Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tecnica della pittura

254114
Previati, Gaetano 15 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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È sempre la stessa causa d’irregolare costituzione dello strato colorato che dà luogo alle vesciche piccole od ampie, onde a ragione si comprendono nell’unico difetto dell’aderenza del colore all’imprimitura o al piano sottostante, alla quale aderenza non si è provveduto abbastanza o per la qualità e proporzione dei glutini, o perchè si è operato in modo, per la condotta dello strato dei colori, che si sono venute a creare forze opposte all’aderenza stessa.

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Il Cennini, con ordinata esposizione, senza dimenticare il menomo particolare, salvo che per la vernice finale, insegna come si conducessero quei dipinti che, anche dal lato della pura esecuzione materiale, rimarranno fra le manifestazioni più sorprendenti dell’arte, finchè la cognizione dei processi tecnici sarà illuminata abbastanza per misurare a costo di quale resistenza del materiale impiegato e di quale tirocinio per dominarlo si debbano i capolavori della tempera.

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La ragione di richiedere la massima intensità nei colori da porsi sulla tavolozza si spiega abbastanza riflettendo come dai colori intensi col sussidio del bianco possa discendere un’infinita gradazione di tinte più chiare, mentre da colori chiari sia impossibile risalire a più intensi quando non si avesse che il nero per modificarne il tono.

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Il Libro dell'arte del Cennini è il solo che si abbia intorno alla manualità della pittura dopo il rinascimento delle arti, perchè gli scrittori che vennero dopo, salvo l’Armenini, che compendia abbastanza chiaramente le pratiche degli artefici del secolo XIV, sulle quali il Vasari nelproemio alle Vite, più che soffermarsi ebbe a sorvolare, intendessero alle speculazioni filosofiche anzichè ai provvedimenti più utili dell'esercizio dell’arte.

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È là dentro in questa infinitamente piccola intelaiatura di molecole e di spazi, in questo mondo nelle sue più minute particolarità ancora inaccessibile ai mezzi odierni di indagine, ma nei rapporti colle leggi che ne governano i fenomeni ottici abbastanza studiati, almeno in quei casi che su più vasta scala si possono riprodurre artificialmente, che si decide dell’aspetto di quelle masse pietrose talvolta dalla durezza granitica che nulla potevano suggerire al ricercatore ridotto a misurarne la resistenza alle azioni molteplici del tempo battendovi le nocche delle dita o pestandole con un martello.

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Le proprietà delle vernici, per essere delimitate mentre le cause alteranti i colori sono molteplici, diventano così molto spesso dannose in vario grado sullo stesso dipinto, specialmente per tutti i colori che hanno tendenza ad ingiallire per il notevole ingiallimento che esse stesse subiscono col tempo, e se tuttavia in parte sono indubbiamente utili, non sono poi applicabili a tutti i processi di pittura, anzi si limita la loro convenienza alla pittura ad olio, cosicchè in generale si può dire che mancano i mezzi per formare attorno ai dipinti quella sospensione di forze che hanno nel calorico, nella luce, nell’atmosfera, nell’affinità chimica, i rappresentanti più influenti sulla natura delle sostanze coloranti; onde la vagheggiata inalterabilità, e peggio, perpetuità dei colori, non ad altro veramente si riduce che nelle qualità intrinseche delle materie coloranti stesse, qualità delle quali si è detto abbastanza in che limite possano avervi luogo e quanto deve essere considerato ancora l’affievolimento ad esse portato dall’impiego pittorico.

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Da un impiego di sostanze mai abbastanza conosciute e dall’essersi sempre le vernici per l’uso dei pittori fabbricate alla spicciola secondo criteri personali piuttosto che dietro un tipo riconosciuto preferibile, sulle vernici adoperate per molti secoli dalle scuole italiane ed estere non si ebbero che farragini di ricette l’una più diversa dall’altra.

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Quando si giudica il vetro abbastanza caldo che non abbia da spezzarsi, si appoggi con riguardo sulla parte più moderata, che non deve essere quasi più niente che cenere calda. Si lasci un momento allo stesso posto, poi si avanzi a poco a poco, per gradi, sul fuoco più vivo, ma senza alcuna parte che fiammeggi o guizzi; si rimuova spesso la bottiglia prendendola pel manico di carta; infine gradatamente si ponga sulla fiamma viva.

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Travasata la colla in un tino, per un grossolano filtro fatto di graticci sparsi di paglia, si lascia riposare alquanto ed ancora calda si versa in grandi scatole di legno bagnato dove si lascia congelare abbastanza per poterla tagliare in pezzi rettangolari che si pongono a seccare su reti di filo. Secchi i pezzi si lucidano strofinandoli con pannilini.

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Naturalmente prevalse il buon senso di non fare questione di parole ma di sostanza — quantunque si potesse dimostrare, che anche la parola restauro non sia abbastanza lata per coprire le conseguenze ultime del rifacimento pittorico — e in ogni modo per i caratteri veri che il ritocco inevitabilmente viene ad assumere vi siano i termini precisi che lo identificano, onde il malinteso che può venire dalla imprecisa significazione di questa voce effettivamente non accade che per gli intenzionati di abusarne.

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Il non trovarsi che raramente nelle case, nei palazzi, nelle chiese opportunità di luci che permettano a colpo d’occhio di penetrare in ogni minima parte dei dipinti che vi si contengono, nè il possesso di opere di pittura implicando la necessità dell’intelligenza dell’arte spiega già abbastanza come in una grande quantità di casi il lavoro di restauro pittorico non si potesse apprezzare nella sua essenza e nella sua tecnica materiale. D’altronde senza spingere la convinzione che sull’intelligenza dell’arte prevalse sempre il gusto superficiale del decorativo sino ad asserire che da questo venne l’uso delle raccolte d’opere d’arte, perchè dei ninnoli, dei mobili e delle stoffe non sarebbero bastati a completare la decorazione di qualsiasi luogo che si vuole rendere d’aspetto lussuoso, nulla reggendo al confronto della ricchezza dei dipinti nelle fastose cornici e dei marmi e dei bronzi, è però evidente che l’urto fra brandelli di tele e scrostature di colore e macchie e opacità di vecchie vernici deve riescire più intollerabile dove è maggiore profusione di stoffe smaglianti, di mobigli, di ornamenti d’ogni sorta, nuovi ed intatti. Così i guasti delle pitture assursero viemmeglio a tristezza di sconci da togliersi in ogni modo dallo sguardo fra tante perfette produzioni della mano e dell’ingegno.

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Ed effettivamente le pratiche suggerite dai maestri del restauro ritardano l’alterarsi dei colori, un tempo abbastanza lungo per la accontentatura del cliente e dell’operatore. Può anche passare inavvertito per sè un ritocco a mai sempre, specialmente nel rifacimento di certe intere parti, se la natura del dipinto permise di perderne ogni traccia di contorno nello stesso modo che si vedono in molti quadri non ritoccati cresciute o scolorate delle teste, delle mani, dei panneggi che originariamente furono diversi, ma l’azione del tempo non perciò si potrà dire arrestata, nè perciò si potrà mai affermare di essere pervenuti al possesso di un procedimento che assicuri l’immutabilità delle tinte, mentre già l’esecrazione sempre più diffusa colla quale viene colpito il ritocco, è la prova più valida del suo fatale apparire sotto l’azione del tempo. Vale la pena anzi, poichè l’argomento ne porge spontaneamente il destro, di alcune riflessioni sulla facilità colla quale si ammette che i colori possano offrire la tanto rara dote d’essere inalterabili.

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Quale si sia però l’opinione concepita sulle ricerche moderne e sulle qualità che potè avere l’encausto praticato dagli antichi, non rimane meno certo che l’uso della cera ebbe largo impiego nella pittura, documentato abbastanza dagli scrittori che ne videro i saggi (1), e come Vitruvio e Plinio, ne conobbero la tecnica, forse tanto comune da non dubitare che se ne perdessero le tradizioni e tramandarle ai posteri, con tutte quelle particolarità che specialmente in Plinio sono così frequenti nella sua celebre storia naturale e per soggetti di assai minore importanza. Salvo che, come altri ritengono, tutto l’encausto o bruciamento non si riducesse al fatto che allo scaldare la cera che serviva di vernice ultima alla comune pittura a tempera, a colla od all’uovo, supposto confermato dalla descrizione di Vitruvio del metodo per far comparire lo splendore del minio sulle pareti, non essendo possibile alcun dubbio sul senso di queste parole: «quando il parete sarà pulito e secco, allora dia col pennello di cera punica liquefatta al foco, temperata con alquanto olio, dappoi posti i carboni in un vaso di ferro, farà sudare quella cera scaldandola col parete, e farà sì che si stenda ugualmente, dappoi con una candela et con un lenzuolo netto la freghi al modo che si nettano le nude statue di marmo, e questa operazione grecamente si chiama Causis. Così la coperta della cera punica non permette che lo splendore della Luna nè i raggi del Sole toccando levino via il colore da quelle politure» (2).

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Ma nell’usarli a fresco tengasi a mente, come si è detto, il muro non brama altro colore che il naturale, che nasce dalla terra, che sono terre di più sorta di colori delle quali io credo che ne sia per ogni banda d’Italia abbastanza per essere conosciute — queste si macinano sottilmente con acqua pura eccettuandosi gli smalti con altri simili azzurri».

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Ma l’intonaco non sarà mai abbastanza studiato dal pittore per farsi un’idea giusta del cambiamento che avverrà nei colori nel passaggio dal bagnato all’asciutto e per l’addestramento dell’occhio a cogliere il momento d’abbandonare il colore a corpo e sostituire la velatura, in che consiste veramente la pratica del frescante e il pregio, dal lato tecnico, del buon fresco.

