Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 10 occorrenze

Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli. Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime. La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti. I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò. Trecento metri più oltre s'alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lilà se non ai mirim e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d'assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe. Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s'alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna. - Tangusa, - disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi un conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria, - dove si trova il passaggio? - Di fronte a noi, signore. - Non cadremo in mezzo alle spine? - Vi guido io. - Siete pronti? - chiese Yanez rivolgendosi ai pirati. - Pronti tutti, capitano. - Caricate al grido "Viva Mompracem!" onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti! I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche. Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d'assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola: - Viva Mompracem! I tagliatori di teste, sorpresi da quell'improvviso assalto, che erano ben lungi dall'aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l'animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta. Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò: - Fermi! Sono amici! Aprite la porta! - Ohe, amico Tremal-Naik, - gridò Yanez con voce giuliva. - Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki. - Yanez! - esclamò l'indiano, con una vera esplosione di gioia. - Chi credevi che fosse dunque? - Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa! Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda e un violentissimo fuoco di fucileria. Un uomo di statura piuttosto alta, un po' attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po' abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese. Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino. - Qui, sul mio petto, amico Yanez! - aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. - È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia? - Muore di salute. - E la tua Surama? - Mi ama sempre intensamente. E Darma dov'è che non la vedo? - La tigre o mia figlia? - L'una e l'altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia. - Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri. - Come! il maharatto non è qui? - esclamò Yanez. - Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest'ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem. - Lo ritroveremo più tardi. - Vieni, amico, - disse Tremal-Naik. - Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa' gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle tigri di Mompracem. S'avviò verso il bengalow che s'alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l'amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all'intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù. - Un buon bicchiere di bram innanzi tutto, - disse l'indiano, empiendo due bicchieri con quell'eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. - Arresta il sudore. - Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d'un fiato. Non sono più giovane, amico mio, - disse Yanez, vuotando poi d'un fiato il bicchiere. - Ed ora spiegami questo mistero. - Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto? - Colla Marianna e dopo d'aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta. - Dove l'hai lasciata? - All'imbarcadero. - È numeroso l'equipaggio? - Ha forze uguali alle mie. Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto. - Sono uomini capaci di difendere il mio veliero, - disse Yanez che se n'era accorto. - Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati. - Dal pellegrino? - Sì, Yanez. - L'avrai veduto, tu, quel briccone. - Io? Mai! - Non sai nemmeno tu chi è? - chiese Yanez al colmo dello stupore. - No, - rispose Tremal-Naik. - Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita. - E lui si è guardato bene dall'obbedire? - Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia. - Tanta audacia ha avuto quel miserabile! - esclamò Yanez, indignato. - Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi. - Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell'uomo non è un dayako, - rispose l'indiano. - Chi è dunque? - Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano. - Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto. - Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto. - Quale? - È così assurdo che rideresti se te lo dicessi. - disse Tremal-Naik. - Gettalo fuori. - Che potesse essere qualche thug. Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l'indiano s'aspettava, era diventato lievemente pallido. - Sei ben certo, Tremal-Naik, - disse poi con voce grave, - che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Raimangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura? - E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni? - Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l'odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine. Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse: - No, è impossibile, è assurdo. I thugs, ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d'imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d'altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug. - Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie? - Le hanno saccheggiate e poi arse. - Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem. - Volevo tentare di colonizzare queste coste e incivilire questi barbari. - E hai fatto un buco nell'acqua, - disse Yanez, ridendo. - Purtroppo. - E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo? - Ti chiedo solo ventiquattro ore, - rispose Tremal-Naik, - per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave. - E correremo al più presto verso Mompracem, - disse Yanez. - La nostra presenza è necessaria laggiù. Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l'indiano ne fu colpito. - C'è qualche cosa in aria? - chiese. - Ma ... non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia. - E quali? - Che gli inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese. - E anche la sua ingratitudine, - disse l'indiano. - Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe? - Lui! Ah! Quell'uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di ... Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase. - Hai udito? - esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Sì, il cannone tuona verso il sud. - I dayaki attaccano la Marianna! - Seguimi sull'osservatorio, Yanez, - disse Tremal-Naik. - Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.

Il Re del Mare s'avanzava a piccolo vapore, per non consumare troppo combustibile, anzi Sandokan, per maggior economia, aveva fatto spiegare le vele basse sul trinchetto e sull'albero maestro, essendo il vento abbastanza fresco e non del tutto sfavorevole. Dopo i consigli del capitano americano, il formidabile pirata era diventato eccessivamente economico nel consumo del combustibile, non potendo provvedersi in alcun porto dopo l'audace dichiarazione di guerra, e durante la traversata fra Labuan e il golfo di Sarawak non aveva fatto uso che delle vele, manovra d'altronde più familiare ai suoi uomini, quantunque non pochi di loro fossero stati già istruiti nel servizio delle macchine dagli americani rimasti a bordo. Yanez e Tremal-Naik, appoggiati alla murata di prora, il cui capo di banda era stato imbottito da amache arrotolate per riparo dei fucilieri, scrutavano attentamente l'orizzonte, mentre Sandokan visitava le batterie e i pezzi per vedere se tutto era in ordine. A levante le coste apparivano confusamente, diventando sempre più elevate di miglio in miglio che s'avvicinavano al dirupato e altissimo promontorio di Sirik, che chiude verso occidente la vasta baia o golfo di Sarawak. Nessun lume però brillava, quantunque in quei luoghi si trovasse la cittadella di Redjang. La notte trascorse così in una continua esplorazione, senza risultato alcuno, ma appena cominciò a diffondersi un po' di luce, si udì subito la voce della vedetta installata sulle crocette del trinchetto a gridare a squarciagola: - Fumo a levante! Yanez, Tremal-Naik e Sandokan si erano subito issati sulle griselle di babordo del trinchetto, innalzandosi fino alla coffa e videro subito, là dove il mare pareva confondersi col cielo, un pennacchio di fumo alzarsi nettamente nella limpida atmosfera mattutina. - Viene dalla foce del Redjang, - disse Yanez. - Scommetterei cento sterline contro una sigaretta che quella è la nave di sir Moreland. - L'hai veduta tu quella nave? - chiese Sandokan a Tremal-Naik. - No, - rispose l'indiano. - Mi hanno detto però che stava completando le sue provviste di carbone alla foce del secondo braccio del Redjang. - Vi è un deposito di combustibili colà? - Udii a parlare d'un praho carico di carbone mandato da Sarawak. Non deve esservi nemmeno una misera borgata su quelle spiaggie. - Peccato, - disse Sandokan. - Ma io ho udito a raccontare che ve n'è uno alla foce del Sarawak invece, su di un'isoletta e dove va a provvedersi la squadra del rajah. - Chi te lo ha detto? - sir Moreland. - Se ci va la squadra del rajah, possiamo bene andarci anche noi, è vero Yanez? - E senza pagarlo, - rispose il portoghese, che non dubitava mai di nulla. - Ecco la prora che comincia ad emergere. Muovono su di noi, Sandokan, ed a tutto vapore. Devono aver scorto anche essi il nostro fumo. Sandokan si levò da una tasca un cannocchiale, lo allungò più che potè e lo puntò sulla nave il cui scafo si cominciava a distinguere anche a occhio nudo. - Una bella nave infatti, - disse. - Lo si direbbe un incrociatore e di forte tonnellaggio. Vedo molti uomini a bordo. - Corre su di noi? - chiese Yanez. - A tiraggio forzato, credo. Teme che noi scappiamo. No, mio caro, non ne abbiamo alcun desiderio. È qui che noi cominceremo le ostilità. - Lo caleremo a fondo? - Mi rincresce pel capitano, - disse Tremal-Naik. - Contraccambiamo molto male la sua ospitalità. - Dorata, ma senza libertà, - disse Yanez. - Prepariamoci, - disse Sandokan. Scesero in coperta, dove s'incontrarono con Darma e con Surama che erano allora salite. - Ci attaccano, mio sahib6?