Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

. - Tu non lo tieni d'occhio abbastanza! - E tu lo vizi con le carezze! - É così buono! - É così buffo certe volte! - Ora appicco foco alla catasta. - Ehi! Ehi! Adagino, ci sono io! Dov'era andato ad accovacciarsi? In cima alla catasta, dentro la buca. Aveva preso di mira il garzone e gliene faceva di ogni specie. Gli nascondeva le scarpe nei mucchi di carbone; gli faceva sparire la camicia o i calzoni, che andava ad appendere in cima a un albero, dove non poteva arrampicarsi altri che lui. E dopo averlo fatto ammattire un bel pezzo, esclamava: - Toh! Hanno messo bandiera bianca lassù! La camicia sventolava proprio come una bandiera. - Toh! C'è là, in alto, lo spauracchio pei passeri! Erano i calzoni infilati a due rami. I carbonai, mal trattenendo le risa, non riuscivano a sgridarlo. E Saltacavalla si faceva pregare un po' prima di arrampicarsi lassù, e di restituire al garzone calzoni e camicia. La donna gli lavava mani e faccia due, tre volte al giorno; ma dopo pochi minuti Saltacavalla era nero, mani e faccia, peggio di un piccolo carbonaio. E se la mamma e il babbo - egli non sapeva che non fosse loro figlio - lo sgridavano, Saltacavalla faceva smorfie e gesti così strani, torcendo il muso, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, che non era possibile rimanere seri; e tutto finiva in una grande risata. Rideva anche il garzone. - É il nostro divertimento; lasciamolo fare. - Poverino, non ha altri svaghi! - Tieni, è la colazione. Sta' là cheto, almeno mangiando. Saltacavalla prendeva la fetta di pane e il companatico, un pezzetto di Cacio o una mezza cipolla, e cominciava a masticare di mala voglia, quasi non avesse appetito. Tutt'a un tratto, dava un balzo, da quel Saltacavalla che era, e in un attimo eccolo in cima a una quercia, a dondolarsi su un ramo così sottile, che pareva gli si dovesse spezzar sotto. - Quassù, sì, si mangia bene! E faceva bocconi grossi, con tanti forti scoppiettii delle labbra, per mostrare che pappava di gusto. - Scendi giù, ti può accadere una disgrazia! - Intanto schiaccio un sonnellino! Si stendeva tra i rami, incrociando le gambe, tenendosi aggrappato con le mani, e si addormentava. E la povera donna stava a vegliarlo a piè dell'albero, atterrita. Alla discesa, lo prendeva per un braccino, voleva sgridarlo, ma Saltacavalla le faceva una strana smorfia di scusa e la sgridata si mutava in uno scoppio di risa. Or accadde che un giorno si trovò a passare nel bosco il Re con due persone del suo séguito. Avevano smarrito la strada. Vedendo che i carbonai stavano per dar fuoco alla catasta, scese da cavallo e volle assistere all'operazione. Il Re era triste, cupo e non diceva una parola. Non dicevano una parola neppure quelli del séguito, mentre il carbonaio appiccava il foco. Marito e moglie avevano capito che quei signori, vestiti così bene e con quei bei cavalli, dovevano essere personaggi di gran conto; la donna per ciò si tenera in disparte e tratteneva a sé Saltacavalla per impedirgli di farne qualcuna delle sue. A un tratto, Saltacavalla scappa e va a piantarsi a gambe larghe, con le braccia dietro la schiena, in faccia al Re, squadrandolo da capo a piedi: - Tu non sei carbonaio, è vero? Che cos'hai con quel viso scuro? Il Re stese una mano per fargli una carezza. Saltacavalla allungò il muso, cacciò fuori la lingua, sgranò tanto di occhi, e torse il collo a destra e a sinistra. Un lieve sorriso spuntò su le labbra del Re, ma disparve subito. - Me lo dài quel bastone lustro che porti al fianco? Intendeva di dire la spada. Saltacavalla non aveva mai visto spade, e non sapeva come si chiamassero, né a che uso servissero. Il Re tirò fuori del fodero la spada e gliela mostrò per fargli capire che non era un bastone. - É un coltello? Troppo lungo per affettare il pane! Non serve. Guarda il mio: costa due soldi. E cavato di tasca il coltellino, Saltacavalla lo aperse e cominciò a far l'atto di tagliare una, due, tre fette di pane da una pagnotta, accompagnando il gesto con tali smorfie delle labbra, di tutto il viso, torcendo gli occhi, cacciando fuori a più riprese la lingua, che il Re sorrise e stese di nuovo la mano per fargli una carezza. La povera donna era su le spine e accennava a Saltacavalla di smettere, minacciando di picchiarlo. Come se gli avesse detto: - Fai peggio! - É tuo quel cavallo bianco? Me lo dài? E prima che il Re rispondesse, Saltacavalla era in sella, e picchiava con le calcagna sui fianchi dell'animale legato per le briglia al tronco di un albero. L'animale, abituato agli speroni, non si dava per inteso di quei colpettini e rimaneva tranquillo. Saltacavalla si arrabbiava, gridando: - Arri là! Arri là! - E faceva gesti così scomposti, così buffi, cacciando fuori la lingua, agitando le braccia e le gambe, che il Re, non ostante la sua serietà e il suo cattivo umore, fu preso da una vera convulsione di risa; non aveva mai riso tanto da un gran pezzo. Quando poté frenarsi e parlare, disse ai carbonai: - Affidatemi questo ragazzo. Lo porto via con me; ne farò un gran signore. Neppure al Re in persona! risposero insieme marito e moglie. - Lo abbiamo allevato col nostro sangue. - Non è vero! - gridò Saltacavalla. - Mi hanno detto loro stessi che mi ha allattato una capra. Il Re fu preso da un nuovo accesso di risa. E quando poté frenarsi e parlare, disse. - Vi farò ricchi, lui e voialtri. Questo bambino è stato per me il più gran medico del mondo: mi ha fatto ridere, ed erano anni ed anni che non ridevo. Verrète ad abitare nel mio palazzo. Sono il Re. Marito e moglie sbalordirono. Si confondevano in iscuse. - Perdono, Maestà! Chi poteva immaginare? Ma tutto fini in una gran risata, perché Saltacavalla, sceso giù di sella, si buttava ai piedi del Re, ripetendo in modo buffo, stralunando gli occhi, cacciando fuori la lingua, picchiandosi il petto: - Perdono, Maestà! ... Chi poteva immaginare? Cosi Saltacavalla e i carbonai, marito e moglie, furono accolti nel palazzo reale; i creduti genitori in un appartamentino a pian terreno, che aveva un orto; Saltacavalla in una camera vicina a quella del Re, che lo voleva davanti quasi in tutte le ore della giornata, anche quando teneva consiglio coi Ministri. Gli aveva fatto cucire dal sarto di Corte un bel vestito da paggetto, e dal calzolaio di Corte un paio di borzacchini, che erano gli stivaletti allora in uso. Ma Saltacavalla vi si trovava dentro impacciato, quasi vestito e borzacchini gli impedissero i movimenti. A volte accadeva che il Re lo cercasse per le sale del palazzo senza riuscire a trovarlo. Fruga, chiama, all'ultimo scoprivano Saltacavalla in una terrazza, con indosso i vecchi cenci, scalzo, che correva da un punto all'altro, facendo salti, capriole, mosse buffe ... E siccome lo cercava perché voleva divertirsi con lui, lo lasciava fare e rideva, rideva! Un altro giorno, cerca, chiama: Saltacavalla era sparito. Scorrazzava in fondo al giardino, calpestando aiuole, stroncando rami di piante a cui si afferrava con balzi, riducendo tutto strappi il bel vestitino da paggetto, sgualcendo i borzacchini, facendosi beffe dei giardinieri che avrebbero voluto impedirgli di guastare le aiuole, di sciupare le piante ... Saltacavalla si arrampicava lesto lesto in cima a un grand'albero e rispondeva impertinentemente: - Se non viene qui Sua Maestà, non mi movo! Non mi movo! E manteneva la parola. Ma prima di scendere faceva certe mosse, certe smorfie sempre nuove, che il Re si sbellicava dalle risa, e gli perdonava volentieri l'impertinenza. Avanti dell'arrivo di Saltacavalla, il palazzo reale era triste, silenzioso come un cimitero. Il Re, oppresso da grave malinconia, viveva solitario, appartato nelle sue stanze, dove, a lunghi intervalli, riceveva i Ministri. - Maestà, c'è da far questo, c'è da fare quest'altro. Vostra Maestà permetta ... Il Re accennava di sì col capo e non vedeva l'ora di levarseli di torno. I Ministri per ciò facevano quel che a loro pareva e piaceva. Da che il Re era divenuto un altro per virtù di Saltacavaila, spandeva il buon umore per tutto il palazzo e fuori. Si occupava di ogni cosa, e più non lasciava libertà ai Ministri di fare quel che a loro pareva e piaceva. Dava grandi feste, prendeva parte alle pubbliche cerimonie, accordava udienze anche alle più umili persone. E tutti, meno i Ministri, benedicevano Saltacavalla, che aveva operato quel miracolo. I Ministri si riunirono un giorno segretamente: - Saltacavalla è il nostro malanno! - Quando sarà cresciuto con gli anni, il vero Ministro sarà lui. - Il Re gli vuole così bene, che finirà col dichiararlo suo successore, vedrete! - Non ci mancherebbe altro! Bisogna dar moglie a Sua Maestà! - Dite bene, eccellenza! E la prima volta che furono chiamati a Consiglio, il capo dei Ministri disse: - Maestà, il popolo desidera l'erede del trono. - Non sono vecchio, né malaticcio: ho ancora tempo da pensarci. - Maestà, certe cose è meglio farle presto che tardi. Picchia oggi, picchia domani, il Re si decise a dir di sì. Appena Saltacavalla seppe che il Re aveva mandato a chiedere in isposa la figlia del Re di Francia, si fece avanti stropicciandosi le mani dall'allegrezza: - Maestà, il Re di Francia avrà certamente un'altra figlia anche per me. - Che cosa vorresti farne.* - Oh bella! ... Sposarla. - Sei troppo ragazzo per ora. Bada a crescere. Dopo ... Saltacavalla rimase pensoso, e in tutta la giornata non fece nessuna smorfia da fare ridere il Re. Maestà, son cresciuto di un giorno! - É pochino, Saltacavalla. - Maestà, son cresciuto di otto giorni. - É poco ancora, Saltacavalla! Si avvicinava il mese in cui dovevano aver luogo le nozze del Re, e intanto nel palazzo reale non si faceva nessun preparativo. Il Re, di giorno in giorno, ridiventava di cattivo umore. - Perché non mi fai ridere più, Saltacavalla? - Quando non rido io, non deve ridere nessuno. - E perché tu non ridi più.* - Perché non mi volete dar in moglie una figlia del Re di Francia. - Bada a crescere ... Dopo ... Sono già cresciuto di due mesi! E andava via, triste, a capo chino, più triste di lui. Venne un ambasciatore del Re di Francia per stabilire, d'accordo, il giorno preciso delle nozze. - Non sposo più! - rispose il Re. - Maestà, questo è un affronto; ce ne darete ragione! Non sposo più; prendetela come volete. Il Re di Francia la prese malissimo: mandò a intimargli guerra, e invase subito il regno con numeroso esercito. - Maestà, i nostri soldati sono stati disfatti! - Mandate un altro esercito incontro al nemico. Maestà, i nostri soldati sono stati nuovamente disfatti! Mandate un altro esercito! Si presentò tutt'a un tratto Saltacavalla: - Maestà, date il comando a me! Vi farò vedere io! E faceva gesti di menar la sciabola in tondo e di tagliar teste: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Saltava da un punto all'altro della sala, menando pugni e calci, facendo smorfiacce, cavando la lingua in faccia ai Ministri, e tornando a far finta di sciabolare in tondo, di tagliar teste e d'infilare nemici: - Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Il Re cominciò a ridere a ridere ... cominciarono a ridere a ridere anche i Ministri, mentre Saltacavalla continuava: Ziff! Zaff! Ziff! Zaff! Tutt'a un tratto il Re disse: - Saltacavalla sia generalissimo. - Maestà! Maestà! Con l'esercito nemico non si scherza! Saltacavalla sia generalissimo! Di fronte agli ordini del Re, i Ministri non fiatarono più. - Tanto meglio! -- pensarono. - É l'unico mezzo di levarci Saltacavalla di torno! Saltacavalla, tutto ringalluzzito, disse: - Grazie, Maestà! E rivolto ai Ministri, con aria spavalda, soggiunse: - Mi si mandi subito il sarto di Corte! Il sarto, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò che qualcuno si fosse fatto beffa di lui. E stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re, e gli ordinò di eseguire ,quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di calzoni con la gamba destra metà bianca e metà nera, e la sinistra metà rossa e metà gialla ... - Sarà obbedito! - Voglio una divisa metà azzurra e metà verde, con la manica verde dai lato azzurro e la manica azzurra dai lato verde. - Sarà obbedito! - Voglio un berretto a spicchi gialli, rossi, verdi, bianchi, azzurri, e un gran gallone d'oro dattorno. - Sarà obbedito! - Chiamatemi il calzolaio di Corte. Il calzolaio, sentito che si trattava del generalissimo, accorse in fretta. Vedendosi però davanti quel ragazzino di Saltacavalla, sospettò anch'esso che qualcuno si fosse fatto beffa di lui, e stava per tornarsene addietro; ma intervenne il Re e gli ordinò di eseguire quel che Saltacavalla desiderava. - Voglio un paio di borzacchini, quello di destra metà di pelle rossa e metà di pelle gialla; quello di sinistra, metà di pelle bianca e metà di pelle nera. - Sarà obbedito! - E che abbiano la punta aguzza, lunga così ... - Sarà obbedito! Saltacavalla aveva pensato alla divisa, ai calzoni, ai berretto, ai borzacchini, ma né a spada, né a lancia, né ad arma di sorta alcuna. L'esercito era pronto a partire. Saltacavalla aveva già calzato i borzacchini, indossato la divisa, si era messo in capo il berretto a spicchi. - Dove vai, Saltacavalla? - Maestà, vado in cucina. - Per far cosa, Saltacavaila? - Vado a prendere una padella per scudo e uno spiedo per spada. - Come ti piace, Saltacavalla. E si mise a capo dell'esercito con la padella e lo spiedo in ispalla. Cosa strana! Nessuno rideva vedendolo vestito ed armato a quel modo. Prima di mettersi in marcia, egli disse ai soldati: - Quando darò un colpo sul fondo della padella, voi dovete fermarvi; quando ne darò due, precipitatevi all'assalto; quando ne darò tre, cessate di combattere. Chi non mi obbedisce, peggio per lui. Cammina, cammina, arrivarono in faccia al nemico. Saltacavalla diè un colpo sul fondo della padella, e i suoi soldati si fermarono. Egli invece andò avanti con certe mosse così buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua, al suo solito, che i nemici cominciarono a ridere, a ridere, a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Allora Saltacavalla dà due colpi sui fondo della padella tan! tan! - e i suoi soldati si precipitano all'assalto e fanno strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Quando Saltacavaila diè i tre colpi: tan! tan! tan! dei soldati nemici non ne rimaneva vivo neppure uno. Ma essi erano l'avanguardia. Saltacavalla ordinò di rimettersi in marcia, e, dopo poche ore di cammino, ecco il grosso dell'esercito nemico che non s'aspettava di vedersi arrivare addosso l'avversario. Tan! E i soldati di Saltacavalla si fermarono. E lui si fece avanti con mosse buffe, torcendo le labbra, sgranando gli occhi, cavando fuori la lingua a riprese. E i nemici lo guardano stupiti e poi cominciano a ridere a ridere, contorcendosi, lasciando cascare giù le armi, tenendosi stretta la pancia, rotolandosi per terra ... Tan! tan! I soldati di Saltacavalla si precipitano all'assalto, e fanno un'altra strage dei nemici, che si lasciano scannare ridendo, incapaci di opporre la minima resistenza. Tan! tan! tan! Rimanevano appena un centinaio di uomini che Saltacavalla voleva far prigionieri, e condurli, legati a due a due, al cospetto del suo Re. Ma parecchi dei suoi, inebriati dalla vittoria, non cessarono di combattere dopo i tre colpi, e n'ebbero la peggio. Quell'ultimo centinaio di uomini non rise più, si diè a menar le mani, e fece pagar cara la disobbedienza a coloro. Dovette intervenire Saltacavalla, e fece prodigi di valore. Accoppava con la padella, infilzava con lo spiedo, e in pochi minuti di quel centinaio di nemici non ne rimaneva in piedi neppure uno. Quando si sparse la notizia che Saltacavalla tornava vittorioso, il popolo si rovesciò per le vie, e migliaia di persone gli uscirono incontro fuori le porte della città. Il Re gongolava dalla gioia; ma i Ministri, diventati in viso più verdi di limoni, doverono fingere letizia. Se, col ritorno di Saltacavalla sano e salvo, Sua Maestà riprendeva a ridere e a star di buon umore, la loro cuccagna era finita! Affacciati a un balcone del palazzo reale, ai lati di Sua Maestà, essi si stupivano di non sentire applausi o gridi di evviva ma un rumore indefinibile che diveniva più forte, di mano in mano che pareva si venisse accostando. Erano risate. Alla vista di Saltacavalla, vestito e armato a quel modo, che, dall'alto del suo cavallo di generalissimo, faceva smorfie, stralunava gli occhi, allungava le labbra, cacciava fuori la lingua, e dondolava la testa come un burattino, per ringraziare della festosa accoglienza, il popolo aveva dovuto cessare di applaudire, e rideva, rideva, rideva; e l'onda della risata si propagava rumorosa di mano in mano che Saltacavalla si avanzava alla testa dell'esercito vittorioso. Al clamore delle risate del popolo sotto il palazzo reale si unì ben tosto lo scoppio di quelle del Re e dei Ministri. I Ministri, specialmente, si contorcevano, si davano gomitate e spintoni, si buttavano gli uni addosso agli altri, senza punto riguardo alla presenza del Re. Il Re rideva, si, ma non con quella violenza. I Ministri erano diventati paonazzi in viso, non ne potevano più, soffocavano, e, rientrati nel salone, si buttarono per terra, rotolandosi in convulsioni di risa, poi giacquero. Erano morti! Il Re, paventando che accadesse qualcosa di simile tra la folla, scese incontro a Saltacavalla, che saltò giù di sella, gli depose ai piedi la padella e lo spiedo, e piegò un ginocchio, ma con un gesto così buffo, che le risate della gente raddoppiarono. - Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Vuoi tu farli morire dalle risa, come sono morti i Ministri? - Ah! - fece Saltacavalla. - Poverini! Poverini! E finse di scoppiare in pianto dirotto. Allora, in un attimo, tutta la folla stipata davanti al palazzo reale passò dal riso al pianto. Si udivano singhiozzi ed esclamazioni: - Poverini! Poverini! - E le lacrime venivano giù a torrenti. Scoppiò a piangere anche il Re. Basta, Saltacavalla! Basta! - esclamò il Re. - Saltacavalla fece un gesto di stizza. - Basta, se faccio ridere! ... Basta, se faccio piangere! Il meglio è che me ne vada! - No, Saltacavalla! No! Ma il Re ebbe un bel gridare - No! No! - Saltacavalla, in quattro salti, era già sparito. Il Re capì troppo tardi che quel pianto era anche esso una specie di risata. Attese, attese che Saltacavalla ritornasse; ma Saltacavalla non si fece più vedere. Il Re mandò a chiamare i carbonai marito e moglie che vivevano tranquillamente nell'appartamento a pian terreno, loro assegnato: - Sapete niente di vostro figlio? Quei due credettero che Saltacavalla avesse fatto qualche cattiva azione e che il Re volesse prendersela con loro. - Maestà, perdono! ... - disse il marito. - Ma Saltacavalla non era nostro figlio! Io lo trovai un giorno tra l'erba su l'orlo di un fosso, e lo facemmo allattare da una capra! - Era involtato - soggiunse la moglie - in pannilini finissimi, orlati di trine. Il Re volle vederli. Non aveva mai visto niente di così fine e di così bello. Ma non poté capire altro. E nessuno ha mai saputo chi era Saltacavalla, e da quel giorno in poi non se n'è avuto più notizia! Peccato! Se tornasse ora che si ride tanto di rado! Stretta la foglia, larga la via, Dite la vostra, che ho detto la mia.