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Racconti 3

662737
Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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L'avevo tollerata abbastanza ... Le sue gelosie prima mi facevano ridere. Mi divertivo a sentirla sbraitare, a vederla piangere ... Non ho il cuore tenero io ... Due baci, un abbraccio l'avevano acchetata piú volte. Ma il giorno che scoperse nella tasca del mio soprabito - Non dimenticare mai lettere in tasca ... Le donne frugano dappertutto ... Hanno il fiuto, maledette bestie, come i cani da caccia! - una lettera dell'altra ... Si trattava di cosa seria, di un matrimonio possibile, del mio definitivo stabilimento in Francia, se il matrimonio si fosse avverato ... Diventò feroce. «Ah! Ah! vuoi buttarmi via, come uno straccio reso inservibile?» «Che pretendi? Che io ti sposi?» «No. Non ti ho chiesto mai nulla, all'infuori di un po' d'amore, di un po', in ricambio del molto che te ne ho voluto e te ne voglio io!» Era di quelle che si attaccano peggio dell'edera, che vogliono morire dove si attaccano. «Che pretendi?» «Che sii mio, tutto mio, ancora, sempre!» Una cosina da niente! ... Ancora! Sempre! ... Le aveva forse promesso questo? ... Ero capitato male ... E all'ultimo, sai di che mi minacciò? Di vitroil ... vitriolare colei che mi rubava al suo cuore ... Ah, non minacciava per burla! Ma prima scrisse ... Si presentò in casa della signorina ... Come ne aveva appreso il nome e il domicilio? Eh! ... Dalla lettera trovatami in tasca ... Figurati! Eh! E me lo narrò al ritorno, contenta. «Hai proprio fatto questo?» «Sí» «Hai proprio fatto questo?» Non lo credevo ... tanto la cosa mi sembrava enorme. «Ha pianto anche lei, come me! Almeno non sono sola a piangere!» Si vantava! ... Perdei il lume degli occhi ... L'afferrai pel collo - bianco ed esile collo, con pelle fina come la seta; me n'è rimasta l'impressione! - la rovesciai sul lettino della sua camera ... Eravamo soli; sua madre era andata a riportare un lavoro ... Non sapeva niente, o fingeva di non saper niente ... La rovesciai stringendole il collo con mani convulse ... Stralunò gli occhi, dibattendosi, diventò pavonazza in viso ... Veramente non avevo intenzione ... Ma, meno la sentivo resistere e piú stringevo ... piú stringevo ... fino a che non sussultò piú ... e non si mosse piú! ... Era orribile a vedersi! ... «Ormai! È fatta!» Non dissi altro! Avevo la mente lucida, il sangue tranquillo ... sí, tranquillo, te lo giuro, tranquillo! ... Allora ... - Avevo tentato piú volte di farlo tacere; ma egli mi teneva fermo per un polso, quasi incitato dall'espressione di angoscia e di orrore che mi leggeva in viso; e continuava con voce roca, strascicando le parole, spazientendosi perché la lingua non si moveva spedita com'egli avrebbe voluto. - Allora ... Ella aveva le mani increspate per essersi afferrata alle coperte del letto ... dopo che mi aveva graffiate le mie difendendosi ... Gliele adattai attorno al collo, e le dita contratte, di mano in mano che il corpo si irrigidiva, si affondavano nella carne nei medesimi punti dove si scorgevano ancora le impressioni delle mie ugne ... La guardai per convincermi se l'illusione era completa ... da simulare il suicidio ... Ormai! Era fatta! ... Non lo aveva voluto lei? ... Ebbene ... Sono sette anni ... Hai tu avuto rimorso del primo passerotto ammazzato la prima volta che sei andato a caccia? ... Proprio cosí, io ... La portarono via subito, all'ospedale ... Ma io lasciai Parigi la sera di quel giorno ... Tutti avevano creduto al suicidio ... prima di tutti, la madre! Un collega ha voluto darmi a intendere che la «mia vicina» - egli sapeva! - era stata salvata, all'ospedale ... Che! Che! Costui credeva di consolarmi ... - egli sapeva! - scrivendomi cosí ... Ma io sono certo di averla lasciata morta sul suo letticino, con le mani rattrappite attorno al collo ... Ero nel mio diritto ... Ognuno ha diritto d'impedire che altri gli attraversi la via della felicità ... È vero che io non ho impedito nulla ... Ma che vuol dire? ... E non ho sentito mai rimorso, mai, mai! ... I miei sonni sono stati dolci e sereni; le mie giornate ... Non sono uno squilibrato ... Sono fuori della chiesa, fuori del codice io! ... Sono un uomo ... E Rinaldi è mezz'uomo ... o un terzo d'uomo, come tu dici! ... Perché non ha voluto stare a sentirmi? Mezz'uomo! Egli mi fa pietà! ... Si chiamava Enrichetta ... Henriette ... Riette la chiamavo io ... E anche Risette, perché sorrideva, sempre, dolcemente, finché non divenne gelosa e cattiva ... Vedi? Ora mi sento intenerire dal ricordo ... Mi voleva bene, veramente ... Ma dovevo essere cosa sua ... ancora, sempre? ... E via! E via! Forse sono stato un po' violento, un po' crudele con lei ... sí, violento, lo confesso ... Crudele, ne convengo ... Ma rimorsi, mai! Ero nel mio diritto! ... Povera Risette! ... Non dovevo stringer troppo quel suo collo sottile con pelle fina come la seta ... Ma ella mi graffiava le mani ... E io stringevo! ... Se fosse vero che all'ospedale l'hanno salvata! ... Ma che! Ma che! Ne avrei piacere ora ... Ormai! È fatta! ... ! Viosci si asciugava le lagrime. Il vino gli si scioglieva in intenerimento. Poi cadde in una mutezza triste, in un accasciamento di tutta la persona e volle sedersi. Balbettando parole incomprensibili, si sdraiò sul sedile di pietra, sotto il pergolato, e poco dopo russava. Aveva detto la verità? Nel suo cervello offuscato dai fumi del vino i fatti si erano alterati? Risette era stata davvero salvata all'ospedale da quel tentativo di soffocazione? O neppur il tentativo era avvenuto? Non ho mai avuto coraggio di accertarmene. Viosci non mi ha piú riparlato di Enrichetta, ed io mi son lusingato, per carità umana, che come tutti i proverbi, anche «In vino veritas» abbia questa volta mentito!