- chiese l'indiana a Yanez. - E farà molto caldo qui fra poco, Surama, - rispose il portoghese. - Noi vinceremo, è vero? - Come abbiamo vinti i thugs di Suyodhana. - È la nave di sir Moreland? - chiese Darma, con una certa ansietà, che non isfuggì all'astuto portoghese. - Almeno lo supponiamo. Poi, prendendola per un braccio e traendola verso la torre di prora, le chiese, sorridendo: - Che cos'hai Darma? È già la terza volta che, udendo parlare del capitano, mi sembri commossa. - Io! - esclamò la fanciulla, arrossendo leggermente. - Vi siete ingannato, signor Yanez. - Per Giove! Che la vecchiaia mi abbia indebolita la vista? - Oh no, ci vedete ancora troppo bene. - Allora? Darma volse il capo verso il mare, fissando i suoi sguardi sulla nave nemica, che forzava la sue macchine e dicendo: - È una grossa nave anche quella. - Che non varrà la nostra - rispose Yanez. - Costringetela ad arrendersi piuttosto che affondarla. Potrebbe esservi utile. - Se è comandata da sir Moreland non abbasserà la bandiera. Quell'uomo, quantunque giovane, deve essere un valoroso e si batterà finchè tutto il suo equipaggio non sarà distrutto. - E non accorderete quartiere a nessuno? - Quando la nave calerà a picco vedremo di salvare i superstiti, te lo prometto, Darma. Ritirati nella cabina con Surama. Qui stanno per piovere le granate. La voce formidabile, sonora come lo squillo d'una tromba, della Tigre della Malesia, echeggiò in quel momento sul ponte: - A tutto vapore, ingegnere di macchina! Pronti pei fuochi di bordata! Dietro le brande i fucilieri! La nave avversaria che doveva essere fornita di macchine poderose, non era più che a duemila metri e muoveva diritta sul Re del Mare delle tigri di Mompracem, come se avesse avuto intenzione di speronarlo o per lo meno di abbordarlo. Era un bell'incrociatore e fornito di sperone, con tre alberi e due ciminiere. Pareva che fosse potentemente armato a giudicarlo dal numero dei suoi sabordi e anche in coperta si scorgevano parecchi pezzi, ma non protetti da torri blindate come quelli delle tigri di Mompracem. Dietro le murate e perfino sulle coffe si vedevano numerosi fucilieri e sul ponte di comando parecchi ufficiali. - Ah! - disse Sandokan, che lo contemplava con occhio tranquillo. - Vuoi misurarti pel primo colle tigri di Mompracem? Siamo pronti a riceverti. Mentre le due fanciulle sgombravano rapidamente la coperta rifugiandosi nel quadro di poppa, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si ritrassero nella torretta di comando dove potevano mettersi in comunicazione col personale di macchina. Gli artiglieri americani, assieme ai migliori puntatori malesi, attendevano dietro ai loro pezzi col cordone tira-fuoco in mano. Ad un tratto una detonazione scoppiò al largo, mentre un getto di fuoco sfuggiva da uno dei due pezzi di prora dell'incrociatore. Si udì un rauco sibilo, che s'avvicinava rapidissimo attraverso gli strati d'aria, poi una vampa s'alzò sull'orlo della prima torretta di babordo del Re del Mare, mentre delle schegge passavano sibilando sopra i fucilieri appiattati dietro le murate. - Granata da dodici pollici! - aveva esclamato Yanez. - Buon tiro! La voce di Sandokan si fece udire subito. - Artiglieri, non vi trattengo più! I due pezzi da caccia di prora avvamparono nell'istesso tempo, mentre quelli della batteria di tribordo, trovandosi a buon tiro, tuonavano a loro volta con rimbombo tale da far tremare tutta la nave. L'incrociatore, che aveva già guadagnato altri cinquecento metri e che manovrava in modo da presentare all'avversario il suo fianco di babordo, fu sollecito a rispondere. Palle e granate cominciavano a cadere in gran numero su entrambi i vascelli, scrosciando lungo i fianchi di ferro e scheggiando i ponti, smussando i pennoni e massacrando le manovre. Le granate, scoppiando, lanciavano in alto getti di fuoco, minacciando ad ogni istante di incendiare le alberature. I fucilieri, coricati dietro le murate, a loro volta avevano aperto il fuoco, facendo delle scariche nutrite. Una fitta nuvola di fumo avvolgeva le due navi, rotta da lampi, mentre il fracasso era diventato così formidabile da soffocare la voce dei comandanti. La nave americana, meglio protetta, meglio armata e anche più rapida, e montata da un equipaggio ormai incanutito fra il fumo delle battaglie, aveva buon gioco contro l'avversario. Le sue poderose artiglierie battevano terribilmente l'incrociatore, coprendolo di fuoco e di ferro, demolendogli le murate, massacrando le sue manovre e aprendogli fori considerevoli nello scafo. Invano la povera nave, che aveva creduto di annientare facilmente i pirati di Mompracem, cercava di tener testa a quell'uragano di ferro che cadeva sui suoi ponti con un orrendo frastuono, facendo strage degli artiglieri della coperta e dei fucilieri. Le sue palle rimbalzavano sulle piastre metalliche del Re del Mare e le sue granate non riuscivano a demolire le torri blindate, dietro le quali gli artiglieri di Mompracem, sotto la direzione dei quartiermastri americani, sparavano al sicuro. Sandokan aveva fatto ritirare sotto coperta i suoi fucilieri, avendo compresa l'inutilità di quegli uomini, necessari sui prahos, ma non su simili navi, e aveva dato il comando di muovere addosso all'incrociatore per dargli l'ultimo colpo. Il Re del Mare, quasi ancora incolume, nonostante il furioso e ininterrotto cannoneggiamento dell'avversario, si era slanciato innanzi descrivendo una immensa curva attorno all'incrociatore che si era fermato. A quattrocento metri gli scaricò addosso una terribile bordata coi pezzi del ponte e quelli di babordo, demattandolo e rasandolo come un pontone. Perfino le due ciminiere erano rovinate in coperta, divelte da due granate scoppiate alla loro base. - È finito, - disse Yanez. - Intimiamogli la resa. - Se si arrenderanno, - rispose Sandokan. Lasciò che il vento diradasse il fumo e fece innalzare sulla cima dell'alberetto maestro la bandiera bianca. La risposta fu una bordata che fulminò metà dei timonieri del Re del Mare. - Non ne avete abbastanza? - gridò Sandokan. - Calatelo a fondo! Fuoco! Fuoco senza tregua! Il cannoneggiamento ricominciò con un crescendo spaventevole. Il Re del Mare continuava la sua rapida corsa circolare opprimendo il disgraziato incrociatore sotto un fuoco spaventevole. La nave americana faceva meraviglie. Pareva un vulcano avvampante, pronto a tutto distruggere. L'incrociatore nondimeno opponeva una resistenza eroica, quantunque ormai fosse ridotto ad un ammasso di rovine. I due pezzi della coperta, smontati da quella grandine di granate, non rispondevano più. Il ponte era pieno di morti e di feriti mescolati a pezzi di murate, a pennoni spaccati, a lembi di manovre cadute dalle alberature sotto gli ultimi uragani di mitraglia ordinati da Sandokan. Getti di fuoco correvano da prora a poppa, illuminando sinistramente il mare, mentre dagli ombrinali di babordo e di tribordo sfuggivano getti di sangue. La nave si sfasciava sotto i colpi furiosi, mortali del Re del Mare. - Basta! - gridò ad un tratto Yanez, che dalla torre di comando assisteva a quella strage. - Cessate il fuoco! Le scialuppe in mare! Sandokan che guardava freddamente, terribilmente impassibile, si volse verso il portoghese, dicendogli: - Che cosa comandi, fratello? - Che il massacro cessi. La Tigre della Malesia ebbe un momento di esitazione, poi rispose: - Hai ragione: salviamo i superstiti. Quegli uomini o meglio il loro comandante è un eroe! Mettete in acqua le scialuppe!

Quando entrarono, sir Moreland stava parlando, con voce abbastanza chiara, col signor Held, chiedendo informazioni sulla potenza della nave corsara. Vedendoli, l'anglo-indiano fece uno sforzo per alzarsi a sedere; Sandokan con un gesto glielo impedì. - No, sir Moreland, - disse. - Siete troppo debole e per ora dovete evitare qualsiasi sforzo. È vero, mio caro Held? - La ferita potrebbe riaprirsi, - rispose il dottore. - Vi ho proibito, Sir, di fare qualsiasi movimento. L'anglo-indiano porse la mano all'americano, a Yanez e a Sandokan, dicendo loro: - Grazie di avermi salvato, signori, quantunque avessi desiderato di affondare assieme alla mia nave ed ai miei disgraziati marinai. - Vi è sempre tempo a morire per un marinaio, - rispose Yanez, sorridendo. - La guerra non è ancora finita, anzi per noi è appena cominciata. Una nube oscurò la fronte dell'anglo-indiano. - Credevo che la vostra missione terminasse colla liberazione di quella fanciulla e di suo padre, - disse. - Non avrei acquistata una nave di tale potenza per una simile impresa, - disse Sandokan. - I miei prahos sarebbero stati sufficienti. - Sicchè voi continuerete a corseggiare? - Sì e finchè avrò un solo uomo ed un pezzo d'artiglieria servibile. - Io vi ammiro, signori, ma credo che le vostre corse finiranno presto. L'Inghilterra ed il rajah non tarderanno a farvi inseguire dalle loro squadre. Come resisterete voi a simili attacchi? Il carbone vi verrà meno e sarete costretti ad arrendervi o a farvi colare a picco dopo una inutile resistenza. - Lo vedremo ... Poi Sandokan, cambiando bruscamente tono, chiese: - Come state, sir Moreland? - Relativamente bene; il dottore mi assicura che io potrò alzarmi fra una diecina di giorni. - Avrò molto piacere di vedervi passeggiare sul ponte della mia nave. - Sicchè contate di tenermi prigioniero, - disse l'anglo-indiano, sorridendo. - Anche se volessi rendervi la libertà in questo momento non potrei farlo, perchè siamo ben lontani dalle coste. - Risalite verso il nord? - No, sir Moreland, andiamo invece verso il sud; desidero vedere la foce del Sarawak. - Vi comprendo, signore. Tenterete un colpo di mano sui depositi di carbone del rajah. - Non lo so ancora. - Signor Sandokan, desidererei una spiegazione, se lo permettete. - Parlate, sir Moreland, - rispose la Tigre della Malesia. - Poi, se me lo permettete, vi farò anch'io qualche interrogazione. - Desidererei sapere perchè avete coinvolto nella guerra anche il rajah di Sarawak. - Perchè noi siamo convinti che egli sia il protettore dell'uomo misterioso che ha scatenato contro di noi gli inglesi di Labuan e che in un solo mese ci ha recato tanti danni. - Chi è costui? Sandokan fissò sull'anglo-indiano uno sguardo acutissimo, come se avesse voluto leggergli fino in fondo al cuore, poi disse: - È impossibile che voi, che appartenete alla marina del rajah, non lo abbiate conosciuto. Qualche cosa, come un fremito, passò sul viso di sir Moreland, il quale rimase per qualche istante muto. - No, - disse poi, - non ho mai veduto l'uomo a cui voi alludete. Ho udito però a narrare che un individuo misterioso, che pare possegga delle ricchezze favolose, ha visitato il rajah, mettendogli a sua disposizione navi e uomini per vendicare James Brooke. - Un indiano, è vero? - Non lo so, - rispose sir Moreland. - Io non l'ho mai veduto. - È quell'uomo che ha spinto gli inglesi ed il rajah contro di noi? - Così mi hanno narrato. - Il figlio d'un famoso capo di thugs indiani. - Non ve lo saprei dire. - E vuole misurarsi colle tigri di Mompracem? - Ed è anche certo di vincervi. - Cadrà come è caduto suo padre e come è caduta tutta la sua setta, - disse Sandokan. Un secondo fremito passò sul viso dell'anglo-indiano, mentre negli occhi nerissimi balenava come una fiamma. Stette un'altra volta qualche istante muto, come se qualche improvviso pensiero lo turbasse, poi disse: - L'avvenire ve lo dirà. Poi, cambiando bruscamente discorso, chiese: - Sono sempre a bordo quell'indiano e sua figlia? - Non ci lasceranno, perchè la loro sorte è unita alla nostra, - rispose Sandokan. Sir Moreland si lasciò sfuggire un sospiro e s'abbandonò sul guanciale. - Riposate tranquillo, - gli disse Sandokan. - Non accadrà nulla questa notte. - Uscì insieme a Yanez e salì sul cassero. Surama e Darma stavano prendendo il