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

682218
Salgari, Emilio 11 occorrenze

Giunta a cento passi dai galeoni, sfilò superbamente sulla loro fronte con tutti i suoi formidabili archibugieri a babordo; poi, con una mossa improvvisa, inaspettata, girò a destra della squadra dove c'era ancora abbastanza spazio per navigare lungo la costa. Una piccola caravella tentò di chiudere il passo, gettandosi dinanzi alla prora per lasciar tempo ai galeoni di muoversi. Era un topolino che tentava di arrestare un leone. La Nuova Castiglia la urtò poderosamente col suo solidissimo tagliamare e la sfasciò completamente passando in mezzo ai rottami; poi, dopo aver scaricati tutti i suoi pezzi d'un colpo solo, fuggí fuori dal porto. - Ebbene, che cosa ne dite, signor conte? - chiese Mendoza, il quale fumava furiosamente, con le mani affondate nelle tasche e le gambe allargate. - Che con simili uomini, si potrebbe conquistare il mondo - rispose il signor di Ventimiglia. Non so se un'altra nave se la sarebbe cavata cosí bene, mio caro. - Ecco che i galeoni si mettono in caccia, ma che cosa sperano di fare? Di raggiungere la nostra nave? Eh, cari miei, non conoscete ancora la Nuova Castiglia! - Mi pare che l'abbiano conosciuta or ora. - Il signor Verra li farà correre. - E allora corriamo anche noi e cerchiamo di lasciare San Domingo prima che spunti il sole. Gli spagnuoli rivolgeranno tutta la loro rabbia contro di noi e ci daranno una caccia spietata. - E se ci prendono, ci impiccheranno, signor conte, - rispose Mendoza. - Forse quelle due corde non sono ancora state intrecciate. Conosci anche tu la città! - Abbastanza per condurvi alla Puerta del Sol. - Ci lasceranno poi uscire, a quest'ora? - Oh, non lo sperate, capitano, - rispose il filibustiere; - E perché condurmi là dunque? - Perché il bastione vicino è in parte diroccato e potremo trovare il modo di scendere nel fossato e anche ... Si era interrotto, guardando il conte, e rimanendo con la bocca aperta. - E dunque? - chiese il corsaro. - Sono un vero stupido, capitano! - Perché? - Ma sí che noi possiamo passare per la Puerta del Sol senza esporci al pericolo di fiaccarci il collo in fondo al fossato. In verità io invecchio troppo presto. - Sei impazzito, Mendoza? - No, signor conte, ma stavo per diventare un cretino. Non siete vestito da alabardiere, voi? - Pare di sí! - Noi ci presenteremo alle guardie della porta e voi direte che avete ricevuto l'ordine di scortarmi e di farmi uscire. Potrete aggiungere, se non vi dispiace, che io sono una spia che va a sorvegliare i bucanieri. A un soldato si crede sempre. - E tu affermavi poco fa che stai per diventare un cretino? disse il conte ridendo. - A me pare invece che tu diventi ogni giorno piú furbo, vecchio squalo. In marcia! Non voglio trovarmi ancora a San Domingo al sorgere dell'alba. Gettarono le vesti e la spada di Martin in mezzo ad un folto cespuglio e volsero le spalle al porto, internandosi in una stradicciuola che serpeggiava fra siepi e splendidi filari di banani e di palme. Essendo tutta la popolazione accorsa sulle calate, non vi era anima viva nei dintorni, cosicché poterono attraversare indisturbati la città e giungere dinanzi alla Puerta del Sol, che era in quel tempo una delle principali di San Domingo e che metteva nell'aperta campagna. Due alabardieri, armati di lunghe picche, passeggiavano a breve distanza, fumando e chiacchierando. Scorgendo il conte e il suo marinaio, si fermarono per sbarrare loro il passo; poi uno dei due, accortosi di aver da fare con un soldato, chiese: - Oh, camerata, dove vai? - Ho l'ordine di scortare quest'uomo fuori della città - rispose franco il signor di Ventimiglia. - Chi è? - Un corriere governativo. - Senza cavallo? - Sa dove trovarlo. Sbrigatevi ad aprire la porta; abbiamo molta fretta. - E non ti hanno dato nessuna carta? - Non sono un soldato, io? - È vero, ma ci hanno dato anche il comando di impedire l'uscita a qualunque persona. - Era per i borghesi, quello. - Aspetta che chiamo l'anziano: io non voglio assumermi questa responsabilità. Entrò in una vicina caserma e uscí subito con un altro soldato, munito di una lanterna, il quale trascinava con gran fracasso un enorme spadone. - Guarda questi uomini, Barrejo - disse la sentinella. - Fulmini! - mormorò Mendoza. - Il guascone! Ora siamo fritti! Il conte trasalí e portò rapidamente una mano sulla pistola di Martin, pronto ad impegnare una lotta disperata. Il guascone si avvicinò a loro e non potè trattenere un gran gesto di stupore nel riconoscere la propria corazza e le proprie vesti che il conte indossava. - Ah, camerata! - esclamò sbarrando gli occhi. Poi, volgendosi verso le due sentinelle, disse loro: - Continuate la ronda voi, io conosco queste persone. Aspettò che si fossero allontanate, poi, dopo aver alzato una seconda volta la lanterna per guardare bene in viso il conte ed il suo compagno, chiese: - Che cosa fate ancora qui, nei miei panni, signore? Siete ben voi che mi avete dato quei venti dobloni! - Sí, messer Barrejo - rispose il signor di Ventimiglia. - E che cosa siete venuti a fare qui? - A offrirvi altri dieci dobloni, se non vi rincresce. - Per tutti i venti del mare di Biscaglia! Volete far di me un milionario? - No, voglio ingrassarvi, perché siete troppo magro. - Tutti i guasconi sono magrissimi, signor conte. Ma che muscoli d'acciaio abbiamo! - Chi sa che un giorno non li veda al lavoro! Orsú, volete guadagnare altri dieci dobloni? - Che cosa devo fare? - Una cosa semplicissima. Aprirci la porta e lasciarci andare in campagna. - E null'altro? - chiese il guascone con stupore. - Nient'altro. Vi avverto che abbiamo detto ai vostri camerati che siamo corrieri del governatore. - E non avete paura d'incontrare i bucanieri? Si dice che stiano organizzandosi per tentare un colpo di mano sulla città. - Non vi occupate di questo, messer Barrejo. Apriteci la porta e altre dieci monete d'oro andranno a ingrossare il vostro piccolo tesoro. - Vi apro anche tutte quelle della città - rispose don Barrejo. Venite, signor conte. I miei camerati non vi daranno alcun fastidio. Afferrò un'enorme chiave che stava appesa ad un chiodo e aprí la pesante porta laminata di ferro, conducendoli attraverso un massiccio bastione forato nel mezzo da uno stretto passaggio. - Eccovi in campagna - disse dopo aver aperta un'altra porta. Mi permettete di scortarvi per qualche tratto? - Vi ho detto che noi non abbiamo paura - disse il conte. - Non ne dubito, signore, ma che volete, mi piace immensamente la vostra compagnia. - Non sarà per sorvegliarci, spero - disse Mendoza. - Oh! un guascone! ... Noi non siamo abituati a mentire. - Allora venite - disse il conte. - Potreste darci qualche preziosa informazione. - Sono tutto a vostra disposizione, signor conte - rispose il guascone. - Potreste, per esempio, dirci dove potremo trovare dei cavalli. - Vi è un corral a mezzo miglio di qui, annesso ad una grande fattoria. Se avete ancora di quei bei dobloni, potrete acquistarne finché vorrete. - Le nostre borse sono ancora assai fornite, malgrado il salasso fatto alla mia. - Vi guiderò io. - Ed i vostri camerati che non vi vedranno tornare non si allarmeranno? - Vadano al diavolo! - disse Barrejo alzando le spalle. - Non sono padrone di fare una passeggiata notturna e di scortare delle persone raccomandate da Sua Eccellenza il Governatore? - Oh, è vero! - disse il conte ridendo. - Noi siamo personaggi importantissimi. - Che viaggiano però senza carte - aggiunse maliziosamente il guascone. - Le teniamo sempre sulla punta delle nostre spade. Il soldato capí a che cosa voleva alludere il conte e, quantunque guascone, credette opportuno di troncare il discorso. Si erano inoltrati per una viuzza fiancheggiata da bellissime agavi, piante tessili che danno dei fili elastici e fini e dalle cui foglie gli indiani estraggono una bibita fermentata detta pulque, molto spumante e anche molto gradevole. Di là da quelle enormi siepi, si estendevano immense piantagioni di canne da zucchero e di caffè, le maggiori risorse di quella fertilissima isola. Per la tenebrosa campagna volavano sciami di Moscas de luz, insetti che tramandano una luce ben piú potente delle nostre lucciole, e nei solchi delle piantagioni e attorno agli stagni muggivano i grossi rospi gialli e neri con appendici cornute e fischiavano migliaia e migliaia di batraci. I tre uomini camminarono in silenzio per un buon quarto d'ora, rischiarando la via con la lanterna; poi, giunti ad una biforcazione, il guascone si fermò. - Ci lasciate? - chiese il conte. - Questo dipende da voi, signore - rispose il soldato. - Che cosa volete dire? - Signor conte, io sono un uomo d'onore e sono un cadetto d'una famiglia nobile della Guascogna. Già. Voi saprete che, piú o meno, noi siamo tutti nobili nel mio paese, ma anche poveri, poveri, perché i nostri padri non ci lasciano per eredità che una buona spada e delle lunghe lezioni di scherma. - Che cosa volete concludere, signor Barrejo? - Che vorrei sapere chi siete e perché siete fuggito da San Domingo, mentre era stato dato l'ordine d'impedire l'uscita a tutti gli abitanti. Il conte rimase un momento muto, guardando il soldato, poi disse: - Scommetterei che voi già lo sapete. - Forse. - Sono il capitano della fregata che entrò nella rada ieri mattina che due ore fa è stata cannoneggiata dagli spagnuoli. - Dei filibustieri, non è vero? - Siete molto perspicace, signor Barrejo. Ora andrete ad avvertire certamente il governatore. - Io? - esclamò il guascone. - Io tradirvi? Mai! Siamo uomini d'onore, noi. - Allora avrò soddisfatta la vostra curiosità. - Signor conte, se vi facessi una proposta? - Dite pure. - Noi guasconi siamo gente di guerra e non amiamo lasciar arrugginire inutilmente le nostre spade. La mia dorme da due anni in San Domingo e minaccia di non saper piú uscire dal fodero. Volete arruolarmi? Coi filibustieri vi è sempre occasione di menar le mani. - E anche di morire piú facilmente! - aggiunse Mendoza. - Ho trentadue anni e ne ho già abbastanza della vita - disse il guascone. - Mi volete, signor conte? Vi giuro che sarò una buona lama. - E poi lo liberereste da molti fastidi - aggiunse il marinaio, a cui non dispiaceva affatto quel fracassone. - Sia! - disse il signor di Ventimiglia. - Un bravo soldato di piú sulla mia nave non sarà d'impiccio. - Voi non siete spagnuolo, quindi potete passare al nemico - disse Mendoza. - Sono un soldato di ventura e null'altro, e come tale posso offrire la mia spada ed il mio braccio a chi meglio mi piace. - Conoscete S. Josè? - Conosco mezzo San Domingo. - Sapreste condurci nella tenuta della marchesa di Montelimar? - Anche con gli occhi bendati. - Andiamo a procurarci dei cavalli, prima di tutto. Io non dubito che gli spagnuoli ci diano la caccia. - Potete esserne certo, signor conte - rispose il guascone. - Ci lanceranno anche addosso qualche banda dei loro terribili cani. - In cammino allora, Barrejo - disse il conte. - Non ho alcun desiderio di farmi mordere i polpacci da quelle bestiacce. - Dovremo prendere la via dei boschi, signor conte. Le vie sono battute dalle ronde e potrebbero arrestarci. - Ve ne sono molte fuori della città? - Eh, un bel numero. - Andiamo a visitare i boschi. Il guascone gettò via la lanterna, la cui luce poteva tradirli e attirare qualche ronda in perlustrazione o alla caccia di bucanieri. Quelle bande di soldati, formate da cinquanta uomini ciascuna, erano incaricate di impedire ai bucanieri, alleati dei filibustieri, di dare la caccia ai numerosi tori selvatici che in quell'epoca scorrazzavano liberamente per le foreste dell'isola. Non osando gli spagnuoli affrontare quei terribili cacciatori, i quali non sbagliavano mai un colpo, avevano deciso di affamarli e perciò avevano istituite quelle compagnie volanti. Dapprima le avevano munite d'armi da fuoco, ma siccome non volevano imbattersi nei bucanieri, né impegnare mischie con loro, quando s'accorgevano della loro presenza preferivano fare delle scariche di moschetteria in aria. I cacciatori, avvertiti del pericolo, se ne andavano tranquillamente da un'altra parte. I governatori delle varie città, accortisi della gherminella, avevano tolto alle ronde le armi da fuoco, armandole solamente di alabarde, ma senza ottenere, come si può capire facilmente, alcun risultato pratico. Se prima erano i bucanieri che scappavano, ora erano gli alabardieri che se la davano a gambe appena udivano uno sparo; sicché i combattimenti erano rari come le mosche bianche, ché nessuno aveva il desiderio di giocare la pelle inutilmente. E quelle erano le famose ronde dette cinquantine, colle quali i governatori speravano di distruggere tutti i bucanieri, - ed erano molti - che infestavano le immense foreste dell'isola, sempre pronti a prestare man forte ai filibustieri della Tortue, quando si trattava di tentare qualche buon colpo Il guascone fece attraversare ai suoi due compagni una vasta piantagione di canne da zucchero, poi si gettò risolutamente in mezzo alle boscaglie, formate per lo piú da enormi piante di cotone selvatico, con i cui tronchi cavi gli indiani e i negri formavano canoe capaci di contenere perfino cento uomini. - Il corral lo troveremo di là da questa boscaglia - aveva detto il soldato al conte. - Risparmieremo tempo e non correremo il pericolo di imbatterci in qualche cinquantina. Cercate solo di non far rumore, poiché fra queste macchie i tori non mancano, e vi so dire io se sono pericolosi quando s'infuriano o vengono disturbati! La marcia non tardò a diventare difficilissima, con molto dispiacere di Mendoza, abituato a passeggiare solamente sulle tolde delle navi e ad arrampicarsi sulle alberature. A quei tempi San Domingo, al pari della vicina Cuba e della Giamaica, aveva delle foreste, antiche quanto il mondo, le quali accumulando foglie su foglie e imputridendo rami e tronchi, dovevano preparare quel meraviglioso ordimento vegetale, che piú tardi doveva cosí ben servire agli intraprendenti piantatori. I cotoni selvatici s'alzavano dovunque, mescolati, anzi confusi, con palme gigantesche, reggendo non si sa in quale modo i loro giganteschi fusti, non avendo per sostegno che una crosta di terra non più alta di due piedi affatto insufficiente alle smisurate radici. Erano soprattutto i foltissimi cespugli, vere macchie per le imboscate, che facevano brontolare Mendoza, anche perché si mostravano formidabilmente armati di acutissime spine. Il guascone, che aveva fatto parte piú volte delle cinquantine, per buona fortuna non esitava mai a scegliere la via, quantunque sotto quelle immense arcate di verzura regnasse un'oscurità quasi completa. - Ho la bussola nella testa - ripeteva sfondando a colpi di spadone i cespugli per aprire il passo al conte. E pareva infatti che quel diavolo d'uomo, che camminava con piena sicurezza senza mai fermarsi, avesse la facoltà d'orientarsi come i piccioni viaggiatori. Chi invece era incerto e non poco era Mendoza, il quale, quantunque uomo di mare, non ignorava come fosse facile smarrirsi in mezzo alle boscaglie. Quella marcia faticosissima durò tre ore, poi il piccolo drappello si trovò dinanzi ad una vasta pianura interrotta da un gran numero di stagni. Un fracasso indiavolato s'alzava fra le alte erbe e i canneti che la coprivano. Muggivano milioni di rospi, fischiavano le rane americane e di quando in quando, a tutto quel baccano, si univano delle urla rauche, somiglianti al fragore dei tamburi, dei cannoni. Il guascone si era arrestato, bestemmiando in francese o in spagnuolo. - Ehi, camerata, avresti per caso perduta la bussola che tu affermavi d'avere dentro il cervello? - chiese Mendoza. Il guascone stette un momento zitto, poi picchiandosi furiosamente la corazza che gli rinserrava il petto, rispose: - Pare proprio che si sia guastata. - Chi? - La mia bussola. - Ecco una faccenda seria per la gente di mare. - E anche qualche volta per la gente di terra, - rispose l'avventuriero, il quale appariva sconcertato. - Come mai mi sono smarrito? Eppure queste boscaglie le ho scorse piú volte. - Spero, don Barrejo, che non avrete l'intenzione di farci divorare dai caimani, - disse il signor di Ventimiglia. - Ci tengo alle mie gambe non meno di voi, - rispose il guascone. - Volete un consiglio, signor conte? Aspettiamo l'alba. - Ed intanto schiacciamo un sonnellino - aggiunse Mendoza. L'erba è folta e fresca e dormiremo meglio che su una branda della Nuova Castiglia. - E i caimani intanto cenerebbero con i vostri piedi - disse il guascone. - Non chiudete gli occhi, signore, ve ne prego. Io so come sono pericolose queste paludi! - Avete un sigaro, don Barrejo? - chiese il conte. - Sono ben provvisto, signor conte, ed è tabacco di Cuba, il migliore che si coltivi in tutto il golfo del Messico. - Datemene uno, e aspettiamo che il sole spunti. Spero che non ci farete perdere in mezzo alle boscaglie di San Domingo. - Zitto, signore! - Che cosa c'è ancora? Se è qualche caimano, lo taglieremo in due a colpi di spada. Anzi, non ho ancora visto lavorare la vostra draghinassa. - Altro che caimano! È una cinquantina che s'avvicina. Zitti! Tutti si misero in ascolto, dopo essersi gettati dietro l'enorme tronco d'un albero di cotone selvatico. Pareva che un grosso drappello uscisse dal bosco. Si udivano i passi pesanti e cadenzati di uomini abituati a marciare in colonna. - Adesso ci prendono! - borbottò Mendoza. - Che splendida passeggiata notturna! Era molto meglio restarcene a San Domingo. - Zitto, eterno brontolone! - sussurrò il conte. - Sai che le cinquantine non desiderano altro che di andarsene pei fatti loro. Non ti muovere, e vedrai che nessuno verrà a cercarti dietro a questa pianta. - Ben detto, signor conte, - disse il guascone. - D'altronde basterebbe sparare un colpo di pistola per far scappare quei poveri diavoli. Da quando i governatori hanno avuto la pessima idea di privarli delle armi da fuoco, non si sentono piú in grado né di darci, né di fare battaglia. - Purché non abbiano con loro dei cani, - disse Mendoza. - Ecco quello che temo, - rispose il guascone. - Voi avete però quattro pistole. Datene una a me e vedrete che scapperanno come lepri, benché non manchino di coraggio, questo ve lo assicuro io. Lo spagnuolo è sempre stato un buon soldato e nemmeno io, se avessi in mano una spada contro un buon bucaniere armato d'archibugio volterei le spalle, eppure sono un guascone. - Ricco di guasconate! - disse Mendoza, un po' ironicamente. - Mi vedrete all'opera, camerata, - rispose il soldato, un po' piccato. - Silenzio, s'avanzano. Un grosso drappello era sbucato di fra le canne e le erbe e avanzava lungo la fronte della foresta. Si trattava veramente d'una di quelle famose cinquantine, armate esclusivamente d'alabarda e di spade, senza nessuna bocca da fuoco. Era composta tutta di alabardieri con elmetto e corazza, difese affatto insufficienti contro le grosse palle dei bucanieri. Era preceduta da un doz di Cuba. Questi cani ferocissimi sono molto grossi, molto robusti e d'un coraggio a tutta prova, e gli spagnuoli li usavano specialmente contro gli indiani, i quali avevano una paura terribile di quelle bestiacce. A quei doz cubani si deve piú che altro la conquista delle numerose colonie del golfo del Messico. Si può anzi dire che la Colombia fu conquistata piú da loro che dagli avventurieri. Il cane, giunto in vicinanza del grosso albero del cotone, si era fermato, aspirando fragorosamente l'aria, e la cinquantina, che era guidata da un ufficiale, si era subito disposta su quattro linee abbassando le alabarde. - Camerata, - sussurrò Barrejo, rivolgendosi a Mendoza - voi occupatevi di quel cagnaccio e badate di non sbagliare il colpo o vi salterà alla gola. - È un affare che sbrigherò io, - rispose il filibustiere. - Alla cinquantina penseremo io e il signor conte. Tutti e tre avevano armato le pistole e si tenevano l'uno presso l'altro, pronti a sguainare le spade. Il doz cubano fiutava sempre, volgendo la testa massiccia verso l'enorme albero e ringhiando sordamente. Doveva aver sentito che là si nascondeva il nemico. Un grido s'alzò fra gli uomini d'avanguardia della cinquantina - Ay, perrito! Il cagnaccio, udendo quel comando, si slanciò furiosamente, sperando di azzannare i misteriosi avversari che non osavano mostrarsi. Mendoza, che lo teneva d'occhio, fu pronto a sparare e gli fracassò il cranio, mentre il conte ed il guascone facevano fuoco contro la cinquantina, tirando a casaccio. Allora gli spagnuoli, credendo d'aver dinanzi qualche grosso drappello di quei terribili bucanieri che non sbagliavano mai la mira, in un lampo si dileguarono, gettandosi in mezzo ai canneti delle paludi. - Ecco la cinquantina sgominata! - disse il guascone ridendo. Lavoriamo tuttavia di gambe, perché domani mattina tornerà qui e se si accorgerà, dalle nostre tracce, d'aver avuto da fare con soli tre uomini, ci darà una caccia terribile. Corriamo, signor conte! - E queste sono le splendide passeggiate che si fanno a San Domingo - disse Mendoza. - Preferisco quelle che si fanno sulla tolda della Nuova Castiglia. Si erano messi a correre, come se avessero altri molossi alle calcagna. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe di tutti, marciava con una rapidità incredibile lungo la fronte della boscaglia, dietro però la prima linea degli alberi, per paura che la cinquantina, rimessasi dalla sorpresa, si fosse nuovamente ordinata e formata per la caccia. - Questo briccone ha giurato di farmi morire completamente sfiatato! - brontolava Mendoza, il quale sbuffava come un bufalo. - Quanto durerà questa storia? Pareva proprio che il guascone possedesse una resistenza incredibile e muscoli di acciaio, poiché non rallentava nemmeno un momento la sua corsa. Il figlio del Corsaro Rosso si mostrava non meno resistente, anzi, aveva maggiore slancio, come se fosse già abituato alle lunghe corse. Quella galoppata furiosa durò un'ora, poi il guascone si fermò. - Può bastare - disse. - La cinquantina ha avuto piú paura di noi e non ha osato darci la caccia. Prima che ne incontri altre o che si rifornisca di cane, passerà del tempo e noi potremo raggiungere la villa della marchesa, senza essere piú disturbati. - Se non sapete nemmeno dove si trovi! - disse Mendoza, il quale aspirava, come un mantice da fucina, la fresca brezza notturna. - Camminando sempre, si va anche a Parigi - rispose Barrejo. - Nel mio paese si dice che tutte le vie conducono a Roma - aggiunse il conte. - Ma non alla villa di Montelimar - ribattè Mendoza il quale sembrava di pessimo umore. - Voi, camerata, brontolate sempre contro il vostro capitano - disse il guascone. - Anche questo è un brutto vizio. - Mi correggerò col tempo. - Siete ormai troppo vecchio per farlo. - I filibustieri sono sempre giovani. Lo sanno gli spagnuoli. - Oh, non lo nego, amico! Avete sempre il fuoco nel petto. - E non le vostre gambe. - Orsú, che cosa facciamo ora, don Barrejo? - chiese il conte. - Io per conto mio, farei colazione - disse Mendoza. - Questa corsa mi ha messo un appetito da pescecane. - Contentati di accendere la tua pipa, per ora - rispose il conte. - Se non basta, stringi bene la cintura. - Ottimo consiglio! - sentenziò gravemente il guascone. - Che non farà bene a nessuno - brontolò Mendoza - Mettetelo in pratica voi. - Ne avete qualche altro da suggerirci don Barrejo? - chiese il conte. - Sí, quello di sdraiarci in mezzo a queste fresche erbe e di tirare il fiato fino all'alba. - E i caimani? - chiese Mendoza. - prima avevate una gran paura di quelle bestiacce. - Sono lontani da qui, e poi non chiuderemo gli occhi - Visto e considerato che non vi è di meglio da fare, lo metto in esecuzione - disse il conte, lasciandosi cadere fra le erbe e allungandosi con visibile soddisfazione. - Sono due giorni che io e questo eterno brontolone non ci riposiamo: è vero, Mendoza? - Saranno forse di piú - rispose il filibustiere imitandolo. Il guascone guardò attentamente in tutte le direzioni, si chinò, accostò un orecchio a terra, ascoltò attentamente e poi, a sua volta, si allungò fra le fresche erbe, dicendo: - Nulla: possiamo riposarci. Non era però troppo facile socchiudere gli occhi. I grossi rospi muggivano sempre, con un crescendo spaventoso; i caimani facevano del loro meglio per imitarli ed i batraci gareggiavano fra di loro per fischiare con maggior furore, come se si fossero messi d'accordo per impedire a Mendoza di schiacciare un sonnellino, fosse pure d'un quarto d'ora. Era però molto tardi, e l'alba non doveva tardar molto a spuntare. Nel Golfo del Messico il sole tramonta presto e si alza anche molto presto. Alle tre e mezzo, durante l'estate, il cielo si tinge dei primi riflessi dell'aurora e le stelle scompaiono. I tre filibustieri - poiché ormai anche il guascone si poteva considerare come tale - si riposavano da un paio d'ore, tendendo continuamente gli orecchi, per paura che i cani delle cinquantine, li sorprendessero, quando le tenebre cominciarono a diradarsi. - In marcia, signor conte - disse il guascone, alzandosi rapidamente. - Cercherò di orientarmi. - È stata accomodata la bussola piantata in mezzo al vostro cervello? - chiese Mendoza beffardamente. - S'incaricherà il sole di rettificarla - rispose l'avventuriero. - Speriamo che sia un abile meccanico. - Vedrete, camerata. Stavano per mettersi in cammino, quando udirono a breve distanza uno sparo. - La cinquantina! - gridò Mendoza facendo un salto. - Sí, che spara con le sue alabarde! - osservò il guascone sorridendo. - Io scommetto invece che è la colazione che giunge. Signor conte, siete conosciuto fra i bucanieri? - Se non io, erano troppo noti i tre corsari: il Rosso, il Nero e il Verde. - Questa archibugiata deve averla sparata un bucaniere. - Andiamo a trovarlo - rispose il signor di Ventimiglia. Attraversarono di corsa una folta macchia e, giunti sul margine, scorsero, in mezzo ad una radura erbosa, un uomo piuttosto attempato, vestito malamente. Aveva un grembiale di pelle ed un largo cappello di feltro in testa e stava ritto accanto ad un gigantesco bue selvaggio il quale stava spirando. Vedendo quegli stranieri, il cacciatore fece alcuni passi indietro, e gridò con voce minacciosa: - Chi siete? Rispondete, o vi uccido prima che possiate giungere fino a me! - Siamo filibustieri, camuffati da spagnuoli - rispose il conte in francese purissimo, perché l'intimazione era stata fatta in quella lingua. - Io sono il figlio del Corsaro Rosso e nipote del Verde e del Nero. - Del Corsaro Nero! - gridò il bucaniere, lasciando cadere l'archibugio e facendosi innanzi. - Di quello che con Grammont, Laurent e Wan Horn ha espugnato Vera-Cruz? Io ho combattuto con lui! Tonnerre de Brest! Signore, sono ai vostri ordini! Comandate!

Erano però ancora abbastanza bene in forza per farsi temere dagli spagnuoli, tanto piú che erano guidati da quattro valorosissimi capi. Avendo saputo da un prigioniero che due grossi velieri spagnuoli erano attesi da Panama provenienti da Lima con un carico di farine e di denaro, i filibustieri decisero innanzi a tutto di abbordarli, prima che giungessero in porto. La mancanza di viveri era sempre quella che piú preoccupava quegli uomini, non avendo nessun mezzo di procurarsene, fuorché nel saccheggi, poiché tutte le coste erano guardate e tutte le piantagioni erano state distrutte per molte leghe entro terra. Guidavano il primo vascello, il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan; l'altro Tusley e Grogner. Non sarebbe necessario dire che i tre terribili avventurieri avevano preso imbarco sulla nave del conte, ansiosi di aver nuova occasione per menare le loro formidabili draghinasse. - Taroga è un'isola di tartarughe, aveva detto don Barrejo, mettendo i piedi sul ponte della nave. Non siamo già venuti in America per provare il filo della spada contro i gusci di quei rettili. - Ed io non sono venuto per guardare le sabbie ed ascoltare il rumoreggiare della marea, - aveva aggiunto Mendoza. - Ed io non ho lasciato il Brabante per veder arrugginire le mie braccia, - aveva detto il fiammingo. E si erano imbarcati lietamente, promettendosi di compiere altre meravigliose imprese e di non perdere per un solo istante di vista il marchese di Montelimar, che era stato affidato alla loro sorveglianza. Il primo giorno passò senza incidenti. Le due navi, che non erano molto grosse, né molto armate, avevano navigato sempre in vista dell'isolotto, colla speranza di sorprendere i due velieri provenienti da Lima. Il secondo giorno, non avendo incontrato alcun bastimento, avevano fatto un'ardita punta verso Panama, senza però osare accostarsi troppo al porto, non ignorando che il viceré poteva, in poche ore, radunare una squadra considerevole. La mattina del terzo, i gabbieri che erano di guardia sulle coffe mandarono il primo grido d'allarme. - Vele a levante! Il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, i quali erano saliti appena allora in coperta, erano stati i primi a precipitarsi verso il castello di prora. Quel grido di "vele a levante" non aveva mancato di produrre su di loro una certa sorpresa, poiché non era da quella parte che dovevano avanzarsi i due vascelli provenienti dai mari del sud. - Che siano legni che vengono da Panama? si era chiesto il conte. - È quello che purtroppo temo, - aveva risposto Raveneau de Lussan. - Gli spagnuoli devono aver le tasche piene di noi e avranno organizzata qualche flottiglia. - Che noi prenderemo d'assalto e che affonderemo, - disse Mendoza, il quale non aveva indugiato a raggiungerli, insieme ai suoi due compari. - Signor de Lussan, prepariamoci al combattimento, - disse il conte di Ventimiglia. - Abbiamo uomini decisi a tutto e artiglierie non del tutto in cattivo stato. Mostreremo ancora una volta agli spagnuoli come sanno lottare e morire i forti fratelli della Costa. Le trombe avevano suonato. - Tutti in coperta! I filibustieri, sempre pronti a qualunque cimento, si erano slanciati ai loro posti di combattimento: i vecchi bucanieri in coperta, dietro le brande arrotolate sulle murate, ed i corsari nelle batterie. La nave di Tusley e di Grogner aveva subito raggiunta, con una splendida bordata, quella del signor di Ventimiglia, la quale muoveva audacemente incontro alle vele segnalate. - Don Barrejo, - disse il basco, il quale provava il filo della sua draghinassa. - Temo che questa volta la faccenda sia piú seria di quella di Pueblo-Viejo e di Nuova Granata. Quelle navi vengono da Panama; ve lo dice un vecchio uomo di mare che conosce i venti meglio che Eolo in persona. - I capitani delle fregate, che voi sappiate, hanno sempre una buona riserva di bottiglie? - chiese il guascone, il quale stava pure esaminando la sua draghinassa. - Che cosa diavolo mi domandate, don Barrejo? - chiese il basco, non senza un certo stupore. - Il signor guascone ha parlato bene, - disse il fiammingo, colla sua solita gravità. - Rispondete alla sua domanda, don Mendoza. - Io credo che abbiano piú palle che bottiglie, - disse il basco. - Non escludo però che posseggano una piccola cantina. - Non voglio sapere altro, - rispose il guascone. - Andremo ad assaggiare quel vino e vedremo se è piú squisito quello che si trova sepolto nelle cantine o quello navigato. Un grido, che scese in quel momento dalla coffa dell'albero maestro, interruppe la loro conversazione. - Fregata in vista! ... - Ve lo dicevo io? - disse Mendoza. Altro che le navi cariche di farina e di denaro provenienti da Lima. Troveremo ferro e piombo. - Ma anche una cantina, - aggiunse il guascone. Per la terza volta la voce del gabbiere di guardia si fece udire. - E due barconi di appoggio! ... - Quelle non hanno di certo delle bottiglie, - disse il basco. - Conteranno probabilmente un bel numero di corde per appiccarci. - Appiccare noi! - gridò il guascone, trinciando l'aria colla sua draghinassa. - Ah! ... Ci vuole ben altro per appiccare della gente come noi! ... - Già, - disse il fiammingo. - Gente come noi. I filibustieri si preparavano animosamente alla battaglia, cercando di raggiungere la fregata prima che le barcaccie, pessime veliere, potessero accorrere per appoggiarla. Il conte di Ventimiglia, dall'alto del cassero, impartiva con voce squillante gli ordini, mentre Grogner faceva altrettanto sul secondo vascello. La fregata, che era di forte tonnellaggio ed armata di una trentina di cannoni, muoveva pure risolutamente contro i corsari, sicurissima di sgominarli con poche bordate. Il signor di Ventimiglia, accortosi a tempo che gli spagnuoli muovevano all'arrembaggio con animo risoluto, aveva dato l'ordine alle due navi di scostarsi, per prenderli in mezzo, prima che giungessero le barcaccie, le quali contenevano numerosi combattenti e anche dei grossi pezzi d'artiglieria. A mille passi, il combattimento s'impegnò ferocissimo da ambe le parti. La fregata tuonava ed avanzava, tentando di disalberare i due legni corsari; questi rispondevano come potevano, non disponendo che di pochissimi pezzi. A cinquecento passi, gli spagnuoli i quali si tenevano sicurissimi di aver ben presto ragione di quell'accozzaglia di ladroni di mare, imbrogliano le vele di parrocchetto e di pappafico, per essere piú liberi nella manovra e filare sulla nave del conte di Ventimiglia, la quale era piú vicina, per abbordarla. I tamburi rullano fragorosamente sui suoi altissimi ponti ed il grande stendardo di Spagna sventola orgogliosamente al vento. I suoi archibugieri ed i suoi alabardieri sono schierati dietro i bastingaggi, pronti a montare all'abbordaggio, mentre dalle due barcaccie partono scariche violentissime, quantunque quasi inefficaci, in causa della distanza. - Fra poco qui farà molto caldo, - disse Mendoza, il quale non perdeva di vista la fregata. - Se gli spagnuoli muovono su di noi cosí risolutamente, è segno che sono ben decisi a sterminarci. Don Barrejo, temo che le bottiglie del capitano siano un po' dure da guadagnare. - Io ho l'abitudine di rispettare tutte le opinioni, però vi dico che il conte monterà all'abbordaggio prima degli spagnuoli. Ho sete: perché non dovrei bere? - Ben detto, - disse il fiammingo. - Noi berremo il vino di Panama. Le due navi corsare, con una manovra fulminea, avevano ripreso il largo, rispondendo vigorosamente coi loro pezzi. Subivano gravi danni per quel continuo cannoneggiamento, tuttavia non disperavano di dare ai loro nemici un'altra formidabile battuta. La fregata, che precedeva sempre le due barcaccie di parecchie gomene, si getta improvvisamente fra i due legni corsari, alternando scariche di mitraglia e palle. Era il momento atteso dai quattro capi della filibusteria, per tentare un attacco disperato. I due velieri in pochi istanti si stringono addosso al vascello nemico e, come era loro abitudine, scagliano sui ponti un numero cosí enorme di granate, da mettere, in pochi minuti, fuori di combattimento la maggior parte degli archibugieri e degli alabardieri e poi, approfittando della Grande confusione prodotta da tutti quegli scoppi, montano arditamente all'abbordaggio, con un urlio assordante. Bucanieri e artiglieri, tutti si precipitano all'assalto con una ferocia inaudita. Il conte di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, insieme ai tre avventurieri, sono i primi che montano sulla fregata. Un combattimento omerico s'impegna. Anche gli uomini di Tusley e di Grogner hanno abbordata la nave e si rovesciano, con impeto irresistibile, attraverso ai ponti, battagliando come leoni scatenati. Gli spagnuoli, già respinti a prora, attraversano a corsa sfrenata la tolda e si rifugiano sul cassero dove hanno un pezzo da caccia in batteria, ma la pioggia di bombe, scagliate dai filibustieri e dai gabbieri che sono rimasti sulle coffe e sulle crocette dei due vascelli, li raggiungono anche là, causando un panico indescrivibile. Il loro valore nulla può contro quella pioggia di fuoco e contro l'urto formidabile dei corsari, troppo abituati alle strepitose vittorie, ed il grande stendardo di Spagna viene calato fra gli urrah degli assalitori, ai quali la fortuna, ancora una volta, ha arriso. Di cento e venti uomini che si trovavano sulla fregata, ben ottanta erano caduti morti o gravemente feriti. Sbarazzatisi del nemico piú pericoloso, i filibustieri, lasciati alcuni uomini sulla fregata, tornano ad imbarcarsi sui loro legni, i quali durante quel formidabile cannoneggiamento non avevano riportati che pochissimi danni, e si mettono nuovamente in caccia per catturare le due barcaccie che erano montate da numerosi equipaggi. Un nuovo combattimento, non meno feroce e sanguinoso, s'impegna, ma i due legni corsari non tardano ad avere anche questa volta il sopravvento. Con un attacco fulmineo s'impadroniscono della barcaccia maggiore, nonostante la terribile resistenza che oppone l'equipaggio, forte di settanta uomini, dei quali soli diciannove sfuggono alla morte; l'altra, vedendosi perduta, alza tutte le sue vele e cerca di raggiungere la costa. Invece urta contro una scogliera, si spezza a metà e perde la maggior parte della sua gente. Non era però ancora finita e la stella che proteggeva quei formidabili scorridori dei mari non si era ancora offuscata. Erano intenti a liberare la fregata dai morti che la ingombravano ed a rattoppare alla meglio le attrezzature delle loro navi, alquanto malmenate dalle grosse artiglierie nemiche, quand'ecco che altre due barcaccie, montate pure da equipaggi numerosi, compariscono all'orizzonte. I filibustieri, inquieti, interrogano i superstiti della fregata e con minacce di morte riescono a sapere che quelle navicelle avevano ricevuto l'ordine di muovere al piú presto in soccorso della flottiglia. I filibustieri, quantunque esausti per tante ore di combattimento, non si perdono d'animo. Comprendendo che a Panama si ignorava ancora la sconfitta subita dalle navi spagnuole, s'imbarcano sulla fregata e sulla barcaccia catturata, alzano ai corni d'artimone lo stendardo di Spagna e muovono verso quei nuovi nemici che s'accostano fiduciosi, credendo avere da fare coi loro compatriotti. - Don Barrejo, - disse Mendoza, il quale essendo, come abbiamo già detto, uno dei migliori artiglieri della filibusteria, era stato incaricato del servizio del pezzo da caccia del cassero. - Spero che non vi lamenterete piú di non menare abbastanza le mani. - Perdinci, - rispose il guascone, il quale stava accomodandosi alla meglio la sua casacca squarciata da un colpo d'alabarda. - Non credevo d'aver tanto lavoro. La mia draghinassa, a forza di picchiare sugli elmi e sulle corazze, è diventata una vera sega. Sarà necessario che io scovi in qualche luogo un arrotino o finirà per non tagliare piú nemmeno il collo d'una bottiglia. - Cambiatela: ne abbiamo prese un buon numero sulla fregata. - Oibò! ... Io lasciare la spada di mio padre! ... Non sapete che questa lama ha preso parte a piú di venti combattimenti? È una lama storica nella famiglia dei de Lussac. - Mi rincresce che tagli poco ora. - Perché? - Non vi hanno detto che quelle barcaccie sono montate da biscaglini, i migliori marinai che abbia la Spagna? - Basterà per oggi anche contro di loro. - Badate che lavori bene, perché si dice che in quelle navicelle vi sia una grossa provvista di corde. - Che dovranno servire? - Ad appiccarci, se ci prendono vivi. - Dite sul serio? - Lo hanno confessato i prigionieri della fregata, - rispose Mendoza. - Oh! ... I bricconi! ... - Il viceré di Panama è stanco di noi ed ha giurato di farci fare l'ultima danza, appesi ai pennoni. - Brutto ballo, - disse il fiammingo, il quale si trovava presente. - Infatti non deve essere molto piacevole, - rispose il guascone. Mi raccomanderò alla mia draghinassa. - Sapete però che cosa hanno deciso i filibustieri? - Di adoperarle per legare come salami i prigionieri. - Niente affatto: di servirsene per far danzare sui pennoni, o meglio sotto i pennoni, gli equipaggi delle barcaccie. - Non li abbiamo ancora presi. - Eh! ... aspettate un po'. La fregata era giunta allora a buon tiro. Le due barcaccie, ingannate dallo stendardo che sventolava sempre sul corno dell'artimone, non avevano cessato di avanzarsi. Un comando breve, secco, echeggiò sul ponte della nave predata. - Fuoco di bordata! In un lampo la bandiera di Spagna viene ammainata e sostituita dagli stendardi di Francia e d'Inghilterra, e una tempesta di palle prende d'infilata le due barcaccie, disalberandole e rasandole come due pontoni. Una barcaccia s'incendia e brucia come un pezzo di legno secco e le polveri scoppiano con fracasso orrendo, scaraventando in alto la coperta, sventrando la poppa e sfondando le murate di babordo e di tribordo. L'altra però tiene vigorosamente testa all'attacco, cannoneggiando furiosamente coi due soli pezzi che aveva a bordo. La lotta non dura che pochi minuti, poiché in aiuto dei filibustieri accorrono anche i due vascelli, i quali fanno un fuoco infernale sulle due disgraziate navicelle. Quella che brucia va a fondo e nessuno degli uomini che la montano sfugge al disastro, l'altra viene abbordata e presa dopo un brevissimo combattimento. Ventidue filibustieri però cadono gravemente feriti e fra di loro Tusley, il quale doveva morire qualche giorno dopo avendo ricevuto una palla avvelenata. I filibustieri, furiosi per le gravi perdite subite e per aver trovato tante funi destinate ad impiccarli, non ostante le proteste del conte di Ventimiglia, non lasciano vivo nemmeno uno dei prigionieri che montavano la seconda barcaccia. Superbi di tanta fortuna, lo stesso giorno si ritirarono a Taroga per deliberarvi sul da farsi, avendo saputo che non uno bensí cinque dei loro compagni si trovavano prigionieri a Panama, soggetti a durissima schiavitú. Era loro intenzione di muovere audacemente sulla ricca città e di tentarne l'assalto. Ma avendo appreso che una forte squadra aveva lasciato i porti del Perú e che moveva in cerca di loro per finirla una buona volta, decisero di mandare un messo a Panama e d'intimare al Presidente dcll'Udienza Reale la pronta restituzione dei cinque prigionieri e della figlia del Corsaro Rosso, minacciando, in caso di rifiuto, di uccidere, per ognuno di essi, quattro spagnuoli dei tanti che tenevano nelle loro mani. Il Presidente manda ai filibustieri un ufficiale per dire loro a voce che nulla poteva fare e nel medesimo tempo ricorre al vescovo di Panama per tentare se il suo carattere potesse avere qualche efficacia, almeno sui francesi che si piccavano di mostrarsi sempre cattolici. Il vescovo scrisse infatti dicendo che il rifiuto del Presidente da non altro dipendeva che dalla obbedienza che egli doveva agli ordini sovrani, i quali gli proibivano una tale sorta di scambi ed avvertendoli nell'istesso tempo che quattro prigionieri inglesi si erano ormai convertiti al cattolicismo e che erano decisi a rimanere cogli spagnuolí. Quelle risposte, come si può ben comprendere, non erano sufficienti per persuadere quei formidabili corsari. In un altro consiglio decisero di rimandare un altro prigioniero a Panama affinché avvertisse anche a voce il Presidente che erano piú che mai risoluti a massacrare i trecento spagnuoli che tenevano nelle loro mani, anche per vendicarsi delle palle avvelenate usate dagli archibugieri della fregata, le quali avevano causata la morte di Tusley e dei ventidue feriti. Per fare maggior impressione, decapitarono venti prigionieri estratti a sorte e mandarono le teste a Panama. Un tale atroce fatto indusse il Presidente a non piú tardare a mettere in libertà quei prigionieri ed a pagare diecimila piastre. Nel numero mancava però la figlia del Corsaro Rosso. Fu un'esplosione di collera terribile, poiché i filibustieri ci tenevano soprattutto ad avere la fanciulla, perché ormai riguardavano il conte di Ventimiglia come il loro vero capo. Il progetto di trucidare tutti i prigionieri spagnuoli, compreso il marchese di Montelimar, per un momento trionfò ... - Mandate la testa dell'ex-governatore di Maracaibo al Presidente dell'Udienza Reale di Panama, - avevano detto Grogner e Raveneau de Lussan, che parevano i piú inferociti. - Diamo una terribile lezione a quegli uomini che usano contro di noi palle avvelenate, cosa contraria a tutte le leggi della guerra! ... - No, - aveva risposto fermamente il conte. - Io vi lascio liberi e mi risolvo ad andare a Panama a cercare mia sorella. Se avrò bisogno di voi, non dubito che voi accorrerete tutti in mio aiuto. Mettete a mia disposizione una barcaccia, affinché possa avviarmi alla costa ed uno schifo per entrare inosservato in porto. La testa del marchese di Montelimar risponderà della mia vita.

