglio frodolento: volete dolcificare i vostri vini troppo "secchi"? La legge vi vieta gli zuccheri, che del resto non sfuggirebbero all' analisi: voi allora aggiungete il glicole, che è un po' meno innocuo e dolcifica un po' meno, ma che nessun chimico penserà di andare a cercare. E infatti, per chissà quanti anni, nessun chimico lo ha trovato: infatti, il chimico trova il composto che cerca (quando c' è: a volte, se è poco esperto, anche quando non c' è), ma per trovare quello che non cerca deve essere estremamente abile o sfacciatamente fortunato. Si spiega meno facilmente perché, in certi vini, se ne sia trovata una percentuale talmente bassa da non poter avere alcun effetto, né positivo (di addolcire) né negativo (di nuocere al bevitore). Ma il vino passa per parecchie mani: non è escluso che vino abusivamente dolcificato sia stato miscelato con vino genuino da qualche produttore, forse inconsapevole della frode: non per questo egli sarà meno responsabile, e non gli sarà facile adesso provarne la sua innocenza.

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Come di norma, quando il mulino cominciò a macinare male le palle vennero estratte per sostituirle con altre nuove; ebbene, in buona parte non erano più sferiche, ma presentavano dodici facce pentagone abbastanza regolari; erano insomma pentagonododecaedri con gli spigoli arrotondati. Ho chiesto a molti colleghi, e non mi risulta che il fatto si sia mai verificato in altri mulini o in altre fabbriche. Perché è avvenuto, e perché quella volta sola? Se i tre corpi del reato, improbabili ma non certo paranormali, non fossero lì a dimostrare di esistere con la loro ostinata presenza, penserei che la mia memoria dei tre eventi da cui essi sono nati si fosse inquinata o accresciuta con gli anni, come avviene della memoria dei sogni premonitori.

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Sembrano a loro agio come pesci nell' acqua: si spostano con eleganza nel loro abitacolo, ormai abbastanza spazioso, sospingendosi con colpetti delle mani contro appigli invisibili, e navigano lisci per l' aria, approdando poi sicuri al loro posto di lavoro. Altre volte li abbiamo visti conversare con naturalezza fra loro, uno "a testa in su" e l' altro "a testa in giù" (ma è chiaro che in orbita non c' è più né su né giù); o farsi a vicenda scherzi infantili: uno schizzava coll' unghia del pollice una caramella che volava lenta lenta in linea retta per centrare poi la bocca aperta del collega. Altre volte abbiamo visto un astronauta spremere acqua nell' aria da un contenitore di plastica: l' acqua non cadeva né si disperdeva, ma si assestava in una massa tondeggiante, che poi, obbedendo alla pur debole tensione della superficie, assumeva pigramente la forma di una sfera. Che cosa ne avranno fatto poi? Non deve essere stato facile toglierla di torno senza danneggiare i delicati congegni che gremivano le pareti. Mi domando che cosa si aspetti per realizzare un documentario cucendo insieme queste visioni, trasmesse mirabilmente dai satelliti in volo fulmineo al di sopra delle nostre teste e della nostra atmosfera. Un film così fatto, attinto alle fonti americane e sovietiche, e commentato in modo intelligente, insegnerebbe tante cose a tutti. Avrebbe certamente più successo delle tante melensaggini che ci vengono propinate, e anche dei film a luce rossa. Spesso mi sono anche domandato che senso abbiano, e come siano stati realizzati, gli esperimenti o addirittura i corsi di simulazione a cui verrebbero sottoposti gli aspiranti astronauti, e di cui parlano i giornalisti come se niente fosse. A quanto pare, l' unica tecnica pensabile sarebbe quella di rinchiudere i candidati in un veicolo in caduta libera: un aereo, o un ascensore come quello che Einstein aveva postulato per l' esperimento concettuale atto a illustrare la relatività ristretta. Ma un aereo, anche in caduta verticale, è frenato dalla resistenza dell' aria, e un ascensore (meglio un discensore) anche dall' attrito contro le guide. In entrambi i casi