Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbastanza

Numero di risultati: 14 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Centosessanta maniere di di cucinare gli erbaggi e i legumi

270662
3 occorrenze

Non importa salare, giacchè il grasso dell’arista dovrebbe esser già salato abbastanza: se ciò non fosse, si potrebbe correggere il difetto dopo assaggiati i broccoli.

Pagina 021

Rivoltate col mestolo, e quando il cavolo avrà soffritto abbastanza, aggiungetevi qualche cucchiaiata del sugo di carne descritto al N. 22, e pochi capperi.

Pagina 022

Pulite una quantità di carote, tagliatele a pezzetti e mettetele al fuoco con burro e cipolla trinciata: quando saranno abbastanza rosolate, bagnatele con brodo bollente, lasciandole finir di cuocere a fuoco lento. Versate quindi il contenuto nel mortaio, pestatelo, passatelo nello staccio, ed otterrete una densa poltiglia, che rimetterete al fuoco sciogliendola con del buon sugo di carne, descritto al N. 22, lasciandola concentrare sino a giusta consistenza.

Pagina 17

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

682165
Salgari, Emilio 11 occorrenze

. - Ne so abbastanza d'altronde, - mormorò il ministro. - Andiamo ad avvertire subito il favorito e prendiamo le nostre misure per sorprendere quei misteriosi congiurati. Fortunatamente abbiamo i seikki e quelli sono guerrieri che non hanno paura di nessuno. - Date prima i vostri ordini, signore - disse il maggiordomo. - Lasciala riposare tranquilla e se si sveglia trattala coi dovuti riguardi. Può essere sotto la protezione del governatore del Bengala ed il rajah non ha alcun desiderio di far entrare gli inglesi in questa faccenda. Domani puoi venire alla corte? - Sì, mio signore. Ho un fratello che fa il chitmudgar. - Veglia attentamente. - Tutti i servi sono stati armati. - Il ministro uscì accompagnato dal maggiordomo e scese nel giardino che si estendeva dietro alla casa. Otto uomini, tutti armati, stavano intorno ad uno di quei palanchini chiamati dâk con due portatori di torce. - Al palazzo del rajah, - comandò il ministro. - Presto: ho molta fretta. -

- Mylord, - disse il rajah, dopo un silenzio abbastanza lungo. - Io ho offerto onori e ricchezze a chi avrebbe ricuperata la pietra di Salagraman. - Io saperlo,- rispose Yanez. - E non domandi nulla. - Io essere contento cacciare bâg ed essere tuo grande cacciatore. - Se ciò può farti felice, io ti offro alla mia corte un appartamento, i miei elefanti ed i miei scikari (7).

