Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il divenire della critica

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Dorfles, Gillo 19 occorrenze

Anche con questo gruppo Fontana ebbe per qualche tempo legami abbastanza intensi prendendo parte spesso all’attività del gruppo in alcune mostre in Italia e all’estero. Tuttavia la tendenza difesa dal Mac era piuttosto protesa verso una sorta di astrattismo geometrizzante, mentre quella allora seguita da Fontana precorreva l’avvento imminente dell’informale e, come vedremo, delle successive tendenze oggettuali. Dopo il periodo culminante nell’ambiente spaziale nero occorre prendere in considerazione le opere iniziate attorno al 1948-49 e che dovevano costituire la «trovata» più nota e popolare dell’artista: ossia quelle rappresentate dai «quadri con buchi», iniziati appunto in quell’anno e seguiti, attorno al 1958, dai «quadri con tagli». Prima di considerare da presso queste due serie di lavori vorrei peraltro soffermarmi a considerare l’importanza che ebbe per l’artista e anche per molti dei suoi seguaci un’altra fase della sua produzione costituita da una serie di tele appena velate da una leggera inchiostratura, spesso monocroma, e dove soltanto le sovrapposizioni di due o più spessori di tela creavano quel sottile slivellamento atto a segnare la presenza d’una diversa dimensionalità spaziale. Fu questo, io ritengo, il periodo nel quale l’opera dell’artista lombardo s’accostò di più a quella di Rothko: in questa rinuncia di Fontana (come di Rothko) al denso colore impastato, alle compiacenze, allora dominanti, del dripping, alle matasse di pigmenti materici, è da riportare un successiva direzione presa da molta pittura internazionale postinformale.

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E, forse, un analogo declino (e per ragioni abbastanza simili la loro immissione e assunzione in campo commerciale) attende alcune opere della scultura pop, di cui a questa mostra abbiamo solo gli esempi di Segal e di Oldenburg, di Trova e in parte di Chamberlain (che era più fantasioso nelle sue carrozzerie di automobili pressate che in questa opera costruita con elementi di poliuretano legato e ritagliato). Presenze insufficienti, dunque, per consentire un giudizio complessivo sulla situazione attuale in questo settore, ma comunque assai spaesate in mezzo alle frigide strutture primarie, e alle massicce costruzioni metalliche.

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È abbastanza probabile, credo, pensare che sempre maggiormente la «pittura», soprattutto quella monocroma e a base di shaped canvases, la pittura-oggetto, la pittura volumetrica insomma, possa sopraffare, per vivacità e originalità, l’attuale «vera» scultura (e penso ad artisti come Kampmann, Bonalumi, Gaul, Pascali, ecc.). Si dirà allora, che la pittura è diventata scultura? Non del tutto: piuttosto è diventata environment, è, cioè, entrata a far parte del lay-out dell’architettura d’interni, dando vita a quella modulazione ambientale che l’architettura troppo spesso trascura e che la «vera» scultura disprezza e non utilizza.

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Se di «arte oggettuale» si poteva in parte discorrere anche a proposito degli antichi ready-made di Duchamp o di molte delle opere create dagli artisti pop mediante oggetti inventati o inglobati, tuttavia quello di considerare la propria produzione artistica come un oggetto a sé stante, che non presenti riferimento alcuno con quelli già esistenti altrove, o che non ne sia né la replica, né l’imitazione, né la «presa in giro», mi sembra un dato di fatto abbastanza singolare di questo preciso momento creativo. Si passa, inoltre, dall’oggettualità tipica delle grandi strutture primarie americane (di un Morris, di un Judd, di uno Smith) o a quelle inglesi (di un King, di un Caro, di un Tucker), a quelle di strutture minime, realizzate in serie come alcuni dei numerosi «multipli» che abbiamo potuto osservare di recente anche in Italia. Proprio nel presentare questi multipli scrivevo: «oggi, in un momento che vede declinare l’interesse per il quadro da cavalletto e per la "statua”, l’oggetto "inutile” ma esteticamente stimolante acquista un inatteso vigore». Infatti, molti di questi oggetti (come quelli ideati da Scheggi, Castellani, Alviani, Carmi, Bill, Soto, Del Pezzo, Vasarely, per non citare che i più interessanti), pur nel loro piccolo formato, erano in grado di offrire delle caratteristiche stilistiche e tecniche pari a quelle di opere assai più importanti per mole e impegno. Quello che vale per questi oggetti di serie è la loro precisa ricerca d’una esecuzione perfetta, senza sbavature, senza o con ridotta prestazione artigianale e dove l’aspetto oggettuale sia evidente al punto da riescire a creare un trait d’union con il vero e proprio oggetto dì serie prodotto industrialmente. Un esempio di connubio dei due aspetti si ha, ad esempio nella produzione appena iniziata di alcuni oggetti in piccola serie su disegno di artisti ben noti. Interessanti tra questi oggetti una porta di Fontana e una di Castellani nonché un tavolino di Franco Angeli, tutte in materie plastiche che costituiscono un punto di passaggio tra l’opera unica quale era sin qui concepita e l’oggetto di serie creato attraverso l’intervento dell’industria.