Né potevano immaginare che un estraneo sconosciuto avesse già fatto cosí larga inchiesta da sapere esattamente l'ammontare del loro patrimonio, quali fossero le loro abitudini in casa e in campagna dove si recavano spesso, piú per sorvegliare i contadini che per godersi la villeggiatura; sempre sole, quasi due anime in pena, e abbastanza inoltrate negli anni, come si scorgeva dai visi sfioriti dove la matrigna natura non si era degnata di segnare neppure una linea di leggiadria femminile. - Bisogna maritarle! - aveva detto alla moglie. - Perché? - Mi fanno pietà. - Sono cosí brutte! - Non importa. Una moglie brutta è anzi una garanzia. - Per questo hai sposato me! - replicò sua moglie ridendo. - Se tutte le brutte ti somigliassero! Bisogna maritare anche le brutte, specie se hanno una buona dote in compenso -. E a proposito del malaticcio professore e del tenente che aveva male alle tasche, egli si lusingava di togliersi d'addosso quell'incubo morale delle due brutte sorelle vestite di nero che, secondo lui, dovevano invocare nella solitudine della loro vita uno straccio di marito e non lo avevano trovato fin allora. Soffriva per esse, ogni volta che le incontrava, chiuse negli scialli neri, rigide, con gli occhi bassi, quasi vergognose della loro bruttezza, e pensava: - Vi libererò io, povere creature! - Per ciò aveva pronunziato cosí solennemente e cosí misteriosamente le parole: «Due sorelle!» Né si arrestò là. Parlò della dote, case e giardini; dei larghi risparmi che certamente si erano accumulati da anni nei loro cassetti, con la vita modesta, alla buona, che esse menavano e con la loro abilità di econome amministratrici. Descrisse gli armadi zeppi di biancheria fragrante di rosmarino, la cantina colma di vini eccellenti, la dispensa ricca di olio, la casa riboccante d'ogni ben di Dio. Professore e tenente, appena sposati, avrebbero potuto buttar in faccia ai rispettivi ministri i decreti di nomina, esser padroni di loro stessi, non piú servire a nessuno, sicuri dell'avvenire, avvolti quasi nella bambagia! ... Quel giorno fin il professore lasciò tentarsi dalla focosa eloquenza dell'ex brigadiere, e timidamente disse: - Come avvicinarle? - Una presentazione è presto fatta! - esclamò il tenente. Eh no! L'ex brigadiere pensava appunto al modo con cui sormontare questa difficoltà; e da parecchie settimane non era riuscito a trovare nessuna soluzione dell'arduo problema. Quelle due sorelle vivevano solitarie, appartate, da far sospettare che la coscienza della loro bruttezza le inducesse ad evitare ogni contatto con la gente. Indicarle per via non gli sembrava il mezzo piú opportuno per farle gradire. Le aveva circondate con una nube di mistero, lasciando a mala pena intravedere che la bellezza non era il loro maggior pregio, e senza arrivare a ripetere quel che aveva risposto a sua moglie: «La bruttezza, nel matrimonio, è una garanzia!». Non lo impensieriva tanto il professore cosí buono, cosí sventurato, cosí rassegnato; costui avrebbe chiuso certamente un occhio e magari tutti e due, tenendo conto della dote. Lo impensieriva il tenente molto esperto in fatto di donne e che rimpiangeva spesso le «bellissime signore» da lui amate e dalle quali si vantava di essere stato cosí pazzamente amato da averne avuto fastidi e un duello di cui portava sul mento la traccia visibile, non ostante la barbetta lasciata crescere a posta per coprirla. - Una presentazione è presto fatta! - L'ex brigadiere si era sentito prendere pel collo a queste parole del tenente, e, messo tra l'uscio e il muro, aveva balbettato: - Certamente! ... Certamente! ... Mah! - Quando si dice che le migliori risoluzioni provengono dall'aver molto riflettuto! Niente affatto. Scattano all'improvviso, non si sa mai come né perché e nel momento che uno meno se l'attende. Per poco, la notte appresso, l'ex brigadiere non credette a un'ispirazione divina o a un intervento di san Giuseppe, suo santo protettore, accorso a toglierlo d'imbarazzo. Non avea potuto addormentarsi, invidiando la moglie che gli russava leggermente a fianco; e nel buio della stanza gli sembrava di vedere, illuminate da strana luce, le figure delle due sorelle vestite di nero, talmente avviluppate negli scialli neri da lasciar scorgere appena un po' di fronte, il naso e le labbra. Gli stavano ferme davanti, come le aveva incontrate tre giorni addietro, quasi aspettassero ch'egli si decidesse a fare la proposta di matrimonio ruminata da tanto tempo e da loro indovinata. E mentre esse stavano là, a occhi bassi, in attesa, ecco tornargli in mente una notizia letta, la mattina, nella «Gazzetta»! ... Un lampo! e l'ex brigadiere aveva dato tal sussulto e si era battuto cosí forte, con la palma di una mano, la fronte da svegliare di soprassalto sua moglie impaurita e tremante. - Che cosa è stato? - Ah, cara mia! ... Sono felice! ... Ho trovato, finalmente! Ho trovato! - E acceso il lume e poi la pipa tenuta pronta sul comodino, si era seduto sul letto per comunicarle il maraviglioso pretesto con cui presentare le due sorelle ai loro probabili mariti. Rideva, si stropicciava le mani, mandava fuori boccate di fumo che potevano scambiarsi per fuochi di gioia, con tale voluttà le spingeva fuori e le seguiva con gli sguardi nei loro svolgimenti per l'aria. - Tu ammattisci! - brontolò sua moglie, voltandosi stizzosamente sull'altro fianco per tentare di riaddormentarsi. Ma egli aveva continuato a fumare e a fantasticare la bella scena che doveva svolgersi nella villa delle due sorelle per opera sua. Esse, che vivevano quasi fuori del mondo, non avrebbero mai sospettato che il professore e il tenente non facevano parte di quella commissione che la gazzetta diceva stesse per venire in nome del governo per accertare i danni prodotti dai tremendi terremoti dell'anno avanti e ad assegnare sussidi. Cosí, tutti e tre, lui come guida, si sarebbero presentati colà, anticipatamente annunciati. L'accoglienza sarebbe stata cordialissima per ingraziarsi la commissione. Larghe promesse, figuriamoci! Un principio d'intimità ... Le due sorelle, che appunto erano in villa, si sarebbero fatte trovare ben vestite per ricevere degnamente quei signori. Forse - un cencio saputo mettere addosso trasforma le donne - forse, viste da vicino, e senza quei malinconici scialli neri su la testa e attorno alla persona, esse non sarebbero parse tanto brutte! ... E poi, lo spettacolo di quei giardini di aranci e di limoni, vera ricchezza, avrebbe prodotto stupendo effetto, avrebbe attenuato, certamente ... Infine, ora che stava per mettersi in stretta relazione con le due sorelle, esse non gli sembravano di tale bruttezza da dover repugnare. E se il tenente diceva di no, peggio per lui! Il professore, senza dubbio, non avrebbe fatto lo schifiltoso. Ma, via! Via! Anche il tenente! Quel diavolo di tenente sapeva meglio di ogni altro come entrar nelle grazie delle donne. Avrebbe cominciato per galanteria, e all'ultimo ... Alle due zitellone non sarebbe parso vero! - Dio vi benedica! - E l'ex brigadiere stese le mani, paternamente, quasi facesse lui, in quel momento, le funzioni di sindaco e di prete. - Ah! - Riposta la pipa spenta e smorzato il lume, ficcatosi sotto le coperte, si era addormentato quasi subito e avea sognato di accompagnare alla stazione le due coppie felici, che non finivano di ringraziarlo sventolando i fazzoletti dagli sportelli del vagone intanto che il treno andava via sbuffando e rumoreggiando. Il professore e il tenente non avevano accettato senza difficoltà la parte da commedia proposta ad essi dall'ex brigadiere. - Non c'è mezzo migliore. Paese che vai, usanza che trovi! - Si erano rassegnati. E ridevano allegramente quella mattina mentre la carrozza li trasportava lassú, verso Piano di Lapa, e il paraninfo si profondeva in raccomandazioni intorno a quel che dovevano dire e fare, seriamente, giacché egli aveva pensato a preparar bene ogni cosa. Era andato lui in persona, due giorni avanti, per far meglio capire alle due sorelle l'importanza dei personaggi governativi che si sarebbero presentati ad accertare i danni fatti dai terremoti; e aveva largheggiato in promesse di aiuto da parte sua perché la commissione accordasse il piú largo sussidio possibile. - Esagerate, signorine mie! Esagerate! Paga il governo. I quattrini del governo sono roba nostra! - Danni, per dire il vero, non se ne scorgevano; soltanto qualche crepaccio in un muro della stalla; ma lui avrebbe assicurato a quei signori che il peggio era stato, con immensi sacrifici, riparato. E le due sorelle stupite della parlantina di quell'improvviso amico che mostrava di prender tanto a cuore i loro interessi, avevano avuto appena il coraggio di ringraziarlo, sorridendo un po' stupidamente, guardandosi negli occhi, diffidenti, eppure cominciando già ad esagerare con lui, piangendo miseria per quel castigo di Dio che per poco non aveva distrutto villa e ogni cosa ... ! Anche la loro casa in città ... - Benissimo! Visiteremo anche la casa in città. Questi signori della commissione sono miei vecchi amici. So io come debbo comportarmi. Intanto, mi raccomando, una bella accoglienza! - E avea insistito piú volte su questo punto: una bella accoglienza! Da una svolta della strada, l'ex brigadiere additava la villa di Piano di Lapa rosseggiante tra il denso fogliame degli aranci e dei limoni, su la costa. E il tenente - quel giorno vestiva in borghese - rizzatosi su la persona, attorcigliatisi i baffi, faceva un gesto di esortazione al professore perché si tenesse su e smettesse quell'atteggiamento di afflizione che gli era divenuto abituale. - Non dovrei dirle niente. Siamo in cimento di trovarci rivali. Nessuno di noi ha diritto di scelta. La maggiore? La minore? Quale di esse troverà la via del mio cuore? E se lei ed io, tutti e due? ... - La scelta è già fatta, dall'età - intervenne subito l'ex brigadiere. - Oh, in quanto a me, rinuncio a scegliere! - esclamò il professore. - Bravo! Da filosofo! - Risero. Ma l'ex brigadiere, ora che il momento climaterico si avvicinava, rideva cosí forte che il professore lo guardò in viso, non sapendo spiegarsi quell'eccesso. - Bravo! Da filosofo! - Voleva farsi coraggio. La bruttezza delle due sorelle - Come mai? Perché giusto ora? - gli insinuava nell'animo un senso di sfiducia, quasi di paura; e per non farlo scorgere, si sforzava a ridere, ostentando l'allegria che non aveva. Davanti al cancello, il tenente saltò giú il primo, sveltamente, dal legno; e intanto che l'ex brigadiere stendeva una mano al professore per aiutarlo a scendere, si avanzò verso le due donne poveramente vestite, sciatte, scapigliate, due megere, come le qualificò nel suo interno, e che pareva attendessero. - Le signorine, le padrone? - domandò. Il povero ex brigadiere era rimasto presso il legno, impietrito. Le signorine? Le padrone? Ma erano desse appunto, irriconoscibili, con certe vesti da far schifo, con scarponi che mostravano le boccacce, con in testa due stinti fazzoletti di cotone a fiorami, sotto cui scappavano su la fronte i capelli mal pettinati! Erano desse, Madonna santa! E spalancavano gli occhi sbalorditi, facendo goffi inchini, senza sapere che cosa rispondere per chiarire l'equivoco del tenente, lontano le mille miglia dall'immaginare di trovarsi dinnanzi alle fidanzate profferte a lui e al professore dall'amico ex brigadiere. Disgraziato paraninfo! Che terribile tradimento gli avevano fatto quelle stupide! Con l'idea di intenerire piú efficacemente i signori della commissione, e strappare un vistoso sussidio, le due sorelle avevano pensato d'indossare le piú misere vesti delle loro contadine, calzarne le scarpacce piú malandate, mettersi su la testa vecchi fazzoletti di cotone che rendevano piú mostruosa la loro bruttezza di zittellone sfiorite. Almeno, andando a messa, vestite di nero, chiuse negli scialli neri portavano abiti di seta, da quelle ricche signore che erano! E la loro bruttezza si vedeva e non si vedeva tra le pieghe degli scialli che ne contornavano la faccia, nascondendo parte della fronte, delle guancie e del mento! Ma là, con l'orribile travestimento! - Ecco! ... Signor commissario! ... Ecco! - balbettò l'ex brigadiere facendosi avanti. Quel che avesse soggiunto, quel che tutti e tre avessero detto e fatto in quei brevi minuti che essi rimasero nella villa per fingere di dare un'occhiata ai muri, l'ex brigadiere non lo rammentava piú - tanto la testa gli si era sconvolta! - neppure da lí a poco, rimontando in carrozza mortificatissimo, con negli orecchi il sordo brontolio delle bestemmie del tenente furibondo per lo scherzo di cattivo genere di cui lo stimava consapevole autore! Lungo un buon tratto di strada, nessuno di loro aperse bocca. Poi il tenente scoppiò: - Lei è un imbecille! Per chi mi ha preso? - Ah, caro tenente! ... - Mi maraviglio del professore! Ma ... corpo di ... ! Ma, sangue di ... ! Se lui può soffrire in pace ... io - ferma cocchiere; faccio la strada a piedi! - io non sono una carogna! - Ma, tenente mio! ... - Lei è un imbecille! - Non volle intendere ragione; e smontò dal legno. - Caro professore! - L'ex brigadiere si era rivolto a lui, quasi con le lagrime agli occhi. Ma anche il professore gli avea rotto le parole in bocca, voltandogli le spalle sdegnosamente. E alle prime case della città, era sceso dal legno senza neppur salutarlo. L'ex brigadiere cascò dalle nuvole il giorno appresso, quando vide presentarsi i padrini del tenente che gli chiedevano sodisfazione o scuse per l'offesa fatta al loro mandante. Scuse? Lui, ex brigadiere di dogana, che aveva esposto la vita, tanti anni, dando la caccia ai contrabbandieri? E si buscò una sciabolata al braccio destro che lo tenne a letto tre settimane. Per far del bene! Per aver voluto maritare quelle due brutte zittellone che, ciò non ostante, gli facevano ancora pietà! E ogni volta che le incontrava, vestite di nero, avvolte negli scialli neri, da scambiarsi per vedove, pensava con incredibile ostinazione: - Vi libererò io, povere creature? - Ne ha poi maritate parecchie altre, zittellone e brutte quasi quanto esse - come occuparsi diversamente? - ma forse egli morrà col dispiacere di dover lasciare in questo mondo quelle due sciagurate sorelle piú zittellone e piú brutte che mai!

Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 7 occorrenze

I due si mettono insieme, interrogano un popolano che pare averne abbastanza, volersene andare. Il popolano risponde che lì sopra, in una villa presso Sant' Anselmo, ci sta un sant'uomo adorato in tutto il quartiere perché visita gli ammalati e ne guarisce molti e parla di religione meglio dei preti, così che tutti lo chiamano il Santo. Il Santo di Jenne, anzi; perché ha fatto molti miracoli in un paese dei monti, che si chiama Jenne, e ne hanno parlato anche i giornali. E iersera, mentre stava assistendo un povero infermo, la Questura lo ha portato via, non si sa perché. Si diceva che poi lo avessero rilasciato e ch'egli fosse ritornato a casa, alla villa dove lavora da giardiniere; ma la gente della villa nega ch'egli vi si trovi più e non dà spiegazioni. Il popolo è riscaldato, vuole ... Ecco un tram, dei passeggeri fanno segno alla gente e la gente grida, corre verso la prossima fermata, il popolano pianta i due, corre anche lui là dove una folla già si addensa rapida intorno al tram. Lo strascico lento dei curiosi si avvia dietro alla folla, i due apprendono come il tram abbia ricondotto sei cittadini del quartiere che, motu proprio , si erano recati dal Questore. I sei discesero fra la turba impaziente di udire, di sapere. Non parevano lieti. Alla tempesta delle domande rispondevano di chetarsi. Avrebbero parlato, avrebbero riferito, ma non lì nella strada. E già la gente protestava, l'ingiuria fremeva su molte labbra. Colui che pareva il capo dei sei, un tabaccaio, si fece levar sulle spalle dei colleghi e arringò brevemente la folla. "Abbiamo notizie" diss'egli. "Possiamo assicurarvi fin d'ora che il Santo non è in carcere!" Scoppiarono dei viva, dei bravo, degli applausi. "Ma dov'egli sia" proseguì l'oratore "propriamente non si sa." Urla e fischi. L'oratore allibbì e dopo essersi debolmente provato di parlare, cedette alla burrasca e calò dai suoi rostri viventi. Ma un'altro dei sei, più gagliardo e ardito, balzò su a rispondere violentemente. Allora le urla, le invettive raddoppiarono. "Vi hanno infinocchiato!" gridava la gente. "Scemi che siete! In prigione lo hanno cacciato! In prigione!" Il grido si diffonde, l'odono i lontani che altro non hanno udito e persino coloro che né questo né altro udirono, sentono attraversarsi il petto dalle magnetiche onde oscure dell'ira. Parecchi urlano: "abbasso!" senza sapere chi vogliano giù. Ed ecco da capo i grandi cappelli dei carabinieri, da capo le guardie. Invano i sei si sgolano a protestare, le grida di abbasso e di morte ne coprono la voce. Un delegato fa dare gli squilli. Al terzo succede un fuggi fuggi. Fugge anche la Deputazione col tabaccaio a capo; ma, fuggendo, i sei riescono a trar con sé chi l'uno e chi l'altro dei popolani meno infuriati, con la promessa di dare in un luogo opportuno spiegazioni che non si possono gridare in piazza. Riparano in un deposito di materiali da fabbrica, cinto di un assito. Parecchi li seguono, filtrano, a uno a uno, per l'uscio dell'assito; e il tabaccaio, pensando avere nel petto cose da far crollare il mondo, parla in cospetto della piramide di Caio Cestio, che aspetta indifferente il passar dei secoli fino al silenzio, alle rovine, alla Selva. Il tabaccaio parla, con voce misurata, fra una trentina di facce attente. Dice che il Santo di Jenne non è sicuramente in prigione, che non si sa dove sia, ma che si sanno altre cose, pur troppo. E dice le altre cose. Se le avesse dette alle turbe scendendo dal tram, lo avrebbero fatto a brani. In Questura ridono del Santo e di chi gli crede. Raccontano ch'egli ha un amante, una signora molto ricca; che nella notte è stato interrogato dal Direttore generale della P. S. per ragioni non tanto belle; che quando è uscito del ministero, ha trovato l'amante che lo attendeva in carrozza ed è partito con lei. "Io non volevo credere" conchiude il tabaccaio "ma ecco! Adesso dica lui." Uno dei sei, oste a Santa Sabina, si fece a raccontare che sua moglie aveva udito nel cuore della notte una carrozza fermarsi presso l'osteria; che si era alzata e aveva veduta la carrozza, un legno signorile, con il cocchiere e il domestico in tuba; che il domestico stava allo sportello e aiutava una persona a scendere; che la persona scesa di carrozza era passata a piedi sotto la finestra andando verso Sant' Anselmo e ch'ella aveva riconosciuto il Santo di Jenne. L'oste soggiunse che non aveva creduto al riconoscimento perché non c'era luna ed era piovuto fin dopo le undici, per cui la notte doveva essere stata molto buia; che non avendo creduto neppure aveva parlato; ma che poi, all'udire il racconto della Questura, si era dovuto persuadere. E sua moglie aveva dell'altro a raccontare. Si era alzata alle sei. Fra le sette e le otto era passata una botte andando verso Sant' Anselmo. Poco dopo, la botte era ripassata. Questa volta sua moglie ci aveva veduto dentro il Santo di Jenne. Era pronta ad attestarlo con giuramento. Qui, alcuni fra gli uditori sgattaiolarono dal recinto, corsero a sussurrare le notizie nel quartiere. Ne successe che mentre il tabaccaio e l'oste e i loro amici stavano ancora nel recinto, si fece gente sulla strada di Santa Sabina e un grosso gruppo salì, seguito da due guardie, verso l'osteria. Entrarono nel cortile. L'ostessa ciarlava con un cliente, sotto il pergolato. La interrogarono ed essa rifece il racconto che aveva fatto al marito. La interrogarono ancora, volevano sapere questo e quello, tanti particolari. La donna finì con rispondere di non ricordar bene. Avrebbe portato da bere, da rinfrescare ad essi l'ugola, a sé la memoria. Che! Quelli non erano venuti per bere, glielo dissero bruscamente. Due ferrovieri, attavolati sotto il pergolato, poco discosto, si seccarono di quell'interrogatorio. Uno di essi chiamò l'ostessa, le parlò a voce alta: "Che voglion sapere? L'ho veduto io l'uomo che cercano. è partito stamattina alle otto, con una ragazza, per la linea di Pisa." La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la Verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n'andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto. "Io?" rispose colui. "Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!" "E allora?" fece l'ostessa. "Dove sarà andato?" "Vada a cercarlo in cantina" rispose il ferroviere "che il fiasco è vuoto e noi si ha sete ancora."

Del resto si udiva egualmente abbastanza bene. Giovanni l'avvertì subito che il cavaliere di Leynì aveva un messaggio per lei del senatore. "Mentre Loro parlano" diss'egli "noi ascolteremo la musica." E si scostò con sua moglie da Jeanne ch'era diventata pallida e nascondeva male malgrado estremi sforzi l'angosciosa impazienza di udire questo messaggio. Seduto presso a lei, di Leynì cominciò a parlarle sottovoce. Il violoncello e il piano scherzavano insieme sopra un tema pastorale, pieno d'ingenua tenerezza ilare e di carezze. Maria non poté a meno di mormorare: "Dio, poveretta!" E suo marito non poté a meno di seguire sul viso di Jeanne, al suono della tenera musica ilare, le parole affliggenti del suo interlocutore. Osservava pure il viso del giovine, il quale, parlando alla signora, guardava spesso lui come per significar pena e attingere consiglio. Jeanne lo ascoltava con gli occhi fissi a terra. Quando egli ebbe finito, li alzò ai Selva, i grandi occhi pietosamente addolorati; guardò l'una, guardò l'altro, dicendo muta, involontariamente: "voi sapete?" Gli occhi tristi dell'uno e dell'altra le risposero: sì, sappiamo. La musica ebbe uno scoppio sonoro di gioia. Maria ne approfittò per mormorare al marito: "Le avrà riferito anche il discorso del voler morire a Roma?" Il marito rispose che sarebbe stato meglio, che lo sperava. Jeanne pose gli occhi all'uscio onde veniva il fragore della musica, attese un poco e poi accennò ai Selva di avvicinarsi, disse con voce tranquilla che il senatore avrebbe dovuto far avvertire loro, che non sapeva perché si fosse rivolto a lei. Vedessero loro, adesso, che fosse a fare. La musica tacque, si udirono Carlino e Chieco discorrere. Di Leynì, che abitava un quartierino di scapolo alla salita di Sant' Onofrio, l'offerse. Ma se c'era un mandato di arresto? Se non si attendeva, per eseguirlo, che l'uscita di Benedetto da quella casa? Jeanne smentì, pacatamente, la possibilità dell'arresto. I Selva la guardavano pieni di ammirazione per quella calma voluta. Jeanne aveva supposto da un pezzo ch'essi sapessero il nome vero di Benedetto; come non sarebbe sfuggita una parola a Noemi, malgrado tutti i divieti? E un istante prima, nel tacito scambio di sguardi dolorosi, i Selva e lei si erano intesi. Giovanni e sua moglie comprendevano che Jeanne si faceva eroicamente violenza non per loro ma per di Leynì. E adesso anche di Leynì, per le confidenze di Giovanni, sapeva! Parve loro di avere quasi commesso un tradimento. Essi si tennero certi che se Jeanne diceva di non credere alla possibilità dell'arresto doveva averne ragioni da loro non conosciute. Osservarono che Benedetto avrebbe potuto accettare l'ospitalità loro. Jeanne ricordò pronta che Benedetto stesso aveva espresso un desiderio e che la salita di Sant' Onofrio pareva più adatta di via Arenula per il soggiorno di un ammalato bisognoso di pace. Però, secondo lei, non era possibile ammettere che il trasporto avesse luogo senza un'espressa licenza del medico. In questo si accordarono tutti. I Selva diedero incarico a di Leynì di riferire al senatore che gli amici di Benedetto avrebbero provveduto a trovargli un altro asilo ma però a condizione che il medico curante autorizzasse in iscritto il suo trasporto. Mentre Giovanni parlava, irruppe dalla stanza vicina un tumultuoso allegro del piano, tutto singhiozzi e grida. Egli tacque, non volendo alzar troppo la voce, lasciò