. - Ne avrai sempre abbastanza, - rispose freddamente Sandokan. - Se io avessi risparmiati tutti i miei nemici, non sarei diventato la Tigre della Malesia, né avrei potuto rimanere per tanti anni nella mia Mompracem. D'altronde io non potrei tenere troppi prigionieri: ne ho già due nella jungla, uno dei quali potrebbe darmi dei gravi fastidi. - Chi è? - Il fakiro che ti ha rapita, mia cara Surama. Se quello riuscisse a scapparmi, a noi non resterebbe altro che di rifugiarci al più presto nel Borneo, e allora la tua corona sarebbe perduta. Ah! ci corrono dietro! La vedremo, signori miei: abbiamo palle e polvere ancora. - Il mur-punky che era montato da otto rematori e da un timoniere, filava rapidissimo tenendosi sulla scia della bangle. Che quegli uomini fossero semplici rematori, vi era da dubitare, poiché gli sguardi acuti di Sandokan avevano veduto, quantunque cominciasse solo allora a rischiararsi il cielo, le estremità di parecchi fucili che s'appoggiavano sui due bordi. Poteva darsi che fossero cacciatori in cerca di anitre bramine e di oche, volatili che abbondano sempre sulle rive dei grandi fiumi dell'India, specialmente su quelli che bagnano le terre orientali di quella immensa penisola. Ad un tratto però la leggera baleniera si gettò fuori dalla scia, piegando a destra e con uno sforzo di remi sorpassò la bangle, che in causa della sua pesante costruzione e dei suoi larghi fianchi, non poteva vincerla in velocità, e con non poca sorpresa di Sandokan e di Tremal-Naik, si diresse verso la riva sinistra, dove si scorgeva vagamente, sotto le immense fronde di tamarindi costeggianti il fiume, una massa nera. - Che cosa significa questa manovra? - si chiese il pirata corrugando la fronte. - Che ci siamo ingannati? - disse Tremal-Naik. - Adagio, amico - rispose Sandokan. - Che cos'è, innanzi a tutto, quell'ombra grossa che si nasconde sotto le piante? - Da' ordine al timoniere di accostarsi alla riva. Voglio vederci chiaro in questa faccenda. - Toh! Guarda, Tremal-Naik. Il mur-punky l'ha abbordata. - Che sia qualche bangle? In tale caso non dovremmo spaventarci. Quegli uomini del mur-punky possono essere marinai che tornano a bordo del loro legno. - Uhm! - fece Sandokan. - Non sono affatto rassicurato. Ehi, Kammamuri, poggia ancora! - La bangle deviò verso la riva sinistra mentre i malesi rallentavano la battuta e passò dinanzi alla massa oscura a trenta o quaranta metri di distanza. Un doppio grido di stupore sfuggì dalle labbra del pirata e del bengalese. - Il poluar! - Si guardaron l'un l'altro interrogandosi cogli occhi. - Sarà poi quello che ci ha seguiti quando scendevamo il fiume? - chiese finalmente Tremal-Naik. - Quando io ho veduto una volta una nave non la scordo più, - rispose Sandokan. - Quello è il poluar che ci ha dato la caccia. - E che si prepara a seguirci ancora, - aggiunse Kammamuri, che aveva ceduto il timone ad un malese. - Stanno spiegando le vele. - Eppure non devono scoprire il nostro rifugio, - disse Sandokan che era diventato pensieroso. - Vorresti assalirlo? - chiese Surama, - Un equipaggio ben più numeroso del tuo. - Ho un'idea, - disse Sandokan, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso. - Tu, Kammamuri, saresti capace di fabbricarmi una bomba? Basterà una scatola di latta, una di quelle che contengono le conserve. Ne dobbiamo avere qui. - Ne ho fatto imbarcare una dozzina piene di biscotti, prima di lasciare la jungla. - Basterà una di quelle: con un chilogrammo di polvere si può produrre un bel guasto. Lega però solidamente la scatola, con del filo di ferro se lo puoi trovare e mettici una buona miccia, che non sia più lunga di cinque centimetri. - E con quale cannone la lancerai a bordo del poluar? - chiese Tremal-Naik. - Andrò io a regalarla a quei signori, - rispose Sandokan. - Saremo costretti ad aspettare la notte poiché il sole già si alza; ma noi non abbiamo fretta ed i nostri amici, che sono nella jungla, non si inquieteranno pel nostro ritardo. - Non riesco a comprendere il tuo progetto. - Lo capirai quando mi vedrai all'opera. Va' a riposarti, Surama, tu devi essere molto stanca. Ti sveglieremo all'ora della colazione e tu Kammamuri va' a fabbricarmi la bomba e metti fra la polvere più palle di carabina che puoi. Vedremo poi come se la caverà quel poluar. - Accese la pipa e si portò a poppa della nave per sorvegliare le mosse di quei misteriosi naviganti. Il piccolo naviglio, levate le ancore e sciolte le sue due vele quadrate, aveva lasciata la riva ed avendo il vento favorevole, si era messo dietro alla bangle tenendosi ad una distanza di tre o quattrocento metri. Dietro la poppa rimorchiava il mur-punky. Se avesse voluto avrebbe potuto superare facilmente la pesante barca di Sandokan, essendo quei piccoli bastimenti velocissimi, anche con vento scarso; ma si vedeva che il suo equipaggio non aveva alcun desiderio di fare troppo cammino, poiché di quando in quando abbassava ora l'una ora l'altra vela per rallentare la marcia. Essendosi il sole ormai innalzato sopra le immense foreste del levante, Sandokan e Tremal-Naik potevano distinguere facilmente le persone che montavano quel poluar. Non erano che dieci o dodici e parevano battellieri, non avendo per vestito che un semplice dootèe annodato intorno ai fianchi per esser più lesti a montare sull'alberatura, ma forse altri si tenevano nascosti nella stiva. Una cosa aveva subito colpito il pirata ed il bengalese: era un enorme tamburo, uno di quelli che gl'indiani chiamano hauk e di cui si servono nelle feste religiose, tutto adorno di pitture e di dorature e sormontato da mazzi di penne variopinte e che si trovava collocato fra i due alberi, quasi in mezzo alla coperta. - Quello non è un istrumento da guerra, - disse Sandokan, a cui nulla sfuggiva, - né fino ad oggi ho veduto quei tamburoni sui velieri indiani. - E nemmeno io, - rispose Tremal-Naik. - Lo hanno collocato là per qualche motivo e che io forse indovino. - Vuoi dire? - Che quegli istrumenti quando sono vigorosamente percossi si possono udire a distanze incredibili. - Sicché servirebbe? - Per trasmettere dei segnali. - Sono della tua opinione, - disse Sandokan. - Si prepara qualche cosa contro di noi. Ormai abbiamo fatto troppe osservazioni. - Bah! aspettiamo questa sera e anche quel tamburone andrà a tenere allegra compagnia ai pesci del Brahmaputra. - La bangle intanto continuava la sua marcia, senza troppo affrettarsi, non volendo Sandokan allontanarsi di troppo dal canale che conduceva alla laguna, seguìta ostinatamente dal poluar, il quale si sforzava di mantenersi sempre alla medesima distanza, quantunque la brezza mattutina fosse diventata più forte. Il fiume che si svolgeva superbo, scendendo dolcemente, invece di restringersi tendeva ad allargarsi, scorrendo fra due magnifiche rive coperte di palas, di palmizi tara, di mangifere splendide e di nim dal tronco enorme e dal fogliame cupo e foltissimo. Di quando in quando compariva qualche risaia, chiusa tra arginetti alti alcuni piedi, destinati a trattenere le acque, tutta coperta da lunghi steli d'un bel verde e che producono dei chicchi enormi; ma ben presto la foresta riprendeva il suo impero svolgendosi fra un caos di liane che formavano dei pergolati bellissimi. Numerose bande di semnopiteci, svelte e leggere scimmie che gli indiani chiamano langur, alte un metro e mezzo, ma così magre da non pesare oltre dieci chilogrammi, si mostravano sugli alberi e salutavano i naviganti con fischi acuti, scagliando nel medesimo tempo frutta e ramoscelli, essendo insolentissime. Sulle rive invece, fra i canneti, svolazzavano gruppi di bellissime anitre bramine, di cicogne, di bozzagri e di marabù e sonnecchiavano indolentemente, scaldandosi al sole, grossi coccodrilli dai dorsi rugosi e coperti di piante acquatiche. A mezzogiorno, Sandokan fece dirigere la bangle verso la riva sinistra e affondare l'ancora, onde permettere ai suoi uomini di far colazione. Il poluar continuò la sua marcia per altri tre o quattrocento metri per non destare forse dei sospetti, ma poi poggiò verso la riva destra gettando le sue ancore in un minuscolo seno, dove l'acqua era ancora abbastanza profonda. Dal fumo che sfuggiva dal casotto di poppa, Sandokan s'accorse subito che anche quell'equipaggio si preparava il pasto del mezzodì. - Hai ancora qualche dubbio sulle intenzioni di quegli uomini? - chiese a Tremal-Naik. - No, - rispose il bengalese che appariva preoccupato. - Se non troviamo il mezzo di sbarazzarci di quel legno, non ci lasceranno più. Quegli uomini devono aver ricevuto l'ordine di spiarci. - Aspettiamo questa notte. - Fecero chiamare Surama e pranzarono sulla tolda, dopo d'aver avuto la precauzione di far stendere una vela sopra le loro teste onde preservarsi da qualche colpo di sole. Non fu che verso le quattro del pomeriggio che Sandokan fece dare il segnale della partenza. La bangle si era appena mossa che anche il poluar spiegava una delle sue due vele, prendendo la medesima via. - Ah, non volete lasciarci? - disse il pirata. - La bomba è pronta e penserà essa ad arrestarvi anche in piena corsa. - Le due barche continuarono a navigare di conserva, l'una a remi e l'altra a vela, mantenendo la medesima distanza che variava dai trecento ai cinquecento metri. La regione era diventata deserta. Non si scorgevano più né risaie, né capanne e nemmeno barche. La jungla, sfuggita da tutti gli abitanti che non avevano alcun desiderio di ricevere le visite poco gradite delle tigri e delle pantere, non doveva essere lontana. Infatti verso il tramonto, la bangle che si era avanzata assai, benché lentamente, passava dinanzi al canale che conduceva nella palude; ma Sandokan vedendosi sempre alle costole il poluar, si guardò bene dal dare il comando di cacciarvisi dentro. Lasciò che la barca risalisse il fiume per un paio di miglia ancora, poi, quando le tenebre scesero, fece gettare di nuovo le ancore presso la riva sinistra. Il poluar, come aveva fatto al mezzodì, proseguì la sua marcia per alcune centinaia di metri e si ancorò non già sulla riva opposta, bensì in mezzo al fiume, onde sorvegliare più strettamente la piccola barca. - Cenate pure, - disse Sandokan a Tremal-Naik ed a Surama. - E tu? - chiese il bengalese. - Mangerò dopo il bagno. - Che cosa vuoi tentare? - Non te l'ho detto? Voglio sbarazzarmi di quegli spioni. - E come? - Il tuo bravo Kammamuri m'ha preparato una bomba veramente splendida. Quando tu, Surama, diventerai la regina dell'Assam lo nominerai generale dei granatieri. - Io farò tutto quello che desidereranno i miei protettori, - rispose la giovane con un amabile sorriso. - Pensiamo ora al nostro affare, - disse Sandokan. - La notte è oscura e nessuno mi vedrà attraversare il fiume. - Tu vuoi farti divorare! - esclamò Tremal-Naik spaventato. - Da chi? - Vi sono coccodrilli e anche squali d'acqua dolce nelle acque del Brahmaputra. - Sandokan alzò le spalle, poi levandosi dalla fascia il kriss malese disse con noncuranza: - E quest'arma a che cosa dovrebbe dunque servire? - chiese. - Quando il vecchio pirata di Mompracem l'ha bene in pugno, se ne ride degli uni e anche degli altri. La mia carne non fa per loro, tranquillizzati. - Lascia che t'accompagni. - No, amico. In queste faccende non può agire che un solo uomo. - Non mi hai spiegato ancora il tuo progetto. - È semplicissimo. Vado ad appendere la mia bomba ai cardini del timone del poluar, accendo la miccia e ritorno tranquillamente a bordo della mia bangle. Vedrai che guasto farà quel chilogrammo di polvere! Kammamuri, sono pronto. - Il maharatto accorse portando con una certa precauzione la famosa bomba, la quale non consisteva che in una scatola di latta, bene cerchiata con filo di rame tolto dai bordi della bangle, con una miccia lunga otto o dieci centimetri ed un gancio, ad una delle due estremità, formato pure di filo di rame, per poterla appendere ai cardini del timone. Sandokan la esaminò attentamente, fece col capo un gesto come d'uomo soddisfattissimo, poi entrato nel casotto di poppa, si spogliò rapidamente stringendosi ai fianchi un dootèe e passandovi dentro il kriss. - Ora tu, mio bravo Kammamuri, mi legherai sulla testa la bomba e vi unirai l'acciarino e l'esca. Assicura bene l'una e gli altri, onde non costringermi a rifare il viaggio. - Kammamuri non si fece ripetere due volte l'ordine. - Fa' calare una fune ora, - riprese Sandokan. - Bada ai coccodrilli, signore, - disse Surama che sembrava commossa. - Tu arrischi la tua preziosa vita per me. - E per gli altri, - rispose il fiero pirata. - Sii tranquilla, mia bella fanciulla. La carne delle vecchie tigri di Mompracem è troppo coriacea. - Stese la mano alla giovane ed a Tremal-Naik, raccomandò il più assoluto silenzio, poi si lasciò scivolare lungo la fune, immergendosi, dolcemente, nella corrente dal fiume. Surama, Tremal-Naik e tutto l'equipaggio, avevano seguìto ansiosamente cogli sguardi il formidabile pirata chiedendosi, non senza sgomento, come sarebbe finito quell'audace tentativo, ma dopo pochi istanti lo perdettero di vista essendo l'acqua oscurissima ed il cielo coperto di vapori. Sandokan si era messo a nuotare silenziosamente, tagliando la corrente, che era d'altronde debolissima, senza far rumore. Con frequenti colpi di tallone si teneva ben alto, temendo che qualche spruzzo bagnasse l'esca o la miccia. Il poluar si trovava a soli quattrocento metri: una distanza derisoria per un uomo dell'arcipelago della Sonda. Nessun nuotatore può competere con un malese ed un bornese della costa. Si può dire che quegli audaci pirati nascono nel mare e che vi muoiono dentro. Sandokan, di passo in passo che s'accostava al piccolo veliero indiano, diventava più prudente. Non era il timore d'incontrare qualche coccodrillo o qualche squalo d'acqua dolce, bensì il timore che degli uomini vegliassero a bordo e che potessero scorgerlo. Di quando in quando si fermava per ascoltare, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava sul fiume e sul veliero, riprendeva la sua marcia silenziosa, agitando le braccia e le gambe con somma prudenza e sempre più dolcemente. A cinquanta passi dal poluar subì un urto. Credette per un istante che qualche sauriano cercasse di assalirlo; trovò invece sotto mano un corpo molle, che lo appestò col suo puzzo nauseante di carogna imputridita. - Un cadavere, - mormorò, respirando. S'allungò lasciando il passo al morto e con cinque o sei bracciate giunse sotto la poppa del veliero. Quantunque avesse avuta la precauzione di non levare le mani dall'acqua, gli uomini che vegliavano sul poluar, s'accorsero certamente di qualche cosa d'insolito, poiché udì distintamente una voce a dire: - Si direbbe, Maot, che qualcuno ha rasentato il bordo della nave. Hai udito nulla tu? - Solo il timone a cigolare sui cardini, - rispose un'altra voce. - Bah! qualche coccodrillo lo avrà urtato. - Sarà meglio accertarsene, Maot. Mi hanno detto i seikki che quelli che montano la bangle non sono indiani. - Guarda dunque. - Sandokan si era prontamente cacciato sotto la poppa, aggrappandosi al timone. Trascorse un mezzo minuto poi la medesima voce di prima riprese: - Non si vede nulla con questa oscurità, Maot. Ti ripeto che sarà stato un coccodrillo. Quelle brutte bestie non mancano su questo fiume. Dammi un po' di betel e riprendiamo la nostra guardia a prora. Dal castello osserveremo meglio. - Sandokan, che ascoltava attentamente, udì uno stropiccìo di piedi nudi allontanarsi. - Stupidi! - mormorò. - Al vostro posto non mi sarei accontentato di chiacchierare come pappagalli. Ah! sapete che noi non siamo indiani? Ecco una ragione di più per farvi saltare in aria. - Attese ancora qualche minuto, poi rassicurato dal profondo silenzio, che regnava sul poluar, levò con una mano la scatola, si mise fra le labbra l'acciarino e l'esca, badando bene di non bagnare quest'ultima e appese la bomba al secondo cardine. Ciò fatto strinse le gambe contro il timone e con grande precauzione, diede fuoco all'esca accostandola alla miccia. Il rumore però, per quanto lievissimo, prodotto dalla selce battuta contro l'acciarino, fu certamente udito dai due battellieri di guardia, poiché Sandokan s'accorse che s'avvicinavano. Si lasciò andare a picco nuotando sott'acqua con estrema velocità, onde non saltare insieme con la nave. Emerse a cinquanta metri e fissò subito gli occhi sul poluar. Piccole scintille cadevano sotto la poppa. Era la miccia che ardeva. - Eccovi serviti, - mormorò, tornando a tuffarsi e percorrendo sempre sott'acqua altri cinquanta o sessanta metri. Quando tornò a galla, urla acutissime partivano dal poluar: - Al fuoco! al fuoco! - Quasi nell'istesso momento un lampo squarciò le tenebre, seguìto da una detonazione che parve un colpo di cannone. La poppa del piccolo veliero era stata squarciata dalla bomba, e per l'enorme falla l'acqua entrava a torrenti. Il timone era stato già mandato in pezzi. A quel rimbombo, che si propagò lungamente sotto le interminabili volte di verzura che si estendevano sulle due rive, tenne dietro un breve silenzio, poi le grida dell'equipaggio tornarono a farsi udite: - Il poluar affonda! Si salvi chi può! - Sandokan con poche bracciate raggiunse la bangle e afferrata la fune, che non era stata ritirata, si issò sul ponte. Surama e Tremal-Naik erano accorsi. - Ah! Tigre della Malesia! - esclamò la prima. - Io ormai non dubito più di diventare una regina, quando l'uomo che mi protegge possiede tale audacia. - Tu sei un demonio, - aggiunse il bengalese. - Lascia che me lo dicano quei poveri diavoli che affondano, - rispose Sandokan, scuotendosi di dosso l'acqua. Il poluar s'inabissava rapidamente, inclinandosi verso la poppa. Numerosi uomini saltavano in acqua, mentre altri si salvavano sull'alberatura mandando grida di terrore, colla speranza che il fiume non fosse in quel luogo così profondo da inghiottire tutta la nave. - Lasciamoli urlare e raggiungiamo il canale, - disse Sandokan freddamente. - Se la cavino da loro. Ai remi, amici. - I malesi che avevano assistito impassibili a quel disastro, per loro già non nuovo, afferrarono le lunghe pagaie e la bangle ridiscese velocemente il fiume, aiutata dalla corrente, che si faceva sentire piuttosto forte lungo la riva sinistra. Per alcuni minuti i fuggiaschi udirono ancora le urla disperate dei disgraziati che venivano tratti a fondo insieme col naviglio, poi il grande silenzio tornò ad imperare sul Brahmaputra. Sandokan che si era affrettato ad indossare le sue vesti, aveva raggiunto Surama e Tremal-Naik, che dall'alto della poppa cercavano ancora di discernere il poluar. - Non mi ero ingannato, - disse loro. - Ho avuto la prova che quei battellieri avevano avuto l'incarico di sorvegliarci e fors'anche di catturarci. A bordo vi erano dei seikki del rajah. - E come l'hai appreso? - chiese il bengalese stupefatto. - Da un discorso fatto da due di quegli uomini, nel momento in cui stavo appendendo la scatola al timone. È un vero miracolo se non mi hanno scoperto. - Sanno dunque chi siamo noi? - chiese Surama. - Forse non lo credo, - rispose Sandokan, - ma qualche cosa è trapelato di certo dei nostri progetti. Tu devi aver parlato, Surama. - È possibile, se mi hanno dato da bere qualche narcotico. - E ciò m'inquieta per Yanez. - Non spaventarmi signore! - esclamò la bella assamese. - Tu sai quanto io ami il sahib bianco. - Tu finché Yanez non ci manda qualche messo, non devi preoccuparti. Aspettiamo che torni Bindar. - Tu però sospetti che possa correre qualche pericolo. - Pel momento no, e poi mio fratellino è un uomo da cavarsela anche senza il mio aiuto. Come ha giuocato James Brooke, il rajah di Sarawak, saprà burlare anche il rajah dell'Assam. Aspettiamo sue nuove. - La bangle che scendeva il fiume con grande rapidità, era già giunta dinanzi al canale che conduceva alla palude. Kammamuri che aveva ripreso il suo posto al timone, guidò la barca entro il passaggio, dopo essersi prima ben assicurato che nessun'altra nave spiava la bangle. Venti minuti dopo affondavano le ancore in mezzo al vasto stagno. Essendo la jungla pericolosissima di notte, Sandokan mandò a dormire i suoi uomini, che cadevano per la fatica, vi mandò poi Surama, e lui si stese sul ponte, su una semplice stuoia accanto a Tremal-Naik, dopo essersi messa a fianco la sua fida carabina. L'indomani, dopo aver assicurata bene la bangle che era loro necessarissima e d'averla nascosta sotto un enorme ammasso di canne e di rami, Sandokan ed i suoi compagni attraversarono felicemente la jungla e giunsero alla pagoda di Benar. I malesi ed i dayachi si trovavano riuniti, sorvegliando attentamente il fakiro ed il demjadar dei seikki. Durante l'assenza della Tigre della Malesia, nessun avvenimento aveva turbato la calma che regnava in quella parte della jungla. Solo qualche tigre e qualche pantera avevano fatto la loro comparsa, senza però osar di assalire l'accampamento, troppo formidabile anche per quei feroci animali. Sandokan fece allestire alla meglio, in una delle stanze dei gurum, un modesto alloggetto per Surama, non presentando la vasta sala della pagoda, in parte diroccata, molta solidità, ed attese pazientemente il ritorno di Bindar. Fu la sera del settimo giorno che il fedele assamese finalmente comparve. Aveva risalito il fiume su un piccolo gonga, ossia su un battello scavato nel tronco d'un albero, e aveva attraversata la jungla prima che le belve, che l'abitavano si fossero messe in cerca di preda. Egli recava una terribile notizia. - Sahib, - disse appena fu condotto dinanzi a Sandokan che stava fumando sotto un tamarindo, godendosi un po' di fresco insieme con Tremal-Naik, - una catastrofe ci ha colpiti. - Sandokan ed il bengalese balzarono in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Che cosa vuoi dire tu? - gridò il primo. - Il sahib bianco è stato arrestato ed i suoi malesi sono stati decapitati. - Un vero ruggito uscì dalle labbra del pirata. - Lui ... preso! - E tu stai per essere assalito. La jungla domani sarà circondata. -

