Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Levi, Primo 15 occorrenze

Mi ero procurato un foglio di carta e un mozzicone di matita, e da molti giorni aspettavo che mi si presentasse l' opportunità di scrivere la minuta di una lettera, naturalmente in italiano, che avrei voluto consegnare ad un operaio italiano affinché la copiasse, la firmasse come sua, e la spedisse ai miei in Italia: a noi, infatti, era severamente vietato scrivere, ed ero sicuro che, pensandoci sopra un momento, avrei trovato il modo di compilare un messaggio chiaro abbastanza per loro, ed insieme tanto innocente da non destare l' attenzione della censura. Non avrei dovuto essere visto da nessuno, perché il solo fatto di scrivere era intrinsecamente sospetto (per quale motivo, e a chi, uno di noi avrebbe dovuto scrivere?), e il Lager ed il cantiere pullulavano di delatori. Dopo un' oretta di lavoro ai tubi, mi sentii abbastanza tranquillo da iniziare la stesura: i tubi scendevano dallo scivolo a intervalli radi, e nella cantina non si sentiva alcun rumore allarmante. Non avevo fatto i conti col passo silenzioso di Eddy: mi accorsi di lui quando mi stava già guardando. Istintivamente, o meglio stupidamente, aprii le dita; la matita cadde, ma il foglio scese a terra ondeggiando come una foglia morta. Eddy si avventò a raccoglierlo, poi mi stese a terra con uno schiaffo violento; ed ecco, mentre scrivo oggi questa frase, mentre batto la parola "schiaffo", mi accorgo di mentire, o almeno di trasmettere al lettore emozioni e notizie falsate. Eddy non era un bruto, non intendeva punirmi né farmi soffrire, ed uno schiaffo dato in Lager aveva un significato assai diverso da quello che potrebbe avere fra noi, oggi e qui. Appunto, aveva un significato, era poco più che un modo di esprimersi; in quel contesto voleva dire pressappoco "bada a te, guarda che l' hai fatta grossa, ti stai mettendo in pericolo, forse senza saperlo, e metti in pericolo anche me": ma fra Eddy rapinatore e giocoliere tedesco, e me giovane inesperto italiano frastornato e confuso, un discorso come quello sarebbe stato inutile, non capito (se non altro per ragioni linguistiche), stonato, perifrastico. Per questo stesso motivo, pugni e schiaffi correvano fra noi come linguaggio quotidiano, ed avevamo imparato presto a distinguere le percosse "espressive" da quelle altre, che venivano inflitte per ferocia, per creare dolore ed umiliazione, e che spesso conducevano a morte. Uno schiaffo come quello di Eddy era affine alla pacca che si dà al cane, o alla bastonata che si dà all' asino, per trasmettere loro, o rafforzare, un ordine o un divieto: poco di più insomma che una comunicazione non verbale. Fra le molte sofferenze del Lager, le percosse di questo genere erano di gran lunga le meno penose; il che equivale a dire che vivevamo in modo non molto diverso dai cani e dagli asini. Aspettò che mi rialzassi, e mi chiese a chi scrivevo. Gli risposi nel mio cattivo tedesco che non scrivevo a nessuno; avevo trovato per caso una matita, e stavo scrivendo per capriccio, per nostalgia, per sogno; sapevo bene che scrivere era vietato, ma sapevo anche che inoltrare una lettera era impossibile; gli assicurai che non avrei mai osato contravvenire alle regole del campo. Certo Eddy non mi avrebbe creduto, ma qualcosa dovevo pur dire, se non altro per indurlo a pietà: se mi avesse denunciato alla Sezione Politica, lo sapevo, per me c' era la forca, ma prima della forca un interrogatorio (quale interrogatorio!) per stabilire chi era il mio complice, e forse anche per avere da me l' indirizzo del destinatario in Italia. Eddy mi guardò con un' aria strana; poi mi disse di non muovermi, lui sarebbe ritornato entro un' ora. Fu un' ora lunga. Eddy ritornò nella cantina, aveva in mano tre fogli, fra cui il mio, e lessi subito sul suo viso che il peggio non sarebbe venuto. Non doveva essere uno sprovveduto, questo Eddy o forse il suo passato burrascoso gli aveva insegnato i fondamenti del tristo mestiere dello sbirro: aveva cercato fra i miei compagni due (non uno solo) che conoscessero il tedesco e l' italiano, e da loro, separatamente aveva fatto tradurre in tedesco il mio messaggio, avvisando entrambi che se le due traduzioni non fossero risultate uguali avrebbe denunciato alla Sezione Politica non solo me ma anche loro. Mi tenne un discorso, difficile da riportare. Mi disse che, per mia fortuna, le due traduzioni erano uguali e il testo non era compromettente. Che io ero matto: non c' erano altre spiegazioni, solo un matto avrebbe potuto pensare di mettere in gioco in quel modo la propria vita, quella del complice italiano che certamente avevo, quella dei miei parenti in Italia, e anche la sua carriera di Kapo. Mi disse che quello schiaffo era stato meritato, che anzi avrei dovuto ringraziarlo perché era stata una buona azione, di quelle che conducono in Paradiso, e lui, di professione "Strassenräuber", rapinatore di strada, di fare buone azioni aveva gran bisogno. Che infine non avrebbe dato corso alla denuncia, ma neppure lui sapeva bene perché: forse appunto perché ero matto, ma già gli italiani sono tutti notoriamente matti, buoni solo a cantare e a mettersi nei guai. Non credo di aver ringraziato Eddy, ma dopo di allora, pur senza provare alcuna attrazione positiva per i "colleghi" triangoli verdi, mi è capitato più volte di domandarmi quale sostanza umana si assiepasse dietro al loro simbolo, e di rimpiangere che nessuno della loro ambigua brigata abbia (che io sappia) raccontato la sua storia. Non so come Eddy sia finito. Poche settimane dopo il fatto che ho raccontato, scomparve per qualche giorno; poi lo abbiamo rivisto una sera, stava in piedi nel corridoio fra il filo spinato ed il reticolato elettrico, e portava appeso al collo un cartello con su scritto "Urning", e cioè pederasta, ma non sembrava né afflitto né preoccupato. Assisteva al rientro della nostra schiera con aria svagata, insolente ed indolente, come se nulla di quanto avveniva intorno a lui lo riguardasse.

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La Stella è stata abbastanza buona per me, non per il Tischler: ma veramente mi è capitato di assistere, molti anni dopo, a un funerale che si è svolto come lui mi aveva descritto, con la danza difensiva intorno al feretro. Ed è inesplicabile che il destino abbia scelto un epicureo per ripetere questa favola pia ed empia, intessuta di poesia, di ignoranza, di acutezza temeraria, e della tristezza non medicabile che cresce sulle rovine delle civiltà perdute.

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Oggi però Cesare non è più il reduce estroso, cencioso ed indomabile della Bielorussia 1945, e neppure il funzionario senza macchia della Roma 1965; incredibilmente, è un pensionato sessantenne, abbastanza tranquillo, abbastanza saggio, provato duramente dal destino, e mi ha sciolto dal divieto, autorizzandomi a scrivere "prima che te passi la vojja". Prima dunque che mi passi la voglia mi accingo a raccontare qui il modo in cui Cesare, il 2 di ottobre del 1945, stomacato dai ghirigori e dalle soste interminabili della tradotta che ci stava riportando in Italia, ed impaziente di mettere in atto le sue capacità inventive e la mostruosa libertà che ci era stata donata dal destino dopo la prova di Auschwitz, ci abbandonò perché aveva deciso di ritornare a casa in aeroplano. Magari dopo di noi, ma non come noi: non affamato, lacero, stanco, intruppato, scortato dai russi, su un estenuante treno-lumaca. Voleva una rentrée gloriosa, un' apoteosi. Ne vedeva i pericoli, ma "o a Napoli in carozza, o in màchina a fa' er carbone". La nostra tradotta, col suo carico variopinto di millequattrocento italiani sulla tortuosa via del ritorno, stava confitta da sei giorni nella pioggia e nel fango di un paesino della frontiera fra la Romania e l' Ungheria, e Cesare era furioso d' ozio forzato e d' impotenza-impazienza. Mi invitò a seguirlo, ma io rifiutai perché l' avventura mi spaventava; allora prese brevi accordi col Signor Tornaghi, salutò tutti e partì con lui. Il Signor Tornaghi era un mafioso del Nord, di professione ricettatore. Era un milanese sanguigno e cordiale sui quarantacinque anni: nei nostri vagabondaggi precedenti si era distinto per l' abbigliamento quasi elegante, che del resto era per lui un' abitudine, un simbolo di condizione sociale ed una necessità imposta dalla sua professione. Fino a pochi giorni prima aveva addirittura ostentato un cappotto col bavero di pelliccia, ma poi l' aveva venduto per fame. Un socio così per Cesare andava benissimo: Cesare non ha mai avuto fisime di casta o di classe. I due presero il primo treno in partenza per Bucarest, cioè in direzione contraria alla nostra, e nel corso del viaggio Cesare insegnò al Signor Tornaghi le principali preghiere del rituale ebraico, e da lui si fece insegnare il Pater, il Credo e l' Avemaria, perché aveva già in mente un programma minimale per il primo impianto a Bucarest. A Bucarest arrivarono senza incidenti, ma dando fondo a tutte le loro poche risorse. Nella metropoli sconvolta dalla guerra ed incerta dei suoi prossimi destini, i due si dedicarono per alcuni giorni a mendicare, imparzialmente, nei conventi e alla Comunità Israelitica: si presentavano volta a volta come due ebrei scampati alla strage, o come due pellegrini cristiani in fuga davanti ai sovietici. Non raccolsero molto, si spartirono i proventi e li investirono in abiti: il Tornaghi per restaurare l' aspetto onesto che la sua professione richiede, e Cesare per far fronte al secondo stadio del suo piano. Ciò fatto, si separarono, e di quanto sia avvenuto al Signor Tornaghi nessuno ha più saputo nulla. Cesare, in giacca e cravatta dopo un anno di cranio rapato e di panni a strisce da galeotto, si sentiva agli inizi come stranito, ma non tardò a ritrovare la sicurezza necessaria per il nuovo ruolo che intendeva assumere, e che era quello dell' amante latino: poiché la Romania (Cesare se n' era accorto presto) è un paese assai meno neolatino di quanto assicurino i testi. Cesare non parlava romeno, evidentemente, né alcuna lingua fuori dell' italiano, ma le difficoltà di comunicazione non gli furono d' impedimento. Gli furono anzi d' aiuto, perché è più facile dire bugie quando si sa di essere capiti male, e del resto nella tecnica del corteggiamento il linguaggio articolato ha una funzione secondaria. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, Cesare incappò in una ragazza che rispondeva ai suoi requisiti: era di famiglia ricca e non faceva troppe domande. Sul suocero putativo le notizie fornite da Cesare sono vaghe; era uno dei padroni dei pozzi di petrolio di Ploesti, e-o direttore di una banca, e abitava in una villa il cui cancello era affiancato da due leoni di marmo. Ma Cesare è un pesce che nuota in tutte le acque, e non mi stupisce che sia stato accolto bene in quella famiglia di borghesi facoltosi, certo già spaventati dai prossimi rivolgimenti politici del loro paese: chissà, forse una figlia sposata in Italia poteva essere vista come una futura testa di ponte. La ragazza ci stette. Cesare fu presentato, invitato nella villa dei leoni , portò mazzi di fiori e si fidanzò ufficialmente. Fu chiamato a colloquio col futuro suocero, e non fece mistero della sua qualità di reduce dal Lager. Gli accennò che, per il momento, era a corto di denaro: gli avrebbe fatto comodo un piccolo prestito, o un anticipo sulla dote, per sistemarsi in qualche modo in città in attesa dei documenti per le nozze e di aver trovato un lavoro. La ragazza ci stette ancora: era un tipo di grinza, aveva capito subito tutto, da vittima dell' imbroglio era diventata complice; l' avventura esotica era di suo gusto, anche se sapeva bene che sarebbe finita presto, e dei soldi del padre non le importava niente. Cesare ottenne i quattrini e sparì. Pochi giorni dopo, verso la fine di ottobre, si imbarcò sull' aereo per Bari. Aveva vinto, dunque; rimpatriava sì dopo di noi (che avevamo ripassato il Brennero il 19 del mese), e quell' imbroglio gli era costato parecchio, in forma di compromessi di coscienza e di un affare sentimentale troncato a metà, ma tornava in volo, come i re, e come aveva promesso a se stesso e a noi impantanati nel fango romeno. Che Cesare sia disceso a Bari dal cielo non ci sono dubbi. È stato visto da numerosi testimoni che erano accorsi ad aspettarlo, ed essi non hanno dimenticato la scena perché Cesare, appena ebbe messo piede sul suolo, fu fermato dai Carabinieri, a quel tempo ancora Reali. La ragione era semplice: dopo che l' aereo era decollato da Bucarest, i funzionari della compagnia aerea si erano accorti che i dollari che Cesare aveva avuti dal suocero, e con cui aveva pagato il biglietto del viaggio, erano falsi, e avevano subito spedito un fonogramma all' aeroporto di arrivo. Non è chiaro se l' ambiguo suocero romeno abbia agito in buona fede, oppure se abbia fiutato l' inganno e si sia vendicato preventivamente, punendo Cesare e ad un tempo liberandosi di lui. Cesare fu interrogato, spedito a Roma con foglio di via e un viatico di pane e fichi secchi, nuovamente interrogato e poi rilasciato definitivamente. È questa la storia di come Cesare sciolse il suo voto, e scrivendola qui ho sciolto un voto anch' io. Può essere imprecisa in qualche particolare, perché si fonda su due memorie (le sua e la mia), e sulle lunghe distanze la memoria umana è uno strumento erratico, specialmente se non è rafforzata da souvenirs materiali, e se invece è drogata dal desiderio (anche questo suo e mio) che la storia narrata sia bella; ma il dettaglio dei dollari falsi è certo, ed ingrana con fatti che appartengono alla storia europea di quegli anni. Dollari e sterline falsi circolavano in abbondanza, verso la fine della seconda guerra mondiale, in tutta l' Europa e in specie nei Paesi balcanici; fra l' altro, erano stati usati dai tedeschi per pagare in Turchia la spia bifronte Cicero, la cui storia è stata raccontata più volte e in vari modi: anche qui, dunque, a risposta di un inganno. Si dice in proverbio che il denaro è lo sterco del diavolo, e mai denaro è stato più stercorario e più diabolico di quello. Esso veniva stampato in Germania, per inflazionare la circolazione monetaria in campo nemico, per seminare sfiducia e sospetto, e per "pagamenti" del tipo di quello accennato. In buona parte, a partire dal 1942, queste banconote erano prodotte nel Lager di Sachsenhausen, dove le SS avevano radunato circa centocinquanta prigionieri d' eccezione: erano grafici, litografi, fotografi, incisori e falsari che costituivano il "Kommando Bernhard", piccolo Lager segretissimo di "specialisti" entro la recinzione del più grande Lager, abbozzo delle saraski staliniane che saranno descritte da Solzenicyn in "Il primo cerchio". Nel marzo 1945, davanti all' incalzare delle truppe sovietiche, il Kommando Bernhard fu trasferito in blocco, dapprima a Schlier-Redl-Zipf, poi (il 3 maggio 1945, a pochi giorni dalla capitolazione) a Ebensee: erano entrambi Lager dipendenti da Mauthausen. Pare che i falsari abbiano lavorato fino all' ultimo giorno, e che poi le matrici siano state gettate in fondo a un lago.

