Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il sistema periodico

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Levi, Primo 13 occorrenze

Non tutti erano materialmente inerti, perché ciò non era loro concesso: erano anzi, o dovevano essere, abbastanza attivi, per guadagnarsi da vivere e per una certa moralità dominante per cui "chi non lavora non mangia"; ma inerti erano senza dubbio nel loro intimo, portati alla speculazione disinteressata, al discorso arguto, alla discussione elegante, sofistica e gratuita. Non deve essere un caso se le vicende che loro vengono attribuite, per quanto assai varie, hanno in comune un qualcosa di statico, un atteggiamento di dignitosa astensione, di volontaria (o accettata) relegazione al margine del gran fiume della vita. Nobili, inerti e rari: la loro storia è assai povera rispetto a quella di altre illustri comunità ebraiche dell' Italia e dell' Europa. Pare siano giunti in Piemonte verso il 1500, dalla Spagna attraverso la Provenza, come sembrano dimostrare alcuni caratteristici cognomi-toponimi, quali Bedarida-Bédarrides, Momigliano-Montmélian, Segre (è un affluente dell' Ebro che bagna Lérida, nella Spagna nord-orientale), Foà-Foix, Cavaglion-Cavaillon, Migliau-Millau; il nome della cittadina di Lunel, presso le Bocche del Rodano, fra Montpellier e Ni4mes, è stato tradotto nell' ebraico Jaréakh ( : luna), e di qui è derivato il cognome ebreo-piemontese Jarach. Respinti o male accetti a Torino, si erano stanziati in varie località agricole del Piemonte meridionale, introducendovi la tecnologia della seta, e senza mai superare, anche nei periodi più floridi, la condizione di una minoranza estremamente esigua. Non furono mai molto amati né molto odiati; non sono state tramandate notizie di loro notevoli persecuzioni; tuttavia, una parete di sospetto, di indefinita ostilità, di irrisione, deve averli tenuti sostanzialmente separati dal resto della popolazione fino a parecchi decenni dopo l' emancipazione del 1.4. ed il conseguente inurbamento, se è vero quanto mio padre mi raccontava della sua infanzia a Bene Vagienna: e cioè che i suoi coetanei, all' uscita dalla scuola, usavano schernirlo (benevolmente) salutandolo col lembo della giacchetta stretto nel pugno a mo' di orecchio d' asino, e cantando: "Orije 'd crin, orije d' aso, a ji ebreo ai piaso": "orecchie di porco, orecchie d' asino, piacciono agli ebrei". L' allusione alle orecchie è arbitraria, ed il gesto era in origine la parodia sacrilega del saluto che gli ebrei pii si scambiano in sinagoga, quando sono chiamati alla lettura della Bibbia, mostrandosi a vicenda il lembo del manto di preghiera, i cui fiocchi, minuziosamente prescritti dal rituale come numero, lunghezza e forma, sono carichi di significato mistico e religioso: ma del loro gesto quei ragazzini ignoravano ormai la radice. Ricordo qui per inciso che il vilipendio del manto di preghiera è antico come l' antisemitismo: con questi manti, sequestrati ai deportati, le SS facevano confezionare mutande, che venivano poi distribuite agli ebrei prigionieri nei Lager. Come sempre avviene, il rifiuto era reciproco: da parte della minoranza, una barriera simmetrica era stata eretta contro l' intera cristianità ("gojìm", "ñarelìm": le "genti", i "non-circoncisi"), riproducendo, su scala provinciale e su di uno sfondo pacificamente bucolico, la situazione epica e biblica del popolo eletto. Di questo fondamentale sfasamento si alimentava l' arguzia bonaria dei nostri zii ("barba") e delle nostre zie ("magne"): savi patriarchi tabaccosi e domestiche regine della casa, che pure si autodefinivano orgogliosamente "'l pòpôl d' Israél". Per quanto riguarda questo termine "zio", è bene avvertire subito che esso deve essere inteso in senso assai ampio. Fra di noi, è usanza chiamare zio qualunque parente anziano, anche se lontanissimo: e poiché tutte o quasi le persone anziane della comunità, alla lunga, sono nostre parenti, ne segue che il numero dei nostri zii è grande. Nel caso poi degli zii che raggiungono un' età avanzata (evento frequente: siamo gente longeva, fino da Noè), l' attributo di "barba", o rispettivamente di "magna", tende a fondersi lentamente col nome, e col concorso di ingegnosi diminutivi, e di una insospettata analogia fonetica tra l' ebraico e il piemontese, si irrigidisce in appellativi complessi di strano suono, che si tramandano poi invariati di generazione in generazione insieme con le vicende, le memorie e i detti di chi li ha a lungo portati. Sono nati così i Barbaiòtô (zio Elia), Barbasachìn (zio Isacco), Magnaiéta (zia Maria), Barbamôisìn (zio Mosè, di cui si tramanda che si fosse fatto cavare dal ciarlatano i due incisivi inferiori per poter reggere più comodamente il cannello della pipa), Barbasmelìn (zio Samuele), Magnavigàia (zia Abigaille, che da sposa era entrata in Saluzzo a cavallo d' una mula bianca, risalendo da Carmagnola il Po gelato), Magnafôria (zia Zefora, dall' ebraico Tzipporà che vale "Uccella": splendido nome). Ad un' epoca anche più remota doveva appartenere Nònô Sacòb, che era stato in Inghilterra a comperare stoffe, e perciò portava "'na vestimenta a quàder": suo fratello, Barbapartìn (zio Bonaparte: nome tuttora comune fra gli ebrei, a ricordo della prima effimera emancipazione elargita da Napoleone), era decaduto dalla sua qualità di zio perché il Signore, benedetto sia Egli, gli aveva donato una moglie così insopportabile che lui si era battezzato, fatto frate, e partito missionario in Cina, per essere il più possibile lontano da lei. Nona Bimba era bellissima, portava un boa di struzzo ed era baronessa. Lei e tutta la sua famiglia li aveva fatti baroni Napoleone, perché loro "l' aviô prestaie 'd mañòd", gli avevano imprestato dei soldi. Barbarônìn era alto, robusto e di idee radicali: era scappato da Fossano a Torino e aveva fatto molti mestieri. Lo avevano scritturato al Teatro Carignano come comparsa per il Don Carlos, e lui aveva scritto ai suoi che venissero ad assistere alla prima. Erano venuti lo zio Natàn e la zia Allegra, in loggione; quando il sipario si alzò, e la zia vide il figlio tutto armato come un filisteo, gridò con quanta voce aveva: "Rônìn, co 't fai! Posa côl sàber!": "Aronne, che fai! Posa quella sciabola!" Barbamiclìn era un semplice; in Acqui veniva rispettato e protetto, perché i semplici sono figli di Dio e non dirai loro "raca". Però lo chiamavano Piantabibini, da quando un rashàn (un empio) si era preso gioco di lui facendogli credere che i tacchini ("bibini") si seminano come i peschi, piantandone le penne nei solchi, e crescono poi sui rami. Del resto, il tacchino aveva un posto curiosamente importante in questo mondo famigliare arguto, mite ed assestato: forse perché, essendo presuntuoso, goffo e collerico, esprime le qualità opposte e si presta a divenire uno zimbello; o forse, più semplicemente, perché a sua spese si confezionava a Pasqua una celebre semi-rituale quai5tta 'd pitô (polpetta di tacchino). Per esempio, anche lo zio Pacifico allevava una tacchina e le si era affezionato. Davanti a lui abitava il Signor Lattes che era musicista. La tacchina chiocciava e disturbava il Signor Lattes; questi pregò lo zio Pacifico di far tacere la sua tacchina. Lo zio rispose; "Sarà fàita la soa4 cômissiôn. Sôra pita, c' a staga ciùtô": "Sarà fatta la sua commissione. Signora tacchina, stia zitta". Lo zio Gabriele era rabbino, e perciò era noto come "Barba Morénô", "zio Nostro Maestro". Vecchio e quasi cieco, se ne tornava a piedi, sotto il sole rovente, da Verzuolo a Saluzzo. Vide arrivare un carro, lo fermò e chiese di salire; ma poi, parlando col conducente, a poco a poco si rese conto che quello era un carro funebre, che portava una morta cristiana al cimitero: cosa abominevole, perché, come sta scritto in Ezechiele 44.25, un sacerdote che tocchi un morto, o anche solo entri nella camera dove giace un morto, è contaminato e impuro per sette giorni. Balzò in piedi e gridò: "I eu viagià côn 'na pegartà! Viturìn fermé!": "Ho viaggiato con una morta! Vetturino fermate!" Il Gnôr Grassiadiô e il Gnôr Côlômbô erano due amici-nemici che, secondo la leggenda, abitarono per tempo immemorabile a fronte a fronte, sui due lati di uno stretto vicolo della città di Moncalvo. Il Gnôr Grassiadiô era massone e ricchissimo: si vergognava un poco di essere ebreo, ed aveva sposato una gôià, e cioè una cristiana, dai capelli biondi lunghi fino al suolo, che gli metteva le corna. Questa gôià, benché appunto gôià, si chiamava Magna Ausilia, il che indica un certo grado di accettazione da parte degli epigoni; era figlia di un capitano di mare, che aveva regalato al Gnôr Grassiadiô un grosso pappagallo di tutti i colori che veniva dalle Guyane, e diceva in latino "Conosci te stesso". Il Gnôr Côlômbô era povero e mazziniano: quando arrivò il pappagallo, si era comperata una cornacchia tutta spelacchiata e le aveva insegnato a parlare. Quando il pappagallo diceva "Nosce te ipsum" la cornacchia rispondeva "Fate furb", "fatti furbo". Ma a proposito della pegartà dello zio Davide, della gôià del Gnôr Grassiadiô, dei mañòd di Nona Bimba, e della havertà di cui diremo in seguito, si rende necessaria una spiegazione. "Havertà" è voce ebraica storpiata, sia nella forma sia nel significato, e fortemente pregnante. Propriamente, è un' arbitraria forma femminile di Havèr : Compagno, e vale "domestica", ma contiene l' idea accessoria della donna di bassa estrazione, e di credenze e costumi diversi, che si è costretti ad albergare sotto il nostro tetto; la havertà è tendenzialmente poco pulita e scostumata, e per definizione malevolmente curiosa delle usanze e dei discorsi dei padroni di casa, tanto da obbligare questi a servirsi in sua presenza di un gergo particolare, di cui evidentemente fa parte il termine "havertà" medesimo, oltre agli altri sopra citati. Questo gergo è ora quasi scomparso; un paio di generazioni addietro, era ancora ricco di qualche centinaio di vocaboli e di locuzioni, consistenti per lo più di radici ebraiche con desinenze e flessioni piemontesi. Un suo esame anche sommario ne denuncia la funzione dissimulativa e sotterranea, di linguaggio furbesco destinato ad essere impiegato parlando dei gôjìm in presenza dei gôjìm; o anche, per rispondere arditamente, con ingiurie e maledizioni da non comprendersi, al regime di clausura e di oppressione da essi instaurato. Il suo interesse storico è esiguo, perché non fu mai parlato da più di qualche migliaio di persone: ma è grande il suo interesse umano, come lo è quello di tutti i linguaggi di confine e di transizione. Esso contiene infatti una mirabile forza comica, che scaturisce dal contrasto fra il tessuto del discorso, che è il dialetto piemontese scabro, sobrio e laconico, mai scritto se non per scommessa, e l' incastro ebraico, carpito alla remota lingua dei padri, sacra e solenne, geologica, levigata dai millenni come l' alveo dei ghiacciai. Ma questo contrasto ne rispecchia un altro, quello essenziale dell' ebraismo della Diaspora, disperso fra "le genti" (i "gôjìm", appunto), teso fra la vocazione divina e la miseria quotidiana dell' esilio; e un altro ancora, ben più generale, quello insito nella condizione umana, poiché l' uomo è centauro, groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere. Il popolo ebreo, dopo la dispersione, ha vissuto a lungo e dolorosamente questo conflitto, e ne ha tratto, accanto alla sua saggezza, il suo riso, che infatti manca nella Bibbia e nei Profeti. Ne è pervaso l' yiddisch, e, nei suoi modesti limiti, lo era anche la bizzarra parlata dei nostri padri di questa terra, che voglio ricordare qui prima che sparisca: parlata scettica e bonaria, che solo ad un esame distratto potrebbe apparire blasfema, mentre è ricca invece di affettuosa e dignitosa confidenza con Dio, Nôssgnôr, Adonai Eloénô, Cadòss Barôkhù. La sua radice umiliata è evidente: vi mancano ad esempio, in quanto inutili, i termini per "sole", "uomo", "giorno", "città", mentre vi sono rappresentati i termini per "notte", "nascondere", "quattrini", "prigione", "sogno" (ma usato quasi esclusivamente nella locuzione "bahalòm", "in sogno", da aggiungere burlescamente ad un' affermazione affinché venga intesa dal partner, e solo da lui, come il suo contrario), "rubare", "impiccare" e simili; esiste inoltre un buon numero di dispregiativi, usati talvolta per giudicare persone, ma impiegati più tipicamente, ad esempio, fra moglie e marito fermi davanti al banco del bottegaio cristiano ed incerti sull' acquisto. Citiamo: " saròd", plurale maiestatico, non più inteso come tale, dell' ebraico "tzarà" : sventura, ed usato per descrivere una merce od una persona di scarso valore; ne esiste anche il grazioso diminutivo "sarôdìn", e non vorrei andasse dimenticato il feroce nesso "saròd e senssa mañòd", usato dal sensale di matrimoni a proposito di fanciulle brutte e senza dote; "hasirùd", astratto collettivo da "hasìr" : maiale, e quindi equivalente pressapoco a "porcheria, maialume". Si noti che il suono "u" (francese) non esiste in ebraico; esiste bensì la desinenza "ùt" (con "u" italiana), che serve a coniare termini astratti (ad esempio "malkhùt", regno, da "mélekh", re), ma essa manca della connotazione fortemente spregiativa che aveva nell' impiego gergale. Altro uso, tipico ed ovvio, di queste e simili voci era in bottega, fra il padrone ed i commessi e contro gli avventori: nel Piemonte del secolo scorso il commercio delle stoffe era sovente in mani ebraiche, e ne è nato un sottogergo specialistico che, trasmesso dai commessi divenuti a loro volta padroni, e non necessariamente ebrei, si è diffuso a molte botteghe del ramo e vive tuttora, parlato da gente che rimane assai stupita quando viene casualmente a sapere che usa parole ebraiche. Qualcuno, ad esempio, impiega ancora l' espressione "'na vesta a kinìm" per indicare "un vestito a puntini": ora i "kinìm" sono i pidocchi, la terza delle dieci piaghe d' Egitto, enumerate e cantate nel rituale della Pasqua ebraica. Vi è poi un discreto assortimento di vocaboli poco decenti, da impiegarsi non solo in senso proprio davanti ai bambini, ma anche in luogo d' improperi: nel qual caso, in confronto coi termini corrispondenti italiani o piemontesi, essi presentano, oltre al già menzionato vantaggio di non essere compresi, anche quello di alleviare il cuore senza scorticare la bocca. Certamente più interessanti per lo studioso del costume sono alcuni pochi termini che alludono a cose di pertinenza della fede cattolica. In questo caso la forma originariamente ebraica è corrotta molto più profondamente, e ciò per due ragioni: in primo luogo, la segretezza era qui strettamente necessaria, perché la loro comprensione da parte dei gentili avrebbe potuto comportare il pericolo di una incriminazione per sacrilegio; in secondo luogo, la storpiatura acquista in questo caso il preciso scopo di negare, di obliterare il contenuto magico-sacrale della parola, e quindi di sottrarle ogni virtù soprannaturale: per lo stesso motivo, in tutte le lingue il Diavolo viene designato con moltissimi appellativi a carattere allusivo ed eufemistico, che permettono di indicarlo senza proferirne il nome. La chiesa (cattolica) era detta "tônevà", vocabolo di cui non sono riuscito a ricostruire l' origine, e che probabilmente di ebraico non ha che il suono; mentre la sinagoga, con orgogliosa modestia, veniva detta semplicemente "scòla", il luogo dove si impara e si viene educati, e, parallelamente, il rabbino non veniva designato col termine proprio "rabbi" o "rabbénu" (nostro rabbi), ma come Morénô (nostro maestro), o Khakhàm (il Sapiente). A scòla, infatti, non si è feriti dall' odioso Khaltrùm dei gentili: Khaltrùm, o Khantrùm, è il rito e la bigotteria dei cattolici, intollerabile perché politeistica e soprattutto perché gremita d' immagini ("Non avrai altri dèi che me; non ti farai scultura né immagine ... e non la adorerai", Esodo 20.3) e quindi idolatrica. Anche di questo termine, carico d' esecrazione, l' origine è oscura, quasi certamente non ebraica: ma in altri gerghi giudeo-italiani esiste l' aggettivo "khalto", nel senso appunto di "bigotto", ed usato principalmente a descrivere il cristiano adoratore d' immagini. A-issà è la Madonna (vale semplicemente "la donna"); del tutto criptico ed indecifrabile, ed era da prevedersi, è il termine "Odò", con cui, quando proprio non se ne poteva fare a meno, si alludeva al Cristo, abbassando la voce e guardandosi attorno con circospezione: di Cristo è bene parlare il meno possibile, perché il mito del Popolo Deicida è duro a morire. Altri numerosi termini erano tratti tali e quali dal rituale e dai libri sacri, che gli ebrei nati nel secolo scorso leggevano più o meno speditamente nell' originale ebraico, e spesso comprendevano in buona parte: ma, nell' uso gergale, tendevano a deformarne o ad allargarne arbitrariamente l' area semantica. Dalla radice "shafòkh", che vale "spandere" e compare nel Salmo 79 ("Spandi la Tua ira sulle genti che non Ti riconoscono, e sopra i regni che non invocano il Tuo Nome"), le nostre antiche madri avevano tratto la domestica espressione "fé sefòkh", fare sefòkh, con cui si descriveva con delicatezza il vomito infantile. Da "rùakh", plurale "rukhòd", che vali "alito", illustre vocabolo che si legge nel tenebroso e mirabile secondo versetto della Genesi ("Il vento del Signore alitava sopra la faccia delle acque"), si era tratto "tiré 'n ruàkh", "tirare un vento", nei suoi diversi significati fisiologici: dove si ravvisa la biblica dimestichezza del Popolo Eletto col suo Creatore. Come esempio di applicazione pratica, si tramanda il detto della zia Regina, seduta con lo zio Davide al Caffè Fiorio in via Po: "Davidìn, bat la cana, c' as sentô nèn le rôkhòd!": che attesta un rapporto coniugale di intimità affettuosa. Quanto alla canna, poi, era a quel tempo un simbolo di condizione sociale, come potrebbe essere oggi il viaggiatore in 1a classe in ferrovia: mio padre, ad esempio, ne possedeva due, una di bambù per i giorni feriali, e l' altra di malacca col manico placcato d' argento per la domenica. La canna non gli serviva per appoggiarsi (non ne aveva bisogno), bensì per rotearla giovialmente in aria, e per allontanare dal suo cammino i cani troppo insolenti; come uno scettro, insomma, per distinguersi dal volgo. "Berakhà" è la benedizione: un ebreo pio è tenuto a pronunziarne più centinaia al giorno, e lo fa con gioia profonda, poiché intrattiene così il millenario dialogo con l' Eterno, che in ogni berakhà viene lodato e ringraziato per i Suoi doni. Nonô Leônin era il mio bisnonno, abitava a Casale Monferrato ed aveva i piedi piatti; il vicolo davanti alla sua casa era acciottolato, e lui soffriva a percorrerlo. Un mattino uscì di casa e trovò il vicolo lastricato, ed esclamò dal profondo del cuore: "'N abrakhà a côi gôìm c' a l' an fàit i lòsi!": una benedizione a quegli infedeli che hanno fatto le lastre. In funzione di maledizione veniva invece usato il curioso nesso "medà meshônà", letteralmente "morte strana", ma in effetti calco del piemontese "assidènt". Allo stesso Nonô Leônìn si attribuisce l' imprecazione inesplicabile "c' ai takèissa 'na medà meshônà fàita a paraqua", gli prendesse un accidenti fatto a parapioggia. Né potrei dimenticare Barbaricô, più vicino nel tempo e nello spazio, tanto che poco è mancato (una sola generazione) a che egli fosse mio zio nell' accezione ristretta del termine. Di lui conservo un ricordo personale, e quindi articolato e complesso, non "figé dans un' attitude" come quello dei mitici personaggi che finora ho ricordati. A Barbaricô si addice a pennello la similitudine dei gas inerti con cui incominciano queste pagine. Aveva studiato medicina ed era diventato un buon medico, ma non gli piaceva il mondo. Gli piacevano cioè gli uomini, e particolarmente le donne, i prati, il cielo: ma non la fatica, il fracasso dei carri, le mene per la carriera, le brighe per il pane quotidiano, gli impegni, gli orari e le scadenze; nulla insomma di quello che caratterizzava la vita affannosa della città di Casale Monferrato nel 1.90. Avrebbe voluto evadere, ma era troppo pigro per farlo. Gli amici ed una donna, che lo amava e che lui sopportava con distratta benevolenza, lo convinsero a concorrere per il posto di medico a bordo di un transatlantico di linea; vinse agevolmente il concorso, fece un solo viaggio da Genova a Nuova York, ed al ritorno a Genova rassegnò le dimissioni, perché in America "a j' era trop bôrdél", c' era troppo fracasso. Dopo di allora prese stanza a Torino. Ebbe diverse donne, che tutte lo volevano redimere e sposare, ma lui riteneva troppo impegnativi sia il matrimonio, sia uno studio attrezzato e l' esercizio regolare della professione. Verso il 1930 era un vecchietto timido, rattrappito e trasandato, paurosamente miope; conviveva con una grossa gôià volgare, da cui tentava saltuariamente e debolmente di liberarsi, e che lui definiva volta a volta come "'na sôtià", "'na hamortà", "'na gran beemà" (una matta, un' asina, una gran bestia), ma senza acrimonia, ed anzi con una striatura di inesplicabile tenerezza. Questa gôià "a vôrìa fi5a félô samdé", voleva perfino farlo battezzare (letteralmente: distruggere); cosa che lui aveva sempre rifiutato, non per convinzione religiosa, ma per mancanza d' iniziativa e per indifferenza. Barbaricô aveva non meno di dodici fratelli e sorelle, che designavano la sua compagna col nome ironico e crudele di "Magna Môrfina": ironico perché la donna, poveretta, in quanto gôià ed in quanto priva di prole, non poteva essere una magna se non in senso estremamente limitato, e da intendersi anzi come il suo contrario, di "nonmagna", di esclusa e recisa dalla famiglia; crudele, perché conteneva un' allusione probabilmente falsa, e comunque impietosa, ad un certo suo sfruttamento del ricettario di Barbaricô. I due vivevano in una soffitta di Borgo Vanchiglia, sudicia e caotica. Lo zio era un ottimo medico, pieno di umana saggezza e d' intuito diagnostico, ma stava tutto il giorno sdraiato sulla sua cuccia a leggere libri e giornali vecchi: era un lettore attento, memore, eclettico ed infaticabile, benché la miopia lo costringesse a tenere gli stampati a tre dita dagli occhiali, che aveva spessi come fondi di bicchiere. Si alzava solo quando un cliente lo mandava a cercare, il che accadeva spesso, perché lui non si faceva pagare quasi mai; i suoi ammalati erano povera gente della borgata, da cui accettava come ricompensa mezza dozzina d' uova, o insalata dell' orto, o magari un paio di scarpe fruste. Dai clienti andava a piedi, perché non aveva i soldi per il tram; quando in strada intravvedeva, nella nebbia della miopia, una ragazza, le si avvicinava, e con sua sorpresa la esaminava accuratamente, girandole intorno ad un palmo di distanza. Non mangiava quasi niente, e più in generale non aveva bisogni; morì più che novantenne, con discrezione e dignità. Simile a Barbaricô nel suo rifiuto del mondo era Nona Fina, una di quattro sorelle che tutte si chiamavano Fina: questa singolarità anagrafica era dovuta al fatto che le quattro bambine erano state mandate successivamente a Bra dalla stessa balia, che si chiamava Delfina, e che chiamava così tutti i suoi "bailotti". Nona Fina abitava a Carmagnola, in un alloggio al primo piano, e faceva splendidi ricami all' uncinetto. A sessantott' anni ebbe un lieve malore, una caôdaña, come allora usavano le signore, ed oggi misteriosamente non usano più: da allora, per vent' anni e cioè fino alla sua morte, non uscì più dalla sua camera; al sabato, dal balconcino pieno di gerani, fragile ed esangue salutava con la mano la gente che usciva da "scòla". Ma doveva essere stata ben diversa nella sua giovinezza, se è vero quanto di lei si narra: che cioè, avendole suo marito condotto a casa come ospite il Rabbino di Moncalvo, uomo dotto ed illustre, lei gli avesse fatto mangiare a sua insaputa 'na côtletta 'd hasìr, una costoletta di maiale, perché non c' era altro in dispensa. Suo fratello Barbaraflìn (Raffaele), che prima della promozione a Barba era noto come 'l fieul 'd Môisé 'd Celìn, ormai già in età matura e ricchissimo per i mañòd guadagnati con le forniture militari, si era innamorato di una bellissima Dolce Valabrega di Gàssino; non osava dichiararsi, le scriveva lettere d' amore che non spediva, e scriveva a se stesso appassionate risposte. Anche Marchìn, ex-barba, ebbe un' infelice storia d' amore. Si era innamorato di Susanna (vale "giglio" in ebraico), donna alacre e pia, depositaria di una secolare ricetta per la confezione dei salami d' oca: questi salami si fanno utilizzando come involucro il collo stesso del volatile, e ne è seguito che nel Lassòn Acòdesh (nella "lingua santa", e cioè nel gergo di cui ci stiamo occupando) ben tre sinonimi per "collo" sono sopravvissuti. Il primo, mahané, è neutro e d' uso tecnico e generico; il secondo, savàr, si usa solo in metafore quali "a rôta 'd savàr", a rotta di collo: il terzo, khanèc, estremamente pregnante, allude al collo come percorso vitale, che può venire ostruito, occluso o reciso, e si usa in imprecazioni quali "c' at resta ant 'l khanèc", ti si possa fermare nel gozzo; "khanichésse" vale "impiccarsi". Di Susanna, dunque, Marchìn era commesso ed aiutante, sia nella misteriosa cucina-officina, sia nella bottega di vendita, nei cui scaffali erano disposti promiscuamente salami, arredi sacri, amuleti e libri di preghiere. Susanna lo rifiutò, e Marchìn si vendicò abominevolmente vendendo a un gòi la ricetta dei salami. È da pensare che questo gòi non ne abbia apprezzato il valore, dal momento che dopo la morte di Susanna (avvenuta in epoca storica) non è più stato possibile trovare in commercio salame d' oca degno del nome e della tradizione. Per questa sua spregevole ritorsione lo zio Marcìn perdette il diritto ad essere chiamato zio. Remoto fra tutti, portentosamente inerte, avvolto in uno spesso sudario di leggenda e d' incredibilità, e fossilizzato per ogni fibra nella sua qualità di zio, era Barbabramìn di Chieri, zio della mia nonna materna. Ancor giovane era già molto ricco, avendo acquistato dai nobili del luogo numerose cascine da Chieri fino all' Astigiano; facendo conto sulla sua eredità, i suoi parenti sperperarono tutti i loro averi in banchetti, balli e viaggi a Parigi. Ora avvenne che sua madre, la zia Milca ("Regina"), si ammalò, e dopo molto contendere col marito si indusse ad accettare di assumere una havertà, ossia una domestica, cosa che aveva recisamente rifiutata fino a quel tempo: infatti, presaga, non voleva donne per casa. Puntualmente, Barbabramìn fu colto d' amore per questa havertà, probabilmente la prima femmina meno che santa che gli fosse stato dato di avvicinare. Di costei non è stato tramandato il nome, bensì alcuni attributi. Era florida e bella, e possedeva splendide khalaviòd (seni: il termine è sconosciuto all' ebraico classico, dove tuttavia "khalàv" vale "latte"). Era naturalmente una gôià, era insolente e non sapeva leggere né scrivere; era invece un' abilissima cuoca. Era una contadina, "'na poñaltà", e andava scalza per casa. Proprio di tutto questo si innamorò lo zio: delle sue caviglie, della sua libertà di linguaggio, e dei mangiari che lei cucinava. Non disse niente alla ragazza, ma dichiarò a padre e madre che intendeva sposarla; i genitori andarono su tutte le furie, e lo zio si mise a letto. Ci rimase per ventidue anni. Su quanto abbia fatto Barbabramìn durante questi anni, le versioni divergono. Non c' è dubbio che li abbia in buona parte dormiti e giocati: si sa con certezza che andò in rovina economicamente, perché "non tagliava i cupòn" dei buoni del Tesoro, e perché aveva affidato l' amministrazione delle cascine ad un mamsér ("bastardo") che le aveva vendute per un boccone di pane ad un suo uomo di paglia; secondo i presagi della zia Milca, lo zio trascinò così nella sua rovina l' intero parentado, ed ancora oggi se ne lamentano le conseguenze. Si narra anche che abbia letto e studiato, e che, ritenuto infine sapiente e giusto, ricevesse dal suo letto delegazioni dei notabili di Chieri e dirimesse controversie; si narra ancora che, di questo medesimo letto, la via non fosse ignota a quella medesima havertà, e che almeno nei primi anni la volontaria clausura dello zio fosse interrotta da sortite notturne per andare a giocare a bigliardo nel caffè di sotto. Ma insomma a letto rimase, per quasi un quarto di secolo, e quando la zia Milca e lo zio Salomone morirono, sposò la havertà e se la portò nel letto definitivamente, perché era ormai talmente indebolito che le gambe non lo reggevano più. Morì povero, ma ricco d' anni e di fama, e in pace di spirito, nel 1..3. La Susanna dei salami d' oca era cugina di Nona Màlia, mia nonna paterna, che sopravvive in figura di agghindata minuscola ammaliatrice in alcune pose di studio eseguite verso il 1.70, e come una vecchietta grinzosa, stizzosa, sciatta e favolosamente sorda nei miei ricordi d' infanzia più lontani. Ancor oggi, inspiegabilmente, i piani più alti degli armadi restituiscono suoi preziosi cimeli: scialli di trina nera trapunti di pagliette iridate, nobili ricami di seta, un manicotto di martora straziato dalle tignole di quattro generazioni, posate d' argento massiccio segnate con le sue iniziali: come se, dopo quasi cinquant' anni, il suo spirito inquieto ancora visitasse la nostra casa. Ai suoi bei giorni era nota come "la Strassacoeur", la stracciacuori: rimase vedova molto presto, e corse voce che mio nonno si fosse ucciso disperato per le sue infedeltà. Allevò spartanamente tre figli e li fece studiare: ma in età avanzata si lasciò sposare da un vecchio medico cristiano, maestoso barbuto e taciturno, e da allora andò inclinando verso l' avarizia e la stranezza, quantunque in gioventù fosse stata regalmente prodiga, come sogliono essere le donne belle e molto amate. Col passare degli anni si estraniò totalmente dagli affetti famigliari (che del resto non doveva aver mai sentiti con profondità). Abitava col Dottore in via Po, in un alloggio fosco e cieco, intiepidito d' inverno solo da una stufetta Franklin, e non buttava via più niente, perché tutto poteva venire a taglio: neppure le croste del formaggio, né le stagnole dei cioccolatini, con cui confezionava palle argentate da mandare alle Missioni "per liberare un moretto". Forse per timore di sbagliare nella scelta definitiva, frequentava a giorni alterni la "Scòla" di via Pio-V e la parrocchia di Sant' Ottavio, e pare che andasse addirittura sacrilegamente a confessarsi. Morì più che ottantenne nel 192., assistita da un coro di vicine di casa scarmigliate, nerovestite e indementite come lei, condotte da una megera che si chiamava Madama Scìlimberg: fra i tormenti del blocco renale, la nonna sorvegliò la Scìlimberg fino al suo ultimo respiro, per timore che trovasse il maftèkh (la chiave) nascosto sotto il materasso, e le portasse via i mañòd e i hafassìm (i gioielli, che peraltro risultarono poi tutti falsi). Alla sua morte, i figli e le nuore si dedicarono per settimane, con sgomento e ribrezzo, a scegliere la montagna di relitti domestici da cui l' alloggio era invaso: Nona Màlia aveva conservato, indiscriminatamente, robe raffinate e pattume rivoltante. Dai severi armadi di noce intagliato uscirono eserciti di cimici abbagliate dalla luce, e poi lenzuola di lino mai usate, ed altre rattoppate e lise, logorate fino alla trasparenza; tendaggi e coperte di damasco "double face"; una collezione di colibrì impagliati, che appena toccati si sfecero in polvere; in cantina giacevano centinaia di bottiglie di vino prezioso girato in aceto. Si ritrovarono otto mantelli del Dottore, nuovi di zecca, imbottiti di naftalina, e l' unico che lei gli avesse mai concesso di usare, tutto toppe e rammendi, col bavero lucido d' untume, ed in tasca uno scudetto massonico. Non ricordo quasi nulla di lei, che mio padre chiamava Maman (anche in terza persona), ed amava descrivere con un suo ghiotto gusto del bizzarro, appena temperato da un velo di pietà filiale. Mio padre, ogni domenica mattina, mi conduceva a piedi in visita a Nona Màlia: percorrevamo lentamente via Po, e lui si fermava ad accarezzare tutti i gatti, ad annusare tutti i tartufi ed a sfogliare tutti i libri usati. Mio padre era l' Ingegné, dalle tasche sempre gonfie di libri, noto a tutti i salumai perché verificava con il regolo logaritmico la moltiplica del conto del prosciutto. Non che comprasse quest' ultimo a cuor leggero: piuttosto superstizioso che religioso, provava disagio nell' infrangere le regole del Kasherùt, ma il prosciutto gli piaceva talmente che, davanti alla tentazione delle vetrine, cedeva ogni volta, sospirando, imprecando sotto voce, e guardandomi di sottecchi, come se temesse un mio giudizio o sperasse in una mia complicità. Quando arrivavamo sul pianerottolo tenebroso dell' alloggio di via Po, mio padre suonava il campanello, ed alla nonna che veniva ad aprire gridava in un orecchio: "A l' è 'l prim 'd la scòla!", è il primo della classe. La nonna ci faceva entrare con visibile riluttanza, e ci guidava attraverso una filza di camere polverose e disabitate, una delle quali, costellata di strumenti sinistri, era lo studio semiabbandonato del Dottore. Il Dottore non si vedeva quasi mai, né io certo desideravo vederlo, dal giorno in cui avevo sorpreso mio padre raccontare a mia madre che, quando gli portavano in cura i bambini balbuzienti, lui gli tagliava con le forbici il filetto sotto la lingua. Arrivati nel salotto buono, mia nonna cavava da un recesso la scatola dei cioccolatini, sempre la stessa, e me ne offriva uno. Il cioccolatino era tarlato, ed io lo facevo sparire in tasca pieno d' imbarazzo.