Avete scherzato abbastanza! Vi siete dimenticato che io sono possente quanto il rajah dell'Assam? Voi pagherete caro questo giuoco! Ditemi dove sono e perché mi trovo qui, invece di essere nel mio palazzo o io ... - Potete gridare finché vorrete, Eccellenza, nessuno udrà la vostra voce. Siamo in un sotterraneo che non trasmette al di fuori alcun rumore. D'altronde, rassicuratevi: io non voglio farvi male alcuno se non vi ostinerete a rimanere muto. - Che cosa volete da me? Parlate, mylord. - Lasciate prima che vi dica, Eccellenza, che ogni resistenza da parte vostra sarebbe assolutamente inutile, perché a dieci passi da noi vi sono trenta uomini che nemmeno un intero reggimento di cipay sarebbe capace d'arrestare. Accomodatevi ed ascoltate pazientemente una pagina di storia del vostro paese. - Da voi? - Da me, Eccellenza. - Lo spinse dolcemente verso una sedia, costringendolo a sedersi, prese alcune tazze di cristallo finissimo ed un fiasco, riempiendole d'un liquore color dell'oro vecchio, poi aprì il portasigari, offrendolo al prigioniero. Nel vedere i grossi manilla, Kaksa Pharaum fece un gesto di terrore. - Potete scegliere senza timore, - disse Yanez. - Questi non contengono nemmeno una particella d'oppio. Se avete qualche sospetto, prendete una sigaretta, a vostra scelta. - Il ministro fece un feroce gesto di diniego. - Allora assaggiate questo liquore, - continuò Yanez. - Guardate: ne bevo anch'io. È eccellente. - Più tardi: parlate. - Yanez vuotò la sua tazza, accese la sigaretta, poi, appoggiando comodamente il dorso alla spalliera della sedia, disse: - Ascoltatemi dunque, Eccellenza. L'istoria che voglio narrarvi non sarà lunga, però vi interesserà molto. - Sandokan, sempre sdraiato sul divano, fumava silenziosamente, conservando una immobilità quasi assoluta.

Il rajah ne avrà sempre abbastanza da governare. - Non siete troppo gentile verso chi vi ospita. - Sono ospite del rajah e non di loro. - Spiegatevi meglio. - Che cosa vorreste per tornarvene nel Bengala? Là vi sono più tigri che qui e nelle Sunderbunds potrete sfogarvi finché vorrete. - Io andarmene! - esclamò Yanez. Teotokris rimase silenzioso, guardando però con un certo stupore Yanez. - Un mio compatriotta mi avrebbe a quest'ora compreso, - disse poi con mal celata collera. - Può darsi, signore, - rispose pacatamente Yanez; - siccome però noi inglesi non siamo così svegliati come i greci dell'Arcipelago, abbiamo l'abitudine di aspettare sempre maggiori spiegazioni. - Cinquemila rupie vi basterebbero? - chiese il greco. - Per ... - Andarvene? - Aho! - Ottomila. - Yanez lo guardò senza rispondere. - Diecimila, - disse il greco coi denti stretti. Nuovo silenzio da parte del portoghese. - Quindicimila? - E trentamila invece a voi se fra ventiquattro ore avrete varcato la frontiera dell'Assam, - disse Yanez, alzandosi. Il greco era diventato pallidissimo, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. - A me! - gridò. - Sì, a voi le offre mylord Moreland, che non è mai stato un greco dell'Arcipelago, né un pescatore di spugne o di sogliole. - Avete detto? - gridò Teotokris stringendo le pugna. - Vi occorrerebbe per caso un medico per farvi qualche operazione agli orecchi? Uno dei miei malesi è abilissimo in tali faccende. Ha curato perfino una giovane tigre che io avevo fatta prigioniera. - Il greco aveva fatto due passi indietro saettando su Yanez, che conservava la sua calma ammirabile, due occhi di fuoco. - Mi avete offeso, mi pare? - disse con voce arrangolata. - Parrebbe anche a me. - E allora? - Ma! Da noi, quando si crede di aver ricevuto un insulto, si usa chiedere una riparazione colle armi. - Il greco rimase interdetto. Yanez dal canto suo levò una sigaretta da una tasca e l'accese tranquillamente, soffiando in aria una nuvoletta di fumo profumato. - Se ne volete una anche voi, signore, ve la offro di tutto cuore. - Voi volete burlarvi di me! - Io! Dio me ne guardi! Io non amo burlarmi che delle tigri, e quelle sono più pericolose degli uomini. Vi pare, signor Teotokris? - Sicché voi non volete andarvene? - Non sono già venuto qui per uccidere una miserabile kala-bâgh - rispose Yanez. - Voglio tornarmene al Bengala con un bel numero di pelli. E poi ho trovato che si sta benissimo qui nel palazzo reale. - Voi non conoscete ancora quanto sia capriccioso il rajah. Egli sarebbe capace di ordinarvi domani di portargli una tigre ogni giorno. - Ed io andrò a cercarla e ucciderla. Non mi ha nominato forse il suo cacciatore? - E potrebbe anche chiedervi di mostrare i vostri documenti per accertarsi se siete veramente un mylord od un volgare avventuriero. - Questa volta fu Yanez che impallidì. La sua destra piombò sulla spalla sinistra del greco con tale violenza da costringerlo a piegarsi, quantunque fosse più alto d'almeno un palmo. - Siete voi ora, signor Teotokris, che mi avete offeso: vi sembra? - Può darsi. - Ora siccome un mylord non lascia mai impunito un insulto, vi chiedo di rendermi stretto conto di quel titolo di avventuriero. - Quando lo vorrete, se mi concederete la scelta delle armi e che il duello sia pubblico. - Fate, - rispose semplicemente Yanez. - Per domani. - Sia. - Il rajah e la sua corte saranno i nostri testimoni. - Benissimo. - Addio, signore. - Mylord vi saluta, greco dell'Arcipelago. -