l' assenza di peso (l' abaria per i grecisti a tutti i costi) non sarebbe completa; e anche nel caso più favorevole, quello abbastanza terrificante di un aereo che precipiti a picco dall' altezza di dieci o venti chilometri, magari aiutandosi con i motori nel tratto terminale, a conti fatti non durerebbe che qualche decina di secondi, troppo poco per un allenamento e per misurazioni di dati fisiologici. E poi bisognerà pure frenare .... Eppure, una "simulazione" di questa condizione decisamente non-terrestre l' abbiamo fatta quasi tutti. L' abbiamo fatta in un sogno giovanile: nella versione più tipica, il sognatore si accorge con meraviglia felice che volare è facile come camminare o nuotare. Come mai era stato così stupido da non averci mai pensato prima? Basta remare con i palmi delle mani, ed ecco, ti stacchi dal pavimento, avanzi senza sforzo, ti rigiri, eviti gli ostacoli, infili con precisione porte e finestre, ti libri fuori all' aperto: non con il frullo frenetico delle ali dei passeri, non con la fretta vorace e stridula dei rondoni, ma con la maestà silenziosa delle aquile e delle nuvole. Da dove ci viene questa anticipazione di una realtà oggi concreta? Forse è una memoria della specie, ereditata dai nostri proavi rettili acquatici. O forse invece questo sogno è un preludio di un futuro imprecisato in cui lo strappo ombelicale dal richiamo della madre terra sarà gratuito e ovvio, e prevarrà un modo di locomozione assai più nobile di quello sulle nostre due gambe complicate, discontinue, piene di attriti interni, e insieme bisognose dell' attrito esterno dei piedi contro il suolo. Di questa abaria così persistentemente sognata mi torna a mente una illustre versione poetica, l' episodio di Gerione nel xvii dell' "Inferno". Il "fiero animale", ricostruito da Dante su modelli classici, ma anche sulle dicerie dei bestiari medievali, è immaginario e insieme splendidamente reale. Sfugge al peso. In attesa dei due strani passeggeri, uno solo dei quali è soggetto alla gravità, si appoggia alla proda con l' avantreno, ma la sua coda mortifera flotta libera "nel vano", come la poppa di uno Zeppelin ormeggiato al pilone. Dante, all' inizio, se ne dichiara spaventato, ma poi quella magica discesa su Malebolge sequestra tutta l' attenzione del poeta-scienziato, paradossalmente intento allo studio naturalistico della sua creatura fittizia, di cui descrive con precisione la mostruosa e simbolica epidermide. Il breve reportage è singolarmente accurato, fino al dettaglio confermato dai piloti dei moderni deltaplani: poiché si tratta di un silenzioso volo planato, la percezione della velocità da parte del viaggiatore non è affidata né al ritmo delle ali né al rumore, ma solo alla sensazione dell' aria che "al viso e di sotto gli venta". Forse anche Dante, inconsapevolmente, ha riprodotto qui l' universale sogno del volo senza peso, a cui gli psicoanalisti attribuiscono significati problematici e inverecondi. La facilità con cui l' uomo si adatta all' assenza di peso è un affascinante mistero. Se si pensa che a molti il viaggiare per mare, o anche solo in automobile, dà luogo a fastidiosi disturbi, non si può che restare perplessi. In mesi di soggiorno nello spazio, gli astronauti non hanno lamentato che disagi passeggeri, e i medici che li hanno esaminati dopo la prova hanno riscontrato soltanto una lieve decalcificazione delle ossa e un' atrofia transitoria dei muscoli e del cuore: gli stessi effetti insomma, di una degenza a letto; eppure nulla della nostra lunga storia evolutiva ha potuto prepararci a una condizione così innaturale come la non-gravità. Abbiamo dunque margini di sicurezza vasti e imprevisti: il progetto visionario (uno dei suoi tanti) esposto da Freeman Dyson in "Turbare l' universo", di un' umanità migrante fra le stelle su vascelli dalle gigantesche vele sospinte gratis dalla luce stellare, potrà avere altri limiti, ma non quello dell' abaria: il nostro povero corpo, così indifeso davanti alle spade, ai fucili e ai virus, è a prova di spazio.