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Quando capitano queste cose, novantanove volte su cento è un granello di polvere (non si lavora mai abbastanza pulito) o un difetto microscopico dell' emulsione ; però sussiste anche la minuscola probabilità che si tratti di una Nova, e bisogna fare rapporto, salvo conferma. Addio gita: avrebbe dovuto ripetere la foto le due notti successive. Cosa avrebbe detto a Judith e ai ragazzi?

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Ci furono varie schermaglie con l' Alfasud che gli era stata sorteggiata come avversario, l' uomo era abbastanza destro e riuscì a tenersi largo per due o tre minuti, poi l' auto lo investì, in 1* marcia ma rudemente, e fu sbalzato a una dozzina di metri. Sanguinava dalla testa, venne il medico, lo dichiarò inabile e i barellieri lo portarono via fra i fischi del pubblico. Il vicino di Nicola era indignato, diceva che quel Blitz, che poi si chiamava Craveri, era un simulatore, che si faceva ferire apposta, che avrebbe fatto meglio a cambiare mestiere, anzi avrebbero dovuto farglielo cambiare d' ufficio, dalla Federazione: togliergli il tesserino e rimetterlo nella lista dei disoccupati. A proposito del terzo, che di nuovo aveva contro un' utilitaria, una Renault_4, gli fece poi notare che queste erano più temibili delle auto grandi e pesanti. _ Per conto mio, metterei tutte Minimorris: hanno ripresa, sono maneggevoli . Con quei bestioni da 1600 in su non capita mai niente: sono buoni per i forestieri , solo fumo negli occhi _ . Alla terza carica, il gladiatore attese l' auto senza muoversi, all' ultimo istante si buttò piatto a terra e la macchina gli passò sopra senza toccarlo. Il pubblico urlò di entusiasmo, molte donne gettarono fiori e borsette nell' arena, una anche una scarpa, ma Nicola apprese che quell' impresa spettacolare non era veramente pericolosa. Si chiamava "la rodolfa" perché l' aveva inventata un gladiatore che si chiamava Rodolfo: era poi diventato famoso, aveva fatto carriera politica e adesso era un pezzo grosso del Coni. Seguì, come d' abitudine, un intermezzo comico, un duello fra due sollevatori a forca. Erano dello stesso modello e colore, ma uno portava dipinta tutto intorno una fascia rossa e l' altro una fascia verde. Pesanti com' erano, manovravano a fatica, affondando nella sabbia fin quasi al mozzo. Cercarono invano di spingersi indietro, con le forche intrecciate insieme come i cervi quando lottano; poi il verde si disimpegnò, fece una rapida marcia indietro, e percorrendo una curva stretta andò a cozzare col retrotreno contro la fiancata del rosso. Il rosso retrocedette a sua volta, ma poi invertì rapidamente la marcia e riuscì a infilare le forche sotto la pancia del verde. Le forche si sollevarono, il verde oscillò e poi crollò su un lato, mostrando sconciamente il differenziale e la marmitta dello scappamento. Il pubblico rise ed applaudì. Il quarto gladiatore aveva contro una Peugeot tutta scassata. Il pubblico incominciò subito a gridare "camorra": infatti, il guidatore aveva la sfacciataggine di accendere addirittura il lampeggiatore prima di sterzare. La quinta entrata fu uno spettacolo. Il gladiatore aveva grinta, e mirava visibilmente a spaccare non solo il parabrezza, ma anche la testa del pilota, e non ci riuscì per un pelo. Evitò di precisione tre cariche, con grazia indolente, senza neanche alzare il martello; alla quarta balzò in aria come una molla davanti al muso della macchina, ricadde sul cofano, e con due violente martellate sbriciolò il cristallo del parabrezza. Nicola sentì il muggito della folla, su cui si distaccò un breve grido strozzato di Stefania che si era stretta a lui. Il pilota sembrava accecato: invece di frenare accelerò e finì di sbieco contro la barriera di legno, l' auto ribaltò e si coricò su un fianco imprigionando nella sabbia un piede del gladiatore. Questo, pazzo di furia, attraverso il vano del parabrezza continuava a menare martellate contro la testa del pilota, che tentava di uscire dalla portiera rivolta verso l' alto. Lo si vide finalmente uscire, col viso insanguinato, strappare il martello al gladiatore e stringergli il collo con le due mani. Il pubblico urlava una parola che Nicola non capiva, ma il suo vicino era rimasto tranquillo, e gli spiegò che chiedevano al direttore di gara che gli fosse risparmiata la vita, il che infatti avvenne. Entrò rapida in pista una camionetta dell' Autosoccorso Aci, e in un momento l' auto fu rimessa in piedi e rimorchiata via. Il pilota e il gladiatore si strinsero la mano fra gli applausi, e poi si incamminarono verso gli spogliatoi salutando, ma dopo pochi passi il gladiatore vacillò e cadde, non si capì se morto o solo svenuto. Caricarono anche lui sull' autosoccorso. Mentre entrava nell' arena il grande Lorusso, Nicola si accorse che Stefania si era fatta molto pallida. Provava un vago rancore contro di lei, e gli sarebbe piaciuto restare ancora per fargliela pagare: solo per questo, perché di Lorusso non gli importava proprio niente. Per ragioni di principio avrebbe preferito che fosse Stefania a pregare lui di andare via, ma la conosceva, e sapeva che non si sarebbe mai piegata a farlo; così le disse che lui ne aveva abbastanza e se ne andarono. Stefania non stava bene, aveva degli impulsi di vomito, ma alle sue domande rispose ruvidamente che era la salsiccia che aveva mangiato a cena. Rifiutò di prendere un amaro al bar, rifiutò di passare la sera con lui, rifiutò tutti gli argomenti di conversazione che lui le offriva: doveva proprio stare poco bene. Nicola la accompagnò a casa, e si accorse che anche lui aveva poco appetito, e neppure aveva voglia di fare la solita partita a bigliardo con Renato. Bevve due cognac e si mise a letto.

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Abbastanza bene. È libera stasera? No? Peccato. Approvata con 19. Si accomodi pure. Ecco il libretto. Arrivederci _. Per parlare, si era cacciata la noce fra la guancia e la mandibola. Amelia ritirò il libretto e se ne andò senza salutare. Doveva proprio essere vera quella storia di criceti che si mormorava nei corridoi. Sulla soglia ebbe la tentazione di ritornare in aula e di rifiutare il voto, ma poi pensò che se avesse dovuto ridare l' esame le cose sarebbero potute andare anche peggio. Salì sul filobus scese al capolinea e prese un sentiero nel bosco che conosceva bene: tanto, fino a sera nessuno a casa l' avrebbe aspettata. Mancuso era un asino, su questo non c' era discussione. Forse aveva delle scusanti, forse la storia del criceto era vera, ma guai ad andare troppo in là con le giustificazioni; se un ferroviere fa deragliare un treno, va processato e non perdonato, anche se suo nonno era un caprone. Non siamo razzisti, ma dire che un somaro è un somaro, e un villano è un villano, non è razzismo, chiaro? Il sentiero era piano, ombroso e solitario, e camminando Amelia si calmò. C' erano fiori sul margine, modesti ma graziosi: primule, miosotis, qualche fiorellino bianco di fragole, ed Amelia se ne sentiva attratta. Non è strano sentirsi attratti dai fiori, ma lei se ne sentiva attratta in un modo strano: Amelia si conosceva bene, e sapeva che quel modo era strano. Anche se comune a molti e a molte, e non tutti col sangue di larice nelle vene. Ci pensava, continuando a camminare: doveva essere ben grigio, ben pieno di noia il buon tempo antico, quando gli uomini erano attratti solo dalle donne, e le donne dagli uomini. Adesso, molti erano come lei: non tutti, certo, ma molti giovani, davanti ai fiori, alle piante, a qualunque animale, alla loro vista, al loro odore, all' ascoltarne le voci, o anche solo il fruscio, si accendevano di desiderio. Pochi lo soddisfacevano (via, non sempre era facile soddisfarlo), ma anche insoddisfatto, quel desiderio così vario, così vivo e sottile, li arricchiva e li nobilitava. Era stupido fermarsi alla superficie, al moralismo puritano, e annoverare la disfilassi fra le catastrofi. Da più di un secolo l' umanità si era ubriacata di profezie catastrofiche: ora, la morte nucleare non era venuta, la crisi energetica sembrava superata, l' esplosione demografica si era estinta, e a scorno di tutti i profeti il mondo stava invece diventando un altro sul filo della disfilassi, che nessun futurologo aveva pronosticata. Ed era strano, strano e meraviglioso, che la natura sconvolta avesse ritrovato una sua coerenza. Insieme con la fecondità fra specie diverse era nato il desiderio; talvolta grottesco e assurdo, talvolta impossibile, talvolta felice. Come il suo: o come quello di Graziella perduta dietro i gabbiani. Certo, c' erano i rosicchiamenti di Mancuso (forse non era che un maleducato), ma ogni anno, ogni giorno, nascevano specie nuove, più in fretta di quanto l' esercito dei naturalisti gli potesse trovare un nome; alcune mostruose, altre graziose, altre ancora inaspettatamente utili, come le querce da latte che crescevano nel Casentino. Perché non sperare nel meglio? Perché non confidare in una nuova selezione millenaria, in un uomo nuovo, rapido e forte come la tigre, longevo come il cedro, prudente come le formiche? Si fermò davanti ad un ciliegio in fiore: ne accarezzò il tronco lucido in cui sentiva salire la linfa, ne toccò leggera i nodi gommosi, poi si guardò intorno e l' abbracciò stretto, e le parve che l' albero le rispondesse con una pioggia di fiori. Se li scosse di dosso ridendo: "Sarebbe bella se mi capitasse come alla bisnonna!" Ebbene, perché no? Era meglio Fabio o il ciliegio? Meglio Fabio, senza dubbio, non bisogna cedere agli impulsi del momento: ma in quel momento Amelia fu consapevole di desiderare che in qualche modo il ciliegio entrasse in lei, fruttificasse in lei. Giunse alla radura e si sdraiò fra le felci, felce lei stessa, sola leggera e flessibile nel vento.