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Non potrei giurare sull' autenticità di queste dicerie: ma veramente, quando entrava nel laboratorio di Preparazioni, nessun becco Bunsen era basso abbastanza, e perciò era prudenza spegnerli addirittura; veramente, faceva preparare il nitrato d' argento dagli studenti con le cinque lire dall' aquila tratte dalle loro tasche, e il cloruro di nichel dai venti centesimi con la signora nuda che volava; e veramente, la sola volta che fui ammesso nel suo studio, trovai scritto in bella scrittura sulla lavagna: "Non voglio funerali né da vivo né da morto". A me P. era simpatico. Mi piaceva il rigore sobrio delle sue lezioni; mi divertiva la sdegnosa ostentazione con cui esibiva agli esami, in luogo della camicia fascista prescritta, un buffo bavaglino nero, grande un palmo, che ad ognuno dei suoi movimenti bruschi gli usciva fuori dei risvolti della giacca. Apprezzavo i suoi due testi, chiari fino all' ossessione, stringati, pregni del suo arcigno disprezzo per l' umanità in generale e per gli studenti pigri e sciocchi in particolare: perché tutti gli studenti, per definizione, erano pigri e sciocchi; chi, per somma ventura, riusciva a dimostrargli di non esserlo, diventava un suo pari, e veniva onorato con una laconica e preziosa frase d' encomio. Ora i cinque mesi di attesa inquieta erano passati: fra di noi ottanta matricole erano stati scelti i venti meno pigri e meno sciocchi, quattordici maschi e sei ragazze, ed a noi era stato dischiuso il laboratorio di Preparazioni. Di che cosa esattamente si trattasse, nessuno di noi aveva un' idea precisa: mi pare che fosse una sua invenzione, una versione moderna e tecnica dei rituali selvaggi di iniziazione, in cui ogni suo suddito veniva bruscamente strappato al libro ed al banco, e trapiantato in mezzo ai fumi che bruciano gli occhi, agli acidi che bruciano le mani, e agli eventi pratici che non quadrano con le teorie. Non voglio certo contestare l' utilità, anzi la necessità, di questa iniziazione: ma nella brutalità con cui essa veniva posta in atto era facile ravvisare il talento dispettoso di P., la sua vocazione per le distanze gerarchiche e per il vilipendio di noi suo gregge. Insomma: non una parola, pronunciata o scritta, fu da lui spesa come viatico, per incoraggiarci sulla via che avevamo scelta, per indicarcene i pericoli e le insidie, e per trasmetterci le malizie. Ho spesso pensato che P. fosse nel suo profondo un selvaggio, un cacciatore; chi va in caccia non ha che da prendere il fucile, anzi meglio la zagaglia e l' arco, e mettersi per il bosco: il successo e l' insuccesso dipendono solo da lui. Prendi e parti, quando il momento è giunto gli aruspici e gli auguri non hanno luogo, la teoria è futile e si impara per strada, le esperienze degli altri non servono, l' essenziale è misurarsi. Chi vale vince, chi ha occhi o braccia o fiuto deboli ritorna e cambia mestiere: degli ottanta che ho detto, trenta cambiarono mestiere al second' anno, e altri venti più tardi. Quel laboratorio era ordinato e pulito. Ci si stava cinque ore al giorno, dalle 14 alle 19: all' ingresso, un assistente assegnava ad ognuno una preparazione, poi ognuno si recava allo "spaccio", dove l' irsuto Caselli consegnava la materia prima, esotica o domestica: un pezzetto di marmo a questo, dieci grammi di bromo a quello, un po' d' acido borico a quell' altro, una manciata d' argilla a quell' altro ancora. Queste reliquie, Caselli ce le affidava con una non dissimulata aria di sospetto: era il pane della scienza, pane di P., e finalmente era anche roba sua, roba che amministrava lui; chissà noi profani ed inesperti quale uso improprio ne avremmo fatto. Caselli amava P. di un amore acre e polemico. Pare che gli fosse stato fedele per quarant' anni; era la sua ombra, la sua incarnazione terrena, e, come tutti coloro che esercitano funzioni vicarie, era un interessante esemplare umano: come coloro, voglio dire, che rappresentano l' Autorità senza possederla in proprio, quali ad esempio i sagrestani, i ciceroni dei musei, i bidelli, gli infermieri, i "giovani" degli avvocati e dei notai, i rappresentanti di commercio. Costoro, in maggiore o minor misura, tendono a trasfondere la sostanza umana del loro Principale nel loro proprio stampo, come avviene per i cristalli pseudomorfici: talvolta ne soffrono, spesso ne godono, e posseggono due distinti schemi di comportamento, a seconda che agiscano in proprio o "nell' esercizio delle loro funzioni". Accade sovente che la personalità del Principale li invada così a fondo da disturbare i loro normali contatti umani, e che perciò essi restino celibi: il celibato è infatti prescritto ed accettato nella condizione monastica, che comporta appunto la vicinanza e la sudditanza alla maggiore delle autorità. Caselli era un uomo dimesso, taciturno, nei cui sguardi tristi eppure fieri si poteva leggere: _ lui è un grande scienziato, e come suo "famulus" sono un po' grande anch' io; _ io, benché umile, so cose che lui non sa; _ lo conosco meglio di quanto lui si conosca; prevedo i suoi atti; _ ho potere su di lui, lo difendo e lo proteggo; _ io ne posso dire male, perché lo amo: a voi questo non e concesso; _ i suoi principi4 sono giusti, ma lui li applica con rilassatezza, ed "una volta non andava così". Se non ci fossi io .... ... ed infatti, Caselli gestiva l' Istituto con parsimonia e misoneismo anche superiori a quelli di P. stesso. A me, il primo giorno, toccò in sorte la preparazione del solfato di zinco: non doveva essere troppo difficile, si trattava di fare un elementare calcolo stechiometrico, e di attaccare lo zinco in granuli con acido solforico previamente diluito; concentrare, cristallizzare, asciugare alla pompa, lavare e ricristallizzare. Zinco, zinc, Zinck: ci si fanno i mastelli per la biancheria, non è un elemento che dica molto all' immaginazione, è grigio e i suoi sali sono incolori, non è tossico, non dà reazioni cromatiche vistose, insomma, è un metallo noioso. È noto all' umanità da due o tre secoli, non è dunque un veterano carico di gloria come il rame, e neppure uno di quegli elementini freschi freschi che portano ancora addosso il clamore della loro scoperta. Caselli mi consegnò il mio zinco, tornai al banco e mi accinsi al lavoro: mi sentivo curioso, "genato" e vagamente scocciato, come quando hai tredici anni e devi andare al Tempio a recitare in ebraico la preghiera del Bar-Mitzvà davanti al rabbino; il momento, desiderato e un po' temuto, era giunto. Era scoccata l' ora dell' appuntamento con la Materia, la grande antagonista dello Spirito: la Hyle, che curiosamente si ritrova imbalsamata nelle desinenze dei radicali alchilici: metile, butile eccetera. L' altra materia prima, il partner dello zinco, e cioè l' acido solforico, non occorreva farselo dare da Caselli: ce n' era in abbondanza in tutti gli angoli. Concentrato, naturalmente: e devi diluirlo con acqua; ma attenzione, c' è scritto in tutti i trattati, bisogna operare alla rovescia, e cioè versare l' acido nell' acqua e non viceversa, altrimenti quell' olio dall' aspetto così innocuo va soggetto a collere furibonde: questo lo sanno perfino i ragazzi del liceo. Poi si mette lo zinco nell' acido diluito. Sulle dispense stava scritto un dettaglio che alla prima lettura mi era sfuggito, e cioè che il così tenero e delicato zinco, così arrendevole davanti agli acidi, che se ne fanno un solo boccone, si comporta invece in modo assai diverso quando è molto puro: allora resiste ostinatamente all' attacco. Se ne potevano trarre due conseguenze filosofiche tra loro contrastanti: l' elogio della purezza, che protegge dal male come un usbergo; l' elogio dell' impurezza, che dà adito ai mutamenti, cioè alla vita. Scartai la prima, disgustosamente moralistica, e mi attardai a considerare la seconda, che mi era più congeniale. Perché la ruota giri, perché la vita viva, ci vogliono le impurezze, e le impurezze delle impurezze: anche nel terreno, come è noto, se ha da essere fertile. Ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e di senape: il fascismo non li vuole, li vieta, e per questo tu non sei fascista; vuole tutti uguali e tu non sei uguale. Ma neppure la virtù immacolata esiste, o se esiste è detestabile. Prendi dunque la soluzione di solfato di rame che è nel reagentario, aggiungine una goccia al tuo acido solforico, e vedi che la reazione si avvia: lo zinco si risveglia, si ricopre di una bianca pelliccia di bollicine d' idrogeno, ci siamo, l' incantesimo è avvenuto, lo puoi abbandonare al suo destino e fare quattro passi per il laboratorio a vedere che c' è di nuovo e cosa fanno gli altri. Gli altri facevano cose varie: alcuni lavoravano intenti, magari fischiettando per darsi un' aria disinvolta, ciascuno dietro alla sua particola di Hyle; altri girellavano o guardavano fuori dalle finestre il Valentino ormai tutto verde, altri ancora fumavano e chiacchieravano negli angoli. In un angolo c' era una cappa, e davanti alla cappa sedeva Rita. Mi avvicinai, e mi accorsi con fugace piacere che stava cucinando la mia stessa pietanza: con piacere, perché era un pezzo che giravo intorno a Rita, preparavo mentalmente brillanti attacchi di discorso, e poi al momento decisivo non osavo enunciarli e rimandavo al giorno dopo. Non osavo per una mia radicata timidezza e sfiducia, ed anche perché Rita scoraggiava i contatti, non si capiva perché. Era molto magra, pallida, triste e sicura di sé: superava gli esami con buoni voti, ma senza il genuino appetito, che io sentivo, per le cose che le toccava studiare. Non era amica di nessuno, nessuno sapeva niente di lei, parlava poco, e per tutti questi motivi mi attraeva, cercavo di sederle accanto a lezione, e lei non mi accettava nella sua confidenza, ed io mi sentivo frustrato e sfidato. Mi sentivo disperato, anzi, e non certo per la prima volta: infatti, in quel tempo mi credevo condannato ad una perpetua solitudine mascolina, negato per sempre al sorriso di una donna, di cui pure avevo bisogno come dell' aria. Era ben chiaro che quel giorno mi si stava presentando un' occasione che non poteva andare sprecata: fra Rita e me esisteva in quel momento un ponte, un ponticello di zinco, esile ma praticabile; orsù, muovi il primo passo. Ronzando intorno a Rita mi accorsi di una seconda circostanza fortunata: dalla borsa della ragazza sporgeva una copertina ben nota, giallastra col bordo rosso, e sul frontispizio stava un corvo con un libro nel becco. Il titolo? Si leggeva soltanto "AGNA" e "TATA", ma tanto bastava: era il mio viatico di quei mesi, la storia senza tempo di Giovanni Castorp in magico esilio sulla Montagna Incantata. Ne chiesi conto a Rita, pieno d' ansia per il suo giudizio, quasi che il libro lo avessi scritto io: e mi dovetti presto convincere che lei, quel romanzo, lo stava leggendo in tutt' altro modo. Come un romanzo, appunto: le interessava molto sapere fino a che punto Giovanni si sarebbe spinto con la Signora Chauchat, e saltava senza misericordia le affascinanti (per me) discussioni politiche, teologiche e metafisiche dell' umanista Settembrini col gesuita-ebreo Naphtha. Non importa: anzi, c' è un terreno di dibattito. Potrebbe addirittura diventare una discussione essenziale e fondamentale, perché ebreo sono anch' io, e lei no: sono io l' impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape. L' impurezza, certo: poiché proprio in quei mesi iniziava la pubblicazione di "La Difesa della Razza", e di purezza si faceva un gran parlare, ed io cominciavo ad essere fiero di essere impuro. Per vero, fino appunto a quei mesi non mi era importato molto di essere ebreo: dentro di me, e nei contatti coi miei amici cristiani avevo sempre considerato la mia origine come un fatto pressoché trascurabile ma curioso, una piccola anomalia allegra, come chi abbia il naso storto o le lentiggini; un ebreo è uno che a Natale non fa l' albero, che non dovrebbe mangiare il salame ma lo mangia lo stesso, che ha imparato un po' di ebraico a tredici anni e poi lo ha dimenticato. Secondo la rivista sopra citata, un ebreo è avaro ed astuto: ma io non ero particolarmente avaro né astuto, e neppure mio padre lo era stato. C' era dunque in abbondanza di che discutere con Rita, ma il discorso a cui io tendevo non si innescava. Mi accorsi presto che Rita era diversa da me, non era un grano di senape. Era figlia di un negoziante povero e malato. L' università, per lei, non era affatto il tempio del Sapere: era un sentiero spinoso e faticoso, che portava al titolo, al lavoro e al guadagno. Lei stessa aveva lavorato, fin da bambina: aveva aiutato il padre, era stata commessa in una bottega di villaggio, ed anche allora viaggiava in bicicletta per Torino a fare consegne e a ritirare pagamenti. Tutto questo non mi allontanava da lei, anzi, lo trovavo ammirevole, come tutto quello che la riguardava: le sue mani poco curate, il vestire dimesso, il suo sguardo fermo, la sua tristezza concreta, la riserva con cui accettava i miei discorsi. Così il mio solfato di zinco finì malamente di concentrarsi, e si ridusse ad una polverina bianca che esalò in nuvole soffocanti tutto o quasi il suo acido solforico. Lo abbandonai al suo destino, e proposi a Rita di accompagnarla a casa. Era buio, e la casa non era vicina. Lo scopo che mi ero proposto era obiettivamente modesto, ma a me pareva di un' audacia senza pari: esitai per metà del percorso, e mi sentivo sui carboni ardenti, ed ubriacavo me stesso e lei con discorsi trafelati e sconnessi. Infine, tremando per l' emozione, infilai il mio braccio sotto il suo. Rita non si sottrasse, e neppure ricambiò la stretta: ma io regolai il mio passo sul suo, e mi sentivo ilare e vittorioso. Mi pareva di aver vinto una battaglia, piccola ma decisiva contro il buio, il vuoto, e gli anni nemici che sopravvenivano.