Fortunatamente di tratto in tratto s'incontravano delle radure abbastanza vaste; ma anche là i fuggiaschi si vedevano costretti ad avanzare con infinite precauzioni, perché il suolo era tutto irto di quelle erbe taglienti e rigide come sciabole, chiamate kalam, che hanno le punte così acute, da traforare le suole delle scarpe. La marcia, in conseguenza di quegli ostacoli, diventava lentissima, mentre Sandokan avrebbe desiderato che fosse stata velocissima, temendo, e non a torto, che anche le truppe, sbarcate nella palude dei coccodrilli, approfittassero delle tenebre per avanzarsi nella jungla, colla speranza di sorprendere gli abitatori della pagoda ancora addormentati. Dopo un'ora la colonna aveva appena percorse due miglia, ed il margine orientale della jungla era ancora lontanissimo. - Eppure bisogna raggiungerlo prima che spunti l'alba, - disse Sandokan a Tremal-Naik, - se vorremo passare inosservati. Gli indiani che hanno risalito il fiume possono essere già sbarcati ed essere in agguato. La nostra salvezza sta nella nostra rapidità e negli elefanti, se Bindar riuscirà a procurarceli. Con quegli animali ci lasceremo indietro seikki e assamesi. - Di quando in quando qualche animale, disturbato dal rumore prodotto dalle scimitarre e dal cadere delle gigantesche canne, balzava fuori dai cespugli vicini e fuggiva a precipizio. Non erano però sempre dei nilgò o degli axis, gli eleganti cervi delle jungle indiane, che scappavano davanti alla colonna: qualche volta era una pantera che mostrava qualche velleità di resistenza, ma che si decideva, dinanzi al lampeggiare delle scimitarre dell'avanguardia, a battere in ritirata, pur ringhiando e brontolando. Altre tre miglia erano state guadagnate ed in lontananza cominciava a delinearsi qualche albero, quando una detonazione debole, si propagò attraverso i bambù della jungla. - La detonazione viene da oriente, è vero, Tremal-Naik? - chiese Sandokan. - Sì, - rispose il bengalese che ascoltava attentamente. - Allora vuol dire che gli indiani hanno raggiunto il margine della jungla. - Un altro sparo, un po' più distinto però, si udì in quel momento e non già verso oriente, bensì verso occidente. - Le due colonne si corrispondono, - riprese Sandokan, la cui fronte si era rabbuiata. - Quella che viene dalla palude dei coccodrilli, ci è ben più vicina dell'altra. - Abbiamo però un vantaggio di tre o quattro miglia per lo meno, - disse Kammamuri. - Che perderemo se riescono a trovare la nostra pista, - rispose Sandokan. - Mentre noi saremo costretti ad aprirci la via, loro invece seguiranno quella che ci lasciamo alle spalle. Affrettiamoci! - L'avanguardia fu accresciuta di altri quattro uomini: due armati di bastoni, fiancheggiavano l'avanguardia tirando furiose legnate a destra ed a manca, per far fuggire i serpenti, i quali preferiscono abitare le macchie più fitte per meglio sorprendere le prede. Già tutte le jungle indiane, sia del settentrione, del centro che del mezzodì, sono infestate di serpenti del minuto, che in meno di quaranta secondi fulminano l'uomo più robusto; di gulabi, chiamati anche serpenti rosa; di cobra-capello, i più terribili della specie, e di cobra manilla, lunghi appena un piede, di colore azzurro e sottilissimi e pure pericolosi, e di colossali rubdira mandali, che raggiungono talvolta la lunghezza di dieci e perfino undici metri, e di pitoni che posseggono una forza così prodigiosa da stritolare, fra le loro possenti spire, i formidabili bufali e perfino le ferocissime tigri. A mezzanotte Sandokan concesse un po' di riposo ai suoi uomini, sia per riguardo a Surama che doveva essere stanchissima, quanto per mandare Kammamuri con due dayachi a fare una rapida esplorazione alle spalle della colonna. Quella corsa, eseguita dal maharatto con velocità straordinaria, non diede però alcun risultato apprezzabile. I guerrieri sbarcati nella baia dei coccodrilli dovevano essere ancora lontani. Una detonazione che rimbombò verso oriente, più chiara della prima, decise Sandokan a levare frettolosamente il campo. Una seconda rispose, dopo qualche minuto, in direzione opposta. - Ci stringono, - disse Sandokan a Tremal-Naik. - Se deviassimo verso il nord? - Ed il villaggio dove Bindar ci aspetta cogli elefanti? - chiese il bengalese. - Lo ritroveremo più tardi. Quello che ora preme di più è di non lasciarci rinchiudere in un cerchio di ferro e di fuoco. - Proviamo, - concluse il bengalese. - Riformarono la colonna e dopo d'aver percorso il tratto di sentiero aperto dall'avanguardia, piegarono decisamente verso il settentrione. L'idea di Sandokan fu ottima, poiché dopo che ebbero percorso altri cinque o seicento metri, la jungla pur rimanendo sempre tale, e conservando le sue inestricabili macchie, cominciò a diradarsi. La colonna incontrava con maggior frequenza degli spazi liberi, dove non vi erano che delle erbe che non avevano la rigidezza dei kalam e dove poteva avanzare con maggior rapidità, però aumentava il pericolo da parte degli abitatori della jungla. Se cervi e caprioli scappavano, di tratto in tratto qualche gigantesco bufalo o qualche rinoceronte, si precipitava all'impazzata addosso all'avanguardia e non voltava il dorso se non dopo d'aver ricevuto una mezza dozzina di palle di pistola nel corpo. Alle due del mattino Sandokan fece fare un secondo alt. Era inquieto, e prima di piegare verso oriente, non volendo discostarsi troppo dalla linea, sulla quale doveva incontrare il villaggio, voleva avere almeno qualche notizia delle due bande indiane, per sapersi regolare sul cammino che doveva tenere. Avendo scoperto un fico baniano, che da solo formava una piccola foresta e la cui cupola immensa era sorretta da parecchie centinaia di tronchi, come il famoso ficus chiamato dagli indiani cobir-bor, che è celebre nel Guzerate, fece nascondere là in mezzo la sua colonna, poi chiamati due uomini e Tremal-Naik, partì alla scoperta, dopo aver raccomandato agli accampati il più assoluto silenzio. - Rifacciamo la via percorsa, - disse al bengalese. - Noi non dobbiamo procedere così alla cieca senza prima sapere se i nostri nemici ci sono alle calcagna o se ci preparano qualche nuovo agguato. - Si erano messi in corsa, seguendo la medesima via tenuta da prima, segnata da bambù abbattuti e da kalam decapitati. Un silenzio profondo regnava sulla jungla. Non si udivano né urla di bighama, né ululati di sciacalli: quello non era un indizio rassicurante. Se estranei non avessero percorso le macchie, quegli eterni cacciatori non sarebbero stati zitti. Se tacevano, ciò voleva dire che erano spaventati. Bastarono venti minuti, a quegli infaticabili corridori, per giungere al sentiero che avevano aperto prima di cambiare direzione. Sandokan, non udendo alcun rumore e non parendogli di scorgere nessun nemico, stava per spingere una breve esplorazione anche su quello, quando Tremal-Naik, che gli stava presso, gli posò energicamente una mano sulle spalle, spingendolo poi quasi con violenza verso un gruppo di banani selvatici, i quali stendevano in tutte le direzioni le loro gigantesche foglie. Erano trascorsi appena due minuti, quando udirono distintamente i bambù ad agitarsi e scricchiolare, poi quattro uomini, armati di fucili, sbucarono nella piccola radura che s'apriva fra le gigantesche canne ed il gruppo di banani. Erano non già seikki, bensì scikari, ossia battitori delle jungle, persone abilissime, anzi impareggiabili nel seguire le piste, sia degli uomini come delle belve feroci. Si erano subito arrestati esaminando attentamente il terreno e rimovendo le erbe che lo coprivano. - Hanno cambiato direzione, Moko - disse uno di quegli scikari. - Non marciano più verso oriente. - Lo vedo, - rispose colui che doveva chiamarsi Moko. - Devono essersi accorti che noi marciamo sulle loro tracce e filano verso il settentrione. - Allora sfuggiranno all'accerchiamento. - E perché? - Non abbiamo truppe in quella direzione. Uno di noi raggiunga i seikki che ci seguono, e noi continuiamo a camminare sulla pista. - Mentre uno partiva di corsa rifacendo la via, gli altri tre si erano rimessi in cammino, curvandosi di quando in quando al suolo, per non perdere di vista le piste della colonna fuggente. Sandokan e Tremal-Naik attesero che si fossero allontanati, poi, a loro volta, si misero in cammino, girando la macchia di banani dal lato opposto. - Dobbiamo gareggiare di velocità e sorpassarli, - disse la Tigre della Malesia. - E se tendessimo invece un agguato a quegli scikari? - chiese Tremal-Naik. - Un colpo di carabina in questo momento tradirebbe la nostra presenza. Penseremo più tardi a sbarazzarci di loro. Corriamo, amici! - Tremal-Naik, che aveva trascorsa la sua gioventù fra le grandi jungle delle Sunderbunds, possedeva un'orientazione naturale, cosa comune a molti popoli dell'oriente, quindi era più che sicuro di condurre i suoi compagni là dove la colonna si era accampata. Per timore però d'incontrare nuovamente gli scikari sui suoi passi, deviò verso ponente, descrivendo un lungo giro. Quella corsa rapidissima, poiché tutti avevano ancora le gambe solide, quantunque il malese e l'indiano non fossero più giovani, durò una ventina di minuti. - Pronti a ripartire senza indugio, - comandò Sandokan ai suoi uomini, quando ebbe raggiunto l'accampamento. - Ci seguono? - chiese Surama. - Hanno scoperto le nostre tracce, - rispose Sandokan. - Non inquietarti però, fanciulla. Noi sfuggiremo all'accerchiamento, dovessimo sfondare qualche linea. - La colonna si riformò, mettendo i prigionieri nel mezzo e partì a passo accelerato. Sandokan aveva raddoppiato gli uomini della retroguardia, temendo da un istante all'altro un attacco da parte degli scikari. Aveva però raccomandato a Kammamuri, che la comandava, di respingerli colle armi bianche non volendo segnalare, con spari, la sua direzione al grosso degli assamesi. La jungla continuava a diradarsi e tendeva a cambiare. Alle macchie intricate e difficili ad attraversarsi, si succedevano, di quando in quando, gruppi d'alberi, per lo più palmizi tara, circondati però da cespugli foltissimi, che avevano delle estensioni straordinarie, ottimi rifugi in caso di pericolo. La marcia diventava sempre più precipitosa. Tutti sentivano per istinto che solo dalla velocità delle gambe, dipendeva la loro salvezza e che stavano per giuocare una partita estremamente pericolosa, anzi la corona di Surama. Che cosa sarebbe avvenuto se le truppe del rajah li avessero schiacciati nella jungla? Chi avrebbe salvato Yanez? La catastrofe sarebbe stata completa e avrebbe segnata la fine assoluta delle ultime e formidabili tigri della gloriosa Mompracem. Alle tre del mattino Kammamuri, che era rimasto sempre colla retroguardia, ad una notevole distanza, raggiunse Sandokan. - Padrone, - disse con voce affannosa per la lunga corsa, - gli scikari ci hanno raggiunti. - Quanti sono? - Sei o sette. - Sono dunque aumentati di numero? - Sembra, Tigre della Malesia. Che cosa devo fare? - Tendere a loro un agguato e distruggerli. - E se fanno fuoco? - Farai il possibile di sorprenderli e d'ucciderli prima che pongano mano alle carabine. - Kammamuri ripartì a corsa sfrenata, mentre la colonna continuava la ritirata fra le macchie e gli alberi. Altri dieci minuti trascorsero, minuti lunghi come ore per Sandokan e per Tremal-Naik, poi delle grida orribili ed un cozzar d'armi ruppero il silenzio, che regnava sulla tenebrosa jungla, seguìto qualche istante dopo da un colpo d'arma da fuoco. - Maledizione! - esclamò Sandokan, fermandosi. - Questo sparo non ci voleva. - E nemmeno questi, - aggiunse Tremal-Naik. A quella detonazione isolata aveva tenuta dietro una scarica di carabine fortissima. Dovevano essere stati i seikki e gli assamesi a far fuoco. - Sono ancora lontani! - esclamò Sandokan, il cui viso si era subito rasserenato. - Un miglio almeno, - rispose Tremal-Naik. - Aspettiamo Kammamuri. - Non attesero molto. Il maharatto giungeva di corsa seguìto dalla retroguardia. - Distrutti? - chiese Sandokan. - Tutti, padrone - rispose Kammamuri. - Disgraziatamente non abbiamo potuto impedire a uno degli scikari di scaricare la sua carabina. - Ha ucciso nessuno dei nostri? - chiese Tremal-Naik. - Ho avuto il tempo di fargli deviare la canna del fucile. - Tu vali una tigre di Mompracem, - disse Sandokan. - Riprendiamo la corsa. Abbiamo qualche miglio di vantaggio e potremo forse aumentarlo. - O perderlo, - disse in quel momento Sambigliong. - Perché? - chiese Sandokan. - I kalam ricominciano al di là di queste macchie e ci faranno nuovamente tribolare, padrone. - Sono secche quelle erbe? - Bruciate dal sole. - Benissimo, avremo, in caso disperato, una riserva preziosa. - In quale modo? - chiese Tremal-Naik. Invece di rispondere Sandokan si bagnò l'estremità del dito pollice e l'alzò come fanno i marinai, per indovinare la direzione del vento. - Soffia da settentrione la brezza, - disse poi. - Allo spuntare del sole sarà più viva. Dio, Maometto, Brahma, Siva e Visnù, tutti uniti, ci proteggono. Dateci la caccia ora, miei cari seikki! Amici, avanti, io rispondo di tutto! -