L'albero che serviva loro d'asilo si trovava a poche decine di metri dal margine del bosco, sicché essendo la notte abbastanza chiara, i filibustieri potevano scorgere benissimo le persone che fossero avanzate nella vicina pianura terminante verso gli stagni e le paludi. Il conte, che era molto alto, potè vedere le due cinquantine camminare cautamente fra le alte erbe, con le alabarde in resta e con una mezza dozzina di altri cagnacci dinanzi. - Che ci circondino? - chiese al bucaniere. Il bucaniere non rispose. Seguiva con gli sguardi la manovra un po' complicata che eseguivano in quel momento le due colonne. A un tratto gli sfuggí un'imprecazione. - Circondano e battono le macchie - disse facendo un gesto di collera. - Sgombriamo di qui prima che giungano, o saremo persi. Stavano per lasciarsi scivolare giú dai rami, quando dei latrati furiosi si fecero udire a breve distanza, poi la torma dei doz, che poco prima si era allontanata, si scagliò intorno alla pianta, spiccando salti indiavolati. - Ah, maledetti! - gridò Buttafuoco. - Sono riusciti a scoprirci. Signori, preparatevi a vender cara la vita e soprattutto mirate attentamente, prima di consumare una carica di polvere. L'avanguardia accorreva, aizzando con altissime grida la feroce muta, credendo forse che quelli che cercava si fossero nascosti in mezzo ai cespugli, invece che fra i rami del gigantesco albero. - Ay hiyiito! - urlavano. - Ay perritos! - Che uno solo di voi si occupi dei cinque che guidano i cani! - disse il bucaniere. - Gli altri facciano fuoco con me sulle cinquantine. - Me ne incarico io! - disse il guascone. - Fra mezzo minuto i cinque soldati saranno a terra. - Bum! - mormorò Mendoza. - Quante guasconate! Le due cinquantine, udendo i latrati dei cani, si erano prontamente raccolte, credendo forse di dover subire un improvviso attacco, poi erano tornate ad allargarsi, accostandosi con precauzione alla macchia, con l'evidente intenzione di accerchiarla. Uno colpo di fuoco fu il principio delle ostilità. Il guascone aveva scaricato il suo archibugio contro i cinque uomini dell'avanguardia, i quali avevano commesso l'imprudenza di mostrarsi e la palla non era andata perduta. I superstiti erano subito fuggiti, non potendo impegnare una lotta con le loro alabarde e con le spade, buone solamente in un combattimento a corpo a corpo. - Benone! - disse il bucaniere, vedendo un soldato a terra. L'avanguardia è per ora fuori combattimento e si guarderà dal tentare qualche cosa. Occupiamoci ora delle cinquantine e non lasciamo loro il tempo di accerchiarci. - E i cani? - chiese Mendoza. - Lasciateli urlare: piú tardi penseremo a disfarcene. Si mise a cavalcioni del ramo, appoggiando le spalle contro il tronco della pianta e sparò un colpo. Un grido lo avvertí che la sua palla, come sempre, era giunta a destinazione. Il corsaro e Mendoza a loro volta fecero fuoco. Le cinquantine arrestarono subito il loro movimento aggirante e si gettarono in mezzo alle altissime erbe, cercando di rendersi invisibili. - Che cosa vorranno ora tentare? - si chiese il signor di Ventimiglia con inquietudine. - Cercheranno di raggiungerci strisciando - rispose il bucaniere, il quale invece appariva perfettamente tranquillo. - Bah, finché avremo polvere e palle, saremo sempre noi i padroni della situazione. Gran bella idea hanno avuto i governatori di sostituire con le alabarde gli archibugi! Hanno fatto meravigliosamente il nostro gioco. Siete pronti? - Sí - rispose il conte. - Mirate fra le erbe, specialmente là dove si agitano. Se noi spareremo bene, i nemici se ne andranno e non oseranno assalirci. I tre uomini ricominciarono a sparare, mentre il guascone, non sapendo che cosa fare, se la prendeva coi cani, facendo piovere addosso a loro una tempesta di rami secchi, ma non osando consumare le munizioni diventate troppo preziose in quel momento. E come lavorava il bravo soldato! Sicuro di non correre il pericolo di prendersi un colpo d'archibugio dalle due cinquantine, fracassava legna e la scaraventava addosso alle bestie, facendole urlare di dolore. Buttafuoco, il conte e Mendoza intanto continuavano a sparare a lunghi intervalli, facendo di tratto in tratto retrocedere le cinquantine. Di quando in quando un grido echeggiava fra le erbe, annunciando che qualche uomo era stato colpito. Era soprattutto il bucaniere che faceva dei colpi meravigliosi. Prima di far fuoco cambiava piú di dieci volte posizione, abbassava e rialzava il pesante archibugio e, quando sparava, la detonazione era seguita quasi sempre da un urlo o da una bestemmia. Se non uccideva, di certo feriva o storpiava. - Che uomini! - mormorava Mendoza, il quale pareva che fosse altamente stupito di quei tiri. - Si vantavano i filibustieri, ma questi bucanieri sono inarrivabili! Ora comprendo perché sono riusciti ad espugnare Vera-Cruz e anche Panama, sotto la guida di quel diavolo di Morgan! Gli spagnuoli peraltro, degni discendenti di quei formidabili conquistatori che con un pugno d'uomini avevano rovesciato i due piú potenti imperi dell'America, quello dei Messicani e quello dei Peruviani, quantunque sprovvisti di ogni arma da fuoco, si mantenevano coraggiosamente sul posto, esponendosi audacemente al tiro del bucaniere e dei suoi compagni, convinti di poter facilmente aver ragione di quel piccolo gruppo di avversari. Strisciavano fra le erbe, ansiosi di venire ad un corpo a corpo e di giungere sotto l'albero. Quella tenacia parve sconcertare Buttafuoco. - Devono avere qualche progetto - disse il bucaniere al conte. - Quale? - chiese il signor di Ventimiglia. - Io non riesco a indovinarlo; ma non sono affatto tranquillo. - Che contino sui cani? Buttafuoco scosse la testa. - Forse piú tardi - disse poi. - Li vedete? - Io no. - E voi, Mendoza? - Non vedo altro che delle erbe che continuano a muoversi rispose il marinaio. - Ed io, che ho gli occhi d'un vero guascone, scorgo qualche altra cosa - disse don Barrejo, il quale era salito molto in alto, con la speranza di fare un buon colpo contro l'avanguardia. - Dite. - Fanno dei fasci. - Di legna? - Sí. - Se riescono a giungere qui, ci bruceranno o per lo meno ci arrostiranno un po'. Manovra vecchia che non sempre è riuscita completamente. Signori, avete tutti le spade? - E che tagliano come rasoi - disse Mendoza. - Io non vorrei provarle sul mio collo, ve lo giuro. - Che cosa volete fare delle nostre spade, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Tagliare le alabarde? Avrebbero un cattivo giuoco. - No; ma usarle contro quei dannati cani - rispose il bucaniere. - Se è per questo, non v'inquietate. - Me ne incarico io - disse il guascone. - Sempre spaccone! - brontolò Mendoza. - Questi uomini sono davvero incorreggibili. - Continuate il fuoco - disse il bucaniere. - Anche voi, soldato. L'avanguardia non pare che abbia voglia di punzecchiarci le gambe con le sue alabarde. - Già, non arriverebbero fino alle mie - rispose il guascone. - Ci vorrebbe una scala. Ora butto giú un uomo ogni mezzo minuto! I quattro uomini ricominciarono a sparare fra le erbe, con crescente rabbia. Il bucaniere, il quale misurava bene i suoi colpi, faceva dei tiri meravigliosi, tuttavia gli spagnuoli non cessavano di guadagnare terreno, malgrado le enormi perdite che subivano. Degli uomini certo cadevano di quando in quando morti o feriti, pure essi s'avvicinavano con un'ostinazione ammirabile alla macchia scivolando fra le alte erbe. Che cosa volevano tentare? Se avessero avuto qualche archibugio si sarebbero certamente sbarazzati, con poche scariche, di quel piccolo gruppo di nemici. Probabilmente volevano tentare un disperato assalto all'arma bianca. Buttafuoco s'infuriava, bestemmiando e sparando senza tregua. - Che non riesca questa volta a farli scappare? - brontolava. Che uomini abbiamo dunque noi dinanzi? Sono fusi con acciaio temprato nelle acque del Guadalquivir? Invano le palle fischiavano o miagolavano sopra le erbe ed invano i quattro assediati sparavano con rabbia crescente. Le due cinquantine, risolute a por fine a quel combattimento che costava loro molte perdite, non cessavano di avanzarsi e di circondare la macchia. - Ebbene, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia ad un certo momento. - Come va questa faccenda? - Che cosa volete che vi dica, signor conte? - rispose il bucaniere. - Io sono meravigliato. In vita mia non ho mai veduto degli uomini cosí coraggiosi. Queste due cinquantine sono stupefacenti! Al loro posto io sarei già scappato! - Purché non facciano invece stupire noi, - disse Mendoza. - È quello che attendo, - rispose il bucaniere, - anzi che temo. Questa ostinazione mi dà molto a pensare. - Che cosa temete, Buttafuoco? - chiese il signor di Ventimiglia. - Non lo so e non sono affatto tranquillo. - Per tutti i pescicani del mar di Biscaglia! _ esclamò il guascone. - Qui l'affare sembra che cominci ad imbrogliarsi! - Voi che siete un guascone dovreste sbrogliarlo subito, - disse Mendoza. - Ci sono i cani sotto di noi. - Pei guasconi valgono meno dei lupi. - Tacete e fate fuoco invece, - disse il bucaniere. - Non è colle chiacchiere che si guadagnano le battaglie. - Toh! La chiama una battaglia! - brontolò Mendoza. - Io la chiamerei una misera scaramuccia! Quattro colpi d'archibugio rimbombarono uno dietro l'altro, facendo scappare una mezza dozzina di spagnuoli; gli altri però non lasciarono le erbe e continuarono a spingersi audacemente attraverso la foresta, sul cui margine erano ormai giunti. - Morte dell'inferno, - disse Buttafuoco, gettando via il cappello. - Ora non li fermeremo piú. - Gli spagnuoli? - Se si gettano fra i cespugli, nessun occhio potrà scovarli e nessuna palla potrà raggiungerli. Che cosa vorranno fare? Arrostirci? Si era voltato verso il guascone, il quale era disceso su uno dei rami piú bassi. - Signor soldato, - gli disse - volete prendervi la briga ora di distruggere la muta che urla sotto i nostri piedi? Dovete aver ancora una sessantina di colpi da sparare. - Io spero di averne anche di piú - rispose il guascone, il quale conservava un sangue freddo ammirabile. - Giacché l'avanguardia vi lascia inoperoso, massacratemi quei dannati mastini. - Preferirei uccidere degli uomini, - rispose Barrejo. - Ma quelli sono meno pericolosi! Vi affido un incarico piú difficile. - Un posto d'onore, - brontolò Mendoza, ridendo. - Sia pure - disse il guascone. - Se quei cani valgono gli uomini, m'incarico io di fare di loro una gigantesca frittata. Armò l'archibugio che aveva già caricato e con un colpo ben aggiustato abbatté il cane piú grosso, spaccandogli la testa. - E uno! - disse. - Quello non mangerà piú i miei polpacci. Mentre il guascone si arrabattava contro i mastini che latravano a piena gola intorno all'albero, impazienti di piantare i loro formidabili denti nelle carni dei fuggiaschi, Buttafuoco, il conte e Mendoza non cessavano di sparare qualche colpo a casaccio contro le cinquantine ormai scomparse nel bosco. Gli eroici soldati della vecchia Spagna, per nulla atterriti da quelle incessanti archibugiate che mettevano a dura prova il loro coraggio, non cessavano di avanzare, risoluti a raggiungere l'enorme albero de l cotone e a venire ad un corpo a corpo, sicuri, dato il loro numero, di aver facilmente ragione dei loro nemici. Avevano però da fare con uomini ben risoluti a vendere cara la pelle. Mentre il guascone continuava a fucilare i cani, Buttafuoco aveva impegnato una rapida conversazione col conte, interrotta di frequente dalle archibugiate di Mendoza. - È necessario sloggiare e salvarci fra le paludi - aveva detto il bucaniere. - Potremo spezzare il cerchio di ferro che sta per serrarsi intorno a noi? - aveva chiesto il signor di Ventimiglia. - Con una scarica improvvisa di archibugi ci apriremo una breccia sufficiente per passare. - E dopo? - Ci rifugeremo in mezzo ai pantani. - Mi hanno detto che queste paludi hanno dei banchi di sabbie mobili. - Li conosco. - E i cani? - Il vostro compagno sta fucilandoli con rara maestria. Ancora qualche minuto e non vi sarà piú un mastino sotto di noi ... Ah, ecco quello che temevo! Un bagliore sinistro era balenato a breve distanza dall'albero, poi un fastello di legna veniva scaraventato contro il tronco del bombax, facendo scappare i cinque o sei cani sfuggiti ai colpi del guascone. Un fumo denso, soffocante, che provocò agli assediati una tosse violentissima e che fece lagrimare istantaneamente i loro occhi, si alzò subito. - Del pimento! - gridò Buttafuoco. - A terra, amici, o non potremo piú resistere! Lasciate gli archibugi e preparatevi a lavorare con le spade. Giú! Un secondo fascio di legna, pure acceso, era stato scagliato. Anche quello era formato di rami di pepe rosso di Cajenna che sprigionavano un fumo infernale. - Sono carichi gli archibugi? - chiese Buttafuoco, il quale stava per spiccare il salto. - Sí! - Giú! e mano alle spade! I quattro uomini si lasciarono cadere. Un mastino si precipitò sul bucaniere, tentando di saltargli alla gola e di strangolarlo, ma il cacciatore, che si aspettava quell'assalto, balzò indietro con agilità prodigiosa afferrando il fucile per la canna e gli fracassò il cranio con un terribile colpo di calcio. Anche altri due, che si erano scagliati contro il conte e contro il guascone, non ebbero miglior fortuna. Due fulminei colpi di spada li fecero cadere l'uno sull'altro, con le gole squarciate. - Fuoco sulle cinquantine! - tuonò allora il bucaniere. Gli spagnuoli accorrevano con le alabarde in resta, urlando a piena gola: - Arrendetevi! Siete presi! Quattro colpi d'archibugio furono la risposta; poi il bucaniere ed i suoi compagni, approfittando della confusione manifestatasi fra gli assalitori per quell'improvvisa scarica, si slanciarono a corsa disperata verso il margine della foresta per guadagnare le paludi. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe degli altri e che era tutto nervi e muscoli, aveva la velocità d'un proiettile: chi si trovava forse un po' male era Mendoza; tuttavia non rimaneva indietro di molto. Gli spagnuoli si erano slanciati a loro volta, urlando ferocemente e aizzando i due ultimi cani che erano loro rimasti. Pareva però che le povere bestie, impressionate probabilmente dalla strage fatta dei loro compagni, non avessero molto desiderio di far la conoscenza con gli archibugi e con le spade di quei formidabili avversari, poiché non osavano spingersi troppo innanzi. In meno di cinque minuti i fuggiaschi attraversarono la piccola pianura e raggiunsero il margine delle paludi. - Fermatevi! - gridò Buttafuoco. - Vi possono essere dei banchi di sabbie mobili. Fate fronte agli spagnuoli per qualche minuto finché io non trovo il passaggio. Gli assalitori, vedendo i quattro uomini fermarsi e caricare precipitosamente gli archibugi, si arrestarono anch'essi, non osando esporsi al tiro di quei terribili tiratori. Buttafuoco, avendo scorto una lingua di terra coperta in parte di canne e di erbe palustri, si era slanciato risolutamente innanzi per cercare un passaggio che li conducesse in qualche luogo sicuro. Il conte e i suoi due compagni si erano intanto posti al riparo dietro il tronco d'un albero caduto per decrepitezza o abbattuto da qualche fulmine, ed avevano ricominciato a sparare, abbattendo i due ufficiali che guidavano le cinquantine. Gli alabardieri, spaventati dalla precisione terribile di quei tiri, si gettarono nuovamente fra le erbe, non sapendo in quale modo dare l'attacco. In quel momento non ringraziavano di certo i governatori che li avevano privati delle armi da fuoco. Mentre il conte e i suoi compagni mantenevano un fuoco abbastanza vivo, Buttafuoco continuava a perlustrare la palude che pareva di una estensione immensa. La sua paura era d'incontrare quelle terribili sabbie mobili che quando afferrano una preda, sia uomo o animale, non la restituiscono piú. Aveva spezzato una canna e si avanzava nell'acqua tastando il fondo. Ad un tratto il conte lo vide ritornare correndo, col volto giulivo. - Dunque? - chiese il signor di Ventimiglia, sparando un'altra archibugiata là dove vedeva scintillare gli elmetti degli alabardieri. - Ho trovato il passaggio - rispose il bucaniere. - Non sarà forse largo, tuttavia per noi basterà. - E i caimani? - Non preoccupatevi di quelle stupide bestiacce. Non ci daranno molti fastidi. Caricate gli archibugi e seguitemi tutti! Attenti sempre ai cani! Il conte ed i suoi compagni ricaricarono frettolosamente le loro armi, poi si slanciarono dietro al bucaniere, il quale correva lungo la piccola lingua di terra che aveva scoperta. I due cani, vedendoli scappare, avevano ripreso animo, mentre anche gli spagnuoli, comprendendo che i loro nemici stavano per sfuggire al tanto sospirato accerchiamento, si erano alzati agitando furiosamente le alabarde. In meno di mezzo minuto i fuggiaschi raggiunsero l'estremità della lingua di terra. - Fuori le spade e risparmiate la polvere! - gridò Buttafuoco. I due cani stavano per raggiungerli, aizzati dalle grida dei loro padroni. Il conte, che conservava un ammirevole sangue freddo, cacciò la sua spada fra le fauci spalancate del primo doz, immergendola fino a mezzo corpo, mentre Mendoza ed il guascone attaccavano coraggiosamente il secondo. Due guaiti avvertirono Buttafuoco che anche i due pericolosi avversari avevano avuto il loro conto. - In acqua, signori, - disse - e badate di seguirmi attentamente, perché ai vostri fianchi si trovano le sabbie mobili e chi vi cade dentro non ne esce piú. Se gli spagnuoli ci seguono, sparate uno per volta qualche colpo di archibugio. Ai caimani ci penso io. Erano entrati tutti nell'acqua fangosa della savana, immergendosi fino alla cintola, senza preoccuparsi gran che degli spagnuoli, i quali si erano slanciati animosamente sulla lingua di terra, con la speranza di poterli acciuffare o di vederli scomparire fra le sabbie traditrici. Buttafuoco tastava sempre il fondo con la sua canna e cercava di affrettare il passo, quantunque incespicasse ogni momento, essendovi sott'acqua delle erbe non meno perfide delle sabbie. Avevano cosí percorso circa cinquecento passi, quando videro alzarsi a breve distanza un isolotto coperto da una folta vegetazione e che pareva avesse un'estensione considerevole. - Ecco uno splendido rifugio! - disse Buttafuoco. - Se il fondo continua a mantenersi buono, sotto quelle piante potremo sfidare non due, ma anche dieci cinquantine. Mi pare già che gli spagnuoli non abbiano, almeno per il momento, alcuna intenzione di cacciarsi in acqua. Diavolo! Le sabbie mobili fanno troppa paura a tutti! Tastando sempre il terreno ed avanzando con grande precauzione, il bucaniere raggiunse l'isolotto e salí sulla riva, aggrappandosi a certe erbacce dure e coriacee, chiamate olgochloa e che sono cosí cattive che perfino le capre le rifiutano. Una massa di passiflore rampicanti si parò dinanzi al bucaniere. Sono piante che crescono molto rapidamente formando dei bellissimi festoni e che producono dei fiori purpurei con pistilli e stami bianchi con martello, chiodi, il ferro della lancia e tutti gl'istrumenti della Passione, che poi si tramutano in frutta gialle, ovoidali, grosse come poponcelli, assai apprezzate dagli abitanti, specialmente se cucinate con vino e molto zucchero. - Questo deve essere un piccolo paradiso! - mormorò Buttafuoco. - Probabilmente gli spagnuoli ci assedieranno ora, ma io credo che non riusciranno ad affamarci, come forse sperano. Conosco la ricchezza di questi isolotti. - Siamo giunti finalmente a casa? - chiese Mendoza. - Parrebbe - rispose Buttafuoco. - Che i nostri creditori vengano a romperci le tasche anche qui? - Mi sembra che abbiano rinunciato, per oggi o meglio per questa notte, ad importunarci. - Sono gente educata, - disse il guascone. - Se avessero però potuto mettervi le mani addosso, non so, mio caro signor soldato, se avreste ancora tanto spirito, - rispose il bucaniere, ridendo. - E lo dite a me? Oh li conosco io, quei signorini. Diavolo! Ci tengono poco a scherzare coi bucanieri. - E nemmeno i bucanieri con loro, - ribatté Buttafuoco. Noi siamo ancora in quattro e dubito molto che essi siano ancora in cento. Signor conte, volete dormire qualche ora? Pel momento nessun pericolo ci minaccia. - La gente di mare è abituata alle lunghe veglie e non sento affatto il desiderio di riposarmi, - rispose il signor di Ventimiglia. - Io preferirei una buona cena, - disse Mendoza. - La lingua di bufalo e anche l'arrosto di maiale non so piú dove si trovino. Probabilmente si sono affondati nei miei talloni, dopo tante corse furiose. - Io credo di averli sulle punte dei piedi, - disse il guascone con comica gravità. - Io non ho meno fame di voi, - disse il bucaniere. - Però sarete costretti, al pari di me, ad aspettare l'alba. Non posso già prendere degli uccelli di notte e qui noi non troveremo altro che uccelli. - E sarà già molto, - disse il conte, sorridendo. - Le paludi di San Domingo sono di solito molto frequentate dai pennuti, signore, ed una buona colazione non ci mancherà, purché gli spagnuoli ci lascino tranquilli. - Credete che tentino un nuovo attacco? - Ora che non hanno piú i cani, i quali costituiscono la vera forza delle cinquantine, non oseranno forse assalirci. È probabile però che mandino degli uomini a cercare dei rinforzi per assediarci. Di ciò però mi preoccupo ben poco. - E se circondassero la savana? - chiese il signor di Ventimiglia. - Eh! Ci vorrebbero almeno cento cinquantine ed il governatore di San Domingo non ne troverà mai tante. Se io ho un passaggio, non dispero di trovarne un altro e, prima che i rinforzi giungano, noi saremo a S. José, nella fattoria della marchesa. Là non correremo alcun pericolo, essendo io molto conosciuto dall'intendente. - Quest'uomo è veramente meraviglioso, - disse Mendoza. - Decisamente i filibustieri hanno una fortuna straordinaria. È bensí vero che gli spagnuoli ci credono figli o nipoti o pronipoti di compare Belzebú! È già qualche cosa anche questo. Il bucaniere ed il conte si erano coricati sotto una passiflora, sorvegliando attentamente le mosse degli spagnuoli, mosse assolutamente inoffensive, poiché non avevano osato abbandonare la penisoletta che s'avanzava nella savana. Sorvegliavano anche le acque, soprattutto quelle ingombre di erbe, per paura che qualche caimano tentasse di giungere di soppiatto fino all'isolotto per fare qualche buon colpo. Quelle brutte bestiacce non dovevano mancare in quella palude, però non si mostrarono. Probabilmente non si erano ancora accorte della presenza di quel gruppo d'uomini. Quando le tenebre cominciarono ad alzarsi, il bucaniere ed il conte, dopo essersi assicurati che gli spagnuoli erano sempre fermi sulla penisoletta, fecero una rapida escursione attraverso all'isolotto, onde cercare un passaggio che permettesse loro di sfuggire alla sorveglianza dei loro avversarii. Quel pezzo di terra era ingombro di ponted eire, bellissimi cespi di foglie d'un verde lucente e di fiori azzurri e di aristolochie dalle foglie ovali, i fiori lividi in forma di sifoni, col tronco grosso come una botte e radici gigantesche le quali s'alzavano fuori dalla terra come serpenti smisurati. Non mancavano però le piante d'alto fusto. Qua e là s'ergevano, a gruppi, delle quercie, delle magnolie acuminate cariche di certe frutta somiglianti ai cetriuoli, d'un bel rosso lucente, e che si adoperano con successo per guarire le febbri intermittenti, e anche dei noci neri, di dimensioni gigantesche e molto frondosi. Numerosi volatili fuggivano dinanzi al corsaro ed al bucaniere. Erano corvi di mare, piú grossi dei galli, ferocissimi perché osano assalire perfino le persone ferite impotenti a difendersi; fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche e botauri, bellissimi volatili alti quasi due piedi, colle penne brune rigate, il ventre grigiastro, il becco acutissimo e gli occhi gialli e molto delicati. - Occupiamoci prima del passaggio, - disse il bucaniere al conte, il quale si preparava a sparare qualche colpo onde procurarsi una buona colazione. - Avremo tempo per massacrare questi volatili, i quali non mi sembrano molto spaventati per la nostra presenza. - Sperate di trovarlo? - Eh! ... Le savane di quest'ísola sono molto difficili ad attraversarsi in causa delle sabbie mobili che costituiscono il fondo. Ma io non dispero di trovare qualche costa che ci permetterà di farla agli spagnuoli. Voi siete sicuro che la vostra nave vi aspetta sempre al capo Tiburon? - Non scioglierà le vele senza mio ordine, - rispose il conte. - Allora possiamo andare alla fattoria della marchesa. Senza il suo appoggio sarà un po' difficile che voi possiate lasciare San Domingo. A quest'ora tutte le cinquantine saranno in movimento per catturarvi. I tre famosi corsari non sono stati dimenticati e gli spagnuoli devono essere molto spaventati nell'apprendere che ve n'era un quarto che batte ancora le acque del gran golfo e che non si sa che cosa voglia fare. - Forse è questo che farà venir loro la febbre, - disse il conte. - Che cosa io sia venuto a fare qui tutti lo ignorano. Certamente io non ho varcato l'Atlantico per continuare le gesta di mio padre e dei miei zii. Il bucaniere si era voltato vivamente, guardando fisso il figlio del Corsaro Rosso. - Delle vendette? - chiese. - Quelle verranno piú tardi, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce grave. - Ho prima altro da fare. Si era fermato, guardando a sua volta fisso fisso il bucaniere. - Siete stato nel Darien, voi? - gli disse ad un tratto. - Sí; con Wan Horn, - rispose Buttafuoco. - Conoscete dunque quel paese? - Abbastanza bene: si trattava allora di attraversarlo con l'aiuto di un grande cacico, nemico terribile degli spagnuoli, per andare ad assalire Granata. - Come si chiamava quel grande cacico? - Hara. - Aveva delle figlie, non è vero? - Sí, signor conte. - Date spose a dei famosi filibustieri? - Questo lo ignoro - rispose Buttafuoco. - È lui. - Chi? Il conte, invece di rispondere, si mise a guardare la savana che si estendeva dinanzi a lui a perdita d'occhio, interrotta qua e là da isolotti e da altifondi coperti da una vegetazione superba. - Saremo costretti ad attraversarla? - chiese dopo un lungo silenzio. - Sí, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non possiamo tornare indietro: perderemmo la vita, poiché sono certo che gli spagnuoli hanno mandato dei corrieri per aver degli aiuti e le cinquantine che giungeranno non saranno solamente armate di alabarde. - Quando partiremo? - Questa sera stessa, perché i nostri nemici non s'accorgano della direzione che prenderemo. - È lontana la fattoria della marchesa? - È piú vicina di quello che supponete - rispose Buttafuoco. Con una rapida marcia vi potremo giungere in cinque o sei ore. - Cerchiamo la colazione, allora. - Un momento, signor conte; è la costa che mi occorre trovare. Se non riesco a scoprirla, non potremo allontanarci dall'isolotto. Spezzò una canna, armò l'archibugio per essere piú pronto a far fuoco sui caimani e avanzò nell'acqua tastando il fondo. Aveva percorso una quindicina di passi, quando il conte lo vide ritornare. - Abbiamo una fortuna meravigliosa, - disse - il fondo è ottimo e non vi sono sabbie. Signori spagnuoli, ci aspetterete un bel po' e quando vi metterete in marcia non troverete che dei caimani ... Signor conte, guadagniamoci ora la colazione. Non sarà una faccenda lunga. Getteremo giú una mezza dozzina di scoiattoli e ci procureremo un arrosto squisito. Rifecero il cammino percorso, costeggiando specialmente i noci neri, ed aprirono quasi subito il fuoco. Fra gli enormi rami delle grosse piante saltavano disperatamente o meglio volavano dei graziosi animaletti, un po' piú grossi dei topi, col pelame grigio perla sopra e bianco argenteo sotto, con gli orecchi piccoli e neri, il muso roseo ed una splendida coda che pareva una magnifica piuma di struzzo. Erano degli scoiattoli volanti i quali, spaventati dalla presenza di quei due sconosciuti, cercavano di mettersi in salvo, come se avessero già indovinate le malevole intenzioni del bucaniere. Quantunque rassomiglino un po' a quelli che si trovano nelle foreste d'Europa, ne differiscono per una membrana pelosa che unisce le gambe posteriori a quelle anteriori, permettendo loro di spiccare delle vere volate che si prolungano talvolta perfino di cinquanta e più passi. Avevano però da fare con un tiratore meraviglioso; cosicché, in meno di cinque minuti, sette od otto di quei graziosi roditori, mitragliati dal bucaniere, caddero al suolo insieme ad un gran numero di noci che potevano servire benissimo come ottima frutta. Mendoza ed il guascone, che già s'immaginavano di avere una buona colazione con un cacciatore cosí famoso, avevano nel frattempo acceso un allegro fuoco e raccolte delle erbe aromatiche per rendere l'arrosto piú gustoso. I quattro uomini scuoiarono in pochi istanti le bestiole, le infilarono nella bacchetta di ferro d'uno degli archibugi e le misero sopra i carboni, girando quello spiedo primitivo su due forchettoni di legno piantati nel suolo. Mendoza si era improvvisato cuoco, dopo che il guascone gli aveva solennemente dichiarato di saper divorare anche sei beccaccini l'uno dietro l'altro, ma di non saperseli cucinare. Il buon marinaio non aveva né protestato, né brontolato; anzi, aveva guardato con ammirazione quel formidabile mangiatore, chiedendogli solamente per quale motivo i guasconi, pur essendo divoratori, non ingrassavano. Non occorre dire che la domanda era rimasta senza risposta, perché anche don Barrejo non avrebbe saputo dare su quello strano caso nessuna spiegazione plausibile. Il fatto sta che gli scoiattoli scomparvero tutti e la maggior parte passò nel ventre del guascone. Finita la colazione, i quattro uomini si occuparono subito degli spagnuoli, temendo sempre un improvviso colpo di mano. Quelli invece pareva che per il momento non si occupassero affatto di loro. Avevano acceso dei fuochi all'estremità della penisoletta e divoravano la loro colazione tranquillamente, composta forse di testuggini, poiché quei preziosi rettili abbondano intorno alle savane sandominghesi.. - Attendono dei rinforzi - disse Buttafuoco al conte. - Se noi non ci affrettiamo a scappare, circonderanno la palude, e allora sarà bravo chi potrà sfuggire all'accerchiamento. Le cinquantine non si trovano però lí per lí, e possono passare parecchi giorni prima che arrivino. Certo che noi non aspetteremo il momento terribile e fileremo attraverso le acque e anche fra le sabbie mobili. Penserà poi la marchesa a farvi scappare, signor conte. - Sarà la seconda volta - rispose il conte. - A lei tutto è facile - disse Buttafuoco. Aprí una tasca di cuoio che portava al fianco e offrí al conte un grosso sigaro dicendogli: - Potrete con questo ingannare il tempo. È tabacco cubano che ho potuto avere dai filibustieri della Tortue, e non ne troverete del migliore, ve lo assicuro io. Il conte stava per prendere il sigaro, quando un colpo d'archibugio rimbombò e una palla fischiò sopra di loro. Il basco si alzò precipitosamente, afferrando il suo fucile. - Signor conte - disse con la voce un po' alterata - sono giunti dei rinforzi agli spagnuoli e si preparano a prenderci a fucilate. Poi, alzando la voce, disse a Mendoza ed al guascone: - S'impegna battaglia: attenti alle palle!