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Era la gaiezza ironica di un' intera generazione d' italiani, abbastanza intelligenti ed onesti per rifiutare il fascismo, troppo scettici per opporvisi attivamente, troppo giovani per accettare passivamente la tragedia che si delineava e per disperare del domani; una generazione a cui io stesso avrei appartenuto, se non fossero intervenute le provvide leggi razziali a maturarmi precocemente ed a guidarmi nella scelta. Il Tenente prese atto del mio consenso, e senza perdere tempo mi diede appuntamento in stazione per l' indomani. Preparativi? Non ne occorrevano molti: documenti no certo (avrei preso servizio in incognito, senza nome o con un nome falso, si sarebbe visto più avanti); qualche abito pesante, quelli da montagna potevano andare bene, un camice, libri se volevo: per il resto, nessuna difficoltà, avrei trovato una camera con riscaldamento, un laboratorio, pasti regolari presso una famiglia di operai, e colleghi buona gente, con cui peraltro mi raccomandava di non entrare in troppa confidenza per le note ragioni. Partimmo, scendemmo dal treno ed arrivammo alla miniera dopo cinque chilometri di salita in mezzo ad un bosco splendido di brina. Il Tenente, che era un tipo spiccio, mi presentò sommariamente al Direttore, un giovane ingegnere alto e vigoroso, che era anche più spiccio, e che evidentemente era già stato informato sulla mia situazione. Fui introdotto in laboratorio, dove mi aspettava una singolare creatura: una ragazzotta sui diciott' anni, dai capelli di fuoco e dagli occhi verdi, obliqui, maliziosi e curiosi. Appresi che sarebbe stata la mia aiutante. Durante il pranzo, che eccezionalmente mi fu offerto nei locali degli uffici, la radio diffuse la notizia dell' attacco giapponese a Pearl Harbor e della dichiarazione di guerra del Giappone agli Stati Uniti. I miei commensali (alcuni impiegati, oltre al Tenente) accolsero l' annuncio in varia maniera: alcuni, e fra questi il Tenente stesso, con riserbo e con caute occhiate dalla mia parte; altri, con commenti preoccupati; altri ancora, sostenendo bellicosamente l' invincibilità oramai comprovata delle armate giapponesi e tedesche. Il "qualche luogo" si era dunque localizzato nello spazio, senza però perdere nulla della sua magia. Già tutte le miniere sono magiche, da sempre. Le viscere della terra brulicano di gnomi, coboldi (cobalto!), niccoli (nichel!), che possono essere generosi e farti trovare il tesoro sotto la punta del piccone, o ingannarti, abbagliarti, facendo rilucere come l' oro la modesta pirite, o travestendo lo zinco con i panni dello stagno: e infatti, sono molti i minerali i cui nomi contengono radici che significano "inganno, frode, abbagliamento". Anche quella miniera aveva una sua magia, un suo incanto selvaggio. In una collina tozza e brulla, tutta scheggioni e sterpi, si affondava una ciclopica voragine conica, un cratere artificiale, del diametro di quattrocento metri: era in tutto simile alle rappresentazioni schematiche dell' Inferno, nelle tavole sinottiche della Divina Commedia. Lungo i gironi, giorno per giorno, si facevano esplodere le volate delle mine: la pendenza delle pareti del cono era la minima indispensabile perché il materiale smosso rotolasse fino al fondo, ma senza acquistare troppo impeto. Al fondo, al posto di Lucifero, stava una poderosa chiusura a saracinesca: sotto a questa, era un breve pozzo verticale che immetteva in una lunga galleria orizzontale; questa, a sua volta, sboccava all' aria libera sul fianco della collina, a monte dello stabilimento. Nella galleria faceva la spola un treno blindato: una locomotiva piccola ma potente presentava i vagoni uno per uno sotto la saracinesca affinché si riempissero, poi li trascinava a riveder le stelle. Lo stabilimento era costruito in cascata, lungo il pendìo della collina e sotto l' apertura della galleria: in esso il minerale veniva frantumato in un mostruoso frantoio, che il Direttore mi illustrò e mostrò con entusiasmo quasi infantile: era una campana capovolta, o se vogliamo una corolla di convolvolo, del diametro di quattro metri e di acciaio massiccio: al centro, sospeso dal di sopra e guidato dal di sotto, oscillava un gigantesco batacchio. L' oscillazione era minima, appena visibile, ma bastava per fendere in un batter d' occhio i macigni che piovevano dal treno: si spaccavano, si incastravano più in basso, si spaccavano nuovamente, ed uscivano dal di sotto in frammenti grossi come la testa di un uomo. L' operazione procedeva in mezzo ad un fracasso da apocalissi, in una nube di polvere che si vedeva fin dalla pianura. Il materiale veniva poi ulteriormente macinato fino a ghiaia, essiccato, selezionato: e ci volle assai poco per appurare che scopo ultimo di quel lavoro da ciclopi era strappare alla roccia un misero 2 per cento d' amianto che vi era intrappolato. Il resto, migliaia di tonnellate al giorno, veniva scaricato a valle alla rinfusa. Anno dopo anno, la valle si andava riempiendo di una lenta valanga di polvere e ghiaia. L' amianto che ancora vi era contenuto rendeva la massa leggermente scorrevole, pigramente pastosa, come un ghiacciaio: l' enorme lingua grigia, punteggiata di macigni nerastri, incedeva verso il basso laboriosamente, ponderosamente, di qualche decina di metri all' anno; esercitava sulle pareti della valle una pressione tale da provocare profonde crepe trasversali nella roccia; spostava di centimetri all' anno alcuni edifici costruiti troppo in basso. In uno di questi, detto "il sottomarino" appunto per la sua silenziosa deriva, abitavo io. C' era amianto dappertutto, come una neve cenerina: se si lasciava per qualche ora un libro su di un tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo; i tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra. Il capocava, che si chiamava Anteo, ed era un gigante obeso dalla folta barba nera che sembrava proprio traesse dalla madre terra il suo vigore, mi raccontò che, anni prima, una pioggia insistente aveva dilavato molte tonnellate d' amianto dalle pareti stesse della cava; l' amianto si era accumulato sul fondo del cono, sopra la valvola aperta, costipandosi segretamente in un tappo. Nessuno aveva dato peso alla cosa; ma aveva continuato a piovere, il cono aveva funzionato da imbuto, sul tappo si era formato un lago di ventimila metri cubi d' acqua, e ancora nessuno aveva dato peso alla cosa. Lui Anteo la vedeva brutta, ed aveva insistito presso il direttore di allora perché provvedesse in qualche modo: da buon capocava, lui propendeva per una bella mina sommersa, da far brillare senza perdere tempo sul fondo del lago; ma un po' di questo, un po' di quello, poteva essere pericoloso, si poteva danneggiare la valvola, bisognava sentire il consiglio d' amministrazione, nessuno voleva decidere, e decise la cava stessa, col suo genio maligno. Mentre i savi deliberavano, si era udito un boato sordo: il tappo aveva ceduto, l' acqua si era inabissata nel pozzo e nella galleria, aveva spazzato via il treno con tutti i suoi vagoni, ed aveva devastato lo stabilimento. Anteo mi mostrò i segni dell' alluvione, due metri buoni al di sopra del piano inclinato. Gli operai ed i minatori (che nel gergo locale si chiamavano "i minori") venivano dai paesi vicini, facendosi magari due ore di sentieri di montagna: gli impiegati abitavano sul posto. La pianura era a soli cinque chilometri, ma la miniera era a tutti gli effetti una piccola repubblica autonoma. In quel tempo di razionamento e di mercato nero, non c' erano lassù problemi annonari: non si sapeva come, ma tutti avevano di tutto. Molti impiegati avevano un loro orto, attorno alla palazzina quadrata degli uffici; alcuni avevano anche un pollaio. Era successo varie volte che le galline dell' uno sconfinassero nell' orto dell' altro, danneggiandolo, e ne erano nate noiose controversie e faide, che male si confacevano alla serenità del luogo ed all' indole sbrigativa del Direttore. Questi aveva troncato il nodo da par suo: aveva fatto comprare un fucile Flobert, e lo aveva appeso a un chiodo nel suo ufficio. Chiunque vedesse dalla finestra una gallina straniera razzolare nel proprio orto aveva il diritto di prendere il fucile e di spararle due volte: ma occorreva la flagranza. Se la gallina moriva sul terreno, il cadavere apparteneva allo sparatore: questa era la legge. Nei primi giorni dopo il provvedimento si era assistito a molte rapide corse al fucile e sparatorie, mentre tutti i non interessati facevano scommesse, ma poi non c' erano più stati sconfinamenti. Altre storie meravigliose mi vennero raccontate, come quella del cane del Signor Pistamiglio. Questo Signor Pistamiglio, al mio tempo, era ormai sparito da anni, ma sempre viva era la sua memoria, e, come avviene, si andava ricoprendo di una patina dorata di leggenda. Il Signor Pistamiglio era dunque un ottimo caporeparto, non più giovane, scapolo, pieno di buon senso, stimato da tutti, ed il suo cane era un bellissimo lupo, altrettanto probo e stimato. Era venuto un certo Natale, ed erano spariti quattro dei tacchini più grassi nel paese giù a valle. Pazienza: si era pensato ai ladri, alla volpe, poi più a niente. Ma venne un altro inverno, e questa volta di tacchini ne erano spariti sette, fra novembre e dicembre. Era stata fatta denuncia ai carabinieri, ma nessuno avrebbe mai chiarito il mistero se non si fosse lasciata scappare una parola di troppo il Signor Pistamiglio medesimo, una sera che era un po' bevuto. I ladri di tacchini erano loro due, lui e il cane. Alla domenica lui portava il cane in paese, girava per le cascine e gli faceva vedere quali erano i tacchini più belli e meno custoditi; gli spiegava caso per caso la strategia migliore; poi tornavano alla miniera, e lui di notte gli dava la larga, e il cane arrivava invisibile, strisciando lungo i muri come un vero lupo, saltava il recinto del pollaio oppure scavava un passaggio sotto, accoppava in silenzio il tacchino e lo riportava al suo complice. Non risulta che il Signor Pistamiglio vendesse i tacchini: secondo la versione più accreditata, li regalava alle sue amanti, che erano numerose, brutte, vecchie, e sparse in tutte le Prealpi piemontesi. Mi vennero raccontate moltissime storie: a quanto pareva, tutti i cinquanta abitatori della miniera avevano reagito fra loro, a due a due, come nel calcolo combinatorio; voglio dire, ognuno con tutti gli altri, ed in specie ogni uomo con tutte le donne, zitelle o maritate, ed ogni donna con tutti gli uomini. Bastava scegliere due nomi a caso, meglio se di sesso diverso, e chiedere a un terzo: "Che c' è stato fra loro?", ed ecco, mi veniva dipanata una splendida storia, poiché ognuno conosceva la storia di tutti. Non è chiaro perché queste vicende, spesso intricate e sempre intime, le raccontassero con tanta facilità proprio a me, che invece non potevo raccontare nulla a nessuno, neppure il mio vero nome; ma pare che questo sia il mio pianeta (e non me ne lamento affatto): io sono uno a cui molte cose vengono raccontate. Registrai, in diverse varianti, una saga remota, risalente ad un' epoca ancora di molto anteriore allo stesso Signor Pistamiglio: c' era stato un tempo in cui, negli uffici della miniera, era prevalso un regime da Gomorra. In quella leggendaria stagione, ogni sera, quando suonava la sirena delle cinque e mezza, nessuno degli impiegati andava a casa. A quel segnale, di fra le scrivanie scaturivano liquori e materassi, e si scatenava un' orgia che avvolgeva tutto e tutti, giovani dattilografe implumi e contabili stempiati, dal direttore di allora giù giù fino agli uscieri invalidi civili: il triste rondò delle scartoffie minerarie cedeva il campo ad un tratto, ogni sera, ad una sterminata fornicazione interclassista, pubblica e variamente intrecciata. Nessun superstite era sopravvissuto fino al nostro tempo, a portare testimonianza diretta: una sequenza di bilanci disastrosi aveva costretto l' Amministrazione di Milano ad un intervento drastico e purificatore. Nessuno, salvo la Signora Bortolasso, che, mi si assicurò, sapeva tutto, aveva visto tutto, ma non parlava per la sua pudicizia estrema. La Signora Bortolasso, del resto, non parlava mai con nessuno, salvo che per strette necessità di lavoro. Prima di chiamarsi così, si era chiamata la Gina delle Benne: a diciannove anni, già dattilografa negli uffici, si era innamorata di un giovane minatore smilzo e fulvo, che, senza ricambiarlo propriamente, mostrava tuttavia di accettare questo amore; ma "i suoi di lei" erano stati irremovibili. Avevano speso soldi per i suoi studi, e lei doveva mostrare gratitudine, fare un buon matrimonio, e non mettersi col primo venuto; ed anzi, poiché la ragazza queste cose non le intendeva, ci avrebbero pensato loro; che la piantasse col suo pelo rosso, oppure via di casa e via dalla miniera. La Gina si era disposta ad aspettare i ventun anni (non gliene mancavano che due): ma il rosso non aspettò lei. Si fece vedere di domenica con un' altra donna, poi con una terza, e finì con lo sposarne una quarta. La Gina prese allora una decisione crudele: se non aveva potuto legare a sé l' uomo di cui le importava, l' unico, ebbene, non sarebbe stata di nessun altro. Monaca no, era di idee moderne: ma si sarebbe vietato per sempre il matrimonio in un modo raffinato e spietato, e cioè sposandosi. Era ormai un' impiegata di concetto, necessaria all' Amministrazione dotata di una memoria di ferro e di una diligenza proverbiale: fece sapere a tutti, ai genitori ed ai superiori, che intendeva sposare Bortolasso, lo scemo della miniera. Questo Bortolasso era un manovale di mezza età, forte come un mulo e sporco come un verro. Non doveva essere uno scemo puro: è più probabile che appartenesse a quel tipo umano di cui si dice in Piemonte che fanno i folli per non pagare il sale; al riparo dietro l' immunità che si concede ai deboli di mente, Bortolasso esercitava con negligenza estrema la funzione di giardiniere. Con una negligenza tale da sconfinare in un' astuzia rudimentale: sta bene, il mondo lo aveva dichiarato irresponsabile, ed ora doveva sopportarlo portarlo come tale, anzi mantenerlo ed avere cura di lui. L' amianto bagnato dalla pioggia si estrae male, perciò il pluviometro, alla miniera, era molto importante: stava in mezzo ad un' aiuola, ed il Direttore stesso ne rilevava le indicazioni. Bortolasso, che ogni mattina innaffiava le aiuole, prese l' abitudine di innaffiare anche il pluviometro, inquinando severamente i dati dei costi d' estrazione; il Direttore (non subito) se ne accorse, e gli impose di smetterla. "Allora gli piace asciutto", ragionò Bortolasso: e dopo ogni pioggia andava ad aprire la valvola di fondo dello strumento. Al tempo del mio arrivo la situazione si era stabilizzata da un pezzo. La Gina, ormai Signora Bortolasso, era sui trentacinque anni: la modesta bellezza del suo viso si era irrigidita e fissata in una maschera tesa e pronta, e recava manifesto lo stigma della verginità protratta. Perché vergine era rimasta: tutti lo sapevano perché Bortolasso lo raccontava a tutti. Questi erano stati i patti, al tempo del matrimonio; lui li aveva accettati, anche se poi, quasi tutte le notti, aveva cercato di violare il letto della donna. Ma lei si era difesa furiosamente, ed ancora si difendeva: mai e poi mai un uomo, e meno che tutti quello, avrebbe potuto toccarla. Queste battaglie notturne fra i tristi coniugi erano diventate la favola della miniera, ed una delle sue poche attrazioni. In una delle prime notti tiepide, un gruppo di aficionados mi invitarono ad andare con loro per sentire che cosa capitava. Io rifiutai, e loro tornarono delusi poco dopo: si udiva solo un trombone che suonava Faccetta Nera. Mi spiegarono che qualche volta succedeva; lui era uno scemo musicale, e si sfogava così. Del mio lavoro mi innamorai fin dal primo giorno, benché non si trattasse d' altro, in quella fase, che di analisi quantitative su campioni di roccia: attacco con acido fluoridrico, giù il ferro con ammoniaca, giù il nichel (quanto poco! un pizzico di sedimento rosa) con dimetilgliossima, giù il magnesio con fosfato, sempre uguale, tutti i santi giorni: in sé, non era molto stimolante. Ma stimolante e nuova era un' altra sensazione: il campione da analizzare non era più un' anonima polverina manufatta, un quiz materializzato; era un pezzo di roccia, viscera della terra, strappata alla terra per forza di mine: e sui dati delle analisi giornaliere nasceva a poco a poco una mappa, il ritratto delle vene sotterranee. Per la prima volta dopo diciassette anni di carriera scolastica, di aoristi e di guerre del Peloponneso, le cose imparate incominciavano dunque a servirmi. L' analisi quantitativa, così avara di emozioni, greve come il granito, diventava viva, vera, utile, inserita in un' opera seria e concreta. Serviva: era inquadrata in un piano, una tessera di un mosaico. Il metodo analitico che seguivo non era più un dogma libresco, veniva ricollaudato ogni giorno, poteva essere affinato, reso conforme ai nostri scopi, con un gioco sottile di ragione, di prove e di errori. Sbagliare non era più un infortunio vagamente comico, che ti guasta un esame o ti abbassa il voto: sbagliare era come quando si va su roccia, un misurarsi, un accorgersi, uno scalino in su, che ti rende più valente e più adatto. La ragazza del laboratorio si chiamava Alida. Assisteva ai miei entusiasmi di neofita senza condividerli; ne era anzi sorpresa e un po' urtata. La sua presenza non era sgradevole. Veniva dal liceo, citava Pindaro e Saffo, era figlia di un gerarchetto locale del tutto innocuo, era furba ed infingarda, e non le importava nulla di nulla, e meno che mai dell' analisi della roccia, che dal Tenente aveva imparato meccanicamente ad eseguire. Anche lei, come tutti lassù, aveva interagito con varie persone, e non ne faceva alcun mistero con me, grazie a quella mia curiosa virtù confessoria a cui ho accennato prima. Aveva litigato con molte donne per vaghe rivalità, si era innamorata un poco di molti, molto di uno, ed era fidanzata di un altro ancora, un brav' uomo grigio e dimesso, impiegato all' Ufficio Tecnico, suo compaesano, che i suoi avevano scelto per lei; anche di questo non le importava nulla. Che farci? Ribellarsi? Andarsene? No, era una ragazza di buona famiglia, il suo avvenire erano i figli e i fornelli, Saffo e Pindaro cose del passato, il nichel un astruso riempitivo. Lavoricchiava in laboratorio in attesa di quelle nozze così poco agognate, lavava svogliatamente i precipitati, pesava la nichel-dimetilgliossima, e mi ci volle impegno per farla persuasa che non era opportuno maggiorare il risultato delle analisi: cosa che lei tendeva a fare, anzi mi confessò di aver fatto sovente, perché, diceva, tanto non costava niente a nessuno, e faceva piacere al Direttore, al Tenente e a me. Che cos' era poi, alla fine dei conti, quella chimica su cui il Tenente ed io ci arrovellavamo? Acqua e fuoco, nient' altro, come in cucina. Una cucina meno appetitosa, ecco: con odori penetranti o disgustosi invece di quelli domestici; se no, anche lì il grembiulone, mescolare, scottarsi le mani, rigovernare alla fine della giornata. Niente scampo per Alida. Ascoltava con devozione compunta, ed insieme con scetticismo italiano, i miei resoconti di vita torinese: erano resoconti assai censurati, perché sia lei, sia io, dovevamo pure stare al gioco del mio anonimato, tuttavia qualcosa non poteva non emergere: se non altro, dalle mie stesse reticenze. Dopo qualche settimana mi accorsi che non ero più un senza nome: ero un Dott. Levi che non doveva essere chiamato Levi, né alla seconda né alla terza persona, per buona creanza, per non far nascere imbrogli. Nell' atmosfera pettegola e tollerante delle Cave, lo sfasamento fra la mia indeterminata condizione di fuoricasta e la mia visibile mitezza di costumi saltava agli occhi, e, mi confessò Alida, veniva lungamente commentata e variamente interpretata: dall' agente dell' Ovra al raccomandato d' alto livello. Scendere a valle era scomodo, e per me anche poco prudente; poiché non potevo frequentare nessuno, le mie sere alle Cave erano interminabili. Qualche volta mi fermavo in laboratorio oltre l' ora della sirena, o ci ritornavo dopo cena a studiare, o a meditare sul problema del nichel; altre volte mi chiudevo a leggere le Storie di Giacobbe nella mia cameretta monastica del Sottomarino. Nelle sere di luna facevo sovente lunghe camminate solitarie attraverso la contrada selvaggia delle Cave, su fino al ciglio del cratere, o a mezza costa sul dorso grigio e rotto della discarica, corso da misteriosi brividi e scricchiolii, come se veramente ci si annidassero gli gnomi indaffarati: il buio era punteggiato da lontani ululati di cani nel fondo invisibile della valle. Questi vagabondaggi mi concedevano una tregua alla consapevolezza funesta di mio padre morente a Torino, degli americani disfatti a Bataan, dei tedeschi vincitori in Crimea, ed insomma della trappola aperta, che stava per scattare: facevano nascere in me un legame nuovo, più sincero della retorica della natura imparata a scuola, con quei rovi e quelle pietre che erano la mia isola e la mia libertà, una libertà che forse presto avrei perduta. Per quella roccia senza pace provavo un affetto fragile e precario: con essa avevo contratto un duplice legame, prima nelle imprese con Sandro, poi qui, tentandola come chimico per strapparle il tesoro. Da questo amore pietroso, e da queste solitudini d' amianto, in altre di quelle lunghe sere nacquero due racconti di isole e di libertà, i primi che mi venisse in animo di scrivere dopo il tormento dei componimenti in liceo: uno fantasticava di un mio remoto precursore, cacciatore di piombo anziché di nichel; l' altro, ambiguo e mercuriale, lo avevo ricavato da un cenno all' isola di Tristan da Cunha che mi era capitato sott' occhio in quel periodo. Il Tenente, che prestava servizio militare a Torino, saliva alle Cave solo un giorno alla settimana. Controllava il mio lavoro, mi dava indicazioni e consigli per la settimana seguente, e si rivelò un ottimo chimico ed un ricercatore tenace ed acuto. Dopo un breve periodo orientativo, accanto alla routine delle analisi quotidiane si andò delineando un lavoro di volo più alto. Nella roccia delle Cave c' era dunque il nichel: assai poco, dalle nostre analisi risultava un contenuto medio dello 0,2 per cento. Risibile, in confronto ai minerali sfruttati dai miei colleghi-rivali antipodi in Canadà e in Nuova Caledonia. Ma forse il greggio poteva essere arricchito? Sotto la guida del Tenente, provai tutto il provabile: separazioni magnetiche, per flottazione, per levigazione, per stacciatura, con liquidi pesanti, col piano a scosse. Non approdai a nulla: non si concentrava nulla, in tutte le frazioni ottenute la percentuale di nichel rimaneva ostinatamente quella originale. La natura non ci aiutava: concludemmo che il nichel accompagnava il ferro bivalente, lo sostituiva come un vicario, lo seguiva come un' ombra evanescente, un minuscolo fratello: 0,2 per cento di nichel, . per cento di ferro. Tutti i reattivi d' attacco pensabili per il nichel avrebbero dovuto essere impiegati in dose quaranta volte superiore, anche a non tener conto del magnesio. Un' impresa economicamente disperata. Nei momenti di stanchezza, percepivo la roccia che mi circondava, il serpentino verde delle Prealpi, in tutta la sua durezza siderale, nemica, estranea: al confronto, gli alberi della valle, ormai già vestiti di primavera, erano come noi, gente anche loro, che non parla, ma sente il caldo e il gelo, gode e soffre, nasce e muore, spande polline nel vento, segue oscuramente il sole nel suo giro. La pietra no: non accoglie energia in sé, è spenta fin dai primordi, pura passività ostile; una fortezza massiccia che dovevo smantellare bastione dopo bastione per mettere le mani sul folletto nascosto, sul capriccioso nichel-Nicolao che salta ora qui ora là, elusivo e maligno, colle lunghe orecchie tese, sempre attento a fuggire davanti ai colpi del piccone indagatore, per lasciarti con un palmo di naso. Ma non è più tempo di folletti, di niccoli e di coboldi. Siamo chimici, cioè cacciatori: nostre sono "le due esperienze della vita adulta" di cui parlava Pavese, il successo e l' insuccesso, uccidere la balena bianca o sfasciare la nave; non ci si deve arrendere alla materia incomprensibile, non ci si deve sedere. Siamo qui per questo, per sbagliare e correggerci, per incassare colpi e renderli. Non ci si deve mai sentire disarmati: la natura è immensa e complessa, ma non è impermeabile all' intelligenza; devi girarle intorno, pungere, sondare, cercare il varco o fartelo. I miei colloqui settimanali col Tenente sembravano piani di guerra. Fra i molti tentativi che avevamo fatti, c' era anche stato quello di ridurre la roccia con idrogeno. Avevamo disposto il minerale, finemente macinato, in una navicella di porcellana, questa in un tubo di quarzo, e nel tubo, riscaldato dall' esterno, avevamo fatto passare una corrente d' idrogeno, nella speranza che quest' ultimo strappasse l' ossigeno legato al nichel e lo lasciasse ridotto, cioè nudo, allo stato metallico. Il nichel metallico come il ferro, è magnetico, e quindi, in questa ipotesi, sarebbe stato facile separarlo dal resto, solo o col ferro, semplicemente per mezzo di una calamita. Ma, dopo il trattamento, avevamo dibattuto invano una potente calamita nella sospensione acquosa della nostra polvere: non ne avevamo ricavato che una traccia di ferro. Chiaro e triste: l' idrogeno, in quelle condizioni, non riduceva nulla; il nichel, insieme col ferro, doveva essere incastrato stabilmente nella struttura del serpentino, ben legato alla silice ed all' acqua, contento (per così dire) del suo stato ed alieno dall' assumerne un altro. Ma se si provasse a sgangherare quella struttura? L' idea mi venne come si accende una lampada, un giorno in cui mi capitò casualmente fra le mani un vecchio diagramma tutto impolverato, opera di qualche mio ignoto predecessore; riportava la perdita di peso dell' amianto delle Cave in funzione della temperatura. L' amianto perdeva un po' d' acqua a 150äC, poi rimaneva apparentemente inalterato fin verso gli .00ä+; qui si notava un brusco scalino con un calo di peso del 12 per cento, e l' autore aveva annotato: "diventa fragile". Ora, il serpentino è il padre dell' amianto: se l' amianto si decompone a .00äC, anche il serpentino dovrebbe farlo; e, poiché un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli, mi attardavo a raffigurarmi, disegnandole sulla carta, le lunghe catene di silicio, ossigeno, ferro e magnesio, col poco nichel intrappolato fra le loro maglie, e poi le stesse dopo lo sconquasso, ridotte a corti mozziconi, col nichel scovato dalla sua tana ed esposto all' attacco; e non mi sentivo molto diverso dal remoto cacciatore di Altamira, che dipingeva l' antilope sulla parete di pietra affinché la caccia dell' indomani fosse fortunata. Le cerimonie propiziatorie non durarono a lungo: il Tenente non c' era, ma poteva arrivare da un' ora all' altra, e temevo che non accettasse, o non accettasse volentieri, quella mia ipotesi di lavoro così poco ortodossa. Me la sentivo prudere su tutta la pelle: capo ha cosa fatta, meglio mettersi subito al lavoro. Non c' è nulla di più vivificante che un' ipotesi. Sotto lo sguardo divertito e scettico di Alida, che, essendo ormai pomeriggio avanzato, guardava ostentatamente l' orologio da polso, mi misi al lavoro come un turbine. In un attimo, l' apparecchio fu montato, il termostato tarato a .00äC, il riduttore di pressione della bombola regolato, il flussimetro messo a posto. Scaldai il materiale per mezz' ora, poi ridussi la temperatura e feci passare idrogeno per un' altra ora: si era ormai fatto buio, la ragazza se n' era andata, tutto era silenzio sullo sfondo del cupo ronzio del Reparto Selezione, che lavorava anche di notte. Mi sentivo un po' cospiratore e un po' alchimista. Quando il tempo fu scaduto, estrassi la navicella dal tubo di quarzo, la lasciai raffreddare nel vuoto, poi dispersi in acqua la polverina, che di verdognola si era fatta giallastra: cosa che mi parve di buon auspicio. Presi la calamita e mi misi al lavoro. Ogni volta che estraevo la calamita dall' acqua, questa si portava dietro un ciuffetto di polvere bruna: la asportavo delicatamente con carta da filtro e la mettevo da parte, forse un milligrammo per volta; perché l' analisi fosse attendibile, ci voleva almeno mezzo grammo di materiale, cioè parecchie ore di lavoro. Decisi di smettere verso mezzanotte; di interrompere la separazione, voglio dire, perché a nessun costo avrei rimandato l' inizio dell' analisi. Per quest' ultima, trattandosi di una frazione magnetica (e quindi presumibilmente povera di silicati) e condiscendendo alla mia fretta, studiai lì per lì una variante semplificata. Alle tre del mattino il risultato c' era: non più la solita nuvoletta rosa di nichel-dimetilgliossima, ma un precipitato visibilmente abbondante. Filtrare, lavare, essiccare, pesare. Il dato finale mi apparve scritto in cifre di fuoco sul regolo calcolatore; 6 per cento di nichel, il resto ferro. Una vittoria: anche senza una ulteriore separazione, una lega da mandare tal quale al forno elettrico. Ritornai al "Sottomarino" che era quasi l' alba, con una voglia acuta di andar subito a svegliare il Direttore, di telefonare al Tenente, e di rotolarmi per i prati bui, fradici di rugiada. Pensavo molte cose insensate, e non pensavo alcune cose tristemente sensate. Pensavo di aver aperto una porta con una chiave, e di possedere la chiave di molte porte, forse di tutte. Pensavo di aver pensato una cosa che nessun altro aveva ancora pensato, neppure in Canadà né in Nuova Caledonia, e mi sentivo invincibile e tabù, anche di fronte ai nemici vicini, ed ogni mese più vicini. Pensavo, infine, di essermi presa una rivincita non ignobile contro chi mi aveva dichiarato biologicamente inferiore. Non pensavo che, se anche il metodo di estrazione che avevo intravvisto avesse potuto trovare applicazione industriale, il nichel prodotto sarebbe finito per intero nelle corazze e nei proiettili dell' Italia fascista e della Germania di Hitler. Non pensavo che, in quegli stessi mesi, erano stati scoperti in Albania giacimenti di un minerale di nichel davanti a cui il nostro poteva andarsi a nascondere, e con lui ogni progetto mio, del Direttore o del Tenente. Non prevedevo che la mia interpretazione della separabilità magnetica del nichel era sostanzialmente sbagliata, come mi dimostrò il Tenente pochi giorni dopo, non appena gli ebbi comunicato i miei risultati. Né prevedevo che il Direttore, dopo aver condiviso per qualche giorno il mio entusiasmo, raffreddò il mio ed il suo quando si dovette rendere conto che non esisteva in commercio alcun selettore magnetico capace di separare un materiale in forma di polvere fine, e che su polveri più grossolane il mio metodo non poteva funzionare. Eppure questa storia non finisce qui. Nonostante i molti anni passati, la liberalizzazione degli scambi ed il ribasso del prezzo internazionale del nichel, la notizia dell' enorme ricchezza che giace in quella valle, sotto forma di detriti accessibili a tutti, accende ancora le fantasie. Non lontano dalle Cave, in cantine, in stalle, al limite fra la chimica e la magia bianca, c' è ancora gente che va di notte alla discarica, ne torna con sacchi di ghiaia grigia, la macina, la cuoce, la tratta con reattivi sempre nuovi. Il fascino della ricchezza sepolta, dei due chili di nobile metallo argenteo legati ai mille chili di sasso sterile che si getta via, non si è ancora estinto. Neppure sono scomparsi i due racconti minerali che allora avevo scritti. Hanno avuto una sorte travagliata quasi quanto la mia: hanno subito bombardamenti e fughe, io li avevo dati perduti, e li ho ritrovati di recente riordinando carte dimenticate da decenni. Non li ho voluti abbandonare: il lettore li troverà qui di seguito, inseriti, come il sogno di evasione di un prigioniero, fra queste storie di chimica militante