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Insomma non si sta mai abbastanza attenti. Guai se uno si distrae: come ai semafori. Dopo qualche settimana Ernesta e i colleghi incominciarono a prenderlo in giro perché il libro se lo portava sempre dietro. Lo leggeva in tutti i momenti liberi, ai capolinea, qualche volta appunto anche davanti ai semafori rossi quando i passeggeri non guardavano. Lo finiva e poi lo ricominciava dal principio, e ci trovava sempre delle cose nuove, allarmanti e interessanti. Ne parlava con tutti, anche, ma poi smise perché gli dicevano che era matto e maniaco, come se loro fossero stati fatti d' aria, come se anche loro non avessero dentro quell' arsenale da tenere d' occhio. Però era faticoso: ogni giorno di più. Ogni tanto Gino si accorgeva che si stava dimenticando di respirare: cioè, il fiato lo tirava, ma così alla spiccia, senza quelle finezze dell' ossigeno e dell' anidride carbonica, uno verso dentro e l' altra verso fuori, e allora si sentiva formicolare le mani e i piedi, segno che il sangue cominciava a inquinarsi. Insomma doveva fare mente locale e tirare il respiro lungo, venti o trenta volte: un giorno gli era successo mentre era di servizio, e i passeggeri lo stavano a guardare ma non osavano dirgli niente perché si prega di non parlare al manovratore. Può anche restare lì secco, il manovratore: ma si prega di non parlargli. Anche il cervello lo preoccupava, ma un po' meno: infatti, se Gino se ne preoccupava voleva dire che ragionava, cioè che il suo cervello funzionava, e se funzionava non c' era motivo di preoccuparsi. Però si preoccupava lo stesso, lui era fatto così. Si preoccupava per esempio di non dimenticare le cose che sapeva: tutto compreso, anche se uno non ha la laurea, di cose ne sa un bel numero, e devono essere tutte scritte dentro il cranio; se sono tante devono essere scritte molto piccole, e allora basta un niente a cancellarle. Non so, una emozione, un piccolo spavento, una sorpresa, e ti dimentichi l' alfabeto, o magari il codice della strada, così ti tocca rifare l' esame della patente. Il problema peggiore si capisce che era quello del cuore. Qui non si scherza, qui in ferie non si va mai: da quando nasci a quando muori. Il cervello può anche andare in vacanza, metti caso quando dormi o quando prendi una sbronza o anche solo quando guidi l' autobus, perché quando uno ci ha preso la mano del cervello non ne ha più bisogno, tanto è vero che guida pensando a tutt' altro. Anche i polmoni possono andare in vacanza qualche minuto: se no come farebbero i subacquei? Ma il cuore no, mai: non ha supplenti, non ha turni di riposo, non ha capolinea. Bestiale. Mai revisione, mai manutenzione. Servizio permanente effettivo. Eppure di qualche riparazione ne avrà pure bisogno anche lui, dopo trenta o quarant' anni di marcia. Si vede che gliele fanno mentre cammina: te lo immagini, cambiare una valvola o un pistone al Diesel mentre cammina? Finì che Gino cominciò veramente a sentire delle palpitazioni: come se il cuore si fermasse un momento, e poi prendesse la corsa per recuperare e rimettersi in orario. Se ne accorse anche il medico, prendendo le misure col centimetro sull' elettrocardiogramma: l' aritmia c' era proprio, poco da discutere. Non era una faccenda grave ma c' era. Sì, poteva continuare a fare il suo lavoro, ma prendere delle gocce e stare un po' più attento. Altro che attento: Gino oramai faceva fatica a stare dietro ai comandi del bus, come si poteva mettere attenzione al gas, alla frizione, al volante, ai semafori, alla manetta delle porte, al campanellino delle fermate, e insieme controllare il cuore e tutto il resto? Un giorno, mentre rallentava a una fermata, sentì tremare tutto, un rumore di ferraglia e gente che gridava. Aveva fatto la barba a un' auto parcheggiata lungo il marciapiede: fortuna che era in sosta vietata e che dentro non c' era nessuno. Però l' azienda lo tolse da manovratore e lo mise a fare pulizia nell' officina, che per uno con la sua anzianità era una vigliaccata. Nello stesso tempo non ci fu più modo di trovare l' Ernesta al telefono: rispondeva sempre la sorellina, come un pappagallo che gli avessero insegnato la lezione, che Ernesta era appena uscita e che non sapeva quando sarebbe tornata. Gino si accorse di essere solo, e gli venne voglia di scappare: si fece dare la liquidazione, fece la valigia e prese il primo treno che stava per partire.

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Tutti noi anziani, sposati o no, siamo sistemati abbastanza bene. Abbiamo ciascuno una cameretta, e tutte le camerette sono messe in fila e collegate da un corridoio. In ogni cameretta c' è un braciere, su cui si può fare un po' di cucina privata, e una veranda; il braciere lo usiamo molto, e la veranda poco. Abbiamo anche una lavanderia e un' infermeria per i malati. Le mogli sono tutte britanne, così non litigano fra loro: i bambini invece non fanno che litigare rotolandosi nel fango, ma la gente del luogo dice che il fango fa bene: in effetti, le malattie sono rare. Cara mamma, scrivimi e mandami notizie del paese: il servizio postale è discreto, le tue lettere mi arrivano in sessanta giorni, ed in poco più di sessanta giorni mi è arrivato anche il tuo pacco. Questo è il paese della lana, ma la lana di qui non è morbida e pulita come quella che fili tu. Ti ringrazio con affetto filiale: ogni volta che infilerò quelle calze, il mio pensiero volerà a te.