Quantunque soffiasse un vento abbastanza fresco, l'Oceano fortunatamente si manteneva tranquillo. La scialuppa, abilmente guidata, scivolava leggiera e velocissima, seguendo le coste dell'istmo a meno di cinquanta passi. A mezzanotte il guascone mise la prora risolutamente al largo, sicurissimo di trovarsi ormai all'altezza dell'isola di Taroga. Tutta la notte lottò contro le onde, che a poco a poco erano diventate grosse ed ai primi albori, come aveva già previsto, entrava nella piccola baia dove si trovava ancorata la flottiglia dei filibustieri, composta di due dozzine d'imbarcazioni, avendo perduto il vascello durante una notte tempestosa. Era però sempre sufficiente per trasportare sul continente i trecento e cinquanta uomini che rimanevano ancora sotto gli ordini di Raveneau de Lussan e di Grogner. Il guascone, che era ormai conosciutissimo fra quei formidabili ladroni di mare, fu accolto come un vecchio camerata e condotto immediatamente nella tenda occupata dai due capi della filibusteria. - Il signor de Lussac, un guascone autentico a cui dobbiamo la resa di Nuova Granata! - esclamò Raveneau, vedendolo entrare. Da dove venite voi, mio gentiluomo? ... - Dal mare, - rispose don Barrejo, - e porto cattive notizie. - Del conte forse? - chiese Grogner, scattando. - È stato preso, signori. - Da chi? Parlate subito! - esclamarono ad una voce i due filibustieri. - Dal marchese di Montelimar che voi avete lasciato scappare. - Me lo immaginavo! - gridò Raveneau de Lussan, gettando in aria la sedia che gli stava dinanzi. Quando mi hanno avvertito che, approfittando d'una nostra baldoria e d'una notte oscurissima, aveva preso il largo, avevo subito pensato al conte di Ventimiglia, è vero Grogner? - Sí, me ne avevi parlato. Dove lo hanno condotto, signor de Lussac? In qualunque luogo si trovi, parola di filibustiere, noi andremo a liberarlo. Gli spagnuoli non lo appiccheranno come hanno impiccato suo padre, dovessi bruciare Panama fino alla sua ultima casa. - A Guayaquil l'hanno portato, - rispose il guascone. - A Guayaquil! - esclamò Raveneau de Lussan. - Se discutevamo ieri sera di fare una scorreria verso quella città che si dice contenga delle ricchezze incalcolabili! ... Questa è una vera fortuna, signor de Lussac! ... Tutti i nostri uomini hanno già approvata questa impresa. Grogner levò dal taschino uno splendido orologio d'oro, frutto certamente di qualche saccheggio, poi disse: - Sono appena le sette: alle nove possiamo essere sul continente e prima del tramonto dinanzi a Guayaquil. Dieci leghe sono per noi una semplice passeggiata. Vado ad avvertire i nostri uomini che si parte senza un minuto di ritardo. Non erano trascorsi cinque minuti che i filibustieri lasciavano l'isola, montati sulla loro flottiglia di piroghe e di scialuppe. Alle nove, come aveva previsto Grogner, i trecentocinquanta filibustieri, poiché non erano di piú, approdavano sulla spiaggia dell'istmo di Panama, a sole dieci miglia da quest'ultima città. Sommerse le imbarcazioni affinché gli spagnuoli non potessero accorgersi della loro nuova impresa, s'avviarono sotto i grandi boschi guidati da un prigioniero pratico del paese, a cui avevano promessa la libertà o la morte nel caso che li avesse traditi. Quantunque i filibustieri fossero uomini di mare erano pure bravissimi camminatori, essendo stati per la maggior parte prima bucanieri. Dieci lunghe leghe non era quindi una tale distanza da spaventarli. Ed infatti il sole non era ancora tramontato, quando giunsero a poche miglia dalla città. La loro marcia non era però passata inosservata. Gli indiani, che abitavano le immense foreste dell'istmo, non avevano tardato ad accorgersi del passaggio di quella forte colonna di uomini e si erano affrettati ad avvertire il governatore della città dell'uragano che stava per scoppiare. Un corpo di settecento spagnuoli uscí frettolosamente per dare battaglia ai terribili ladroni dell'Oceano Pacifico; ma, come sempre, la paura che ispiravano i filibustieri ebbe maggior successo delle armi. Scambiate appena poche fucilate, gli spagnuoli voltarono le spalle e andarono a chiudersi nei tre forti che difendevano la città e che come abbiamo detto si ritenevano inespugnabili. Le stelle cominciavano ad apparire in cielo, quando i filibustieri, divisi in due colonne, si presentarono dinanzi alla città, ben risoluti non solo ad espugnarla, bensí anche a saccheggiarla sapendo che ricchezze immense conteneva. Impossessarsi di quella città non era però impresa facile poiché la difendevano tre forti, contenenti ognuno una guarnigione di cinquanta uomini e armati d'un buon numero di cannoni, mentre i filibustieri non possedevano nemmeno una spingarda. Pure gli assalitori non si scoraggiavano affatto e, mentre gli abitanti salvavano buona parte delle loro ricchezze caricandole su degli schifi che tenevano sul fiume, tentarono animosamente l'assalto ai forti. Si erano divisi in tre colonne per impedire alle guarnigioni di portarsi vicendevolmente aiuto: una la comandava Grogner, la seconda Raveneau de Lussan e la terza il guascone. I forti si difendevano però gagliardamente, rispondendo alle archibugiate dei filibustieri con colpi di cannone. Pareva che gli spagnuoli fossero decisi a farsi seppellire sotto le rovine, anziché arrendersi a quegli odiati ladroni di mare. Tutta la notte fu un battagliare furioso. Invano i filibustieri si erano slanciati piú volte all'assalto ed invano avevano appoggiato piú volte le scale per superare le merlature. Ad ogni intimazione di resa gli spagnuoli avevano sempre risposto con un fuoco infernale, quantunque poco efficace. Al mattino i tre forti non erano ancora presi, mentre invece la popolazione, approfittando dell'oscurità, aveva evacuata la città, salvandosi nelle vicine boscaglie colle ricchezze che non avevano potuto salvare sugli schifi. Già i filibustieri cominciavano a dubitare della buona riuscita dell'impresa, quando verso le otto del mattino si sparse la voce che Grogner era stato ferito mortalmente e che stava per spirare. A quell'annunzio un grido solo uscí dai petti dei filibustieri. - Vendichiamo il nostro capo. Battagliavano furiosamente da dieci ore. La fame e la sete li tormentava; pure, saldi come pezzi d'acciaio, noncuranti delle cannonate degli spagnuoli, quei valorosi mossero, forse per la decima volta, all'assalto dei forti. Appoggiate le scale, non ostante l'intensità del fuoco nemico, montano con impeto irrefrenabile, scavalcando le merlature, inchiodano sui loro pezzi gli artiglieri ed impegnano una lotta disperata contro le guarnigioni. Avevano dato l'attacco solamente a due forti, riservandosi di impadronirsi piú tardi del terzo, che era il meglio armato e difeso dal marchese di Montelimar, uomo che, come abbiamo detto altrove, godeva grande fama come uomo di guerra. Se la istoria dei filibustieri narrata da Raveneau de Lussan e da altri corsari inglesi e francesi non fosse lí a provare l'eroismo di quei terribili ladroni dell'Oceano Pacifico, si potrebbe porre in dubbio l'esito di quella formidabile impresa. Trecento erano i filibustieri, poiché in quelle dieci ore di combattimento avevano perduto una cinquantina di persone e mille gli spagnuoli e muniti di grosse artiglierie eppure i primi non tardarono ad avere ragione sui secondi di tanto piú numerosi. Dopo un combattimento sanguinosissimo, le due guarnigioni spagnuole furono fatte a pezzi e solamente poche centinaia di spagnuoli riuscirono a salvarsi nelle foreste dopo d'aver gettate le armi. Resisteva però sempre il forte difeso dal marchese, nel quale erano stati rinchiusi il conte di Ventimiglia, Mendoza, il fiammingo e la figlia del Gran Cacico del Darien. Infuriavano tremendamente le artiglierie del fortissimo baluardo, battendo in breccia le due fortezze ormai conquistate e le case della città. Gli archibugieri, numerosi e scelti, facevano del loro meglio per aiutare gli artiglieri, battendo le spianate e le scarpate, con una grandine di palle. Alle undici, malgrado i continui tentativi dei filibustieri, la fortezza resisteva ancora. Raveneau de Lussan, che aveva assunto il comando dei filibustieri, essendo ormai Grogner un moribondo, fece chiamare il guascone. - Signor de Lussac, - gli disse, - noi finiremo di certo per venire a capo di questa dura impresa, poiché i miei uomini non faranno un passo indietro. Siccome però sono pochi e non abbiamo alcun mezzo per surrogare quelli che cadono, vorrei farvi una proposta. - Parlate, signor de Lussan, - rispose il guascone. - Volete che vada a minare qualche angolo del forte? - Mi dispiacerebbe troppo perdere un valoroso come voi. Il conte di Ventimiglia non mi perdonerebbe mai di avervi sacrificato. - Che cosa posso fare dunque? - Andare dal marchese di Montelimar ed intimargli la resa, promettendo salva la vita a lui ed alla guarnigione. - Io non credo che accetti: è un testardo ed un uomo di guerra. Un lampo d'ira passò negli occhi del gentiluomo. - Se rifiuterà non lasceremo vivo un sol uomo, - disse. - Vediamo se si può combinare questo affare senza mandare tante persone a tenere compagnia a compare Belzebú, - rispose il guascone, dopo aver pensato qualche istante. - Che ci consegni il conte, la figlia del grande Cacico del Darien, i miei due amici, e poi vada pure a tenere compagnia a quell'ottimo Consigliere dell'Udienza Reale di Panama. Fu dato l'ordine ai filibustieri ed ai bucanieri di sospendere il fuoco, fu issata su una picca una camicia bianca trovata in una casa e don Barrejo mosse animosamente verso la fortezza. Anche gli spagnuoli, i quali non desideravano affatto irritare troppo quei formidabili scorridori del Pacifico, avevano deposte le miccie e fatti ritirare gli archibugieri che occupavano le merlature. Don Barrejo, il quale portava la picca, si fermò dinanzi al fossato del forte, piantando l'asta su un ammasso di terra. Un ufficiale si era curvato fra due merli gridando: - Che cosa volete? Sbrigatevi perché non vi accordiamo che una tregua di cinque soli minuti. Appena trascorsi riapriremo il fuoco. - Chiedo di parlare al marchese di Montelimar, - rispose il guascone. - Nel medesimo tempo vi avverto che se qualcuno di voi farà fuoco su di me, vi passeremo dal primo all'ultimo, a fil di spada. Un istante dopo il marchese di Montelimar compariva sul terrazzo d'una lunetta, tenendo la spada snudata sotto un braccio. - Chi vi manda? - chiese, rivolgendosi al guascone il quale stava sempre accanto a quella strana e ridicola bandiera. - Raveneau de Lussan, capo dei filibustieri dell'Oceano Pacifico, - rispose don Barrejo. - E Grogner? - Il signor Grogner in questo momento è occupato a fumare la sua pipa e perciò ha rinunziato fino a questa sera al comando. Il marchese aggrottò la fronte poi, dopo d'aver guardato attentamente il guascone, disse: - Ah! Siete uno dei tre spadaccini del conte di Ventimiglia. - Non vi siete ingannato, Eccellenza. Venivo anzi anche a chiedere notizie di quel valoroso gentiluomo. - È sotto la mia protezione. Che cosa volete dunque? Sbrigatevi: i miei uomini sono impazienti di combattere. - Vengo ad intimarvi la resa. - A chi? - A voi. - Non sapete dunque che ho cinquecento uomini e ventidue pezzi d'artiglieria e tante munizioni da radere al suolo la città intera? - E non avete veduto Eccellenza che abbiamo già espugnato due delle tre fortezze che erano pure difese da cinquecento uomini ciascuna e da una quarantina di cannoni? Tutti noi lo abbiamo veduto. Vi arrendete sí o no? Raveneau de Lussan vi promette salva la vita, a condizione che consegnate immediatamente il conte di Ventimiglia, i suoi avventurieri e la figlia del Gran Cacico del Darien. Anche io vi accordo cinque minuti per avere la risposta: dopo daremo l'assalto e come abbiamo preso i due forti, vi assic uro Eccellenza che prenderemo anche questo. - Lasciate che mi consigli coi miei ufficiali, - rispose il marchese. Il guascone prese un sigaro, lo accese servendosi d'un pezzo di miccia che fumava sul margine del fossato e si sedette accanto alla bandiera bianca. I filibustieri intanto, non ben certi che il marchese di Montelimar si decidesse per la resa, si preparavano, sotto la direzione di Raveneau de Lussan, ad un furioso assalto. Avevano messi in prima fila cinquanta uomini muniti di granate da lanciarsi a mano e dietro un centinaio di bucanieri per sterminare innanzi a tutto gli artiglieri. Gli altri tenevano pronte le scale, prese nelle chiese, per montare all'assalto. La risposta del marchese di Montelimar non si fece attendere. - Dite al signor Raveneau, - disse al guascone, - che finché mi rimarrà un uomo ed una carica di polvere io difenderò la fortezza. Andatevene o vi farò fucilare. - Mi ricorderò di questa bella offerta, - rispose il guascone, riprendendo la picca. - Spero di rivedervi presto, signor marchese. Attraversò la spianata senza troppo affrettarsi, malgrado la minaccia del comandante spagnuolo ed avvertí Raveneau della risposta avuta. - Come abbiamo espugnate le altre due, prenderemo d'assalto anche questa, - rispose il gentiluomo francese. Fu dato l'ordine di muovere all'attacco. I filibustieri, impazienti di finirla e di saccheggiare la città prima che gli abitanti portassero via tutte le cose preziose, si slanciarono all'assalto, non ostante il terribile cannoneggiamento degli spagnuoli. Con una corsa fulminea si posero al riparo sotto gli angoli morti della fortezza, rendendo cosí nullo il tiro delle artiglierie e la prima schiera cominciò a scagliare una grandine di granate attraverso le merlature mentre i bucanieri fucilavano gli archibugieri nemici dei ridotti, delle terrazze e delle lunette. Messi in rotta gli artiglieri, i quali non potevano resistere allo scoppio simultaneo di tante granate, i filibustieri appoggiarono le scale e montarono all'assalto. Gli spagnuoli li aspettavano sul piazzale del forte, guidati dal marchese di Montelimar. In un baleno i formidabili uomini del mare scalano la fortezza, superano le merlature e si scagliano contro gli alabardieri, impugnando le pistole e le corte ma larghe sciabole d'abbordaggio. Il guascone, giunto uno dei primi, s'avventa contro il marchese, e mentre intorno a lui ferve ferocissima la mischia, lo investe con una grandine di colpi di spada, urlando: - Arrendetevi o vi uccido! Il marchese, fattosi un po' di largo, affronta coraggiosamente il guascone. Buona lama anche lui si difende disperatamente, opponendo una resistenza che stupisce il terribile spadaccino. Investito con foga estrema, indietreggia fino sul terrazzo d'una lunetta, mentre i filibustieri uccidono rabbiosamente quelli che rifiutano di deporre le armi. - Signor marchese, - disse il guascone, dopo d'aver scambiato una ventina di stoccate, tutte abilmente parate dal gentiluomo spagnuolo. - Questo non può durare molto. Io sono molto piú giovane di voi e poi sono una lama guascone. Arrendetevi o mi vedrò obbligato a uccidervi e ciò, francamente, mi spiacerebbe. La piazza ormai è presa ed ogni resistenza inutile. Gettate la spada e restituitemi il conte, i miei compagni e la figlia del Gran Cacico. Il marchese fece un passo indietro tergendosi colla sinistra il sudore che gli imperlava la fronte e gettò un rapido sguardo intorno. I suoi uomini, dopo d'aver opposta una fierissima resistenza, s'arrendevano a gruppi ed i filibustieri rovesciavano le artiglierie nei fossati dopo averle inchiodate per renderle inservibili. - È la fine, - disse, con voce triste. Poi rimettendosi, riprese a mezza voce: - Può essere una partita rimandata. Gettò la spada nel momento in cui Raveneau de Lussan, seguito da una mezza dozzina di filibustieri accorreva in aiuto del guascone. - Il signor marchese si è arreso, - disse don Barrejo, - e si è arreso ad un de Lussac. Signor de Lussan, non vi è piú nulla da fare qui: questo gentiluomo è sotto la protezione dei guasconi. Raveneau si levò il cappello e salutò cortesemente il difensore del forte, dicendogli: - Il signor de Lussac, un gentiluomo autentico, vi accorda salva la vita ed io non ve la prenderò, signor de Montelimar poiché i filibustieri sanno apprezzare il valore e voi ci avete dato or ora la prova di possederne molto. Voi però ci indicherete subito dove si trova il conte di Ventimiglia. - Seguitemi, - rispose il marchese, togliendosi una chiave che teneva nella fascia azzurra. S'avviò verso il fabbricato centrale del forte che era fiancheggiato da numerose casematte, aprí una porta, poi disse: - Entrate: sono tutti là! Un istante dopo il conte era nelle braccia di Raveneau de Lussan, mentre il guascone appioppava quattro sonori baci sulle gote di Mendoza e di don Ercole. La figlia del Gran Cacico del Darien aveva subito seguito suo fratello, degnando appena d'uno sguardo il marchese di Montelimar, che fino a pochi giorni prima aveva rispettato come fosse suo padre. - Signor conte, - disse il capo dei filibustieri, poiché era stato nominato tale dopo la morte di Grogner, - siete finalmente libero ed avete ottenuta vostra sorella. Che cosa possiamo ancora fare per voi? - Darmi una guida che mi conduca attraverso l'istmo. Ho la mia fregata nelle acque del golfo del Messico e non ho che un solo desiderio. - Quale? - Di toccare al piú presto Cuba. - E poi? - Di tornarmene in Europa, nella mia Liguria. La mia missione è ormai finita, signor de Lussan. - E del signor marchese di Montelimar che cosa dobbiamo fare? chiese il nuovo capo dei filibustieri. - Dategli un cavallo e lasciate che ritorni a Panama. De Lussan lo guardò con stupore. - Avete detto? - chiese. Il figlio del Corsaro Rosso gli si accostò e gli mormorò una parola agli orecchi. - Ho capito, - rispose il gentiluomo francese, sorridendo. Se ne parlava già. Signor conte, andiamo a fare colazione con vostra sorella e col signor marchese. Ce la siamo guadagnata, ve l'assicuro. Mentre Raveneau ed i suoi compagni cercavano asilo in una casa abbandonata, i filibustieri, diventati ormai padroni dell'ultimo forte, si abbandonavano ad un saccheggio furibondo. Non possiamo però passare sotto silenzio la bizzarra singolarità di cui, in quella presa, i filibustieri francesi dettero spettacolo, poiché meglio d'ogni altra cosa dimostra l'indole strana di quella razza di ladroni. Mentre i loro compagni inglesi correvano dietro agli abitanti rifugiatisi nei boschi colle loro ricchezze, facendone ben settecento prigionieri, i francesi si recavano nella cattedrale della città per cantarvi il Te-deum, credendo cosí di praticare le parti di buoni cattolici e di rispettare in tale modo la religione! ... Ingentissimo fu il bottino raccolto dai filibustieri, consistente per lo piú in una quantità straordinaria di perle e di smeraldi, in verghe d'argento ed in settantamila piastre. Si aggiungano a ciò un cannone d'argento massiccio del valore di ventiduemila piastre ed un'aquila d'oro tempestata di smeraldi che pesava sessant'otto libbre, destinati in pia oblazione alla chiesa maggiore della città e presi agli schifi che scendevano il fiume. Inoltre avevano preso oltre settecento prigionieri, anche il governatore della città e siccome non trovavano conveniente condurre con loro tante persone, tanto piú che sapevano essere usciti da Panama grossi corpi di truppe scelte per sterminarli prima che ritornassero verso l'Oceano Pacifico, mandarono un messo al Presidente dell'Udienza Reale affinché li riscattasse tutti contro la consegna d'un milione di piastre e di quattrocento sacchi di mais, essendo a corto di viveri. Avevano iniziate le trattative e già non dubitavano di ricevere le une e gli altri, quando la terza notte dopo l'espugnazione dei forti s'alzò un furioso incendio, prossimo al luogo ove i filibustieri avevano accumulate le loro ricchezze ricavate dal saccheggio. Però non fecero essi alcuna perdita, essendo prontamente accorsi a trarre in salvo le loro cose, meravigliosamente affrontando ogni pericolo; rivolsero poi i loro sforzi a salvare la disgraziata città che in piú parti avvampava; però un buon terzo andò distrutto insieme ad un grosso numero di abitanti. Infettatasi l'aria in causa dei numerosi cadaveri rimasti insepolti, e cominciando a patire molte malattie per tale cagione suscitatesi, inchiodati i cannoni delle fortezze che loro non erano affatto utili, quei terribili ladroni di mare s'avviarono verso l'Oceano Pacifico, conducendo con loro cinquanta ostaggi d'ambo i sessi, i quali dovevano rispondere del riscatto che doveva in parte essere loro pagato e veleggiarono verso l'isola di Puna dove rimasero un mese, Fu un mese di baldoria e fu insieme un sorprendente spettacolo il vedere quei ruvidi avventurieri improvvisarsi gentiluomini, organizzare danze e banchetti che non avevano mai fine, avendo fra i prigionieri moltissimi suonatori di chitarre e di mandole e le piú belle donne di Guayaquil, le quali non vedevano nei loro rapitori piú i disturbatori della loro città e delle sostanze delle loro famiglie, bensí uomini per la maggior parte cortesi e rispettosi, cosicché ebbero quelle disgraziate un non ingrato comp enso dei sofferti terrori e poterono godere di quella libertà che tra le domestiche mura, sotto i gelosi mariti, l'orgoglio e la severità spagnuola non concedeva alle donne. L'amenità dell'isola dava d'altronde maggior risalto a quell'avventura né fuvvi mai prigionia, specialmente per le prigioniere, piú divertente. Verso la fine del mese però quell'allegria fu gravemente turbata, in causa del mancato pagamento del riscatto. Il presidente dell'Udienza Reale di Panama continuava a chiedere dilazioni, sinché i filibustieri insospettiti che, non difficoltà di trovare il denaro cagionasse quel ritardo, bensí la segreta mira di defraudarli e di prendere tempo per radunare forze sufficienti a combatterli, ricorsero ad una crudele risoluzione, malgrado le proteste di Raveneau de Lussan il quale, al pari di Grogner, abborriva le crudeltà. Radunarono perciò gli ostaggi e li obbligarono a tirare a sorte, avendo ormai deciso che le teste di quattro di quei disgraziati dovessero essere consegnate all'ufficiale spagnuolo che era giunto per chiedere una nuova dilazione al pagamento. Purtroppo quegli infelici dovettero sottomettersi alla dura sorte e le quattro teste furono date all'ufficiale, colla dichiarazione che se entro quattro giorni il pattuito riscatto non fosse stato saldato, altre ne sarebbero state mandate al Presidente dell'Udienza Reale di Panama. I sospetti dei filibustieri non erano d'altronde senza fondamento, poiché il giorno seguente riuscivano a catturare un corriere che da Guayaquil andava a Lima, apportatore di lettere nelle quali era detto chiaramente come in aspettazione dei soccorsi attesi si sarebbe mandata qualche somma a Puna per tenere a bada i corsari, aggiungendo che l'esterminio di costoro stimavasi ben piú importante sacrificio che la perdita di cinquanta prigionieri. Come abbiamo detto, fra gli ostaggi vi era il governatore di Guayaquil e siccome ci teneva a non perdere la testa, incaricò un frate che era della brigata, uomo tenuto in molta considerazione presso gli spagnuoli e lo mandò sul continente con pieni poteri perché accumulasse a tutti i costi quanto denaro occorreva per saldare il riscatto. Nell'atto però che il frate partiva, giungeva all'isola uno schifo il quale portava ai filibustieri ventimila piastre in oro e venti sacchi di farina. L'ufficiale che lo montava chiedeva nel medesimo tempo una dilazione di altri tre giorni pel resto del riscatto. I filibustieri non furono renitenti a concederla, dichiarando però che se gli spagnuoli avessero mancato alla promessa avrebbero fatta una nuova visita a Guayaquil e che l'avrebbero distrutta da capo a fondo. La risposta che ne ebbero non poteva essere piú risoluta. Un nuovo messo di chi amministrava le cose di Guayaquil giunse qualche giorno dopo, dicendo che per tutto ciò che rimaneva a pagarsi gli spagnuoli offrivano solamente ventiduemila piastre e che se i filibustieri volevano riattaccare la città vi erano cinquemila uomini agguerriti pronti a riceverli. Nessuno può sorprendersi se a quella dichiarazione vi fu fra i corsari di Raveneau chi proponesse di tagliare all'istante la testa a tutti i prigionieri, le donne comprese. Si opposero molti altri, dicendo che una tale crudeltà nessun vantaggio avrebbe recato, perciò accettate le ventiduemila piastre e messi in libertà gli ostaggi, ripresero il mare per ritentare nuove e piú stupefacenti imprese. %CONCLUSIONE Due giorni dopo la caduta di Guayaquil, il conte di Ventimiglia, sua sorella ed i tre spadaccini lasciavano la città con una scorta di trenta corsari e di dieci filibustieri, i quali avevano deciso di far ritorno in Europa, avendo ormai accumulate sufficienti ricchezze per potere vivere comodamente nei loro paesi. Il marchese di Montelimar era partito il giorno innanzi, non senza pronunziare parole di vendetta contro la giovane meticcia e anche contro il conte. La traversata dell'istmo di Panama fu compiuta a piccole tappe, per non stancare eccessivamente la sorella del conte, e dodici giorni dopo, la piccola carovana giungeva felicemente nel minuscolo porto di Riva dove da tre mesi trovavasi all'âncora la fregata, innalzando lo stendardo di Spagna per farsi credere, dai pochi abitanti della costa, una nave incaricata d'impedire lo sbarco dei legni filibustieri provenienti dalla Tortue. Una scialuppa già aveva raggiunta la spiaggia e si preparava ad imbarcarli, quando il guascone, che durante tutto il viaggio pareva avesse perduto il suo buon umore, trasse in disparte il conte e Mendoza, e disse loro: - Signori, io devo dichiararvi che non ho alcun desiderio di far ritorno in Europa. Per me è questo un grande colpo, tuttavia spero, col tempo, di potermi consolare. Non dimenticate però, signor conte, che la mia spada sarà sempre a vostra disposizione nel caso che vi fosse ancora necessaria. - Che cosa dite, signor di Lussac! - esclamò il figlio del Corsaro Rosso veramente sorpreso. - Oggi siete abbastanza ricco per riparare il vostro castelluccio di Guascogna e coltivare tranquillamente viti e mele. - Che cosa volete, signor conte? Ho quarant'anni e sento un desiderio irresistibile di avere una famiglia. - Ah! ... Birbante! - gridò Mendoza, mentre don Ercole, il quale si era avvicinato al gruppo, scoppiava in una risata. - Si è innamorato della bella sivigliana! ... - Avete indovinato, compare, - rispose don Barrejo. - Di quella graziosa vedova ne farò una signora de Lussac e venderemo vini di Spagna e di Francia all'insegna della Draghinassa guascone! L'indomani, mentre don Barrejo o meglio il signor de Lussac, dopo commoventi addii, riprendeva la via di Panama per raggiungere la sua bella, la fregata spiegava le vele, dirigendosi verso il Capo Tiburon. Anche il figlio del Corsaro Rosso aveva lasciato, al pari del guascone, una gran parte del suo cuore in America, ma voleva riportarlo in Europa unitamente ad un altro che già da tanto tempo batteva insieme al suo: quello della marchesa di Montelimar. E cosí infatti avvenne. Venti giorni piú tardi la magnifica fregata del conte lasciava, durante una notte oscurissima, per sfuggire le crociere spagnuole, l'isola di San Domingo, portando con sé una signora di piú e tre uomini di meno. La bellissima marchesa aveva dato senza rimpianti un addio all'isola, dopo aver affidate le sue immense piantagioni a Buttafuoco, a Mendoza ed al fiammingo, tre amici che al pari del guascone non avrebbero ormai piú potuto trovarsi bene fra la civiltà europea. Rivedremo un giorno quei bravi? È probabile, poiché la storia dei filibustieri non è ancora terminata.