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Sono sceso al torrente che era abbastanza impetuoso (mi ricordo che aveva l' acqua torbida e bianchiccia, come se ci fosse mescolato del latte, cosa che dalle mie parti non si è mai vista), e mi sono messo con pazienza ad esaminare le pietre: questa è una delle nostre malizie, i sassi dei torrenti vengono di lontano, e parlano chiaro a chi sa capire. C' era un po' di tutto: pietre focaie, sassi verdi, pietre da calce, granito, pietra da ferro, perfino un po' di quella che noi chiamiamo galmeida, tutta roba che non mi interessava; eppure, avevo come un chiodo in testa che in una valle fatta come quella, con certe striature bianche sulla roccia rossa, con tanto ferro in giro, le pietre da piombo non dovevano mancare. Me ne andavo giù lungo il torrente, un po' sui massi, un po' guadando dove si poteva, come un cane da caccia, con gli occhi inchiodati a terra, quando ecco, poco sotto alla confluenza di un altro torrente più piccolo, ho visto un sasso in mezzo a milioni di altri sassi, un sasso quasi uguale a tutti gli altri, un sasso bianchiccio con dei granelli neri, che mi ha fatto fermare, teso ed immobile, proprio come un bracco che punta. L' ho raccolto, era pesante, accanto ce n' era un altro simile ma più piccolo. Noi è difficile che ci sbagliamo: ma a buon conto l' ho spezzato, ne ho preso un frammento come una noce e me lo sono portato via per saggiarlo. Un buon cercatore, uno serio, che non voglia dire bugie né agli altri né a se stesso, non si deve fidare delle apparenze, perché la pietra, che sembra morta, invece è piena d' inganni: qualche volta cambia sorte addirittura mentre la scavi, come certi serpenti che cambiano colore per non farsi scorgere. Un buon cercatore, dunque, si porta dietro tutto: il crogiolo d' argilla, la carbonella, l' esca, l' acciarino, e un altro strumento ancora che è segreto e non vi posso dire, e serve appunto a capire se una pietra è buona o no. A sera mi sono trovato un posto fuori mano, ho fatto un focolare, ci ho messo sopra il crogiolo ben stratificato, l' ho arroventato per mezz' ora e l' ho lasciato raffreddare. L' ho rotto, ed eccolo, il dischetto lucido e pesante, che si incide con l' unghia, quello che ti allarga il cuore e fa sparire dalle gambe la stanchezza del cammino, e che noi chiamiamo "il piccolo re". A questo punto non è che uno sia a posto: anzi, il più del lavoro è ancora da fare. Bisogna risalire il torrente, e ad ogni biforcazione cercare se la pietra buona continua a destra o a sinistra. Ho risalito per un bel po' il torrente più grosso, e la pietra c' era sempre, ma era sempre molto rara; poi la valle si restringeva in una gola talmente profonda e ripida che non c' era neanche da pensare a risalirla. Ho chiesto ai pastori, lì intorno, e mi hanno fatto capire, a gesti e a grugniti, che non c' era proprio modo di aggirare lo scoscendimento, ma che, ridiscendendo nella valle grande, si trovava una stradina, larga così, che superava un valico a cui loro davano un nome come Tringo e scendeva a monte della gola, in un luogo dove c' erano bestie cornute che muggivano, e quindi (ho pensato io) anche pascoli, pastori, pane e latte. Mi sono messo in cammino, ho trovato facilmente la stradina e il Tringo, e di qui sono disceso in un bellissimo paese. Proprio di fronte a me che scendevo, si vedeva d' infilata una valle verde di larici, e in fondo montagne tutte bianche di neve in piena estate: la valle terminava ai miei piedi in una vasta prateria punteggiata di capanne e di armenti. Ero stanco, sono sceso e mi sono fermato dai pastori. Erano diffidenti, ma conoscevano (fin troppo bene) il valore dell' oro, e mi hanno ospitato per qualche giorno senza farmi angherie. Ne ho approfittato per imparare qualche parola della loro lingua: chiamano "pen" le montagne, "tza" i prati, "roisa" la neve d' estate, "fea" le pecore, "bait" le loro case, che sono di pietra nella parte bassa, dove tengono le bestie, e di legno sopra, con appoggi di pietra come ho già detto, dove vivono loro e tengono il fieno e le provviste. Erano gente scontrosa, di poche parole, ma non avevano armi e non mi hanno trattato male. Essendomi riposato, ho ripreso la ricerca, sempre col sistema del torrente, ed ho finito con l' infilarmi in una valle parallela a quella dei larici, lunga stretta e deserta, senza pascoli né foresta. Il torrente che la percorreva era ricco di pietra buona: sentivo di essere vicino a quello che cercavo. Ci ho messo tre giorni, dormendo all' addiaccio: anzi, senza dormire affatto, tanto ero impaziente; passavo le notti a scrutare il cielo perché nascesse l' alba. Il giacimento era molto fuori mano, in un canalone ripido: la pietra bianca affiorava dall' erba stenta, a portata di mano, e bastava scavare due o tre palmi per trovare la pietra nera, la più ricca di tutte, che io non avevo ancora mai vista ma mio padre mi aveva descritta. Pietra compatta, senza scoria, da lavorarci cento uomini per cento anni. Quello che era strano, è che qualcuno lì ci doveva già essere stato: si vedeva, mezzo nascosto dietro una roccia (che certo era stata messa lì apposta), l' imbocco di una galleria, che doveva essere molto antica, perché dalla volta pendevano stalattiti lunghe come le mie dita. Per terra c' erano paletti di legno infracidito e frammenti d' ossa, pochi e guasti, il resto dovevano averlo portato via le volpi, infatti c' erano tracce di volpi e forse di lupi: ma un mezzo cranio che sporgeva dal fango era certamente umano. Questa è una cosa difficile da spiegare, ma è già successa più di una volta: che qualcuno, chissà quando, venendo di chissà dove, in un tempo remoto magari prima del diluvio, trova una vena, non dice niente a nessuno, cerca da solo di cavare la pietra, ci lascia le ossa, e poi passano i secoli. Mio padre mi diceva che, in qualunque galleria uno scavi, trova le ossa dei morti. Insomma, il giacimento c' era: ho fatto le mie prove, ho fabbricato così alla meglio una fornace lì all' aperto, sono sceso e tornato su con la legna, ho fuso tanto piombo da poterlo portare in spalla e sono tornato a valle. Alla gente dei pascoli non ho detto niente: ho ripreso il Tringo e sono sceso nel grande villaggio dall' altra parte, che si chiamava Sales. Era giorno di mercato, e mi sono messo in mostra col mio pezzo di piombo in mano. Qualcuno ha incominciato a fermarsi, a soppesarlo e a farmi domande che capivo a mezzo: era chiaro che volevano sapere a cosa serviva, quanto costava, da dove veniva. Poi si è fatto avanti un tale con l' aria svelta, con un berretto di lana intrecciata, e ci siamo intesi abbastanza bene. Gli ho fatto vedere che quella roba si batte col martello: anzi, seduta stante ho trovato un martello e un paracarro, e gli ho fatto vedere quanto è facile ridurlo in lastre e fogli; poi gli ho spiegato che coi fogli, saldandoli su di un lato con un ferro rovente, si possono fare tubi; gli ho detto che i tubi di legno, per esempio le gronde di quel paese Sales, perdono e marciscono, gli ho spiegato che i tubi di bronzo sono difficili da fare e che quando si usano per l' acqua da bere fanno venire il mal di ventre, e che invece i tubi di piombo durano in eterno e si saldano l' uno sull' altro con facilità. Un po' alla ventura, e facendo una faccia solenne, ho tirato anche il colpo di spiegargli che con un foglio di piombo si possono anche rivestire le casse dei morti, in modo che questi non fanno i vermi, ma diventano secchi e sottili, e così anche l' anima non si disperde, che è un bel vantaggio; e sempre col piombo si possono fondere delle statuette funebri, non lucide come il bronzo, ma appunto, un po' fosche, un po' velate, come si addice ad oggetti di lutto. Siccome ho visto che queste questioni gli interessavano molto, gli ho spiegato che, se si va oltre le apparenze, il piombo è proprio il metallo della morte: perché fa morire, perché il suo peso è un desiderio di cadere, e cadere è dei cadaveri, perché il suo stesso colore è smorto-morto, perché è il metallo del pianeta Tuisto, che è il più lento dei pianeti, cioè il pianeta dei morti. Gli ho anche detto che, secondo me, il piombo è una materia diversa da tutte le altre materie, un metallo che senti stanco, forse stanco di trasformarsi e che non si vuole trasformare più: la cenere di chissà quali altri elementi pieni di vita, che mille e mille anni fa si sono bruciati al loro stesso fuoco. Queste sono cose che io penso veramente, non è che me le sia inventate per stringere l' affare. Quell' uomo, che si chiamava Borvio, stava a sentire a bocca aperta, e poi mi ha detto che doveva proprio essere come io dicevo, e che quel pianeta è sacro ad un dio che nel suo paese si chiama Saturno, e viene dipinto con una falce. Era il momento di venire al sodo, e mentre lui stava ancora rimuginando i miei imbonimenti gli ho chiesto trenta libbre d' oro, contro la cessione del giacimento, la tecnologia della fusione e istruzioni precise sugli usi principali del metallo. Lui mi ha controfferto delle monete di bronzo con sopra un cinghiale, coniate chissà dove, ma io ho fatto l' atto di sputarci sopra: oro, e niente storie. D' altronde, trenta libbre sono troppe per uno che viaggia a piedi, tutti lo sanno, e io sapevo che Borvio lo sapeva: così abbiamo concluso per venti libbre. Si è fatto accompagnare al giacimento, il che era giusto. Tornati a valle, mi ha consegnato l' oro: io ho controllato tutti i venti lingottini, li ho trovati genuini e di buon peso, ed abbiamo fatto una bella sbornia di vino per solennizzare il contratto. Era anche una sbornia d' addio. Non è che quel paese non mi piacesse, ma molti motivi mi spingevano a riprendere il cammino. Primo: volevo vedere i paesi caldi, dove si dice che crescono gli olivi e i limoni. Secondo: volevo vedere il mare, non quello tempestoso da dove veniva il mio avo dai denti azzurri, ma il mare tiepido, di dove viene il sale. Terzo: non serve a niente avere l' oro e portarselo sulla gobba, col terrore continuo che di notte, o durante una sbornia, te lo portino via. Quarto e complessivo: volevo spendere l' oro in un viaggio per mare, per conoscere il mare e i marinai, perché i marinai hanno bisogno del piombo, anche se non lo sanno. Così me ne sono andato: ho camminato per due mesi, scendendo per una grande valle triste, fino a che questa è sboccata nel piano. C' erano prati e campi di grano, e un odore aspro di sterpi bruciati che mi ha fatto venire nostalgia del mio paese: l' autunno, in tutti i paesi del mondo, ha lo stesso odore, di foglie morte, di terra che riposa, di fascine che bruciano, insomma di cose che finiscono, e tu pensi "per sempre". Ho incontrato una città fortificata, grande come da noi non ce n' è, alla confluenza di due fiumi; c' era un mercato di schiavi, carne, vino, ragazze sudice, solide e scarmigliate, una locanda con un buon fuoco, e ci ho passato l' inverno: nevicava come da noi. Sono ripartito a marzo, e dopo un mese di cammino ho trovato il mare, che non era azzurro ma grigio, muggiva come un bisonte, e si avventava sulla terra come se la volesse divorare: al pensiero che non aveva mai riposo, non l' aveva mai avuto da quando c' è il mondo, mi sentivo mancare il coraggio. Ma ho preso ugualmente la strada verso levante, lungo la spiaggia, perché il mare mi affascinava e non mi potevo staccare da lui. Ho trovato un' altra città, e mi ci sono fermato, anche perché il mio oro volgeva alla fine. Erano pescatori e gente strana, che veniva per nave da vari paesi molto lontani: comperavano e vendevano, di notte si accapigliavano per le donne e si accoltellavano nei vicoli; allora anch' io mi sono comperato un coltello, di bronzo, robusto, colla guaina di cuoio, da portare legato alla vita sotto i panni. Conoscevano il vetro, ma non gli specchi: cioè, avevano soltanto specchietti di bronzo levigato, da quattro soldi, di quelli che si rigano subito e falsano i colori. Se si ha del piombo, non è mica difficile fare uno specchio di vetro, ma io gli ho fatto cadere il segreto molto dall' alto, gli ho raccontato che è un' arte che solo noi Rodmund conosciamo, che ce l' ha insegnata una dea che si chiama Frigga, e altre sciocchezze che quelli hanno bevuto come acqua. Io avevo bisogno di soldi: mi sono guardato intorno, ho trovato vicino al porto un vetraio che aveva l' aria abbastanza intelligente, e mi sono messo d' accordo con lui. Da lui ho imparato diverse cose, prima fra tutte che il vetro si può soffiare: mi piaceva tanto, quel sistema, che me lo sono perfino fatto insegnare, e un giorno o l' altro proverò anche a soffiare il piombo o il bronzo fuso (ma sono troppo liquidi, è difficile che riesca). Io invece ho insegnato a lui che, sulla lastra di vetro ancora calda, si può colare il piombo fuso, e si ottengono degli specchi non tanto grandi, ma luminosi, senza difetti, e che si conservano per molti anni. Lui poi era abbastanza bravo, aveva un segreto per i vetri colorati, e gettava delle lastre variegate di bellissimo aspetto. Io ero pieno d' entusiasmo per la collaborazione, ed ho inventato di fare specchi anche con le calotte di vetro soffiato, colandogli il piombo dentro o spalmandolo di fuori: a specchiarcisi dentro, ci si vede molto grandi o molto piccoli, oppure anche tutti storti; questi specchi non piacciono alle donne, ma tutti i bambini se li fanno comperare. Per tutta l' estate e l' autunno abbiamo venduto specchi ai mercanti, che ce li pagavano bene: ma intanto io parlavo con loro, e cercavo di raccogliere più notizie che potevo su di una terra che molti di loro conoscevano. Era stupefacente osservare come quella gente, che pure passava in mare metà della sua vita, avesse idee così confuse circa i punti cardinali e le distanze; ma insomma, su un punto erano tutti d' accordo, e cioè che navigando verso sud, chi diceva mille miglia, chi ancora dieci volte più lontano, si trovava una terra che il sole aveva bruciata in polvere, ricca di alberi ed animali mai visti, abitata da uomini feroci di pelle nera. Ma molti avevano per certo che a metà strada si incontrava una grande isola detta Icnusa, che era l' isola dei metalli: su quest' isola si raccontavano le storie più strane, che era abitata da giganti, ma che i cavalli, i buoi, perfino i conigli e i polli, erano invece minuscoli; che comandavano le donne e facevano la guerra, mentre gli uomini guardavano le bestie e filavano la lana; che questi giganti erano divoratori d' uomini, e in specie di stranieri; che era una terra di puttanesimo, dove i mariti si scambiavano le mogli, ed anche gli animali si accoppiavano a casaccio, i lupi con le gatte, gli orsi con le vacche; che la gravidanza delle donne non durava che tre giorni, poi le donne partorivano, e subito dicevano al bambino: "Orsù, portami le forbici e fai luce, che io ti tagli il cordone". Altri ancora raccontavano che lungo le sue coste ci sono fortezze di pietra, grandi come montagne; che tutto in quell' isola è fatto di pietra, le punte delle lance, le ruote dei carri, perfino i pettini delle donne e gli aghi per cucire; anche le pentole per cucinare, e addirittura che hanno pietre che bruciano, e le accendono sotto a queste pentole; che lungo le loro strade, a sorvegliare i quadrivi, ci sono mostri pietrificati spaventosi a vedersi. Queste cose io le ascoltavo con compunzione, ma dentro di me ridevo a crepapelle, perché ormai il mondo l' ho girato abbastanza, e so che tutto il mondo è paese: del resto, anch' io, quando ritorno e racconto i paesi dove sono stato, mi diverto a inventare delle stranezze; e qui se ne raccontano di fantastiche sul mio paese, per esempio che i bufali da noi non hanno le ginocchia, e che per abbatterli basta segare alla base gli alberi a cui si appoggiano di notte per riposare: sotto il loro peso, l' albero si spezza, loro cascano distesi e non si possono rialzare più. Sul fatto dei metalli, però, erano tutti d' accordo; molti mercanti e capitani di mare avevano portato dall' isola a terra carichi di metallo greggio o lavorato, ma erano gente rozza, e dai loro discorsi era difficile capire di che metallo si trattasse: anche perché non parlavano tutti la stessa lingua, e nessuno parlava la mia, e c' era una gran confusione di termini. Dicevano per esempio "kalibe", e non c' era verso di capire se intendevano ferro, o argento, o bronzo. Altri chiamavano "sider" sia il ferro, sia il ghiaccio, ed erano così ignoranti da sostenere che il ghiaccio delle montagne, col passar dei secoli e sotto il peso della roccia, si indurisce e diventa prima cristallo di rocca e poi pietra da ferro. Insomma, io ero stufo di mestieri da femmina, e in quest' Icnusa ci volevo andare. Ho ceduto al vetraio la mia quota dell' impresa, e con quel danaro, più quello che avevo guadagnato con gli specchi, ho trovato un passaggio a bordo di una nave da carico: ma d' inverno non si parte, c' è la tramontana, o il maestrale, o il noto, o l' euro, pare insomma che nessun vento sia buono, e che fino ad aprile la cosa migliore sia starsene a terra, ubriacarsi, giocarsi la camicia ai dadi, e mettere incinte le ragazze del porto. Siamo partiti ad aprile. La nave era carica di anfore di vino; oltre al padrone c' era un capociurma, quattro marinai e venti rematori incatenati ai banchi. Il capociurma veniva da Kriti ed era un gran bugiardo: raccontava di un paese dove vivono uomini chiamati Orecchioni, che hanno orecchie così smisurate che ci si avvolgono dentro per dormire d' inverno, e di animali con la coda dalla parte davanti che si chiamano Alfil e intendono il linguaggio degli uomini. Devo confessare che ho stentato ad avvezzarmi a vivere sulla nave: ti balla sotto i piedi, pende un po' a destra e un po' a sinistra, è difficile mangiare e dormire, e ci si pestano i piedi l' un l' altro per mancanza di spazio; poi, i rematori incatenati ti guardano con occhi così feroci da farti pensare che, se non fossero appunto incatenati, ti farebbero a pezzi in un momento: e il padrone mi ha detto che delle volte succede. D' altra parte, quando il vento è propizio, la vela si gonfia, e i rematori alzano i remi, sembra proprio di volare, in un silenzio incantato; si vedono i delfini saltare fuori dall' acqua, e i marinai sostengono di capire, dall' espressione del loro ceffo, il tempo che farà domani. Quella nave era bene impiastrata di pace, e tuttavia si vedeva tutta la carena sforacchiata: dalle teredini, mi spiegarono. Anche nel porto avevo visto che tutte le navi alla fonda erano rosicchiate: non c' è niente da fare, mi ha detto il padrone, che era anche il capitano. Quando una nave è vecchia, la si sfascia e si brucia; ma io avevo una mia idea, e così anche per l' ancora. È stupido farla di ferro: si mangia tutta di ruggine, non dura due anni. E le reti da pesca? Quei marinai, quando il vento era buono, calavano una rete che aveva galleggianti di legno, e sassi per zavorra. Sassi! se fossero stati di piombo, avrebbero potuto essere quattro volte meno ingombranti. Chiaro che non ne ho fatto parola con nessuno, ma, l' avrete capito anche voi, pensavo già al piombo che avrei cavato dal ventre dell' Icnusa, e vendevo la pelle dell' orso prima di averlo ammazzato. Siamo arrivati in vista dell' isola dopo undici giorni di mare. Siamo entrati in un piccolo porto a forza di remi: intorno, c' erano scoscendimenti di granito, e schiavi che scolpivano colonne. Non erano giganti, e non dormivano nelle proprie orecchie; erano fatti come noi, e coi marinai si intendevano abbastanza bene, ma i loro sorveglianti non li lasciavano parlare. Quella era una terra di roccia e di vento, che mi piacque subito: l' aria era piena di odori d' erbe, amari e selvaggi, e la gente sembrava forte e semplice. Il paese dei metalli era a due giornate di cammino: ho noleggiato un asino col suo conducente, e questo è proprio vero, sono asini piccoli (non però come gatti, come si diceva nel continente), ma robusti e resistenti; insomma, nelle dicerie qualcosa di vero ci può essere, magari una verità nascosta sotto veli di parole, come un indovinello. Per esempio, ho visto che era giusta anche la faccenda delle fortezze di pietra: non sono proprio grosse come montagne, ma solide, di forma regolare, di conci commessi con precisione: e quello che è curioso, è che tutti dicono che "ci sono sempre state", e nessuno sa da chi, come, perché e quando sono state costruite. Che gli isolani divorino gli stranieri, invece, è una gran bugia: di tappa in tappa, mi hanno condotto alle miniere, senza fare storie né misteri, come se la loro terra fosse di tutti. Il paese dei metalli è da ubriacarsi: come quando un segugio entra in un bosco pieno di selvaggina, che salta di usta in usta, trema tutto e diventa come stranito. È vicino al mare, una fila di colline che in alto diventano dirupi, e si vedono vicino e lontano, fino all' orizzonte, i pennacchi di fumo delle onderie, con intorno gente in faccende, liberi e schiavi: e anche la storia della pietra che brucia è vera, non credevo ai miei occhi. Stenta un po' ad accendersi, ma poi fa molto calore e dura a lungo. La portavano là di non so dove, in canestri a dorso d' asino: è nera, untuosa, fragile, non tanto pesante. Dicevo dunque che ci sono pietre meravigliose, certamente gravide di metalli mai visti, che affiorano in tracce bianche, viola, celesti: sotto quella terra ci dev' essere un favoloso intrico di vene. Mi sarei perso volentieri, a battere scavare e saggiare: ma sono un Rodmund, e la mia pietra è il piombo. Mi sono subito messo al lavoro. Ho trovato un giacimento al margine ovest del paese, dove penso che nessuno avesse mai cercato: infatti non c' erano pozzi né gallerie né discariche, e neppure c' erano segni apparenti in superficie; i sassi che affioravano erano come tutti gli altri sassi. Ma poco sotto il piombo c' era: e questa è una cosa a cui spesso avevo pensato, che noi cercatori crediamo di trovare il metallo con gli occhi, l' esperienza e l' ingegno, ma in realtà quello che ci conduce è qualcosa di più profondo, una forza come quella che guida i salmoni a risalire i nostri fiumi, o le rondini a ritornare al nido. Forse avviene per noi come per gli acquari, che non sanno che cosa li guida all' acqua, ma qualcosa pure li guida, e torce la bacchetta fra le loro dita. Non so dire come, ma proprio lì era il piombo, lo sentivo sotto i miei piedi torbido velenoso e greve, per due miglia lungo un ruscello in un bosco dove, nei tronchi fulminati, si annidano le api selvatiche. In poco tempo ho comperato schiavi che scavassero per me, ed appena ho avuto da parte un po' di danaro mi sono comperata anche una donna. Non per farci baldoria insieme: l' ho scelta con cura, senza guardare tanto la bellezza, ma che fosse sana, larga di fianchi, giovane e allegra. L' ho scelta così perché mi desse un Rodmund, che la nostra arte non perisca; e non ho perso tempo, perché le mie mani e le ginocchia hanno preso a tremare, e i miei denti vacillano nelle gengive, e si sono fatti azzurri come quelli del mio avo che veniva dal mare. Questo Rodmund nascerà sul finire del prossimo inverno, in questa terra dove crescono le palme e si condensa il sale, e si sentono di notte i cani selvaggi latrare sulla pista dell' orso; in questo villaggio che io ho fondato presso il ruscello delle api selvatiche, ed a cui avrei voluto dare un nome della mia lingua che sto dimenticando, Bak der Binnen, che significa appunto "Rio delle Alpi": ma la gente di qui ha accettato il nome solo in parte, e fra di loro, nel loro linguaggio che ormai è il mio, lo chiamano "Bacu Abis".