passare l'impeto della musica straziante. E straziante fu la parola che gli occhi di lui e gli occhi del giovine si dissero durante quel silenzio delle labbra. Di Leynì non aveva tempo da perdere, prese congedo. Gli spiaceva di andare solo, avrebbe desiderato presentarsi al senatore con qualcuno fra gli amici di Benedetto che potesse mettergli un po' di soggezione, perché il suo contegno non si capiva. Giovanni Selva mormorò qualche cosa circa una vicepresidenza del senato cui quel vecchio aspirava e che non otterrebbe. Amaro dolore, scoprire miserie tali dove meno si sarebbe creduto! Maria si alzò, offerse a di Leynì di andare con lui. "Lei resta?" chiese Jeanne, vivacemente, a Giovanni. L'accento diceva: Lei deve restare. Selva rispose che sarebbe rimasto a ogni modo e l'espressione della sua voce, del suo viso fu tale da significare a Jeanne che gli pesavano sul cuore parole tristi non ancora dette. Oh, pensò Jeanne, se adesso Chieco uscisse, se Carlino chiamasse e non fosse più possibile di parlarsi! Perché anche lei doveva parlare a Selva. Gli doveva riferire il discorso del ministro. I due musicisti avevano nuovamente smesso di suonare, discorrevano. Jeanne bussò discretamente all'uscio, vi soffiò dentro due paroline gaie: "Bravi! Già finito?" "No, bella mia" rispose Chieco, di dentro. "Accidenti a Voi se vi seccate!" E modulò un fischio infernale, da forare l'uscio. Jeanne batté le mani. Piano e violoncello attaccarono un grave andante. Ella si volse a Selva che rientrava dall'avere accompagnato fuori sua moglie per dirle di telegrafare a don Clemente. Gli andò incontro a mani giunte, colle lagrime agli occhi. "Selva" mormorò con voce soffocata, "Lei già sa tutto, a Lei non posso nascondermi. Vi è qualche cosa di peggio, mi dica la Verità." Selva le prese le mani, gliele strinse in silenzio mentre il violoncello rispondeva per lui, amaro e grave: "Piangi, piangi, perché non è sorte di amore e di dolore come la tua sorte." Egli stringeva le povere mani di ghiaccio, non riuscendo a parlare. Lo capiva bene, di Leynì non aveva osato riferirle le parole terribili - vengo a morire da te -; toccava a lui di darle il primo colpo. "Cara" diss'egli dolcemente, paternamente, "non Le ha egli detto al Sacro Speco che in un'ora solenne La chiamerebbe a sé? L'ora è venuta, egli la chiama." Jeanne diede un balzo, le parve di non aver capito. "Oh, come? No!" diss'ella. Poi, tacendo Selva con la stessa pietà negli occhi, ebbe un lampo al cuore, fece "ah!", si porse tutta in una muta angosciosa domanda. Selva le strinse le mani ancora più forte, un singhiozzo represso gli scosse il petto, gli contorse le labbra serrate. Ella non disse niente ma cadeva se non la sorreggevano le mani di lui. La sorresse, la pose a sedere. "Subito?" diss'ella. "Subito? È una cosa imminente?" "No, no, La chiama per domani. Lui crede che sia domani, ma può essere che s'inganni, speriamo che s'inganni!" "Dio, Selva, ma se il medico scrive ch'è senza febbre!" Selva fece il gesto di chi è costretto ad ammettere una sventura senza comprenderla. La musica taceva, egli parlò sotto voce. Benedetto gli aveva scritto. Il medico lo aveva trovato senza febbre ma egli presentiva un nuovo accesso dopo il quale sarebbe venuta la fine. Iddio gli faceva la grazia di un'attesa quieta e dolce. Aveva una preghiera da fargli. Sapeva che la signora Dessalle, amica della signorina Noemi, era in Roma. Egli aveva promesso a questa signora, davanti a un altare del Sacro Speco, di chiamarla a sé, prima di morire, per un colloquio. Molto probabilmente la signorina Noemi gliene potrebbe dire il perché. Selva s'interruppe. Aveva in tasca la lettera, fece l'atto di cavarla. Jeanne se n'avvide, fu presa da un tremito convulso. "No no" diss'egli. "Le ripeto che può ingannarsi." Aspettò che si chetasse e invece di trarre la lettera, ne disse l'ultima parte a memoria: "L'accesso ritornerà stasera o stanotte, domani sera o dopodomani mattina sarà la fine. Desidero vedere domani la signora Dessalle per una parola nel nome del Signore, al quale vado. Ho testé pregato il senatore di ottenermi questo colloquio ma egli si scusò. Mi rivolgo dunque a Lei." Jeanne si era coperto il viso colle mani e taceva. Selva credette bene di suggerire speranze. L'accesso poteva non ritornare, poteva esser vinto. Ella scosse violentemente il capo ed egli non osò insistere. A un tratto le parve udire Chieco prender congedo. Trasalì, scostò le mani dal viso spettrale fra i capelli scomposti. Invece scoppiarono le prime allegre note del Curricolo napoletano il pezzo che Chieco suonava sempre per ultimo. Ella balzò in piedi, parlò convulsa, senza lagrime: "Selva, so che Piero muore, so che non s'inganna. Lo faccia restare dov'è, s'è possibile. Gli conduca i suoi amici, me lo giuri che glieli condurrà, che gli procurerà questo conforto. Dica tutto ad essi di me, dica loro la Verità, dica loro quanto è puro, quanto è Santo, Piero. Io aspetto qui. Non mi muovo. Andrò quando Lei mi dirà, dove lei mi dirà. Sono forte, vede, non piango più. Telegrafi a don Clemente che il suo discepolo muore e che venga. Facciamo tutto quello che dobbiamo fare. È tardi, vada. E Lei già in un modo o nell'altro lo vedrà, Piero, stasera. Gli dica ..." Qui un colpo di spasimo ruppe la parola. Chieco entrò zufolando, battendo palma a palma nella sua bizzarra maniera e Selva scivolò fuori dell'uscio. Jeanne gli corse dietro nel corridoio scuro, gli afferrò una mano, v'impresse un bacio frenetico. Qualche ora dopo, verso le dieci, Jeanne stava leggendo il Figaro a Carlino sprofondato in una poltrona con le gambe avvolte in una coperta, e sulle ginocchia, strettavi a due mani, una gran tazza di latte. Jeanne leggeva talmente male, talmente noncurante di punti e di virgole, che suo fratello la interrompeva ogni momento, s'impazientiva. Leggeva da cinque minuti quando la cameriera venne ad avvertirla che c'era la signorina Noemi. Jeanne gettò il giornale, balzò in un lampo fuori della camera. Noemi raccontò frettolosamente, in piedi, premendole per l'ora tarda di ripartire, che mentre Giovanni e Maria stavano al Grand Hôtel il professor Mayda, reduce da Napoli, era venuto a casa Selva, fuori di sé, a chiedere spiegazioni della scomparsa di Benedetto da casa sua; che allora ella gli aveva raccontato tutto; che Mayda era andato direttamente in via della Polveriera; che ci aveva trovato Maria, di Leynì, il senatore e il medico, il quale era di opinione che Benedetto si potesse trasportare; che fra il medico e Mayda vi era stato un diverbio a proposito di ciò e che Mayda lo aveva troncato dicendo: "ebbene, piuttosto di lasciarlo qui, me lo riporto via io." Ed era ritornato più tardi con una carrozza piena di guanciali e di coperte, se lo era portato via. Pareva che il viaggio fosse andato bene. Udito il racconto, Jeanne abbracciò silenziosamente l'amica, stretta stretta. E l'amica, palpitante, lagrimosa, le sussurrò: "Senti, Jeanne. Per domani, preghi?" "Sì" rispose Jeanne. Tacque, lottando contro l'insorgere di una tempesta di pianto. Quando ebbe vinto, riprese sotto voce: "Non so pregar Dio. Sai chi prego? Prego don Giuseppe Flores." Noemi le posò il viso sur una spalla, disse con voce soffocata: "Vorrei che dopo egli ci vedesse lavorare insieme per la sua fede." Jeanne non rispose ed ella partì. Jeanne ritornò da Carlino per la lettura e Carlino l'accolse aspramente. Le dichiarò che ne aveva abbastanza di quella Vita e ch'ella doveva prepararsi a partire con lui l'indomani per Napoli. Jeanne rispose che era una follia e che non sarebbe partita. Allora Carlino diede in escandescenze, le afferrò i polsi, la scosse a segno da farle male. Doveva assolutamente partire! Poiché resisteva, era venuto il momento di dirle che si sapevano i motivi dei suoi andirivieni, dei suoi misteri, dei suoi occhi rossi, del suo leggere male e anche, ora, del suo non voler partire da Roma. Egli n'era stato informato da lettere anonime. Guai a lei se non la rompesse con quel pazzo! Guai a lei se gli sacrificasse le sue idee, se si lasciasse conquistare dalla superstizione, dal bigottismo, dalla religione dei preti! Non l'avrebbe mai più guardata in faccia. L'avrebbe rinnegata per sorella, da libero pensatore come voleva vivere e morire. No no, troncare, troncare, Napoli, Palermo, l' Africa, se occorresse! "Libero pensatore? Certo. E la libertà mia?" disse Jeanne senza sdegno, a ricordo di un diritto e non per il proposito di usarne. Carlino intese invece che proprio volesse usarne come a lui non piaceva e perdette addirittura il lume degli occhi. Jeanne tramortì nell'udire quell'uomo nervoso ma creduto da lei buono e gentile scagliar tante ingiurie con tanto fiele. Non rispose niente, si ritirò, tutta tremante, nella sua camera, gli scrisse due righe per dirgli che la sua dignità non le permetteva di restare con lui fino a che non si fosse disdetto delle sue offese, che se ne andava, che s'egli avesse una parola per lei la mandasse a casa Selva. Non prese con sé che una piccola borsa e uscì accompagnata dalla cameriera lasciando la lettera sulla scrivania. Non vide carrozzelle presso l'albergo e si avviò verso l'esedra per prendervi il tram. Infuriava il tramontano, i lecci del viale si dibattevano stridendo, era buio, si camminava malissimo sul suolo tutto sossopra, la cameriera esclamò sgomenta: "Gesummaria, signora, dove andiamo?" Jeanne, col capo in fiamme, col cuore e i polsi in tumulto, continuò la via senza rispondere; parendole venir portata dai flutti di un mare ignoto, nelle tenebre, verso lui. Verso lui, verso lui. Anche verso il suo Dio? Il vento potente la stordiva ruggendole sopra e ai lati. Le parole di Noemi, le parole di Carlino le straziavano l'anima con opposta violenza. Anche verso il suo Dio? Ah che ne poteva sapere? Intanto verso lui!