fresco, chiacchierando con Tremal-Naik. Vedendo Yanez, Darma gli si appressò, interrogandolo collo sguardo. - Tutto va bene, - le sussurrò il portoghese col suo solito sorriso. - Potrò visitarlo? - Domani nessuno te lo impedirà, se ... La frase gli fu spezzata dal grido della vedetta istallata sulla coffa dell'albero di trinchetto: - Fumo all'orizzonte! Guarda all'ovest! Quel grido aveva fatto balzare in piedi Sandokan, che si era appena allora seduto presso Tremal-Naik e fatto accorrere in coperta tutto l'equipaggio. Sul cielo ancora fiammeggiante, non essendosi il sole ancora completamente immerso, si vedeva una sottile colonna di fumo alzarsi nella limpida e tranquilla atmosfera. - Che sia qualche nave da guerra in cerca di noi? - chiese Yanez, - o un pacifico piroscafo in rotta per Sarawak? - Sospetto più che sia una nave da guerra, - disse Sandokan, che aveva puntato un cannocchiale recatogli da Sambigliong. - Ah! Toh! Sembra che si allontani verso l'ovest; il pennacchio di fumo si è piegato verso la nostra parte. - Che ci abbia scorti? - chiese Tramal-Naik, che li aveva raggiunti. - Come noi ci siamo accorti della sua presenza, è probabile che il suo comandante abbia veduto anche il nostro fumo. - Mi viene un sospetto, - disse Yanez. - Quale? - Che sia qualche esploratore. - È possibile, Yanez, - rispose Sandokan. - Che cosa risolvi di fare? - Seguirlo a distanza. Domani, ai primi albori, ci metteremo in caccia e tanto peggio per lui se appartiene alle squadre del rajah o di Labuan. Passeremo la notte in coperta. Le tenebre che calavano rapidissime non permettevano più di poter scorgere quel pennacchio di fumo, ma il Re del Mare aveva messa la rotta a ponente per seguirlo nella sua rotta. Colle sue poderose macchine era certo di raggiungerlo prima dell'alba e di catturarlo o di affondarlo colle sue formidabili artiglierie. La guardia franca, per precauzione, era stata tenuta in coperta, potendo darsi che durante la notte gravi avvenimenti accadessero. - A dodici nodi! - aveva comandato Sandokan. - Lo seguiremo da presso. Il comando era stato appena dato che il Re del Mare ripartiva colla prora a ponente. La notte era splendida, una vera notte tropicale piena di fascino e d'incanto, come solo si possono vedere in quelle regioni delle calme quasi eterne. Quantunque il sole fosse scomparso da parecchie ore, pareva che avesse lasciato dietro di sè una porzione della sua luce, perchè nel firmamento non regnava oscurità completa. Un vago chiarore, scialbo, d'una trasparenza incredibile, regnava lassù e si proiettava sulle acque dell'oceano, permettendo agli uomini di quarto di spingere i loro sguardi a distanze infinite. Le acque, tratto tratto, parevano incendiarsi. Dai profondi abissi del mare salivano a battaglioni le meduse, mentre gli splendidi anemoni schiudevano le loro brillanti corolle rosee, bianche azzurre, gialle e violette, ondeggiando mollemente le loro frange sfolgoranti. In mezzo a quelle ondate di luce sottomarina, di quando in quando si vedevano scivolare dei mostri, i quali spargevano il terrore e la confusione fra quei molluschi. Ora erano dei charcharias, pericolosi e sempre affamati squali; ora dei calamari giganti dal becco da pappagallo, gli occhi glauchi e fissi e i tentacoli coperti da ventose. Ora invece, una massa enorme appariva bruscamente a galla, lanciando in alto spruzzi fiammeggianti e ricadendo poi con un tonfo cupo. Era una balenottera dal dorso nero-verdastro, lunga una quindicina di metri, cetaceo ancora abbastanza comune nei mari intertropicali, nonostante la caccia accanita delle navi baleniere. Sandokan e Yanez, quantunque la giornata fosse stata assai faticosa e nessun pericolo, almeno apparentemente, minacciasse la loro nave, non si erano coricati. Non era già per godersi quella splendida notte, nè per ammirare i fulgori variopinti degli anemoni, spettacoli oramai troppo noti a loro, vecchi naviganti dei mari della Malesia. Un segreto timore li tratteneva sul ponte. Camminavano con una certa agitazione, fermandosi sovente per fissare i loro sguardi verso ponente. Quel fumo li preoccupava vivamente, temendo che quel legno fosse l'avanguardia di qualche flottiglia. - Hai scorto qualche cosa? - chiese Yanez, verso la mezzanotte, vedendo Sandokan arrestarsi per la decima volta e puntare il cannocchiale verso ovest. - Io giurerei d'aver veduto, alcuni minuti or sono, un punto bianco, splendidissimo, brillare nella direzione ove è scomparso quel pennacchio di fumo, - rispose la Tigre. - Il fanale del trinchetto di quella nave oppure una stella? - No, Yanez: nè l'uno nè l'altra. Poi, dopo una breve pausa, riprese: - Credi tu che la squadra di Labuan non ci cerchi? Non sarà certo rimasta inoperosa a Victoria, dopo la nostra dichiarazione di guerra. - Colla velocità che possediamo, non ci sarà difficile lasciarla indietro. - Ed il carbone ci mancherà presto, - rispose Sandokan. - Le nostre carboniere sono ormai semi-vuote. - Ci riforniremo a spese del rajah. - Se potremo giungere alla foce del Sarawak. - Che cosa temi? Sandokan non rispose. Guardava attentamente sempre verso ponente, percorrendo tutta la linea dell'orizzonte. Ad un tratto abbassò il cannocchiale. - Un lampo, - disse. - Dove, Sandokan? - È brillato nella direzione presa da quella nave. Mi parve un lampo di luce elettrica. - Sì, signore, - confermò l'americano Horward, che per un momento aveva lasciato la sala delle macchine. - L'ho scorto anch'io. - Che quella nave corrisponda con qualche altra? - chiese Yanez. - È quello che temo. - rispose Sandokan. - Fortunatamente l'orizzonte è chiaro e vedremo subito il nemico. Signor Horward, date ordine in macchina che si preparino a portare la nostra velocità a quattordici nodi. Sono curioso di sapere chi potrà gareggiare con noi. - L'americano aveva appena trasmesso il comando, quando un nuovo lampo balenò nella direzione di prima. Pareva che una lampada elettrica di grande potenza, avesse proiettato un ampio fascio di luce sull'oceano. Un momento dopo una sottilissima striscia di fumo s'alzò sull'orizzonte. - Un razzo, - disse Yanez. - Sono due navi che corrispondono e una deve essere quella che è fuggita al nostro avvicinarsi. Segnala di certo la nostra rotta. - Signor Sandokan, - disse l'americano. - Se non m'inganno vedo un punto nero scorrere sull'oceano. Sta attraversando un tratto d'acqua fosforescente. - Un punto! Allora non può essere una nave. - E che si muove con rapidità straordinaria, a quanto pare. - Che sia qualche scialuppa a vapore? Allungò nuovamente il cannocchiale, mantenendolo orizzontale per qualche minuto. Il punto nero, che ingrandiva rapidamente, aveva attraversato la zona fosforescente confondendosi colla tinta cupa delle acque, ma più oltre ve n'era una seconda formata da migliaia di nottiluche, di anemoni e di meduse. - Sì, sembra una grossa scialuppa a vapore, - disse Sandokan. - Non è che a duemila metri. La manderemo a far compagnia alle meduse. Mastro Steher!

. - Ne abbiamo ancora abbastanza da farli correre e poi, ci riforniremo più tardi a spese dei piroscafi mercantili. Il Re del Mare continuava intanto la sua corsa rapidissima a tiraggio forzato. La squadra degli alleati, che aveva tentato di circondarlo presso la scogliera, era ormai quasi fuori di vista, mentre i quattro incrociatori, pur perdendo via, continuavano vigorosamente la caccia. Dovevano possedere nondimeno anche essi delle macchine poderose, poichè, quando l'alba sorse, il Re del Mare non era riuscito a guadagnare che un miglio e divorando immense quantità di carbone. Avendo però quattro miglia di vantaggio fino da prima, si teneva benissimo fuori di portata dalle artiglierie che in quell'epoca non potevano tirare a simile distanza. A mezzodì la caccia non era cessata, ma un altro miglio era stato raggiunto. Yanez, che non aveva lasciato un solo istante la coperta, stava per scendere nella sala da pranzo, quando fu avvicinato da Darma. La fanciulla appariva imbarazzata e molto triste. - Signor Yanez, - disse fermandolo. - L'avete veduto? ... - Chi? - chiese il portoghese, quantunque avesse compreso che cosa desiderava sapere. - sir Moreland. - No Darma. Non l'ho scorto su nessun ponte di comando della squadra degli alleati. La fanciulla era diventata pallida. - Che sia morto? - chiese poi. - Lui? ... E perchè? ... Non si è misurato con noi e quando io gli ho danneggiata la sua scialuppa a vapore era vivo quanto me. - Che sia su una di quelle quattro navi? - Non l'ho veduto nemmeno su quelle, Darma. Ho osservato attentamente i ponti col cannocchiale, senza scorgerlo. - Eppure il mio cuore mi dice che egli deve essere su uno di quegli incrociatori. Yanez sorrise senza rispondere e offertole il braccio la condusse nella sala da pranzo. Alla sera i quattro incrociatori erano ancora in vista, ad una distanza di dodici miglia. I loro camini vomitavano torrenti di fumo, tuttavia perdevano continuamente strada. A mezzanotte, il Re del Mare, che non aveva accesi i suoi fanali, virava bruscamente di bordo dirigendosi verso ponente, in direzione del capo Tanjong- Datu per gettarsi nel mare della Sonda. Il bisogno di rifornirsi di carbone s'imponeva e, privi come erano di porti amici, senza più l'aiuto della Marianna, non avevano altra speranza che di prenderne alle navi inglesi, le quali non dovevano certamente avere interrotto i loro viaggi. Sandokan, dopo essersi assicurato che gli incrociatori non erano più visibili, aveva ordinato di ridurre la velocità dell'incrociatore onde economizzare il combustibile, non sapendo quando avrebbe potuto rinnovare le sue provviste di già nuovamente molto scarse. Avvistato due giorni dopo il capo Tanjong-Datu, il Re del Mare aveva proseguita la corsa verso il nord-ovest, sperando di sorprendere in quella direzione qualche nave proveniente da Singapore o dai porti di Giava o di Sumatra, tuttavia nei primi giorni che si seguirono nessun fumo fu segnalato all'orizzonte. Certo, la voce che un corsaro batteva quei paraggi si era sparsa su tutte le isola della Sonda ed i piroscafi inglesi non avevano osato abbandonare i loro ancoraggi ed attendevano che la squadra di Labuan lo catturasse o lo affondasse. Sandokan e Yanez, quantunque molto preoccupati, dipendendo dall'abbondanza del carbone la loro salvezza, non erano però uomini da disperarsi. Potevano ancora percorrere, a velocità ridotta, tre o quattrocento miglia e spingersi quindi fino nei mari della Cina meridionale e, se lo avessero desiderato, tentare ancora qualche buon colpo. Non avevano però, almeno pel momento, alcun desiderio di allontanarsi troppo dalle coste del Borneo. Forse anche la flotta inglese dell'estremo Oriente doveva già essersi messa in moto per catturarli e non desideravano affrontarla con una così scarsa dotazione di carbone. - Aspettiamo, - aveva detto Sandokan a Tremal-Naik che lo interrogava sui suoi progetti. - Non ci conviene pel momento lasciare questi paraggi ed oltrepassare le isole Natuna e Bunguran. So bene che lassù le navi da predare non mi mancherebbero, se lo volessi; però anche qui il lavoro non ci mancherà. - Che cosa aspetti qui? Si direbbe che