Evitando con cura le città ed i villaggi, marciando sempre attraverso le boscaglie per non imbattersi nei corpi spagnuoli che il viceré di Panama, allarmato da quei continui attacchi, aveva lanciato in tutte le direzioni, risoluto a ricacciare in mare quei pericolosissimi nemici, erano giunti felicemente sulle sponde del grande Oceano, impadronendosi per sorpresa di un numero abbastanza rilevante d'imbarcazioni tolte ai pescatori della costa. Non giungevano però a San Giovanni di Pueblo in un momento felicissimo. Pochi giorni prima, una flotta composta di quindici legni spagnuoli aveva fatto la sua comparsa in quelle acque, costringendo Grogner ed i suoi uomini ad abbruciare piú che in fretta la loro fregata e gli schifi che possedevano, perché non cadessero nelle mani dei loro nemici. Fortunatamente gli spagnuoli si erano contentati di portar via le ferramenta del vascello e di distruggere quanto era rimasto di esso, senza osare di inoltrarsi nell'isola. La notizia dell'arrivo del figlio del Corsaro Rosso con Raveneau de Lussan, reduci dalla presa di Pueblo-Viejo, non aveva mancato di produrre una profonda emozione e anche di rialzare immensamente il morale dei filibustieri i quali, distrutta la loro flottiglia, non si trovavano piú in grado di riprendere le loro scorrerie verso il continente. Grogner, avvertito dell'approdo del nipote del famoso Corsaro Nero e cugino del non meno famoso Morgan, il conquistatore di Panama, si era affrettato a muovergli incontro. Già la notizia che un parente dei piú celebri filibustieri del Golfo del Messico veleggiava in quelle acque, era giunta fino all'isola. Grogner non era un gentiluomo come Raveneau de Lussan, tuttavia godeva fama di essere uno dei piú arditi corsari di quell'epoca. Aveva esordito, come quasi tutti i filibustieri, come mozzo; aveva combattuto in Francia, in Inghilterra ed in Olanda, poi era passato in America, desideroso di fare una rapida fortuna. Era giunto però troppo tardi, quando ormai le città del golfo del Messico erano state completamente rovinate dall'Olonese, da Montbars, dai tre corsari, da Grammont, da Wan Horn, da Morgan e da tanti altri non meno famosi. Aveva quindi seguito le tracce di Davis, girando il capo Horn ed era giunto ancora in tempo per fare dei bei colpi contro le cittaduzze dell'America centrale, aiutato da trecento disperati, che non avevano paura né degli archibugi, né delle artiglierie spagnuole e tanto meno delle loro squadre. Narrano le cronache di quel tempo che rassomigliava un po' a Morgan e che quantunque di statura mediocre possedeva una forza muscolare straordinaria ed un coraggio a tutta prova. Come abbiamo detto, udendo che il capo dei filibustieri sbarcato a San Giovanni di Pueblo era il figlio del Corsaro Rosso, si era affrettato a muovergli incontro, dicendogli: - Signor conte, vi si aspettava qui. Tutti i vecchi filibustieri hanno conosciuto e hanno combattuto sotto il comando dei tre corsari che hanno portato, sia pure per una loro vendetta privata, un terribile colpo alla potenza spagnuola del Golfo del Messico. Ecco la mia mano, ed ecco i miei uomini pronti a seguirvi dove voi vorrete. - Era appunto di voi che io avevo bisogno, - rispose il corsaro. lo sono venuto qui per proporvi una terribile impresa. - Voi sapete, signor conte, che nessuna impresa ha spaventato mai i Figli della Costa, come ci hanno chiamato noi per tanti lustri. Che cosa volete da noi? ... - La conquista di Nuova Granata, - rispose il signor di Ventimiglia. - Diamine, - disse Grogner. - È come domandare la testa del governatore di Panama o la presa di Messico o di Cuzco. Nuova Granata è una delle città piú fortificate del Nicaragua, signor conte. - Avreste paura? La prenderemo io ed il signor di Lussan. - Diamine, non correte tanto, signor conte. Là vi sono dei tesori favolosi da raccogliere ... - Che io sono pronto a rinunciare a beneficio dei vostri uomini e di quelli del signor di Lussan. - Si sa che i tre famosi corsari erano ricchissimi, - rispose Grogner. Che cosa chiedete per vostra parte? - Un uomo. - Un prigioniero? - chiese con stupore il filibustiere. - Niente di piú. - Che diavolo! ... Un uomo prezioso senza dubbio. - Il marchese di Montelimar. - Il governatore di Pueblo-Viejo? - Precisamente. - Vi è scappato? Mi hanno detto che voi avete presa d'assalto quella città, signor conte. - Ma ho avuto il torto di giungere troppo tardi, signor Grogner. - Quanti uomini avete? - Centocinquanta, con quelli di Raveneau de Lussan. - Ed altrettanti ne ho io, - rispose Grogner. - Se Pietro l'Olonese con un terzo delle nostre forze ha espugnato Maracaibo e poi Gibraltar, io sarei ben sorpreso se non si potesse prendere d'assalto Nuova Granata, prendere il marchese, molte piastre e fare anche parecchi prigionieri, signor conte. Voi avete sette schifi, mi hanno detto. - Sí, signor Grogner. - Il marchese è in quella città? - Ne sono sicuro. - Via - disse il filibustiere, dopo qualche istante di silenzio. Andremo a vedere se i cannoni che difendono il forte di Nuova Granata saranno carichi con ferro o con acqua calda. Al figlio del Corsaro Rosso un filibustiere che si rispetta non può rifiutare nulla. Signor conte, vi offro ospitalità nella mia povera tenda e domani partiremo. - Ecco un uomo, - disse don Barrejo, il quale aveva assistito al colloquio, tenuto sulla spiaggia, rivolgendosi verso i due inseparabili amici: il fiammingo e Mendoza. - Un vero filibustiere, - rispose il basco. - Siete mai stato in quella città, signor Mendoza? - Siccome non ho mai avuto alcuna premura di prendere un passaporto per l'altro mondo, cosí mi sono sempre ben guardato di mettere i piedi nelle città difese da troppi cannoni. - Troveremo delle taverne, io spero! ... - Che i granatini bevano dell'acqua? - disse il fiammingo. Io non lo crederò mai. - E nemmeno io, don Barrejo, - aggiunse Mendoza. - Là troveremo forse delle botti migliori di quelle che abbiamo assaggiato a Pueblo-Viejo. Granata fornisce di vini Panama e, siccome a Panama si trovano un viceré e degli altissimi funzionari, sono piú che certo che troveremo delle cantine meravigliosamente fornite. Mi stupite però, signor guascone. - Perché? - chiese lo spadaccino. - Si direbbe che voi siete diventato un filibustiere piú pel desiderio di assaggiare i vini spagnuoli che per avidità di guadagno. Eppure i dobloni non vi spiacciono, mi pare. - Quelli verranno piú tardi, - rispose il guascone. - Cerchiamo un posto dove si possa mangiare e bere. Qualche doblone passeggia ancora per le mie tasche e se si può berlo e mangiarlo, niente di meglio. Diamine! ... Un guascone è sempre generoso. Non era difficile all'isola di S. Giovanni di Pueblo spendere dei denari, poiché i filibustieri che vi si erano rifugiati ne avevano fatto, come abbiamo detto, una piccola Tortue. Malgrado le continue minacce degli spagnuoli, quei formidabili scorridori del mare si divertivano allegramente, profondendo le ricchezze guadagnate nei saccheggi, con una prodigalità da nababbi. Dei meticci, giunti dal continente ben provvisti di viveri e soprattutto di vini e di liquori, avevano piantate le loro baracche, vendendo a prezzi esorbitanti i loro generi. I filibustieri, da veri ladroni, non badavano a pagare. Che cosa costava d'altronde a loro il denaro? E come ne erano sempre ben provvisti! ... I tre compagni si cacciarono quindi sotto una immensa tenda, dove molti uomini bevevano allegramente o giuocavano o danzavano con alcune prigioniere spagnuole al suono di alcune chitarre suonate da negri. - Questo è il paese della cuccagna, - disse don Barrejo, sedendosi all'estremità d'una lunghissima tavola. - Io scommetto che le donne spagnuole non si sono mai divertite tanto, come quando si sono trovate con questi briganti. - Adagio, signor guascone, - rispose il basco. - Talvolta questi divertimenti costano cari alle prigioniere ed ai prigionieri. - Perché? Non si rispettano quelle signore? - Anzi si rispettano moltissimo e guai al corsaro che osasse comportarsi da villano contro le prigioniere. Talvolta però giungono i giorni tristissimi ed i sorrisi di quelle disgraziate si tramutano in lagrime di sangue. - Che cosa volete dire? - Che quando i loro parenti ed i governatori non mandano i riscatti, i filibustieri non esitano a far estrarre ai prigionieri, siano uomini o donne, la sorte. - E cosí? - Quello o quella che ha avuto la sfortuna di levare una palla nera, si decapita e la testa si manda al governatore per costringerlo a pagare. - Ciò è brutto. - Che cosa volete? È la guerra. Gli spagnuoli d'oltremare non sono piú generosi e quando riescono a prendere qualcuno di noi l'appiccano senza misericordia. - Guardiamo dunque di non farci prendere, - disse il fiammingo. Si fecero portare delle bottiglie e del prosciutto salato e si misero a bere ed a mangiare. Avevano però appena vuotata qualche tazza, quando un rimbombo assordante li fece balzare in piedi. - Il cannone! - aveva gridato don Barrejo. Tutti i filibustieri che si trovavano sotto la tenda si erano precipitati fuori, prendendo i loro archibugi, mentre le donne strillavano ed i chitarristi scappavano, gettando via gli istrumenti. - Che cosa succede dunque? - chiese il guascone, snudando la sua draghinassa. - Queste sono cannonate spagnuole, - rispose Mendoza. A loro volta erano corsi fuori, slanciandosi verso la piccola baja dove trovavasi ancorata la flottiglia dei filibustieri, la quale si componeva d'un vascello e d'una mezza dozzina di barcaccie. Una grande confusione regnava sulle sponde del porticino, dove si erano radunati tutti i filibustieri dell'isola. Vi erano anche il conte di Ventimiglia, Grogner e di Lussan. In lontananza il cannone continuava ancora a tuonare. Quindici vascelli muovevano lentamente verso l'isola, disposti su due colonne. Era la flotta spagnuola del Pacifico, incaricata di impedire il passo ai corsari che provenivano dal Capo Horn o dallo stretto di Magellano, flotta imponente che avrebbe potuto purgare per sempre quei mari da quegli audaci ladroni, se l'avessero voluto. - Signor conte, - disse Grogner al figlio del Corsaro Rosso, con voce un po' alterata. - Siete giunto in un cattivo momento. - Non mi pare, - rispose il signor di Ventimiglia, - poiché vi ho condotto dei rinforzi. - Non potremo resistere ad una squadra cosi potente. Non ho che un vascello e delle barcaccie. - Fate tirare a terra le barcaccie e gli schifi e nascondeteli sotto le foreste. - Ed il vascello? - Incendiatelo perché non venga preso dagli spagnuoli. Spicciatevi, signor Grogner e poi ritiriamoci nell'interno dell'isola. Se vorranno assalirci, sapremo difenderci. Gli ordini furono subito dati. Mentre una partita di corsari saliva a bordo della nave, radunando quanto catrame si trovava nella stiva e lo incendiava, gli altri s'affannavano a mettere in salvo le migliori barcaccie e le scialuppe, per non rimanere sprovvisti completamente di mezzi di trasporto, capaci più tardi di far loro raggiungere il continente. La squadra spagnuola, sicura del fatto suo, aveva intanto incominciato a sparare tremende bordate, specialmente contro il vascello il quale già era stato sgombrato rapidamente. - Perdinci! - esclamò il guascone. - Questa volta gli spagnuoli fanno sul serio. Signor basco, giacché i nostri compagni scappano, lavoriamo di gambe anche noi. I colpi di spada li ricevo volentieri, ma non ho provato mai alcuna affezione per le grosse palle che tagliano in due senza nemmeno dirvi: guarda che ti ammazzo, imbecille! I filibustieri infatti, messe in salvo le imbarcazioni, scappavano da tutte le partì, mentre i proprietarii delle baracche, aiutati dai loro negri, cercavano di portare via il meglio che possedevano, per non lasciarlo cadere nelle mani degli spagnuoli. Le cannonate intanto non cessavano. Le palle cadevano come una fitta gragnuola sulla spiaggia e sul vascello, il quale già avvampava rapidamente, eruttando dai boccaporti spalancati immense nuvole di fumo. Era una squadra veramente imponente, composta di galeoni, di fregate e di grosse caravelle e montata da duemila marinai. I filibustieri, guidati dal signor di Ventimiglia, da Grogner e da Raveneau de Lussan, si erano intanto affrettati a mettersi in salvo su una collina situata quasi nel mezzo dell'isola e perciò fuor di portata dalle artiglierie della flotta; artiglierie, che come abbiamo detto, in quei tempi avevano una portata molto limitata. Erano tuttavia assai inquieti, temendo un poderoso assalto da parte degli equipaggi. Fortunatamente nulla di grave accadde. La squadra, dopo aver cannoneggiate le baracche, sbarcò alcune centinaia d'uomini per raccogliere le ferramenta del vascello corsaro distrutto dall'incendio, e qualche ora dopo riprendeva la sua rotta veleggiando verso Panama. - Corpo di un bue! - esclamò il guascone, il quale osservava tutte quelle navi maestose, dall'alto della collina. - Avrebbero potuto distruggerci e hanno preferito invece andarsene. Buon viaggio, signori e che Dio vi guardi dalle tempeste. Si levò il feltro e salutò la squadra, facendo nel medesimo tempo un inchino cosí profondo da far scoppiare dalle risa non solamente il basco, bensí anche il conte di Ventimiglia e Grogner che gli stavano presso.

. - Non sono le canne abbastanza alte per nasconderci e poi la luna sorge, - rispose il conte. - Se vi fossero delle macchie! - Ah! ... Il ponte del diavolo! - esclamò in quel momento Mendoza. - Signor conte, a gran carriera. Senza chiedere nessuna spiegazione lanciarono i cavalli ventre a terra, divorando lo spazio con fantastica rapidità. Quella corsa furiosa durò una buona mezz'ora, poi Mendoza la rallentò, dicendo: - Ci siamo. Cinquanta passi piú innanzi vi era un ponte in muratura; assai largo, gettato su un fiume poverissimo d'acqua. Mendoza balzò a terra, prese il cavallo per le briglie e s'avanzò rapidamente verso la riva, dicendo: - Seguitemi, signor conte. - Perché vuoi farci guadare il fiume? - chiese il corsaro. Nemmeno sull'altra riva vedo delle macchie bastanti per nasconderci. - E la vôlta del ponte, non la contate? ... I cavalieri che c'inseguono ci passeranno sopra, senza minimamente sospettare che quelli che cercano si trovano invece sotto. - Ohé, compare, diventate molto furbo, a quanto pare, - disse il guascone. - Sono anch'io del mar di Biscaglia. Affrettiamoci, signori, anche gli spagnuoli avranno udito il nostro galoppo e avranno precipitata la corsa. Scesero la riva e condussero i cavalli sotto il ponte, immergendosi nell'acqua fino alle ginocchia. - Avvolgete le teste dei nostri corsieri nelle gualdrappe, - disse il conte. - Potrebbero nitrire e tradirci. I tre spadaccini furono lesti ad obbedire. Il galoppo dei cavalli intanto diventava di momento in momento piú fragoroso. Gli spagnuoli dovevano aver udito anche quello prodotto dai cavalli dei fuggiaschi e si erano pure lanciati ventre a terra. Il conte e Mendoza si erano nascosti dietro la pila del ponte, per meglio accertarsi con chi avevano da fare, mentre il guascone ed il fiammingo trattenevano con mano salda i quattro corsieri. - Non devono essere lontani piú di mezzo miglio, - disse il signor di Ventimiglia al fedele basco. Credi tu che sia proprio il marchese? - Scommetterei dieci dobloni contro una piastra, signore. Don Barrejo ha fatto male a lasciare libero quel meticcio. - Volevi tu che lo scannasse in pieno giorno? - Poteva aspettare la sera e portarlo via. - A tutto non si pensa sempre ... eccoli ... non ti far vedere. Il mezzo squadrone del marchese di Montelimar, perché era proprio quello che don Juan de Sasebo gli aveva affidato, giungeva a corsa sfrenata, con un fracasso indiavolato. Il conte udí distintamente il marchese a gridare: - Spronate sempre: non devono essere lontani. I cinquanta cavalieri passarono come un uragano sul ponte e scomparvero in mezzo ad un fitto nuvolone di polvere. - Grazie, Mendoza, - disse il conte, battendo sulle spalle del basco. - Tu ci hai salvati. - Senza dare un colpo di spada né sparare una pistolettata - rispose il filibustiere. - La vostra e anche la mia salvezza non mi è costata troppe fatiche. - Ma senza la tua idea a quest'ora saremmo nelle mani del marchese ed avrei forse fatta la fine di mio padre. Per quanto valorosi si possa essere, non si può sostenere l'urto di un mezzo squadrone. - Signor conte, - disse il guascone avvicinandosi coi cavalli. - Rimontiamo in sella? - Preferisco rimanere qui per qualche ora, cosí i cavalli si riposeranno pienamente. Lasciamo che il marchese corra dietro alle nostre ombre. - Temete che ritorni? - Chi può dirlo? Non trovandoci su questa via, potrebbe distaccare un manipolo dei suoi cavalieri e rimandarli indietro a perlustrate le piantagioni. - Pure io non perderò inutilmente il mio tempo signore. Vi piacciono i gamberi? - Diventate pazzo, don Barrejo? - Niente affatto, signor conte. Ne ho sorpreso uno attaccato ai miei stivali ed era grosso, chiedetelo a don Ercole che se l'è mangiato vivo, senza dividerlo con me. Il fiammingo si limitò a scoppiare in una risata. - Ecco che anche i taciturni figli della Fiandra in nostra compagnia diventano allegri e burloni, - disse don Barrejo. - Che cosa avete voi nelle vostre vene? - chiese il conte. - Siamo appena sfuggiti a un cosi grave pericolo e scherzate. - Che cosa volete, signor conte? Il sangue guascone è cosí. Don Ercole legate i cavalli e cerchiamoci una deliziosa colazione per domani mattina. Io adoro i gamberi, quando però sono dentro il mio ventre. L'indiavolato avventuriero, senza pensare che gli spagnuoli potevano tornate da un momento all'altro, accese un pezzo di miccia ed aiutato dal fiammingo si mise a rovistare le pietre che si trovavano sotto il ponte, tuffando le braccia nell'acqua fresca del fiumiciattolo. Dovevano abbondare davvero in quel luogo i gamberi, poiché i due compari in meno di mezz'ora empirono le fonde dei quattro cavalli, dopo di averle vuotate di quanto contenevano. Alle due del mattino il conte, non udendo piú alcun rumore nei dintorni del corso d'acqua, diede il segnale della partenza. Rimontarono la riva non senza qualche fatica e spinsero i cavalli a piccolo trotto sempre pel timore di veder ricomparire da un momento all'altro i cavalieri del marchese. La notte era sempre splendidissima, e la luna irradiava le piantagioni sterminate di raggi azzurrini, permettendo cosí ai quattro avventurieri di poter scorgere da lontano i loro nemici. Sorvegliavano però attentamente i margini della strada, i quali s'affondavano in certi fossati molto propizi per una imboscata. Alle quattro del mattino intrapresero la salita di alcune colline boscose dietro le quali, alla distanza di tre o quattro leghe, doveva trovarsi la salda fortezza di Guayaquil. Del marchese e dei suoi cavalieri fino allora nessuna nuova. Avevano continuata la loro corsa verso la città o si erano fermati in qualche luogo per perlustrare le piantagioni? Qualche ora piú tardi, raggiunta la cima della prima altura e trovato un piccolo bosco, si accamparono. Base della colazione, non importa dirlo, furono i gamberi raccolti dal guascone e dal fiammingo, appena abbrustoliti sulla fiamma e tuttavia trovati da tutti squisitissimi. Stavano per cercare un torrente per dissetarsi, quando i quattro cavalli mandarono dei sonori nitriti e si diedero a scalpitare. - Amici, in guardia! - gridò il conte, correndo verso il suo destriero e staccando rapidamente l'archibugio. - I nostri andalusi hanno fiutato qualche cosa. - Che i cavalli spagnuoli siano come i cani da guardia! - disse il guascone. - In arcione! - comandò in quel momento il basco. Balzarono in sella e riguadagnarono rapidamente la via, lanciando i cavalli a corsa sfrenata. - Che cos'hai veduto dunque, Mendoza, per farci scappare? chiese il conte, quando furono lontani dal boschetto un tiro d'archibugio. - Ho veduto degli uomini che salivano nascostamente il fianco della collina. Cercavano di sorprenderci, signore. - Erano molti? - Non ho avuto il tempo di contarli. Ho scorto degli elmetti e delle canne d'archibugio e nient'altro. - Soldati erano di certo, - rispose il conte. - Amici, armatevi e tenetevi pronti. - Che i gamberi ci portino sfortuna? - si chiese il guascone. - Se sarà vero, non ne mangerò piú in tutta la mia vita. Cavalcavano da dieci minuti, quando un colpo d'archibugio partí dal fossato di destra. Il cavallo di Mendoza spiccò un salto, s'inalberò, poi stramazzò al suolo. Quasi nell'istesso tempo una scarica nutrita partiva dall'altro lato della via, atterrando i cavalli del conte e di don Ercole. Solo quello del guascone era sfuggito miracolosamente a quella tempesta di palle. - Don Barrejo, salvatevi! - gridò il conte il quale era subito balzato in piedi impugnando le pistole. - Ve l'ordino! ... Siamo presi! Il guascone fece fare al suo cavallo un volteggio fulmineo e quantunque il suo cuore sanguinasse pel dispiacere di non poter aiutare i suoi compagni, fuggí a corsa sfrenata verso Panama, pensando, e con ragione, che avrebbe potuto essere a loro piú utile libero che prigioniero. Il brav'uomo in un lampo aveva fatto subito il suo progetto. Correre a Panama, raggiungere Taroga ed avvertire Grogner e Raveneau de Lussan. Il conte aveva aspettato a piè fermo gli spagnuoli, mentre Mendoza e don Ercole, rimessisi subito in gambe anche essi, sguainavano le spade. Un uomo era sorto dal fossato di destra, mentre una trentina di cavalleggieri apparivano sul margine di sinistra, tenendo gli archibugi montati. - Pare che siate preso, signor conte, - disse, con ironia. - La resistenza sarebbe impossibile e vi costerebbe probabilmente la vita. - Ah ... Voi, signor marchese! - rispose il corsaro, con voce alterata. - Una volta per uno: prima io prigioniero dei filibustieri ed ora voi prigioniero degli spagnuoli. Gettate la spada e le pistole. Il conte esitava. Se avesse avuto ancora i cavalli vivi, non avrebbe certo tardato a gettarsi furiosamente contro i cavalleggieri spagnuoli, spalleggiato certo vigorosamente dal basco e dal fiammingo. - Prima di arrendermi, - disse, - voglio sapere da voi, signor marchese, che cosa intendete fare di me e dei miei compagni. Se avete l'intenzione di appiccarmi, come avete impiccato mio padre, vi avverto che vi darò battaglia, checché debba succedere e che il primo uomo che cadrà sarete voi, poiché vi tengo sotto il tiro delle mie pistole. - Io non ho alcuna intenzione di farvi del male, signor conte, - rispose il marchese, il quale temeva quei terribili corsari, non meno dei suoi compatriotti. - Io vi condurrò prigioniero a Guayaquil e là attenderete le decisioni che prenderà il presidente dell'Udienza Reale. - Il quale decreterà indubbiamente la mia morte e quella dei miei compagni, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce beffarda. - No, perché la mia autorità pesa sulle decisioni dell'Udienza ed io farò il possibile per ottenere per voi un decreto di espulsione dalle colonie spagnuole dell'America centrale. - Voi però dimenticate per quale motivo io ho lasciato l'Europa. Non già per sete di guadagni, avendo terre e castella nella mia patria da non saperne quasi che cosa fare. Io ho attraversato l'Atlantico per ritrovare mia sorella, la figlia del Corsaro Rosso e nipote del Gran Cacico del Darien. La fronte del marchese di Montelimar si era oscurata. - Sapete voi dove si trova? - chiese dopo qualche istante di silenzio. - Sí, a Guayaquil. - Perché v'interessate tanto di quella giovane meticcia? - Per Bacco! ... È mia sorella! - gridò il conte. - Sapete che io l'ho sempre tenuta come mia figlia e che ella mi ama come se fossi suo padre? - Perché ignora forse che suo padre era un conte di Ventimiglia e che aveva in Europa un fratello. - Questo è vero, - rispose il marchese. - Che cosa risolvete dunque? - Preferirei di non farvela vedere. - Allora vi darò battaglia e vi ucciderò, - rispose il conte, con voce risoluta. - Non abbiate tanta fretta, signor conte. In questo affare noi potremo benissimo intenderci. Lasceremo alla fanciulla la scelta fra me e voi. - Impegnate la vostra parola di gentiluomo? - Sull'onore dei Montelimar. - Basta cosí, - disse il conte. Gettò la spada e le pistole, subito imitato dal fiammingo e da Mendoza. Il marchese si era voltato verso i suoi uomini. - Date tre cavalli a questi signori, - disse. Tre bellissimi morelli andalusi furono condotti. Il conte ed i suoi due spadaccini montarono in arcione, mentre dal margine opposto sbucavano una ventina di cavalleggieri, tutti bene montati e bene armati. - Signor conte, - disse il marchese, salendo pure a cavallo. - Vi prego di seguirmi. - Badate che conto sulla vostra parola - rispose il signor di Ventimiglia. - Vi mostrerò la lealtà dei gentiluomini spagnuoli. D'altronde io non vi odio affatto. - Ciò però non vi ha impedito di tentare d'assassinarmi, - rispose il conte, con ironia. - Avevo i miei motivi per fare ciò, allora. - Avreste ora cambiata idea? - Non ve lo posso dire. L'avete conciato bene quello spadaccino che si vantava di essere invulnerabile. .È bensí vero che i Ventimiglia hanno sempre goduto fama d'essere maestri nelle armi. In quel momento in lontananza si udirono echeggiare degli spari. - Chi fa fuoco? - chiese il corsaro, con apprensione. - Saranno cacciatori, - rispose il marchese. Mentiva. Era una partita dei suoi cavalleggieri che davano la caccia al bravo guascone. Il marchese spronò il suo cavallo ed il mezzo squadrone, diminuito d'una mezza dozzina di cavalieri, riprese, al piccolo trotto, la corsa verso Guayaquil, sorvegliando attentamente i prigionieri. Dopo quattro ore la truppa faceva la sua entrata nella città e andava a fermarsi dinanzi ad un palazzotto di bell'aspetto, circondato da un pittoresco giardino ricco di palme altissime e di banani meravigliosi, le cui immense foglie spandevano intorno un'ombra fresca e deliziosa. Guayaquil si trovava a circa dieci leghe dall'Oceano Pacifico ed era allora famosa per la singolare sua costruzione, poiché le sue case erano per la maggior parte erette sopra una specie di ponti per salvarle dalle frequenti inondazioni. Per le sue ricchezze, era stimata una delle piú ricche dell'America centrale, essendo essa a capo d'una vasta contrada che possedeva preziose miniere d'oro, d'argento e soprattutto di smeraldi. Non contava che qualche decina di migliaia d'abitanti, però era difesa da tre forti giudicati inespugnabili, con una guarnigione di cinquanta uomini ciascuno. Il marchese giunto dinanzi al palazzotto balzò a terra invitando il conte a fare altrettanto, poi entrò nel giardino. - Dove mi conducete? - chiese il signor di Ventimiglia. - A vedere vostra sorella, - rispose il marchese, - giacché desiderate conoscerla. Sarà di certo nel giardino amando l'aria libera. Il dolcissimo suono d'una chitarra giunse in quel momento ai loro orecchi. - Deve essere Neala, - disse il marchese. - È mia sorella che porta questo nome? - chiese il conte il quale appariva assai commosso. - Sí, conte. Il marchese si diresse verso un piccolo padiglione di stile moresco che occupava un angolo del giardino e che era ombreggiato da tre o quattro immense palme a ventaglio e mostrò al conte una giovane di sedici o diciassette anni, che indossava un semplice accappatoio di piccole trine intessute con pagliuzze d'argento e che stava sonando una piccola chitarra. Era una bellissima creatura, alta, slanciata, colla pelle un po' abbronzata, gli occhi nerissimi dal lampo cupo e selvaggio, coi capelli lunghissimi e pure nerissimi intrecciati graziosamente con fiori rossi. Vedendo il marchese si era alzata deponendo la chitarra e atteggiando le labbra ad un grazioso sorriso. - Figlia mia - disse il marchese - non mi aspettavi di certo cosí presto. - No, - rispose la giovane fissando subito sul figlio del Corsaro Rosso i suoi sguardi. - Ti conduco qui un signore che pretende essere tuo fratello e che ... Il conte lo interruppe bruscamente. - Non dite che pretendo, marchese, poiché voi sapete quanto me che mio padre ha sposato la figlia del Gran Cacico del Darien e che questa fanciulla è realmente mia sorella. Io sono nato da padre e da madre bianchi: la seconda moglie di mio padre fu invece una principessa indiana. La giovane meticcia continuava a fissare il corsaro con crescente intensità ed aveva fatto un passo innanzi, come attratta da una irresistibile simpatia. Era certamente il sangue che segretamente parlava. - Figlia mia - riprese il marchese - questo signore che è il Conte di Ventimiglia, vorrebbe strapparti a me e condurti lontano, lontano, in Europa ... - Nei miei castelli, su un mare piú azzurro dell'Oceano Pacifico, dove l'aria è piú balsamica e piú pura che qui - disse il corsaro. - Io sono bianco e voi siete bruna eppure siete mia sorella perché abbiamo avuto lo stesso padre: il Corsaro Rosso, Conte di Ventimiglia signore di Roccabruna e di Valpenta. Che cosa dice il vostro cuore, Neala? Che cosa dice il vostro sangue? Che cosa pensa il vostro cervello? Io ho lasciato l'Europa per venirvi a cercare, ho sfidato mille pericoli, ho combattuto al di là ed al di qua dell'istmo di Panama per venirvi a dire che siete mia sorella. Chi preferite? Il marchese di Montelimar che vi ha adottata come figlia o vostro fratello? Scegliete. Neala rimase per qualche istante ancora silenziosa, poi con uno scatto improvviso si fece addosso al corsaro e gli gettò le braccia al collo, dicendo: - Il cuore ed il sangue hanno parlato: io sono vostra sorella e voi siete mio fratello!