La voce di bambina dolente, che Noemi conosceva bene, ricominciò: "Non hai dormito abbastanza? Non puoi parlare, adesso? Avrai dormito tre ore!" Noemi accese uno zolfanello e guardò l'orologio col quale alla mano aveva prima invocato il silenzio. "Ventidue minuti!" diss'ella. "Basta!" Jeanne tacque un momento e poi mise fuori quei piccoli hm! - hm! - hm! che son preludio al pianto di un bambino viziato. E seguì la voce sommessa: "Non mi vuoi niente bene! - Hm! Hm! - Abbi pietà, parliamo un poco! - Hm! Hm!" Noemi sospirò nella sua lingua nativa: "Oh, mon Dieu!" E si rassegnò con un secondo sospiro: "Avanti! Cosa puoi dirmi che tu non abbia già detto in quattr'ore?" Il tuono ruggì ma Jeanne oramai non se ne curava più. "Domattina andremo al monastero" diss'ella. "Ma sì, va bene!" "Andremo noi due sole?" "Ma sì, è già inteso!" La voce piagnolosa tacque un momento e riprese: "Tu non mi hai mica promesso, ancora, che qui in casa non dirai niente?" "Dieci volte te l'ho promesso!" "Sai, non è vero, cosa devi dire per quello svenimento di ieri sera, se ti domandano?" "Lo so!" "Devi dire che quel Padre non è lui, che ho perduta una illusione e che mi sono sentita male per questo." "Ma mio Dio, Jeanne, queste son venti, delle volte!" "Come sei cattiva, Noemi! Come non mi vuoi bene!" Silenzio. La voce di Jeanne riprende: "Dimmi quello che pensi. Credi proprio che mi abbia dimenticata?" "Non rispondo più." "Rispondi, invece! Una parola sola! Dopo ti lascio dormire." Noemi pensa un poco e poi risponde asciutta, per finirla: "Ebbene, credo di sì. Credo che non ti abbia mai amata!" "Questo lo dici perché te l'ho detto io" ribatte Jeanne, aspra, senza lagrime nella voce. "Tu non puoi saperlo!" "Bon, ça!" brontolò Noemi. "C'est elle qui me l'a dit et je ne dois pas le savoir!" Silenzio. La voce flebile: "Noemi." Nessuna risposta. "Noemi, ascolta." Niente. Jeanne si mette a piangere e Noemi cede. "Ma, Santo cielo, cosa vuoi?" "Piero non può sapere che mio marito è morto." "bene. E allora?" "Allora non può sapere che sono libera." "E dunque?" "Stupida! Mi fai venire una rabbia!" Silenzio. Jeanne sa bene quale specie di rabbia è la sua. L'amica pensa troppo come lei stessa che vorrebbe tanto essere contraddetta nel suo presentimento doloroso, avere una parola di speranza. Rise un riso lieve, forzato: "Noemi, fai l'offesa, adesso, apposta, per non parlare." Silenzio. Jeanne riprende, mansueta: "Senti. Non credi che avrà della tentazioni?" Silenzio. Jeanne non si cura, stavolta, che Noemi non risponda. Esclama: "Sarebbe bella che proprio adesso non avesse più intenzioni!" Il suo sdegno è tanto comico che Noemi, pure molto scandolezzata, non può a meno di ridere; e ride anche lei. Noemi ride; però anche la sgrida di queste sciocchezze enormi che dice senza riflettere. Perché Noemi conosce Jeanne e sa che Jeanne in questo momento non è la vera Jeanne, conscia e signora di sé; o forse è la Jeanne più vera ma non certo quella che starà a fronte di Piero Maironi se mai s'incontrano. Il tuono tace e Jeanne vorrebbe vedere il tempo che fa, ma le pesa di scendere dal letto, teme di sentirsi male, teme il dubbio di non poter salire fra qualche ora al monastero. Teme poi anche le difficoltà che gli ospiti farebbero se il tempo fosse troppo cattivo; le preme dunque di sapere come si dispone il cielo. Bisogna che scenda Noemi, la schiava cui ben di rado riescono vittoriose le ribellioni. Noemi scende, apre la finestra, esplora il buio con la mano distesa. Minute frettolose goccioline le titillano la mano. Il buio si varia un poco agli occhi di lei. Ella distingue, lì sotto, Santa Maria della Febbre, grigia sul campo nero. Le si rischiara la nuvolaglia pesante, vi nereggiano su le braccia della quercia imminente a destra, i profili delle montagne. Le minute frettolose goccioline titillano titillano la mano distesa, che si ritrae. Jeanne domanda: "Dunque?" "Piove." Ella sospira: "che noia!" come se avesse a piovere in eterno. E le goccioline prendono maggior voce, riempiono di sommesse parole la camera, si affiochiscono ancora. Jeanne non ha inteso le sommesse parole, non ha inteso che l'uomo di cui ha pieno il cuore giace svenuto sulla petraia deserta che la pioggia lava. A mattina inoltrata la signora Selva, un po' inquieta per non avere ancora veduto comparire né l'una né l'altra delle due Signore, entrò pian piano nella camera di sua sorella. Noemi era quasi vestita e le accennò di tacere. Jeanne dormiva, finalmente. Le due sorelle uscirono insieme, si recarono nello studio di Giovanni che ve le attendeva. Dunque? Don Clemente era proprio l'uomo? Marito e moglie desideravano sapere, per regolarsi. Giovanni non dubitava più e sua moglie dubitava ancora. Noemi Noemi doveva sapere! Giovanni chiuse l'uscio, mentre Maria, interpretando il silenzio di sua sorella per una conferma, insisteva: "ma davvero? ma davvero?" Noemi taceva. Avrebbe forse tradito il segreto dell'amica nell'intento di cospirare con i Selva per la sua felicità, se non l'avesse trattenuta il dubbio di un disaccordo con i Selva e anche il senso di qualche cosa di malfermo in sé stessa. Probabilmente i Selva, cattolici, non desideravano che l'uomo fuggito dal mondo vi ritornasse. Lei, protestante, non poteva pensare così. Almeno non lo avrebbe dovuto. Lei doveva pensare che Iddio si serve meglio nel mondo e nel matrimonio. Lo pensava, ma non si nascondeva che se il signor Maironi adesso sposasse Jeanne non lo potrebbe stimare molto. Insomma era meglio tacere la strana Verità. "Cosa pensate?" diss'ella." Che quell'ecclesiastico di ieri sera, che è passato davanti a noi dopo tutta quella vostra mimica, fosse l'amante antico? È quello il vostro don Clemente? bene, non è lui." "Ah! Proprio no?" esclamò Giovanni fra sorpreso e incredulo. Sua moglie trionfò. "Ecco!" diss'ella. Ma Giovanni non si diede per vinto. Domandò a Noemi se fosse ben certa di quello che diceva, e come potesse spiegare il tramortimento della signora Dessalle. Noemi rispose che non c'era da spiegar niente. Jeanne soffriva di anemia ed era soggetta ad accessi di spossatezza mortale. Giovanni tacque, poco persuaso. Se proprio era stato così, come poteva Noemi affermare con tanta sicurezza che don Clemente non era l'uomo? Nelle parole, nel fare, nel viso di sua cognata, Giovanni sentiva qualche cosa di poco chiaro, di poco naturale. Maria s'informò della notte. Come l'aveva passata la signora Dessalle? Inquieta? Ma di quale inquietudine? "È stata inquieta! Che vi debbo dire?" fece Noemi, un po' seccata. E si accostò alla finestra aperta come per spiare le intenzioni delle nuvole. Giovanni fece un passo verso di lei, risoluto di venire a capo delle sue reticenze. Ella lo presentì e si affrettò ad un rifugio, a chiedergli il suo pronostico del tempo. Il cielo era tutto coperto, grandi nuvole basse traboccavano dai dorsi di Monte Calvo sopra i Cappuccini e la Rocca. L'aria era tepida, il fragore dell' Aniene, forte. Giù in basso il curvo nastro della strada di Subiaco traspariva fosco di mota fra i fogliami degli ulivi. Giovanni rispose: "Pioggia." Noemi domandò subito quanta strada ci fosse dal villino ai Conventi. A Santa Scolastica venti minuti. Perché lo domandava? Udito che Jeanne intendeva andarvi con Noemi quella mattina stessa, Maria protestò. Con un tempo simile? L'ultimo tratto bisognava farlo a piedi. Non potevano aspettare, rimandare a domani, a dopo domani? "Quando te l'ha detto?" chiese Giovanni, quasi brusco. Noemi esitò e poi rispose: "Stanotte." Comprese, nel dire la parola, che suggeriva sospetti, specie dopo quell'attimo di esitazione; e attese un assalto, incerta se resistere o cedere. "Noemi!" esclamò Giovanni, severo. Ella lo guardò, soffusa il viso di un lieve rossore. Non disse neppure - che c'è? -; tacque. "Non negare!" ripigliò suo cognato. "Questa signora ha riconosciuto don Clemente. Non negare, dillo, è un dovere di coscienza per te! Non è possibile di permettere che s'incontrino!" "Quello che ho detto è vero" rispose Noemi, ferma oramai della via che terrebbe. Nella sua voce senza sdegno, quasi sommessa, era una implicita confessione di non aver detto la Verità intera. "Non lo ha riconosciuto? Però tu, qualche cosa sai!" "So qualche cosa" rispose Noemi "sì, ma non posso dire quello che so. Vi dico solo di far avvertire subito don Clemente che la signora Dessalle e io si va stamane a visitare i Conventi. Altro non vi dico e vado a vedere se Jeanne si è svegliata." Ella uscì di volo. I Selva si guardarono. Che significava questo voler avvertire don Clemente? Maria lesse nel pensiero di suo marito qualche cosa che le dispiacque, che non avrebbe voluto gli venisse alle labbra. "Scrivi questo biglietto a don Clemente, intanto" diss'ella. Ma Giovanni, prima di scrivere, volle pur dire quello che pensava. Per lui vi era una sola spiegazione possibile. Don Clemente era veramente l'uomo. Noemi aveva promesso alla signora Dessalle di non dirlo ma voleva impedire l'incontro. Maria esclamò vivacemente: "Oh Noemi, mentire, no!" e poi arrossì, sorrise, abbracciò suo marito come se temesse di averlo offeso. Perché appunto Giovanni si era offeso una volta di certe parole sfuggite a lei sulla poca sincerità degl'italiani e adesso un'ombra di quella nube poteva forse ritornare per effetto della sua esclamazione. Egli fu punto infatti, più dall'abbraccio che dalla protesta, e arrossì pure, ricordando, e sostenne che al posto di Noemi anche Maria avrebbe negato. Maria tacque, uscì dallo studio, brillandole negli occhi una lagrima importuna. Giovanni si compiacque, in principio, di avere rintuzzata una tenerezza offensiva e si mise a scrivere il biglietto per don Clemente. Non l'aveva finito di scrivere e il suo corruccio gli era già diventato rimorso. Si alzò, uscì in cerca della moglie. Era nel corridoio con Noemi che discorreva piano. Volse tosto il viso a lui, lo intese, gli sorrise con gli occhi ancora umidi, gli fé cenno di accostarsi e di parlar sotto voce. Che c'era? C'era che Jeanne voleva partire subito per Santa Scolastica. Noemi avvertì ch'era appena svegliata e che questo subito significava un'ora e mezzo, almeno. Ma bisognava mandare a Subiaco per una carrozza, poiché Jeanne non era in grado di fare a piedi che lo stretto necessario, l'ultimo tratto di via. Un tocco di campanello richiamò Noemi. Jeanne l'aspettava, impaziente. "Che cameriera pettegola!" diss'ella, tra sorridente e crucciata. "Cosa sei andata a raccontare a tua sorella?" Noemi la minacciò di andarsene. Jeanne giunse le mani, supplichevole. E le domandò fissandola negli occhi, scrutandone l'anima: "Come mi pettino? Come mi vesto?" Noemi rispose sbadatamente: "Ma come vuoi!" L'altra batté il piede a terra, sbuffando. Allora Noemi capì. "Da contadina" diss'ella. "Sciocchissima creatura!" Noemi rise. Jeanne gemette il solito ritornello: "Non mi vuoi bene! Non mi vuoi bene!" Allora Noemi si fece seria, le domandò se volesse proprio riprenderselo, il suo Maironi. "Voglio esser bella!" esclamò Jeanne. "Ecco!" Ella era veramente bella così, nella sua veste da camera di un giallo ardente, con il suo fiume di capelli bruni, cadenti un palmo sotto la cintura. Era molto più bella e più giovine che la sera prima. Aveva negli occhi quella intensità di Vita che prendevano un tempo quando Maironi entrava nella stanza dov'era lei, quando anche solo ella ne udiva il passo nell'anticamera. "Vorrei la mia toilette di Praglia" diss'ella. "Vorrei comparirgli davanti col mio mantello verde foderato di pelliccia, adesso in maggio. Vorrei che vedesse subito quanto sono ancora la stessa e quanto voglio essere la stessa. - Oh Dio Dio!" Gettò le braccia, con un subito slancio, al collo di Noemi, le impresse la bocca sulla spalla, soffocando un singhiozzo, mormorò parole che Noemi non poteva distinguere. "No no no" diceva "sono pazza, sono cattiva, andiamo via, andiamo via." Alzò il viso lagrimoso. "Andiamo a Roma" diss'ella. "Sì sì" rispose Noemi, commossa "andiamo a Roma, partiamo subito. Adesso domando a che ora c'è un treno." Jeanne l'afferrò di colpo, la trattenne. No, no, era una pazzia, cos'avrebbe detto sua sorella? Era una pazzia, era una cosa impossibile. E poi, e poi, e poi ... Si coperse il viso, si mormorò dentro le mani che le bastava di vederlo, di vederlo un solo momento, ma che partire senza vederlo non poteva, non poteva, non poteva. "Andiamo!" diss'ella, dopo un lungo silenzio, scoprendosi il viso. "Vestiamoci! Mi vestirò come vorrai tu; di sacco, se vorrai, di cilicio." Ell'aveva ricuperato il suo sorriso cruccioso di prima. "Chi sa?" disse. "Forse mi farà bene di vederlo vestito da contadino." "Io guarirei subito" mormorò Noemi; e arrossì, sentendo di aver detto una grossa falsità. Quando la signora Selva bussò all'uscio per avvertire che la carrozza era pronta, Jeanne pregò Noemi, con umiltà comica, di lasciarle mettere il grande cappello Rembrandt che prediligeva. Le nere ali piumate, curve sul viso pallido, sui neri fuochi degli occhi, sull'alta persona avvolta in un mantello scuro, parevan vive dell'anima stessa di lei, cupa, appassionata e altera. Ella sentì, nel dare il buongiorno a Maria Selva, l'ammirazione che destava. La sentì anche negli occhi di Giovanni, ma diversa, non simpatica. Appena lasciatolo per scendere con Noemi al cancello dove la carrozza aspettava, le domandò se avesse detto niente, proprio niente, a suo cognato. Avutane una risposta rassicurante, mormorò: "Mi pareva." Fatti pochi passi, le strinse forte il braccio, esclamò lieta come per una scoperta improvvisa: "Però sono ancora bella!" Noemi non le dava retta. Noemi si domandava: il nome Dessalle avrà detto qualche cosa al quel frate? Lo avrà egli udito da Maironi? Se Maironi gli ha raccontato di questo amore, non potrebbe avere taciuto il nome della signora? In fondo ell'aveva un'acuta curiosità di conoscere l'uomo che aveva ispirato a Jeanne un sentimento così forte ed era scomparso dal mondo in un modo così strano. Ma lo avrebbe voluto vedere da sola. Era uno sgomento di pensare che i due s'incontrassero senza qualche preparazione. Almeno poter prima parlare a questo frate, a questo don Clemente, accertarsi che sa, informarlo se non sa, apprendere da lui qualche cosa di quell'altro, il suo stato d'animo, le sue intenzioni! Basta, pensò salendo in carrozza, faccia la Provvidenza! E assista questa povera creatura! Nel metter piede a terra dove comincia la mulattiera, Jeanne propose timidamente, come chi prevede un rifiuto e lo riconosce ragionevole, di salire ai Conventi sola, colla guida di un monello corso da Subiaco dietro la carrozza. Il rifiuto venne infatti e vivacissimo. Non era possibile! Che mai le veniva in mente? Allora Jeanne supplicò di essere almeno lasciata sola con lui, se lo avesse trovato. Noemi non seppe che rispondere. "E se ti precedessi?" diss'ella. "Se domandassi del Padre Clemente? Se cercassi di capire cos'è, cosa fa e cosa pensa il tuo..." Jeanne la interruppe, esterrefatta. "Il Padre? Parlare al Padre?" esclamò squadernandole ambedue le mani sul viso come per turarle la bocca. "Guai a te se parli al Padre!" S'incamminarono lentamente per la sassosa mulattiera. Jeanne si fermava spesso, presa da tremiti, vibrando come un filo teso al vento. Porgeva allora in silenzio a Noemi le mani gelate perché sentisse e le sorrideva. Nel mare delle nebbie correnti a monte comparve, curioso anche lui, l'occhio smorto del sole.