tu attenda qualche cosa? - Infatti, aspetto, - rispose Sandokan con un sorriso misterioso. - Desidero raccogliere, ad un tempo i due piccioni ed anche la fava. - Sono già quattro giorni che abbiamo lasciato le acque di Sarawak. - Il tempo per noi non ha valore. Aspettiamo dunque. - E quegli incrociatori che continuano l'inseguimento? - Certo, - rispose Sandokan, - ma dietro a chi? Io sono ormai convinto di averli ingannati e dubito molto di ritrovarli per ora sulla mia via. Per quarantott'ore il Re del Mare continuò a navigare verso il nord-ovest, spingendosi assai lontano dalle coste bornesi, poi, avendo nuovamente avvistate le isole Natuna e Bunguran, ripiegò verso levante, desiderando i due comandanti fare una punta a Bruni, la capitale del sultanato del Borneo, sapendo che era di quando in quando frequentato da piroscafi inglesi. Non dovevano ingannarsi. Avevano lasciate le isole da una quindicina di ore, quando una grossa nave si profilò sull'orizzonte limpidissimo. Era uno steamer a due ciminiere e tambure, che filava in direzione di Bruni, forse per far scalo colà prima di risalire verso i mari della Cina. La bandiera rossa che si vedeva ondeggiare a poppa, aveva confermato le speranze di Yanez e di Sandokan, i quali pareva che fiutassero da lontano le navi avversarie. Lo steamer, accortosi della presenza dell'incrociatore e anche dei suoi colori, dapprima aveva continuata la sua corsa verso il nordest, poi aveva bruscamente virato di bordo lanciandosi verso levante, onde cercare un rifugio in qualche baia del Borneo. Il suo comandante, prima della sua partenza dai porti dell'India, doveva aver ricevuto avviso della presenza d'un corsaro malese nelle acque dei mari della Sonda e si era subito dato alla fuga, non potendo impegnare la lotta. Il Re del Mare però, quantunque lo steamer corresse velocissimo e vomitasse torrenti di fumo dalle sue due ciminiere, segno certo che forzava le sue macchine, con un'abilissima manovra lo raggiunse, sparando dapprima una cannonata a polvere, poi a palla, per fargli meglio comprendere che era risoluto ad affrontarlo. Vedendo che non obbediva, e che anzi aumentava la velocità, con una seconda cannonata tirata da uno dei suoi pezzi da caccia gli sconquassò il cassero. Un momento dopo la bandiera bianca s'alzava sulle cime del trinchetto, mentre la velocità scemava. - Ha del fegato quel comandante, - disse Yanez, mentre si mettevano in acqua le scialuppe. - Disgraziatamente non possiamo essere generosi e quel superbo piroscafo andrà a raggiungere gli altri in fondo al mare della Malesia. Discese nella lancia a vapore e si diresse verso lo steamer seguìto da cinque scialuppe montate da settanta uomini, fra malesi e dayaki. Il piroscafo si era arrestato a dieci gomene dal Re del Mare. Era una magnifica nave, montata da numerosi passeggeri, i quali, muti, atterriti, aspettavano ansiosamente l'abbordaggio dei corsari. Il comandante, attorniato dai suoi ufficiali, non aveva abbandonato il ponte. Yanez fu il primo a salire a bordo. Attraversò la folla e si fece sotto il ponte di comando, dicendo al capitano dello steamer, che non si era mosso per incontrarlo: - Non siete troppo cortese, signore, verso un uomo che avrebbe potuto cannoneggiarvi. - Fatelo, se così vi piace, - rispose freddamente il comandante. - Io non mi oppongo. Pensate però che a bordo della mia nave vi sono cinquecento e più donne, molti fanciulli e molti uomini che non sono inglesi. - Avete scialuppe sufficienti per contenerli tutti, compreso l'equipaggio? - Sì. - La costa bornese non è lontana e il mare per ora non ha alcuna intenzione di guastarsi. Fate imbarcare tutti e andatevene, perchè il piroscafo non appartiene ora che a me. - I miei marinai ed i passeggeri sono liberi di abbandonare la nave, io resterò qui, qualunque cosa debba accadere, - disse l'inglese. - Io non cedo ai pirati di Mompracem. - Ah! ... Sapete chi noi siamo? Bravissimo: vi affonderò colla vostra nave. - Voi l'affonderete? ... - Ci appartiene per diritto di guerra e, non avendo alcun interesse per conservarla, la offriremo ai pesci. Vi accordo due ore e aspetto coll'orologio alla mano. - Vi ripeto che io non lascerò la nave, - rispose l'inglese con ostinazione. - Desidero affondare insieme ad essa. - Se non vi strapperemo colla forza dal ponte di comando, - rispose Yanez, impazientito. Il portoghese stava per ritornare verso i suoi uomini che aiutavano i marinai del piroscafo a mettere in acqua le scialuppe, quando si vide venire incontro un uomo piccolo, tozzo, col mento accuratamente rasato e che celava gli occhi sotto due occhiali affumicati. - Comandante, - gli disse lo sconosciuto, levandosi vivacemente il cappello e sbottonandosi una lunga zimarra di panno oscuro che pareva non gli desse alcun fastidio, nonostante il caldo intenso. - Voi siete uno di quei famosi pirati della Malesia? - Uno dei capi, - rispose Yanez, guardando con curiosità quell'omiciattolo panciuto e paffuto. - Allora mi prenderete con voi, perchè io stavo appunto cercando una nave che mi sbarcasse a Mompracem. - Noi non andammo in quell'isola, che d'altronde non è più in nostro possesso e non imbarchiamo altro che uomini di mare e di guerra. - Io volevo venire con voi per combattere gli inglesi, signore. Io conosco tutte le vostre meravigliose imprese. - Voi! - esclamò Yanez, con accento beffardo. - Voi non sapete chi sono io. - No di certo. - Il demonio della guerra, o meglio, se vi piace, il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, infine un uomo che potrà causare danni immensi agli inglesi. Ecco perchè, signore, voi non rifiuterete d'imbarcarmi sulla vostra nave assieme ai miei bagagli. Vi renderò dei preziosi servigi, tali da far stupire e anche tremare il mondo! ...

. - Pare che l'inglese non si senta abbastanza forte per misurarsi con noi, - aveva detto a Tremal-Naik che lo aveva raggiunto nella torretta. - Che voglia arrendersi? Non saprei cosa farne di quella nave. - Le prenderemo le artiglierie e le munizioni, oltre il carbone, - rispose l'indiano. - Potranno servire ai nostri amici dayaki di Sarawak. - Sì, eppure mi spiacerebbe perdere altro tempo, - disse la Tigre della Malesia. - Dobbiamo cercare Yanez e Darma. - Speri di trovarli ancora sullo scoglio? - chiese Tremal-Naik con angoscia. - Non ne dubito. Io li ho veduti approdare, prima che le tenebre coprissero quell'isolotto. Oh! Un capitano nella baleniera! Che venga a offrirci la sua spada? Avrei preferito un combattimento, giacchè sento una smania furiosa di tutto distruggere. - Tigre della Malesia, - disse in quel momento Sambigliong, il quale aveva puntato un cannocchiale sulla scialuppa. - È mai possibile! Che io mi inganni o che sia realmente lui! Guardate! Guardate! - Che cosa hai veduto? - È lui, vi dico, è lui! - Chi lui? - sir Moreland. - Moreland! - esclamò Sandokan, prima impallidendo e poi arrossendo, mentre un lampo di speranza gli balenava negli sguardi. - Moreland a bordo di quel legno! Allora Yanez ... Darma ... Come possono trovarsi su quella nave? È impossibile, ti sei ingannato, Sambigliong. - No, guardate, ci ha scorti e ci saluta agitando il berretto. Sandokan si era slanciato fuori dalla torretta. Un grido di gioia gli sfuggì. - Sì, è lui, sir Moreland! ... La baleniera, sotto la spinta di dodici remi, s'avanzava rapidissima. L'anglo-indiano, in piedi a poppa, salutava ora col berretto, senza abbandonare la barra del timone. - Abbassate la scala! - gridò Sandokan. L'ordine era stato appena eseguito che la baleniera abbordava. Sir Moreland salì rapidamente a bordo, dicendogli con una certa freddezza: - Sono lieto di rivedervi, signore, e di potervi dare una notizia che gradirete assai. - Yanez ... Darma? ... - gridarono ad una voce Sandokan e Tremal-Naik. - Sono a bordo di quella nave. - Perchè non li avete condotti qui? - chiese Sandokan aggrottando la fronte. L'anglo-indiano che era diventato estremamente serio e che parlava con voce quasi imperiosa, rispose: - Vengo per intavolare delle trattative, signore. - Che cosa volete dire? - Che il comandante vi consegnerà il signor Yanez e miss Darma a condizione che voi lasciate tranquilla quella nave, che come ben vedete non sarebbe in grado di misurarsi con la vostra. Sandokan ebbe un istante di esitazione, poi rispose: - Sia pure, sir Moreland. Saprò ritrovarla più tardi. - Fate abbassare la bandiera di combattimento. Il comandante comprenderà che voi avete accettato la sua proposta e vi manderà subito i prigionieri. Sandokan fece un segno a Sambigliong e pochi istanti dopo il nastro rosso veniva fatto scendere in coperta. Quasi nel medesimo istante una seconda scialuppa si staccava dal fianco del piccolo incrociatore: vi erano sopra Darma e Yanez. - sir Moreland, - disse Sandokan, - dove vi ha raccolti quella nave? - A Mangalum, - rispose l'anglo-indiano, senza levare gli occhi dalla scialuppa che s'accostava rapidissima. - Vi eravate salvati sullo scoglio? - Sì, - rispose il capitano, che pareva avesse perduta la sua abituale cordialità e che fosse in preda a delle profonde preoccupazioni. La seconda scialuppa era giunta. Yanez e Darma avevano salito precipitosamente la scala, cadendo l'uno nelle braccia di Sandokan e la seconda in quelle di suo padre. Sir Moreland, pallidissimo, guardava con occhio triste quella scena. Quando si furono separati, si volse verso Sandokan, chiedendogli: - Ed ora mi tratterrete ancora prigioniero? La Tigre della Malesia stava per rispondere, quando Yanez lo prevenne. - No, sir Moreland, voi siete libero. Tornate a bordo dell'incrociatore. Sandokan non aveva nascosto un gesto di stupore. Probabilmente non era quella la risposta che intendeva dare all'anglo-indiano, nondimeno non replicò. - Signori, - disse allora l'anglo-indiano con voce grave, fissando bene in viso Sandokan e Yanez, - spero di rivedervi presto, ma allora saremo terribili nemici. - Vi aspettiamo, - rispose freddamente Sandokan. S'accostò a Darma e le tese la mano, dicendole con accento triste: - Che Brahma, Siva e Visnù vi proteggano, miss. La fanciulla che appariva profondamente commossa, strinse la mano senza parlare. Pareva che avesse un nodo alla gola. L'anglo-indiano finse di non vedere le mani che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik gli porgevano, salutò militarmente e scese rapidamente la scala senza volgersi indietro. Quando però la scialuppa che lo conduceva verso il piccolo incrociatore passò dinanzi la prora del Re del Mare alzò la testa e vedendo Darma e Surama sul castello, le salutò col fazzoletto. - Yanez, - disse Sandokan, traendo da parte il portoghese. - Perchè lo hai lasciato andare? Egli poteva diventare un ostaggio prezioso. - Ed un pericolo per Darma, - rispose Yanez. - Essi si amano. - Me n'ero accorto. È un bel giovane e valoroso, ha sangue anglo-indiano nelle vene al pari di Darma ... chissà? Dopo la campagna. Stette un momento come immerso in un profondo pensiero, poi riprese: - Cominciamo le ostilità: gettiamoci sulle vie di navigazione e cerchiamo, finchè le squadre ci cercano nelle acque di Sarawak, di fare il maggior male possibile ai nostri avversari.