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Lavorava con applicazione ed abilità, in silenzio o canticchiando a bocca chiusa: dopo una mezz' ora il legno era già affusolato ad una estremità, e Achtiti lo controllava ad intervalli, piegandolo sul ginocchio per sentire se era già abbastanza cedevole. Forse percepì una traccia di impazienza nell' atteggiamento o nel commenti dei due, perché interruppe il suo lavorio, scappò fra le capanne, e ne ritornò accompagnato da un ragazzo. Gli affidò il secondo ramo ed un altro raschiatoio, e da allora in poi lavorarono in due: del resto, il ragazzo non era meno svelto di Achtiti, era evidente che anche per lui fare archi non era un mestiere nuovo. Quando i due legni furono assottigliati nella misura e sagoma giuste, Achtiti prese a lisciarli con un ciottolo ruvido, che a Wilkins parve un frammento di pietra da cote. _ Non sembra che abbia fretta, _ disse Goldbaum. _ I Siriono non hanno mai fretta: la fretta è una malattia nostra, _ rispose Wilkins. _ Loro però hanno altre malattie. _ Certo. Però non è detto che non si possa concepire una civiltà senza malattie. _ Cosa credi che voglia da noi? _ Io credo di averlo capito, _ disse Wilkins. Achtiti continuava a lisciare i legni con diligenza, rigirandoli da tutte le parti ed esplorandone la superficie con le dita e con gli occhi, che era costretto ad aguzzare perché era un po' presbite. Alla fine, legò insieme, sovrapponendole per un breve tratto, le due estremità non sgrossate e tese fra le punte una corda di budella ritorte: aveva una certa aria di orgoglio, e mostrò ai due che pizzicandola, la corda suonava a lungo, come quella di un' arpa. Mandò il ragazzo a prendere una freccia, prese la mira e la scagliò: la freccia si infisse tremolando nel tronco di una palma lontana una cinquantina di metri. Allora, con un gesto enfatico porse l' arco a Wilkins, facendogli cenno che era suo, lo tenesse, lo provasse. Poi cavò dalla scatola incominciata due fiammiferi, ne porse uno a Wilkins ed uno a Goldbaum, si accovacciò a terra, intrecciò le braccia sui ginocchi e rimase in attesa: ma senza impazienza. Goldbaum rimase interdetto, col suo fiammifero in mano; poi disse: _ Sì, credo d' aver capito anch' io. _ Già, _ rispose Wilkins; _ come discorso, è abbastanza chiaro: noi miseri Siriono, se non abbiamo un raschiatoio, ce lo facciamo; e se restiamo senza arco, col raschiatoio ci fabbrichiamo l' arco, e magari lo lisciamo anche, perché faccia piacere vederlo e tenerlo in mano. Voi stregoni stranieri, che rubate la voce degli uomini e la mettete in uno scatolino, siete rimasti senza fiammiferi: su, fabbricateli. _ Allora? _ Bisognerà spiegargli i nostri limiti _. A due voci, o meglio a quattro mani, cercarono di convincere Achtiti che è bensì vero che un fiammifero è piccolo, molto più piccolo di un arco (questo era un argomento a cui Achtiti sembrava tenere molto), ma che la capocchia del fiammifero conteneva una virtù (come spiegare?) residente lontano da loro, nel sole, nel profondo della terra, di là dei fiumi e della foresta. Erano penosamente consci dell' inadeguatezza della loro difesa: Achtiti sporgeva verso di loro le labbra a imbuto, scuoteva il capo, e diceva al ragazzo cose che lo facevano ridere. _ Gli dirà che siamo cattivi stregoni, furfanti buoni solo a vendere fumo, _ disse Goldbaum. Achtiti era un uomo metodico: disse qualche altra cosa al ragazzo, che afferrò l' arco ed alcune frecce e si mise a venti passi da loro con aria risoluta ; si allontanò, e tornò con uno dei coltelli ritrovati sul luogo del campo base, e che il fuoco aveva stemprati ed ossidati malamente. Raccattò da terra uno degli orologi e lo porse a Wilkins; Wilkins, col viso terreo di chi si presenta impreparato ad un esame importante fece un segno di impotenza: aprì la cassa dell' orologio e fece vedere ad Achtiti gli ingranaggi minuti, il bilanciere snello che non si fermava mai, i minuscoli rubini, e poi le proprie dita: impossibile! Lo stesso, o press' a poco, avvenne col registratore magnetico, che però Achtiti non voleva toccare: lo fece raccogliere da terra da Wilkins stesso, e si teneva le orecchie turate per timore di udirne la voce. E il coltello? Achtiti pareva voler fare intendere che si trattava di una specie di esame di riparazione, o insomma di una prova elementare, buona per qualsiasi sempliciotto, stregone o no: avanti, fabbricate un coltello. Un coltello, via, non è una specie di bestiolina con un cuore che batte, ed è facile ucciderla, ma molto difficile farla ritornare viva: non si muove, non fa rumori e si divide in due pezzi soltanto, e loro stessi ne possedevano tre o quattro, comperati dieci anni prima e pagati poco, una bracciata di papaie e due pelli di caimano. _ Rispondi tu: io ne ho abbastanza _. Goldbaum dimostrò minore talento mimico e senso diplomatico del suo collega; si sbracciò invano in una gesticolazione che neppure Wilkins comprese, ed Achtiti, per la prima volta, scoppiò a ridere: ma era un riso poco rassicurante. _ Che cosa volevi dirgli? _ Che forse saremmo riusciti a fare un coltello; ma che ci occorrevano delle pietre speciali, altre pietre che bruciano e che in questo paese non ci sono; molto fuoco e molto tempo. _ Io non avevo capito, ma lui probabilmente sì. Aveva ragione a ridere: avrà pensato che volevamo soltanto prendere tempo fino a che non vengano a prenderci. È il trucco numero uno di tutti gli stregoni e di tutti i profeti. Achtiti chiamò, ed arrivarono sette od otto guerrieri robusti. Afferrarono i due e li chiusero in una capanna di solidi tronchi; non c' erano aperture, la luce entrava soltanto dagli interstizi del tetto. Goldbaum Chiese: _ Credi che qui ci staremo a lungo? _; Wilkins rispose: _ Temo di no; spero di sì. Ma i Siriono non sono gente feroce. Si accontentarono di lasciarli là dentro ad espiare le loro bugie, fornendo loro acqua in abbondanza e poco cibo. Per qualche oscuro motivo, forse perché si sentiva offeso, Achtiti non si fece più vedere. Goldbaum disse: _ Io sono un bravo fotografo, ma senza lenti e senza pellicole .... Forse potrei fabbricare una camera oscura: cosa ne dici? _ Li faresti divertire. Ma ci chiedono qualche cosa di più: di dimostrare, in concreto, che la nostra civiltà è superiore alla loro: che i nostri stregoni sono più bravi dei loro. _ Non è che io sappia fare tante altre cose, con le mie mani. So guidare l' auto. So anche cambiare una lampadina o un fusibile. Disintasare un lavandino, attaccarmi un bottone; ma qui non ci sono né lavandini né aghi. Wilkins meditava. _ No, _ disse, _ qui ci vorrebbe qualcosa di più essenziale. Se ci fanno uscire, proverò a smontare il magnetofono; come sia fatto dentro non lo so bene, ma se c' è un magnete permanente siamo a posto: lo facciamo galleggiare sull' acqua di una scodella e gli regaliamo la bussola, e insieme l' arte di fare le bussole. _ Non credo che in un magnetofono ci siano dei magneti, _ rispose Goldbaum: _ e non sono neppure sicuro che una bussola gli serva molto. A loro basta il sole: non sono dei navigatori, e quando si mettono per la foresta seguono soltanto le piste segnate. _ Come si fa la polvere da sparo? Forse non è difficile: non basta mescolare carbone, zolfo e salnitro? _ Teoricamente sì: ma dove trovi il salnitro qui, in mezzo alle paludi? E lo zolfo ci sarà magari, ma chissà dove; e infine, a che cosa gli serve la polvere, se non hanno una canna forata qualunque? _ Ecco, mi viene un' idea. Qui la gente muore per un graffio: di setticemia o di tetano. Facciamo fermentare il loro orzo, distilliamo l' infuso e gli facciamo l' alcool; magari gli piace anche berlo, anche se non è tanto morale. Non mi pare che conoscano né eccitanti né stupefacenti: sarebbe una bella stregoneria. Goldbaum era stanco. _ Lievito non ne abbiamo, io non credo che sarei capace di selezionarne uno, e neppure tu. E poi vorrei vederti alle prese coi vasai locali, per farti costruire una storta. Forse non è del tutto impossibile, ma è un' impresa che ci costerebbe mesi, e qui è questione di giorni. Non era chiaro se i Siriono intendessero farli morire di fame, o se volessero soltanto mantenerli con la minima spesa, in attesa che arrivasse la lancia su per il fiume, o che maturasse in loro l' idea decisiva e convincente. Le loro giornate passavano sempre più torpide, in un dormiveglia fatto di calore umido, di zanzare, di fame e di umiliazione. Eppure, tutti e due, avevano studiato per quasi vent' anni, sapevano molte cose su tutte le civiltà umane antiche e recenti, si erano interessati a tutte le tecnologie primitive, alle metallurgie dei Caldei, alle ceramiche micenee, alla tessitura dei precolombiani: e adesso, forse (forse!) sarebbero stati capaci di scheggiare una selce perché Achtiti glielo aveva insegnato, e non erano stati in condizione di insegnare ad Achtiti proprio niente: solo a raccontargli a gesti meraviglie a cui lui non aveva creduto, ed a mostrargli i miracoli che loro due avevano portato con sé, fabbricati da altre mani sotto un altro cielo. Dopo quasi un mese di prigionia erano a corto di idee, e si sentivano ridotti all' impotenza definitiva. L' intero, colossale edificio della tecnologia moderna era fuori della loro portata: avevano dovuto confessarsi a vicenda che neppure uno dei ritrovati di cui la loro civiltà andava fiera poteva essere trasmesso ai Siriono. Mancavano le materie prime da cui partire o, se c' erano nelle vicinanze, loro non sarebbero stati capaci di riconoscerle o isolarle; nessuna delle arti che loro conoscevano sarebbe stata giudicata utile ai Siriono. Se uno di loro fosse stato bravo a disegnare, avrebbero potuto fare il ritratto di Achtiti, e se non altro destare la sua meraviglia. Se avessero avuto un anno di tempo, avrebbero forse potuto convincere i loro ospiti dell' utilità dell' alfabeto, adattarlo al loro linguaggio, ed insegnare ad Achtiti l' arte della scrittura. Per qualche ora discussero il progetto di fabbricare sapone per i Siriono: avrebbero ricavato la potassa dalla cenere di legno, e l' olio dai semi di una palma locale; ma a che cosa avrebbe servito il sapone ai Siriono? Abiti non ne avevano, e non sarebbe stato facile persuaderli dell' utilità di lavarsi col sapone. Alla fine, si erano ridotti ad un progetto modesto: avrebbero insegnato loro a fabbricare candele. Modesto, ma irreprensibile; i Siriono avevano sego, sego di pécari, che usavano per ungersi i capelli, ed anche per gli stoppini non c' erano difficoltà, si potevano ricavare dal pelo dei pécari stessi. I Siriono avrebbero apprezzato il vantaggio di illuminare a notte l' interno delle loro capanne. Certo avrebbero preferito imparare a fabbricarsi un fucile o un motore fuoribordo: le candele non erano molto, ma valeva la pena di provare. Stavano proprio cercando di rimettersi in contatto con Achtiti, per contrattare con lui la libertà contro le candele, quando sentirono un grande tramestio fuori della loro prigione. Poco dopo la porta fu aperta tra clamori incomprensibili, ed Achtiti fece loro cenno di uscire nella luce abbagliante del giorno: la lancia era arrivata. Il congedo non fu lungo né cerimonioso. Achtiti si era subito allontanato dalla porta della prigione; si accovacciò sui talloni voltando loro la schiena, e rimase immobile, come pietrificato, mentre i guerrieri Siriono conducevano i due alla sponda. Due o tre donne, ridendo e strillando, si scoprirono il ventre verso di loro; tutti gli altri del villaggio, anche i bambini, dondolavano il capo cantando "luu, luu", e mostravano loro le due mani molli e come disarticolate, lasciandole ciondolare dai polsi come frutti troppo maturi. Wilkins e Goldbaum non avevano bagaglio. Salirono sulla lancia, che era pilotata da Suarez in persona, e lo pregarono di partire più presto che poteva. I Siriono non sono inventati. Esistono veramente, o almeno esistevano fin verso il 1945, ma quanto si sa di loro fa pensare che, almeno come popolo, non sopravvivranno a lungo. Sono stati descritti da Allan R. Holmberg in una recente monografia ("The Siriono of Eastern Bolivia"): conducono un' esistenza minimale, che oscilla fra il nomadismo ed un' agricoltura primitiva. Non conoscono i metalli, non posseggono termini per i numeri superiori al tre, e, benché debbano sovente attraversare paludi e fiumi, non sanno costruire imbarcazioni; sanno però che un tempo le sapevano costruire, e si tramanda fra loro la notizia di un eroe, il cui nome era quello della Luna, che aveva insegnato al loro popolo (allora molto più numeroso) tre arti: accendere il fuoco, scavare piroghe e fabbricare archi. Di queste, oggi solo l' ultima sopravvive: anche il modo di fare il fuoco lo hanno dimenticato. Hanno raccontato a Holmberg che in un tempo non troppo lontano (due, tre generazioni addietro: press' a poco all' epoca in cui fra noi nascevano i primi motori a combustione interna, si diffondeva l' illuminazione elettrica e si cominciava a comprendere la fine struttura dell' atomo) alcuni fra loro sapevano fare il fuoco frullando uno stecco nel foro di un' assicella; ma a quel tempo i Siriono vivevano in un altro territorio, dal clima quasi desertico, in cui era facile trovare legna secca ed esca. Ora vivono fra paludi e foreste, in perpetua umidità: non trovando più legna secca, il metodo dell' assicella non è più stato praticato, ed è stato dimenticato. Il fuoco, però, l' hanno conservato. In ognuno dei loro villaggi o delle loro bande vaganti c' è almeno una donna anziana, il cui compito è di mantenere vivo il fuoco in un braciere di tufo. Quest' arte non è così difficile come quella di accendere il fuoco per strofinio, ma non è neppure elementare: specialmente nella stagione delle piogge occorre alimentare la fiammella coi fiori di una palma, che vengono fatti essiccare al calore della fiamma stessa. Queste vecchie vestali sono molto diligenti, perché se il loro fuoco muore anch' esse vengono messe a morte: non per punizione, ma perché vengono giudicate inutili. Tutti i Siriono che sono giudicati inutili perché incapaci di cacciare, di generare e di arare con l' aratro a piolo sono lasciati morire. Un Siriono è vecchio a quarant' anni. Ripeto, non sono notizie inventate. Sono state riportate dallo "Scientific American" nell' ottobre 1969, ed hanno un suono sinistro: insegnano che non dappertutto e non in ogni tempo l' umanità è destinata a progredire.