. - Conosco abbastanza bene la città e vi condurrò, se il diavolo non ci mette la coda, in una certa taverna dove, almeno una volta, si bevevano delle deliziose bottiglie di Porto. - Si direbbe che voi conoscete, compare Mendoza, tutte le taverne dell'America nota ed ignota, - disse il guascone. - Voi siete veramente un uomo meraviglioso!.. - Tacete ed allungate invece le gambe, - disse il conte. - Sono certo che c'inseguono. - Gli uomini della caravella? - chiese il guascone. - Sí, don Barrejo. - Ma questi spagnuoli posseggono un fiuto straordinario. Sentono un filibustiere a qualunque distanza. Che le nostre carni siano impregnate d'un odore speciale? - Sí, di polvere da sparo, - disse Mendoza, ridendo. - È vero, signor conte? - Non scherzare, Mendoza, - rispose il signor di Ventimiglia, fermandosi bruscamente. - Non è questo il momento. Zitti tutti! Si erano fermati sull'angolo d'una stretta via, fiancheggiata da catapecchie di brutto aspetto e si erano messi in ascolto. Nel grande silenzio della notte, rotto appena da qualche latrato, si udivano distintamente, a non molta distanza, i passi pesanti d'una ronda. - Ve lo avevo detto io che ci davano la caccia, - disse il conte. Orsú, Mendoza, conducici al piú presto alla taverna che tu conosci. Non ho alcun desiderio di farmi prendere. È lontana? - Meno di quello che credete, signor conte. - Fuori le spade e lasciate in pace le pistole. I quattro corsari imboccarono la viuzza, correndo velocissimi, e s'internarono in un dedalo di stradicciole strette e fangose, e soprattutto oscurissime. Mendoza si era messo alla testa e pareva che non si trovasse affatto imbarazzato sulla via da seguire. Dopo venti minuti, egli si fermava dinanzi ad una casa di modesta apparenza, fiancheggiata a destra ed a sinistra da giardini. Sopra la porta pendeva una grande tavola di legno, la quale doveva servire probabilmente da insegna. - Ecco la posada di Panchita, la bella castigliana, - disse. - Porta un brutto titolo, ma il vino, almeno una volta, era buonissimo. - Come si chiama? - chiese il guascone. - Posada del muerto. - Tonnerre! ... Speriamo di non trovarcelo dentro! - Fa' aprire, - disse il conte. - Mi pare di udire sempre i passi della ronda dietro di noi. Il basco picchiò forte la porta col pomo della sua draghinassa. Un momento dopo una finestra s'apriva discretamente ed una voce femminile e fresca chiese: - La posada non si apre di notte: cercate altrove. - Vi conduco un conte, che pagherà generosamente l'ospitalità, Panchita. - Chi siete voi che mi conoscete di nome? - Un vecchio avventore. Aprite presto, o gettiamo giú la porta. Siamo inseguiti da alcuni banditi che ci vogliono spogliare. - Aspettate un momento. - Se s'indugia un po', la ronda ci capita alle spalle, - disse il guascone. - Signor conte, volete che io vada a fermarla insieme al fiammingo? Se ci vedono entrare qui, domani verranno a scovarci in cinquanta. Il signor di Ventimiglia esitò un momento. - Siete ben sicuri delle vostre spade? - chiese poi. - Rispondo anche di quella di don Ercole. - Se non potete fugare la ronda, ripiegatevi e verremo anche noi in vostro aiuto. - Venite, don Ercole, - disse il guascone. - Fermeremo quei curiosi che non vogliono lasciare in pace degli onesti borghesi come siamo noi. Mentre Mendoza strepitava per far aprire subito la porta, i due spadaccini presero la corsa, dirigendosi verso l'estremità della via. Si udivano in quella direzione dei passi affrettati e anche uno strascicare di spade. Poteva darsi che fossero dei nottambuli un po' allegri che s'affrettavano a tornare alle loro case, ma poteva anche darsi che si trattasse veramente di quella ronda che aveva cercato di sorprendere i quattro corsari, prima che avessero lasciata la calata, e che li avevano seguiti attraverso le viuzze della città. Se sono veramente guardie, cerchiamo di tenerle a bada, finché saremo sicuri che il conte e Mendoza sono in salvo, poi caricheremo e le faremo scappare. Scantonarono l'angolo della via e scorsero tre uomini, i quali affrettavano il passo, tenendo le spade sguainate. Non ci volle molto ai due avventurieri per riconoscere tre soldati della capitaneria incaricati della sorveglianza del porto. - Bell'affare, - disse il guascone. - Voi incaricatevi di quello di destra, io mi prendo quello di sinistra e quello che sta in mezzo. Non abbiate fretta, però, don Ercole. La porta della posada non è stata ancora aperta. Si vede che l'ostessa sta facendo la sua toelette per ricevere degnamente il conte. - Eccoli! - gridò in quel momento una delle tre guardie. Don Barrejo fece un salto indietro e si portò sotto le finestre d'una casa, mettendosi a cantare a mezza voce una canzonetta amorosa. - Che cosa fate? - chiese don Ercole, stupito. - Lasciate fare a me, - rispose il guascone, ridendo. Le tre guardie della capitaneria scantonarono a loro volta e piombarono addosso ai due avventurieri, colle spade alzate, gridando: - Arrendetevi o siete morti! Il guascone si volse tranquillamente verso di loro, mentre don Ercole s'appoggiava contro il muro, perché non lo sorprendessero alle spalle. - Buena noche, caballeros., - disse con voce melliflua. - Che cosa fate qui? - chiese una delle tre guardie. - Facevo una serenata alla mia bella, - rispose il guascone. - Una splendida catalana, sapete, con due occhi che brillano come stelle e ... una bocchina, miei cari signori, da far girare la testa anche al Signor Presidente dell'Udienza reale. - Chi è? - Alto là, signora guardia. Non si deve essere troppo curiosi quando vi è di mezzo una donna, bella come la mia. Se vedeste che capelli ornano quella meravigliosa testina! ... Se il grande Velasquez, il nostro glorioso pittore, fosse ancora vivo, se ne innamorerebbe alla follia e dipingerebbe certamente un quadro meraviglioso. E la carnagione della mia stella ... Le creole di Cuba possono andare a nascondersi: veri riflessi d'alba! ... E le sue manine? Ed i suoi dentini? ... Veri granelli di riso, ve lo giuro sullo spadone arrugginito del mio defunto padre. Mentre il fiammingo faceva sforzi disperati per non scoppiare dal ridere. le tre guardie della capitaneria guardavano stupefatte il guascone, il quale non accennava a finire di decantare le meravigliose bellezze della sua donna. - Ma ... - cominciò finalmente la guardia anziana, la quale cominciava a perdere la pazienza. - Ma che ma! ... Osereste mettere in dubbio le bellezze della mia señorita? Guardatevene, perché io sono un vero caballero; quando si tratta di difendere la donna del cuore, non ho paura nemmeno di due cinquantine. - Io non voglio contraddirvi, quantunque mi sembri impossibile che una cosí meravigliosa bellezza abiti in questa casupola. - Alto là! ... Non offendete il palazzo della mia donna! - disse il guascone, con voce minacciosa. - Quest'uomo è pazzo! - esclamò un'altra guardia. Don Barrejo lanciò un rapido sguardo verso il fondo della via e, non scorgendo piú né il conte né Mendoza dinanzi alla porta della posada, fece due salti indietro, urlando ferocemente: - Io pazzo! ... Ora la pagherai, furfante. Snudò la spada e piombò sulle tre guardie, mentre il fiammingo faceva altrettanto. Gli assaliti indietreggiarono fino sull'angolo della via, poi puntarono le spade, gridando a loro volta: - Arrendetevi alla forza! ... - Eccola, la forza! - rispose don Barrejo. - A voi il magro, don Ercole! ... Insegnerò a questa gente a rispettare la dama del mio cuore. Non scherzava quel diavolo di guascone. Tirava colpi di draghinassa con furia incredibile, validamente appoggiato dal fiammingo, il quale, se parlava poco, agiva molto. Per qualche minuto la via risuonò di colpi fragorosi, poiché, se gli avventurieri picchiavano sodo, nemmeno le guardie della capitaneria si tenevano indietro: poi queste ultime, impotenti a far fronte a quel grandinare furioso, vistesi in procinto di essere infilzate, stimarono piú opportuno voltare le spalle e scappare a gambe levate. Il guascone ed il basco le inseguirono per due o trecento passi, minacciando di fare una vera strage di quei disturbatori degli innamorati; poi, vedendo che continuavano a correre come se avessero alle calcagna una muta di cagnacci, tornarono rapidamente indietro per rifugiarsi nella posada. La porta era stata chiusa, però trapelava attraverso la toppa un filo di luce. Alla prima battuta del guascone si aprí ed i due spadaccini si trovarono in una vasta stanza, piuttosto bassa, dalle pareti un po' affumicate e illuminata da una grossa lanterna. Dinanzi ad una tavola già bene imbandita di cibi freddi e d'un bel numero di bottiglie polverose, stavano seduti tranquillamente il conte, Mendoza ed una bellissima donna sulla trentina, dai capelli nerissimi, adorni con un mazzolino di fiori, due occhi scintillanti, tagliati a mandorla come quelli delle castigliane, e che indossava un ampio nagua a striscie nere e gialle. Il guascone, vedendola, si tolse il feltro e s'inchinò galantemente, con un tonnerre formidabile, aggiungendo subito dopo: - Buena noche, señora! ... Voi somigliate alla donna del mio cuore, sotto la cui finestra poco fa cantavo una canzone d'amore. - Davvero? - chiese il fiammingo, scoppiando in una clamorosa risata. - Voi cantavate sotto la finestra d'una catapecchia, la quale probabilmente serviva d'abitazione a qualche brutta negra. - Tacete, don Ercole, - rispose serio serio il guascone. - Voi non avete mai conosciuti i miei segreti. - E le guardie? - chiese il conte. - Scappate, signore. Ora possiamo cenare tranquillissimi. - Erano molte? - Oh! ... Tre sole, - rispose con noncuranza l'avventuriero. Peccato che la mia bella della catapecchia non abbia assistito agli atti di valore del suo innamoratissimo. - Voi siete pazzo, don Barrejo, - disse il conte. - Me lo hanno veramente detto anche le guardie; io tuttavia non credo di avere ancora il cervello guasto. Gliele ho date però, ve l'assicuro, signor conte, e le ho fatte correre. In Guascogna non ci sono mai stati dei pazzi e nemmeno dei manicomi. - Che paese meraviglioso! - esclamò Mendoza. - Un'altra volta voglio nascere dall'altra parte del mar di Biscaglia! ... - E farete bene, però mi pare che sarebbe meglio mostrare a quella deliziosa ostessa come sanno lavorare di denti i guasconi ed anche i fiamminghi, è vero, don Ercole? Se il conte ci permette? ... - Metteteli pure in opera, - rispose il signor di Ventimiglia. - Mi rincresce che manchi qui un po' d'antipasto. Ah! ... Come divorerei in contraccambio i bellissimi occhi di questa simpatica catalana! ... - No, sivigliana, - disse Mendoza. - Sempre occhi delle belle spagnuole, - rispose il guascone, con un sospirone, mentre si tirava dinanzi un paio di tondi ben pieni di pesci arrostiti e si empiva il bicchiere. Don Ercole, degnatevi di imitarmi. Anche voi, signora, se non avete cenato col signor conte. La bella ostessa scoppiò in una risata argentina. - Io non sono una signora, caballero, - disse, mostrando due magnifiche file di denti. - Sono la padrona d'una povera posada. - Per un guascone, una donna è sempre una signora, - rispose don Barrejo, il quale però, pur chiacchierando, divorava come un lupo e vuotava bicchieri di eccellente Porto, aiutato vigorosamente dal taciturno fiammingo. - E poi, pei vostri magnifici occhi un guascone si farebbe uccidere. - Che cosa sono questi guasconi? - chiese la bella castigliana. - Dei parenti prossimi del diavolo, - rispose Mendoza, il quale faceva gli occhi di triglia alla vezzosa ostessa. - Misericordia! - esclamò Panchita, facendosi precipitosamente il segno della croce. - Compare, - disse il guascone, guardando con un certo cipiglio il basco. - Anche al di là del mar di Biscaglia si dice che vivano dei prossimi parenti di Belzebú. Sareste geloso di me? - Don Barrejo, - disse il conte, - vorreste attaccare lite? - No, signor di Ventimiglia: in questo momento preferisco attaccarmi alle bottiglie di questa graziosa castigliana. Tonnerre! ... Va giú come l'acqua, è vero, don Ercole? - Come l'olio, - rispose il fiammingo. - Señora, spero che ne avrete molte di queste, nella vostra cantina. - Mio marito l'ha provveduta per bene prima di morire. - Ah! ... Vostro marito è morto? - Durante una contesa avuta una sera con un filibustiere. - Pessima gente quei bricconi, - disse don Barrejo. - Ammazzano sempre! ... Quelli sono veri figli di Belzebú. Oh! ... La finiranno anche loro. Señora, un'altra bottiglia del vostro Porto. La vuoterò tutta alla vostra salute, parola di gentiluomo. - Voi, don Barrejo, siete una spugna, - disse il conte. - Io e don Ercole abbiamo battagliato contro le guardie della Capitaneria del Porto, signor di Ventimiglia, e, quando si combatte, la sete viene sempre, almeno ai guasconi. - E anche ai fiamminghi, a quanto pare, - aggiunse Mendoza. Don Ercole, invece di rispondere, si accontentò di versare attraverso la sua bocca di lupo nordico l'ultimo bicchiere rimasto sulla tavola. La taverniera giungeva in quel momento portando un cesto pieno di bottiglie. Il conte aveva già, prima dell'entrata dei due avventori, posato sull'angolo della tavola un bel mucchio di piastre, poteva quindi fornire abbondantemente da bere e realizzare nel medesimo tempo un bel guadagno. - Ora, donna Panchita, parliamo, - disse il conte, mentre Mendoza e don Barrejo continuavano a sturare bottiglie. - Io sono venuto qui per chiedervi una informazione. - A me, signor conte! - esclamò la bella castigliana, con stupore. - Avete molte conoscenze in città. - Sono nata qui. - Avete mai udito nominare un certo don Juan de Sasebo, consigliere dell'Udienza Reale di Panama? La castigliana pensò un momento, poi rispose: - Sí, io ho avuto occasione di fornire a quel consigliere del mio vino. - Quello doveva essere un gran furbo, - disse il guascone. Sapeva dove poteva trovare il buon vino. - Allora voi sapete, Panchita, dove abita, - riprese il conte. - In calle dell'Arameio. - Siete certa di non ingannarvi? - Certissima, signor conte. Sono andata io coi miei due servi a portargli una cinquantina di bottiglie. - Tonnerre! ... Bevono i consiglieri dell'Udienza Reale di Panama! - borbottò il guascone. - E poi danno a me della spugna! ... - È lontana da qui la sua abitazione? - riprese il signor di Ventimiglia. - Si trova di fronte al palazzo del Viceré. - Lo sai tu, Mendoza? - Saprò trovarlo, - rispose il basco. - Che uomo è quel don Juan de Sasebo? _ chiese il corsaro alla bella castigliana. - Sulla quarantina e uomo coraggiosissimo, perché si dice che un tempo fosse stato aiutante di campo del re di Spagna o d'uno dei suoi parenti. - Sapete dirmi altro? - No, signor conte. - Avrete cinquanta piastre per le informazioni datemi. - Voi siete troppo generoso. Che cosa posso fare per voi? - Darci una stanza o due per poterci riposare alcune ore, - rispose il signor di Ventimiglia. - Non ne ho che una, con sei lettucci che in questo momento sono tutti vuoti. - Non chiedo di piú. Il conte si era alzato. I tre avventurieri, che avevano già dato fondo anche a parecchie altre bottiglie, si erano pure levati. L'ostessa accese una candela di sego e salí una scala, introducendo i suoi ospiti in uno stanzone, che era occupato da un bel numero di letti tutti vuoti. Appena entrati, furono colpiti da uno strano fragore che si ripercuoteva al di fuori. - Che cos'è questo? - chiese il conte. - È il fiume che passa proprio sotto la posada, signore, - rispose la castigliana. - E che ci canterà la ninna nanna, - aggiunse il guascone, per farci addormentare piú presto. Badate di non dormire coi due occhi chiusi, - disse il conte. Che cosa temete, signore? Chi mi assicura che gli uomini che avete fugati non tornino per cercarvi? - Tanto peggio per loro, signor conte. Io e don Ercole ci siamo accontentati di battagliare; se ci compariscono dinanzi un'altra volta, li uccideremo, è vero, signor fiammingo? - Certo, - rispose l'omaccione. - E se tornassero in buon numero? - disse Mendoza. - Forse che noi non siamo le quattro piú formidabili lame della filibusteria? - rispose don Barrejo. - Corichiamoci, - disse il conte. - Dormiremo con un occhio aperto. - Buona notte, caballeros, - disse la bella sivigliana. Il guascone fece un galante inchino, dicendo: - Bella signora, io vi contraccambio l'augurio e cercherò di sognare i vostri occhi fulgidissimi. Voi cercate di sognare almeno i miei baffi. L'ostessa scappò via, ridendo, mentre i quattro avventurieri si gettavano vestiti sui letti, mettendosi accanto le spade e le pistole, non essendo proprio sicuri di passare la notte tranquillamente. Purtroppo erano stati buoni profeti! Sonnecchiavano da un paio d'ore, quando furono bruscamente svegliati da alcuni colpi sonori picchiati contro la porta della posada. Il conte ed il guascone erano stati i primi a gettarsi giú dai letti. - Tonnerre! - esclamò quest'ultimo, afferrando la sua draghinassa. Che non si possa dormire cinque minuti a Panama? Queste sono le guardie, - disse il conte, aggrottando la fronte. In quel momento la porta della stanza si aprí e comparve l'ostessa, appena coperta da una manta rigata, in preda ad un vero spavento. - Caballeros, - disse, con voce affannata. - Vi sono giú dieci o dodici guardie del porto, che domandano di perquisire la fonda. - È profondo il fiume? - chiese il conte. - Profondissimo, caballero. - Potete tenere a bada quegli uomini per qualche minuto? - Dirò loro che mi lascino almeno il tempo di vestirmi. - Quella finestra dà sul fiume? - Sí, caballero. - Noi scapperemo di là; ci permettete di rivedervi? - La mia fonda è sempre aperta per voi, signor conte. - Ritorneremo domani sera. Si tolse da una tasca una borsa ben fornita e gliela mise nelle mani, dicendole: - Addio, bella vedova: conto sulla vostra furberia. I colpi risuonavano piú sonori: le guardie picchiavano furiosamente coi calci degli archibugi e colle impugnature delle spade, gridando con voce minacciosa: - Aprite o gettiamo giú la porta! ... Ordine del viceré! Mentre l'ostessa usciva correndo, per rispondere, il guascone spalancò la finestra che dava sul fiume. Un corso d'acqua, piuttosto impetuoso, scorreva sotto la posada, lambendone la parete. Il conte s'affacciò e lanciò un rapido sguardo. - Quello che mi rincresce, - disse, - è di dovere bagnare le pistole. Bah! ... Ci rimarranno le spade, è vero, don Barrejo? - Talvolta sono piú preziose delle armi da fuoco, perché almeno sono piú sicure, - rispose il guascone. - Sapete tutti nuotare? - Tutti! - risposero ad una voce i tre avventurieri. - Saltiamo, prima che le guardie buttino giú la porta. - A me prima, signor conte, - disse il guascone. Salí sul davanzale, si assicurò bene la draghinassa e saltò risolutamente nel fiume, il quale scorreva quattro metri piú sotto. - È profonda l'acqua? - chiese il conte, quando lo vide ricomparire. - Si nuota magnificamente, - rispose il guascone. - Giù tutti! Uno dietro all'altro saltarono e trovarono tanta acqua da sprofondare, senza toccare il letto del fiume e da ritornare, senza incidenti, a galla. La corrente, che era rapidissima, li prese e li trascinò via. Erano però tutti abilissimi nuotatori e, quantunque i gorghi cercassero di quando in quando di subissarli e di attirarli nei loro giri vorticosi, dopo quattro o cinquecento metri presero terra a breve distanza l'uno dall'altro. - Con una notte cosí afosa, un bagno non fa veramente dispiacere, disse Mendoza. - Specialmente quando salva la pelle, - aggiunse il guascone, il quale si stringeva addosso i panni per sbarazzarsi dell'acqua che li inzuppava. Il conte si era affrettato a salire la riva, per vedere dove avevano approdato. Si trovavano sul margine d'una piantagione di zucchero, coperta di canne altissime le quali potevano offrire un ottimo rifugio. Era molto difficile che le guardie andassero a scovarli fino là, quindi pel momento nulla potevano temere. - Che cosa faremo, ora? - chiese il guascone. - Qui non vedo né una posada, né una taverna, né una venta. - Vorreste bere ancora, don Barrejo? - chiese il conte. - Eh! ... Se fosse possibile vuotare qualche bottiglia di Alicante per asciugarsi piú presto, non ne sarei dispiacente, - rispose il guascone. - Succhiate una canna da zucchero. Qui ve ne sono delle centinaia di migliaia. - Le lascio ai fanciulli, signor conte. - Allora aspettate che il sole vi asciughi. Noi non possiamo rientrare in città, inzuppati come siamo. E poi non dimenticate che oggi o questa sera dovremo fare una visita. - Ad una taverna? - A don Juan de Sasebo. - Volete proprio vederlo? - Se il marchese di Montelimar non mi ha ingannato, mia sorella si trova nelle mani di quel consigliere. - Allora andremo a prenderlo pel collo e, se resisterà, stringeremo forte. Io mi domando che cosa faremo noi, intanto? - Guardate ed imitatemi, - disse Mendoza. Estrasse la draghinassa e cominciò ad abbattere le canne, formandone in terra un fitto strato. - Signor conte, - disse poi. - Potete coricarvi e terminare il sonno cosí malamente interrotto dalle guardie. Qui nessuno verrà di certo ad importunarci. Il guascone ed il fiammingo non avevano indugiato a fare altrettanto, sicché in pochi minuti si prepararono un giaciglio, se non troppo comodo, per lo meno bene asciutto. - Dormiamo, in attesa che il sole renda le nostre vesti almeno un po' presentabili, - disse il conte. Si gettarono sullo strato di canne, uno presso all'altro ed essendo la notte caldissima non tardarono ad addormentarsi, quantunque fossero ancora inzuppati d'acqua. Quando si svegliarono, le loro vesti erano perfettamente asciutte ed il sole già molto alto. La piantagione era sempre deserta, non essendo ancora giunto il momento di procedere al taglio della preziosa canna. - Andiamo a fare una prima esplorazione in città, - disse il conte. - Voglio assicurarmi se veramente il consigliere abita là dove ci ha indicato la bella castigliana. Siate prudenti e non commettete gradassate: lo dico specialmente a voi, don Barrejo. - Sí, prometto di essere tranquillo come un agnello dei Pirenei, - rispose il guascone. - No, come un montone, - disse Mendoza. - Vada anche pel montone! ...