L'imbuto era quello che usava il cambusino per riempire le botti, un arnese massiccio dall'imboccatura abbastanza larga per tappare completamente la bocca dell'indiano. - Vuoi confessare? - chiese per l'ultima volta l'americano. - Mi risparmierai una tortura inutile, perchè non potrai resistere. - No, - rispose seccamente lo strangolatore. - Neanche se ti promettessi un giorno la libertà? - chiese Yanez, a cui ripugnava ricorrere ai mezzi estremi. - Quel giorno io non sarei più vivo. - Agite, - disse l'americano. Tutti si erano ristretti attorno alla tavola. Solo il timoniere era rimasto dietro la ruota ed i fuochisti dinanzi ai forni. Due marinai introdussero nella bocca dell'indiano l'estremità dell'imbuto, tenendovelo ben fermo, mentre un terzo vi versava lentamente l'acqua contenuta nel bugliolo5. Lo strangolatore, costretto a bere per non morire soffocato, aveva cercato con uno sforzo disperato, di spezzare i legami per allontanare l'imbuto. Aveva subito compreso che non avrebbe potuto resistere a lungo a quella tortura che prima di allora non aveva mai conosciuta. Tuttavia, deciso a resistere fino all'ultimo, anche a morire, non fece alcun atto che potesse far supporre all'americano ed al portoghese di essere pronto a confessare. Il liquido continuava a scorrergli nello stomaco ed il suo ventre si gonfiava a vista d'occhio. I suoi lineamenti dimostravano uno spasimo estremo, gli occhi pareva che volessero schizzargli dalle orbite e respirava affannosamente per le nari, con un rantolo sinistro, lugubre. - Confesserai? - gli chiese l'americano che assisteva, freddo, impassibile, a quella scena, facendo segno al marinaio che teneva la secchia di fermarsi. Il thug fece col capo un feroce gesto di diniego ed i suoi denti scricchiolarono sulla canna di ferro dell'imbuto. Un altro paio di litri d'acqua scorsero pel tubo. Il martirizzato, col viso congestionato, gli occhi già spaventosamente sbarrati, lo stomaco enormemente dilatato, fece ad un tratto un brusco soprassalto. Era la sua resa. - Basta, - aveva detto Yanez, nauseato. - Basta. L'imbuto fu tolto. Il thug aspirò a lungo l'aria, poi con voce rantolosa mormorò: - Assassini! - Oh! Non morrai per un po' d'acqua, - disse l'americano. - Non si può resistere, questo è vero, ma non si corre alcun pericolo se non si continua. Parlerai? L'indiano stette un momento silenzioso, poi vedendo l'americano fare cenno ai marinai di ricominciare, una orribile espressione di spavento si diffuse sul suo viso. - No ... no ... più - balbettò. - Chi è l'uomo che ti ha mandato qui? Parla o ricominciamo, - disse Yanez. - Sindhya, - rispose l'indiano. - Chi è costui? E tu, soprattutto, chi sei veramente? - Sono ... sono ... il precettore ... di Sindhya ... l'ho allevato ... io ... io ... l'amico ... fedele ... di Suyodhana ... - E quel Sindhya? - insistette Yanez che vedeva l'indiano girare gli occhi e respirare sempre più affannosamente. - Parla o torniamo all'acqua, - disse l'americano. - È ... è ... il figlio ... di ... Suyodhana, - burbugliò lo strangolatore. Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Kammamuri e di Sambigliong. Suyodhana aveva lasciato un figlio! Era possibile? Il capo dei settari, che meno degli altri avrebbe potuto amare una donna, lui che incarnava sulla terra il Trimurti della religione indiana, come un giorno la piccola Darma aveva incarnata Kalì, la sanguinaria divinità, aveva avuto il suo romanzo, come un mortale qualunque? Yanez si era curvato sull'indiano, per chiedergli maggiori spiegazioni e s'avvide che il povero uomo aveva smarrito i sensi. - Che muoia? - chiese, rivolgendosi all'americano. - Non ha confessato tutto e bisogna che sappia dove si trova il figlio del terribile strangolatore e dove hanno condotto Tremal-Naik e Darma. - Lasciatelo digerire tranquillamente la sua acqua, - rispose lo yankee. - Questa tortura non uccide, se viene sospesa a tempo e domani quest'uomo starà bene quanto me e voi. Facciamolo riportare nella cabina e lasciamo che dorma. - È svenuto. - S'incaricherà il medico di bordo di farlo tornare in sè. Non temete, signor de Gomera. Questa sera o domani, noi sapremo tutto quello che desiderate sapere. Fece un cenno ai due marinai e questi sollevarono l'indiano, che non dava più segni di vita e lo portarono nel frapponte. - Ebbene, signor de Gomera, - disse l'americano, rivolgendosi a Yanez che pareva assai preoccupato e pensieroso. - Pare che non siate troppo lieto della nuova che avete appreso. È un uomo pericoloso, il figlio del capo degli strangolatori? - Può diventarlo, - rispose Yanez, - non sapendo noi nè dove si trovi, nè chi sia, nè di quali mezzi disponga. La guerra sorda ma implacabile, fattaci finora, dimostra che quel Sindhya deve possedere l'energia e la ferocia del padre. È necessario che io sappia dove si nasconde. - Non era dunque fra i dayaki che vi hanno assaliti? - Non sembra. Non vi era che quel pellegrino alla testa dell'insurrezione, di questo siamo certi. Se vi fosse stato qualche altro indiano a quest'ora l'avremmo saputo. - Che sia veramente possente quel Sindhya? - I fatti lo dimostrano. È stato lui ad armare i dayaki, lui a sobillare gli inglesi e forse anche il nipote di James Brooke. Sono certo che deve disporre di ricchezze incalcolabili. - E l'oro è il nerbo della guerra, - disse l'americano. - E deve aver armato qualche nave anche. - Che la vostra affonderà senza fatica, signor de Gomera. Nessuno potrà sfidare impunemente le vostre artiglierie che sono le più moderne e le più formidabili che finora si conoscano e che anche la marina del mio paese sta adottando. Che peccato non potervi tenere compagnia! - Signor Yanez, - disse in quel momento Kammamuri, che fino allora era rimasto silenzioso e non meno pensieroso del portoghese, - che cosa ne dite di questa inaspettata rivelazione? - Che non avrei mai supposto che noi dovessimo trovarci ancora di fronte ai thugs indiani. Tu che sei stato loro prigioniero parecchio tempo, non hai mai udito a narrare che Suyodhana avesse un figlio? - No, signor Yanez, e poi se i thugs lo avessero saputo, il loro capo avrebbe molto perduto della sua influenza. Egli deve averlo fatto allevare molto lontano dalle Sunderbunds, all'insaputa di tutti, per celare la propria colpa. Un capo come lui non può amare una mortale: il suo cuore non deve battere che per la sanguinaria dea e per nessun'altra donna. - Credi tu che la comunità dei thugs fosse molto ricca? - Mi fu detto che poteva disporre di tesori favolosi e che solo Suyodhana sapeva dove erano collocati. - Distrutti i settari, certo quelle ricchezze saranno state raccolte da Sindhya. - È probabile, signor Yanez, - rispose il maharatto. - Ed ora viene a sfidarci per vendicare suo padre! - disse il portoghese, come parlando fra sè. - Come la Tigre della Malesia ha vinto e ucciso la Tigre dell'India abbatterà anche il tigrotto. - Mi stupisce però, - disse l'americano, - come lui, figlio d'uno strangolatore, sia riuscito a procurarsi l'appoggio degli inglesi, se è vero quanto voi sospettate. - Sapete voi sotto quale nome o quale titolo si nasconda? - chiese Yanez. - Non sarà stato così sciocco da dire al governatore di Labuan che è un seguace di Kalì. Mi occorre sapere dove si trova ed il suo precettore me lo dirà, dovessi torturarlo fino a che muoia. - Basterà minacciarlo d'una nuova bevuta, - disse l'americano. - Non resisterà, lo vedrete e vi spiattellerà tutto. Signor de Gomera, andate un po' a riposarvi. Dovrete essere assai stanco, dopo tante emozioni. I vostri marinai dormono già come ghiri. Il portoghese, che da due notti non chiudeva gli occhi, seguì il consiglio dell'americano e scese nel quadro con Kammamuri, gettandosi vestito come era in un lettuccio. Intanto la nave continuava la sua rotta verso il sud-est, tenendosi a una dozzina di miglia dalla costa. Divorava i suoi quindici nodi, velocità assolutamente straordinaria in quell'epoca, in cui i piroscafi migliori, non esclusi gli incrociatori, non riuscivano ordinariamente a percorrerne più di dodici. Al largo non appariva alcuna nave; verso la costa, assai sinuosa e frastagliata da minuscoli seni, veleggiavano lentamente alcuni prahos montati probabilmente da pescatori, essendo le acque che bagnano quella grande isola ricchissime di pesci. A mezzodì il Nebraska - tale era il nome del magnifico vapore - avvistava già l'isola di Tiga e puntava direttamente verso il capo Nosong, che forma l'estremità d'una vasta isola staccata dalla terraferma da uno stretto canale che sbocca nella vasta baia di Bruni. Alle quattro, Labuan, la colonia inglese, a cui Sandokan per tanti anni aveva dato da fare, minacciando l'esterminio dei suoi primi coloni, era in vista verso il sud. Quasi nel medesimo istante la voce dell'americano svegliava bruscamente Yanez. - In piedi, signor de Gomera! - aveva gridato il comandante. Vi era nella voce un certo tono, che fece balzare subito in piedi il portoghese. Anche il viso dell'americano era assai oscuro. - Avete qualche brutta nuova da comunicarmi? Mi sembrate sconvolto, signor Brien. - By God! - bestemmiò lo yankee grattandosi rabbiosamente la testa. - Non me l'aspettavo, signor Yanez. - Insomma, che cosa c'è di nuovo? - C'è ... c'è ... che quel maledetto indiano se n'è andato all'altro mondo senza completare le sue confessioni. - Morto! - Aveva qualche terribile veleno nascosto in un anello. Vi rammentate che ne aveva uno al dito medio, con un grosso corindone? - Sì, mi pare di averglielo veduto. - Ho trovato il corindone levato e sotto di esso un piccolo vuoto che doveva contenere qualche granello di chissà quale sostanza tossica ed è rimasto fulminato sotto gli occhi del marinaio di guardia, - disse l'americano. Yanez aveva fatto un gesto di collera. - Morto, portando nella tomba il segreto che più mi premeva! - esclamò coi denti stretti. - Come faremo noi a sapere dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i loro uomini? Maledizione! La stella che per tanti anni ci ha protetti, comincia a offuscarsi. Sarebbe il principio della fine? - Non scoraggiatevi, signor Yanez, - disse l'americano. - Non li avranno già mangiati i vostri amici. Se non li hanno uccisi subito, vuoi dire che i rapitori avevano ricevuto l'ordine di tradurli in qualche luogo. - E dove? - Ecco il punto nero, per ora. Yanez, che in quella disgraziata spedizione più volte aveva perduto la sua calma, si era messo a passeggiare per la cabina in preda ad una vivissima agitazione. Che cosa fare? Che cosa risolvere? Dove dirigere le ricerche? Erano quelli i pensieri che turbavano la sua mente. - Dove ci troviamo ora, signor Brien? - chiese ad un tratto fermandosi dinanzi all'americano. - In vista delle coste di Labuan, signor de Gomera. - Quando potremo giungere a Mompracem? - Fra le dieci e le undici di notte. - Fate mettere in acqua una scialuppa con viveri e armi per due uomini e accostate Labuan. - Che cosa volete tentare, signor de Gomera? - Mi è venuto un sospetto. - E quale? - La scialuppa a vapore si è diretta verso il sud, senza entrare nella baia di Kabatuan, che i miei prahos avevano già oltrepassata. - Sicchè voi credete? - Che abbia condotti Tremal-Naik, Darma e i loro uomini a Labuan. - E vorreste sbarcare un paio dei vostri malesi onde vadano ad informarsi? - E raccoglierli più tardi. - Due uomini bianchi avrebbero maggiori probabilità e ve ne sono a bordo di quelli che hanno fegato. Basta pagarli. - Avranno ciò che chiederanno. - Seguitemi, signor Yanez. Quando salirono in coperta, le spiagge di Labuan erano perfettamente visibili, non distando che una dozzina di miglia. L'americano fece armare una scialuppa, chiamò due marinai, due californiani alti come granatieri e li informò del desiderio espresso dal portoghese. - E offro cento sterline a ciascuno se riuscirete a darmi notizie dei miei amici, - aggiunse Yanez. - Andiamo anche all'inferno noi, - rispose uno dei due marinai. - A prendere Belzebù, se lo vorrete, signor comandante, - disse l'altro. - Fra due giorni al più tardi io verrò a raccogliervi. - Di notte? - chiese Bob. - Sì, e segnalerò la nostra presenza con un razzo verde. - Che il diavolo ci porti via se non riusciremo, signor comandante, - rispose il primo. La scialuppa era pronta. I due californiani vi discesero e presero subito il largo arrancando verso l'isola, mentre il Nebraska riprendeva frettolosamente la sua rotta, dirigendosi verso ponente. Un po' più tardi lo strangolatore, dopo che il medico ebbe constatato essere veramente morto, veniva gettato in mare chiuso entro un'amaca e con una palla di cannone ai piedi, onde sottrarlo alla voracità dei pescicani, che si tengono ordinariamente a fior d'acqua. Alle otto di sera il Nebraska, che non aveva rallentata la velocità, si trovava già a mezza via fra Labuan e Mompracem. Il mare