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Quest’anno vorrei limitare il mio discorso ad un particolare gruppo, abbastanza vasto, seppure abbastanza confuso, e senza precisi confini, che comprende tutti quegli artisti che hanno - chi per un verso chi per un altro - avvertito l’influenza delle più recenti correnti letterarie, ed hanno immesso nelle loro opere, per l’appunto un certo quale alone di letterarietà.

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Il bilancio, in definitiva, che si può ricavare dalle manifestazioni artistiche della passata stagione - a prescindere dal valore politico o sociologico dei movimenti contestari che hanno in parte collimato con quelli, ben più importanti, del mondo studentesco - è abbastanza lineare. Attualmente la situazione delle arti plastiche appare nettamente dominata da alcuni aspetti che sono del resto intimamente legati al tipo di «società dei consumi» qual è quella in cui ci troviamo a vivere: tra questi aspetti vi è, da un lato, la tendenza seguita soprattutto negli Usa ad una creazione di opere di notevole mole e di notevole respiro, idonee (e ideate già in partenza) per il museo o per la grande collezione privata; ed a questo indirizzo vengono adeguandosi molti degli artisti oggi più affermati e di cui in parte ho già fatto i nomi (come Morris, Smith, Stella, Judd, Caro, Turnbull, King, Lenk).

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Ma questo stesso fatto che parlerebbe in favore d’un approfondimento della critica, ha portato con sé un altro fenomeno abbastanza singolare: quello d’una dissociazione tra critica e valore, tra critica e gusto; in altre parole tra elemento assiologico e elemento critico. E, innanzitutto, una valutazione critica ha da essere necessariamente assiologica? La risposta sembrerebbe lapalissiana; eppure a ben guardare, se scorriamo i testi critici - anche tra i migliori - degli ultimi anni (e possiamo fare alcuni nomi: da quello di Honnef a quello di Catherine Millet, da quello di Celant a quello di Trini, di Lea Vergine, ecc...) ci accorgeremo che ben raramente in questi testi si tratta o si ragiona di «valori», ma quasi sempre di «significato», di «sintassi», di «funzione metaforica o metonimica», di «sintagmi» di prima o seconda articolazione e via dicendo.

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Il quadro complessivo che risulta dalla presenza di questi undici artisti e sul quale il pubblico tedesco è chiamato a dare il suo giudizio, appare, mi sembra, sufficientemente aperto e in divenire e credo rifletta abbastanza fedelmente l’impostazione generale dell’arte italiana odierna. Forse potremmo così riassumerlo: un tendere verso la «bellezza formale» che fu da sempre un impulso innato del temperamento italico (Castellani, Bonalumi, Piacentino); ma anche una ricerca del fantastico e del giocoso - non del fantasmagorico e del grottesco! - (Del Pezzo, Paolini, Marotta); una volontà di sottrarsi agli abbagli della società consumistica (Pistoletto, Castellani); e insieme una coscienza dell’importanza dei nuovi materiali (La Pietra, Marotta), e dell’interagire tra i diversi media estetici (La Pietra), insieme ad una costante ricerca dell’aggancio tra la tradizione e l’avanguardia (Ceroli), tra i valori tecnologici e quelli artigianali (Alviani, Spagnulo).