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Ho sistemato i quattro in una delle baracche abbandonate dai gallesi, e ci stavano abbastanza larghi, anche perché il loro bagaglio era modesto. Solo Hendrik aveva un baule di legno, chiuso con un lucchetto. La piaga di Willem non era poi affatto lebbra: l' ha fatta guarire Maggie in poche settimane, con impacchi di un' erba che lei conosce; non è proprio crescione, è un' erba grassa che cresce ai margini della foresta ed è buona da mangiare, anche se poi fa fare strani sogni: noi comunque la chiamiamo crescione. Per verità, non lo ha curato solo con gli impacchi: si chiudeva con lui in camera e gli cantava come delle ninnenanne, con pause che mi sono sembrate troppo lunghe. Sono stato contento e più tranquillo quando Willem è guarito, ma subito dopo è cominciata un' altra storia seccante con Hendrik. Lui e Maggie facevano insieme lunghe passeggiate, e li ho sentiti parlare delle sette chiavi, di Ermete Trismegisto, dell' unione dei contrari e di altre cose poco chiare. Hendrik si è costruita una capanna robusta, senza finestre, ci ha portato il baule, e ci passava intere giornate, qualche volta con Maggie: si vedeva uscire fumo dal camino. Andavano anche alla grotta, e ne tornavano con sassi colorati che Hendrik chiamava "cinabri". I due italiani mi davano meno preoccupazioni. Anche loro guardavano Maggie con occhi lucidi, ma non sapevano l' inglese e non le potevano parlare: per di più, erano gelosi l' uno dell' altro, e passavano la giornata a sorvegliarsi a vicenda. Andrea era devoto, e in breve ha riempito l' isola di santi di legno e d' argilla cotta: una madonna di terracotta l' ha anche regalata a Maggie, che però non sapeva che farsene, e l' ha messa in un angolo della cucina. Insomma, sarebbe stato chiaro a chiunque che per quei quattro uomini ci volevano quattro donne; un giorno li ho riuniti, e senza tanti complimenti gli ho detto che se uno di loro toccava Maggie sarebbe finito all' inferno, perché non si deve desiderare la donna d' altri: ma che all' inferno ce l' avrei spedito io stesso, a costo di finirci anch' io. Quando Burton è ripassato, con le stive zeppe d' olio di balena, tutti d' accordo lo abbiamo solennemente incaricato di trovarci le quattro mogli, ma ci ha riso in faccia: cosa pensavamo? che fosse facile trovare donne disposte a stabilirsi in mezzo alle foche, su quest' isola dimenticata, per sposare quattro buoni a nulla? Forse se le avessimo pagate, ma con che cosa? Non certo con le nostre salsicce, mezzo maiale e mezzo foca, che puzzavano di pesce più della sua baleniera. Se n' è andato, e subito ha alzato le vele. Quella sera stessa, poco prima di notte, si è sentito un grande tuono, e come se l' isola stessa si scuotesse sulle sue radici. Il cielo si è fatto buio in pochi minuti, e la nuvola nera che lo copriva era illuminata dal di sotto come da un fuoco. Dalla cima dello Snowdon si sono visti uscire prima rapidi lampi rossi che salivano fino al cielo, poi un fiotto largo e lento di lava accesa: non scendeva verso di noi, ma a sinistra, verso sud, colando di balza in balza con fischi e crepitii. Dopo un' ora era arrivata al mare, e vi si spegneva ruggendo e sollevando una colonna di vapore. Nessuno di noi aveva mai pensato che lo Snowdon potesse essere un vulcano: eppure la forma della sua cima, con una conca rotonda profonda almeno duecento piedi, avrebbe potuto farlo supporre. Il teatro è andato avanti per tutta la notte, calmandosi ogni tanto, poi riprendendo vigore con una nuova serie di esplosioni: sembrava che non dovesse finire mai più. Invece, verso l' alba, è venuto un vento caldo da est, il cielo è ritornato pulito, e il fracasso si è fatto via via meno intenso, fino a ridursi a un mormorio, poi al silenzio. Il mantello di lava, da giallo ed abbagliante, è diventato rossastro come brace, e a giorno era spento. La mia preoccupazione erano i maiali. Ho detto a Maggie che andasse a dormire, e ai quattro che venissero con me: volevo vedere che cosa era cambiato nell' isola. Ai maiali non era successo niente, però ci sono corsi incontro come a dei fratelli (io non sopporto chi parla male dei maiali: sono bestie che hanno cognizione, e mi fa pena quando li devo scannare). Si sono aperti diversi crepacci, due grandi che non se ne vede il fondo, sul pendìo nord-ovest. Il lembo sud-ovest della Foresta che Piange è stato sepolto, e la fascia accanto, per una larghezza di duecento piedi, si è seccata e ha preso fuoco; la terra doveva essere più calda del cielo, perché il fuoco ha inseguito i tronchi fino dentro alle radici, scavando cunicoli dove erano queste. Il mantello di lava è tutto costellato di bolle scoppiate dai margini taglienti come schegge di vetro, e sembra una gigantesca grattugia da formaggio: esce dal margine sud del cratere, che è crollato, mentre il margine nord, che costituisce la cima del monte, è adesso una cresta arrotondata che sembra molto più alta di prima. Quando ci siamo affacciati alla grotta del Pozzosanto siamo rimasti impietriti dallo stupore. Era un' altra grotta, tutta diversa, come quando si rimescola un mazzo di carte, stretta dove prima era larga, alta dove era bassa: in un punto la volta era crollata, e le stalattiti invece che verso il basso erano puntate di lato, come becchi di cicogne. In fondo, dove prima era il Cranio del Diavolo, c' era adesso una enorme camera, come la cupola di una chiesa, ancora piena di fumo e di scricchiolii, tanto che Andrea e Gaetano volevano a tutti i costi tornare indietro. Io li ho spediti a chiamare Maggie, che venisse anche lei a vedere la sua caverna, e, come prevedevo, Maggie è arrivata ansimando per la corsa e l' emozione, e i due sono rimasti fuori, presumibilmente a pregare i loro santi e a dire le litanie. Dentro la grotta Maggie correva avanti e indietro come i cani da caccia, come se la chiamassero quelle voci che lei diceva di sentire: ad un tratto ha cacciato un urlo che ci ha fatto arricciare tutti i peli. C' era nel cielo della cupola una fenditura, e ne cadevano gocce, ma non d' acqua: gocce lucenti e pesanti, che piombavano sul pavimento di roccia e scoppiavano in mille goccioline che rotolavano lontano. Un po' più in basso si era formata una pozza, e allora abbiamo capito che quello era mercurio: Hendrik l' ha toccata, e poi anch' io; era una materia fredda e viva, che si muoveva in piccole onde come irritate e frenetiche. Hendrik sembrava trasfigurato. Scambiava con Maggie occhiate svelte di cui non capivo il significato, e diceva a noi delle cose oscure e pasticciate, che però lei aveva l' aria di intendere; che era tempo di iniziare la Grande Opera: che, come il cielo, anche la terra ha la sua rugiada; che la caverna era piena dello spiritus mundi; poi si è rivolto apertamente a Maggie, e le ha detto: "Vieni qui stasera, faremo la bestia con due schiene". Si è tolta dal collo una catenina con una croce di bronzo, e ce l' ha fatta vedere: sulla croce era crocifisso un serpente, e lui ha gettato la croce sul mercurio della pozza, e la croce galleggiava. A guardarsi bene intorno, il mercurio gemeva da tutte le crepe della nuova grotta, come la birra dai tini nuovi. A porgere l' orecchio, si sentiva come un mormorio sonoro, fatto dalle mille gocce metalliche che si staccavano dalla volta per spiaccicarsi al suolo, e dalla voce dei rivoletti che scorrevano vibrando, come argento fuso, e si inabissavano nelle fenditure del pavimento. A dire il vero, Hendrik non mi era mai piaciuto: dei quattro, era quello che mi piaceva di meno; ma in quei momenti mi faceva anche paura, rabbia e ribrezzo. Aveva negli occhi una luce sbieca e mobile, come quella del mercurio stesso; sembrava diventato mercurio, che gli corresse per le vene e gli trapelasse dagli occhi. Andava per la caverna come un furetto, trascinando Maggie per il polso, tuffava le mani nelle pozze di mercurio, se lo spruzzava addosso e se lo versava sul capo, come un assetato farebbe con l' acqua: poco mancava che non lo bevesse. Maggie lo seguiva come incantata. Ho resistito un poco, poi ho aperto il coltello, l' ho afferrato per il petto e l' ho premuto contro la parete di roccia: sono molto più forte di lui, e si è afflosciato come le vele quando cade il vento. Volevo sapere chi era, cosa voleva da noi e dall' isola, e quella storia della bestia con due schiene. Sembrava uno che si svegli da un sogno, e non si è fatto pregare. Ha confessato che la faccenda del quartiermastro accoppato era una bugia, ma non così quella della forca che lo aspettava in Olanda: aveva proposto agli Stati Generali di trasformare in oro la sabbia delle dune, aveva ottenuto uno stanziamento di centomila fiorini, ne aveva spesi pochi in esperimenti e il resto in gozzoviglie, poi era stato invitato ad eseguire davanti ai probiviri quello che lui chiama l' experimentum crucis; ma da mille libbre di sabbia non era riuscito a cavare che due pagliuzze d' oro, e allora era balzato dalla finestra, si era nascosto in casa della sua ganza, e poi si era imbarcato di soppiatto sulla prima nave in partenza per il Capo: aveva nel baule tutto il suo armamentario di alchimista. Quanto alla bestia, mi ha detto che non è una cosa da spiegarsi in due parole. Il mercurio, per la loro opera, sarebbe indispensabile, perché è spirito fisso volatile, ossia principio femminino, e combinato con lo zolfo, che è terra ardente mascolina, permette di ottenere l' Uovo Filosofico, che è appunto la Bestia con due Dossi, perché in essa sono uniti e commisti il maschio e la femmina. Un bel discorso, non è vero? Un parlare limpido e diritto, veramente da alchimista, di cui non ho creduto una parola. Loro due, erano la bestia a due dossi, lui e Maggie: lui grigio e peloso, lei bianca e liscia, dentro la caverna o chissà dove, o magari nel nostro stesso letto, mentre io badavo ai maiali; si apprestavano a farla, ubriachi di mercurio com' erano, se pure non l' avevano già fatta. Forse anche a me già girava il mercurio nelle vene, perché in quel momento vedevo veramente rosso. Dopo vent' anni di matrimonio, a me di Maggie non me ne importa poi tanto, ma in quel momento ero acceso di desiderio per lei, e avrei fatto una strage. Tuttavia mi sono padroneggiato; anzi, stavo ancora tenendo Hendrik bene stretto contro la parete quando m' è venuta in mente un' idea, e gli ho chiesto quanto valeva il mercurio: lui, col suo mestiere, doveva pure saperlo. _ Dodici sterline alla libbra, _ mi ha risposto con un filo di voce. _ Giura! _ Giuro! _ ha risposto lui, levando i due pollici e sputando a terra frammezzo; forse era il loro giuramento, di loro trasmutatori di metalli: ma aveva il mio coltello così vicino alla gola che certamente diceva la verità. L' ho lasciato andare, e lui, ancora tutto spaurito, mi ha spiegato che il mercurio greggio, come il nostro, non vale molto, ma che lo si può purificare distillandolo, come il whisky, in storte di ghisa o di terracotta: poi si rompe la storta, e nel residuo si trova piombo, spesso argento, e qualche volta oro; che questo era un loro segreto; ma che lo avrebbe fatto per me, se gli promettevo salva la vita. Io non gli ho promesso proprio niente, e invece gli ho detto che col mercurio volevo pagare le quattro mogli. Fare storte e vasi di coccio doveva essere più facile che mutare in oro la sabbia d' Olanda: che si desse da fare, s' avvicinava Pasqua e la visita di Burton, per Pasqua volevo pronti quaranta barattoli da una pinta di mercurio purificato, tutti uguali, col loro bravo coperchio, lisci e rotondi, perché anche l' occhio vuole la sua parte. Si facesse pure aiutare dagli altri tre, e anch' io gli avrei dato una mano. Per cuocere storte e barattoli, non si preoccupasse: c' era già la fornace dove Andrea faceva cuocere i suoi santi. A distillare ho imparato subito, e in dieci giorni i barattoli erano pronti: erano da una sola pinta, ma di mercurio ce ne stavano diciassette libbre abbondanti, tanto che si stentava a sollevarli a braccio teso, e a scuoterli sembrava che dentro ci si dimenasse un animale vivo. Quanto a trovare il mercurio greggio, non ci voleva niente: nella caverna si sguazzava nel mercurio, gocciolava sulla testa e sulle spalle, e tornati a casa lo si trovava nelle tasche, negli stivali, perfino nel letto, e dava alla testa un po' a tutti, tanto che cominciava a sembrarci naturale che lo si dovesse scambiare con delle donne. È veramente una sostanza bizzarra: è freddo e fuggitivo, sempre inquieto, ma quando è ben fermo ci si specchia meglio che in uno specchio. Se lo si fa girare in una scodella, continua a girare per quasi mezz' ora. Non soltanto ci galleggia sopra il crocifisso sacrilego di Hendrik, ma anche i sassi, e Perfino il piombo. L' oro no: Maggie ha provato con il suo anello, ma è subito andato a fondo, e quando lo abbiamo ripescato era diventato di stagno. Insomma, è una materia che non mi piace, e avevo fretta di concludere l' affare e liberarmene. A Pasqua è arrivato Burton, ha ritirato i quaranta barattoli ben sigillati con cera e argilla ed è ripartito senza fare promesse. Una sera, verso la fine dell' autunno, abbiamo visto la sua vela delinearsi nella pioggia, ingrandire, e poi sparire nell' aria fosca e nell' oscurità. Pensavamo che aspettasse la luce per entrare nel porticciolo, come faceva di solito, ma al mattino non c' era più traccia di Burton né della sua baleniera. C' erano invece, in piedi sulla spiaggia, fradice e intirizzite, le quattro donne con in più due bambini, strette fra loro in un mucchio per il freddo e la timidezza; una di loro mi ha porto in silenzio una lettera di Burton. Erano poche righe: che, per trovare quattro donne per quattro sconosciuti in un' isola desolata, aveva dovuto cedere tutto il mercurio, e non gli era rimasto nulla per la senseria; che ce l' avrebbe richiesta, in mercurio o in lardo, in misura del 10 per cento, nella sua prossima visita; che non erano donne di prima scelta, ma non aveva trovato niente di meglio; che preferiva sbarcarle alla svelta e tornare alle sue balene per non assistere a risse disgustose, e perché non era un mezzano né un ruffiano, e neppure un prete per celebrare le nozze; che tuttavia ci raccomandava di celebrarle noi stessi, meglio che potevamo, per la salute delle nostre anime, che riteneva comunque già un po' compromessa. Ho chiamato fuori i quattro, e volevo proporgli di tirare a sorte, ma ho subito visto che non ce n' era bisogno. C' era una mulatta di mezza età, grassetta, con una cicatrice sulla fronte, che guardava Willem con insistenza, e Willem guardava lei con curiosità: la donna avrebbe potuto essere sua madre. Ho detto a Willem: "La vuoi? Prendila!", lui se l' è presa, ed io li ho sposati così alla meglio; cioè, ho chiesto a lei se voleva lui e a lui se voleva lei, ma il discorsino "nella prosperità e nella miseria, nella salute e nella malattia" non lo ricordavo con precisione, e così l' ho inventato sul momento, finendo con "fino a che morte sopraggiunga", che mi pareva suonasse bene. Stavo appunto terminando con questi due quando mi sono accorto che Gaetano si era scelta una ragazzina guercia, o forse lei aveva scelto lui, e se ne stavano andando via di corsa in mezzo alla pioggia, tenendosi per mano, tanto che ho dovuto inseguirli e sposarli da lontano correndo anch' io. Delle due che restavano, Andrea si è presa una negra sulla trentina, graziosa e perfino elegante, col cappello di piume e un boa di struzzo bagnato fradicio, ma con un' aria piuttosto equivoca, e ho sposato anche loro, benché avessi ancora il fiato corto per la corsa che avevo fatta prima. Rimaneva Hendrik, e una ragazza piccola e magra che era appunto la madre dei due bambini: aveva gli occhi grigi, e si guardava intorno come se la scena non la riguardasse ma la divertisse. Non guardava Hendrik, ma guardava me; Hendrik guardava Maggie che era appena uscita dalla baracca e non si era ancora tolti i bigodini, e Maggie guardava Hendrik. Allora mi è venuto in mente che i due bambini avrebbero potuto aiutarmi a guardare i maiali; che Maggie non mi avrebbe certamente dato figli; che Hendrik e Maggie sarebbero stati benissimo insieme, a fare le loro bestie a due dossi e le loro distillazioni; e che la ragazza dagli occhi grigi non mi dispiaceva, anche se era molto più giovane di me: anzi, mi dava un' impressione allegra e leggera, come un solletico, e mi faceva venire in mente l' idea di acchiapparla al volo come una farfalla. Così le ho domandato come si chiamava, e poi mi sono chiesto ad alta voce, in presenza dei testimoni: "Vuoi tu, caporale Daniel K. Abrahams, prendere in moglie la qui presente Rebecca Johnson?", mi sono risposto di sì, e poiché anche la ragazza era d' accordo, ci siamo sposati.