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Credete a chi ne ha fatto esperimento: provate a comparare il vecchio blu di Prussia, tutto compreso ancora abbastanza naturale, o il preistorico lapislazzuli, con il blu ftalocianina, e vedrete. La "plastica" è ritenuta cattiva, e questo mi rincresce, perché so di quanto ingegno sia figlia. L' originario aggettivo è diventato sostantivo, e il plurale ("materie plastiche") un assurdo singolare: infatti, sono ormai parecchie centinaia, tanto diverse fra loro quanto i metalli o i mammiferi, e sono oggetto di un' esecrazione che sa di mania proprio per la sua globalità. Ce n' è di buone, cioè solide, economiche e non inquinanti, e di cattive, viceversa; le buone possono diventare cattive se usate per scopi sbagliati, come chi facesse un vomere di piombo o un cavo telefonico di ferro. Il modo spregiativo "è solo di plastica" è gemello di "è solo un medico della mutua", e fa parte dell' universo riduttivo di coloro che J. Huxley ha acconciamente chiamato i "nientaltroché-isti" ("nothing-else-but-ists"). Questo dualismo senza sfumature è specialmente vigoroso in tutto quanto riguarda la salute. È recente il caso di un' acqua da tavola che, fino a qualche decennio fa, recava una vistosa etichetta: "La più radioattiva del mondo". La dicitura (che credo fosse veridica) si appoggiava a un vago nesso radio : energia : salute. La radioattività insomma era buona: infatti, a quel tempo si avevano ancora idee poco precise sugli effetti nocivi di un' esposizione prolungata alle radiazioni ionizzanti. Per fortuna, la radioattività di quell' acqua, per quanto relativamente alta, in termini assoluti era insufficiente a provocare qualsiasi effetto, sia buono sia cattivo; l' acqua era soltanto, e ovviamente, diuretica, come tutte le acque, radioattive o no, minerali, gasate, naturali, termali o di rubinetto. Quando i pericoli della radiazione sono stati riconosciuti, la dicitura, ridotta a un corpo minuscolo, è stata trasferita in calce all' etichetta. Infine, pochi anni fa, è sparita del tutto: l' acqua non ha cambiato nome, ma, prudentemente, viene attinta a una sorgente diversa, la cui radioattività è trascurabile. Qualcosa di simile è avvenuto in Francia con un tessuto di fibre sintetiche. Si era notato che a contatto del corpo umano esso dava luogo a scintille dovute a elettricità statica (come del resto hanno sempre fatto anche la lana e la seta); subito apparvero manifesti in cui un uomo vestito di "sintetico" ballonzolava felice su un fascio di fili lampeggianti: l' elettricità statica "faceva bene". Poi qualcuno ha varato la (altrettanto assurda) teoria che il mal d' auto fosse provocato proprio dall' accumulo sul veicolo dell' elettricità statica provocata dall' attrito dei copertoni sull' asfalto, e sono nate quelle buffe code che ancora si vedono appese ad alcuni paraurti. Le cariche statiche erano diventate cattive, e dovevano essere scaricate a terra. La credulità umana non ha limiti; o meglio, non ha limiti la fiducia dei pubblicitari nella credulità umana. Ci sono elementi chimici permanentemente cattivi: fra tutti primeggia lo zolfo, bello a vedersi come Lucifero, ma fetido e corrosivo. Brucia all' aria quasi volesse scimmiottare il carbone, ma genera un fumo caustico che distrugge i polmoni. Altri hanno avuto sorti varie, e fra questi è notevole il caso del cobalto. Fino all' avvento dei radioisotopi artificiali, "di cobalto" era solo il cielo per i letterati di poca fantasia; comunque, stava a indicare un blu bello oltre misura, un superblù. Adesso, dopo l' impiego del cobalto 60 nella terapia dei tumori, questo metallo ha acquisito risonanze sinistre: "Poveretto, gli fanno il cobalto". Eppure, a quanto sento, a molti ha ridonato la salute o la vita.