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Per quanto riguarda il rapporto tra arte e gusto e quindi tra critica impostata sul problema del gusto o meno, la faccenda non cessa di complicarsi man mano che ci si discosta da quelle regole istintive che permettevano, ancora alcuni anni fa, di fare una distinzione abbastanza netta tra buono e cattivo gusto, tra arte e Kitsch.

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Ma forse non si è dato abbastanza peso a un fatto: al divenir teatro di tutte le forme artistiche del periodo che stiamo attraversando. Divenir teatro, nel senso di trasformarsi delle arti figurative, della musica, della plastica, in un’azione dell’uomo che si serve del proprio corpo (del Leib come avrebbe detto Husserl) per imbastire un dialogo tra sé e il prossimo, tra artista (l’attore) e il pubblico.

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Certo: anche le descrizioni di cui Huysmans si compiaceva nel narrare il martirio di sainte-Lydvine (la santa fiamminga che, ricoperta di ulcere, fistole, piaghe, giaceva in un mare di sangue e di pus, sul suo pagliericcio immondo) non erano meno sconcertanti - e forse lo spirito che le informava era abbastanza simile a quello delle macabre orge dell’austriaco o di altri body artisti -, ma le salvava, almeno, la loro perfezione letteraria; mentre nel caso di alcuni di questi operatori, il resultato appare molto ambiguo. Che poi, ragioni di carattere psicologico e psicanalitico (come quelle molto abilmente tentate da Lea Vergine nel suo avvincente volume) possano in buona parte giustificare simili azioni, non basta ancora a renderle più accette o meritorie da un punto di vista estetico e sociale. È un discorso analogo a quello che fu fatto a suo tempo a proposito di certe macabre sequenze del film di Jacopetti Africa addio: ossia, se nell’opera d’arte è lecito andare contro la cosiddetta morale corrente; se antiquati schemi moralistici non possono più reggere di fronte ai nuovi modi di concepire la vita, il rapporto tra i sessi, l’arte stessa, ciò non toglie che non si possa - in nome di queste conquiste - tollerare o anzi incoraggiare delle esibizioni che alcune volte (non sempre, ovviamente) sono solo velleitarie, tristemente ingenue, astutamente maligne, quando non sono addirittura memori d’una mentalità nazifascista non ancora del tutto sopita.

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Non è il caso che io riassuma qui i termini della questione, che è finemente analizzata da Franz Boas, e di cui Lévi-Strauss ha dato una abbastanza attendibile giustificazione strutturalista. Sta di fatto che la presenza di motivi «stilistici» del tutto analoghi, in popolazioni tra loro distinte e distanti e comunque prive d’ogni possibilità di contatti e di influenzamenti reciproci, non può che parlare a favore d’una tesi «astorica», d’un principio formativo generalizzato e svincolato da ogni eventualità di successione cronologica.

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Sembra a questo punto di dover porre una distinzione abbastanza netta circa la contrapposizione di «sincronico» versus «diacronico», entro i rispettivi ambiti della ricerca filosofica e artistica. Da quando gli strutturalisti e i linguisti hanno rivendicato l’importanza d’un’impostazione sincronica nello studio delle concatenazioni linguistiche, si è sempre più marcatamente evidenziato il principio di privilegiare l’aspetto sincronico di alcuni fenomeni in campo antropologico, semiologico, e dunque anche estetico. Ma se questo approccio è stato indubbiamente fruttifero, perché ha spesso permesso di sfaldare un edificio pleonastico basato su dati storici che non facevano che costituire un ingombro per tali ricerche, è anche vero che molto spesso questa preferenza data all’approccio sincronico ha finito col costituire una remora a molte serie indagini che muovevano alla ricerca delle origini prime, delle cause remote, di taluni successivi sviluppi. Ecco perché ritengo che sia opportuna una distinzione netta tra il valore che un approccio sincronico presenta per lo studio dell’arte (e del linguaggio verbale) e per lo studio della filosofia. Mi sembra ovvio, infatti, che per la seconda sia del tutto impensabile di voler prescindere dall’aspetto diacronico, proprio perché il fattore storico è essenziale in questa disciplina, mentre lo è solo in alcuni casi per la prima.