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_ Per loro non sono abbastanza bella, capisci? _ ringhiò, scuotendo il manubrio con ira. _ Che stupidi. A me sembri abbastanza bella, _ dissi io con serietà. _ Fatti furbo. Non ti rendi conto. _ Volevo solo farti un complimento; e poi lo penso proprio. _ Non è il momento. Se cerchi di farmi la corte adesso ti sbatto per terra. _ Cadi anche tu. _ Sei uno scemo. Dài, pedala, che si fa tardi. In Largo Cairoli sapevo già tutto: o meglio, possedevo tutti gli elementi di fatto, ma talmente confusi e dislocati nella loro sequenza temporale che non mi era facile cavarne un costrutto. Principalmente, non riuscivo a capire come non bastasse la volontà di quel lui a tagliare il nodo: era inconcepibile, scandaloso. C' era quest' uomo, che Giulia mi aveva altre volte descritto come generoso, solido, innamorato e serio; possedeva quella ragazza, scarmigliata e splendida nella sua rabbia, che mi si stava dibattendo fra gli avambracci impegnati nella guida; e invece di piombare a Milano e farsi le sue ragioni, se ne stava annidato in non so più quale caserma di frontiera a difendere la patria. Perché, essendo un "gòi", faceva il servizio militare, naturalmente: e mentre così pensavo, e mentre Giulia continuava a litigare con me come se fossi stato io il suo don rodrigo, mi sentivo invadere da un odio assurdo per il rivale mai conosciuto. Un gòi, e lei una gôià, secondo la terminologia atavica: e si sarebbero potuti sposare. Mi sentivo crescere dentro, forse per la prima volta, una nauseabonda sensazione di vuoto: questo, dunque, voleva dire essere altri; questo il prezzo di essere il sale della terra. Portare in canna una ragazza che si desidera, ed esserne talmente lontani da non potersene neppure innamorare: portarla in canna in Viale Gorizia per aiutarla ad essere di un altro, ed a sparire dalla mia vita. Davanti al 40 di Viale Gorizia c' era una panchina: Giulia mi disse di aspettarla, ed entrò nel portone come un vento. Io mi sedetti ed attesi, lasciando via libera al corso dei miei pensieri, sgangherato e doloroso. Pensavo che avrei dovuto essere meno gentiluomo, anzi, meno inibito e sciocco, e che per tutta la vita avrei rimpianto che fra me e lei non ci fosse stato altro che qualche ricordo scolastico e aziendale; e che forse non era troppo tardi, che forse il no di quei due genitori da operetta sarebbe stato irremovibile, che Giulia sarebbe scesa in lacrime, e io avrei potuto consolarla; e che queste erano speranze nefande, un approfittare scellerato delle sventure altrui. E finalmente, come un naufrago che è stanco di dibattersi e si lascia colare a picco, ricadevo in quello che era il mio pensiero dominante di quegli anni: che il fidanzato esistente, e le leggi della separazione, non erano che alibi insulsi, e che la mia incapacità di avvicinare una donna era una condanna senza appello, che mi avrebbe accompagnato fino alla morte, restringendomi ad una vita avvelenata dalle invidie e dai desideri astratti, sterile e senza scopo. Giulia uscì dopo due ore, anzi, eruppe dal portone come un proiettile da un obice. Non occorreva farle domande per sapere come era andata: _ Li ho fatti diventare alti così, _ mi disse, tutta rossa in viso e ancora ansimante. Feci il mio miglior sforzo per congratularmi con lei in modo credibile, ma a Giulia non si possono far credere cose che non si pensano, né nascondere cose che si pensano. Ora che era sollevata dal suo peso, e allegra di vittoria, guardò diritto negli occhi, vi scorse la nube, e mi chiese: _ A cosa stavi pensando? _ Al fosforo, _ risposi. Giulia si sposò pochi mesi dopo, e si congedò da me tirando su lacrime dal naso e facendo minuziose prescrizioni annonarie alla Varisco. Ha avuto molte traversie e molti figli; siamo rimasti amici, ci vediamo a Milano ogni tanto e parliamo di chimica e di cose sagge. Non siamo malcontenti delle nostre scelte e di quello che la vita ci ha dato, ma quando ci incontriamo proviamo entrambi la curiosa e non sgradevole impressione (ce la siamo più volte descritta a vicenda) che un velo, un soffio, un tratto di dado, ci abbia deviati su due strade divergenti che non erano le nostre.

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Quando ad interrogarci era Fossa, andava abbastanza bene: Fossa era un esemplare d' uomo che non avevo ancora mai incontrato, un fascista da manuale, stupido e coraggioso, che il mestiere delle armi (aveva combattuto in Africa e in Spagna, e se ne vantava con noi) aveva cerchiato di solida ignoranza e stoltezza, ma non corrotto né reso disumano. Aveva creduto ed obbedito per tutta la sua vita, ed era candidamente convinto che i colpevoli della catastrofe fossero due soli, il re e Galeazzo Ciano, che proprio in quei giorni era stato fucilato a Verona: Badoglio no, era un soldato anche lui, aveva giurato al re e doveva tener fede al suo giuramento. Se non fosse stato del re e di Ciano, che avevano sabotato la guerra fascista fin dall' inizio, tutto sarebbe andato bene e l' Italia avrebbe vinto. Mi considerava uno sventato, guastato dalle cattive compagnie; nel profondo della sua anima classista, era persuaso che un laureato non poteva essere veramente un "sovversivo". Mi interrogava per noia, per indottrinarmi e per darsi importanza, senza alcun serio intento inquisitorio: lui era un soldato, non uno sbirro. Non mi fece mai domande imbarazzanti, e neppure mi chiese mai se ero ebreo. Invece erano temibili gli interrogatori di Cagni. Cagni era la spia che ci aveva fatti catturare: spia integrale, per ogni grammo della sua carne, spia per natura e per tendenza più che per convinzione fascista o per interesse: spia per nuocere, per sadismo sportivo, come abbatte la selvaggina libera chi va a caccia. Era un uomo abile: aveva raggiunto con buone credenziali una formazione partigiana contigua alla nostra, si era spacciato per depositario di importanti segreti militari tedeschi, li aveva rivelati, e si dimostrarono poi artificiosamente falsi e costruiti dalla Gestapo. Organizzò le difese della formazione, fece svolgere minuziose esercitazioni a fuoco (in cui fece in modo che si consumassero buona parte delle munizioni), poi fuggì a valle, e ricomparve alla testa delle centurie fasciste designate per il rastrellamento. Era sulla trentina, di carnagione pallida e floscia: incominciava l' interrogatorio posando bene in vista la Luger sullo scrittoio, insisteva per ore senza riposo; voleva sapere tutto. Minacciava continuamente la tortura e la fucilazione, ma per mia fortuna io non sapevo quasi nulla, ed i pochi nomi che conoscevo li tenni per me. Alternava momenti di simulata cordialità con scoppi di collera altrettanto simulati; a me disse (probabilmente bluffando) di sapere che ero ebreo, ma che era bene per me: o ero ebreo, o ero partigiano; se partigiano, mi metteva al muro; se ebreo, bene, c' era un campo di raccolta a Carpi, loro non erano dei sanguinari, ci sarei rimasto fino alla vittoria finale. Ammisi di essere ebreo: in parte per stanchezza, in parte anche per una irrazionale impuntatura d' orgoglio, ma non credevo affatto alle sue parole. Non aveva detto lui stesso che la direzione di quella stessa caserma, entro pochi giorni, sarebbe passata alle SS? Nella mia cella c' era una sola lampadina fioca, che rimaneva accesa anche di notte; bastava appena per leggere, ma ugualmente leggevo molto, perché pensavo che il tempo che mi rimaneva era poco. Il quarto giorno, durante l' ora d' aria, mi misi in tasca di nascosto un grosso sasso perché volevo tentare di comunicare con Guido ed Aldo, che erano nelle due celle contigue. Ci riuscii, ma era estenuante: occorreva un' ora per trasmettere una frase, battendo colpi in codice sul muro divisorio, come i minatori di "Germinal" sepolti nella miniera. Origliando al muro per cogliere la risposta, si udivano invece i canti giulivi e rubesti dei militi seduti a mensa sopra i nostri capi: "la vision de l' Alighieri", o "ma la mitragliatrice non la lascio", oppure, struggente fra tutte, "vieni, c' è una strada nel bosco". Nella mia cella c' era anche un topo. Mi teneva compagnia, ma di notte mi rosicchiava il pane. C' erano due brande: ne smontai una, ne ricavai un longherone, lungo e liscio; lo misi verticale, e di notte gli infilavo la pagnotta sulla punta, però un po' di briciole le lasciavo in terra per il topo. Mi sentivo più topo di lui: pensavo alle strade nei boschi, alla neve fuori, alle montagne indifferenti, alle cento cose splendide che se fossi tornato libero avrei potuto fare, e la gola mi si chiudeva come per un nodo. Faceva molto freddo. Bussai alla porta finché venne il milite che fungeva da sbirro, e lo pregai di mettermi a rapporto con Fossa; lo sbirro era proprio quello che mi aveva picchiato al momento della cattura, ma quando aveva saputo che io ero un "dottore" mi aveva chiesto scusa: l' Italia è uno strano paese. Non mi mise a rapporto, ma ottenne per me e per gli altri una coperta, e il permesso di riscaldarci per mezz' ora ogni sera, prima del silenzio, vicino alla caldaia del termosifone. Il nuovo regime ebbe inizio la sera stessa. Venne il milite a prelevarmi, e non era solo: con lui c' era un altro prigioniero di cui non conoscevo l' esistenza. Peccato: se fosse stato Guido o Aldo sarebbe stato molto meglio: comunque, era un essere umano con cui scambiare parola. Ci condusse nel locale caldaia, che era fosco di fuliggine, schiacciato dal soffitto basso, ingombrato quasi per intero dalla caldaia, ma caldo: un sollievo. Il milite ci fece sedere su una panca, e prese posto lui stesso su una sedia nel vano della porta, in modo da ostruirla: teneva il mitra verticale fra le ginocchia, tuttavia pochi minuti dopo già sonnecchiava e si disinteressava di noi. Il prigioniero mi guardava con curiosità: _ Siete voi, i ribelli? _ mi chiese. Aveva forse trentacinque anni, era magro e un po' curvo, aveva i capelli crespi in disordine, la barba mal rasa, un grosso naso a becco, la bocca senza labbra e gli occhi fuggitivi. Le sue mani erano sproporzionatamente grosse, nodose, come cotte dal sole e dal vento, e non le teneva mai ferme: ora si grattava, ora le strofinava una sull' altra come se le lavasse, ora tamburellava sulla panca o su una coscia; notai che gli tremavano leggermente. Il suo fiato odorava di vino, e ne dedussi che era stato arrestato da poco; aveva l' accento della valle, ma non sembrava un contadino. Gli risposi tenendomi sul generico, ma non si scoraggiò: _ Tanto quello dorme: puoi parlare, se vuoi. Io posso fare uscire notizie; poi forse esco fra poco. Non mi sembrava un tipo da fidarsene molto. _ Perché sei qui? _ gli chiesi. _ Contrabbando: non ho voluto spartire con loro, ecco tutto. Finiremo col metterci d' accordo, ma intanto mi tengono dentro: è male, col mio mestiere. _ È male per tutti i mestieri! _ Ma io ho un mestiere speciale. Faccio anche il contrabbando, ma solo d' inverno, quando la Dora gela; insomma, faccio diversi lavori, ma nessuno sotto padrone. Noi siamo gente libera: era così anche mio padre e mio nonno e tutti i bisnonni fino dal principio dei tempi, fino da quando son venuti i Romani. Non avevo capito l' accenno alla Dora gelata, e gliene chiesi conto: era forse un pescatore? _ Sai perché si chiama Dora? _ mi rispose: _ Perché è d' oro. Non tutta, si capisce, ma porta oro, e quando gela non si può più cavarlo. _ C' è oro nel fondo? _ Sì, nella sabbia: non dappertutto, ma in molti tratti. È l' acqua che lo trascina giù dalla montagna, e lo accumula a capriccio, in un' ansa sì, in un' altra niente. La nostra ansa, che ce la passiamo di padre in figlio, è la più ricca di tutte: è ben nascosta, molto fuori mano, ma ugualmente è meglio andarci di notte, che non venga nessuno a curiosare. Per questo, quando gela forte come per esempio l' anno scorso, non si può lavorare, perché appena hai forato il ghiaccio se ne forma dell' altro, e poi anche le mani non resistono. Se io fossi al tuo posto e tu al mio, parola d' onore, ti spiegherei anche dov' è, il nostro posto. Mi sentii ferito da quella sua frase. Sapevo bene come stavano le mie cose, ma mi spiaceva sentirmelo dire da un estraneo. L' altro, che si era accorto della topica, cercò goffamente di rimediare: _ Volevo dire insomma che sono cose riservate, che non si dicono neppure agli amici. Io vivo di questo, e non ho altro al mondo, ma non cambierei con un banchiere. Vedi, non è che d' oro ce ne sia tanto: ce n' è anzi molto poco, si lava tutta una notte e si tira fuori uno o due grammi: ma non finisce mai. Ci torni quando vuoi, la notte dopo o dopo un mese, secondo che ne hai volontà, e l' oro è ricresciuto; e così da sempre e per sempre, come torna l' erba nei prati. E così non c' è gente più libera di noi: ecco perché mi sento venire matto a stare qui dentro. Poi, devi capire che a lavare sabbia non sono capaci tutti, e questo dà soddisfazione. A me, appunto, mi ha insegnato mio padre: solo a me, perché ero il più svelto: gli altri fratelli lavorano alla fabbrica. E solo a me ha lasciato la scodella, _ e, con la enorme destra leggermente inflessa a coppa, accennò al movimento rotatorio professionale. _ Non tutti i giorni son buoni: va meglio quando c' è sereno ed è l' ultimo quarto. Non saprei dirti perché, ma è proprio così, caso mai ti venisse in mente di provare. Apprezzai in silenzio l' augurio. Certo, che avrei provato: che cosa non avrei provato? In quei giorni, in cui attendevo abbastanza coraggiosamente la morte, albergavo una lancinante voglia di tutto, di tutte le esperienze umane pensabili, e imprecavo alla mia vita precedente, che mi pareva di avere sfruttato poco e male, e mi sentivo il tempo scappare di fra le dita, sfuggire dal corpo minuto per minuto, come un' emorragia non più arrestabile. Certo, che avrei cercato l' oro: non per arricchire, ma per sperimentare un' arte nuova, per rivisitare la terra l' aria e l' acqua, da cui mi separava una voragine ogni giorno più larga; e per ritrovare il mio mestiere chimico nella sua forma essenziale e primordiale, la "Scheidekunst", appunto, l' arte di separare il metallo dalla ganga. _ Non lo vendo mica tutto, _ continuava l' altro: _ ci sono troppo affezionato. Ne tengo un po' da parte e lo fondo, due volte all' anno, e lo lavoro: non sono un artista ma mi piace averlo in mano, batterlo col martello, inciderlo, graffiarlo. Non mi interessa diventare ricco: mi importa vivere libero, non avere un collare come i cani, lavorare così, quando voglio, senza nessuno che mi venga a dire "su, avanti". Per questo soffro a stare qui dentro; e poi, oltre a tutto, si perde giornata. Il milite diede un crollo nel sonno, e il mitra che teneva fra le ginocchia cadde a terra con fracasso. Lo sconosciuto ed io ci scambiammo un rapido sguardo, ci comprendemmo al volo, ci alzammo di scatto dalla panca: ma non facemmo in tempo a muovere un passo che già il milite aveva raccattato l' arma. Si ricompose, guardò l' ora, bestemmiò in veneto, e ci disse ruvidamente che era tempo di rientrare in cella. Nel corridoio incontrammo Guido e Aldo, che, scortati da un altro sorvegliante, si avviavano a prendere il nostro posto nell' afa polverosa della caldaia: mi salutarono con un cenno del capo. Nella cella mi riaccolse la solitudine, il fiato gelido e puro delle montagne che penetrava dalla finestrella, e l' angoscia del domani. Tendendo l' orecchio, nel silenzio del coprifuoco si sentiva il mormorio della Dora, amica perduta, e tutti gli amici erano perduti, e la giovinezza, e la gioia, e forse la vita: scorreva vicina ma indifferente, trascinando l' oro nel suo grembo di ghiaccio fuso. Mi sentivo attanagliato da un' invidia dolorosa per il mio ambiguo compagno, che presto sarebbe ritornato alla sua vita precaria ma mostruosamente libera, al suo inesauribile rigagnolo d' oro, ad una fila di giorni senza fine.