era sempre deserto e la luna sorgeva lentamente all'orizzonte, specchiandosi in esso. Una calma assoluta regnava intorno alla nave. Nessuna ondulazione increspava la superficie che pareva d'olio. Yanez, Kammamuri e Sambigliong, dal castello di prora, spiavano ansiosamente l'orizzonte, impazienti di avvistare l'alta rupe su cui sorgeva la dimora della Tigre della Malesia, mentre l'americano, che aveva ripreso momentaneamente il comando della poderosa nave, passeggiava sulla plancia di comando. - Quale sorpresa per Sandokan vedendoci giungere con un simile rinforzo! - disse Sambigliong. - Abbiamo perduto la Marianna e torniamo con una nave che ne vale venti. - Che darà del filo da torcere a Sindhya ed ai suoi alleati, se veramente ne ha, - rispose Yanez. - Che gli inglesi si siano accontentati d'una semplice minaccia, capitano? - È un bel po' che ci hanno fatto capire di andarcene lontani da Mompracem. - E l'ultima minaccia era grave, signor Yanez, - disse Kammamuri. - Non avevo mai veduto Sandokan così preoccupato prima di allora. - Si preparava alla resistenza? - Sì, signor Yanez. Ad un tratto il portoghese impallidì. - Se giungessimo troppo tardi? - chiese con ansietà. - No, è impossibile che abbiano potuto vincere in così breve tempo Sandokan. Ha uomini di ferro e navi e cannoni e batterie formidabili. Le sole forze di Labuan non sarebbero sufficienti per una tale impresa. Fra un'ora sapremo che cosa sarà avvenuto. Si era messo, come era sua abitudine, quando un pensiero lo tormentava, a passeggiare pel castello, colle mani affondate nella tasca e la sigaretta spenta fra le labbra. Passarono quindici o venti minuti. Solo diciotto o venti miglia separavano la Nebraska da Mompracem. Ad un tratto, verso ponente, si udì un rombo lontano, che si propagò sul mare rumoreggiando sinistramente. Yanez aveva interrotta bruscamente la sua passeggiata, mentre l'americano scendeva precipitosamente la plancia di comando. - Un colpo di cannone! - aveva esclamato Yanez. - E viene da Mompracem, signor de Gomera, - disse l'americano, salendo il castello. - Il vento ci soffia di fronte. - Che gli inglesi abbiano assalito l'isola? - Ma ci siamo noi e vi mostrerò la potenza delle nostre artiglierie. Uomini di macchina! A tiraggio forzato e caricate le valvole più che potete. Uomini dei pezzi! Ai vostri posti! Una seconda detonazione rimbombò in quel momento, più distinta della prima, seguìta dopo qualche po' da una serie non interrotta di spari più o meno sonori. Non ci si poteva ingannare. All'orizzonte, in direzione di Mompracem, si combatteva un'aspra battaglia. Yanez e l'americano si erano slanciati sul ponte di comando, mentre gli artiglieri caricavano frettolosamente i pezzi della coperta e delle batterie e si raddoppiava il personale di macchina. - Siamo pronti? - chiese Brien all'ufficiale di quarto che aveva ispezionati rapidamente tutti i pezzi. - Sì, comandante. - Doppia riserva al timone ed in coperta la guardia franca. Le detonazioni continuavano con un fragore crescente. Si udivano quelle secche dei piccoli pezzi e quelle poderose e più prolungate delle artiglierie di grosso calibro. Yanez, un po' pallido per l'emozione, ma calmo, aveva puntato un cannocchiale verso ponente, mentre la nave correva come una rondine marina, lasciandosi dietro una interminabile scia spumeggiante. - Fumo all'orizzonte! - gridò ad un tratto il portoghese. - Vi sono delle navi a vapore laggiù. Sono navi inglesi, non ne dubito. Presto! Presto! - Corriamo il pericolo di saltare, signor de Gomera. Non possiamo forzare di più le caldaie. Un fumo biancastro, che la luce lunare mostrava perfettamente, si alzava verso Mompracem. I colpi spesseggiavano. Si combatteva furiosamente in quella direzione. Poi cominciarono a scorgersi i lampi delle artiglierie. Avvampavano su una vasta zona, come se un gran numero di navi combattessero. - I nostri prahos! - urlò d'improvviso Yanez, staccando dall'occhio il cannocchiale. - La Tigre della Malesia s'allontana al nord. Maledetti! Ancora una volta gli inglesi ci hanno vinti! L'americano gli aveva strappato di mano il cannocchiale. - Sì, i prahos - disse poi, - e cannoneggiati da cannoniere. Veleggiano al nord. - Cannonieri! - gridò Yanez. - Pronti pel fuoco di bordata! Massacrate quelle navi! Il Nebraska si avanzava rapido, in modo da frapporsi fra i velieri che fuggivano sempre sparando, colla Marianna di Sandokan in coda che avvampava come un vulcano e le piccole navi a vapore che li perseguitavano con scariche formidabili. - Eccoci in pieno ballo, - disse l'americano. - Giovanotti! Fuoco di bordata!

. - Sono ancora abbastanza ricco e ho, tu lo sai, delle fattorie anche nel Bengala. Vorrei invece sapere come potremmo noi fuggire cogli assedianti alle costole. - Il mezzo lo troveremo. Si dice che la notte porti consiglio. Già che i dayaki ci lasciano un momento tranquilli, andiamo a riposare. Sambigliong s'incaricherà di disporre gli uomini di guardia. Chissà che domani il mio cervello non abbia trovato qualche buona idea. Certi che gli assedianti, colla terribile batosta ricevuta, non sarebbero tornati alla riscossa, i tre uomini che erano stanchissimi si ritrassero nelle loro stanze non certo lieti, specialmente il portoghese e Tremal-Naik, della brutta piega che prendevano le cose. La notte passò tranquilla. I dayaki, scoraggiati e anche addolorati per le gravi perdite subite, non avevano più osato lasciare i loro accampamenti che dovevano rigurgitare di feriti. Gli uomini di guardia del kampong udirono fino all'alba rullare i tamburoni e i lamenti dei parenti dei morti rimasti nei fossati delle cinte, che nessuno aveva levati di là. Al mattino seguente Yanez, che aveva dormito male e pochissimo, angosciato dalle tristi notizie recate dal maharatto, era già in piedi prima ancora che il sole fosse spuntato all'orizzonte. Pareva che fosse tormentato da qualche idea, perchè, invece di scendere nella sala per farsi servire il thè come faceva tutte le mattine, raggiunse il terrazzo su cui esisteva ancora un pezzo della torretta di legno che le artiglierie nemiche avevano demolito e di lassù si mise ad osservare attentamente le cinte e la disposizione interna del kampong. La fattoria formava un vasto parallelogrammo, tagliato a metà dal bengalow e dalle tettoie e da una palizzata in modo da poter dividere la difesa. La prima parte, dove trovavasi la saracinesca, comprendeva i fabbricati in muratura: la seconda le aie e le abitazioni della servitù e dei campieri e i recinti degli animali. Fu quella disposizione, prima non attentamente notata, che colpì il portoghese. - Per Giove! - mormorò, stropicciandosi allegramente le mani. - Ciò si presta meravigliosamente al mio progetto. Tutto dipende dalla provvista delle cantine del mio amico Tremal-Naik. Se il bram abbonda il colpo è fatto. I dayaki non sono meno golosi dei negri e anche su loro i forti liquori esercitano un fascino irresistibile. Cane d'un pellegrino! Ti preparerò un tiro da maestro. Ridiscese visibilmente soddisfatto e trovò Tremal-Naik e Kammamuri nel salotto, che stavano vuotando alcune tazze di thè. - Hai trovato nessuna buona idea che ci permetta di andarcene? - chiese, rivolgendosi al padre della fanciulla. - Ho tormentato invano tutta la notte il mio cervello, - rispose Tremal-Naik che sembrava assai abbattuto. - Non vi sarebbe che un solo tentativo da fare, un tentativo disperato. - Quale? - Di aprirci il passo attraverso le file degli assedianti coi parangs in pugno. - E farci probabilmente massacrare, - rispose Yanez. - Trenta contro trecento, avendo ormai dieci o dodici uomini feriti che non varranno gran che in una lotta corpo a corpo; brutto affare. - Non ho trovato altro di meglio. - Di quanti vasi di bram disponi? - chiese bruscamente Yanez. - A che cosa potrebbe servirci quel liquore? - chiesero ad una voce Tremal-Naik e Kammamuri guardandolo con sorpresa. - Per farci scappare, amici miei. - Scherzi, Yanez. - No, Tremal-Naik. D'altronde il momento sarebbe male scelto. Sei ben provvisto? - Le mie cantine sono piene, provvedendo io tutte le tribù dei dintorni. - I dayaki sono buoni bevitori, vero? - Come tutti i popoli selvaggi. - Se trovassero sui loro passi un centinaio di vasi di quel liquore, a loro disposizione, credi tu che si fermerebbero per vuotarli? - Non glielo impedirebbe nemmeno il cannone, - rispose Tremal-Naik. - Allora, miei cari amici, il pellegrino è giocato, - disse Yanez. - Non ti comprendiamo. - Il kampong è diviso in due dalla palizzata interna? - Sì, l'ho fatto appositamente costruire per opporre maggiore resistenza nel caso che il nemico avesse potuto forzare la saracinesca, - rispose Tremal-Naik. - L'idea è stata buona, amico mio, e ci servirà magnificamente in questo momento. Noi concentreremo tutte le nostre difese verso le aie e le abitazioni dei servi, lasciando ai dayaki il passo libero e abbandonando loro il bengalow e le tettoie. - Come! - esclamò Tremal-Naik. - Tu cederesti loro le nostre migliori opere di difesa? - Non ci servirebbero più dal momento che abbiamo deciso di evacuare la piazza, - rispose Yanez. - Anzi abbatteremo una parte della cinta che guarda la saracinesca per attirare meglio i dayaki. - La palizzata interna non è molto solida. - Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram, - disse Yanez ridendo. - Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra. - Si ubriacheranno, ne sono certo. - È quello che desidero; perchè noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d'aver incendiato il bengalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore. - Tippo Sahib, il Napoleone dell'India non sarebbe certo capace di architettare un simile piano. - Quella non era una tigre di Mompracem, - disse Yanez con comica serietà. - Cadranno nel laccio i dayaki. - Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli. - A quando il colpo? - chiese Kammamuri. - Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti. - All'opera Yanez, - disse Tremal-Naik. - Io ho piena fiducia nel tuo piano. - Hai un cavallo per Darma? - Ne ho quattro e buoni. - Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla? - Tre giorni, signore. - Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle. L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione. I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow. Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica. Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong. Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico. Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto. Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi. Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico. I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa. I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang. Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori. Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere. L'alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi. - Bram! Bram! Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido. Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco. Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo. Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi. Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa. Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi. Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata. Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero. Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati. I dayaki non parevano preoccuparsi dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong. Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile. I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli? E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille. Il bengalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori. Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida. - In ritirata! - comandò Yanez. - Abbandonate tutto fuorchè le carabine, le munizioni ed i parangs. Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma. La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa. Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki. La fattoria pareva una fornace. Il bengalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille. Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche. Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram. Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più nè spari nè grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni. - Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie, - disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. - Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui! - Un giorno? - disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. - Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!