Mi pare di conoscerlo abbastanza per poterlo dire. Da otto giorni in qua ha migliorato sensibilmente, del resto. Lavora nell'orto qualche poco la mattina e qualche poco la sera. Stamani si è levato per tempissimo e non gli è venuto in mente di lavare la scala? Maria rimproverò ieri la sua vecchia fantesca perché la scala non era pulita. Questa vecchia, che dorme a Subiaco, quando venne alle sette trovò il lavoro fatto da Maironi. Mia sorella e mio cognato lo rimproverarono, quest'ultimo quasi aspramente, forse perché è tanto diverso da Maironi e non gli verrebbe in mente di pigliare la granata neppure se si trovasse dentro una nuvola di ragnatele. Cosa Maironi legge? A me di letture sue non parlò che una volta e per breve tempo, come ti dirò. Ti ho scritto che forse passerà l'estate con noi, perché so che Maria e Giovanni lo desiderano. Il mio presentimento è che ora non resterà e che andrà a Roma. Però è una mia idea, niente di più, non ne so niente. Quanto a volermi convertire, io non so se la cosa sia facile né se Maironi ci pensi. Bada, io lo chiamo Maironi scrivendo a te; parlando a lui lo chiamo Benedetto senz'altro, perché il suo desiderio è questo. Sono sicura che a convertirmi ci pensava Giovanni. L'ha trovato tanto facile che non me ne parla più. Di Maironi non lo crederei. Mi pare che per lui il Cristianesimo sia sopra tutto azione e Vita secondo lo spirito di Cristo, del Cristo risorto che vive sempre in mezzo a noi, del quale noi abbiamo, com'egli dice, l'esperienza. Mi pare che la sua propaganda religiosa non abbia per oggetto il Credo di una Chiesa cristiana piuttosto che di un'altra, benché senza dubbio la santità del suo vivere sia rigorosamente cattolica. Quando l'ho inteso parlare di dogmi con Giovanni non era mai per discutere le differenze fra Chiesa e Chiesa, era piuttosto per aprire certe formole della Fede e mostrare la luce grande che n'esciva aprendole in un certo modo. In questo Giovanni è Maestro ma quando parla Giovanni si sente sopra tutto che nella sua mente vi ha un sapere immenso, e quando parla Maironi si sente sopra tutto che nel suo cuore vi ha il Cristo vivo, il Cristo risorto, e ci si accende. Per essere interamente, scrupolosamente sincera, ti dirò che se non credo ch'egli desideri di convertirmi, però non posso esserne certissima. Eravamo un giorno nell'uliveto. Egli e Giovanni discorrevano di un libro tedesco sull'essenza del Cristianesimo che pare aver fatto rumore ed è stato scritto da un teologo protestante. Maironi osservava come questo protestante, quando parla del Cattolicismo, ne parli colla più onesta attenzione d'imparzialità, ma come in fatto non conosca la religione cattolica. Secondo lui nessun protestante la conosce, son tutti pieni di pregiudizi, giudicano essenziali al Cattolicismo certe alterazioni della sua pratica, esteriori e sanabili. C'era lì un panierino di albicocche ed egli ne tolse una bellissima, però un poco guasta. "Ecco" disse "un frutto guasto. Se io offro questo frutto a uno che non conosce ma vuole esser gentile, mi dice che vi è del sano e del buono ma che pur troppo vi è anche del malato e che perciò egli, con dispiacere, non lo prenderà. Così parla del Cattolicismo questo protestante insigne. Ma se io offro il frutto a uno che conosce, egli lo accetterà quand'anche fosse tutto putrido e porrà il nocciuolo immortale nel proprio terreno con la speranza di avere albicocche bellissime e sane." Il discorso era rivolto a Giovanni, ma gli occhi guardavano sempre me. Devo soggiungere che anche a Jenne egli mi aveva detto d'imparare a conoscere il Cattolicismo. A ogni modo se io rimango protestante non è per il conoscere e il non conoscere, è perché così vogliono i miei sentimenti più sacri. Mia cara Jeanne, vi ha un'altra cosa che ti voglio schiettamente dire. Sospetto che tu sia gelosa. Ho paura che tu non possa comprendere il dolore indicibile che mi faresti se lo fossi veramente; ho paura che tu non possa comprendere la gravità immensa dell'offesa che faresti a lui prima e poi anche a me. Adesso io ti apro il mio cuore. Avrei rimorso di non farlo, amica mia; rimorso rispetto a te, rispetto a lui, rispetto a me stessa. Quanto a lui, egli è buono e dolce a tutti coloro che avvicina ma in modo particolare ai più umili, e forse tu potresti esser gelosa della vecchia di Subiaco che viene in casa per i bassi servizî. Con Maria e con me la sua bontà e dolcezza si mostrano silenziosamente più che con parole. Con noi egli è sereno, semplice, affabile; non ha mai l'aria di sfuggirci ma non è mai accaduto che si trattenesse a parte né con l'una né con l'altra. Io sono agli occhi di lui un'anima e le anime sono per lui tutte come erano per mio Padre le menome pianticelle del suo grande giardino, ch'egli avrebbe voluto difendere dal gelo col calore del suo cuore, far crescere e fiorire colla comunicazione della sua Vita. Ma sono un'anima come un'altra, forse appunto colla differenza sola ch'egli mi giudica più lontana dalla Verità e perciò più minacciata dal gelo; benché questo non si vede nel suo contegno. Quanto a me, cara, io provo certamente un sentimento profondo per lui; ma sarebbe abbominevole dire che il mio sentimento somigli anche da lontano a quello che gli uomini chiamano col solito nome. Il mio sentimento è riverenza, è una specie di timore devoto, una specie di awe per cui io sento intorno alla sua persona come un circolo magico che non oserei passare. Nella sua presenza il mio cuore non ha un battito di più. Non lo so, direi piuttosto che ne abbia uno di meno. Non potrei essere più sincera di così, cara Jeanne. Dunque ti prego, ti supplico di non immaginare altra cosa. Per ora non penso al Belgio. Può darsi che vi faccia una corsa più tardi. Salutami tuo fratello, del quale vorrei sapere se ha finalmente portato il vecchio prete e la signorina in Fomalhaut. Ci penso anch'io qualche volta, alla sua Fomalhaut. Digli che se quest'inverno verrete a Roma faremo musica insieme. Addio, ti abbraccio. Benedetto a don Clemente. (Non spedita ) Padre mio, il Signore si è ritirato dall'anima mia, non dico per abbandonarmi al peccato ma per togliermi ogni senso della presenza Sua, e il desolato grido di Gesù Cristo sulla croce freme, a momenti, in tutto il mio essere. Se mi sforzo di richiamare ogni mio pensiero nel pensiero della Presenza Divina, ogni mio sentimento in un atto di abbandono alla Divina Volontà, non ne ho che pena e scoramento, mi par di essere una bestia caduta sotto il carico, che a un primo colpo di frusta fa uno sforzo, ricade; a un secondo colpo, a un terzo, a un quarto trasalisce appena, neppure tenta rialzarsi. Se apro il Vangelo o l' Imitazione, non vi trovo sapore. Se ripeto preghiere mi vince il tedio e ammutolisco. Se mi prostro sul pavimento, il pavimento mi gela. Se mi lamento a Dio di essere trattato così, il Suo silenzio mi par diventare più ostile. Se con l'autorità dei grandi mistici mi dico che ho torto di avere tanto affetto alle dolcezze spirituali, di soffrire tanto per la loro privazione, mi rispondo che hanno torto i mistici, che nello stato di grazia sensibile si cammina sicuri e che invece in questa notte spirituale senza stelle il cammino non si vede, non c'è altra regola che ritrarre il piede quando si sente molle l'erba, e ciò non basta, ch'è anche possibile di porlo addirittura, il piede, nel vuoto. Padre, Padre mio, mi apra le Sue braccia, ch'io senta il calore del Suo petto pieno di Dio! Vi sono cento ragioni per me di non venire a Santa Scolastica, ma in ogni modo preferirei scrivere. Ella è qui presente a me più che nel corpo; io mi unisco, mi confondo meglio a Lei col pensiero che se Le fossi davanti; e ho bisogno di confondermi a Lei col pensiero, ho bisogno di costringere l'anima mia dentro la Sua. Forse Le manderò questa lettera, forse neppure la manderò. Padre mio, Padre mio, mi fa bene di scriverti più che di parlarti, non ti potrei parlare colla foga che ora mi viene alla penna e non mi verrebbe alle labbra. Scrivendo, io parlo, io grido a te immortale, io ti spoglio dalle mortalità che sono anche nell'anima tua e che mi romperebbero, nella tua presenza, questa foga, delle mortalità di conoscenze incomplete delle cose, di prudenze che ti consiglierebbero veli al tuo pensiero. No, non te la spedirò questa lettera, eppure tu l'avrai; l'arderò, eppure tu l'avrai, sì, tu l'avrai, non è possibile che il mio tacito grido non ti raggiunga, forse adesso nelle tenebre della notte, mentre dormi, forse fra due ore, ancora nelle tenebre della notte, mentre preghi con i fratelli nella dolce Chiesa dove tanto abbiamo adorato insieme. Io so perché sono arido, io so perché Dio mi abbandona. Sempre quando Dio mi abbandona, quando tutte le sorgenti vive dell'anima mia inaridiscono e i germi vivi si disseccano e il mio cuore diventa un mare morto, io so perché. Perché ho udita una musica soave alle mie spalle e mi sono voltato, oppure perché il vento mi recò fragranze dai prati in fiore a lato della mia via e mi arrestai, oppure perché la nebbia mi è salita di fronte e ho temuto, oppure perché uno spino mi offese il piede e ne ho concepita ira. Istanti, baleni, ma intanto l'uscio si apre, un soffio maligno entra. È sempre così, basta uno sguardo raccolto, una lode gustata, una immagine trattenuta, una offesa rimeditata, il soffio maligno entra. E adesso è tutto questo insieme! È scesa la notte sul mio cammino, ho messo il piede nell'erba molle, la ho sentita, ho ritratto il piede ma non subito. Perché adopero figure? Scrivi scrivi, mano mia vile, la nuda Verità! Scrivi che questa casa è un nido di mollezza e che se ho gustato il letto soffice, la biancheria fine, l'odore di lavanda, ho molto più gustato la conversazione del signor Giovanni e le letture assorbenti nel diletto della mente, l'aura di due giovani donne pure, intellettuali, piene di grazia, la loro ammirazione segreta, il profumo di un sentimento che una di esse mi è parsa chiudere in sé, la visione di una Vita nascosta in questo nido fra queste persone, lontana da tutto ch'è volgare, ch'è basso, ch'è immondo, ch'è schifoso. Ho sentito il male del mondo con il ribrezzo che se ne ritrae e non con il focoso dolore che lo affronta per strappargli le anime. Istanti, baleni; mi rifugiai come un tempo nell'abbraccio della Croce ma la Croce, poco a poco, altrimenti da un tempo, mi diventò nelle braccia legno insensibile e morto. Mi sono detto: spiriti di nequizia, male volontà sapienti e forti che sono nell'aria, congiurano contro di me, contro la mia missione. Mi sono risposto: superbia, giù! E poi la prima idea mi riprese, ondeggiai cieco in questa vicenda trista, ogni giorno, tutto il giorno. E poiché niente ne ho lasciato trasparire, poiché capivo che il signor Giovanni e le Signore non dubitavano che io non fossi nell'interno così sereno, così puro come il mio esterno pareva, mi disprezzai, certi momenti, come un ipocrita, per dirmi, il momento dopo, che invece il mio esterno puro e sereno mi aiutava a vivere, parlo della Vita spirituale; che il parer forte mi obbligava a esser forte. Mi paragonai a un albero che ha il midollo divorato dai vermi, il legno consunto dalla putrefazione e vive per la corteccia, può dare foglie e fiori per lei, può dare ombra benefica. E poi mi dissi che questo era buono per gli uomini; ma davanti a Dio, davanti a Dio? E poi mi dissi ancora che Dio mi potrebbe sanare perché l'albero divorato nel midollo non è sanabile ma l'uomo sì; e allora mi torturai per la impotenza di fare quello che Dio avrebbe chiesto a me come cooperazione della mia volontà alla Sua: fuggire, fuggire. Dio è nella voce dell' Aniene che dalla sera della mia partenza da Jenne mi dice: "Roma, Roma, Roma"; e Dio è pure nella forza dei vermi invisibili che mi hanno rosô le virtù vitali del corpo. E allora e allora e allora? Signore, ascolta il mio gemito che Ti domanda giustizia. Ho detto tante volte che certamente partirò appena ne avrò la forza e qui mi vorrebbero trattenere e come potrò io dir loro: amici miei, voi mi siete nemici? Ecco, viltà mia! Perché non potrei dirlo? Perché non lo dirò? Ho letto un giorno nello sguardo della giovine protestante: - Se Lei parte che sarà dell'anima mia? Non deve Lei desiderare di condurmi alla fede Sua? Io non mi lascio condurre ancora. - No, non posso, non debbo scrivere tutto. E come scrivere l'espressione di uno sguardo, l'intonazione di una parola per sé indifferente? Non sono sguardi come quello per il quale San Girolamo s'immerse nell'acqua gelata o almeno la commozione mia non somiglia alla sua. Non vale acqua gelata contro uno sguardo puro nella sua dolcezza. Solo il fuoco vi arriva, il fuoco dell'Amore supremo. Oh chi mi libera dal mio cuore mortale che non si move di un solo picciol moto senza movere tutte le fibre del corpo, chi mi libera il cuore immortale che gli è interno come il germe al frutto e si prepara un corpo celeste? Non posso, non debbo scrivere tutto, ma questo sì lo voglio scrivere: il Signore mi tende insidie e lacci! Caduto, mi deriderà! Perché è avvenuto che io scrivessi il passo latino sulla gente che vive in penitenza fra il Mar Morto e il deserto, "sine pecunia, sine ulla femina, omni venere abdicata, socia palmarum" su quel pezzo di carta che recava sull'altra faccia parole di J. D., calde ancora del mio peccato antico e del suo, delle memorie più terribili? Perché una persona così timida ha osato impormi una comunicazione segreta? Il vento mi ha spalancata la finestra. Oh Aniene Aniene, come non ti stanchi di ruggirmi il tuo comando! Che io parta sul momento? Impossibile, le porte sono chiuse. E poi sarebbe indegno di partire così. Disonorerei Dio, farei dire: che qualità di servi ingrati e pazzi ha il Signore? Vieni, spirito del mio Maestro, vieni, vieni, parla, io ti ascolto. Che mi dici? Che mi dici? Ah tu sorridi delle mie tempeste, tu mi dici di partire, sì, ma di partire nobilmente, di annunciare che il Signore me lo comanda. Tu mi dici di obbedire alla voce di Dio nell' Aniene. Ecco che il vento si allontana, pare chetarsi, contento. Sì, sì, sì, con lagrime. Domani, domattina. Lo annuncierò. E so a chi andrò in Roma. Oh luce, oh pace, oh sorgenti redivive dell'anima mia, oh mare morto che ti gonfii in una calda ondata! Sì, sì, sì, con lagrime. Grazie, grazie. Gloria a Te, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo, sia fatta la Tua volontà! _______________________