Quell'ascensione durò un paio di minuti, poi i tre corsari si trovarono in una piccola stanza o, meglio, in una specie di solaio illuminato da una sola finestra, abbastanza vasta perché un uomo potesse passarvi. - Dove siamo? - si chiese il conte. - In qualche nido di gufi - rispose Mendoza. - Di quassú si scorgono dei tetti. - Questo deve essere uno dei quattro pinnacoli che adornano il palazzo - disse Martin. - Siamo diventati falchi, camerata. - Meglio falchi che gente da appiccare, mio caro Mendoza - rispose il conte. - Non dico di no, signore. Ai baschi come me non è mai piaciuta la corda, specialmente quando è stata intrecciata dagli spagnuoli, perché è la piú pericolosa, almeno per le persone della nostra specie. - Eppure sei uno stretto parente degli spagnuoli. - È vero, capitano, ma non sono mai andato d'accordo con loro. - E questo è forse un male - rispose il conte. - Avresti almeno potuto pregarli di lasciarci libero il passo per raggiungere la fregata. - Uhm! - fece Mendoza, strappandosi tre o quattro capelli - I castigliani non sono cosí ingenui. Mi avrebbero senz'altro preso ed appiccato al piú alto pennone dei loro galeoni, come un pirataccio qualunque. - Cosí, dovremo rimanere in questo nido di avvoltoi o di gufi, come tu hai detto, finché la marchesa non avrà trovato un modo qualunque per farci scappare. - Voi non avete pensato, signor conte, che tre metri sotto di noi vi sono dei tetti. - Che cosa vuoi dire, Mendoza? - chiese il figlio del Corsaro Rosso, colpito da quella risposta. - Che si potrebbe spiccare un salto e andarcene tranquillamente, prima che quei dannati alabardieri ci facciano vedere i loro elmetti. - E andarsene come ladri, senza nemmeno avvertire la generosa donna che ha cercato di salvarci? Dov'è la galanteria, Mendoza? - Quando si tratta di salvare la pelle, io non mi occupo mai della galanteria, signor conte. Io non sono che un marinaio. - Allora serba i tetti per piú tardi - rispose il figlio del Corsaro Rosso. - Io e Martin aspetteremo finché voi vorrete, signor conte. Sapete bene che siamo uomini d'arme e che non ci è mai spiaciuto menar le mani. Quanti colpi di spada ho dato, quando navigavo agli ordini di vostro padre! - Taci Mendoza - gridò il conte con voce alterata. - Avete ragione, capitano: io sono un bestione grosso come una balena, - rispose il vecchio marinaio. Il conte si era appoggiato al davanzale della finestra e, spingendo ansiosamente lontano gli sguardi, attraverso l'immensa selva di campanili e di torricelle, cercò di scoprire la sua fregata, ancorata presso la bocca del porto, ma senza riuscirvi. Un'ansietà indescrivibile l'aveva preso e tendeva gli orecchi, temendo sempre di udire una bordata di cannonate, annuncianti il principio della lotta contro la sua nave. Si trovava in osservazione da una mezz'ora, quando udí Mendoza che esclamava: - La signora marchesa! Il figlio del Corsaro Rosso si voltò bruscamente e vide la bella vedova entrare nella soffitta, pallidissima, sconvolta. - Voi, marchesa? - esclamò il conte, con meno strepito dei suoi uomini. - Che cosa venite ad annunciarci? - Che siete presi! - rispose la signora di Montelimar con voce rotta. - Hanno dunque scoperto il nostro rifugio? - chiese il conte estraendo la spada. - Il mio maggiordomo mi ha avvertito che il capitano degli alabardieri ha dato l'ordine di visitare il tetto e anche le torricelle. Se vi trovasse, vi arresterebbe. - Non sarebbe una cosa facile, signora, - rispose il corsaro con voce tranquilla. - Voi non mi avete capito, conte - Anzi, ho capito benissimo. - E vorreste impegnare la lotta su un tetto, contro venti alabardieri e un capitano che gode fama di essere coraggiosissimo? - Ma no, marchesa. C'è sempre tempo a batterci. - E allora? - chiese la bella vedova con grande ansietà - Si fugge prima che giungano - rispose il conte. - E dove? - Buon Dio, è una cosa semplicissima, marchesa. Si salta sul tetto del palazzo, si cerca il primo abbaino e si discende. - Cosí vestito? - Cambierò costume - rispose il corsaro sorridendo. - Diventerò momentaneamente piantatore, contadino, facchino del porto, marinaio o qualche cosa di simile. - E andrete ... ? - Che ne so io? Certo non a bordo della mia fregata. Sarebbe come gettarsi in bocca al lupo. - Credete di poter uscire dalla città, signor conte? - Io non ne dubito. - Ho una tenuta a S. Pedro, a sei leghe dalla città. - Benissimo. - Manderò immediatamente il mio maggiordomo, perché avverta il mio intendente di ricevervi. - Volete ospitarci nella vostra villa? - Voglio salvarvi - disse la marchesa con voce commossa. - E noi, marchesa, giacché c'invitate in campagna, accettiamo - disse il figlio del Corsaro Rosso con voce perfettamente tranquilla. - Cosí ci riposeremo delle fatiche del mare. - E la vostra nave? - Se la caverà meglio di quello che crediate, signora. Ho a bordo un luogotenente che non ha paura di affrontare il fuoco. Potremo rivederci, marchesa, almeno per ringraziarvi di quanto avete fatto per noi? - Ve lo prometto. - A S. Pedro? - Sí, conte. - Addio, signora: noi fuggiamo. Il conte si levò il cappello di feltro per salutarla, poi balzò sul davanzale e spiccò risolutamente un salto, fracassando tre o quattro tegole. Mendoza e Martin lo seguirono. - Saldi in gamba, amici - disse il conte, salutando una seconda volta la marchesa che si era affacciata alla finestra. - E soprattutto non fate rumore. Sguainarono le spade e si misero in marcia, tenendosi curvi per non farsi troppo notare dalle persone che potevano affacciarsi alle finestre delle case. Fortunatamente il palazzo era unito nella parte posteriore ad una lunga fila di fabbricati, sicché i fuggiaschi poterono continuare la loro fuga per piú di seicento o settecento metri. - Toh! - esclamò ad un certo momento il conte, fermandosi. Mi hanno raccontato molte volte che anche a mio zio, il Corsaro Nero, era toccato una volta di dover fuggire su pei tetti e che era riuscito a cavarsela magnificamente. Perché non avrà altrettanta fortuna il nipote? Bah, vedremo! Erano discesi sul tetto di un'altra casa ed avevano ripreso la marcia. Continuarono cosí per circa cinquecento metri, senza alcun allarme né alcun incidente spiacevole; poi si fermarono dinanzi ad un abbaino, la cui finestra era chiusa solamente da una grata di legno. - Ecco un bellissimo nascondiglio - disse il conte. - Purché non diventi invece una trappola, capitano! - esclamò Mendoza. - E poi non sappiamo dove metta. - Mette in una casa. - Lo credo benissimo, signor conte; ma la casa sarà abitata e non so come ci accoglieranno gli abitanti. - Vedendomi vestito di rosso mi prenderanno per il diavolo in persona - rispose il fiero giovane ridendo - e scapperanno, ne sono certissimo. Martin, strappa quella grata. - Subito, capitano - rispose il robusto mulatto. - Non sarà un affare né lungo, né difficile. Afferrò con le due mani la sbarra centrale, appoggiò le ginocchia contro il muro e tirò violentemente a sé. Fu un vero miracolo se non rotolò giú dal tetto insieme alla grata. Buon per lui che Mendoza gli si era posto dietro, sicché fu pronto ad afferrarlo e a fermarlo. - Volevi fare un salto nella strada? - chiese il basco. - Hai dei brutti gusti, amico. - Silenzio! - disse il conte, il quale aveva cacciato la testa dentro l'abbaino. - Mi pare che qualcuno russi. - Ah, diavolo! - borbottò Mendoza, grattandosi la nuca. - Ecco che la faccenda comincia a diventare seria. - Seguitemi. - No, capitano, lasciate prima passare me. Era troppo tardi. Il corsaro era già sceso in una stanzetta semioscura, ammobiliata miseramente, poiché non vi erano che un letto, un tavolino sgangherato ed un paio di sedie, sulle quali stavano una corazza e dei vestiti da soldato. - Avrei preferito che abitasse questo bugigattolo una bella fanciulla, - mormorò il basco. Il conte si era accostato al letto con la spada alzata, pronto a colpire. Il proprietario della stanzetta russava beatamente, quasi interamente nascosto sotto le lenzuola. - Se si potesse scappare senza svegliarlo! - mormorò il conte. - Mendoza, vi è la chiave nella toppa della porta? - Non la vedo. - Devo buttarla giú? - chiese Martin, facendosi innanzi sulle punte dei piedi. - Allora si sveglierà. In quel momento il proprietario del bugigattolo, il quale aveva forse, da buon soldato, il sonno leggero, si alzò di colpo a sedere, poi, scorgendo gli intrusi, si gettò rapidamente dall'altra parte del letto, impugnando una draghinassa e urlando: - Ah, bricconi! Derubare un soldato? Mai! Stava per slanciarsi coraggiosamente addosso ai tre corsari, quando un grido di spavento gli sfuggí: - Il diavolo! Sogno o sono desto? Aveva scorto il figlio del Corsaro Rosso e, vedendolo vestito in quel modo, non c'è da stupirsi che lo avesse preso per un demonio, specialmente in quell'epoca in cui tutti erano, e specialmente gli spagnuoli, superstiziosissimi. - Non sono il diavolo - disse il conte - bensí un suo stretto parente. - Allora siete un uomo come me, entrato qui per spaventarmi e per derubarmi - disse il soldato, agitando minacciosamente la sua draghinassa. - Fuori, o vi uccido tutti come polli. - Ehi, non gridate troppo forte, perché potreste perdere la lingua - disse il conte. - Vi avverto prima di tutto che io non sono un ladro, ma un gentiluomo e che non ho affatto bisogno dei vostri stracci. - Che cosa volete, allora? - Nient'altro che il vostro vestito, pagandolo, s'intende. Quanto lo stimate? - Per che cosa farne? - Alto là, amico! Io non ho l'abitudine di raccontare i miei segreti al primo che incontro. - E poi? Volete qualche altra cosa? - Sí, la chiave della porta per poter uscire di qui. - Rifarete la via che avete percorso per venire, signor parente del diavolo - rispose il soldato. - Non si canzona un Barrejo! - Non ho ancora finito - proseguí il conte, con la sua solita calma. - Ah, desiderate qualche altra cosa? Siete incontentabile, mio bel signore! - Non vi chiedo altro che di lasciarvi legare e imbavagliare per impedirvi di seguirci o di gridare. - Per tutti i pescicani della Biscaglia, questo è troppo! - urlò il soldato. - Ora vi mostrerò come un guascone infila i ladri! - Ah, siete guascone? - disse il conte. - Si dice che i vostri compatrioti siano valorosi e anche molto spacconi. - Vi farò vedere io come si spaccano le teste! - urlò il soldato furiosamente. - Infilatevi prima i calzoni - disse ironicamente il corsaro. - Non vedete che avete indosso le sole mutande? - Anche in camicia i guasconi sanno uccidere! Con un'agilità da pantera aveva saltato il letto, piombando sul corsaro con impeto feroce, ma aveva dovuto subito fermarsi, vedendo i compagni del conte levare le pistole. - Volete assassinarmi? - chiese, facendo sollecitamente due passi indietro. - Amico - disse il corsaro - In altri momenti vi avrei fata la proposta di uscire, di fare una passeggiata fino alle mura del cimitero e là misurarvi con me. Disgraziatamente, o meglio, fortunatamente per voi, non ho tempo da perdere. O mi vendete il vostro vestito, o sul mio onore vi faccio uccidere con un colpo di pistola. Orsú, accomodiamoci e lasciamoci da buoni amici. Vi offro venti dobloni. Il soldato spiccò un salto. - Siete qualche principe per pagare cosí bene un miserabile vestito, o avete fatto fortuna al Messico? - Non sono altro che un conte e non ho mai veduto le miniere di quel paese. Accettate o rifiutate? - Per tutti i tuoni di Biscaglia! Sarei un gran cretino se rinunciassi a una tal somma. Con venti dobloni compro due uniformi fiammanti e faccio crepare di rabbia i miei camerati. Il conte trasse una borsa ben gonfia e depose sull'orlo della tavola le venti monete d'oro. - Vi regalo anche la mia draghinassa, signor conte, - disse il guascone che pareva volesse divorarle con gli occhi. - Preferisco tenermi la mia spada. - Cerca di regalarci qualche bottiglia invece, se l'hai - disse Mendoza, - Ho dell'aguardiente che non si beve nemmeno a Vera-Cruz. - Tirala fuori, camerata. Noi abbiamo il pessimo vizio di aver sempre sete, forse perché respiriamo troppa aria salata. - L'ho anch'io quel vizio: eccomi subito! Lasciò cadere in un vecchio cassone i venti dobloni, facendoli saltare l'uno sull'altro, per udire meglio il suono dell'oro; poi tirò fuori una bottiglia e dei bicchieri. Mentre versava, il conte, che aveva quasi la medesima statura del guascone, si spogliava rapidamente, per indossare il vestito del soldato. Quand'ebbe finito di abbigliarsi, vuotò a sua volta un bicchiere di aguardiente, poi, volgendosi verso il guascone, gli disse: - Ed ora lasciatevi legare ed imbavagliare. Scendendo avvertiremo qualcuno che è toccato un accidente al signor Barrejo, cosí verranno a liberarvi. - Siete gentile, signor conte, ma preferirei non sentirmi un fazzoletto sopra i baffi. - Le tentazioni sono pericolose per tutti. Potreste pentirvi dell'affare concluso e mettervi a gridare dietro di noi: al ladro! Il guascone fece un superbo gesto di diniego, poi si voltò per lasciarsi legare. Mendoza e Martin che, come tutti i marinai, non mancavano mai di corde, in pochi momenti ridussero il soldato all'impotenza; lo imbavagliarono per bene e lo gettarono sul letto. - Buona fortuna - disse il basco un po' ironicamente. Il guascone si agitò un po' tentando di rispondere, poi restò immobile come se si fosse addormentato di colpo. Il figlio del Corsaro Rosso si calò l'elmetto sul viso per non essere riconosciuto, aprí la porta con la chiave che il guascone gli aveva data e scese tranquillamente da una lunghissima scala, seguito dai suoi due uomini. Erano entrati in una vecchia casa a tre piani che aveva i gradini ormai consumati e le pareti annerite, abitata certamente da popolani. Stavano per uscire sulla via, quando sulla porta s'incontrarono con una vecchia negra, la quale portava sulla testa lanuta un gran canestro pieno di banane. - Buon giorno, signor Barrejo - disse vedendo il corsaro. - V'ingannate, buona donna - rispose il conte. - Sono un suo amico. Anzi, appena potrete, salite nella sua soffitta, perché pare che quel povero uomo non stia troppo bene. Ciò detto varcò la soglia e si allontanò velocemente, sempre accompagnato dai due filibustieri, i quali potevano benissimo essere scambiati per due marinai frettolosi d'imbarcarsi. La via era quasi deserta, poiché gli abitanti di tutte le città spagnuole del Golfo del Messico hanno l'abitudine di sospendere da mezzogiorno alle quattro i loro affari per schiacciare un sonnellino. - Martin, tu che conosci a menadito la città, guidaci verso il porto - disse il conte, quando si trovarono in mezzo a degli orti. - Non ne siamo lontani che due tiri d'archibugio - rispose il mulatto. - Mi preme di vedere come hanno circondato la mia fregata. - Ma non potremo raggiungerla senza destare dei gravi sospetti - osservò il prudente Mendoza. - Lo so, ed è questo che mi dà noia. Come potremo noi metterci in relazione col mio luogotenente? Ecco la gran questione. Io non dubito che egli possa aprirsi un varco fra i galeoni, le caravelle e rifugiarsi tranquillamente alla Tortue. Eppure è necessario che io m'imbarchi, prima che il segretario del signor di Montelimar si rechi nei Messico. - Forse a me riuscirebbe - disse Martin. Un mulatto non può destare gravi sospetti, e voi sapete che io nuoto meglio d'un pesce e che so anche percorrere dei tratti lunghissimi sott'acqua. - Lo so bene - rispose il conte. - Ed appunto per questo ti ho arruolato. - Non sarà quindi una faccenda difficile per me calarmi inosservato in mare e raggiungere la fregata. - Potrebbero scorgerti e ucciderti. Degli ordini severissimi saranno stati dati perché io non possa raggiungere la mia nave, o mandare qualche messo. - Non vi occupate di ciò, capitano - rispose il mulatto. - Se gli spagnuoli sono furbi, io non lo sono meno di loro. - Vedremo - rispose il signor di Ventimiglia, il quale appariva molto pensieroso per la brutta piega che prendevano le cose. Si erano rimessi frettolosamente in marcia, attraversando dei giardini e delle piccole piantagioni di banani, e tenendosi prudentemente lontani dalle rare case che sorgevano qua e là. Un quarto d'ora dopo giungevano in vista della rada, sbucando in un luogo quasi deserto. Il conte si era bruscamente fermato e borbottava stringendo i pugni. - Affare serio! - disse Mendoza. E l'affare era veramente grave. Quattro galeoni, quelle grosse navi per lo piú destinate a portare i prodotti delle preziose miniere del Messico e dell'America centrale in Europa, e cinque caravelle avevano lasciato i loro ancoraggi ed erano andate a radunarsi presso l'uscita del porto, disponendosi su una doppia fila: i primi dinanzi, le seconde, molto piú deboli e meno equipaggiate, di dietro. In mezzo alla rada, del tutto isolata, stava la fregata del conte, una splendida nave a tre alberi, lunghissima e stretta, e armata di ben ventiquattro pezzi d'artiglieria lungo i fianchi e di due grosse caronade in coperta, sull'alto cassero. Sulle calate, ingombre di mercanzie, numerosi alabardieri passeggiavano, sorvegliando attentamente, a quanto pareva, le navi mercantili e le barche da pesca che dovevano probabilmente aver ricevuto l'ordine di non lasciare gli ancoraggi. - Come se la caverà il luogotenente? - si chiese il conte, il quale con un solo sguardo aveva abbracciato la situazione. - Che cosa ne dici tu, Mendoza? - Io dico, signor conte, che il signor Verra si leverà d'impiccio con molto onore, e che darà una terribile lezione ai galeoni e anche alle caravelle - rispose il vecchio filibustiere. - Ha un bel numero di bocche da fuoco e della gente che ha un cuore che non ha mai tremato. - È vero, ma ... - fece il figlio del Corsaro Rosso, scuotendo la testa. - Voi sapete, signor conte, quale paura hanno gli spagnuoli dei filibustieri. Ci credono figli del diavolo. - Non dico di no, Mendoza. - E allora vedrete quali miracoli saprà compiere il vostro equipaggio guidato dal signor Verra! Forse che i liguri non sono sempre i primi marinai del mondo? - Ma una palla di cannone può uccidere l'uomo piú audace del mondo. - Non un filibustiere però - rispose Mendoza, - specialmente quando ha in mano un buon archibugio o si trova dietro a un pezzo di cannone. Il corsaro sorrise, senza mostrarsi peraltro troppo persuaso dalle parole del vecchio filibustiere. - Cerchiamo un po' d'ombra - disse dopo qualche momento. Il sole è caldo nel grande golfo. A cinquanta passi da loro, presso una scogliera scendente ripidissima verso la rada, s'alzavano dei maestosi banani con foglie enormi. La raggiunsero e si gettarono sotto quegli splendidi vegetali, già carichi di enormi grappoli. - Armiamoci di pazienza ed aspettiamo - disse il conte. - Io sono certo che, appena le tenebre caleranno, i galeoni e le caravelle daranno battaglia alla mia nave. - Io spero di raggiungere la fregata innanzi che si spari il primo colpo di cannone - disse il mulatto. - Datemi le vostre istruzioni, signor conte. - Non avrai da dire al mio luogotenente che una sola cosa: che ci aspetti al capo Tiburon e che sorvegli attentamente il passaggio della Santa Maria. - Permettetemi, capitano, che aggiunga una cosa - disse Mendoza. - Parla pure, amico. - Suppongo, Martin, che tu aspetterai che il sole scompaia per gettarti in acqua. - Non è necessario - rispose il mulatto. - Nuoterò sempre sott'acqua. - E come faremo noi a sapere se giungerai alla fregata? È troppo lontana per poter scorgere un uomo. - E vuoi concludere? - chiese il conte. - Che ci faccia segnalare se ha potuto dare al luogotenente le vostre istruzioni. - Sei sempre furbo, tu. Dirai al signor Verra, Martin, che accenda quattro fanali verdi disposti in fila sul cassero. - Sarà fatto, capitano - rispose il mulatto. Si levò la casacca, i pantaloni, gli stivali e gettò a terra le pistole e la spada. Non portando né camicia né mutande, era rimasto completamente nudo. - Che Dio vi aiuti, signor conte, - disse - Io non dimenticherò le vostre istruzioni. - Va, amico, e guardati dalle palle degli spagnuoli - disse il signor di Ventimiglia. - Addio, camerata - disse Mendoza. - Guardati anche dai pesci-cani. - Io me ne rido di quelli - rispose il mulatto. Spiccò tre o quattro salti, come per provare l'elasticità delle sue membra, poi si gettò fra le rocce che scendevano accavallate bizzarramente verso la rada, strisciando come un serpente. In pochi istanti raggiunse il fondo e, con un magnifico salto di testa, scomparve sott'acqua. - È un vero diavolo! - disse il conte. - Io non ho mai veduto un nuotatore piú abile di lui. - Scommetterei la mia spada contro una carica per la mia pipa - rispose il marinaio - che egli riuscirà ad eludere la sorveglianza degli spagnuoli e a passerà sotto i loro nasi senza che se ne accorgano ... Là! là: lo vedete? È rimontato. A duecento metri dalla riva un punto scuro era comparso sulla superficie della rada scomparendo poi quasi subito. Il mulatto aveva fatta la sua provvista di aria, mettendo fuori solamente il naso, poi si era rituffato, nuotando sempre sott'acqua. Era impossibile che i soldati, che vegliavano sulle calate che si trovavano alquanto discoste dal luogo occupato dai due corsari, avessero potuto accorgersi di qualche cosa. E poi quella macchia bruna si poteva anche benissimo scambiare per una testa di pesce. Altre due volte il conte e Mendoza, i quali spiavano ansiosamente la superficie della baia, videro spuntare il naso del mulatto, poi piú nulla. La distanza era ormai troppo considerevole e cominciava a scendere l'oscurità. - Giungerà? - si chiedeva ansiosamente il conte. - Non pensate a lui capitano - rispondeva Mendoza. - È piuttosto della fregata che noi dobbiamo occuparci. Io non so che cosa aspettino i galeoni e le caravelle. - La notte. - Io, se fossi il comandante della squadra, assalirei subito. - Il combattimento non tarderà ad impegnarsi. Non vedi che delle scialuppe cariche di soldati si staccano dalle calate e prendono il largo? - Pessima manovra, signor conte! Non ne sfuggirà una alle bordate della fregata. Il conte si era alzato e si era messo a passeggiare nervosamente intorno ai banani; Mendoza invece aveva caricato la sua pipa e fumava placidamente. Quella calma del vecchio marinaio era piú apparente che reale, poiché di quando in quando si dimenticava di tirare e la pipa si spegneva. Intanto le tenebre scendevano rapidamente avvolgendo la città, il porto e le navi. La fregata, che si trovava presso la bocca d'uscita, non si scorgeva quasi piú. Ad un tratto il corsaro mandò un grido: - Il segnale! Ah, bravo Martin! Quattro fanali verdi, che spiccavano vivamente nella profonda oscurità, disposti l'uno dietro l'altro, erano comparsi sull'altissimo cassero della fregata. - Ve lo avevo detto io, capitano, che quel diavolo sarebbe riuscito - disse Mendoza vuotandosi la pipa. - Ora potremo andare un po' in campagna a gustare i vini di San Josè. Si dice che siano squisitissimi. - Adagio Mendoza. La fregata non è ancora fuori del porto. - Se è per questo, riaccendo la pipa; sono sicuro che passerà fra i galeoni e le caravelle. Una volta fuori del porto, le diano la caccia se ne sono capaci. - Se riesce ad aprirsi il varco, sarò pienamente tranquillo, mio bravo marinaio. Nessuno può raggiungerla e nemmeno ... Un colpo di cannone interruppe il suo discorso. La Nuova Castiglia aveva aperto il fuoco, sfidando le navi spagnuole a battaglia. Quel sinistro rimbombo, che si ripercosse fragorosamente contro le case della città, fu seguito da un breve silenzio, poi si udí una seconda cannonata. Il corsaro e Mendoza avevano scalate rapidamente le rocce, per meglio assistere alle diverse fasi del combattimento. L'uno e l'altro, quantunque avessero piena fiducia nella robustezza e nell'armamento della nave e nel coraggio dell'equipaggio, formato interamente d'intrepidi filibustieri reclutati alla Tortue, erano in preda ad una profonda angoscia. Sapevano bene che la Spagna aveva pure valenti marinai, capaci di disputare lungamente la vittoria. Un altro mezzo minuto trascorse, poi terribili bordate partirono dai galeoni e dalle caravelle. La battaglia era cominciata.

Il capo Tiburon, che formava una specie di penisola coperta di boschi foltissimi fino quasi alla sua punta estrema, si allungava verso il sud, in un semicerchio che si spiegava verso la spiaggia, formando una darsena abbastanza sicura contro l'irrompere delle onde. Nel mezzo del bacino giganteggiava superbamente la Nuova Castiglia, trattenuta da due âncore gettate a prora ed a poppa e con le vele solamente semimbrogliate, per essere pronta a prendere il largo in brevissimo tempo, in caso di pericolo. - La mia fregata! - esclamò il conte. - Finalmente! Ritorno padrone del Golfo! - Tacete, signor di Ventimiglia, - disse la marchesa - voi non sapete dove sono imboscati gli spagnuoli che hanno ricevuto l'ordine di assalire la vostra nave. Non fidatevi di questa calma che deve essere piú apparente che reale ed agite con prudenza. Forse delle centinaia d'occhi spiano attentamente tutte le nostre mosse. Quindi, volgendosi verso i negri che reggevano il lungo palo a cui era appesa l'amaca, disse loro: - Nel mio padiglione dei bagni! Fate presto! I quattro portatori partirono di corsa e, dopo aver superato una piccola altura, scesero verso la spiaggia larga e sabbiosa, cosparsa d'un numero infinito di gusci d'ostriche e di testuggini. In mezzo ad un gruppo di alberi di cocco e di palme, a circa duecento passi dal mare, si alzava un grazioso padiglione costruito tutto in legno, anche quello di stile moresco, con una graziosa torricella sulla quale sventolava la bandiera di Montelimar, e circondato da un piccolo giardino. Due giovani meticce, udendo le voci dei portatori e della scorta, erano subito uscite per aiutare la marchesa a scendere; il conte di Ventimiglia fu però piú svelto e la trasse giú dall'amaca. - È giunto il mio corriere? - chiese la bella andalusa alle due donne. - Sí, padrona. - Entrate, amici. Io vi precedo. Attraversò il giardinetto e condusse il conte, Buttafuoco ed i due avventurieri in una saletta a pianterreno, adorna di pochi mobili leggeri e graziosi, quasi tutti di bambú, e di molti vasi di terracotta che reggevano enormi mazzi di fiori della passione che spandevano all'intorno un delizioso profumo. La marchesa si sedette dinanzi ad una tavola di acagiú, filettata in argento e scolpita con molto buon gusto, facendo cenno al conte ed ai suoi amici di fare altrettanto, poi, rivolgendosi alle due meticcie che l'avevano seguita, disse loro: - Fate venire il corriere. Un momento dopo un mulatto, alto, molto abbronzato, di forme muscolose e d'aspetto fiero, entrava facendo un profondo inchino. - Hai fatto quanto ti ho detto? - chiese la marchesa. - Sí, padrona. - Hai potuto accostare la fregata senza destare sospetti? - - Sono andato a bordo ad offrire i pesci che avevo pescato stamane. - Hai conferito col luogotenente? - Sí, padrona. - L'hai avvertito del pericolo che corre e che il conte sta per giungere? - Il luogotenente è pronto a tutto e aspetta l'imbarco. Ha preso tutte le sue misure per non lasciarsi sorprendere. - Puoi andare. - Signora, - disse il conte vivamente commosso - io non mi attendevo un simile servigio da parte d'una donna che dovrebbe essere acerrima nemica dei filibustieri. - Difendo e proteggo i miei ospiti! - rispose la marchesa sorridendo. - Nel mio caso voi avreste fatto certamente altrettanto. - Mi sarei fatto uccidere per voi - rispose il conte con un entusiasmo che fece nuovamente sorridere e anche sospirare la bella spagnuola. - Non ne dubito! - rispose la giovane vedova, passandosi una mano sulla fronte. Poi chiese: - Quando vi imbarcherete, conte? - Subito, se fosse possibile. - Ho una scialuppa sulla spiaggia. È a vostra disposizione. D'altronde comprendo la vostra impazienza. Fingete di recarvi alla pesca insieme con i miei negri e al momento opportuno abborderete la fregata. Cercate di non farvi notare dai miei compatrioti. Io sono piú che sicura che veglieranno attentamente, e che nelle foreste del capo Tiburon hanno già collocato delle artiglierie. Si era alzata in preda ad una visibile emozione, e mentre Mendoza, Buttafuoco ed il guascone vuotavano altre tazze di cioccolata, che le due meticce avevano portate, condusse il conte nel giardinetto che circondava la graziosa casetta. - Signor conte, - disse traendolo sotto l'ombra d'una gigantesca palma - non ci vedremo mai piú? La voce della marchesa era cosí alterata, che il signor di Ventimiglia ne fu profondamente colpito. - Io spero, signora, - le rispose - di trovarvi ancora, prima che io lasci il golfo del Messico. Non posso dimenticare una gentildonna alla quale per ben due volte devo la vita. - E quando? - Chi può dirlo, marchesa? Finché non avrò terminato la mia missione non ritornerò a San Domingo. - E dove andrete ora? - A trovare vostro cognato ed i filibustieri che ancora imperano di qua e di là dell'istmo di Panama. La marchesa rimase un momento silenziosa, guardando a terra; poi strappò con molto nervoso un'orchidea e la porse al conte, dicendogli: - Conservatela per mio ricordo. - Quando la morte mi minaccerà, marchesa, questo fiore, datomi da voi, si troverà sul mio cuore - rispose il corsaro. - Sarà per me come un prezioso talismano. La marchesa aveva alzato il capo, e il conte s'avvide subito che gli occhi bruni e profondi della bella andalusa erano umidi. In quel momento comparve Buttafuoco. - Signor conte, - disse - la scialuppa è pronta ed è giunto il momento di separarci. Io ritorno il bucaniere della savana. - Mi lasciate? - chiese il signor di Ventimiglia con doloroso stupore. - Credevo che mi avreste seguito. - Ho laggiú, nella mia povera dimora, il mio arruolato, il quale forse corre gravi pericoli - rispose il cacciatore. - Chissà forse un giorno in qualche città dell'America centrale non ci rivedremo. Come ho combattuto fra i filibustieri di vostro zio, il Corsaro Nero, non mi rincrescerebbe sfidare il fuoco a fianco del nipote. Uscirono dal giardino seguiti da Mendoza, dal guascone e da quattro negri, i quali erano carichi di reti per far credere alle cinquantine spagnuole, probabilmente imboscate, che si recavano a pescare per preparare alla marchesa la cena. Giunti presso il cancello, la bella andalusa si fermò, fissando il conte con gli occhi umidi. - Addio, signore - gli disse, porgendogli la mano. - Io pregherò Iddio che vi preservi dai cannoni e dagli archibugi dei miei compatrioti. Rammentatevi sempre di me, e non dimenticate che se avrete bisogno di una protezione da parte mia, sarò sempre pronta a salvarvi un'altra volta. Il conte, il quale appariva non meno commosso, le baciò galantemente la mano, mentre Buttafuoco si era appoggiato al suo archibugio e incrociava le mani sulla cima della canna. Anch'egli fissava intensamente il conte. - Amico, - gli disse il signor di Ventimiglia, porgendogli la destra - grazie di quanto avete fatto per me ... ed ora ditemi il vostro vero nome. Me l'avete promesso. Una rapida emozione alterò i lineamenti del bucaniere. - A quale scopo? - disse poi, con voce rauca. - L'ho lasciato cadere e per sempre in fondo ai baratri dell'Atlantico, nel momento in cui passavo la linea equatoriale ... Chi si ricorda ormai di me in Francia? Io sono morto per la mia patria ... e anche per mia sorella e per ... Un singhiozzo spense la sua voce, mentre due lacrime scendevano lentamente sulle sue brune gote. - Tutto deve essere finito! - disse poi. - No, signor ... - Barone de Rouvres - disse la marchesa. - Perché tradire il mio segreto, signora? - chiese Buttafuoco. - Io oggi non sono che un miserabile bucaniere; non ho piú il diritto di portare lo stemma della mia casa che ho disonorato. - Per me siete sempre un gentiluomo - disse il signor di Ventimiglia, commosso dall'intenso dolore che traspariva sul suo viso abbronzato. - Qua la mano, Barone de Rouvres. Il bucaniere della savana ebbe un'ultima esitazione, poi con un movimento rapido gliela porse, dicendo: - Quando voi, signor conte, avrete bisogno della vita d'un uomo, ricordatevi che quella del barone de Rouvres è sempre a vostra disposizione. - Non della vostra vita, bensí del vostro braccio e del vostro archibugio avrò bisogno - rispose il conte. - Non sarà questa l'ultima volta che ci siamo incontrati ... Addio, marchesa; addio, barone: vado a compiere la mia impresa. Scese rapidamente la spiaggia e balzò nella scialuppa. I quattro negri avevano subito dato dentro ai remi, mentre Mendoza aveva preso con mano salda la barra del timone. - Verso il capo, prima! - aveva detto il conte. - Cerchiamo d'ingannare gli spagnuoli per non compromettere maggiormente la marchesa, ormai troppo sospettata di proteggerci. Mentre la scialuppa partiva rapida come una freccia, sotto la spinta poderosa degli erculei africani, il conte si era alzato e guardava verso la spiaggia. Presso il cancello del padiglione stava la bellissima andalusa, appoggiata ad un pilastro, tenendo in mano un fazzoletto che di quando in quando agitava in segno di addio; a pochi passi si trovava il bucaniere, con le braccia incrociate ed appoggiate sulla canna del suo archibugio. - Li rivedrò? - si chiese il conte con un sospiro. - Certo, se le palle spagnuole non mi uccideranno. Fece con la destra un rapido saluto, poi si sedette accanto al guascone, il quale stava contando e ricontando i suoi dobloni. - Che cosa fate, don Barrejo? - chiese il conte. - Stavo calcolando quanta aguardiente avrebbero potuto comprare gli spagnuoli se mi avessero ucciso e si fossero impadroniti di questo piccolo tesoro - esclamò serio il guascone. - Al diavolo! esclamò il conte. - No, perché non mi ha voluto e credo che abbia fatto bene, perché i guasconi non si trovano bene nemmeno all'inferno e potrebbero tagliare le code ai figli di Belzebú. Diamine! Siamo gente pericolosa noi! - Ha fatto tre volte bene, - disse Mendoza, prorompendo in una risata, - perché saremo noi a bere quei dobloni. - Oh! Me ne dovete uno, compare, ricordatevelo. - Lo prenderete agli spagnuoli. - Fa lo stesso, - rispose il guascone, sempre serio. Il conte non si occupava più dei due burloni. Ora guardava il padiglione della marchesa che stava per scomparire e dinanzi al quale spiccavano ancora due macchie oscure, ed ora la sua superba fregata che si dondolava graziosamente nella rada, tendendo le catene delle due âncore, come se fosse impaziente di prendere il largo dopo tanto riposo. La scialuppa, giunta presso il capo Tiburon che era coperto di boscaglie, in mezzo alle quali probabilmente stavano sempre nascosti gli spagnuoli in attesa del segnale d'attacco, virò a ponente ed i quattro negri, deposti i remi, gettarono le reti. - Che ci prendano per pescatori autentici? - chiese Mendoza al conte. - Giriamo al largo, capitano, prima che nasca nell'animo degli spagnuoli qualche sospetto e che ci salutino con qualche colpo di cannone. Avete udito la marchesa dire che sospetta vi sia dell'artiglieria nemica nascosta in quelle boscaglie? - Sí - rispose il conte, il quale sembrava un po' inquieto. - Vi è anche altro, Mendoza. - Che cosa, capitano? - Scorgo alcune grosse scialuppe seminascoste fra i paletuvieri della costa. Non possono appartenere a pescatori, perché qui non v'è alcun villaggio. - Ventre di pescecane! - esclamò il lupo di mare. - Che abbiano intenzione d'abbordare la fregata? - Lo temo, Mendoza. - Li ricacceremo in mare! - disse il guascone, il quale non cessava di contare e ricontare i suoi dobloni. - Che il luogotenente si sia già accorto che stanno preparandogli un agguato? - chiese Mendoza. - Il signor Verra è un uomo che non dorme, quando sa di navigare in acque pericolose - rispose il conte. - Scommetterei cento piastre contro una che egli ha già fatto i suoi preparativi per il combattimento. - Quando l'abborderemo la fregata? - Aspettiamo che il sole sia tramontato. Non voglio compromettere maggiormente la marchesa. Peschiamo e fingiamo di non occuparci della mia nave, benché abbia sempre in alto il vessillo spagnuolo. I quattro negri ritiravano in quel momento le reti ben cariche di pesci. La scialuppa riprese poco dopo la corsa sotto la direzione di Mendoza, allontanandosi sempre piú dal capo Tiburon per evitare qualche brutta sorpresa e manovrando in modo da descrivere un ampio semicerchio dinanzi alla prora della fregata. Altre due volte le reti furono gettate e ritirate sempre ben provviste di pesci, poi, cominciando il sole a tuffarsi in mare, la scialuppa si diresse lentamente verso la fregata che aveva già acceso sull'altissimo cassero i suoi due grossi fanali. Mendoza, il quale teneva sempre il timone, la dirigeva in modo da far credere agli spagnuoli che volesse passare al largo della nave per tentare un'ultima pescata, prima di far ritorno al padiglione dei bagni della marchesa di Montelimar. Il figlio del Corsaro Rosso osservava attentamente il veliero che le prime ombre cominciavano ad avvolgere. Una calma assoluta pareva regnare a bordo. Si era udito solo il rullare del tamburo che chiamava gli uomini a cena nel frapponte, poi piú nulla. - Signor conte, - disse il guascone, quando l'ultimo sprazzo di luce scomparve - abbordiamo? - Aspettate un po', impaziente guascone - rispose il signor di Ventimiglia. - Avete tanta fretta di menare le mani? - Non sarei un avventuriero! E poi la mia draghinassa è stanca di rimanere inoperosa. Tutte le mattine mi domanda di sbudellare qualcuno e non trovo mai l'occasione di accontentarla. - Non vi mancheranno, ve l'assicuro. - Sapete che noi guasconi ... - Sí, uccidete sempre, - rispose il conte, con un sorriso un po' ironico. - Non sarei un guascone, diavolo! - disse don Barrejo. - Mendoza! - Capitano? - Punta diritto sulla fregata. Ormai gli spagnuoli non possono piú scorgerci. - Date dentro ai remi, pagani! - gridò il lupo di mare agli africani. L'oscurità era piombata quasi improvvisamente sulla piccola rada, avvolgendo lo specchio d'acqua ed il capo Tiburon. La scialuppa attraversò velocemente la distanza che la separava dalla fregata ed abbordò il legno a bordo, ossia verso l'opposta parte occupata dagli spagnuoli, per non essere colpiti da qualche cannonata, fosse pure sparata a casaccio. Con suo profondo stupore il conte non udí gli uomini di guardia dare l'allarme, quantunque la prora dell'imbarcazione avesse urtato sonoramente il fianco del veliero. - Che cosa fanno i miei uomini? - si chiese aggrottando la fronte. - Si lasciano abbordare senza accorgersene? - Io credo, capitano, che voi abbiate torto di lamentarvi - disse Mendoza. - Sono troppo furbi i vostri marinai. Se sulla nostra barca vi fossero degli spagnuoli, scommetto che a quest'ora le granate scoppierebbero sulle nostre teste come gragnuola. Il signor Verra non è un marinaio da lasciarsi sorprendere. La scala di corda toccava l'acqua, permettendo una facile ascensione. Il conte l'afferrò e si issò fino sul ponte della fregata, gridando: - Si dorme qui? - No, signor di Ventimiglia, anzi si veglia attentamente e vi si aspettava - rispose una voce. Un uomo era improvvisamente apparso dinanzi al conte, smascherando una lanterna che fino allora aveva tenuta coperta con un pezzo di velaccio. Era un bel giovane di non ancora trent'anni, dai lineamenti piuttosto duri, con baffi e barba nerissimi, di statura alta e slanciata. - Voi, luogotenente! - esclamò il conte stupito. - Vi aspettavo da parecchie ore, capitano - rispose il giovane. Vi avevo già veduto col cannocchiale e mi ero immaginato che non avreste tardato a raggiungere la vostra nave. E poi ero stato avvertito dal pescatore d'una certa marchesa di Montelimar che eravate già giunto nei dintorni del capo Tiburon e anche che gli spagnuoli ci hanno preparato un agguato. - Ed è purtroppo vero, signor Verra! - rispose il conte. - Aspettano che noi salpiamo le âncore per darci addosso attraverso il Capo. - E noi siamo pronti a riceverli! - rispose il luogotenente. - I vostri uomini sono tutti ai loro posti di combattimento e le artiglierie non chiedono che di sparare. - Bene! - disse il conte. - È uscito nessun galeone da San Domingo? - Ne è passato uno dinanzi a noi, quattro o cinque ore or sono. Martin mi ha assicurato che doveva essere la Santa Maria. - Dove andava? - Verso ponente. - Sapremo raggiungerla. Sono troppo pesanti quei galeoni per competere con le fregate e soprattutto con la nostra. Prima di domani mattina noi l'abborderemo e avremo nelle nostre mani il segretario dell'ex governatore di Maracaibo. - Devo far salpare le âncore e spingere le vele, conte? - Un momento ancora, luogotenente - rispose il signor di Ventimiglia, il quale rispondeva a scatti. Si curvò sulla murata e gridò ai negri della scialuppa: - Tornate subito al padiglione dei bagni, se vi preme la vita. Portate alla marchesa vostra padrona e al bucaniere i miei ultimi saluti ... Martin! Il meticcio, che stava seduto su un barile chiacchierando con Mendoza e col terribile guascone, fu pronto ad accorrere. - La mia divisa rossa - disse il conte. - Il figlio del Corsaro Rosso non si batte sotto le vesti d'un pescatore. La mia spada di combattimento e la mia corazza. Signor Verra, fate spiegare le vele e date ordine agli artiglieri di non fare risparmio di mitraglia. Vedremo se sapranno arrestarmi attraverso il capo Tiburon e se la Santa Maria riuscirà a fuggire alla nostra caccia. Fate presto! Mentre il fischietto di Mendoza chiamava i marinai agli argani per salpare le âncore ed i gabbieri per spiegare completamente le vele, ed il luogotenente dava le ultime disposizioni per il combattimento imminente, il corsaro scese nel quadro di poppa seguito dal guascone e da Martin. Quando ricomparve era tutto vestito di rosso, come era comparso negli splendidi saloni della marchesa di Montelimar, con una nuova spada al fianco e le pistole di grosso calibro alla cintola. Salí sul ponte di comando, situato sul davanti dell'altissimo quadro, ed imboccato il portavoce, gridò: - Alla vela! Tutti al posto di combattimento! Il figlio e nipote dei tre grandi corsari vi guida e vi guarda!