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_ Ne ho abbastanza, _ mi ha detto. _ Cambio. Mi licenzio, mi trovo un lavoro qualunque, magari ai mercati generali a scaricare la roba. Oppure parto, me ne vado; se uno viaggia, spende meno che a stare a casa, e per strada qualche modo di guadagnare si trova sempre, ma in fabbrica non ci vado più. Gli ho detto che ci pensasse su, che non bisogna mai prendere decisioni a caldo, che un posto in fabbrica non è da buttare via, e che ad ogni modo era meglio se mi raccontava le cose da principio. Rinaldo è iscritto all' università, ma fa i turni in fabbrica: fare i turni è spiacevole, si cambia orario e ritmo di vita tutte le settimane, bisogna insomma abituarsi a non abituarsi. In generale, ci riescono meglio le persone di mezza età che i giovani. _ No, non è questione di turni: è che mi è partita una cottura. Otto tonnellate da gettare. Una cottura che parte, vuol dire che solidifica a metà strada: che da liquida diventa gelatinosa, o anche dura come il corno. È un fenomeno che viene descritto con nomi decorosi come gelazione o polimerizzazione precoce, ma è un evento traumatico, brutto da vedersi anche a parte i quattrini che fa perdere. Non dovrebbe succedere, ma qualche volta succede, anche se si sta attenti, e quando succede lascia il segno. Ho detto a Rinaldo che piangere sul latte versato è inutile, e subito mi sono pentito, non era quella la cosa giusta da dirgli; ma che dire alla persona per bene che ha sbagliato, che non sa ancora come, e che si porta la sua colpa sulla schiena come una gerla piena di piombo? L' unica è offrirgli un cognac e invitarlo a parlare. _ Non è per il capo, vedi, e neppure per il padrone. È per la faccenda in sé, e per come è andata. Era una cottura semplice, l' avevo già fatta almeno trenta volte, tanto che la prescrizione la sapevo a memoria e non la guardavo neanche più .... Anche a me sono partite diverse cotture nel corso della mia carriera, e così so abbastanza bene di cosa si tratta. Gli ho chiesto: _ Non sarà mica per questo, che è successo il guaio? Credevi di sapere tutto a memoria, e invece hai dimenticato qualche dettaglio, o sbagliato una temperatura, o hai messo dentro qualche cosa che non ci andava? _ No. Ho controllato poi, e tutto era regolare. Adesso c' è il laboratorio che ci sta lavorando sopra, per cercare di capire il perché; io sono l' imputato, insomma, ma mi piacerebbe che se ho fatto uno sproposito venisse fuori. Te lo giuro, mi piacerebbe: preferirei che mi dicessero "disgraziato, hai fatto questo e quest' altro e non dovevi", piuttosto che stare qui a farmi delle domande. Ed è poi fortuna che non è morto nessuno, nessuno si è fatto male, e non si è neppure storto l' albero del reattore. C' è solo il danno economico, e se avessi i soldi, parola, lo pagherei io volentieri. Dunque. Toccava a me il turno del mattino, ero montato alle sei, e tutto era in ordine. Prima di smontare, Morra mi ha lasciato le consegne. Morra è uno vecchiotto, che viene dalla gavetta; mi ha lasciato il buono di produzione con tutti i materiali spuntati alle ore giuste, le schede della bilancia automatica, insomma non c' era niente da dire: non è certo uno che ti faccia degli imbrogli, e poi non aveva motivo, dal momento che tutto andava bene. Incominciava appena a fare giorno, si vedevano le montagne che sembravano a due passi. Io ho dato un' occhiata al termografo, che marcava giusto; sulla curva c' era perfino una gobba alle quattro del mattino, segnava quindici gradi in più, è una gobba che viene fuori tutti i giorni, sempre alla stessa ora, e né l' ingegnere né l' elettricista hanno mai capito perché; via, come se avesse preso l' abitudine di dire tutti i giorni la sua bugia, e capita appunto come ai bugiardi, che dopo un poco nessuno ci fa più caso. Ho dato un' occhiata anche dentro la specola del reattore: non c' era fumo, non c' era schiuma, la cottura era bella trasparente e girava liscia come acqua. Non era acqua, era una resina sintetica, una di quelle che sono formulate per indurire, ma solo dopo, negli stampi. Insomma io me ne stavo tranquillo, non c' era motivo di preoccuparsi. C' era ancora da aspettare due ore prima di cominciare coi controlli, e ti confesso che io pensavo a tutt' altro. Pensavo ... beh sì, pensavo a quella confusione di atomi e di molecole che c' erano dentro a quel reattore, ogni molecola come se stesse lì con le mani tese, pronta ad acchiappare la mano della molecola che passava lì vicino per fare una catena. Mi venivano in mente quei bravi uomini che avevano indovinato gli atomi a buon senso, ragionando sul pieno e sul vuoto, duemila anni prima che venissimo noi col nostro armamentario a dargli ragione, e siccome quest' estate, al campeggio, la ragazza mi ha fatto leggere Lucrezio, mi è tornato anche in mente "Còrpora cònsta-bùnt ex pàrtibus ìnfi-nìtis", e quell' altro che diceva "tutto scorre". Ogni tanto guardavo dentro la specola, e mi sembrava proprio di vederle, tutte quelle molecole che andavano in giro come le api intorno all' alveare. Insomma tutto scorreva e io avevo tutte le ragioni di stare tranquillo; anche se non avevo dimenticato quello che ti insegnano quando ti affidano un reattore. E cioè, che tutto va bene finché una molecola si lega con un' altra molecola come se ognuna avesse solo due mani: più che una catena, un rosario di molecole, non si può formare, magari lungo, ma niente di più. Però bisogna sempre ricordarsi che, fra le tante, ci sono anche delle molecole che di mani ne hanno tre, e questo è il punto delicato. Anzi, ci si mettono apposta: la terza mano è quella che deve far presa dopo, quando vogliamo noi e non quando vogliono loro. Se le terze mani fanno presa troppo presto, ogni rosario si lega con due o tre altri rosari, e in definitiva si forma una molecola sola, una molecola-mostro grossa come tutto il reattore, e allora si sta freschi: addio al "tutto scorre", non c' è più niente che scorre, tutto si blocca e non c' è più niente da fare. Lo stavo osservando, mentre raccontava, ed evitavo di interromperlo, benché mi stesse dicendo cose che so. Raccontare gli faceva bene: aveva gli occhi lustri, forse anche per effetto del cognac, ma si stava calmando. Raccontare è una medicina sicura. _ Bene: come ti stavo dicendo, io davo uno sguardo ogni tanto alla cottura, e pensavo alle cose che ti ho detto, e anche ad altre che non c' entrano. I motori ronzavano tranquilli, la camma del programmatore girava piano piano, e il pennino del termografo disegnava sul quadrante un profilo uguale preciso a quello della camma. Dentro al reattore si vedeva l' agitatore che girava regolare, e si vedeva che la resina a poco a poco diventava più spessa. Verso le sette incominciava già ad appiccicarsi alla parete e a fare delle bollicine: questo è un segno che ho scoperto io, e l' ho anche insegnato a Morra e a quello del terzo turno, che siccome cambia sempre non so neanche come si chiama; è segno che la cottura è quasi buona, e che è ora di prendere il primo campione e provare la viscosità. Scendo al piano di sotto, perché un reattore da ottomila non è un giocattolo, e sporge due metri buoni sotto il pavimento; e mentre sono lì e armeggio col rubinetto del prelievo, sento che il motore dell' agitatore cambia nota. Cambia di poco, forse neanche un diesis, ma era un segno anche questo, e un segno mica bello. Ho sbattuto via il provino e tutto, in un attimo ero sopra con l' occhio incollato alla specola, e si vedeva un gran brutto spettacolo. Tutta la scena era cambiata: le pale dell' agitatore tagliavano una massa che sembrava polenta, e che veniva sempre più su a vista d' occhio. L' agitatore l' ho fermato, tanto oramai non serviva più a niente, e sono rimasto lì come incantato, con le ginocchia che mi tremavano. Cosa fare? Per scaricare la cottura, non c' era più tempo, e neppure per chiamare il dottore, che a quell' ora era ancora a letto: e del resto, quando una cottura parte è come quando muore uno: i rimedi buoni vengono in mente dopo. Veniva su una massa di schiuma, lenta ma senza pietà. Venivano a galla delle bolle grosse come una testa d' uomo, ma non rotonde: storte, di tutte le forme, con la parete striata come di nervi e di vene; scoppiavano e subito ne nascevano delle altre, ma non come nella birra, dove la schiuma scende, ed è raro che esca dal bicchiere. Lì continuava a salire. Ho chiamato gente, sono venuti in diversi, anche il caporeparto, e ognuno diceva la sua ma nessuno sapeva che cosa fare, e intanto la schiuma era già a mezzo metro sotto la specola. Ogni bolla che scoppiava, volavano degli sputacchi che si appiccicavano sotto il cristallo della specola e lo impiastravano; di lì a poco non si sarebbe visto più niente. Ormai era chiaro che indietro la schiuma non tornava: sarebbe salita a intasare tutti i tubi del refrigerante, e allora addio. Con l' agitatore fermo, c' era silenzio, e si sentiva un rumore che cresceva, come nei film di fantascienza quando sta per capitare qualcosa di orribile: un fruscio e un borbottio sempre più forti, come un intestino malato. Era la mia molecola grossa otto metri cubi, con dentro intrappolato tutto il gas che non riusciva più a farsi strada, che voleva venir fuori, partorirsi da sé. Io non me la sentivo né di scappare né di restare lì ad aspettare: ero pieno di paura, ma mi sentivo anche responsabile, la cottura era mia. Ormai la specola era accecata, si vedeva soltanto un chiarore rossiccio. Non so se ho fatto bene o male: avevo paura che il reattore scoppiasse, e allora ho preso la chiave e ho aperto tutti i bulloni del portello. Il portello si è sollevato da solo, non di scatto ma piano, solenne, come quando si scopron le tombe e si levano i morti. È venuta fuori una colata lenta e spessa, schifosa, una roba gialla tutta gnocchi e nodi. Abbiamo fatto tutti un salto indietro, ma appena si è raffreddata sul pavimento si è come seduta e si è visto che come volume non era poi gran che; dentro al reattore la massa è scesa di un mezzo metro, poi si è fermata lì e a poco a poco è diventata dura. Così lo spettacolo è finito; ci siamo guardati uno con l' altro e non avevamo delle belle facce. La mia poi doveva essere la più brutta di tutte, ma specchi non ce n' erano. Ho cercato di tranquillizzare Rinaldo, o almeno di distrarlo, ma temo di non esserci riuscito, e questo per una buona ragione: fra tutte le mie esperienze di lavoro, nessuna ne ho sentita tanto aliena e nemica quanto quella di una cottura che parte, qualunque ne sia la causa, con danni gravi o scarsi, con colpa o senza. Un incendio o un' esplosione possono essere incidenti molto più distruttivi, anche tragici, ma non sono turpi come una gelazione. Questa racchiude in sé una qualità beffarda: è un gesto di scherno, l' irrisione delle cose senz' anima che ti dovrebbero obbedire e invece insorgono, una sfida alla tua prudenza e previdenza. La "molecola" unica, degradata ma gigantesca, che nasce-muore fra le tue mani è un messaggio e un simbolo osceno: simbolo delle altre brutture senza ritorno né rimedio che oscurano il nostro avvenire, del prevalere della confusione sull' ordine, e della morte indecente sulla vita.

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È una Natività, piuttosto dimessa e convenzionale, come se ne vedono a centinaia in tutta Italia, salvo che il bue ha fattezze quasi umane, anzi, è la caricatura feroce ed ingegnosa di una fisionomia che nella valle è tuttora abbastanza comune. Secondo la storia che si tramanda, è il ritratto del sindaco: era venuto a vedere, a lavoro finito; si era permesso di dire che i buoi non sono mica così, e non aveva neppure invitato Guerrino a bere, come è usanza. Guerrino non aveva risposto (pare che non aprisse bocca quasi mai), ma in piena notte, che era una notte di luna, si era levato scalzo, senza che neppure un cane abbaiasse, e in pochi minuti aveva dipinto la testa del sindaco al posto del muso del bue: però le corna le aveva lasciate. In effetti, i colori e le ombre di questa testa sono stridenti e maldestri: non doveva essere facile riconoscere i barattoli delle tinte al chiaro di luna. E il sindaco doveva essere un uomo di spirito, perché aveva lasciato le cose come stavano, e come stanno tuttora. Amava rappresentare se stesso sotto le spoglie di san Giuseppe: c' è addirittura una Sacra Famiglia, in alta valle, in cui il santo lavoratore, in luogo del martello o della sega, tiene nella destra una pennellessa, e nello sfondo scuro dell' officina si intravede una frattazza, cioè quella tavoletta di legno, con un manico su una faccia, che serve a lisciare gli intonaci. Altre volte, come ho già accennato, non aveva esitato a conferire i suoi tratti a Cristo medesimo: in una cappella votiva c' è un Cristo Deriso membruto e aggrondato, dalle spalle e dagli zigomi larghi, dagli occhi volpini sotto sopraccigli a cespuglio, dalla folta barba grigia. È ben piantato sul pavimento su due gambe solide come colonne, e guarda i suoi persecutori come se volesse dirgli: "questa me la pagherete". In verità, se la sua identificazione con Giuseppe è giustificata solo in piccola misura, quella con Cristo è offensiva. Guerrino doveva essere un tipo da prendere con le molle: secondo tutte le testimonianze raccolte, beveva, era rissoso, vendicativo, aveva il coltello facile, e gli piacevano le donne. Intendiamoci, quest' ultima qualità non è un difetto: le donne, o almeno alcune donne, sono piaciute a tutti i grandi di ogni tempo e paese, e un uomo a cui non piacciano le donne, o a cui del resto non piacciano gli uomini, è un infelice e tendenzialmente un individuo nocivo. Ma a Guerrino le donne piacevano solo in un certo modo, gli piacevano troppo e gli piacevano tutte, tanto che non c' è villaggio o frazione in cui non vengano indicati ai forestieri uno o più suoi figli presunti. Poi, tanto per dirla chiara, gli dovevano piacere particolarmente le bambine, ed anche questo si può leggere nelle sue pitture murali: le sue madonne (sono le sue creazioni migliori: dolcissime, ieratiche eppure vive, spesso accurate e nitide su fondi informi o non finiti, come se tutta la sua volontà e il suo estro si fossero concentrati sul loro viso) sono tutte diverse fra loro, ma tutte hanno tratti sorprendentemente infantili. Infatti, è fama che Guerrino condensasse in un ritratto ognuno dei suoi innumerevoli incontri, e che nessuna delle sue figure di donna sia di maniera: ognuna sarebbe un souvenir, forse una ricompensa gradita o magari sollecitata, un dono di maschio soddisfatto; o forse solo invece un item, un punto in più, una tacca nel suo calendario di fauno. Esplorando la valle, ho notato che si trovano sovente affreschi insignificanti, d' altro autore o di mano ignota, su cui una testa femminile è stata aggiunta o sovrapposta più tardi, spesso fuori posto o fuori tema: agli Inversini ne ho trovata una addirittura in una stalla, isolata in mezzo alla parete fiorita di salnitro. Forse era stato quello il luogo dell' incontro. In borgata Robatto, alla confluenza dei due torrenti, c' è una Madonna in trono col Bambino e Santi, sul fondo di un cielo azzurro che il tempo ha sbiadito sul verde. In questo cielo si affacciano quattro angioletti, secondo un modello risaputo e stanco: ma uno di questi reca un sensibile viso di fanciulla, dallo sguardo rivolto al suolo, e con le labbra sigillate in un sorriso ermetico evocatore di lontanissime immagini funerarie che Guerrino non poteva assolutamente conoscere. A terra, in primo piano, è inginocchiato di profilo un santo erculeo dalla barba grigia che tende una spiga verso il viso dell' angelo: santo ed angelo, corposi sul fondo manierato, portano il segno robusto della mano di Guerrino. Due di queste madonne bambine hanno il viso nero, come la Madonna di Oropa, di cui Guerrino può bene avere avuto notizia, e quella di Czestochowa: è questo, a quanto si dice, il rudimento di un mito remoto, etrusco prima che cristiano, in cui la Madre di Dio si confonde con Persefone, la dea degli Inferi, a significare il ciclo del seme, che ogni anno viene sepolto e muore per risorgere in frutto, e del Giusto che viene sacrificato per risorgere a nostra salvazione. Sotto l' effigie di una di queste vergini funeree Guerrino aveva scritto un motto sibillino, "Tout est et n' est rien". Non può che stupire il contrasto fra la gentilezza delle sue opere e la ruvidezza barbarica dei suoi modi. È fama che quegli incontri, da cui nascevano le sue immagini aeree, fossero poco meno che stupri, assalti panici nel fitto dei boschi o sugli alti pascoli, sotto lo sguardo attonito delle pecore, fra i latrati furiosi dei cani. Non era certo lui il solo: l' agguato alla pastorella è il motivo dominante della cultura popolare di queste valli, la pastorella vi compare come un oggetto sessuale per eccellenza, ed almeno metà delle canzoni che si cantano qui svolgono in diverse varianti il tema della bergera spiata, desiderata, conquistata, o della sua seduzione ad opera del ricco signore che viene dalla città, o del forestiero che l' abbaglia con la sua pompa esotica. Di Guerrino mi è stata raccontata una storia struggente. Si era innamorato, quando era già sulla quarantina, di una giovane molto bella: se n' era innamorato senza mai parlarle, né toccarla, né pure vederla da vicino, ma solo guardandola affacciata alla finestra. La finestra mi è stata mostrata, ed anche la donna: nel 1965 era una vecchina dai tratti minuti e dagli occhi chiari, rugosa e serena; portava con tranquilla dignità la canizie nobile delle donne che sono state bionde. Lei, dalla finestra, l' aveva costantemente rifiutato. Aveva passato l' intera vita a rifiutarlo, prima da ragazza, arrossendo e ridendo, poi da sposa, infine da vedova, e lui aveva trascorso la sua vita a ripeterle il suo invito senza speranza. Quando Guerrino passava per quella borgata, si fermava sotto la finestra e gridava: _ Madamina, son sempre qui _; lei, senza mai andare in collera, gli rispondeva: _ Andate, Guerrino, fate la vostra strada, _ e lui andava, taciturno e solo. Molti pensano che solo per quella donna, e per quel suo amore perenne, testardo e scontroso, Guerrino sia diventato Guerrino. Questa donna, la sua donna vera, Guerrino non l' ha dipinta mai. Come dicevo, il pittore di madonne è sparito verso la fine della prima guerra mondiale. Nessuno ricorda il suo cognome, ed anche il nome è incerto: Guerrino potrebbe essere uno stranome, come usa qui, perciò una ricerca d' archivio si prospetta come un' impresa disperata. Sulla sua fine non esiste che una traccia. Il vecchio Eliseo, già bracconiere, oggi guardacaccia, mi ha raccontato che verso il 1935, in una grotta, o piuttosto in una fenditura frequentata un tempo dai cercatori di quarzo, aveva trovato lo scheletro di un uomo e quello di un cane e su una delle pareti di roccia un disegno non finito, che a lui era parso rappresentasse un grande uccello dentro un nido infuocato. Non aveva denunciato nulla, perché a quel tempo aveva debiti con la giustizia. Ci sono ritornato sotto la sua guida, ma non ho trovato più niente.

