Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 20 occorrenze

troppo artistica la vita e perciò non abbastanza artistica fu l'arte sua.

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Eppure, per scegliere un artista che non deve riuscire discaro al nostro, egli sa abbastanza che Van Gogh per esempio, non si esimeva certo dall'inarcare fino ad una sazietà schematica le case, ed ogni generalità ambientale al pari dei suoi uomini mobilissimi. Questo significherebbe forse in Boccioni una leggera schiavitù a qualche oggetto di rango superiore, riportato fuori dell'arte come soggetto artistico? Quando infine egli rappresenta l'uomo non gli si asserve forse vagamente nello sforzo stesso di volerlo unificare con l'ambiente?

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E dove volendo risolvere il problema abbastanza complesso della liberazione degli spagnoli dal Romanismo e del passaggio al '600 non ha saputo far altro che riprendere ed ampliare la tesi che gli aveva servito - tutti sanno con quale risultato - per costruire la sua monografia su Ribera. Pensa cioè ad escludere ogni influenza di Caravaggio nella formazione dei grandi spagnoli e per giungere a ciò tenta di mostrare che lo sviluppo allo stile tenebroso avvenne in Ispagna in modo affatto indipendente, per opera di tardi romanisti e soprattutto di Ribalta, di Roelas e di Carducho.

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E per convincersi meglio di ciò 16, giunge perfettamente opportuno l'esame dell'opera acutamente avvicinata dal Voss alla Coronazione di spine * di Vienna, l'Andata al Calvario** (n. 476) dello stesso Museo; soltanto, per non conoscere alcuna produzione intermedia dell'artista, non abbastanza distanziata da quella, anzi tanto avvicinata da supporla dubbiosamente un pendant.

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Nonsenso, poiché se Gentileschi ha coraggio abbastanza per sciogliere di veli il mito religioso, non ha mente a sufficienza per disperderlo completamente nel nuovo ambiente con la serietà, l'impassibilità umana di cui era capace un Caravaggio.

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Non rileveremo mai abbastanza le difficoltà che si opponevano a un’artista nella trattazione di soggetti come questo che erano anche più restii a mutamenti per essere già accomodati da tempo in certi stampi apparenti di «genere», affatto mnemonici.

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Allora, non giudicheremo i cenni storici, che saranno buoni, tante guide potevano servire al compilatore; e la bibliografia in fine che è ricca e ben disposta; del catalogo diremo ch'è abbastanza completo, sebbene non sempre accettabile nelle attribuzioni e con qualche lacuna; ne noto una che mi riguarda particolarmente; perché mai il D., che non esclude di proposito tutta l'arte dopo il '500 e cita persino Dupré e Maccari, non ricorda il quadro di Preti al Duomo? Sono nèi.

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Figuriamoci se non ci fu abbastanza perché i soliti irreducibili ciuchi potessero satollarsi continuando a rivoltarsi per bocca quei quattro o cinque nomi, che noi non ripeteremo qui per far loro dispetto, di quei quattro o cinque artisti sommi nei quali, a detta loro, l'espressione artistica è perfetta perché riassuntiva ecc. di un'epoca intera.

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Ora noi non potremmo abbastanza ringraziare il Dami per la deferenza che ha mostrato verso una nostra idea, tentando persino di addobbarla e di ampliarla; ma francamente dobbiamo confessare che le aggiunte ch'egli ha proposto per dare la ragione per cui avvenga che talora una certa regione significhi una certa arte, sono semplicemente pietose. L'identità del soggetto per secoli, può determinare una caratteristica locale? E come potrebbe se il soggetto non può predeterminare l'espressione figurativa, cioè l'arte vera e propria, tant'è che persino le storie più senesi, quella di San Bernardino, sono state trattate in modi infinitamente diversi? Come può una cosa che non è d'arte determinare una cosa dell'arte? E perciò neppure la facile trasmissione della tecnica può significare nulla, giacché noi non conosciamo e non ci occupiamo di tecnica, e non possiamo aderire all'opinione candidamente avanzata dal Dami in un altro scritto che «lo stile... nelle arti figurative coincida in tanta parte con la tecnica» («Intorno a Michelangelo», in «Marzocco», 22 febbraio 1911).