. - Surama è ormai abbastanza ricca per pagargli una pensione principesca. - E uscirono tutti e tre, un po' pensierosi, mentre il disgraziato, colpito improvvisamente da una pazzia furiosa, continuava a urlare come un ossesso: - Le mie carabine ... le mie pistole ... i miei elefanti ... voglio sposare la rhani! - Dieci giorni più tardi gli avvenimenti narrati, quando già il disgraziato rajah era stato condotto a Calcutta, sotto buona scorta, per essere internato in uno dei primari stabilimenti d'alienati e quando già tutte le città dell'Assam, avevano fatto atto di sottomissione completa, la bellissima Surama impalmava solennemente il suo amato sahib bianco, cedendogli metà della corona. - Eccovi finalmente felici, - disse a loro Sandokan, la sera istessa, mentre la folla, delirante, acclamava i nuovi sovrani dell'Assam, ed i fuochi d'artifizio illuminavano fantasticamente la capitale. - Ora tocca a me procurarmi una corona, quella stessa che portava sul capo mio padre. - E quando sarà quel giorno? - chiese Yanez. - Sai che noi, quantunque di tinta diversa, siamo più che due fratelli. Parla e verrò io ad aiutarti coi miei scikari e, se sarà necessario, coi montanari di Sadhja. - Chi lo sa, - disse Sandokan dopo un silenzio relativamente lungo. - Forse quel giorno è più prossimo che tu non lo creda, ma non voglio per ora guastare la tua luna di miele, come dite voi uomini dell'estremo occidente. Fra giorni mi imbarcherò pel Borneo coi miei ultimi malesi e dayachi e, quando sarò là, riceverai miei ordini. -

Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

Essendo la corrente debolissima, non avendo i grandi fiumi dell'India molta pendenza, l'imbarcazione, quantunque fosse pesante e avesse la prora assai rotonda procedeva abbastanza rapidamente, filando sempre sotto le arcate degli alberi che si succedevano continuamente, senza la minima interruzione. Ora erano colossali tamarindi, ora mirti, o sangore drago o nargassa, meglio conosciuti sotto il nome di alberi del ferro, perché differiscono ben poco da quelli brasiliani, che sono così resistenti da rompere il filo delle scuri meglio temprate. Di quando in quando comparivano sulla riva delle bande di sciacalli e di lupi indiani; ma dopo aver ululato o latrato su vari toni contro i remiganti, s'affrettavano a rinselvarsi onde cercare delle prede più facili. Alle quattro del mattino, nel momento in cui i pappagalli cominciavano a strillare in mezzo ai rami dei tamarindi, e le anitre e le oche ad alzarsi al disopra dei canneti, Bindar, che da parecchi minuti osservava attentamente la riva, con un poderoso colpo di timone fece deviare la bangle. - Che cosa fai? - chiese Sandokan balzando in piedi. - Vi è una laguna, sahib, dinanzi a noi, - rispose l'indiano. - Entro nella jungla di Benar e là saremo perfettamente sicuri. - Vira allora. - La bangle si trovava dinanzi ad una vasta apertura. La riva era tagliata da un canale ingombro di piante acquatiche, le quali però non impedivano il passaggio, essendo radunate in gruppi piuttosto lontani gli uni dagli altri. Un numero straordinario di uccelli volteggiava gridando, al disopra di quella laguna. Cicogne di dimensioni straordinarie, grossi avvoltoi che avevano le penne bianche ed il petto quasi nudo; miopi, volatili meno forti delle prime e dei secondi, ma che per destrezza li vincono entrambi; piccoli uccelli del paradiso e moltissime anitre scappavano in tutte le direzioni descrivendo dei giri immensi, per tornare poco dopo a calarsi intorno alla grossa barca, senza dimostrare soverchia paura. Se in quel luogo si trovavano tanti volatili, era segno che gli abitanti mancavano assolutamente. Oltrepassato il canale, dinanzi agli sguardi di Sandokan e di Tremal-Naik apparve un bacino immenso, che rassomigliava ad un lago e le cui rive erano coperte da alberi altissimi, per lo più manghieri, già carichi di quelle grosse e belle frutta che si fendono come le nostre pesche, delle quali se ne servono gli indù per metterle nel carri, onde dare a quell'intruglio un gusto di più, e da splendidi banani dalle foglie immense. - Approdiamo, - disse Bindar. - Dov'è la jungla? - chiese Sandokan. - Dietro quegli alberi, sahib. Comincia subito. - A terra. - La bangle sfondò le erbe galleggianti lacerando vere masse di piante di loto e si arenò sulla riva che in quel luogo era molto bassa. - Copriamola onde non la trovino e se la portino via, - disse Sandokan. - È inutile, sahib - disse Bindar. - Questa palude è più pericolosa e perciò più temuta del terribile lago di Jeypore. - Non ti comprendo. - Guarda in mezzo a quelle piante acquatiche -. Sandokan e Tremal-Naik seguirono cogli sguardi la direzione che l'indiano indicava loro e videro comparire tre o quattro teste mostruose e aguzze. - Coccodrilli! - esclamò la Tigre della Malesia. - E molti, sahib, - rispose Bindar. - Qui ve ne sono delle centinaia, fors'anche delle migliaia. - Che non ci faranno paura. L'amico Tremal-Naik conosce quei brutti sauriani. - Nella jungla nera pullulavano, - rispose il bengalese. - Ne ho uccisi moltissimi e ti posso anche dire che sono meno pericolosi di quello che si crede -. I malesi ed i dayachi si caricarono dei loro pacchi, presero le armi e scesero a terra, dopo aver saldamente ancorata la bangle. - È lontana la pagoda? - chiese Sandokan. - Appena un miglio, sahib. - In marcia. - Formarono la colonna e s'inoltrarono sotto gli alberi, tenendo in mezzo il fakiro, il demjadar dei seikki ed il ministro Kaksa Pharaum. Oltrepassata la zona alberata che era limitatissima, il drappello si trovò dinanzi ad una immensa pianura coperta di bambù altissimi, appartenenti quasi tutti alla specie spinosa. Rari alberi sorgevano qua e là, a grandi distanze, per lo più erano borassi dal fusto altissimo e dalle larghe e lunghe foglie disposte ad ombrello. - Cercate di non fare rumore, - disse Bindar. - Le belve non hanno ancora raggiunti i loro covi e potrebbero assalirci d'improvviso. - Non aver paura per noi, - rispose Sandokan. Tutti si tolsero le carabine che fino allora avevano tenute a bandoliera e la piccola colonna si cacciò in mezzo a quel mare di verzura, nel più profondo silenzio. Fortunatamente Bindar aveva trovato un largo solco, aperto forse dall'enorme massa di qualche elefante selvaggio, o da qualche rinoceronte, sicché il drappello poteva avanzarsi rapidamente senza aver bisogno di abbattere quelle canne gigantesche. Di quando in quando l'indiano, che camminava alla testa della colonna, si fermava per ascoltare, poi riprendeva la marcia più velocemente, lanciando occhiate sospettose in tutte le direzioni. Dopo mezz'ora si trovarono improvvisamente dinanzi ad una vasta radura, ingombra solamente di sterpi e di kalam: quelle erbe altissime che sono taglienti come spade. In mezzo s'ergeva una costruzione barocca, che rassomigliava ad un immenso cono allargantesi alla base, con molte fenditure in tutta la sua lunghezza. Tutto il rivestimento esterno era crollato, sicché si scorgevano accumulati a terra pezzi di statue, di animali e soprattutto un numero infinito di teste d'elefante. Una gradinata, la sola forse che si trovasse ancora in ottimo stato, conduceva ad un portone che non aveva più porte. - È questa la pagoda? - chiese Sandokan fermando il drappello. - Sì, sahib, - rispose Bindar. - Non ci crollerà addosso? - Se ha resistito tanto alle ingiurie del tempo, non saprei perché dovesse sfasciarsi proprio ora, - disse Tremal-Naik. - Andiamo a vedere in quale stato si trova l'interno. - Stava per dirigersi verso la gradinata seguìto da Sandokan e dai malesi che avevano accese due torce, quando Bindar gli si parò davanti dicendo: - Fermati, sahib. - Che cosa vuoi ancora? - Ti ho già detto che questa pagoda serve d'asilo a belve feroci. - Ah! è vero - disse Sandokan. - Me n'ero scordato. Sei sicuro però che abbiano là dentro il loro covo? - Così ho udito raccontare. - Che cosa dici tu, Tremal-Naik? - Talvolta le tigri si servono delle pagode disabitate, - rispose il bengalese. - Andremo a rassicurarci se la notizia è vera o falsa, - disse Sandokan. - Kammamuri prendi una torcia e seguici. Voialtri fermatevi qui, formate una catena e se le belve cercano di fuggire ... - In quel momento un grido rauco, poco sonoro, echeggiò verso la porta della pagoda e quasi subito due punti verdastri, fosforescenti, scintillarono fra la profonda oscurità che regnava dentro quell'enorme cono. Bindar aveva fatto due passi indietro, mormorando con voce tremante: - Le kerkal! Non si sono ingannati quelli che me l'hanno detto. - Sono tigri? - aveva chiesto Sandokan. - No, sahib: pantere. - Benissimo - rispose il pirata colla sua solita calma. - Vieni, Tremal-Naik, andremo a far conoscenza con quelle signore. Finora non ho ucciso che delle pantere nere che pullulano nel Borneo. Andiamo a vedere se quelle indiane sono migliori o peggiori. -