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Ogni tanto prendeva il treno e tornava in città per passare la notte con Eva, ma poi se ne ripartiva al mattino tutto triste, perché gli sembrava che Eva stesse abbastanza bene anche senza di lui. Quando uno è abituato a lavorare, gli fa pena perdere tempo, e per non perderne troppo, o per non avere l' impressione di perderne, Umberto faceva lunghe passeggiate sui lungomare e per le colline dell' interno. Fare una passeggiata non è come fare un viaggio; in un viaggio fai grandi scoperte, in una passeggiata ne fai magari molte, ma piccole. Granchiolini verdi che, anche loro, vanno a spasso sugli scogli, e non è vero che camminino all' indietro, ma piuttosto di fianco, in una maniera buffa: simpatici, ma Umberto si sarebbe fatto tagliare un dito piuttosto che toccarne uno. Norie abbandonate, ma avevano ancora intorno la pista circolare dove aveva camminato l' asino, chissà quanti anni prima e per quanti anni. Due osterie straordinarie, dove si trovava vino e pasta di casa che a Milano neanche te li sogni. Ma la scoperta più curiosa era stata la Bomboniera. La Bomboniera era una villa minuscola, candida, quadrata, di due piani, appollaiata su un rilievo. Non aveva facciata, ossia ne aveva quattro, identiche fra loro, ognuna con una porta di legno lucido e con intricati stucchi e decorazioni in stile Liberty. I quattro spigoli finivano in alto in quattro graziose torrette che avevano la forma di corolle di tulipano, ma di fatto erano gabinetti; lo dimostravano i quattro tubi di grès, malamente incassati nella muratura, che scendevano fino al suolo. Le finestre della villa erano sempre chiuse da persiane dipinte in nero, e la targa sul cancelletto portava un nome impossibile: Harmonika Grinkiavicius. Anche la targa era strana, il nome esotico era circondato da una tripla cornice ellittica, su cui, dall' esterno verso l' interno, si susseguivano i colori giallo, verde e rosso. Era questa l' unica nota colorata sull' intonaco bianco della villa. Quasi senza accorgersene, Umberto prese l' abitudine di passare tutti i giorni davanti alla Bomboniera. Non era disabitata: raramente visibile, ci abitava una signora anziana, linda e smilza, dai capelli candidi come la villa e dal viso un po' troppo rosso. La signora Grinkiavicius usciva una sola volta al giorno, sempre alla stessa ora, con qualunque tempo, ma per pochi minuti; portava abiti di buon taglio ma fuori moda, un ombrellino, un cappello di paglia a larga tesa, e un nastro di velluto nero che le cingeva la gola sotto il mento. Camminava a piccoli passi decisi, come se avesse fretta di raggiungere una meta, ma invece percorreva il solito itinerario, rientrava e subito si richiudeva la porta alle spalle. Alle finestre non si affacciava mai. Dai bottegai non ricavò molte notizie. Sì, la signora era una straniera, vedova da almeno trent' anni, istruita, ricca. Faceva molta beneficenza. Sorrideva a tutti ma non parlava con nessuno. Andava a messa la domenica mattina. Non era stata mai dal medico e neppure dal farmacista. La villa, l' aveva comperata il marito, ma di lui nessuno si ricordava più, forse non era neppure un vero marito. Umberto era incuriosito, e inoltre soffriva di solitudine; un giorno si fece animo e fermò la signora col pretesto di chiederle dov' era un certo vicolo: la signora rispose brevemente, con precisione e in buon italiano. Dopo di allora Umberto non seppe immaginare altri artifici per varare una conversazione; si limitò a manovrare in modo da incrociarla nel suo giro mattutino, la salutava, e lei gli rispondeva sorridendo. Umberto guarì e ritornò a Milano. A Umberto piaceva leggere. Si imbatté in un libro che lo divertiva: erano le memorie di un soldato inglese che aveva combattuto contro gli italiani in Cirenaica, era stato fatto prigioniero e internato presso Pavia, ma poi era evaso e aveva raggiunto i partigiani. Non era stato un grande partigiano; gli piacevano di più le ragazze che le armi, descriveva diversi suoi amori effimeri ed allegri, ed uno più lungo e tempestoso con una profuga lituana. Su questo episodio il racconto dell' inglese passava dal passo al trotto e poi al galoppo: sul fondo teso e buio dell' occupazione tedesca e dei bombardamenti alleati, si delineavano pazze fughe a due in bicicletta per le strade oscurate, in barba alle ronde e al coprifuoco, e temerarie avventure nel sottobosco del contrabbando e della borsa nera. Della lituana emergeva un ritratto memorabile; instancabile e indistruttibile, brava a sparare quando occorreva, portentosamente vitale: una Diana-Minerva innestata sul corpo opulento (e diffusamente descritto dall' inglese) di una Giunone. I due indemoniati si perdevano e si ritrovavano per le valli dell' Appennino, impazienti di ogni disciplina, oggi partigiani, domani disertori, poi partigiani di nuovo; consumavano cene vertiginose in bivacchi e caverne, ed a queste facevano seguito notti eroiche. La lituana veniva rappresentata come un' amante senza eguali, impetuosa e raffinata, mai distratta: poliglotta e polivalente, sapeva amare nella sua lingua, in italiano, in inglese, in russo, in tedesco, ed in almeno altre due lingue su cui l' autore sorvolava. Questi amori torrentizi si dipanavano per trenta pagine prima che l' inglese si preoccupasse di svelare il nome della sua amazzone: se ne ricordava alla trentunesima, e il nome era Harmonika. Umberto sobbalzò e chiuse il libro. La coincidenza del nome poteva essere casuale, ma gli ritornava sullo schermo della memoria quel cognome curioso e l' ellissi colorata che lo circondava; quei colori dovevano pure avere un senso. Cercò invano per casa una documentazione, la sera dopo andò in biblioteca, e trovò quanto desiderava sapere: la bandiera dell' effimera repubblica lituana, fra le due guerre mondiali, era gialla verde e rossa. Non soltanto: alla voce "Lituania" dell' enciclopedia gli cadde l' occhio su Basanavicius, fondatore del primo giornale in lingua lituana, su Slezavicius, Primo Ministro negli anni venti, su Stanevicius poeta settecentesco (dove non si trova un poeta settecentesco!) e su Neveravicius romanziere. Possibile? Possibile che la taciturna benefattrice e la baccante fossero la stessa persona? Da allora in poi Umberto non fece che pensare a un pretesto per tornare in riviera, fino ad augurarsi una leggera ricaduta della sua pleurite; non ne trovò alcuno plausibile, ma raccontò una fandonia a Eva, e un sabato partì lo stesso, portandosi dietro il libro. Si sentiva ilare e intento come un bracco sulla pista della volpe; marciò dalla stazione alla Bomboniera con passo militare, suonò il campanello senza esitazioni, ed entrò subito in argomento, con una mezza bugia fabbricata all' istante. Lui abitava a Milano ma era della Val Tidone: aveva sentito dire che la signora conosceva bene quei paraggi, aveva nostalgia, gli sarebbe piaciuto parlarne con lei. La signora Grinkiavicius ci guadagnava ad essere vista da vicino ; la fronte era rugosa ma fresca e ben modellata, e dagli occhi traspariva una luce ridente. Sì, ci era stata, molti anni prima; ma lui, da dove aveva saputo quelle notizie? Umberto contrattaccò: _ Lei è lituana, vero? _ Ci sono nata; è un paese infelice. Ma ho studiato altrove, in diversi altri luoghi. _ Così parla molte lingue? La signora era ormai visibilmente sulla difensiva, e si impuntò: _ Le ho fatto una domanda, e lei mi risponde con altre domande. Voglio sapere da dove lei ha saputo questi fatti miei: mi pare lecito, non le sembra? _ Da questo libro, _ rispose Umberto. _ Me lo dia! Umberto tentò una parata e una ritirata, ma con scarsa convinzione; si era reso conto in quel momento che lo scopo vero del suo ritorno in riviera era stato proprio quello: vedere Harmonika in atto di leggere le avventure di Harmonika. La signora si impadronì facilmente del volume, sedette vicino alla finestra e si immerse nella lettura: Umberto, sebbene non invitato, sedette anche lui. Sul viso di Harmonika, ancora giovanile ma rosso per le molte venuzze dilatate, si vedevano passare i moti dell' animo come le ombre delle nuvole su una pianura spazzata dal vento: rimpianto, divertimento, stizza, ed altri meno decifrabili. Lesse per una mezz' ora, poi gli tese il libro senza parlare. _ Sono cose vere? _ chiese Umberto. La signora tacque talmente a lungo che Umberto temette si fosse offesa; ma poi sorrise e rispose: _ Mi guardi. Sono passati più di trent' anni, e io sono un' altra. Anche la memoria è un' altra; non è vero che i ricordi stiano fermi nella memoria, congelati: anche loro vanno alla deriva, come il corpo. Sì, ricordo una stagione in cui io ero diversa. Mi piacerebbe essere la ragazza del libro: mi accontenterei anche solo di esserlo stata, ma non lo sono mai stata. Non ero io a trascinare l' inglese; io ricordo me stessa molle nelle sue mani, come argilla. I miei amori ... sono questi che le interessano, vero? Ecco, stanno bene dove sono: nella mia memoria, scoloriti e secchi, con un' ombra di profumo, come fiori in un erbario. Nella sua sono diventati lucidi e chiassosi come giocattoli di plastica. Non so quali siano i più belli. Scelga lei: via, si riprenda il suo libro e se ne torni a Milano.