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Il Cavalcaselle vide abbastanza giustamente l'orbita puramente veneziana di Romanino, ma quanto al Moretto fu guasto dalla credenza in certe tradizioni che davano a Moretto giovine opere che non si possono ritenere in nessun caso della sua mano 3. Il Morelli fu alquanto sviato dall'obbiettività, dalla sua compiacenza nel contraddire per partito preso il Cavalcaselle; ciò l'avrebbe ricondotto automaticamente sulla via giusta almeno per il Moretto, e ad ogni modo la sua sperienza di conoscitore gli fece correggere al proposito molte cose, o almeno parecchie attribuzioni; ma il suo contrasto con il Cavalcaselle e il Bode lo rinserrò in una meschineria provinciale, per cui s'ostinava a cercare le origini locali di Romanino e a combattere la teoria del «palmismo» di quell'artista. Sarebbe stato utile domandare al Morelli che se è vero che tra il 1510 e il 1515 Romanino trovò la caratteristica armonia cromatica della scuola bresciana 4, resta da rispondere in che cosa mai questa armonia cromatica differisca da quella dei veneti contemporanei che si equilibrano sul terzetto Giorgione-Palma-Tiziano Giovine; e d'altronde il Morelli stesso riconosce chiaramente altrove il carattere veneziano di Romanino 5. Più spiacevole si è ch'egli riduca a una pura questione di puntiglio la questione di Moretto; CavalcaseIle, egli dice, sbaglia nel credere che Moretto nel suo primo periodo abbia imitato Palma o Tiziano; e noi ci consoleremmo se non fosse che Morelli fa rientrare per la finestra quello che ha cacciato dalla porta: Moretto dal 1521 non ha fatto che sviluppare e se si vuole raffinare l'armonia cromatica trovata da Romanino nelle pale di Padova e di San Francesco a Brescia 6. Ma in questo caso poiché Romanino non è che un veneto noi siamo ancora al punto del Lanzi; i bresciani si nascondono ancora nello «stuolo dei Tizianeschi».

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Un esatto senso di «relatività» e di «graduazione» si sprigiona dalla secchezza di questi additamenti; un senso che non trova abbastanza echeggiamenti nel testo. Il Berenson vuol forse mantenersi troppo fedele alla un poco corriva condanna del «provincialismo», vergata dieci anni prima nel capo- verso XIX dei suoi «Venetian Painters», che tocca di «Venetian Art and the Provinces» 9. ***

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Solo nei due cavalli Romanino non seppe abbastanza superare certe voluttà di scienza intorno all'oggetto specifico che gli toccava rappresentare. Aveva troppo fisso in mente qualche schema di nobile destriero, e una piccola presunzione nel voler segnare il passo, e l'ambio, nel voler dar vita notomica ai due animali, gli fece sdimenticare la ricerca di qual fosse per il cavallo il più semplice stemma cromatico, che tanti grandi prospettici da Paolo Uccello a Ercole da Ferrara avevano pure escogitato. L'avesse ricercato, che più varrebbe la scelta, a buon conto non disprezzabile, del sauro sfacciato, non senza un sentore di roano che si allea ai larghi finimenti amarantini; e dell'altro grigio, pomellato con tanta delizia e perizia visiva.

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Chi infatti ricordando le prime forme dell'attività di storico del professor Sirèn, forme tutte morelliane, e pur avendone seguito i primi tentativi di evoluzione verso una critica più attuale sebbene applicata ad argomenti non abbastanza «realizzabili criticamente» (cfr. «Burl. Magaz.», 1912: « A late Gothic Poet of Line»), legge queste pagine su Leonardo resta quasi sbalordito dell'abilità con cui l'autore con l'umiltà di un giovine di belle speranze si è voluto rieducare alle tendenze critiche più in voga. Spira da queste pagine l'aria leggermente snobistica che è carattere precipuo del criticismo alla moda nella cerchia che fa capo al «Burlington Magazine», anche ove non si voglia risalire alla alleanza stretta dell'autore con il traduttore William Rankin, un critico americano molto al corrente, come dimostra la breve «Storia della Pittura italiana» scritta da lui e da un collegio di «misses», e ottima per le biblioteche d'Hôtels internazionali, dove «Mornings in Florence» e «Stones of Venice» sono ormai giù di moda.