. - Non ne avevano abbastanza della carne qui, senza ammazzarci anche quella povera bestia. - Ci impediscono di fuggire, - disse Mendoza. - Quante piastre perdute! ... - Un migliaio per lo meno, don Barrejo. - Ci rifaremo al saccheggio di Pueblo-Viejo. Per bacco! ... Mi viene una superba idea. - Dite. - Di far pagare questi tre cavalli a quel furfante di taverniere. Se riesco a scovarlo, lo farò urlare come una coyota. Mentre si scambiavano quelle parole, tranquilli come se fossero al sicuro dentro un castello, gl'indiani non cessavano di scagliare freccie e di mandare, di quando in quando, il loro acutissimo urlo di guerra. Sprecavano però inutilmente i loro dardi, poiché i tre avventurieri si guardavano bene dal lasciare l'angolo della roccia. - Suppongo che non avranno delle migliaia di freccie, - riprese il guascone, dopo un breve silenzio. - Ne hanno già scagliate parecchie dozzine. Ah! ... Se avessi un po' di polvere! ... - Non abbiamo che tre cariche, - disse Mendoza. - E di pistola ... - Tiro troppo breve. - Lo so, signor basco. Io continuo a tormentarmi il cervello per trovare un mezzo qualunque che ci permetta di andarcene, e non trovo nulla. Ciò m'inquieta. - Qui non corriamo alcun pericolo, - disse il fiammingo, il quale masticava l'ultimo pezzo del suo sigaro. - Non sono gl'indiani che m'inquietano, - rispose il guascone. - Il sole, forse? - Me ne infischio del caldo. Sono gli spagnuoli. - Se sono scappati! ... - E se ritornassero con dei rinforzi e ci trovassero ancora qui? ... - Che frittata! - esclamò Mendoza. - Fortunatamente Pueblo-Viejo non è tanto vicina ed i cavalleggieri sono quasi tutti smontati. - E quelli montati possono correre innanzi e tornare alla testa di qualche squadrone. - Ah diavolo! - brontolò Mendoza, grattandosi furiosamente la testa. - Voi mi avete messo una pulce terribile in un orecchio. È necessario prendere una risoluzione eroica. Credete che questa roccia sia proprio inaccessibile? - Io non l'ho ancora osservata attentamente, - rispose il guascone. - Si può provare. - Non ci colpiranno gl'indiani? - chiese il fiammingo. - Non credo, perché l'angolo della roccia si prolunga. - Tentiamo, - disse Mendoza, risolutamente. - State attenti alle freccie; non sono già molto pericolose in pieno giorno. Presero gli archibugi, armi troppo preziose, anche se pel momento scariche, per lasciarle agli altri, impugnarono le tre pistole cariche e scivolarono lungo la parete dell'enorme roccia, girandola verso l'opposta parte del vallone. Gl'indiani non potevano accorgersi di quella ritirata, impedendo la frana di osservare ciò che succedeva in basso. I tre avventurieri, procedendo cauti e nel piú profondo silenzio, riuscirono finalmente a raggiungere l'altro angolo, il quale si appoggiava contro la parete rocciosa del vallone. Per un caso assolutamente straordinario, l'enorme rupe, nel precipitare, si era per cosí dire smussata verso la base, lasciando un passaggio fra il proprio angolo e la parete che scendeva a picco. - L'ho sempre detto io, che tutti gli avventi hanno la loro stella! - esclamò il guascone, trionfante. - Un cavallo non potrebbe passare, ma un uomo sí. Prenderemo quei signori indiani alle spalle! ... - Infatti noi abbiamo una fortuna veramente straordinaria, disse Mendoza. - Chi avrebbe potuto supporre che qui esistesse un passaggio? - Dentro, amici, - comandò don Barrejo. - Spicciamoci, giacché gl'indiani non si sono ancora accorti della nostra scomparsa. Odo sempre le freccie fischiare dall'altra parte della frana. Si curvò e si mise a strisciare sotto la rupe, seguito tosto da Mendoza e dal fiammingo. Quella specie di galleria si prolungava per una quindicina di metri, ingombra di terriccio e di macigni. I tre avventurieri l'attraversarono rapidamente e giunsero dietro la frana. - Laggiú mugge il Chagres, - disse il guascone. - Dobbiamo attaccare alle spalle gl'indiani o scappare? I"Veramente ad un guascone ripugna di mostrare i talloni al nemico. - Io direi di dare l'attacco, - rispose Mendoza. - Se si accorgono della nostra fuga non cesseranno di perseguitarci. Io so quanto sono testardi quei maledetti uomini rossi. - Voi meritereste di essere promosso generale. - Perché, don Barrejo? - Gli uomini si conoscono nei momenti difficili. Scappano almeno gl'indiani quando odono dei colpi di fuoco? - Come conigli. - Allora cerchiamo di sorprenderli. Che cosa dite voi, signor fiammingo? - Conosco anch'io quella gente che ha la pelle color rame e vi posso dire che è sempre meglio dare l'assalto. - Riusciremo noi a sorprenderli? - Basta arrampicarsi sulla roccia, - rispose Mendoza. - Qui è piú accessibile che dall'altra parte. - Noi siamo gente sempre straordinariamente fortunata, - disse il guascone. - Se gl'indiani non si accorgono della nostra scalata, faremo una carica a fondo. Compare Mendoza, insegnateci la via. Non siete piú giovane, questo è vero, però potete competere con un gatto selvaggio. Questi filibustieri sono veramente meravigliosi! ... - Ora vi darò una prova di che cosa sono capaci i figli della Tortue, - rispose il basco. - Se non faccio fuggire gl'indiani, che un giaguaro mi divori. - Brutta scommessa, - disse il guascone, scuotendo la testa. Il filibustiere osservò attentamente l'enorme frana, poi, avendo scoperto una specie di gradinata, si mise a salirla. Non era già una gradinata regolare, tuttavia il lupo di mare aveva dato arditamente l'assalto, ansioso di piombare alle spalle degl'indiani, i quali non cessavano di scagliare freccie nel vallone, per impedire la fuga agli assediati. Il guascone ed il fiammingo gli si erano messi dietro, pronti ad aiutarlo nella temeraria impresa. Puntando i piedi sulle sporgenze ed aggrappandosi agli sterpi, il lupo di mare raggiunse senza troppa fatica la cima e scivolò inosservato verso gli alberi che coprivano il margine del vallone. - Ecco il momento di mostrare a quel terribile guascone che anche i baschi valgono qualche cosa, - brontolò. - Che tutta la gloria spetti a lui, perché abita dall'altra parte del mar di Biscaglia, comincia un po' a seccarmi. Canarios! ... Anche noi siamo famosi per menare le mani e per uccidere, sia pure a colpi di navaja. Don Barrejo ed il flemmatico fiammingo lo avevano raggiunto, senza che le pelli-rosse se ne fossero accorte. - Signor Mendoza, - disse don Barrejo, - non sarebbe questo il momento di dare una prova della vostra abilità? - Che cosa volete dire? - chiese il filibustiere. - Abbiamo gl'indiani a soli venti passi da noi e ci voltano le spalle ed io ho udito vantare la straordinaria abilità dei baschi. - A giuocare di spada? - Le spade sono le armi dei guasconi, - disse don Barrejo. È il colpo della navaja che io vorrei vedere. Si risparmierebbe una carica di polvere. - Ho capito, - rispose il basco, sorridendo. - L'avete sempre la vostra navaja? - Preferirei lasciare la spada per la mia arma nazionale. - Fate un buon colpo dunque! Vedremo se la pelle degl'indiani è piú dura di quella degli uomini di razza bianca. Una cosí tremenda stoccata, data a distanza, potrebbe produrre un effetto straordinario. - Vi contenterò, - rispose Mendoza. - Sarà una palla risparmiata. Fermatevi qui e non fate rumore! GI'indiani si trovavano a trenta o quaranta passi, nascosti dietro gli enormi massi della frana. Credendo che gli avventurieri si trovassero sempre riparati dietro l'angolo dell'enorme roccia, non cessavano di lanciare delle freccie, senza guardarsi alle spalle. - Sotto, Mendoza, - disse il guascone. - Lasciate fare a me, - rispose il basco. - Tenetevi pronti a caricare a colpi di spada, se non volete consumare le nostre ultime munizioni. Silenzio! Si era allontanato, strisciando, dopo essersi sbarazzato dell'archibugio il quale non poteva essergli piú di nessuna utilità. Sulla mano allargata teneva la terribile navaja basca, colla punta rivolta verso il polso ed il manico al di fuori. Strisciava come un serpente, senza produrre il menomo rumore. Il guascone ed il fiammingo lo seguivano a breve distanza, tenendo pronte le pistole, pronti a portargli aiuto nel caso che il colpo fosse mancato. Ad un tratto Mendoza si fermò dietro il tronco d'una grossa palma. GI'indiani non erano che a dieci o dodici passi e gli volgevano le spalle, intenti a lanciare, senza interruzione, delle freccie. Si udí un leggiero sibilo e qualche cosa scintillò in alto. La navaja era stata lanciata, piantandosi fra le spalle d'un selvaggio e con tanta violenza da troncargli di colpo la colonna vertebrale. I suoi compagni, vedendolo cadere, avevano fatto tre o quattro salti innanzi, urlando spaventosamente. Il guascone sparò un colpo di pistola, poi caricò colla sua terribile draghinassa. Era una carica affatto inutile, perché i figli delle foreste, spaventati di vedersi dinanzi quei tre uomini bianchi, si erano precipitati sotto la vicina boscaglia, correndo come lepri. Quasi nel medesimo istante si udirono rimbombare nel vallone parecchi colpi d'archibugio. - Gli spagnuoli! - gridò il guascone, mentre il basco s'impadroniva della navaja. - Gambe, amici!

Io ne ho abbastanza di questa brutta faccenda. Amico, - disse il guascone, volgendosi verso il fiammingo, - vi siete provvisto abbondantemente di sigari, come vi avevo ordinato? - Sí, signor conte, - rispose l'uomo barbuto. - Sapete bene che io non scordo mai i vostri ordini. - Date da fumare alla ronda. Il fiammingo trasse da una tasca interna una manata di Cuba autentici e li offrí ai soldati, i quali non si fecero pregare ad accettare la cortese offerta. - Niente al taverniere, - disse il falso conte. - Quello meriterebbe una corda al collo. E ora, signori miei, andiamo a dormire a casa del governatore. Domani questa brutta faccenda sarà finita e quel furfante di taverniere mi farà le sue scuse. Partiamo. - Andatevene al vostro albergo, - disse il capo della ronda all'oste. - Pel momento non abbiamo piú bisogno di voi. - Teneteli d'occhio, perché quei tre signori sono capaci di giuocarvi un brutto tiro. Vi dichiaro che sono dei cattivi avventurieri. - Chiudi il becco, brutto pappagallo, - disse il conte, con voce minacciosa. - Ed ora vattene, o t'insegno io, anche in presenza di questi bravi militi, quanto può costare un'offesa fatta al conte d'Alcalà. - Via, via, a domani, - disse il capo della ronda, prendendo il taverniere per le spalle e spingendolo. - Voi pel momento non entrate piú in questa faccenda. Potreste esservi ingannato. - Ma che! ... Sono cialtroni! ... - Basta, carrai! Andatevene o arresto anche voi. - E allora ci penserò io ad accopparlo, - disse il fiammingo. troppo! ... - Signori, - disse il capo della ronda, il quale gustava il sigaro regalatogli dall'avventuriero. - Vi prego di seguirmi al palazzo del governatore. Io spero che questa faccenda finirà bene per tutti voi. Tre archibugieri si misero dinanzi ai tre avventurieri; il quarto ed i due alabardieri di dietro e si misero in marcia, mentre il taverniere, niente soddisfatto, se ne andava da un'altra parte, brontolando. Mendoza urtò il gomito del guascone. - E ora? - gli chiese sottovoce. - Non vi inquietate, compare, - rispose don Barrejo. - Suona in questo momento mezzanotte e Sua Eccellenza il governatore non prenderà il cioccolatte prima delle nove o delle dieci. In nove ore un bravo guascone può, se vuole, rovesciare anche il mondo. Il marinaio scosse il capo, come uomo poco convinto d'una simile gradassata, però si guardò bene dal rispondere, per non mettere in sospetto i militi della ronda, quantunque fossero tutti occupati a fumare i sigari, veramente eccellenti, dell'uomo barbuto. Dopo aver percorso quattro o cinque vie, il drappello sbucava su una vasta piazza, in mezzo alla quale s'innalzava una magnifica chiesa di enormi dimensioni: quella chiesa che doveva piú tardi far passare un terribile momento agli abitanti della piccola città. Di fronte sorgeva un palazzotto, munito sulla cima di merli e di minuscole torricelle e con un ampio portone che metteva su uno spazioso patio: era l'abitazione di S. E. il marchese di Montelimar, governatore di Pueblo-Viejo. Una grossa lampada, formata da sette od otto candele riunite e racchiuse dentro un enorme globo di vetro giallo, illuminava l'entrata e i due alabardieri che erano di guardia. - S. E. dorme, - disse il capo della ronda, dopo aver dato uno sguardo verso le finestre che erano tutte chiuse ed oscure. - Non c'è nessuna premura, - rispose il guascone. - Mi offrirà il cioccolatte domani mattina, quando si sarà alzato. Oh! ... Siamo vecchie conoscenze. - Chiederò per voi e pei vostri compagni una buona stanza, dei buoni letti ... - E delle bottiglie e una cena, - disse don Barrejo. - Ho dei dobloni da spendere io, e che non sanno che cosa fare in fondo alle mie tasche. Probabilmente si annoieranno come il suo padrone. Eccovene uno purché ci diate da mangiare e da bere. Sono troppo arrabbiato per coricarmi. - Farò il possibile per contentarvi, - rispose il capo-ronda, il quale in fondo doveva essere un brav'uomo. - S. E. ha una buona cucina e un ottimo cuoco, a quanto si dice, e andrò a scovare quanto è rimasto di meglio della cena. Scambiò alcune parole cogli alabardieri di guardia e guidò i prigionieri su per un magnifico scalone di marmo giallo, introducendoli in una stanza situata al primo piano, la cui porta era aperta. - Attendetemi lí dentro, mentre vado ad avvertire il maggiordomo di S. E. Il guascone e i suoi due amici fecero la loro entrata, mentre la ronda si metteva di guardia al di fuori ... Quantunque la mezzanotte fosse già scoccata, quella stanza era ancora illuminata da un paio di candele. Era una specie di sala, ammobigliata senza lusso, poiché non conteneva che una immensa tavola coperta d'un tappeto verde e una dozzina di sedie e due scaffali pieni di libracci polverosi. - Che sia la biblioteca di S. E.? - chiese il guascone. - Cosí parrebbe, - rispose Mendoza, il quale osservava attentamente tutti gli angoli, sperando di trovare qualche uscita ignorata dal capo-ronda. - Ci sono delle inferriate alle finestre? - domandò il guascone. Il fiammingo alzò le pesanti tende e fece una smorfia. - È una sala-prigione, questa, signori miei, - disse. - Quel capo-ronda, malgrado la sua aria d'ingenuo, deve essere un furbo di tre cotte. - Come ve la caverete ora, don Barrejo? - chiese Mendoza, il quale aveva ispezionata inutilmente la camera. - Il vostro amico governatore vi riconoscerà? - Il mio amico! ... Non ho mai veduto il marchese, io! ... Ma non ve ne date troppo pensiero, signor basco. La commedia non è ancora finita. Il fiammingo lo guardò con stupore. - Siete il diavolo voi? - disse. Il guascone si volse guardandosi dietro la schiena. - Io non ho la coda, - rispose poi. - Come vi può essere un diavolo senza quella nera o rossa appendice? Se io non la posseggo, vuol dire che io sono un uomo al pari di voi, signor fiammingo. - Se non siete veramente compare Belzebú, dovete essere qualche suo stretto parente, - disse Mendoza, ridendo. In quel momento la porta si aprí ed entrò il capo-ronda, seguito da due servi africani, i quali portavano dei canestri coperti con delle salviette. - Signor conte d'Alcalà, - disse, rivolgendosi al guascone, mi rincresce dovervi avvertire che non vi sono piú stanze disponibili nel palazzo di S. E. e che quindi sarete costretti a passare la notte qui. Se vorrete vi farò portare dei materassi. - È inutile, - rispose don Barrejo. - Abbiamo piú fame che sonno, piú sete che desiderio di riposarci e ci basteranno un paio di sedie. Io sono un uomo di guerra, e i miei servi sono abituati a dormire sulla nuda terra, quando sono in campagna. - Devo pure avvertirvi, signor conte, che ho ricevuto l'ordine di rimanere con voi. - Eh! - fece il guascone, corrugando la fronte. - Forse voi non gli avete detto che io sono il conte d'Alcalà. - Anzi ho aggiunto tutti gli altri vostri titoli, perché non mi sono ancora sfuggiti dalla mente, tanto sono simpatici. Il capo-ronda aveva pronunciato queste parole con una leggiera punta d'ironia, che non era sfuggita al terribile avventuriero. - Ciò mi rincresce, - disse finalmente il guascone, dopo d'aver fatto alcuni passi lungo l'immensa tavola. - È una prova di poca fiducia. - Io, signor conte, non sono altro che un povero soldato e devo obbedire sempre. - Ci avete portato almeno da mangiare e da bere? - Tutto quello che ho trovato nella cucina di S. Eccellenza il signor Governatore. - Dovevate aggiungere almeno un bossolo e dei dadi, per fare qualche partita al montes. - Un soldato tiene sempre nelle tasche l'uno e gli altri, per ammazzare alla meglio il tempo, quando non è di guardia. - Bene, bene, - disse il guascone. - Cenerete con noi. Congedate almeno quei due negri. Io non amo vedermi intorno delle facce nere quando mangio. Il capo-ronda prese i due grossi canestri e li depose sulla tavola, poi fece un segno ai due schiavi, i quali uscirono subito, dopo d'aver fatto un profondissimo inchino. Mendoza e il fiammingo, che dovevano passare, di fronte al soldato pei servi del conte, vuotarono lestamente i due canestri mettendo sulla tavola della carne fredda, un paio di anitre che erano state appena toccate, del formaggio salato e dei dolci, nonché una mezza dozzina di bottiglie francesi, almeno a giudicarlo dalle etichette dorate. - Ceniamo, - disse il guascone, con fare burbero. - Con un doblone per il cuoco di S. E. potevano fornirci qualche cosa di meglio. - I pranzi non s'improvvisano, signor conte, - disse il caporonda. - La mezzanotte è già scoccata da un bel po' e tutti i negozi sono chiusi. - Bene, bene: mangiamo. I tre avventurieri, ai quali l'appetito non faceva mai difetto a qualunque ora del giorno, si misero a divorare gli avanzi della cena di S. E. il governatore, avanzi già abbondanti anche per quattro uomini. Il capo-ronda, che forse mai si era trovato dinanzi a delle anitre cosí splendidamente arrostite, faceva del suo meglio per gareggiare col signor conte d'Alcalà, d'Aramejo, de Mendoza y Alicante, y Bermejo de los Angelos e d'altri luoghi ancora, e s'attaccava con slancio anche alle bottiglie che il basco andava sturando a due alla volta. Quando tutta quella grazia di Dio fu scomparsa, il capo-ronda, che era diventato di buonissimo umore sotto l'influenza dei vini di Spagna e di Francia, trasse il bossolo e i dadi, ed i quattro uomini giuocarono parecchie partite al montes, scommettendo un bel numero di piastre. Specialmente i tre prigionieri mostravano una calma meravigliosa, piú apparente che reale però, poiché fra un colpo e l'altro dei dadi non cessavano di dare uno sguardo verso le due finestre, paventando la comparsa del sole. Forse il meno inquieto era il guascone. Probabilmente quel diavolo d'uomo doveva aver architettato qualche cosa di straordinario per levare sé e i suoi compagni da quel ginepraio, in fondo al quale potevano nascondersi tre buone corde per appiccarli. Gli spagnuoli non erano troppo teneri, e con ragione, coi filibustieri e di rado se li lasciavano sfuggire di mano, quando avevano la fortuna di potere acciuffare qualcuno di quei formidabili scorridori dei mari americani. Purtroppo il mattino giunse e la luce cominciò a trapelare attraverso le tende. Mendoza ed il fiammingo guardarono con ansietà il guascone, il quale stava in quel momento giuocando dieci piastre contro il capo-ronda. Don Barrejo non pareva affatto preoccupato. Solamente una ruga piuttosto profonda, che gli solcava la fronte, tradiva qualche apprensione. Terminò la partita, intascò il denaro che aveva vinto, poi si alzò, dicendo: - È giunto il momento d'andare a bere una tazza di cioccolatte da S. E. il marchese di Montelimar. Si alza presto, signor soldato? - È molto mattiniero, essendo sempre stato un gran cacciatore, rispose il capo della ronda. - Allora sarà già in piedi. - Lo credo. - Volete degnarvi di andarlo ad avvertire che il conte d'Alcalà desidera salutarlo? - Dovrò anzi spiegargli il motivo del vostro arresto, per evitarmi una punizione. - Andate pure. Il capo-ronda stava per alzarsi, quando la porta si aprí ed entrò un signore piuttosto attempato e vestito come un grande di Spagna. Il signor intendente di S. E. disse il soldato, inchinandosi. - Dov'è questo conte d'Alcalà? disse il vecchio. Sono io, signore, - rispose il guascone, facendo un lieve saluto colla destra. - S. E. il marchese di Montelimar vi aspetta. - Sa perché mi hanno arrestato? - Gli ho narrato il vostro disgraziato caso, signor conte, e spero che tutto si accomoderà. - Sono pronto a seguirvi. - E noi, signor conte? - chiesero Mendoza ed il fiammingo. - Mi aspetterete qui. Io non ho la cattiva abitudine di condurre i servi dinanzi ai gentiluomini. Signor intendente sono ai vostri ordini. - O quel demonio lí ci fa mettere in libertà o rovina tutto e ci fa appiccare, - mormorò il basco. Il finto conte era già uscito, seguendo l'intendente, mentre il capo-ronda rimaneva a guardia del basco e del fiammingo. Dopo aver attraversato parecchi corridoi, che invece delle finestre avevano delle feritoie, poiché tutti i palazzi dei governatori spagnuoli delle colonie dovevano servire da fortezze in caso di pericolo, il guascone fu introdotto in un elegantissimo salotto con divani e poltroncine di seta gialla a fiori rossi e tendaggi ricchissimi, i quali attenuavano assai la luce. Un uomo di circa quarant'anni, d'aspetto distinto, con barba e baffi un po' brizzolati, con due occhi nerissimi e molto vivi, affogato in un enorme colletto inamidato, come si usava in quel tempo, stava seduto dietro ad un bellissimo scrittoio di acagiú, coperto d'un ricchissimo tappeto di seta azzurra a ricami ed ingombro d'una straordinaria quantità di pergamene. - Oh! ... Eccellenza! ... Sono molto lieto di rivedervi dopo tanti anni, - disse il guascone, avanzandosi audacemente colla destra tesa. Il governatore di Pueblo-Viejo non potè fare a meno di alzarsi, guardando fisso fisso l'avventuriero. - Come! ... Non vi rammentate piú del conte d'Alcalà, signore d'Aramejo, di Mendoza y Alicante, y Bermejo de los Angelos? Mio padre era un grande di Spagna. Voi siete bene il marchese di Maracaibo e di San Domingo? - Certo, - disse il governatore, il quale guardava con crescente stupore l'audace avventuriero. - E allora dovete rammentarvi di me, - disse il guascone, il quale giuocava disperatamente le sue ultime carte. - Dove mi avete veduto voi, signor conte? - Nel palazzo di vostra cognata, la bellissima marchesa di Montelimar. Abbiamo bevuto insieme il cioccolatte, Eccellenza, vicino a un tavolo da giuoco o nella gran sala. Ora non mi rammento bene, perché sono trascorsi parecchi anni. - Può darsi, - rispose il governatore. - Ho abitato infatti per qualche tempo il palazzo del defunto mio fratello. - Me ne ricordo come fosse ieri, - proseguí il guascone. - Vi era un concerto quella sera nella dimora principesca dei Montelimar. Ah! ... Che splendida serata! ... - Voi dunque conoscete mia cognata? - La marchesa Carmen di Montelimar! ... È la perla delle grandi Antille! ... - E come, voi, signor conte, vi trovate qui in istato d'arresto? - Sono due mesi che viaggio per recarmi a Panama, dove devo raccogliere una piccola eredità di centomila dobloni, lasciatimi dal duca di Barraquez, mio zio materno. - E la chiamate una piccola eredità? - Eh! ... Miseria, - disse il falso conte. - E perché avete interrotto il vostro viaggio e vi siete fatto arrestare dalle ronde notturne? Mi si dice che avete fatto molto baccano in una taverna della città. - Vi dirò, Eccellenza, che lungo la via, anzi a poche leghe dalla città, sono stato assalito da una turba d'indiani, i quali mi hanno massacrata mezza scorta, uccisi i cavalli e rubate anche tutte le armi da fuoco. È stato un vero miracolo se ho salvato solamente la mia spada e se sono riuscito a liberare due dei miei servi. Gli altri a quest'ora saranno stati già divorati, poveri diavoli. - Questi indiani cominciano a diventare troppo prepotenti! - esclamò il marchese. - Sarà necessario dare loro qualche terribile lezione, caramba. - Era appunto quello che pensavo anch'io, quando sono entrato in questa città, a piedi come un mendicante e senza nemmeno un archibugio, - disse il guascone. - Ed ora che cosa intendete di fare? - Di andarmene al piú presto a Panama, a raccogliere quei pochi dobloni, - rispose il guascone. - Avete già acquistati altri cavalli ed altre armi? - No, Eccellenza, anzi sono molto preoccupato per questo, non essendomi rimasto che una cinquantina di piastre. Gl'indiani hanno portato via tutte le mie valigie, insieme a duemila dobloni che avevo preso con me per le spese del viaggio. Il guascone aveva pronunciate queste parole con accento cosi commosso, che S. E. il governatore fu profondamente impressionato. - Signor conte, - disse, - è uso di aiutarsi fra gentiluomini. Ho nelle mie scuderie dei buonissimi cavalli, dei veri andalusi, e nel magazzino delle armi, archibugi e pistole, in grande quantità. Se volete, approfittate pure senza riguardi di sorta: quando sarete giunto a Panama mi rimborserete gli animali. - E che cosa potrò fare io per voi, Eccellenza? - chiese il guascone, che sembrava vivamente commosso. - Mi saluterete il viceré di Panama, a nome mio. - Farò di piú, Eccellenza. Un uomo che eredita centomila dobloni in contanti ... - Lasciate andare, signor conte. Ah! ... Ed il vostro affare? - Quale? - Spiegatemi perché le mie ronde vi hanno arrestato. Il guascone si mise a ridere. - È stato in causa d'una comica avventura. Eccellenza, - disse. - Non conoscendo la città, mi ero rifugiato, insieme ai miei due servi, in una taverna, per mangiare un boccone e rimettermi un po' dall'emozione provata. Il padrone, avendo saputo, non so come, che io ero un conte, mi fece pagare un'anitra ed una miserabile bottiglia di metzcal, la bagatella d'un doblone. Io protestai, quel briccone protestò pure, anzi lanciò contro di me tutti i suoi cuochi armati di spiedi, e allora sguainai la spada e li mi si tutti in rotta. Io credo che un altro gentiluomo non avrebbe fatto diversamente. - Forse di peggio, - disse il marchese, ridendo. - Ne avrebbe infilzato qualcuno. - E ne avrei infatti sbudellato qualcuno, se non fossero scappati tutti come veltri. - È meglio che l'avventura sia terminata senza spargimento di sangue, conte. Quando volete partire, dunque? - Se fosse possibile, immediatamente, - rispose il guascone, il quale temeva, e non senza ragione, che da un momento all'altro giungessero il taverniere d'El Moro ed i suoi aiutanti. Il governatore batté le mani e subito comparve l'intendente, seguito da due servi negri, i quali portavano su dei vassoi d'argento delle tazze colme di cioccolatte e dei pasticcini. Il marchese scambiò col suo segretario alcune parole a mezza voce, poi, rivolgendosi verso il guascone, gli disse amabilmente: - Spero, signor conte d'Alcalà, che non rifiuterete una tazza di cioccolatte. Già noi in America ne facciamo molto uso, lo sapete. - Ne bevo sempre, quando apro e quando sto per chiudere gli occhi, - rispose il guascone, prendendo una tazza e vuotandola frettolosamente. - Eccellenza, - proseguí poi, - al mio ritorno, se non vi dispiace, verrò a ritrovarvi. - La mia casa è sempre aperta ai gentiluomini d'oltre Atlantico, - rispose cortesemente il governatore, porgendo la destra al falso conte. Don Barrejo gliela strinse calorosamente, fece tre profondi inchini, poi uscí dal salotto, facendone, prima di varcare la soglia, altri tre anche piú profondi. Sul pianerottolo lo aspettava l'intendente. - I cavalli e le armi sono pronte, signor conte, - gli disse. - Il marchese è una persona dabbene, - rispose don Barrejo. - Quando avrò incassata la mia eredità non mi scorderò né di lui, né di voi. Centomila dobloni non sono gran cosa, tuttavia non sono, dopo tutto, cento piastre. - Dite: una fortuna colossale, signor conte. - Peuh, - disse il guascone. - Mio zio avrebbe potuto lasciarmi ben di piú. Era il nipote dell'arcivescovo di Panama, quello morto sei anni fa e so che era ricchissimo. Oh! ... Non importa! ... Signor intendente, volete farmi il favore di far avvertire i miei uomini di venirmi a raggiungere? - Me ne incarico io, - rispose il brav'uomo. - Scendete pure, signor conte, troverete i cavalli pronti dinanzi alla porta del palazzo. - Grazie, signor intendente: quando sarò in possesso dei miei centomila dobloni non mi scorderò di voi. Scese lo scalone, senza troppo affrettarsi, quantunque avesse invece il desiderio di fare una sola volata fino al di là dei bastioni, per paura che da un momento all'altro giungesse quel maledetto taverniere a guastare la faccenda cosi bene incamminata, e uscí dal palazzo. Dinanzi, trattenuti da due negri, scalpitavano tre bellissimi cavalli sauri, dalla criniera lunghissima, bassi di statura, come sono generalmente quelli di Tazza andalusa, i migliori che abbia la Spagna, perché velocissimi, resistentissimi e d'una solidità meravigliosa. Il guascone li esaminò a lungo, da uomo che se ne intende, poi si stropicciò allegramente le mani, dicendo: - Per bacco! ... Il signor marchese di Montelimar possiede dei cavalli splendidi! ... Quando avrò ereditato i miei centomila dobloni, lo pregherò di vendermene alcuni. Non manca nulla; bardatura solida, archibugio appeso alla sella, pistole nelle fonde. È ben gentile S. E. il Governatore. Si capisce che queste parole le aveva pronunciate a voce alta, perché le udissero i due staffieri che trattenevano i cavalli ed i due alabardieri che stavano di guardia dinanzi al magnifico portone del palazzo. In quel momento comparvero Mendoza ed il fiammingo, accompagnati dal capo-ronda, il quale appariva molto avvilito per l'enorme granchio che aveva preso. - A cavallo i miei servi, - disse il guascone, montando in sella, da cavallerizzo esperto. - Vi avverto che ho molta premura e che quindi faremo una lunga trottata. Il basco ed il fiammingo erano rimasti immobili, come trasognati, guardando con profondo stupore quel diavolo d'uomo. Credevano di venire condotti in una prigione meno comoda di quella del palazzo del governatore, per poi venire con ogni probabilità appiccati, e si trovavano invece dinanzi dei magnifici cavalli e delle armi. - Mi avete capito? - gridò don Barrejo, facendo un gesto d'impazienza. - Il signor governatore ha riconosciuto l'errore commesso dalle sue guardie e ci ha rimessi in libertà. Diamine! ... Non poteva certo mantenere l'arresto d'un conte d'Alcalà. Quindi, volgendosi verso il capo-ronda, gli disse con voce severa: - E voi un'altra volta siate piú guardingo, caramba! ... - Signor conte, ricevete le mie scuse, - rispose il povero soldato. - E voi ricevete invece questi, - rispose il guascone, levando da un taschino alcune piastre e gettandogliele dinanzi. - Avanti! Allentò le briglie e si allontanò, seguito dal basco e dal fiammingo, mentre gli alabardieri di guardia gli presentavano le armi e gli staffieri negri si inchinavano fino a terra. Il guascone, che aveva sempre una grande paura che giungesse il taverniere, attraversò la città al trotto, passò il ponte levatoio e lanciò il cavallo a gran carriera, mormorando: - Anche questa volta non hanno avuto il tempo d'intrecciare la corda per appiccarmi.

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