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I tedeschi capivano l' italiano abbastanza bene, e anche loro vennero fuori a lamentarsi, uno aveva l' asma ma lo avevano fatto abile lo stesso, e l' altro era stato ferito nei Balcani e allora lo avevano sbattuto in Italia, come se fosse un ospedale, e invece .... In casa era tutto spento: dormivano tutti, e per il momento era meglio non svegliarli. Sante, a bassa voce, invitò i tedeschi a sedersi, a mettersi comodi, a togliersi lo zaino: per togliersi lo zaino avrebbero dovuto per forza sfilarsi anche il parabello. Vide con soddisfazione che i due (tanto furbi proprio non dovevano essere) avevano appoggiato le armi a terra sotto alla panchina, e non avevano tolto la sicura. Trovò del pane, del formaggio e del latte, si sedette di fronte a loro e mangiò qualcosa anche lui: per non metterli in sospetto, per le convenienze, e anche perché aveva fame. Lui continuava a parlare sommesso, ma i tedeschi non capivano che quello era un invito a fare altrettanto, e rispondevano a voce alta, come fanno quelli che parlano con un foresto come con un sordo. Cosa sarebbe successo se Ettore e il padre si svegliavano? Sante sentì tramestare nella camera di sopra e decise che era meglio mettersi al lavoro. Si voltò, aprì il cassetto della credenza, ne prese la pistola e una bandierina tricolore, e mostrò la bandierina ai tedeschi tenendo la pistola nascosta dietro. Gli contò due o tre fiabe a proposito della bandiera: i due non capivano bene e guardavano come due buoi. A un tratto, lasciò cadere la bandiera e gli fece levare le mani, e subito tirò via i due parabelli e li portò al sicuro nell' angolo del focolare. Proprio in quel momento si udì scricchiolare la scala di legno; entrò prima Ettore stropicciandosi gli occhi, e poi il padre alto e secco, in camicia da notte, coi baffi scompigliati. Sante, senza voltarsi e tutto tranquillo, gli disse che aveva fatto due prigionieri, e che non avessero paura perché li aveva già disarmati; a Ettore disse che portasse un po' più lontano i due zaini e gli desse un' occhiata dentro; e ai due, che a vedere il padre si erano alzati in piedi e messi sull' attenti, ma sempre con le mani levate, disse che ormai era finita, che avevano solo da non attentarsi a fare delle sciocchezze, ma che se volevano finire il pane e formaggio facessero pure, a quel punto potevano anche abbassare le mani. Ettore si mise a frugare, ma intanto guardava gli stivali dei tedeschi come un bambino guarderebbe lo zucchero filato. In fondo a uno degli zaini, in mezzo alla biancheria pulita e sporca, Ettore trovò una bella scatola di compassi. Sante l' aprì e riconobbe che erano di marca italiana: che Ettore se li tenesse pure, a scuola gli sarebbero venuti buoni, fra qualche mese si sarebbero pure riaperte le scuole, ma il padre si fece avanti scalzo in mezzo alla cucina e disse che niente affatto. Sante cercò timidamente di insistere: che era roba rubata lì in paese, lui forse sapeva perfino quando e a chi, e del resto che altro avevano fatto i tedeschi se non rubare, all' ingrosso e al dettaglio, tutto, le bestie, il grano, il tabacco, perfino la legna del bosco: Ma il padre non volle sentire ragione: _ Gli altri possono fare quello che vogliono, ma qui siamo a casa mia e voi non toccate niente: se gli altri sono ladri, noi siamo gente per bene. Hanno mangiato sotto questo tetto: sono nostri ospiti, anche se sono prigionieri; io ho fatto la grande guerra, e come si trattano i prigionieri lo so meglio di voi. Gli prendete i parabelli, gli rendete gli zaini e li portate al vostro comando; ma prima gli date ancora un po' di pane e quel salame che c' è sotto il camino, perché la strada è lunga. I tedeschi non avevano capito e tremavano. Sante, sempre tenendoli sotto tiro, disse al padre che andava bene, che stesse tranquillo, e che lui ed Ettore potevano tornare a letto; ma che prima Ettore facesse un salto a cercare Angelo. Ettore aveva solo diciassette anni, e per un servizio come quello era meglio avere un compagno più pratico. Il comando era a due ore di cammino e durante il percorso Sante ebbe tempo di pentirsi della sua scelta: Angelo era un tipo spiccio, e Sante dovette sudare quattro camicie per tenerlo buono. Altre quattro camicie, o forse di più, le dovette poi sudare al comando stesso, perché tutti quanti, a partire dal comandante, avevano parecchi conti in sospeso coi tedeschi, e una gran voglia di chiuderli subito. Insomma Sante dovette fare questione, e fortuna che al comando lo rispettavano, e avevano magari anche un poco di paura di lui per via di certe sue imprese solitarie sull' altipiano; e forse in buona misura la loro pelle se la guadagnarono i due tedeschi stessi, perché durante tutte le trattative se n' erano stati piantati sull' attenti, con una tale aria da poveri cani che non sembravano neppure tedeschi. In definitiva si misero d' accordo di fargli spaccare legna per qualche giorno, senza fargli del male, finché non fosse possibile consegnarli agli alleati. Sante se ne tornò a casa soddisfatto: non è che li considerasse suoi amici, ma prima cosa non gli sembrava una faccenda pulita sparare a gente con le mani alzate, anche se loro lo avevano fatto, perdinci se l' avevano fatto! E seconda cosa, li aveva presi lui, da solo, erano selvaggina sua, roba sua, e non era giusto che fossero degli altri a decidere il loro destino. Otto giorni dopo la guerra era finita, e Sante, Ettore, e diversi altri paesani stavano tutti nudi a nuotare in una pozza del Brenta, quando videro passare sulla strada un drappello di partigiani che scortavano verso Asiago cinque o sei prigionieri. Uno era un fascista, aveva le manette e la faccia gonfia e livida; dietro a lui c' erano i due tedeschi, a mani sciolte e con l' aria di star bene. Sante saltò a riva nudo com' era, e i tedeschi lo riconobbero, lo salutarono e lo ringraziarono. Sante tornò a tuffarsi nell' acqua limpida e gelata, e si sentì contento di avere finito la sua guerra in quel modo.

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Ho subito scartato l' idea di denunciare le svastiche ai carabinieri: sono abbastanza bravi ad acciuffare i ladri di galline, ma certe altre faccende, grosse o piccole, non destano i loro riflessi d' agguato, di caccia e di cattura. Invece, sono andato dal "casalinghi", l' unico negozio di B. che venda vernici: si capisce che la bombola poteva anche venire da molto lontano, ma perché non provare? La signora casalinghi è stata efficiente (lo è in tutte le sue cose, la conosco da un pezzo); senza visibili sforzi di memoria, mi ha risposto che sì, negli ultimi tempi aveva venduto una bomboletta sola, Verde Alfa 12004, venerdì scorso, al signor Fissore, alle dieci del mattino. Perfetto. A B. ci conosciamo tutti. Fissore è un assicuratore, buongustaio e bellimbusto, un po' fanfarone, scettico e credulone insieme, maldicente più per leggerezza che per malvagità; un tipo fuori del suo tempo, in ritardo di ottant' anni, e nei nostri anni infatti si muove a disagio, nega tutto, non vuole vedere le cose, si barrica nei week-end come i pionieri nei fortini. Non è uomo da svastiche. Per questo non avevo pensato a lui, né alla sua Giulia, che è proprio verde. Ma i suoi figli? I figli degli altri non mi interessano tanto. Mi interesserebbero se potessi entrare in contatto con loro, ma questo è impossibile. Sono amebe, nuvole; sono indescrivibili, ogni anno, ogni mese, mutano abiti, abitudini, linguaggio, viso; a maggior ragione le opinioni. A che scopo entrare in dimestichezza con Proteo? Lo loderai per la sua bianchezza, e te lo troverai davanti nero come la pece. Avrai pietà dei suoi dolori e ti strozzerà. Fissore ha un figlio e una figlia, ma questa era fuori questione: era in Scozia da un mese. Il figlio si chiama Piero, e corrisponde male all' immagine tentativa che mi stavo fabbricando, se non per il fatto di avere quindici anni. È magro, timido, miope, e non mi risulta che si occupi di politica: lo posso dire perché l' estate scorsa gli ho dato qualche lezione di algebra e geometria, e chi ha provato sa che le lezioni private sono mirabili strumenti di indagine, sensibili come sismografi. Non è neppure un introverso tipico, perché parla parecchio: è piuttosto un lamentoso, uno di quelli che tendono a vedere il mondo come una vasta rete di cospirazioni al loro danno, e se stessi al centro del mondo, esposti a tutti i soprusi. Da questa tendenza, che è debilitante, è difficile guarire, perché i soprusi esistono. Io penso che a questi perseguitati sia bene insegnare che ai soprusi non sono esposti loro soli, e soprattutto che lamentarsi non serve; occorre difendersi, individualmente o collettivamente, con tenacia e intelligenza, e anche con ottimismo. Senza ottimismo le battaglie si perdono, anche contro i mulini a vento. Ho incontrato Piero pochi giorni dopo: per caso, perché non mi era sembrato che valesse la spesa di pedinarlo, o di stare fuori del suo cancello in agguato come un leopardo. Gli ho chiesto come era andato con la scuola: primo errore. Male, era andato: aveva storia a ottobre, e anche matematica; me lo ha detto con aria di rimprovero, come se fosse stata colpa mia: non in quanto ex precettore, ma in quanto altro, in quanto non-Piero, e quindi membro della congiura ai suoi danni. Ne ho ricavato una vaga sofferenza, costituita da uno strato superficiale di dispetto, e da uno più profondo che mi sembrava rimorso, un rimorso impreciso, senza indirizzo, da analizzare poi: la sua evidente infelicità, e il gesto di cui lo sospettavo, potevano proprio essere colpa mia. Dare lezioni di geometria a un adolescente non è solo uno strumento di diagnosi, è anche, o può essere, una terapia drastica: può essere la prima rivelazione, in una carriera scolastica, della severa potenza della ragione, del coraggio intellettuale che respinge i miti, e della salutare emozione di ravvisare nella propria mente uno specchio dell' universo. Può essere un antidoto contro la retorica, l' approssimazione, l' accidia; può essere, per il giovane, una verifica allegra della sua muscolatura mentale, o l' occasione per svilupparla. Forse, di questa terapia avevo fatto uso scarso, o nullo, o inadatto a lui. L' ho guardato bene, da vicino. È piuttosto ossuto che magro, gli occhi dietro gli occhiali sono incerti, malfermi, come esitanti sull' oggetto su cui puntarsi. Non sapevo da dove incominciare per la mia indagine; alla fine, pensando che la via diretta era la migliore, gli ho chiesto se aveva visto le scritte verdi giù sulla strada. _ Le ho fatte io, _ mi ha risposto con semplicità. _ Ne ho abbastanza, è ora di finirla. _ Abbastanza di cosa? _ Di tutto. Della scuola. Di avere quindici anni. Di questo paese. Della matematica: a cosa vuole che mi serva? Tanto io farò l' avvocato; anzi, il magistrato. _ Perché il magistrato? _ Per ... così, per fare giustizia. Perché la gente paghi; ognuno paghi i suoi conti. Ci eravamo seduti su un muretto e Piero giocherellava con una mano nella tasca dei calzoni, che era stranamente gonfia. A poco a poco, macchinalmente, ne ha cavato una pallina da ping-pong, poi una caramella, una fotografia appallottolata, due sigarette contorte, un distintivo rosso e nero che non sono riuscito a identificare, una pinza per biancheria, un fazzoletto con due nodi, un pettinino fermacapelli. In silenzio, ha disposto tutto sul muretto, fra me e lui: fingeva di essere distratto, ma ho capito che si trattava di una scena, di una recitazione indirizzata a me. Infine ha detto: _ Anche lei mi ha piantato _; ha preso il pettine e con uno scatto iroso lo ha buttato nel rio che scorreva profondo, ai piedi del muretto, fra erbacce e imballaggi sfondati. Non mi è sembrato opportuno spingere più oltre l' indagine. Piero guardava nel vuoto rosicchiandosi le unghie: poi ha lasciato cadere nel rio, ad uno ad uno, anche gli altri simboli, per me indecifrabili, ad eccezione del fazzoletto, che ha rimesso in tasca. Io pensavo che, per quanto dipendeva da lui, i cinesi avrebbero potuto sopravvivere a lungo. Pensavo anche alla essenziale ambiguità dei messaggi che ognuno di noi si lascia dietro, dalla nascita alla morte, ed alla nostra incapacità profonda di ricostruire una persona attraverso di essi, l' uomo che vive a partire dall' uomo che scrive: chiunque scriva, anche se solo sui muri, scrive in un codice che è solo suo, e che gli altri non conoscono; anche chi parla. Trasmettere in chiaro, esprimere, esprimersi e rendersi espliciti, è di pochi: alcuni potrebbero e non vogliono, altri vorrebbero e non sanno, la maggior parte né vogliono né sanno. Ma pensavo anche alla misconosciuta forza dei deboli, dei disadatti: nel nostro mondo instabile, un fallimento, anche un risibile fallimento come quello di Piero quindicenne rimandato a ottobre e piantato dalla ragazza, ne può provocare altri, a catena; una frustrazione, altre frustrazioni. Pensavo a quanto è sgradevole aiutare gli uomini sgradevoli, che sono i più bisognosi d' aiuto; e pensavo infine alle migliaia di altre scritte sui muri italiani, dilavate dalle piogge e dai soli di quarant' anni, spesso sforacchiate dalla guerra che avevano contribuito a scatenare, eppure ancora leggibili, grazie alla viziosa pervicacia delle vernici e dei cadaveri, che si corrompono in breve, ma le cui spoglie ultime durano macabre in eterno: scritte tragicamente ironiche, eppure forse ancora capaci di suscitare errori dal loro errore, e naufragi dal loro naufragio.