. - Ne so abbastanza. Addio, Surama, e sii pronta per la mezzanotte. - Strinse la mano alla futura principessa dell'Assam e tornò in punta di piedi nella sua stanzetta. - Tutto va a gonfie vele, - mormorò. - Se non sopravverranno degli incidenti, domani noi saremo nella jungla di Benar e perfettamente al sicuro. Poi vedremo che cosa ci converrà fare. - Si sdraiò sul suo lettuccio mettendo su uno sgabello una bottiglia di arak, accese la pipa ed attese tranquillamente che giungesse il momento di agire e che il giovane sudra si presentasse. La mezzanotte non era lontana, quando un leggero colpo battuto alla porta lo fece scendere dal letto. - Deve essere lui, - mormorò. - Ecco un bravo ragazzo che farà una discreta fortuna. - Aprì senza far rumore e si vide dinanzi il servo del maggiordomo. - Dunque - gli chiese Sandokan. - Dormono tutti. - Sono tutti spenti i lumi? - Sì, sahib. - Hai veduto nessuno a passeggiare sulla piazza? - Un gruppo d'uomini. - Sono i miei amici. Prendi la fune. - È qui, sahib. - Seguimi e non aver paura. Da questo momento tu sei ai miei servigi. - Grazie, padrone. - Sandokan aprì la porta che metteva nel corridoio e bussò replicatamente a quella della stanza di Surama che fu subito aperta. La giovane assamese aveva abbassato il lucignolo della lampada per far credere che dormiva e si era gettata sulla testa una larga fascia di seta, che la nascondeva quasi tutta. - Eccomi, signore - disse a Sandokan. - Sono pronta a scendere. - Le tue serve? - Dormono profondamente. - Hanno bevuto il narcotico? - Da più di un'ora. - Prima di domani sera non si sveglieranno, - disse Sandokan. - Siamo quindi sicuri di non essere disturbati da parte loro. - Aprì una finestra e passò sulla varanga accostandosi silenziosamente al parapetto. Quantunque l'oscurità fosse fitta, scorse subito alcune ombre umane sfilare silenziosamente dinanzi al palazzo del favorito. - Devono essere Tremal-Naik, Kammamuri e i miei malesi, - mormorò. - Speriamo che tutto vada bene. - Svolse la corda, legò un capo ad una colonna di legno della varanga e gettò l'altro nel vuoto, mandando nel medesimo tempo un leggero sibilo che imitava perfettamente quello del terribilissimo cobra-capello. Un segnale identico rispose poco dopo. - È lui - disse Sandokan. - All'opera! - Tornò verso la finestra, prese fra le sue braccia Surama e s'avviò verso la fune dicendo al sudra: - Scendi pel primo tu. - Sì, padrone. - E fa' presto. - Il giovanotto varcò il parapetto e scomparve. - Tu incrocia le tue mani attorno al mio collo, - disse poscia Sandokan alla bella assamese, - e dammi la tua fascia di seta, onde ti leghi a me. - Non sarebbe necessario, - rispose la principessa. - Le mie braccia sono robuste. - Non si sa mai quello che può accadere. - Prese la sciarpa, strinse Surama contro il proprio dorso, poi a sua volta montò sul parapetto, non senza essersi prima cacciato fra i denti il kriss malese. - Stringi forte, - disse. - Non mi strangolerai colle tue piccole mani. - Afferrò la corda e si mise a scendere. Vecchio marinaio, non si trovava certo imbarazzato a compiere quella manovra, tanto più che possedeva una muscolatura da sfidare l'acciaio. In pochi istanti raggiunse la veranda inferiore. Disgraziatamente urtò coi piedi contro l'orlo della leggera tettoia che la copriva, facendo cadere un pezzo di grondaia. Una sola imprecazione gli sfuggì suo malgrado. Quel pezzo di latta o di zinco che fosse, nel precipitare sulle pietre della piazza, produsse molto rumore. Sandokan puntò i piedi contro il riparo e si lasciò scivolare verticalmente, senza badare se si scorticava o no le mani. Non distava dal suolo che pochi metri quando dalla varanga udì una voce a urlare: - All'armi! La prigioniera fugge! - Poi rintronò un colpo di pistola. La palla fortunatamente non aveva colpito né Sandokan, né Surama. Uomini, servi e guardie, si erano precipitati sulla varanga urlando a squarciagola: - Ferma! Ferma! - Due, avendo trovata la fune stesa dinanzi alla galleria, vi si aggrapparono lasciandosi scorrere fino a terra, ma già Sandokan che reggeva sempre Surama, si trovava al sicuro fra i suoi fedeli malesi. Tremal-Naik vedendo poi quei due venire avanti con dei tarwar in mano, armò rapidamente le due pistole che aveva nella fascia e scaricò uno dietro l'altro, senza troppa fretta, quattro colpi che li fece cadere l'uno sull'altro. - Via! - gridò Sandokan dopo aver sciolto il piccolo sari che legava Surama, e d'aver presa questa fra le braccia. - Al palazzo!- La porta del bengalow del favorito, si era aperta e dieci o dodici uomini muniti d'armi da fuoco e da taglio e ancora semi-nudi, si erano scagliati dietro ai fuggiaschi, urlando senza posa: - All'armi! All'armi! - Sandokan correva come un cervo, fiancheggiato da Tremal-Naik e da Kammamuri e protetto alle spalle dai malesi. La caccia era cominciata furiosa, implacabile; ma quantunque gli indù godano generalmente la fama di essere corridori instancabili, avevano trovato nei loro avversari dei campioni degni dei loro garretti. Di quando in quando qualche colpo di fuoco echeggiava, facendo accorrere alle finestre gli abitanti delle vicine case. Ora veniva sparato dagli inseguitori ed ora dai fuggiaschi, senza gravi perdite né da una parte né dall'altra non potendo, in quella corsa disordinata, prendere la mira. Nondimeno una viva inquietudine cominciava a tormentare Sandokan. Quelle grida e quegli spari facevano accorrere ad ogni istante altre persone ed il drappello dei servi del greco s'ingrossava rapidamente. Sarebbero riusciti a salvarsi nel palazzo senza essere stati scorti? Lo stesso pensiero doveva essere sorto anche nel cervello di Tremal-Naik, poiché senza cessare di correre, chiese a Sandokan: - Non verremo noi assediati? - Prima di voltare l'angolo dell'ultima via, faremo una scarica. È assolutamente necessario che non ci vedano entrare nel palazzo. Forza alle gambe! Cerchiamo di distanziarli. - Avevano percorso sette od otto vie, senza incontrare fortunatamente nessuna guardia notturna. Con uno sforzo supremo raggiunsero l'angolo del palazzo vantaggiando a un tempo di duecento e più passi. - Fate fronte! - gridò Sandokan ai malesi. - Caricate! Fuoco di bordata prima! - Le terribili tigri di Mompracem, niente spaventate di trovarsi di fronte a cinquanta o sessanta avversari, puntarono le carabine facendo una scarica, poi estratte le scimitarre caricarono furiosamente con urla selvagge. Vedendo cadere parecchi dei loro, gl'indù volsero le spalle senza aspettare l'attacco impetuoso, irresistibile, dei malesi. - Kammamuri, fa' aprire la porta del palazzo prima che quei furfanti ritornino! - È già aperta, signore! - gridò Bindar. - A me, malesi! - I pirati che si erano slanciati dietro ai fuggiaschi ululando come bestie feroci, si ripiegarono di corsa e si gettarono dentro l'ampio peristilio del palazzo di Surama, chiudendo e barricando precipitosamente la porta. - Spero che nessuno ci abbia veduti, - disse Sandokan deponendo a terra Surama e aspirando poscia una lunga sorsata d'aria. - Grazie, Sandokan, - disse la giovane. - A te ed al sahib bianco devo ormai troppe volte la mia vita. - Lascia queste cose e andiamo a vedere che cosa succede. Intanto fa' armare tutta la tua gente. Temo che vi sarà battaglia questa notte. - Salì la gradinata insieme con Tremal-Naik e con Kammamuri e si affacciò ad una finestra del secondo piano. - Saccaroa! - esclamò. - Ci hanno ritrovati! Qui corriamo il pericolo di venire presi! Ah! Per Maometto, preparerò loro un bel tiro, prima che giungano i soldati del rajah! - Che cosa vuoi fare? - chiese Tremal-Naik. - Surama! - gridò invece Sandokan. La giovane assamese saliva in quel momento la scala. - Che cosa desideri signore? - chiese avvicinandosi rapidamente. - La tua casa è isolata mi pare. - Sì. - Che cosa vi è di dietro? - Una piccola pagoda. - Isolata anche quella? - No, si appoggia ad un gruppo di palazzi e di bengalow. - È larga la via che divide la tua casa dalla pagoda? - Una diecina di metri. - Fa' portare subito delle funi, tutte quelle che puoi trovare. Ci raggiungerai sul tetto. Bindar! - L'indiano che era sulla varanga vicina fu pronto ad accorrere. - Eccomi, padrone - disse. - Da' ordine ai miei malesi ed ai servi di tenere in iscacco gli assalitori per alcuni minuti. Che non facciano economia di polvere né di palle. Va' e comanda il fuoco. E ora, Tremal-Naik, vieni con me e con Kammamuri. - Salirono una seconda gradinata raggiungendo l'ultimo piano e trovato un abbaino, passarono sul tetto che era quasi piatto, non avendo che due leggere inclinazioni. - Non mi aspettavo tanta fortuna, - mormorò Sandokan. - Andiamo a vedere quella via e quella pagoda. - Mentre s'avanzavano carponi, dinanzi al palazzo echeggiavano clamori assordanti. Gli assedianti dovevano essere cresciuti di numero a giudicarlo dal fracasso che facevano. Il fuoco però non era ancora cominciato né da una parte né dall'altra. Bindar non aveva forse giudicato prudente cominciare pel primo le ostilità, per non irritare maggiormente gli avversari. Sandokan ed i suoi due compagni in pochi momenti attraversarono il tetto, raggiungendo il margine opposto. Una via larga, nove o dieci metri, separava il palazzo da una vecchia pagoda di modeste proporzioni, la quale era sormontata da una specie di terrazzo, irto di antenne di ferro che sorreggevano dei piccoli elefanti dorati che funzionavano forse da mostraventi. - È alta quanto questa casa, - disse Sandokan. - Che cosa vuoi tentare? - chiese Tremal-Naik. - Di passare su quel terrazzo, - rispose la Tigre della Malesia. Il bengalese lo guardò con spavento. - Chi potrà saltare attraverso questa via? - Tutti. - Ma come? - Tu sai ancora adoperare il laccio? Un vecchio thug non dimentica facilmente il suo mestiere. - Non ti capisco. - Non si tratta che di gettare una buona corda al di sopra d'una di quelle antenne e di formare poi un ponte volante con un paio di gomene. - Ah! Padrone, lascia fare a me allora, - disse Kammamuri. - Sono stato un anno prigioniero dei thugs di Rajmangal e ho appreso a servirmi del laccio a meraviglia. Non sarà che un semplice giuoco. - E poi dove scapperemo noi? - chiese Tremal-Naik. - Vi sono delle case dietro la pagoda che attraverseremo facilmente, passando sui tetti. In qualche luogo scenderemo. - E non ci daranno la caccia? - Io eleverò fra noi e gli assedianti una tale barriera da togliere loro ogni idea d'inseguirci. - Tu sei un uomo meraviglioso, Sandokan. - Non sono stato forse un pirata? - rispose la Tigre della Malesia. - Nella mia lunga carriera ne ho provate delle avventure e ne ho ... - Una scarica di carabine gli tagliò la frase. I malesi ed i servi del palazzo avevano aperto il fuoco, per impedire agli assedianti di abbattere la porta e d'invadere le stanze del pianterreno. - Se la resistenza dura dieci minuti noi siamo salvi, - disse Sandokan. Si volse udendo delle tegole a muoversi, Surama s'avanzava con precauzione andando carponi sul tetto, accompagnata da due servi e da un malese, che portavano corde di seta, strappate probabilmente dai tendaggi, e grosse corde di canape tolte dalle varanghe. - Chi è che ha aperto il fuoco? - chiese Sandokan aiutando la brava ragazza ad alzarsi. - I tuoi uomini. - Vi sono dei seikki fra gli assalitori? - Una dozzina e avevano subito attaccata la porta. - Kammamuri scegliti la corda e bada che sia solida perché tu dovrai passare su quella. - Lascia fare a me, padrone; - rispose il maharatto. Si gettò sulle funi che erano state deposte dinanzi a lui e prese un cordone di seta, lungo una quindicina di metri e grosso come un dito, osservandolo attentamente in tutta la sua lunghezza. - Ecco quello che fa per me, - disse poi. - Può sorreggere anche due uomini. - Fece rapidamente un nodo scorsoio, si spinse verso il margine del tetto, lo fece volteggiare tre o quattro volte intorno alla propria testa come fanno i gauchos della pampa argentina e lo lanciò. La corda ben aperta alla sua estremità, in causa di quel rapido movimento rotatorio, cadde su una delle aste di ferro e vi scivolò dentro. - Ecco fatto, - disse Kammamuri volgendosi verso Sandokan. - Tenete forte il cordone. - Guarda prima se vi è gente nella via. - Non mi pare, padrone. D'altronde l'oscurità è fitta e nessuno ci vedrà. - Sandokan e Tremal-Naik si gettarono sulle tegole afferrando strettamente il cordone, subito imitati dai due servi e dal malese. - Coraggio amico, - disse il pirata. - Ne ho da vendere, - rispose il maharatto sorridendo. - E poi non soffro le vertigini. - Si appese al cordone, incrociandovi sopra, per maggior precauzione, le gambe e s'avanzò audacemente al di sopra della via, senza nemmeno pensare che poteva da un istante all'altro cadere da un'altezza di diciotto o venti metri e sfracellarsi sul lastricato. Sandokan e Tremal-Naik seguivano con viva emozione e non senza rabbrividire quella traversata, dal cui buon esito dipendeva la salvezza di tutti. Vi fu un momento terribile, quando il coraggioso maharatto giunse a metà della distanza che divideva il palazzo dalla pagoda. Il cordone quantunque tirato a tutta forza dai cinque uomini, aveva descritto un arco accentuatissimo, crepitando sinistramente sotto il peso non indifferente di Kammamuri. - Fermati un istante! - gridò precipitosamente Sandokan. Il maharatto che doveva pure aver udito quel crepitìo che poteva annunciare una imminente rottura, ubbidì subito. Fortunatamente la corda non aveva ceduto, né aveva dato alcun altro suono. A quanto pareva, i fili di seta si erano solamente allungati senza spezzarsi. - Vuoi provare? - chiese finalmente Sandokan. - Aspettavo il tuo ordine, - rispose Kammamuri con voce perfettamente calma. - Va', amico, - disse Tremal-Naik. Il maharatto riprese la sua marcia aerea, procedendo però con precauzione e giunse ben presto sul terrazzo della pagoda, mandando un gran sospiro di soddisfazione. - Le funi, padrone! - gridò subito. Sandokan aveva già scelto le più grosse e le più solide. Le annodò facilmente. Le due funi, annodate l'una sopra l'altra, all'altezza d'un metro e mezzo e assicurate a due aste di ferro, potevano permettere il passaggio senza correre troppi pericoli. - Tremal-Naik, - disse Sandokan; - occupati di far passare le persone. Surama hai paura? - No, signore. - Passa per la prima. - E tu? - chiese Tremal-Naik. - Vado a coprire la ritirata e preparare la barriera che impedirà agli assedianti di darci la caccia. - Riattraversò il tetto e ridiscese negli appartamenti. La battaglia fra gli indù, i malesi ed i servi del palazzo infuriava, facendo accorrere da tutte le vicine vie nuovi combattenti. I malesi nascosti dietro i parapetti delle varanghe che avevano coperti con materassi, cuscini e pagliericci, sparavano furiosamente facendo indietreggiare, ad ogni scarica, gli assalitori e mandandone molti a terra morti o feriti. La folla però, che era pure armata di ottime carabine e di pistole, rispondeva non meno vigorosamente e anche dalle case fronteggianti il palazzo di Surama si sparava contro la varanga, mettendo in serio pericolo i difensori. Sandokan si era precipitato fra i suoi uomini, gridando: - Riparate subito sul tetto! Fra pochi minuti il palazzo sarà in fiamme! Prima le donne ed i servi, ultimi voi per coprire la ritirata. - Ciò detto strappò una torcia che illuminava la varanga e diede fuoco alle stuoie di coccottiero, quindi si slanciò attraverso le splendide stanze che formavano l'appartamento riservato di Surama, incendiando i cortinaggi di seta delle finestre, le coperte dei letti, i tappeti, i leggeri mobili laccati. - Ci diano la caccia ora, - disse quando vide le fiamme avvampare e le stanze riempirsi di fumo. - Cinquantamila rupie non valgono un dito di Surama. - Ritornò sulla varanga inseguito dalle colonne di fumo per accertarsi che non vi era più nessuno. Indiani e malesi, dopo d'aver fatta un'ultima scarica, erano precipitosamente fuggiti; e le stuoie, le colonne di legno e persino il pavimento, avvampavano con rapidità prodigiosa lanciando intorno bagliori sinistri. - Questo palazzo brucerà come un pezzo d'esca, - mormorò Sandokan. - È tempo di metterci in salvo. - Raggiunse l'abbaino e balzò sul tetto. La ritirata era cominciata in buon ordine; uomini e donne attraversavano rapidamente il ponte volante reggendosi sulle due funi, mentre i malesi, curvi sui margini del tetto, consumavano le loro ultime munizioni e scagliavano nella via, sulle teste degli assedianti, ammassi di tegole. Sul terrazzo della pagoda le persone si accumulavano, prendendo subito la via dei tetti, sotto la guida di Tremal-Naik, di Kammamuri e di Bindar. Quando Sandokan vide finalmente il ponte volante libero, vi fece passare i malesi, poi troncò con un colpo di coltello le due funi che erano state legate attorno al comignolo d'un camino, onde gli assedianti, nel caso che la casa non bruciasse interamente, non potessero accorgersi da qual parte gli assediati fossero fuggiti. - Ora un esercizio da buon marinaio, - mormorò Sandokan. Prima di eseguirlo lanciò intorno un rapido sguardo. Dagli abbaini uscivano nuvoli di fumo e getti di scintille e nella sottostante via si udivano i clamori feroci della folla. - Entrate e dateci la caccia, - mormorò il pirata con un sorriso ironico. Afferrò una delle due funi, si spinse fino sull'orlo del tetto e senz'altro si slanciò andando a battere i piedi contro il cornicione della pagoda che sorreggeva il terrazzo. Nessun altro uomo, che non avesse posseduta l'agilità e la forza straordinaria di Sandokan, avrebbe potuto tentare una simile volata senza fracassarsi per lo meno le gambe. Il pirata però che doveva possedere una muscolatura d'acciaio, non provò che un po' di stordimento, prodotto dal violentissimo contraccolpo. Stette un momento fermo per rimettersi un po', quindi cominciò a issarsi a forza di pugno finché raggiunse il terrazzo. Sui tetti delle vicine case i servi e le donne fuggivano rapidamente, fiancheggiati dai malesi. Surama camminava alla testa, sorretta da Tremal-Naik e da Kammamuri. Sandokan, pur camminando con una certa precauzione, in pochi istanti li raggiunse. - Finalmente! - esclamò il bengalese, - cominciava a diventare inquieto non vedendoti comparire. - Io ho l'abitudine di giungere sempre, - rispose la Tigre della Malesia. - Ed il mio palazzo? - chiese Surama. - Brucia allegramente. - È un patrimonio che se ne va in fumo. - E che la Tigre della Malesia pagherà - rispose Sandokan alzando le spalle. - Ci inseguono? - chiese Tremal-Naik. - Attraverso le fiamme? Si provino a mettere i loro piedi entro quella fornace. Io già non ti seguirei di certo. - Ma dove finiremo noi? - Aspetta che troviamo una via che c'impedisca di andare più innanzi, amico Tremal-Naik. Ho già fatto il mio piano. - E quando la Tigre della Malesia ne ha uno nel cervello, si può essere certi che riuscirà pienamente, - aggiunse Kammamuri. - Può darsi, - rispose Sandokan. - Non fate troppo rumore e non guastate troppe tegole. In questo momento non potrei risarcire i danneggiati. - La ritirata si affrettava sempre in buon ordine, passando da un terrazzo all'altro. Gli uomini aiutavano sempre le donne a scavalcare i parapetti, che talvolta erano così alti da costringere i malesi a formare delle piramidi umane, per meglio favorire le scalate. Verso il palazzo si udivano sempre urla e spari e si scorgevano le prime lingue di fuoco sfuggire attraverso gli abbaini. Nelle case di fronte e di dietro, di quando in quando, partivano delle grida altissime: - Al fuoco! Al fuoco! - I fuggiaschi che temevano di essere sorpresi, si affrettavano. Se le fiamme s'alzavano, qualcuno poteva scorgerli e dare l'allarme, e questo, Sandokan assolutamente non lo desiderava. - Presto! presto! - diceva. Ad un tratto gli uomini che si trovavano all'avanguardia, si ripiegarono verso il terrazzo che avevano appena allora superato. - Che cosa c'è? - chiese Sandokan. - Non si può più andare innanzi, - disse Bindar che guidava quel drappello. - Abbiamo una via dinanzi e tanto larga che non la potremo sorpassare. - Vedi nessun abbaino? - Ce ne sono due sotto il terrazzo. - Di che cosa ti lagni dunque amico, quando abbiamo delle scale per scendere nella via? Fa' sfondare quegli abbaini e andiamo a fare una visita agli abitanti di questa casa. Sarà troppo mattutina, ma la colpa non è nostra. -

