Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Personaggi e vicende dell'arte moderna

261077
Venturoli, Marcello 8 occorrenze
  • 1965
  • Nistri-Lischi
  • Pisa
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Molti dei suoi primi quadri hanno per soggetto osterie e bettole, la parola vins appare grande e imperiosa nei suoi cartoni — cominciò abbastanza tardi a usar la tela — come un miraggio. Il piccolo alcoolizzato aveva bisogno di dieci franchi al giorno per «guadagnarsi da bere». Suoi primi acquirenti furono i negozianti di cornici e i rigattieri di Montmartre, tra cui Serot e Anzoli. Questo primo periodo dell’arte di Utrillo si lega a filo doppio con la grande lezione degli impressionisti.

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Ma non vogliamo qui dilungarci molto in una spiegazione abbastanza ovvia. Aggiungiamo soltanto un avvertimento. Non si crei fra epoca ed epoca picassiana nessun diaframma, si veda ogni opera liberamente, con la stessa libertà con la quale il pittore l’ha realizzata.

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Per farsi una idea abbastanza chiara del tipo, si guardi l’autoritratto del pittore esposto nella Mostra: una immensa chioma incornicia la fronte dell’uomo come un colbacco. Gli occhi grandi, cerchiati e fissi, guardano il mondo con curioso dolore; il naso aquilino, una piega scavata lungo le guance, i baffi e la barba corti ricoprono come un muschio nero una faccia di bronzo. Si direbbe che un viso così dipinto debba venir fuori da un’armatura, tanto è teso e squadrato dentro il suo spazio: invece un camiciotto bianco dal collo largo sul quale è appuntata una cravatta immensa che pare una farfalla senza capo, una gabbana a triangolo, rivestono il personaggio in un modo impreveduto e grottesco: ecco, il Viani dell’autoritratto sembra un clown in riposo, un buffone che, dimenticata la sua parte, guardi i suoi simili con la serietà dell’uomo.

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E se oggi persone filo-astratte ad oltranza possono esistere e difendere in quel loro modo allergico i valori delle ultime avanguardie, ciò devono in gran parte alla generazione che li ha preceduti, e che ha operato da ponte fra il clima chiuso del Novecento e quello aperto della Liberazione; un ponte non sempre consapevole dei valori di stile, almeno nel senso di uno sviluppo in un ordine avanguardistico dell’arte italiana, specie nel momento iniziale della scuola romana, ma assai energico nella determinazione psicologica e morale: tutti artisti, i Pirandello, gli Stradone, i Guttuso, i Cagli, i Mirko, che seppero assai presto approfondire il quanto di divergenza dal Novecento, anche sul piano formale e se ne distaccarono abbastanza. Almeno tanto quanto era sufficiente a non farli restare quei figli del Novecento che erano stati sugli avvii, e in certe loro intime contraddizioni.

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Non è stato altresì tentato il raggruppamento vicino alla «scuola romana di via Cavour», come la chiamò Roberto Longhi (Scipione, Mafai e Raphael) delle forze romane del così chiamato tonalismo (Capogrossi, Melli, Cavalli e qualche minore ma non meno fisionomico, del tipo di Rolando Monti, per esempio): movimento questo del tonalismo che deve essere ancora studiato non tanto allo scopo, abbastanza scontato in partenza, di liquidarne i «valori», quanto perché si presta alla individuazione in forma piuttosto massiva dei modi novecenteschi quasi passati di contrabbando oltre la dogana dell’antinovecento: dalla mai sufficientemente scontata grevezza naturalistica, invano campita in fondi monocromi, timidamente ed esteriormente ritmata in una grafia tra primitiva e parnassiana, goffamente scaldata di toni accesi, (i coloriti mattone, i corpi degli atleti color lavagna, o cotognato) alla rettorica divenuta più domestica e insieme più giuocata, degli eroi della stirpe, delle ninfe, delle messi, in una sorta di figurette, o nude o paludate, a passeggiare sotto portici piacentiniani, sopra pavimenti di pietra, di un grigio lustro come quello delle allora nuove di zecca gallerie di Milano. Arlecchini e matrone, romani nelle pose, gracili nello strato, non più pretesti per l’affresco, non ancora, e mai, dipinti di scene vere; ché nella apparente somiglianza di argomenti e di soggetti con quelli della scuola romana già famosi (dalle sirene alle donnine, dalle maschere, ai «personaggi») i quadri dei tonalisti si distinguevano per la loro astrattezza, per una sorta di scommessa manuale con la immaginazione.