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Esiste insomma un confine abbastanza ben definito tra il pettegolezzo e la maldicenza, e tra questa e la calunnia (o l' accusa, se la colpa esiste). Inoltre, nel concetto di pettegolezzo mi pare sottinteso un elemento di segretezza: si spettegola a quattr' occhi, o al più in un ambiente con poche persone; fra intimi, insomma. Non mi sembrerebbe appropriato parlare di un pettegolezzo trasmesso a mezzo stampa o per tv. Il pettegolezzo è insomma un liquore da versare a piccole dosi in un orecchio, o magari in più d' uno, ma non in troppi, altrimenti cambia nome. Ciò detto annuncerei i seguenti capitoli: 1) Perché si spettegola. Io so una cosa che tu non sai; trasmettendotela, mi consolo, perché ho l' impressione gradevole di salire uno scalino. Sono diventato un insegnante, un docente, anche se per pochi minuti e su una materia esigua. Naturalmente, tu destinatario hai pieno diritto di (e ti senti spinto a) trasformarti a tua volta in docente, ritrasmettendo il mio messaggio o un altro qualsiasi, e consolandoti dei tuoi dispiaceri con questo piccolo piacere. 2) Il pettegolezzo piano. Consiste semplicemente nel riferire il messaggio al destinatario senza imporgli vincoli né limitazioni. È il caso più diffuso. Poiché i destinatari sono più di uno, questo pettegolezzo si diffonde con uno schema ramificato, e quindi, tendenzialmente, con legge esponenziale. Tende cioè a invadere l' ecumene, come avviene con le catene di Sant' Antonio; in generale non giunge a tanto, in primo luogo perché entra in concorrenza con altri messaggi più recenti, e quindi più appetiti, e pertanto tende a estinguersi; in secondo perché a ogni passaggio la notizia trasmessa si degrada, facendosi più vaga e insieme più ricca di dettagli spuri o sospetti. Da notizia, diventa diceria, sentito-dire, fino magari a nobilitarsi a leggenda. È raro che il pettegolezzo, come la calunnia, da "venticello" diventi realmente un "colpo di cannone". ") Il pettegolezzo vincolato: "Lo dico solo a te: non dire nulla a nessuno". Nell' xi capitolo dei "Promessi sposi", a proposito del mancato segreto del ricovero di Lucia nel monastero di Monza, il Manzoni osserva che questo schema. 4) L' esclusione del de quo, che mira appunto a evitare tale esito. "Dillo a chi vuoi, ma non a X", dove X è in generale l' oggetto del pettegolezzo, o comunque vi è implicato. Questa variante è recepita dal detto popolare che "l' ultimo a saperlo è il marito" (tradito). Si osserva sperimentalmente che in generale le cose vanno proprio così: forse perché il pettegolo si sente spiritualmente affine al coniuge infedele (anche lui, infatti, sta commettendo un illecito: ma la simpatia per l' infedele è comune a tutte le civiltà e letterature, a dispetto della legge e della morale); o perché, se rivelasse il fatto al naturale destinatario, farebbe finire il gioco troppo presto; o perché, invece, teme le conseguenze della rivelazione, come quando Macbeth aggredisce brutalmente il messaggero che gli porta la notizia del bosco di Birnam che sta salendo verso la rocca di Dunsinane. Se le cose vanno regolarmente, cioè se lo spettegolato non viene a sapere di esserlo, il grafo di questo tipo assume una forma caratteristica: un fitto intreccio di nervature, che circondano una piccola area bianca senza penetrarvi. 5) La fonte negata: "Dillo pure, ma non dire che te l' ho detto io"; oppure, in una variante, "non dire chi te l' ha detto". Denota estrema pusillanimità da parte del pettegolo; se compare, anche una sola volta, nella catena del pettegolezzo, la interrompe in modo irrimediabile, frustrando qualsiasi tentativo di ricostruzione, o di smentita, o magari di rappresaglia, da parte del danneggiato. Dedicherei la Conclusione al rapporto fra la credibilità del messaggio e la sua diffusione. Le due quantità non sono proporzionali, e neppure crescono insieme: anzi, si assiste alla vitalità di notizie assurde. Essa è parte della straordinaria vitalità intrinseca del fenomeno. Il pettegolezzo prospera sul terreno dell' ozio, forzato o volontario: nelle carceri, negli ospizi, nelle caserme, nei "sabati del villaggio"; e rispettivamente nelle villeggiature, nelle crociere, nei salotti. È irrepressibile, è una forza della natura umana. Chi ha obbedito alla natura trasmettendo un pettegolezzo, prova il sollievo esplosivo che accompagna il soddisfacimento di un bisogno primario. Torna a mente la terzina finale, genialmente ambivalente, di un sonetto del Belli dal titolo esplicito ("Na sciacquata de bbocca").

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Non nasconderti dietro l' ipocrisia della scienza neutrale: sei abbastanza dotto da saper valutare se dall' uovo che stai covando sguscerà una colomba o un cobra o una chimera o magari nulla. Quanto alla ricerca di base, essa può e deve proseguire: se l' abbandonassimo tradiremmo la nostra natura e la nostra nobiltà di fuscelli pensanti, e la specie umana non avrebbe più motivo di esistere.

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