Il fiume, che fino allora si era mantenuto abbastanza largo, permettendo alla Marianna di manovrare liberamente, si era repentinamente ristretto in modo che i rami degli alberi s'incrociavano. L'oscurità era diventata ad un tratto così profonda che Yanez non riusciva più a discernere le sponde. - Bel luogo per tentare un abbordaggio, - mormorò. - E anche per fucilarci per bene, signore, - aggiunse Tangusa. - Punta le spingarde verso le due rive, Sambigliong! - gridò Yanez. Gli uomini addetti al servizio delle grosse bocche da fuoco avevano appena eseguito quell'ordine, quando la Marianna, che da alcuni minuti aveva accelerata la corsa essendo la brezza diventata più fresca, urtò bruscamente contro un ostacolo che la fece deviare verso babordo. - Che cosa è avvenuto? - gridò Yanez. - Ci siamo arenati? - Ma no, capitano, - rispose Sambigliong che si era slanciato verso prora. - La Marianna galleggia! Il meticcio con un colpo di barra rimise il legno sulla rotta primiera, quando avvenne un secondo urto e la Marianna tornò a deviare indietreggiando di alcuni passi. - Come va questa faccenda? - gridò Yanez, raggiungendo Sambigliong. - Vi è una linea di scoglietti dinanzi a noi? - Non ne vedo, capitano. - Eppure non possiamo passare. Fa' calare in acqua qualcuno. Un malese gettò una fune e dopo averla assicurata, si lasciò scivolare, mentre il veliero per la terza volta tornava a indietreggiare. Yanez e Sambigliong, curvi sulla murata prodiera guardavano ansiosamente il malese che si era gettato a nuoto per cercare l'ostacolo che impediva al legno di avanzare. - Scogliere? - chiese Yanez. - No, capitano, - rispose il marinaio, che continuava a inoltrarsi tuffandosi di quando in quando, senza preoccuparsi dei gaviali che potevano mozzargli le gambe. - Che cos'è dunque? - Ah! Signore! Hanno tesa una catena sott'acqua, e non possiamo avanzare se non la taglieremo. Nel medesimo istante una voce poderosa s'alzò fra gli alberi della riva sinistra, gridando in un inglese molto gutturale: - Arrendetevi, Tigri di Mompracem, o noi vi stermineremo tutti!

. - Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, - disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. - Ciò v'insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem. La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più. Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume. - Se ne sono andati, - disse Yanez. - Speriamo che ci lascino tranquilli. - Ci aspetteranno nel fiume, signore, - disse Sambigliong. - E vi daranno nuovamente battaglia, - aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze. - Lo credi? - chiese il portoghese. - Ne sono certo, signore. - Daremo loro un'altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d'importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong? - Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purchè il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo. - Quanti uomini abbiamo perduto? - chiese Yanez a Kickatany, il malese che funzionava da medico a bordo. - Ve ne sono otto nell'infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti. - Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! - esclamò Yanez. - Orsù, così è la guerra, - aggiunse poi con un sospiro. Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine: - La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.

Il portoghese prese una bracciata d'alghe e si diresse verso una rupe, la cui cima si sporgeva molto innanzi formando un riparo abbastanza sufficiente per tenere al coperto i tre naufraghi. Sir Moreland e Darma l'avevano seguìto, portando altre alghe per formarsi un giaciglio.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

682514
Serao, Matilde 2 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Con un soldo, la scelta è abbastanza varia, pel pranzo del popolo napoletano. Dal friggitore si ha un cartoccetto di pesciolini che si chiamano fragaglia e che sono il fondo del paniere dei pescivendoli: dallo stesso friggitore si hanno per un soldo, quattro o cinque panzarotti , vale a dire delle frittelline in cui vi è un pezzetto di carciofo, quando niuno vuol più saperne di carciofi, o un torsolino di cavolo, o un frammentino di alici. Per un soldo, una vecchia dà nove castagne allesse, denudate della prima buccia e nuotanti in un succo rossastro: in questo brodo il popolo napoletano vi bagna il pane e mangia le castagne, come seconda pietanza; per un soldo, un'altra vecchia, che si trascina dietro un calderottino in un carroccio, dà due spighe di granturco bollite. Dall'oste, per un soldo, si può comperare una porzione di scapece ; la scapece è fatta di zucchetti o melanzane fritte nell'olio e poi condite con aceto, pepe, origano, formaggio, pomidoro, ed è esposta in istrada, in un grande vaso profondo, in cui sta intasata, come una conserva e da cui si taglia con un cucchiaio. Il popolo napoletano porta il suo tozzo di pane, lo divide per metà, e l'oste vi versa sopra la scapece . Dall'oste, sempre per un soldo, si compera la spiritosa : la spiritosa è fatta di fette di pastinache gialle, cotte nell'acqua e poi messe in una salsa forte di aceto, pepe, origano e peperoni. L'oste sta sulla porta e grida: addorosa, addorosa, 'a spiritosa! Come è naturale, tutta questa roba è condita in modo piccantissimo, tanto da soddisfare il più atonizzato palato meridionale. * * * Appena ha due soldi, il popolo napoletano compra un piatto di maccheroni cotti e conditi; tutte le strade dei quartieri popolari, hanno una di queste osterie che installano all'aria aperta le loro caldaie, dove i maccheroni bollono sempre, i tegami dove bolle il sugo di pomidoro, le montagne di cacio grattato, un cacio piccante che viene da Cotrone. Anzi tutto, quest'apparato è molto pittoresco, e dei pittori lo hanno dipinto, ed è stato da essi reso lindo e quasi elegante con l'oste che sembra un pastorello di Watteau; e nella collezione di fotografie napoletane, che gl'inglesi comprano, accanto alla monaca di casa, al ladruncolo di fazzoletti, alla famiglia di pidocchiosi, vi è anche il banco del maccaronaro. Questi maccheroni si vendono a piattelli di due e di tre soldi; e il popolo napoletano li chiama brevemente, dal loro prezzo: nu doie e nu tre. La porzione è piccola e il compratore litiga con l'oste, perchè vuole un po' più di sugo, un po' più di formaggio e un po' più di maccheroni. Con due soldi si compera un pezzo di polipo bollito nell'acqua di mare, condito con peperone fortissimo: questo commercio lo fanno le donne, nella strada, con un focolaretto e una piccola pignatta; con due soldi di maruzze, si hanno le lumache, il brodo e anche un biscotto intriso nel brodo: per due soldi l'oste, da una grande padella dove friggono confusamente ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline, e frammenti di seppia, cava una grossa cucchiaiata di questa miscela e la depone sul pane del compratore, badando bene a che l'unto caldo e bruno non coli per terra, che vada tutto sulla mollica, perchè il compratore ci tiene. Appena ha tre soldi al giorno per pranzare, il buon popolo napoletano, che è corroso dalla nostalgia familiare, non va più dall'oste per comperare i commestibili cotti, pranza a casa sua, per terra, sulla soglia del basso, o sopra una sedia sfiancata. Con quattro soldi si compone una grande insalata di pomidori crudi verdastri e di cipolle; o un'insalata di patate cotte e di barbabietole, o un'insalata di broccoli di rape; o un'insalata di citrioli freschi. La gente agiata, quella che può disporre di otto soldi al giorno, mangia dei grandi piatti di minestra verde, indivia, foglie di cavolo, cicoria, o tutte queste erbe insieme, la cosidetta minestra maritata ; o una minestra, quando ne è tempo, di zucca gialla con molto pepe; o una minestra di fagiolini verdi, conditi col pomidoro; o una minestra di patate cotte nel pomidoro. Ma per lo più compra un rotolo di maccheroni, una pasta nerastra, e di tutte le misure e di tutte le grossezze, che è il raccogliticcio, il fondiccio confuso di tutti i cartoni di pasta, e che si chiama efficacemente monnezzaglia : e la condisce con pomidoro e formaggio. * * * Il popolo napoletano è goloso di frutta: ma non spende mai più di un soldo, alla volta. A Napoli, con un soldo si hanno sei peruzze un po' bacate, ma non importa: si ha mezzo chilo di fichi, un po' flosci dal sole: si hanno dieci o dodici di quelle piccole prugne gialle, che pare abbiano l'aspetto della febbre; si ha un grappolo di uva nera, si ha un poponcino giallo, piccolo, ammaccato, un po' fradicio; dal venditore di melloni, quelli rossi, si hanno due fette, di quelli che sono riusciti male, vale a dire biancastri. Ha anche qualche altra golosità, il popolo napoletano: lo spassatiempo, vale a dire i semi di mellone o di popone, le fave e i ceci cotti nel forno; con un soldo si rosicchia mezza giornata, la lingua punge e lo stomaco si gonfia, come se avesse mangiato. La massima golosità è il soffritto : dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all'occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite. Questionario: Carne in umido?-- Il popolo napoletano non ne mangia mai. Carne arrosto?-- Qualche volta, alla domenica, o nelle grandi feste, ma è di maiale o di agnello. Brodo di carne?-- Il popolo napoletano lo ignora. Vino?-- Alla domenica, qualche volta: l'asprino , a quattro soldi il litro, o il maraniello a cinque soldi: questo tinge di azzurro la tovaglia. Acqua!-- Sempre: e cattiva.