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Non possiamo dire molt'altro di bene dello scritto del Nicodemi; il quale è troppo guasto da certe pregiudiziali di ambiente storico-religioso per poter affrontare con abbastanza gioia e vitalità il problema artistico. La questione della Controriforma e delle norme precise dettate all'arte - per noi senza alcun esito - dai Cardinali Paleotti e Borromeo e da altri legislatori dell'arte, pesano come un incubo sopra la mentalità critica del Nicodemi che non si stanca di citare queste cause senza per altro addurne chiaramente gli effetti, che di fatto non esistono. Egli avrebbe potuto meglio approfondire il confronto tra il Federigo Borromeo autore delle leggi-capestro nel «De Pictura Sacra» e il Federigo Borromeo critico d'arte libero e sereno nel «Museum», e avrebbe allora inteso quanta sopportazione ampia e libera fosse anche là dove la superficie appariva più austera, e inflessibille. D'altronde noi non neghiamo che la Controriforma abbia guasto un poco anche il buon gusto del cardinale Federigo: testimonia abbastanza di ciò la sua passione per i quadretti alla fiamminga, con cadaveriche ghirlande di fiori passi a incorniciare madonnine livide e bimbi stenti; eppure negli stessi tempi il padre Morigi e il Borsieri esaltano la pittura milanese per la sua larghezza e focosità antifìamminga, senza paura di urtare contro precetti rigoristici quasi inavvertiti daghi artisti e dal pubblico. Ma, Dio, questa tetraggine da arcivescovado ambrosiano in tempo di peste, come serve male ai fini della critica d'arte!

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Il corpo non ha alcun valore specifico in quanto umano, ma in quanto solido ed ha da fare abbastanza per sbocciare alla luce una calvizie sferica, un omero globoso, una coscia cilindrica, un dorso appianato, e per fare ad essi luogo, fraternamente, presso i riquadri lisci e piazzosi dei tavoli quadri e spessi, delle mura levigate e taglienti, delle colonne e dei tronchi nati ritondi.

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Abbastanza note al pubblico sono le opere dell'ultimo periodo Veneziano del Lys, e cioè la Toilette di Venere ag1i Uffìzi, il San Girolamo ai Tolentini di Venezia e il Sacrificio di Abramo (Uffizi, Casa Giovanelli a Venezia, e collezione Roumiantzoff a Mosca).

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Così se ne parla a cuore gonfio perché non c'è nulla di abbastanza significante, neppure in cattivo gusto da poterci permettere la doverosa fatica di qualche considerazione dall'alto; non ci si offrono che degli scampoli di mode attardate e che non erano le prime neppure a suo tempo. Ci fosse almeno una qualche eco singolarmente regionale; poter scoprire, anche un po' interrato, il filone del paesaggio romano arcigno e severo di Costa e magari di Coleman; ma anche «The Roman Campagna» è ormai troppo diluita nell'acquerella «alla The Studio».

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Non abbiamo dunque quasi nulla a ridire sulla parte che riguarda l'architettura, salvo il giudizio non abbastanza favorevole sul Borromini.

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Avverte egli stesso l'impossibilità di sanare il contrasto tra le due concezioni, ma non lo risolve tuttavia in una superiore verità per non sapere né abbandonare quel concetto abbastanza insignificante di «monumentale» (ma che cos'è poi il «monumentale» se ci sono persino dei monumenti che non sono affatto monumentali?!), né d'altra parte condurre una critica profonda agli schematismi un po' troppo accentuati del Wölfflin.

Pagina 454

Nessuna variante fra le due edizioni, forse perché il Longhi non interessava abbastanza. Il Dami anzi, nel suo discorso del 1924, affermava che il pittore usciva diminuito dalla Mostra. E lo credo, dato che si continuava ad esporre per sue, copie o derivazioni grossolane come i numeri 601, 602, 606; o di altra mano, come i numeri 611, 612: tutte cose da me espunte sui margini del catalogo.

Pagina 505

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