Poi volgendosi verso i malesi che guardavano ferocemente i seikki, pronti a caricarli al primo moto sospetto, disse a loro: - Torniamo in città; ne ho abbastanza di questo affare. - Mylord, - disse l'ufficiale, - gli elefanti ci aspettano. - Gettali nel fiume, non ne ho bisogno. - Fece salire dietro di sé il malese che gli aveva dato il cavallo e partì al galoppo, mentre il vecchio indiano gli urlava dietro ancora una volta: - Maledetti stranieri! Che Brahma vi faccia morire tutti! - Usciti dal bosco, le tigri di Mompracem si gettarono fra le piantagioni, senza badare se rovinavano più o meno l'indaco, e presero la via di Gauhati. Quando entrarono in città era ancora notte. Le guardie che vegliavano dinanzi al portone, si affrettarono ad introdurli nel vasto cortile d'onore, dove, sotto i porticati spaziosi, dormivano su semplici stuoie, scudieri e staffieri, onde essere più pronti ad ogni chiamata del loro signore. Yanez affidò a loro i cavalli e salì nel suo appartamento svegliando il chitmudgar. - Tu, signore! - esclamò il maggiordomo stropicciandosi gli occhi. - Non mi aspettavi così presto? - No, signore. Hai già ucciso il rinoceronte? - Sì, l'ho messo a terra con quattro colpi di carabina. Portami una bottiglia nella mia stanza, alcune sigarette e aspettami, ché devo chiederti importanti spiegazioni. - Sono ai tuoi ordini, sahib. - Yanez si sbarazzò della carabina, mandò i suoi malesi a coricarsi, poi raggiunse il chitmudgar, che aveva già accesa la lampada e messo sul tavolo una bottiglia di liquore ed una scatola di sigarette indiane, formate d'una foglia di palma arrotolata e di tabacco rosso. Vuotò un bicchiere di vecchio gin, poi sdraiatosi su una poltrona, gli narrò succintamente come si era svolta la caccia, dilungandosi solo sull'uccisione di quella maledetta vacca sacra, che l'aveva fatto uscire dai gangheri: - Che cosa ne dici tu ora di questo affare? - È una cosa grave, mylord - rispose il maggiordomo che appariva preoccupato. - Una mucca è sempre sacra, e chi l'uccide incorre in grandi fastidi. - Mi avevano detto che era un bisonte della jungla ed io ho comandato il fuoco senza guardarla bene. - Il chitmudgar scosse il capo mormorando: - Affare serio! affare serio! - Dovevano tenersela nel villaggio. - Tu hai ragione, mylord, ma il torto sarà tuo. - Quel capo è un vero furfante. Non gli ho ucciso il rinoceronte che devastava le piantagioni del villaggio? Ah! e se in questa faccenda vi fosse sotto la mano del favorito del rajah? Le punte di ferro vi erano nella sella. - Non mi stupirei, - rispose il maggiordomo. - Io so che quell'uomo ti odia a morte. - Me ne sono già accorto e poi vorrà vendicarsi di quel colpo di scimitarra. - Certo, mylord. - Allora è stata ordita una vera congiura. Prima ha tentato di farmi sventrare dal rinoceronte, poi mi ha mandato la vacca sacra. Che fosse d'accordo anche il capo del villaggio? - È probabile, signore. - Per Giove! non mi lascerò mettere nel sacco. Vado a riposarmi e se prima di mezzogiorno il rajah manda qualcuno dei suoi satrapi, risponderai che dormo e che non voglio essere disturbato. Se insistono, lancia contro di loro i miei malesi. È ora di mostrare a quel cane di greco e a quell'ubriacone che serve, che un mylord non si lascia prendere a gabbo. Va', chitmudgar. - Spense la lampada e si gettò sul ricchissimo letto senza spogliarsi, addormentandosi quasi subito.

Cerca

Modifica ricerca