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Se noi reputiamo ancor valida, ma non suscettibile, per altro, di ulteriori sviluppi, la pittura dei Messicani, così candidamente implicata nei modi del surrealismo, e tutta ricca di lieviti popolari, non troviamo altrettanto coerente questa pittura ultima di Attardi, che non è abbastanza surrealista per essere accettata come un angosciato giuoco dell’inconscio, e non è abbastanza visiva e realistica per essere accettata soltanto come un saggio, in caldo, nell’espressionismo storico. Le simbologie e le suggestioni che, per esempio, in un Guerreschi sono il frutto di una autentica «malattia psicologica», quel trasferire il passato dei lager nel presente della realtà «pacifica» in città, torturando di filo spinato, di squarci e di muffe le sue composizioni, in Attardi sono il frutto di una volontà che si risolve nella immaginazione e che non si scalda nella fantasia: così il quadro «Sulla via di Palermo» — il meno felice che noi abbiamo potuto vedere nella ricca produzione di Attardi — è una inerte mescolanza, in tanto agitarsi di personaggi, mondi, aranci, carabinieri e feticini (degni davvero di figurare, quanto a livello, nel più basso ciarpame della morbosità espressionista), di elementi surrealisti ed elementi realisti, fino a una inconcepibile compromissione classica (con rigurgiti michelangioleschi nella plasticazione e nei chiaroscuri), per di più dentro uno spazio fisico, da «Giudizio Universale», dove frammenti di quadri di Delacroix, tirati come una gomma dalla parte dell’espressionismo, dovrebbero fare il sogno o l’incubo o la favola.

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Tra i pezzi più belli della mostra, dove il pittore resta se stesso al cento per cento, fantomatico e insieme fiabesco, drammatico e tuttavia «ottimista», ricordiamo due pezzi di taglio abbastanza grande rispetto gli altri, il «Figure 1957» e «Ricordo di Rio», nonché la splendida serie delle prove per lito, in bianco e nero e a colori esposte nella saletta di destra. Fra le opere con le unghie fatte, di cui s’è parlato, preferiamo di gran lunga, per la sonorità un po’ saputa, ma non inerte, «Forme bianche», «Festa», «Avvenimento in una stanza».

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A fianco dei futuristi italiani gli organizzatori della mostra — presentata da Guido Ballo — hanno posto le opere dei cubisti e degli orfisti: dal «Duo per flauto» di Braque, a cinque opere del Delaunay, dalla tavolozza accesa che piacque tanto a Kandinskij; e poi Feininger, Gleizes, Gris, Leger (quest’ultimo, già nel 1910, se la data del quadro non mente, coi modi del cubismo sintetico, tanto che sembrerebbe essere questo tutto una cosa con la personalità di Leger), Antoine Pevsner (con una «testa di donna italiana» del 1915 di un lirismo pari alla intensità, in quel rosa arancio e rosso papavero, incisi in piani significanti); e poi il bronzo del 1909 di Picasso che apre un fiume di discussioni sulla priorità o meno della scultura di Boccioni nei confronti dei modi cubisti ortodossi; Iacques Villon ci mostra ancora una volta come il suo metodo di scomporre e ricomporre la realtà sensibile in un ordine astratto cominciò nel 1913, con un quadro «Soldati in marcia» che non era poi tanto lontano dalle fatiche e dalle incertezze dei futuristi, anzi abbastanza vicino a quel loro dinamismo fisico, tra la simbologia della Secessione e il cinematografo.

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