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Dovevo aver superato la crisi più dura, quella dell' inserimento nell' ordine del Lager, e dovevo aver sviluppato una strana callosità, se allora riuscivo non solo a sopravvivere, ma anche a pensare, a registrare il mondo intorno a me, e perfino a svolgere un lavoro abbastanza delicato, in un ambiente infettato dalla presenza quotidiana della morte, ed insieme reso frenetico dall' avvicinarsi dei russi liberatori, giunti ormai ad ottanta chilometri da noi. La disperazione e la speranza si alternavano con un ritmo che avrebbe stroncato in un' ora qualsiasi individuo normale. Noi non eravamo normali perché avevamo fame. La nostra fame di allora non aveva nulla in comune con la ben nota (non del tutto sgradevole) sensazione di chi ha saltato un pasto ed è sicuro che non gli mancherà il pasto successivo: era un bisogno, una mancanza, uno yearning, che ci accompagnava ormai da un anno, aveva messo in noi radici profonde e permanenti, abitava in tutte le nostre cellule e condizionava il nostro comportamento. Mangiare, procurarci da mangiare, era lo stimolo numero uno, dietro a cui, a molta distanza, seguivano tutti gli altri problemi di sopravvivenza, ed ancora più lontani i ricordi della casa e la stessa paura della morte. Ero chimico in uno stabilimento chimico, in un laboratorio chimico (anche questo è già stato raccontato), e rubavo per mangiare. Se non si comincia da bambini, imparare a rubare non è facile; mi erano occorsi diversi mesi per reprimere i comandamenti morali e per acquisire le tecniche necessarie, e ad un certo punto mi ero accorto (con un balenio di riso, e un pizzico di ambizione soddisfatta) di stare rivivendo, io dottorino per bene, l' involuzione-evoluzione di un famoso cane per bene, un cane vittoriano e darwiniano che viene deportato, e diventa ladro per vivere nel suo "Lager" del Klondike, il grande Buck del "Richiamo della Foresta". Rubavo come lui e come le volpi: ad ogni occasione favorevole, ma con astuzia sorniona e senza espormi. Rubavo tutto, salvo il pane dei miei compagni. Sotto l' aspetto, appunto, delle sostanze che si potessero rubare con profitto, quel laboratorio era terreno vergine, tutto da esplorare. C' erano benzina ed alcool, prede banali e scomode: molti li rubavano, in vari punti del cantiere, l' offerta era alta ed alto anche il rischio, perché per i liquidi ci vogliono recipienti. È il grande problema dell' imballaggio, che ogni chimico esperto conosce: e lo conosceva bene il Padre Eterno, che lo ha risolto brillantemente, da par suo, con le membrane cellulari, il guscio delle uova, la buccia multipla degli aranci, e la nostra pelle, perché liquidi infine siamo anche noi. Ora, a quel tempo non esisteva il polietilene, che mi avrebbe fatto comodo perché è flessibile, leggero e splendidamente impermeabile: ma è anche un po' troppo incorruttibile, e non per niente il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono. In mancanza di adatti imballaggi e confezioni, la refurtiva ideale avrebbe quindi dovuto essere solida, non deperibile, non ingombrante, e soprattutto nuova. Doveva essere di alto valore unitario, cioè non voluminosa, perché spesso eravamo perquisiti all' ingresso nel campo dopo il lavoro; e doveva infine essere utile o desiderata da almeno una delle categorie sociali che componevano il complicato universo del Lager. Avevo fatto in laboratorio vari tentativi. Avevo rubato qualche centinaio di grammi di acidi grassi, faticosamente ottenuti per ossidazione della paraffina da qualche mio collega dall' altra parte della barricata: ne avevo mangiato una metà, e saziavano veramente la fame, ma avevano un sapore così sgradevole che rinunciai a vendere il resto. Avevo provato a fare delle frittelle con cotone idrofilo, che tenevo premuto contro la piastra di un fornello elettrico; avevano un vago sapore di zucchero bruciato, ma si presentavano così male che non le giudicai commerciabili: quanto a vendere direttamente il cotone all' infermeria del Lager, provai una volta, ma era troppo ingombrante e poco quotato. Mi sforzai anche di ingerire e digerire la glicerina, fondandomi sul semplicistico ragionamento che, essendo questa un prodotto della scissione dei grassi, deve pure in qualche modo essere metabolizzata e fornire calorie: e forse ne forniva, ma a spese di sgradevoli effetti secondari. C' era un barattolo misterioso su di uno scaffale. Conteneva una ventina di cilindretti grigi, duri, incolori, insapori, e non aveva etichetta. Questo era molto strano, perché quello era un laboratorio tedesco. Sì, certo, i russi erano a pochi chilometri, la catastrofe era nell' aria, quasi visibile; c' erano bombardamenti tutti i giorni; tutti sapevano che la guerra stava per finire: ma infine alcune costanti devono pure sussistere, e fra queste c' era la nostra fame, e che quel laboratorio era tedesco, e che i tedeschi non dimenticano mai le etichette. Infatti, tutti gli altri barattoli e bottiglie del laboratorio avevano etichette nitide, scritte a macchina, o a mano in bei caratteri gotici: solo quello non ne aveva. In quella situazione, non disponevo certamente dell' attrezzatura e della tranquillità necessarie per identificare la natura dei cilindretti. A buon conto, ne nascosi tre in tasca e me li portai la sera in campo. Erano lunghi forse venticinque millimetri, e con un diametro di quattro o cinque. Li mostrai al mio amico Alberto. Alberto cavò di tasca un coltellino e provò ad inciderne uno: era duro, resisteva alla lama. Provò a raschiarlo: si udì un piccolo crepitio e scaturì un fascio di scintille gialle. A questo punto la diagnosi era facile: si trattava di ferro-cerio, la lega di cui sono fatte le comuni pietrine per accendisigaro. Perché erano così grandi? Alberto, che per qualche settimana aveva lavorato da manovale insieme con una squadra di saldatori, mi spiegò che vengono montati sulla punta dei cannelli ossiacetilenici, per accendere la fiamma. A questo punto mi sentivo scettico sulle possibilità commerciali della mia refurtiva: poteva magari servire ad accendere il fuoco, ma in Lager i fiammiferi (illegali) non scarseggiavano certo. Alberto mi redarguì. Per lui la rinuncia, il pessimismo, lo sconforto, erano abominevoli e colpevoli: non accettava l' universo concentrazionario, lo rifiutava con l' istinto e con la ragione, non se ne lasciava inquinare. Era un uomo di volontà buona e forte, ed era miracolosamente rimasto libero, e libere erano le sue parole ed i suoi atti: non aveva abbassato il capo, non aveva piegato la schiena. Un suo gesto, una sua parola, un suo rigo, avevano virtù liberatoria, erano un buco nel tessuto rigido del Lager, e tutti quelli che lo avvicinavano se ne accorgevano, anche coloro che non capivano la sua lingua. Credo che nessuno, in quel luogo, sia stato amato quanto lui. Mi redarguì: non bisogna scoraggiarsi mai, perché è dannoso, e quindi immorale, quasi indecente. Avevo rubato il cerio: bene, ora si trattava di piazzarlo, di lanciarlo. Ci avrebbe pensato lui, lo avrebbe fatto diventare una novità, un articolo di alto valore commerciale. Prometeo era stato sciocco a donare il fuoco agli uomini invece di venderlo: avrebbe fatto quattrini, placato Giove ed evitato il guaio dell' avvoltoio. Noi dovevamo essere più astuti. Questo discorso, della necessità di essere astuti, non era nuovo fra noi: Alberto me lo aveva svolto sovente, e prima di lui altri nel mondo libero, e moltissimi altri ancora me lo ripeterono poi, infinite volte fino ad oggi, con modesto risultato; anzi, col risultato paradosso di sviluppare in me una pericolosa tendenza alla simbiosi con un autentico astuto, il quale ricavasse (o ritenesse di ricavare) dalla convivenza con me vantaggi temporali o spirituali. Alberto era un simbionte ideale, perché si asteneva dall' esercitare la sua astuzia ai miei danni. Io non sapevo, ma lui sì (sapeva sempre tutto di tutti, eppure non conosceva il tedesco né il polacco, e poco il francese), che nel cantiere esisteva un' industria clandestina di accendini: ignoti artefici, nei ritagli di tempo, li fabbricavano per le persone importanti e per gli operai civili. Ora, per gli accendini occorrono le pietrine, ed occorrono di una certa misura: bisognava dunque assottigliare quelle che io avevo sotto mano. Assottigliarle quanto, e come? "Non fare difficoltà, mi disse: ci penso io. Tu pensa a rubare il resto". Il giorno dopo non ebbi difficoltà a seguire il consiglio di Alberto. Verso le dieci di mattina proruppero le sirene del Fliegeralarm, dell' allarme aereo. Non era una novità, oramai, ma ogni volta che questo avveniva ci sentivamo, noi e tutti, percossi di angoscia fino in fondo alle midolla. Non sembrava un suono terreno, non era una sirena come quelle delle fabbriche, era un suono di enorme volume che, simultaneamente in tutta la zona e ritmicamente, saliva fino ad un acuto spasmodico e ridiscendeva ad un brontolio di tuono. Non doveva essere stato un ritrovato casuale, perché nulla in Germania era casuale, e del resto era troppo conforme allo scopo ed allo sfondo: ho spesso pensato che fosse stato elaborato da un musico malefico, che vi aveva racchiuso furore e pianto, l' urlo del lupo alla luna e il respiro del tifone: così doveva suonare il corno di Astolfo. Provocava il panico, non solo perché preannunciava le bombe, ma anche per il suo intrinseco orrore, quasi il lamento di una bestia ferita grande fino all' orizzonte. I tedeschi avevano più paura di noi davanti agli attacchi aerei: noi, irrazionalmente, non li temevamo, perché li sapevamo diretti non contro noi, ma contro i nostri nemici. Nel giro di secondi mi trovai solo nel laboratorio, intascai tutto il cerio ed uscii all' aperto per ricongiungermi col mio Kommando: il cielo era già pieno del ronzio dei bombardieri, e ne scendevano, ondeggiando mollemente, volantini gialli che recavano atroci parole di irrisione: Im Bauch kein Fett, Niente lardo nella pancia, Acht Uhr ins Bett; Alle otto vai a letto; Der Arsch kaum warm, Appena il culo è caldo, Fliegeralarm: Allarme aereo! A noi era consentito l' accesso ai rifugi antiaerei: ci raccoglievamo nelle vaste aree non ancora fabbricate, nei dintorni del cantiere. Mentre le bombe cominciavano a cadere, sdraiato sul fango congelato e sull' erba grama tastavo i cilindretti nella tasca, e meditavo sulla stranezza del mio destino, dei nostri destini di foglie sul ramo, e dei destini umani in generale. Secondo Alberto, una pietrina da accendino era quotata una razione di pane, cioè un giorno di vita; io avevo rubato almeno quaranta cilindretti, da ognuno dei quali si potevano ricavare tre pietrine finite. In totale, centoventi pietrine, due mesi di vita per me e due per Alberto, e in due mesi i russi sarebbero arrivati e ci avrebbero liberati; e ci avrebbe infine liberati il cerio, elemento di cui non sapevo nulla, salvo quella sua unica applicazione pratica, e che esso appartiene alla equivoca ed eretica famiglia delle Terre Rare, e che il suo nome non ha nulla a che vedere con la cera, e neppure ricorda lo scopritore; ricorda invece (grande modestia dei chimici d' altri tempi!) il pianetino Cerere, essendo stati il metallo e l' astro scoperti nello stesso anno 1.01; e forse era questo un affettuoso-ironico omaggio agli accoppiamenti alchimistici: come il Sole era l' oro e Marte il ferro, così Cerere doveva essere il cerio. A sera io portai in campo i cilindretti, ed Alberto un pezzo di lamiera con un foro rotondo: era il calibro prescritto a cui avremmo dovuto assottigliare i cilindri per trasformarli in pietrine e quindi in pane. Quanto seguì è da giudicarsi con cautela. Alberto disse che i cilindri si dovevano ridurre raschiandoli con un coltello, di nascosto, perché nessun concorrente ci rubasse il segreto. Quando? Di notte. Dove? Nella baracca di legno, sotto le coperte e sopra il saccone pieno di trucioli, e cioè rischiando di provocare un incendio, e più realisticamente rischiando l' impiccagione: poiché a questa pena erano condannati, fra l' altro, tutti coloro che accendevano un fiammifero in baracca. Si esita sempre nel giudicare le azioni temerarie, proprie od altrui, dopo che queste sono andate a buon fine: forse non erano dunque abbastanza temerarie? O forse è vero che esiste un Dio che protegge i bambini, gli stolti e gli ebbri? O forse ancora, queste hanno più peso e più calore delle altre innumerevoli andate a fine cattivo, e perciò si raccontano più volentieri? Ma noi non ci ponemmo allora queste domande: il Lager ci aveva donato una folle famigliarità col pericolo e con la morte, e rischiare il capestro per mangiare di più ci sembrava una scelta logica, anzi ovvia. Mentre i compagni dormivano, lavorammo di coltello, notte dopo notte. Lo scenario era tetro da piangere: una sola lampadina elettrica illuminava fiocamente il grande capannone di legno, e si distinguevano nella penombra, come in una vasta caverna, i visi dei compagni stravolti dal sonno e dai sogni: tinti di morte, dimenavano le mascelle, sognando di mangiare. A molti pendevano fuori dalla sponda del giaciglio un braccio o una gamba nudi e scheletrici: altri gemevano o parlavano nel sonno. Ma noi due eravamo vivi e non cedevamo al sonno. Tenevamo sollevata la coperta con le ginocchia, e sotto quella tenda improvvisata raschiavamo i cilindri, alla cieca e a tasto: ad ogni colpo si udiva un sottile crepitio, e si vedeva nascere un fascio di stelline gialle. A intervalli, provavamo se il cilindretto passava nel foro-campione: se no, continuavamo a raschiare; se sì, rompevamo il troncone assottigliato e lo mettevamo accuratamente da parte. Lavorammo tre notti: non accadde nulla, nessuno si accorse del nostro tramestio, né le coperte né il saccone presero fuoco, e in questo modo ci conquistammo il pane che ci resse in vita fino all' arrivo dei russi e ci confortammo nella fiducia e nell' amicizia che ci univa. Quanto avvenne di me è scritto altrove. Alberto se ne partì a piedi coi più quando il fronte fu prossimo: i tedeschi li fecero camminare per giorni e notti nella neve e nel gelo, abbattendo tutti quelli che non potevano proseguire; poi li caricarono su vagoni scoperti, che portarono i pochi superstiti verso un nuovo capitolo di schiavitù, a Buchenwald ed a Mauthausen. Non più di un quarto dei partenti sopravvisse alla marcia. Alberto non è ritornato, e di lui non resta traccia: un suo compaesano, mezzo visionario e mezzo imbroglione, visse per qualche anno, dopo la fine della guerra, spacciando a sua madre, a pagamento, false notizie consolatorie.

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Era tutto abbastanza sensato, e conforme alle non lontane nozioni scolastiche: solo un punto mi apparve strano. Avvenuta la disgregazione del pigmento, si prescriveva di aggiungere 23 gocce di un certo reattivo: ora, una goccia non è una unità così definita da sopportare un così definito coefficiente numerico; e poi, a conti fatti, la dose prescritta era assurdamente elevata: avrebbe allagato l' analisi, conducendo in ogni caso ad un risultato conforme alla specifica. Guardai il rovescio della scheda: portava la data dell' ultima revisione, 4 gennaio 1944; l' atto di nascita del primo lotto impolmonito era del 22 febbraio successivo. A questo punto si cominciava a vedere la luce. In un archivio polveroso trovai la raccolta delle PDC in disuso, ed ecco, l' edizione precedente della scheda del cromato portava l' indicazione di aggiungere "2 o 3" gocce, e non "23": la "o" fondamentale era mezza cancellata, e nella trascrizione successiva era andata perduta. Gli eventi si concatenavano bene: la revisione della scheda aveva comportato un errore di trascrizione, e l' errore aveva falsato tutte le analisi successive, appiattendo i risultati su di un valore fittizio dovuto all' enorme eccesso di reattivo, e provocando così l' accettazione di lotti di pigmento che avrebbero dovuto essere scartati; questi, essendo troppo basici, avevano scatenato l' impolmonimento. Ma guai a chi cede alla tentazione di scambiare una ipotesi elegante con una certezza: lo sanno anche i lettori di libri gialli. Mi impadronii del magazziniere sonnacchioso, pretesi da lui i controcampioni di tutte le partite di cromato dal gennaio '44 in avanti, e mi asserragliai dietro al bancone per tre giorni, per analizzarli secondo il metodo sbagliato e secondo quello corretto. A mano a mano che i risultati si incolonnavano sul registro, la noia del lavoro ripetitivo si andava trasformando nell' allegria nervosa di quando da bambini si gioca a rimpiattino, e si scorge l' avversario goffamente acquattato dietro la siepe. Col metodo sbagliato, si trovava costantemente il fatidico 9,5 per cento; col metodo giusto, i risultati erano ampiamente dispersi, ed un buon quarto, essendo inferiore al minimo prescritto, corrispondeva a lotti che avrebbero dovuto essere respinti. La diagnosi era confermata e la patogenesi scoperta: si trattava adesso di definire la terapia. Questa fu trovata abbastanza presto, attingendo alla buona chimica inorganica, lontana isola cartesiana, paradiso perduto per noi pasticcioni organisti e macromolecolisti: occorreva neutralizzare in qualche modo, entro il corpo malato di quella vernice, l' eccesso di basicità dovuto all' ossido di piombo libero. Gli acidi si dimostrarono nocivi per altri versi: pensai al cloruro d' ammonio, capace di combinarsi stabilmente con l' ossido di piombo dando un cloruro insolubile ed inerte, e liberando ammoniaca. Le prove in piccolo diedero risultati promettenti: presto, reperire il cloruro (nell' inventario era designato come "cloruro demonio"), mettersi d' accordo col caporeparto di Macinazione, infilare in un piccolo mulino a palle due dei fegati disgustosi a vedersi e a toccarsi, aggiungere una quantità pesata della presunta medicina, dare il via al mulino sotto gli sguardi scettici degli astanti. Il mulino, di solito così fragoroso, si mise in moto quasi malvolentieri, in un silenzio di cattivo augurio, inceppato dalla massa gelatinosa che impastava le palle. Non rimaneva che ritornare a Torino ed aspettare il lunedì, raccontando vorticosamente alla paziente ragazza le ipotesi fatte, le cose capite in riva al lago, l' attesa spasmodica della sentenza che i fatti avrebbero pronunciata. Il lunedì seguente il mulino aveva ritrovato la sua voce: scrosciava anzi allegramente, con un tono pieno e continuo, senza quel franare ritmico che in un mulino a palle denuncia cattiva manutenzione o cattiva salute. Lo feci fermare, ed allentare cautamente i bulloni del boccaporto: uscì fischiando una folata ammoniacale, come doveva. Feci togliere il boccaporto. Angeli e Ministri di Grazia! la vernice era fluida e liscia, in tutto normale, rinata dalle sue ceneri come la Fenice. Stesi una relazione in buon gergo aziendale, e la Direzione mi aumentò lo stipendio. Inoltre, a titolo di riconoscimento, ricevetti l' assegnazione di due "côrasse" (due copertoni) per la bicicletta. Poiché il magazzino conteneva parecchi lotti di cromato pericolosamente basici, che dovevano pure essere utilizzati perché erano stati accettati al collaudo e non si potevano più restituire al fornitore, il cloruro venne ufficialmente introdotto come preventivo anti-impolmonimento nella formulazione di quella vernice. Poi io diedi le dimissioni, passarono i decenni, finì il dopoguerra, i deleteri cromati troppo basici sparirono dal mercato, e la mia relazione fece la fine di ogni carne: ma le formulazioni sono sacre come le preghiere, i decreti-legge e le lingue morte, e non un iota in esse può venire mutato. Perciò, il mio Cloruro Demonio, gemello di un amore felice e di un libro liberatore, ormai in tutto inutile e probabilmente un po' nocivo, in riva a quel lago viene tuttora religiosamente macinato nell' antiruggine ai cromati, e nessuno sa più perché.

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Da noi, di clienti ne venivano abbastanza pochi, noi facevamo poche analisi e guadagnavamo pochi quattrini: così non potevamo comperarci strumenti moderni e rapidi, i nostri responsi erano lenti, le nostre analisi duravano molto più del normale; non avevamo neppure una targa in strada, per cui il cerchio si chiudeva e i clienti diventavano ancora più pochi. I campioni che ci lasciavano per le analisi costituivano un apporto non trascurabile al nostro sostentamento: Emilio ed io ci guardavamo bene dal far sapere che in generale bastano pochi grammi, ed accettavamo volentieri il litro di vino o di latte, il chilo di pasta o di sapone, il pacchetto di agnolotti. Tuttavia, data l' anamnesi, e cioè i sospetti del vecchiotto, sarebbe stato imprudente consumare quello zucchero così alla cieca, ed anche solo assaggiarlo. Ne sciolsi un po' in acqua distillata: la soluzione era torbida, c' era certamente qualcosa che non andava. Pesai un grammo di zucchero nel crogiolo di platino (pupilla dei nostri occhi) per incenerirlo sulla fiamma: si levò nell' aria polluta del laboratorio l' odore domestico ed infantile dello zucchero bruciato, ma subito dopo la fiamma si fece livida e si percepì un odore ben diverso, metallico, agliaceo, inorganico, anzi, controorganico: guai se un chimico non avesse naso. A questo punto è difficile sbagliare: filtrare la soluzione, acidificarla, prendere il Kipp, far passare idrogeno solforato. Ecco il precipitato giallo di solfuro, è l' anidride arseniosa, l' arsenico insomma, il Mascolino, quello di Mitridate e di Madame Bovary. Passai il resto della giornata a distillare acido piruvico ed a speculare sullo zucchero del vecchio. Non so come l' acido piruvico si prepari modernamente; noi, allora, fondevamo acido solforico e soda in una casseruola smaltata, ottenendo bisolfato che gettavamo a solidificarsi sul nudo pavimento, e macinavamo poi in un macinino da caffè. Scaldavamo poi a 250ä C una miscela di detto bisolfato ed acido tartarico, per il che quest' ultimo si disidrata ad acido piruvico e distilla. Questa operazione la tentammo dapprima in recipienti di vetro, spaccandone una quantità proibitiva; allora comperammo dal ferravecchi dieci canistri di lamiera, di provenienza ARAR, di quelli che si usavano per la benzina prima dell' avvento del polietilene, che si dimostrarono adatti allo scopo; poiché il cliente era soddisfatto della qualità, e prometteva nuove ordinazioni, saltammo il fosso, e dal fabbro del rione ci facemmo costruire un rozzo reattore cilindrico di lamiera nera, munito di agitazione a mano. Lo incassammo in un pozzo di mattoni pieni, che aveva sul fondo e sulle pareti quattro resistenze da 1000 watt collegate illegalmente a monte del contatore. Collega che leggi, non ti stupire troppo di questa chimica precolombiana e rigattiera: in quegli anni non eravamo i soli, né i soli chimici, a vivere così, ed in tutto il mondo sei anni di guerra e di distruzioni avevano fatto regredire molte abitudini civili ed attenuato molti bisogni, primo fra tutti il bisogno del decoro. Dall' estremità del refrigerante a serpentina l' acido cadeva nel collettore in grevi gocce dorate, rifrangenti come gemme: "distillava" insomma, stilla su stilla, ogni dieci stille una lira di guadagno: ed intanto andavo pensando all' arsenico ed al vecchio, che non mi sembrava il tipo di tramare venefici e neppure di subirne, e non ne venivo a capo. L' uomo ritornò il giorno dopo. Insistette per pagare l' onorario, prima ancora di conoscere l' esito dell' analisi. Quando glielo comunicai, il suo viso si illuminò di un complicato sorriso grinzoso, e mi disse: _ Mi fa proprio piacere. Io l' avevo sempre detto, che finiva così _. Era palese che non attendeva altro se non una minima sollecitazione da parte mia per raccontarmi una storia; non gliela feci mancare, e la storia è questa, un po' deperita per effetto della traduzione dal piemontese, linguaggio essenzialmente parlato, all' italiano marmoreo, buono per le lapidi. _ Il mio mestiere è di fare il ciabattino. Se si incammina da giovani, non è un brutto mestiere: si sta seduti, non si fatica tanto, e si incontra gente per cambiar parola. Certo non si fa fortuna, e si sta tutto il giorno con le scarpe degli altri in mano: ma a questo si fa l' abitudine, anche all' odore del cuoio vecchio. La mia bottega è in via Gioberti angolo via Pastrengo: ci lavoro da trent' anni, il ciabattino ... (ma lui diceva "'l caglié", "caligarius": venerando vocabolo che sta scomparendo) ... il ciabattino di San Secondo sono io; conosco tutti i piedi difficili, e per fare il mio lavoro mi bastano il martello e lo spago. Bene, è venuto un giovanotto, neppure di qui: alto, bello e pieno d' ambizione; ha messo bottega a un tiro di schioppo, e l' ha riempita di macchine. Per allungare, per allargare, per cucire, per battere suola: non saprei neppure dirle, io non sono mai andato a vedere, me l' hanno raccontato. Ha messo dei bigliettini col suo indirizzo e il telefono dentro a tutte le buche per le lettere del vicinato: anche il telefono, sì, neanche fosse una levatrice. Lei crederà che gli affari gli siano andati subito bene. I primi mesi sì, un po' per curiosità, un po' per metterci in concorrenza, qualcuno da lui c' è andato, anche perché in principio teneva i prezzi bassi: ma poi ha dovuto alzarli, quando ha visto che ci rimetteva. Faccia attenzione che io tutte queste cose gliele dico senza volergli male: ne ho visti tanti come lui, partire al galoppo e rompersi la testa, ciabattini e mica solo ciabattini. Ma lui, me lo hanno detto, voleva male a me: a me mi raccontano tutto, e sa chi? Le vecchiette, quelle che hanno male ai piedi e non trovano più nessun gusto a camminare e hanno solo un paio di scarpe: quelle vengono da me, aspettano sedute che io gli aggiusti i difetti, e intanto mi tengono al corrente, mi raccontano la rava e la fava. Lui mi voleva male a me, e diceva in giro un mucchio di bugiarderie. Che risuolo col cartone. Che mi ubriaco tutte le sere. Che ho fatto morire mia moglie per l' assicurazione. Che a un mio cliente è spuntato un chiodo dalla suola e poi è morto di tetano. E allora, con le cose a questo punto, capisce che non mi sono stupito mica tanto quando un mattino, in mezzo alle scarpe della giornata, ho trovato questo cartoccio. Ho subito capito il macinato, ma volevo essere sicuro: così ne ho dato un poco al gatto, e dopo due ore è andato in un angolo e ha vomitato. Allora ne ho messo un altro poco nella zuccheriera, ieri mia figlia e io ne abbiamo messo nel caffè, e dopo due ore abbiamo vomitato tutti e due. Adesso poi ho anche la sua conferma, e sono soddisfatto. _ Vuole fare denuncia? Ha bisogno di una dichiarazione? _ No, no. Gliel' ho detto, è solo un povero diavolo, e non voglio rovinarlo. Anche per il mestiere, il mondo è grande e c' è posto per tutti: lui non lo sa, ma io sì. _ Allora? _ Allora domani gli rimando il cartoccio da una delle mie vecchiette, insieme con un bigliettino. Anzi, no: glielo voglio riportare io, così vedo che faccia ha e gli spiego due o tre cose _. Si guardò intorno, come uno farebbe in un museo, poi aggiunse: _ Bel mestiere, anche il vostro: ci va occhio e pazienza. Chi non ne ha, è meglio che se ne cerchi un altro. Salutò, si riprese il cartoccio, e discese senza prendere l' ascensore, con la tranquilla dignità che gli era propria.