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Aveva indosso una giacca a vento, e sotto un maglione nero a giro collo; i pantaloni erano di velluto bruno, abbastanza logori, con due rinforzi di cuoio all' interno delle cosce. Un luogo incongruo: a cosa avrebbero potuto servire? A cavalcare una scopa? Ma non aveva l' aria di una strega: sembrava un tipo piuttosto casalingo. Anche il resto della ragazza era robusto e tozzo: Riccardo calcolò che se si fossero alzati entrambi in piedi lei gli sarebbe arrivata a stento alla spalla. In effetti, lei poco dopo si levò in piedi, ma la verifica non fu possibile perché lui era rimasto seduto. La ragazza dunque si alzò, frugò nella borsa che era sulla reticella, e ne cavò un libro, al che Riccardo si fece tutt' occhi come Argo. Non era un giallo né un romanzo di fantascienza né un Oscar Mondadori: era un vecchio volume dimesso, dalla copertina floscia ed appassita, su cui Riccardo lesse a poco a poco: "Catalogue of the Petrarch Collection, bequeathed by ..." non riuscì a decifrare da chi la collezione era stata bequeathed, e quel bequeathed lo intrigava, ma il resto del titolo gli tolse ogni traccia di sonno. Aveva anche lui un libro nella valigia, ma non si prestava a ricambiare il messaggio, era un tascabile di sesso e orrore: meglio lasciarlo dov' era. Gli vennero in mente le bozze di stampa che doveva consegnare a Napoli, le cavò fuori e si mise a correggerle con ostentazione, quantunque fossero già corrette; ma presto smise di armeggiare perché la ragazza si era addormentata. A poco a poco, nel sonno, la sua stretta sul libro si indebolì; il volume si richiuse, le scivolò fra le ginocchia e finì sul pavimento. Riccardo non osò raccattarlo. Dormiva tranquilla e composta, e Riccardo ne approfittò per un inventario più esteso ed approfondito. Dalle scarpe, pesanti ed informi, sembrava proprio che la ragazza fosse inglese: americana no, aveva un' aria troppo domestica. Il viso però non concordava, non aveva nulla d' inglese: era rotondo ed olivastro, i capelli erano castani con una scriminatura, pulita, all' antica. Un viso dormiente, o comunque un viso che non parla, non esprime molto: può essere indifferentemente rozzo o delicato, intelligente o sciocco; lo puoi distinguere solo quando si anima nella parola. Visto così, si poteva solo dire che era giovanile ed arguto; il naso era corto e volto all' in su, la bocca larga ma ben modellata, gli zigomi e gli occhi di un taglio vagamente orientale. Poco dopo si addormentò anche Riccardo, e subito fu consapevole di essere un grande poeta, pio, colto ed inquieto; era reduce dall' incoronazione in Roma, dove aveva vinto il Premio Strega, ed era in viaggio verso la Valchiusa in un vagone speciale assurdamente suntuoso, dalla tappezzeria costellata d' api e di gigli di Francia. Il materasso su cui riposava, però, frusciava fastidiosamente, perché era pieno di foglie secche di lauro, e di fronde di lauro era piena anche la sua valigia. Ciononostante, la ragazza lì di fronte, che, pur non assomigliandole affatto, coincideva ampiamente con Laura, non si curava né dei suoi trionfi né di lui, anzi, pareva che neppure si accorgesse della sua presenza. Lui si sentiva in qualche modo obbligato a rivolgerle la parola, o almeno a tenderle la mano, ma era impedito da un singolare impaccio. Era un impaccio materiale, quasi comico: insomma, per dirla chiara si sentiva incollato a quel materasso, incollato tutto, dalla testa ai piedi, come una mosca sulla carta moschicida. Stando così le cose, neppure lo desiderava veramente, di parlarle. Di tutti i versi splendidi che a suo tempo aveva scritti per lei, non gliene veniva in mente neanche uno, e d' altronde non era neppure del tutto malcontento di essere incollato, perché quella ragazza era moglie di un cavaliere dal nome sinistro (questo nome tuttavia non riusciva a ricordarlo), famoso per la sua gelosia e la sua crudeltà. C' erano poi altri motivi per sentirsi appiccicati alla cuccetta: in competizione con la giovane straniera esisteva intorno a lui un' altra giovane donna di identità ambigua ; di natura, anzi, decisamente duplice, dal momento che viveva a Torino in via Gioberti nel 1966 e simultaneamente da qualche parte in Provenza nel 1366. Su incongruenze di questo genere lui avrebbe potuto benissimo passarci sopra, ma quella era un tipo che non ammetteva compromessi, e non avrebbe accettato concorrenti, neppure nel 1366. Che fare? Riccardo la ricacciò nel subcosciente: per il momento stava meglio lì. Provava poi anche un disagio più profondo e più serio. Era lecito, era decente per un buon cristiano, inventarsi una donna distillandola dai propri sogni allo scopo di amarne l' immagine per tutta una vita, e adoperare questo amore allo scopo di diventare un poeta famoso, e diventare un poeta allo scopo di non morire del tutto, e insieme frequentare quell' altra di via Gioberti? Non era un' ipocrisia? Già si sentiva pesare addosso la cappa degli ipocriti, dorata fuori, plumbea dentro, quando il treno rallentò e si arrestò in una stazione. Una voce femminile-meccanica, ma sicuramente toscana, annunciò nelle tenebre che quella era la Stazione di Pisa, Stazione di Pisa, e che per Firenze e Volterra si cambiava. Riccardo si svegliò; la ragazza (totalmente ridimensionata) anche: si stirò, sbadigliò con garbo, abbozzò un sorriso timido, e disse: _ Pisa. Vituperio de le genti _. Aveva proprio un forte accento inglese. Riccardo, ancora confuso dal sonno e dal sogno, boccheggiò per un istante, e poi replicò correttamente: _ ... del bel paese là dove il sì suona, _ ma non gli riuscì di rammentare il verso successivo. Era rimasto sbalordito dalla ouverture della ragazza: tuttavia si ripromise di mostrarle la Capraia e la Gorgona, non appena il treno si fosse mosso, e se la luna fosse uscita di tra le nuvole. Ma la luna non uscì, e lui si dovette accontentare della spiegazione teorica: di come cioè le due innocue isolette, viste da Pisa in prospettiva, potessero in effetti fare venire in mente, ad un poeta un po' arrabbiato, l' immagine barocca e truce della diga sulla foce dell' Arno, così che a Pisa si annieghi ogni persona. Secondo ogni apparenza se ne accontentò anche la ragazza, che sembrava abbastanza al corrente della faccenda del conte Ugolino, ma cascava dal sonno. Sbadigliò ancora, guardò l' orologio (lo guardò anche Riccardo: era l' una e quaranta), chiese pro forma: _ Si può distendere le membra? _ e senza attendere la risposta si tolse le scarpe e si sdraiò sul sedile occupando tutti i tre posti. Non portava calze; i piedi erano solidi ma graziosi e freschi, quasi infantili. Riccardo stentò a riprendere sonno. "... dove le belle membra pose colei che sola a me par donna": nessun italiano dirà mai "membra", è una di quelle parole che si possono scrivere ma non pronunciare, per via di un nostro misterioso tabù nazionale. Ce ne sono tante: chi, parlando, direbbe mai "poiché" o "alcuni" o "ascoltare"? Nessuno: lui, per esempio, si sarebbe fatto scuoiare prima, come del resto qualsiasi piemontese o lombardo si farebbe scuoiare vivo prima di usare un passato remoto. Su cinque parole che il lessico riporta, una almeno è ineffabile, come le brutte parole. All' alba, poco oltre Roma, la ragazza si svegliò, anzi, si ridestò. Riccardo le offerte una sigaretta, e lei accese per sé e per lui. Attaccare discorso non fu difficile: in pochi minuti Riccardo apprese l' essenziale. Che lei studiava letteratura moderna; che era in Italia per la prima volta, e con pochi quattrini, ma che una zia sposata ad un italiano l' aspettava a Salerno. La pronuncia italiana l' aveva studiata sui dischi, e tutto il resto sui trecentisti, in specie proprio sul Canzoniere del Petrarca, che era l' argomento della sua tesi. Riccardo si accingeva a raccontare le tristezze e le lotte, le amarezze e le vittorie della sua vita, il suo scoramento ricorrente, e insieme la sua sicurezza profonda che sarebbe diventato un giorno uno scrittore celebre e stimato, e la noia sfibrante del suo lavoro quotidiano (ma non le avrebbe detto che lavorava in un' agenzia pubblicitaria: quello no), però la ragazza non lo lasciò neppure incominciare. Finita la sigaretta, tirò fuori un piccolo specchio, fece una smorfia disinvolta e divertita, disse: _ Faccio proprio paura! _ ed uscì dallo scompartimento: annunciò che andava a pettinarsi e a lavarsi le sembianze. Riccardo, rimasto solo, incominciò a far calcoli. Poteva proseguire anche lui fino a Salerno: avrebbe potuto farle da guida, i luoghi li conosceva bene, quattrini ne aveva; ma c' erano le bozze da consegnare a Napoli e il bozzetto che il cliente doveva approvare. Oppure poteva proporre alla ragazza di scendere a Napoli anche lei: a Napoli il fattore campo sarebbe stato favorevole a lui, del Petrarca non si ricordava più molto (lo rimpianse sinceramente, per la prima volta in vita sua: e poi dicono che la cultura classica non serve!), ma insomma sperava che sarebbe riuscito ad essere più divertente della zia di Salerno. Oppure lasciarla andare a Salerno, e proporle un appuntamento a Napoli per il giorno dopo: sarebbe ritornato a Torino con un giorno (o magari due: perché no?) di ritardo, ma un pretesto l' avrebbe trovato. Uno sciopero: scioperi ce n' è sempre. Ma frattanto la ragazza era rientrata nello scompartimento, e subito dopo il treno cominciò a frenare. Riccardo non era un uomo dalle decisioni rapide e facili: si alzò e tolse la valigia dalla reticella, l' aprì e ne ricompose il contenuto, ma intanto, consapevole dello sguardo curioso della ragazza, andava almanaccando febbrilmente una formula di commiato che non lo impegnasse troppo, e insieme non apparisse definitiva. Quando il treno fu fermo nella stazione di Napoli, si voltò, e si trovò davanti lo sguardo della ragazza. Era uno sguardo fermo e gentile, ma con una connotazione d' attesa: sembrava che lei gli leggesse dentro in chiaro, come in un libro. Riccardo le chiese: _ Perché non scende a Napoli con me? _ La ragazza fece di no con il capo. Lo guardava fisso, sorrideva, ed anche lei aveva l' aria di almanaccare, di andare inseguendo una risposta che non si lasciava acchiappare. Si rosicchiava un dito, in atteggiamento infantile; poi, agitandolo solennemente, scandì: _ Quanto piacce al mondo è breve sogno. _ Si pronuncia "sogno", _ disse Riccardo, e si avviò nel corridoio per discendere dal vagone.

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