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.), è ormai abbastanza generalmente accettata l’ipotesi, anzi la constatazione, del verificarsi di alcune condizioni per cui, entro ogni area culturale, si presentano analoghi «modelli» svincolati dal percorso storico, e che vengono a costituire quasi delle costanti transepocali.

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E, del resto, non è da oggi che si ribadisce (e non lo si farà mai abbastanza) la «non-normatività» dell’estetica e delle sue «leggi»; e la - per contro - assoluta normatività (autonormatività) d’ogni poetica, dunque d’ogni autonoma operazione creativa (poietica) da parte dell’artista.

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Tuttavia, un ritorno a un tipo d’arte che abbia abbandonato i valori di scambio per quelli esclusivamente d’uso - oggi quasi inimmaginabile -, mi sembra abbastanza ipotizzabile, comunque si mettano le cose dal punto di vista socio-politico. Ne abbiamo già oggi degli esempi anche se marginali e paradossali: la pittura-scultura infantile, quella dei dementi (entrambe spesso «spontanee» o esercitate con precisi intenti pedagogici e terapeutici) sono forme d’arte del tutto avulse da ogni «valore di scambio», cariche invece di un «valore d’uso». (Anche se, persino su questi onesti e candidi esempi d’un’arte fatta per catartizzare e curare, si son visti lanciarsi gli avvoltoi dell’affarismo consumistico: allestitori di mostre d’arte infantile e di arte demenziale, pronti a «valorizzare» tali opere assurde e perciò allettanti sul mercato artistico). E allora non stupisce che, accanto a tanti esempi di body art, di forme autodeformatrici e autolesionistiche, si siano riesumati degli esempi «storici» come quelli del viennese Messerschmid (1736-83)1 e che nella Documenta 73 di Kassel, accanto alla Selbstdarstellungen dei Ben, dei Nitsch, degli Acconci (essi stessi per buona parte rientranti nella categoria d’un’arte patologica anche se già in partenza mercificata) si siano allestite mostre come quelle degli schizofrenici Adolf Wölfli e H. A. Müller. Si tratta comunque di casi e di esempi marginali, che non tolgono nulla alle previsioni, in parte positive, che ho fatto per quanto riguarda la possibilità futura d’un’arte non soggetta all’esclusiva esca del consumismo, e capace invece di valere da complemento e da completamento al «tempo lavorativo», nonché da stimolo per una diversa utilizzazione di quello che - con espressione quanto mai incauta - è stato definito «tempo libero».

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Della semanticità della pittura moderna si è, credo, discusso e ragionato abbastanza; mi pare invece che sia importante discorrere d’una sempre più evidente dimensione sintattica, della stessa del legame e del nesso - ora lasso ora stretto - intercorrente tra i «segni» del nuovo linguaggio visuale; e questo proprio oggi che, come dissi dianzi, la pittura molto spesso è ridotta alla macchia, al dinamismo del gesto, al ritmo del «foro», alla negativizzazione dell'immagine quale appare negli «spazi vuoti» di Rothko, di Tapies, di Feito.

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È abbastanza sintomatico che la figura del critico d’arte si sia affermata in età postbarocca, mentre prima d’allora s’identificava il più delle volte con quella dello stesso artista o dello storico-filosofo. È una condizione analoga a quella che vide l’instaurarsi d’una disciplina a sé stante, cui fu dato il nome di estetica. (Solo a partire dal 1750, anno della pubblicazione dell’Aesthetica di Baumgarten, come è noto). Perché prima d’allora l’estetica era compito dello stesso artista o del filosofo e dello storico, e perché, a un certo momento dell’evoluzione del pensiero umano, si è avvertita la necessità o l’opportunità di creare una disciplina a sé stante che analizzasse il perché dell’arte?

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I due eventi non hanno probabilmente nessun addentellato: non credo che Husserl (oltretutto abbastanza indifferente ai problemi artistici dell’epoca) avesse alcun rapporto con i giovani scapigliati che raccoglievano oggetti inutili e li trasformavano in oggetti artistici solo attraverso un atto di volontà e di decisione. Eppure alcuni principî divenuti oggi comuni e ben noti: l’intenzionalità dell’artista, l’oggettualizzazione, stanno alla base di quelle ricerche e permettono quindi di giustificarle anche in un senso più «profondo» di quanto di solito non si faccia.

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