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Mi ero licenziato con assurda baldanza, distribuendo a colleghi e superiori un testamento in quartine pieno di allegre insolenze: ero abbastanza consapevole del rischio che correvo, ma sapevo che la licenza di sbagliare si restringe con gli anni, e che perciò chi ne vuole approfittare non deve aspettare troppo. D' altra parte, non bisogna neppure aspettare troppo ad accorgersi che un errore è un errore: alla fine di ogni mese facevamo i conti, e diventava sempre più chiaro che di solo cloruro stannoso l' uomo non vive; o almeno, non vivevo io, che mi ero appena sposato e non avevo nessun autorevole patriarca alle spalle. Non ci arrendemmo subito; ci arrovellammo per un buon mese nello sforzo di ottenere la vanillina dall' eugenolo con una resa che ci consentisse di sopravvivere, e non ci riuscimmo; secernemmo diversi quintali d' acido piruvico, prodotto con un' attrezzatura da trogloditi e con un orario da forzati, dopo di che io levai bandiera bianca. Mi sarei trovato un impiego, magari tornando alle vernici. Emilio accettò con dolore, ma virilmente, la comune sconfitta e la mia diserzione. Per lui era diverso: nelle sue vene correva il sangue paterno, ricco di remoti fermenti pirateschi, di iniziative mercantili e di inquieta smania del nuovo. Non aveva paura di sbagliare, né di cambiare mestiere, luogo e stile di vita ogni sei mesi, né di diventare povero; neppure aveva fisime di casta, e non provava alcun disagio ad andare col triciclo e con la tuta grigia a consegnare ai clienti il nostro laborioso cloruro. Accettò, e il giorno dopo aveva già in mente altre idee, altre combinazioni con gente più navigata di me, e diede subito inizio alla smobilitazione del laboratorio, e non era neppure tanto triste, mentre lo ero io, che avevo voglia di piangere, o di ululare alla luna come fanno i cani quando vedono chiudere le valige. Mettemmo mano alla malinconica bisogna aiutati (o meglio frastornati ed impediti) dal Signor Samuele e dalla Signora Ester. Vennero in luce oggetti famigliari, cercati invano da anni, ed altri esotici, sepolti geologicamente nei recessi dell' alloggio: un otturatore di mitra Beretta 3.A (del tempo in cui Emilio era partigiano, e girava le valli a distribuire alle bande i pezzi di ricambio), un Corano miniato, una lunghissima pipa di porcellana, una spada damaschinata dall' elsa intarsiata d' argento, una valanga di carte ingiallite. Fra queste affiorò, e me ne appropriai golosamente, una grida del 17.5, in cui F. Tom. Lorenzo Matteucci, della Marca Anconitana Inquisitore Generale, contro l' Eretica Pravità specialmente Delegato, con molta sicumera e poca chiarezza "ordina, proibisce, ed espressamente comanda, che nessun Ebreo abbia ardire di prendere da Cristiani lezzione di veruna sorta d' Istromento, e molto meno quella di Ballo". Rimandammo al giorno seguente il compito più straziante, lo smontaggio della cappa d' aspirazione. Nonostante il parere d' Emilio, fu subito chiaro che le nostre forze non sarebbero bastate. Ci fu doloroso arruolare una coppia di carpentieri, a cui Emilio prescrisse di costruire un' attrezzatura adatta a sradicare la cappa dai suoi ancoraggi senza smembrarla: questa cappa era insomma un simbolo, l' insegna di una professione e di una condizione, anzi di un' arte, e avrebbe dovuto essere depositata nel cortile intatta e nella sua interezza, per ritrovare nuova vita e utilità in un futuro per ora non precisato. Fu costruita un' impalcatura, montato un paranco, tese funi di guida. Mentre Emilio ed io assistevamo dal cortile alla funerea cerimonia, la cappa uscì solenne dalla finestra, si librò ponderosa, si stagliò contro il cielo grigio di via Massena, venne abilmente agganciata alla catena del paranco, e la catena gemette e si spezzò. La cappa piombò per quattro piani ai nostri piedi, e si ridusse in schegge di legno e vetro; odorava ancora di eugenolo e d' acido piruvico, e con lei si ridusse in schegge ogni nostra volontà ed ardimento d' intraprendere. Nei brevi istanti del volo l' istinto di conservazione ci fece fare un balzo indietro. Emilio disse: "Credevo che facesse più rumore".

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Ringraziai, feci doverosamente il mio numero, illustrai un certo nuovo prodotto, presi nota di una ordinazione abbastanza cospicua, salutai e diedi passata alla faccenda. Ma il giorno dopo, sulla mia scrivania da 1,2 metri quadrati, trovai deposto un pacchetto, alla mia cortese attenzione. Lo svolsi, non senza curiosità: conteneva un blocchetto di metallo, grande quanto mezza scatola di sigarette, effettivamente piuttosto pesante e dall' aria esotica. La superficie era bianca argentea, con una leggera patina giallognola: non pareva che fosse caldo, ma non era confondibile con nessuno dei metalli che una lunga consuetudine anche extra-chimica ci ha resi famigliari, come il rame, lo zinco, l' alluminio. Forse una lega? O magari proprio uranio? L' uranio metallico, dalle nostre parti, non lo ha visto mai nessuno, e nei trattati viene descritto come biancoargenteo; e non è che sia permanentemente caldo un blocchetto piccolo come quello: forse solo una massa grande quanto una casa può mantenersi calda a spese dell' energia di disintegrazione. Appena mi fu decentemente possibile, mi cacciai in laboratorio, il che, per un chimico del SAC, è un' iniziativa inusitata e vagamente sconveniente. Il laboratorio è luogo da giovani, ed a ritornarci ci si sente ritornare giovani: con la stessa smania di avventura, di scoperta, d' imprevisto, che si ha a diciassette anni. Naturalmente, diciassette anni non li hai più da un pezzo, ed inoltre la lunga carriera di attività parachimiche ti ha mortificato, ti ha reso atrofico, impedito, ignaro della collocazione dei reagenti e delle apparecchiature, immemore di tutto salvo che delle reazioni fondamentali: ma proprio per questi motivi il laboratorio rivisitato è sorgente di gioia, ed emana un fascino intenso, che è quello della giovinezza, dell' avvenire indeterminato e gravido di potenze, e cioè della libertà. Ma gli anni di non-uso non ti fanno dimenticare alcuni tic professionali, alcuni comportamenti stereotipi che ti fanno riconoscere come chimico in qualsiasi circostanza: tentare la materia incognita con l' unghia, col temperino, annusarla, sentire con le labbra se è "fredda" o "calda", provare se incide o no il vetro della finestra, osservarla in luce riflessa, soppesarla nel cavo della mano. Valutare senza bilancia il peso specifico di un materiale non è poi così facile, ma l' uranio, via, ha p. sp. 19, molto più del piombo, il doppio del rame: il dono fatto a Bonino dagli aeronauti-astronauti nazisti non poteva essere uranio. Incominciavo ad intravvedere, nel racconto paranoico dell' ometto, l' eco di una leggenda locale tenace e ricorrente, degli UFO della Val Susa, dei dischi volanti portatori di presagi come le comete nel medioevo, erratici e privi di effetti come gli spiriti degli spiritisti. E se non era uranio, cosa? Asportai col seghetto una fettina di metallo (si segava senza difficoltà) e la presentai sulla fiamma del becco Bunsen: avvenne una cosa poco comune, dalla fiamma si levò un filo di fumo bruno, che si arricciolava in volute. Percepii, con un attimo di voluttuosa nostalgia, ridestarsi in me i riflessi dell' analista, appassiti per la lunga inerzia: trovai una capsula di porcellana smaltata, la riempii d' acqua, la sovrapposi alla fiamma fuligginosa, e vidi formarsi sul fondo un deposito bruno che era una vecchia conoscenza. Toccai il deposito con una gocciolina di soluzione di nitrato d' argento, ed il colore nero-azzurro che si sviluppò mi confermò che il metallo era cadmio, il lontano figlio di Cadmo, il seminatore dei denti del drago. Dove Bonino avesse trovato il cadmio, non era molto interessante: probabilmente nel reparto cadmiatura della sua fabbrica. Più interessante, ma indecifrabile, era l' origine della sua storia: profondamente sua, la sua, poiché, come seppi in seguito, la raccontava sovente ed a tutti, ma senza sostanziarla con l' apporto della materia, e con particolari via via più colorati e meno credibili col passare degli anni. Era chiaramente impossibile venirne a capo: ma invidiai in lui, io impigliato nella rete del SAC, dei doveri sociali ed aziendali e della verosimiglianza, la libertà sconfinata dell' invenzione, di chi ha sfondato la barriera ed è ormai padrone di costruirsi il passato che più gli aggrada, di cucirsi intorno i panni dell' eroe, e di volare come Superman attraverso i secoli, i meridiani e i paralleli.

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., con cui ero abbastanza in confidenza, e lo pregai di investigare con discrezione sul dottor Müller: quanti anni aveva? quale aspetto? dove era stato durante la guerra? La risposta non tardò molto: gli anni e l' aspetto coincidevano, l' uomo aveva lavorato prima a Schkopau, per impratichirsi nella tecnologia della gomma, poi alla fabbrica di Buna, presso Auschwitz. Ottenni il suo indirizzo, e gli mandai, da privato a privato, una copia della edizione tedesca di Se questo è un uomo, con una lettera di accompagnamento in cui gli chiedevo se era veramente lui il Müller di Auschwitz, e se ricordava "i tre uomini del laboratorio"; bene, che scusasse la brutale intromissione e ritorno dal nulla, io ero uno dei tre, oltre ad essere il cliente preoccupato per la resina che non essiccava. Mi disposi all' attesa della risposta, mentre a livello aziendale continuava, come l' oscillazione di un enorme lentissimo pendolo, lo scambio di lettere chimico-burocratiche a proposito del vanadio italiano che non andava così bene come quello tedesco. Vogliate pertanto spedirci con cortese urgenza le specificazioni del prodotto, ed inviarcene per via aerea kg 50, il cui importo vorrete defalcare eccetera. Sul piano tecnico la questione sembrava bene avviata, ma non era chiaro il destino del lotto difettoso di resina: trattenerlo con uno sconto sul prezzo, o riesportarlo a spese della W., o chiedere un arbitrato; intanto, come è usanza, ci minacciavamo a vicenda di adire le vie legali, "gerichtlich vorzugehen". La risposta "privata" continuava a farsi attendere, il che era irritante e snervante quasi quanto la contesa aziendale. Che cosa sapevo del mio uomo? Niente: con ogni probabilità aveva cancellato tutto, deliberatamente o no; la mia lettera e il mio libro erano per lui un' intrusione ineducata e fastidiosa, un invito maldestro a rimestare un sedimento ormai bene assestato, un attentato all' Anstand. Non avrebbe risposto mai. Peccato: non era un tedesco perfetto, ma esistono tedeschi perfetti? o ebrei perfetti? Sono un' astrazione: il passaggio dal generale al particolare riserva sempre delle sorprese stimolanti, quando il partner privo di contorni, larvale, ti si definisce davanti, a poco a poco o ad un solo tratto, e diventa il Mitmensch, il co-uomo, con tutto il suo spessore, ticchi, anomalie ed anacoluti. Ormai erano passati quasi due mesi: la risposta non sarebbe più arrivata. Peccato. Arrivò datata 2 marzo 1967, su elegante carta intestata in caratteri vagamente gotici. Era una lettera di apertura, breve e riservata. Sì, il Müller di Buna era proprio lui. Aveva letto il mio libro, riconosciuto con emozione persone e luoghi; era lieto di sapermi sopravvissuto; mi chiedeva notizie degli altri due "uomini del laboratorio", e fin qui non c' era nulla di strano, poiché erano nominati nel libro: ma chiedeva anche di Goldbaum, che io non avevo nominato. Aggiungeva di aver riletto, con l' occasione, le sue annotazioni su quel periodo: me le avrebbe commentate volentieri in un auspicabile incontro personale, "utile sia a me, sia a Lei, e necessario ai fini del superamento di quel terribile passato" ("im Sinne der Bewältigung der so furchtbaren Vergangenheit"). Dichiarava infine che, fra tutti i prigionieri che aveva incontrato ad Auschwitz, ero io quello che gli aveva fatto l' impressione più forte e duratura, ma questa poteva bene essere una lusinga: dal tono della lettera, e in specie da quella frase sul "superamento", sembrava che l' uomo aspettasse qualcosa da me. Adesso toccava a me rispondere, e mi sentivo imbarazzato. Ecco: l' impresa era riuscita, l' avversario accalappiato; era davanti a me, quasi un collega verniciaio, scriveva come me su carta intestata, e si ricordava perfino di Goldbaum. Era ancora assai sfuocato, ma era chiaro che voleva da me qualcosa come un' assoluzione, perché lui aveva un passato da superare e io no: io volevo da lui soltanto uno sconto sulla fattura di una resina difettosa. La situazione era interessante, ma atipica: coincideva solo in parte con quella del reprobo davanti al giudice. In primo luogo: in quale lingua gli avrei risposto? Non in tedesco certo; avrei commesso errori ridicoli, che il mio ruolo non ammetteva. Meglio sempre combattere sul proprio campo: gli scrissi in italiano. I due del laboratorio erano morti, non sapevo dove né come; così pure Goldbaum, di freddo e fame, durante la marcia di evacuazione. Di me, l' essenziale lo conosceva dal libro, e dalla corrispondenza aziendale sul vanadio. Avevo io molte domande da porgli: troppe, e troppo pesanti per lui e per me. Perché Auschwitz? Perché Pannwitz? Perché i bambini in gas? Ma sentivo che non era ancora il momento di superare certi limiti, e gli chiesi soltanto se accettava i giudizi, impliciti ed espliciti, del mio libro. Se riteneva che la IG-Farben avesse assunto spontaneamente la mano d' opera schiava. Se conosceva allora gli "impianti" di Auschwitz, che ingoiavano diecimila vite al giorno a sette chilometri dagli impianti per la gomma Buna. Infine, poiché lui citava le sue "annotazioni su quel periodo", me ne avrebbe mandata una copia?" Dell' auspicabile incontro" non parlai, perché ne avevo paura. Inutile cercare eufemismi, parlare di pudore, ribrezzo, ritegno. Paura era la parola: come non mi sentivo un Montecristo, così non mi sentivo un Orazio-Curiazio; non mi sentivo capace di rappresentare i morti di Auschwitz, e neppure mi pareva sensato ravvisare in Müller il rappresentante dei carnefici. Mi conosco: non posseggo prontezza polemica, l' avversario mi distrae, mi interessa più come uomo che come avversario, lo sto a sentire e rischio di credergli; lo sdegno e il giusto giudizio mi tornano dopo, sulle scale, quando non servono più. Mi stava bene continuare per lettera. Müller mi scrisse aziendalmente che i cinquanta chili erano stati spediti, e che la W. confidava in una composizione amichevole eccetera. Quasi simultaneamente, mi giunse a casa la lettera che attendevo: ma non era come la attendevo. Non era una lettera modello, da paradigma: a questo punto, se questa storia fosse inventata, avrei potuto introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento; una ribalda, superba, glaciale, di nazista pervicace. Ora questa storia non è inventata, e la realtà è sempre più complessa dell' invenzione: meno pettinata, più ruvida, meno rotonda. È raro che giaccia in un piano. La lettera era lunga otto pagine, e conteneva una fotografia che mi fece trasalire. Il viso era quel viso: invecchiato, ed insieme nobilitato da un fotografo sapiente, lo risentivo alto sopra di me a pronunciare quelle parole di compassione distratta e momentanea, "perché ha l' aria così inquieta?" Era visibilmente opera di uno scrivente inesperto: retorica, sincera a mezzo, piena di digressioni e di elogi sperticati, commovente, pedantica ed impacciata: sfidava qualsiasi giudizio sommario e globale. Attribuiva i fatti di Auschwitz all' Uomo, senza differenziare; li deplorava, e trovava consolazione al pensiero di altri uomini citati nel mio libro, Alberto, Lorenzo, "contro cui si spuntano le armi della notte": la frase era mia, ma ripetuta da lui mi suonava ipocrita e stonata. Raccontava la sua storia: "trascinato inizialmente dal generale entusiasmo per il regime di Hitler", si era iscritto in una lega studentesca nazionalistica, che poco dopo era stata incorporata d' ufficio nelle SA; aveva ottenuto di esserne congedato, e commentava che "anche questo era dunque possibile". Alla guerra, era stato mobilitato nell' antiaerea, e soltanto allora, davanti alle rovine delle città, aveva provato "vergogna e sdegno" per la guerra. Nel maggio del '44 aveva potuto (come me!) far valere la sua qualità di chimico, ed era stato assegnato alla fabbrica di Schkopau della IG-Farben, di cui la fabbrica di Auschwitz era una copia ingrandita: a Schkopau aveva provveduto ad addestrare nei lavori di laboratorio un gruppo di ragazze ucraine, che infatti io avevo ritrovate ad Auschwitz, e di cui non mi spiegavo la strana familiarità col dottor Müller. Era stato trasferito ad Auschwitz con le ragazze solo nel novembre 1944: il nome di Auschwitz, a quel tempo, non aveva alcun significato, né per lui, né per i suoi conoscenti; tuttavia, al suo arrivo, aveva avuto un breve incontro di presentazione col direttore tecnico (presumibilmente l' ingegner Faust), e questi lo aveva ammonito che "agli ebrei di Buna dovevano essere assegnati solo i lavori più umili, e la compassione non era tollerata". Era stato assegnato alle dirette dipendenze del Doktor Pannwitz, quello che mi aveva sottoposto ad un curioso "esame di Stato" per accertarsi delle mie capacità professionali: Müller mostrava di avere una pessima opinione del suo superiore, e mi precisava che era morto nel 1965 di un tumore al cervello. Era lui Müller il responsabile dell' organizzazione del laboratorio di Buna: affermava di non aver saputo nulla di quell' esame, e di essere stato lui stesso a scegliere noi tre specialisti, e me in specie; secondo questa notizia, improbabile ma non impossibile, sarei dunque stato debitore a lui della mia sopravvivenza. Con me, affermava di aver avuto un rapporto quasi di amicizia fra pari; di aver conversato con me di problemi scientifici, e di aver meditato, in questa circostanza, su quali "preziosi valori umani venissero distrutti da altri uomini per pura brutalità". Non solo io non ricordavo alcuna conversazione del genere (e la mia memoria di quel periodo, come ho detto, è ottima), ma il solo supporle, su quello sfondo di disfacimento, di diffidenza reciproca e di stanchezza mortale, era del tutto fuori della realtà, e solo spiegabile con un molto ingenuo wishful thinking postumo; forse era una circostanza che lui raccontava a molti, e non si rendeva conto che l' unica persona al mondo che non la poteva credere ero proprio io. Forse, in buona fede, si era costruito un passato di comodo. Non ricordava i due dettagli della barba e delle scarpe, ma ne ricordava altri equivalenti, e a mio parere plausibili. Aveva saputo della mia scarlattina, e si era preoccupato della mia sopravvivenza, specialmente quando aveva saputo che i prigionieri venivano evacuati a piedi. Il 26 gennaio 1945 era stato assegnato dalle SS al Volkssturm, l' armata raccogliticcia di riformati, di vecchi e di bambini che avrebbe dovuto contrastare il passo ai sovietici: lo aveva fortunosamente salvato il direttore tecnico nominato sopra, autorizzandolo a fuggire nelle retrovie. Alla mia domanda sulla IG-Farben rispondeva recisamente che sì, aveva assunto prigionieri, ma solo per proteggerli: addirittura, formulava la (pazzesca!) opinione che l' intera fabbrica di Buna-Monowitz, otto chilometri quadrati di impianti ciclopici, fosse stata costruita con l' intento di "proteggere gli ebrei e contribuire a farli sopravvivere", e che l' ordine di non aver compassione per loro fosse "eine Tarnung", un mascheramento. "Nihil de Principe", nessuna accusa alla IG-Farben: il mio uomo era tuttora dipendente della W., che ne era l' erede, e non si sputa nel piatto in cui si mangia. Durante il suo breve soggiorno ad Auschwitz, lui "non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all' uccisione degli ebrei". Paradossale, offensivo, ma non da escludersi: a quel tempo, presso la maggioranza silenziosa tedesca, era tecnica comune cercare di sapere quante meno cose fosse possibile, e perciò non porre domande. Anche lui, evidentemente, non aveva domandato spiegazioni a nessuno, neppure a se stesso, benché le fiamme del crematorio, nei giorni chiari, fossero visibili dalla fabbrica di Buna. Poco prima del collasso finale, era stato catturato dagli americani, e rinchiuso per qualche giorno in un campo per prigionieri di guerra che lui, con sarcasmo involontario, definiva "di attrezzatura primitiva": come al tempo dell' incontro in laboratorio, Müller continuava dunque, nel momento in cui scriveva, a non avere "keine Ahnung", a non rendersi conto. Era ritornato presso la sua famiglia a fine giugno 1945. Il contenuto delle sue annotazioni, che io avevo chiesto di conoscere, era sostanzialmente questo. Percepiva nel mio libro un superamento del Giudaismo, un compimento del precetto cristiano di amare i propri nemici ed una testimonianza di fede nell' Uomo, e concludeva insistendo sulla necessità di un incontro, in Germania o in Italia, dove era pronto a raggiungermi quando e dove io lo gradissi: preferibilmente in Riviera. Due giorni dopo, per i canali aziendali, arrivò una lettera della W. che, certo non per caso, portava la stessa data della lunga lettera privata, oltre alla stessa firma; era una lettera conciliante, riconoscevano il loro torto, e si dichiaravano disponibili a qualsiasi proposta. Facevano capire che non tutto il male era venuto per nuocere: l' incidente aveva messo in luce la virtù del naftenato di vanadio, che d' ora in avanti sarebbe stato incorporato direttamente nella resina, a qualunque cliente fosse destinata. Che fare? Il personaggio Müller si era "entpuppt", era uscito dalla crisalide, era nitido, a fuoco. Né infame né eroe: filtrata via la retorica e le bugie in buona o in mala fede, rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio, uno dei non pochi monocoli nel regno dei ciechi. Mi faceva un onore non meritato attribuendomi la virtù di amare i nemici: no, nonostante i lontani privilegi che mi aveva riserbati, e benché non fosse stato un nemico a rigore di termini, non mi sentivo di amarlo. Non lo amavo, e non desideravo vederlo, eppure provavo una certa misura di rispetto per lui: non è comodo essere monocoli. Non era un ignavo né un sordo né un cinico, non si era adattato, faceva i conti col passato e i conti non gli tornavano bene: cercava di farli tornare, magari barando un poco. Si poteva chiedere molto di più a un ex SA? Il confronto, che tante volte avevo avuto occasione di fare, con altri onesti tedeschi incontrati in spiaggia o in fabbrica, era tutto a suo favore: la sua condanna del nazismo era timida e perifrastica, ma non aveva cercato giustificazioni. Cercava un colloquio: aveva una coscienza, e si arrabattava per mantenerla quieta. Nella sua prima lettera aveva parlato di "superamento del passato", "Bewältigung der Vergangenheit": ho poi saputo che questo è uno stereotipo, un eufemismo della Germania d' oggi, dove è universalmente inteso come "redenzione dal nazismo"; ma la radice "walt" che vi è contenuta compare anche in parole che dicono "dominio", "violenza" e "stupro", e credo che traducendo l' espressione con "distorsione del passato", o "violenza fatta al passato", non si andrebbe molto lontano dal suo senso profondo. Eppure era meglio questo rifugiarsi nei luoghi comuni che non la florida ottusità degli altri tedeschi: i suoi sforzi di superamento erano maldestri, un po' ridicoli, irritanti e tristi, tuttavia decorosi. E non mi aveva fatto avere un paio di scarpe? Alla prima domenica libera mi accinsi, pieno di perplessità, a preparare una risposta per quanto possibile sincera, equilibrata e dignitosa. Stesi la minuta: lo ringraziavo per avermi fatto entrare nel laboratorio; mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo. Quanto al giudizio specifico sul suo comportamento, che Müller implicitamente domandava, citavo discretamente due casi a me noti di suoi colleghi tedeschi che nei nostri confronti avevano fatto qualcosa di ben più coraggioso di quanto lui rivendicava. Ammettevo che non tutti nascono eroi, e che un mondo in cui tutti fossero come lui, cioè onesti ed inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale. Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi. Dell' incontro in Riviera non feci parola. Quella sera stessa Müller mi chiamò al telefono dalla Germania. La comunicazione era disturbata, e del resto ormai non mi è più facile comprendere il tedesco al telefono: la sua voce era faticosa e come rotta, il tono concitato. Mi annunciava che per Pentecoste, entro sei settimane, sarebbe venuto a Finale Ligure: potevamo incontrarci? Preso alla sprovvista, risposi di sì; lo pregai di precisare a suo tempo i particolari del suo arrivo, e misi da parte la minuta ormai superflua. Otto giorni dopo ricevetti dalla Signora Müller l' annuncio della morte inaspettata del Dottor Lothar Müller, nel suo sessantesimo anno di età.

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