Per fortuna, le guide tacciono su queste circostanze; il viaggiatore non vede che l'esterno; e la messa in iscena del Rettifilo, del resto abbastanza felice, ottiene il suo effetto. Che se, poi, qualche conoscente napoletano, qualche compagno di viaggio più esperto, narra al viaggiatore che il Rettifilo ha tagliato in due il ventre di Napoli, attraversando i quattro quartieri popolari e popolosi di Mercato Vicaria, Pendino e Porto; che questo Rettifilo non è stato fatto solo per arrivare più presto e meglio alla stazione ferroviaria; non è stato fatto solo per i grandi industriali che vendon tessuti di lana e di cotone; non è stato fatto solo per avere una larghissima via; ma è stato fatto in nome di un criterio assoluto d'igiene e quindi di civiltà, allora la sua impressione si viene sempre più migliorando. Il Rettifilo era, doveva essere, dovrebbe essere l'apportatore dell'aria, della salute, della pulizia di migliaia e migliaia di popolani napoletani: il suo ufficio, realizzando una idealità di carità civile che vollero Umberto Primo, Agostino Depretis e Nicola Amore, era quello di vincere la malattia e la morte, nel popolo napoletano. E allora, per chi abbia anima sensibile questa strada assume un simbolo elettissimo, è l'emblema della solidarietà umana che, dall'alto del trono, del governo dello Stato, del governo della Città, sente la necessità di elevare prima fisicamente e poi moralmente il popolo, dando ad esso i beni primari della vita, la luce, l'aria, la nettezza, la salubrità, dandogli la via e la casa, dandogli il modo di acquistare la sanità del corpo che è la gioia dell'anima, sottraendolo alle infermità, alle degenerazioni, all'epidemia, e sottraendolo, così, anche alla disonestà e al vizio. Questo, nella mente di chi lo volle, dopo la strage del 1884, dopo la visita ai tugurii e alle catapecchie fatta dal Re, dopo l'orrore che ne ebbe l'animo dei maggiorenti, questo era il compito del Rettifilo, che si è chiamato e si chiama Risanamento, con tutto il suo progetto di diramazioni, di colmate, di traverse. Il Rettifilo doveva salvare il popolo napoletano: e poichè gli occhi che guardano poco e fugacemente, poichè le labbra che domandano, non sempre sono esaudite da labbra che conoscano la verità, poichè il difetto di cui tutti siamo malati, è la fretta, poichè noi siamo, anche, malati di superficialità, poichè nessuno ha il tempo di fare quel che vorrebbe, nel mondo, poichè nessuno ha la volontà necessaria a eseguire tutto quello che vorrebbe, poichè tutto ci sfugge, per esser profondi, così, noi possiam credere che, veramente, il Rettifilo abbia dato al popolo napoletano tutto quello che gli mancava, e, sovra tutto, lo posson credere tutti coloro che passano qui un giorno o un mese! Eppure, questa illusione non resisterebbe a una osservazione più minuta. Alla seconda, alla terza, alla decima volta che voi attraversate questa magnifica strada, volgendo gli occhi, a manca, a dritta, lo scenario seducente ha dei grandi strappi. Un imponente palazzo, rossastro, pomposo, si pavoneggia con le sue cento finestre: e, accanto, voi scovrite un vuoto, e un muretto basso si prolunga, si prolunga, un muretto su cui la pubblicità allegramente appende i suoi quadri, da anni e anni, e dietro questo muretto, molto più indietro, sorgono delle masse di case lercie, cadenti, miserabili, di tutte le misure, macchiate di tutte le stigmate della povertà e del vizio. Ciò sparisce: un'altra costruzione moderna tenta ridarvi una parvenza di civiltà, ma, fatto accorto, voi cercate ficcar l'occhio, ai fianchi, alle spalle, e subito dietro, a otto o dieci metri, ecco, di nuovo, un affogamento di topaie, dalle cui finestrette pendono i cenci più indecenti, magari con la poesia del vaso di basilico e del popone appeso al giunco. Così, otto, quindici, venti volte, dalle due parti, ma sovra tutto, a diritta, andando verso la ferrovia, questo sipario lacerato bruscamente, vi mostra degli spettacoli improvvisamente brutti, nauseanti, schifosi: è la cattiva parola, ma è la parola e invano voi tentate di rifare le fila del vostro sogno di una via maestosa e ricca, di una via nobile e purificante, di una via che serva egualmente alla salute, alla fortuna e alla felicità del popolo. Queste continue apparizioni, fra le enormi nuove costruzioni, di quelle immonde costruzioni vecchie, non lontane, vicine, non lontane, accanto, non lontane, alle spalle, vi hanno distrutto tutta la vostra tela d'illusione. Cercate le traverse che dovevano portare da sinistra, dai quartieri più alti al Rettifilo, bonificando la regione che comincia a santa Maria la Nova e continua pei Banchi Nuovi, san Giovanni Maggiore, Mezzocannone, Università, sino all'Annunziata, sino a Capuana, e non ne trovate che due sole, complete, su venti, quelle attorno al Sedile di Porto, e tutte le altre sono abbozzate, sono pezzi di via, di otto o dieci metri, con il loro bravo nome, di un qualche nostro illustre cittadino - e anche di voi, o Francesco Serao, o avo mio! - e niente altro, salvo, dopo questi dieci metri, che una cortina di antiche case non abbattute, una cortina che chiude le comunicazioni, che urta lo sguardo. Voi cercate le più belle traverse, quelle che dovevan tagliare a diritta, dal Rettifilo al mare, risanando i quartieri successivamente di Porto, Mercato e Vicaria. Su venti, ve n'è una sola, completa . Alcune altre, quattro o cinque sono come quelle a sinistra, appena cominciate, abbandonate da anni, ottuse, traverse cieche, ove, in fondo, ma non molto in fondo, sorge lo stesso spettacolo, sempre, di case antichissime, mezze dirute, mezze cadenti, nerastre, verdastre, grigiastre. Dopo, non vi è più nulla. Cioè, vi sono dei vicoletti che precipitano per mezzo di dislivelli paurosi, di scalette ripide, difese da rozze ringhiere, in tutto ciò che sta dietro il Rettifilo , vicoletti sinuosi, vicoletti neri, angoli dove due o tre vicoli s'intersecano dirupandosi, tutto un disegno bislacco e grottesco, accanto, sì, accanto, alle altitudini superbe dei nuovi palazzi. E voi, verso la fine del Rettifilo, vedendo fuggire gli ultimi lembi mirabili della vostra illusione, voi vi domandate se non siate vittima di un'allucinazione, se una parte di quel che vedete non sia falso, poichè troppo forte è il contrasto, poichè non può essere tutto vero, a pochi metri di distanza, il decente e l'indecente, il pulito e lo sporco, la pompa e l'inguaribil miseria, il lusso e la povertà più abbietta. Che cosa è falso, che cosa è vero? Sono, forse il portato di un incubo tutte quelle masse di abitazioni luride, fetide, cascanti, ove pare che si moltiplichino la tristizie e la tristezza, il morbo e il disonore, il delitto e la morte? Sono forse gli spettacoli che vi fecero inorridire, come uomini e come cristiani, venti anni prima, sono questi spettacoli che si rinnovano, falsamente nella memoria, nella fantasia, così, come nei momenti di nostra malinconia spirituale e di nostra debolezza fisica? O, forse è falsa l'altra parte, cioè la parvenza moderna del Rettifilo e i suoi palazzi che vorrebbero essere splendidi, ma che sono almeno, nuovi, netti, solidi, grandi, appartengono al sogno? Non sono forse, un lungo scenario di tela, su cui un abile scenografo abbia dipinto a grandi tratti, una serie di edifici maestosi, e intanto, non si sa come, non si sa perchè, la tela ha delle grandi soluzioni di continuità e lascia vedere l'oscurità, il luridume delle quinte, ove tutto è rancido, è puzzolente, è nauseante? O, forse, non sono di carta pesta, di legno dipinto, queste case, come quelle che estrae, lentamente, da una scatola, la mano di un bimbo e le dispone sovra un piano, ad angoli retti? Non è, forse, a destra, a sinistra del Rettifilo, lo svolgersi di un bizzarro paravento, i cui pezzi non sono bene congiunti, anzi sono disgiunti, e il paravento non giunge a nascondere, quel che non si deve vedere? E passino i vostri occhi ricercatori dalle cose alle persone del Rettifilo, vi passino, per conoscer più presto e meglio il motto dell'enigma. La possente arteria napoletana rifluisce, in ogni ora, di sangue vivido: una folla attraversa costantemente il Rettifilo, a piedi, in carrozza, in trams , specialmente sino a piazza Depretis, andando e venendo dai due rami di via Duomo. Folla di ogni qualità e, talvolta, anche, folla di persone distinte, bene vestite, gli uomini con la catena di oro sul panciotto, le donne con i ciondoli sospesi sul petto. Tutto questo mondo va, viene, ritorna, si allontana, mondo svariato, multiforme, multanime. Se voi siete abituato a discernere i volti e le espressioni, fra la folla, se avete l'ardente e dolente segreto dell'intuizione, voi scorgerete, lungo il Rettifilo, persone e faccie che vi daranno un fremito di sorpresa e, forse, di sgomento. Sugli angoli di quelle viuzze, presso quelle ringhiere, su quel limitare fatidico fra il vecchio e il nuovo, e, persino, nelle poche vie principali e non finite, stazionano sempre degli uomini, sul cui viso la delinquenza è impressa e la cui espressione non mente; stazionano mendicanti dei due sessi e di tutte le età, ma di una mendicità sfrontata e ributtante, e stazionano anche, meno di mattina, molto più nel pomeriggio, moltissimo di sera, le sventurate e sciagurate femmine del popolo, che esercitano il più compassionevole e più atroce fra i mestieri. Così, sull'orlo della superba via, sui due suoi lati, fiancheggiandola, il vizio e la miseria, il delitto mettono la loro popolazione. La gente che passa, è molta, non guarda bene, non bada: ma due, tre volte al giorno, un ladro si slancia sovra al galantuomo , sovra la signora, in pieno giorno, in pieno Rettifilo, fra mille persone, e gli strappa l'orologio, le strappa gli orecchini, il derubato grida, il ladro infila la viottola, si gitta per un angiporto, è sparito, la folla strepita, non vi sono guardie, i mendicanti gridano e una di quelle donne del vizio, dà una falsa indicazione, perchè è, forse, un'amante, un'amica, una sorella del ladro, sempre una complice. Sia a piedi, sia in carrozza, la vittima, il ladro finisce sempre per fare il suo colpo, senza farsi arrestare, liquefacendosi come una nuvola, dietro una di quelle stradette: e alcune, anzi, di quelle vie, hanno la loro fatal rinomanza, come quella a principio del Rettifilo, la via di santa Candida. Dopo le nove di sera, il tratto del Rettifilo da piazza Depretis alla Ferrovia, è poco percorso da gente: e malgrado le grosse lampade elettriche, quel tratto è uno dei più pericolosi della città, e i medesimi cocchieri da nolo, affrettano il passo zoppicante del loro povero cavallo, andando alla stazione o tornandone, poichè sanno che il loro passaggiero può avere, forse e senza forse, un'aggressione. In quell'ora non si aggirano, colà, che ladruncoli, camorristi, pregiudicati e donne di mala vita. Nella magnifica strada: nella strada della salute e della redenzione del popolo napoletano! Ahi, che essa è semplicemente un paravento, ma leggiero, fragile e grossolano paravento, un paravento che non nasconde neppure, a chi vuol saper tutto, tutto ciò che vi è dietro, di pietoso e di orribile! E un'altra volta io vi dirò quel che vidi, lì dietro, con una triste e lunga curiosità, con un coraggio disperato e, con l'angoscia più opprimente, del mio umile ma fedele cuore di napoletana!

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