Io sono abbastanza vecchio per ricordare i tempi del dominio austriaco. Se i patrioti lombardi e veneti si raccoglievano allora a parlare di politica, non era mica sempre per congiure, per atti di rivoluzione; era per comunicarsi notizie, per conoscersi, per tener viva la fiamma dell'idea. È questo che noi vogliamo fare nel campo religioso. Lo creda il signor Abate Marinier, quell'accordo negativo ch'egli diceva può bastare benissimo. Facciamo che si allarghi, che abbracci la maggioranza dei fedeli intelligenti, che salga nella gerarchia; vedrà che gli accordi positivi vi matureranno dentro occultamente come semi vitali dentro la spoglia caduca del frutto. Sì, basta un accordo negativo. Basta di sentire che la Chiesa di Cristo soffre, per unirci nell'amore di nostra Madre e almeno pregare per essa, noi e i nostri fratelli che, come noi, la sentono soffrire! Che ne dice, signor Abate?" L' Abate mormorò con un lievissimo sorriso: "C'est beau mais ce n'est pas la logique." Don Paolo scattò: "Ma che logica!" "Ah!" rispose il Marinier con una maligna faccia compunta. "Se rinunciate alla logica ...!" Don Paolo, tutto acceso, era per protestare ma il professore Dane gli accennò di chetarsi. "Noi non vogliamo rinunciare alla logica" diss'egli. "Solamente non è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di sentimento, di amore, di fede, come è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di geometria. Nella materia nostra il procedimento logico è occulto. Certo il mio caro amico Marinier, una delle menti acutissime che io conosco, non ha voluto dire questa cosa in risposta al mio caro amico Selva, che quando una persona molto amata da noi cade inferma, è necessario a noi di accordarci sulla cura che le faremo, prima di correre insieme al suo letto!" "Queste sono bellissime figure" disse l' Abate Marinier alquanto vivacemente. "Ma sapete bene che le similitudini non sono argomenti!" Don Clemente, che stava in piedi nell'angolo tra l'uscio del corridoio e la finestra, e il professore Minucci seduto presso a lui, fecero atto di parlare. Subito si arrestarono, volendo ciascuno dei due cedere la parola all'altro. Selva propose che prima parlasse il monaco. Tutti guardarono a quel nobile viso di arcangelo, arrossente ma eretto. Don Clemente esitò un poco, e quindi parlò con la sua voce soffice, velata di modestia: "Il signor Abate Marinier ha detto una cosa che io credo molto vera. Ha detto: ci vuole un Santo. Io pure lo credo. Chi sa? Io non dispero che possa già esistere." "Lui" mormorò don Paolo. "Ora" proseguì don Clemente "io vorrei dire al signor Abate Marinier: siamo in qualche maniera i profeti di questo Santo, di questo Messia, prepariamo le sue vie, che poi significa solo far sentire universalmente il bisogno di un rinnovamento di tutto che nella religione nostra è veste, non corpo della Verità, anche se questo rinnovamento sarà doloroso per certe coscienze. Ingemiscit et parturit! E far sentire tutto ciò stando sopra un terreno assolutamente cattolico, aspettando le nuove leggi dalle autorità vecchie, dimostrando però che se non si cambiano le vesti portate da tanto tempo, fra tante intemperie, nessuna persona civile si avvicinerà più a noi, e Dio non voglia che molti di noi le svestano senza permesso, per un disgusto insopportabile. Vorrei anche dire al signor Abate Marinier, se me lo permette: non abbiamo troppi timori umani!" Un mormorio caldo di assenso gli rispose e Minucci scattò tutto vibrante. Mentre parlava l' Abate Marinier, di Leynì e Selva lo avevano visto bollire accigliato; e appunto Giovanni, che conosceva il carattere fiero di quel mistico asceta, si era proposto, facendo parlare prima don Clemente, di dargli tempo a chetarsi. Egli scattò. La parola non gli veniva fluida, gli si rompeva per soverchio impeto, e rotta gli sgorgava dal labbro a ondate, precisa, però, e potente nel vigoroso accento romano: "Ecco! Non abbiamo timori umani! Noi vogliamo cose troppo grandi e le vogliamo troppo fortemente per avere timori umani! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivo, quanti sentiamo che il concetto della Via, della Verità e della Vita si ... si ... si ...- si dilata, ecco, si dilata nel nostro cuore, nella nostra mente! E rompe tante - come dirò? - vecchie fasce di formole che ci stringono, che ci soffocano, che soffocherebbero la Chiesa, se la Chiesa fosse mortale! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente, quanti abbiamo sete - sete, signor Abate Marinier! Sete! Sete! - che la nostra fede, se perde di estensione, cresca di intensità - a cento doppi, cresca, viva Dio! - e possa radiare fuori di noi, e possa, dico, purificare come il fuoco, prima il pensiero e poi l'azione cattolica - ecco. Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti sentiamo ch'Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e di Santi, la quale si opererà con sacrificio, con dolore, con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall' Iddio vivo nelle anime nostre! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei teme, signor Abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò: dov'è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il Padre; ma il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor Abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell'acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? - Ma poi mi perdoni, signor Abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov'è la vostra fede? Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? Uniamoci contro il fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa e se ne avremo a soffrire, ringraziamone il Padre: "beati estis cum persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me." Don Paolo Farè saltò in piedi e abbracciò l'oratore. Di Leynì si affisava in lui con occhi accesi di entusiasmo. Dane, Selva, don Clemente, l'altro frate tacevano, imbarazzati, sentendo, specie i tre ecclesiastici, che Minucci era trascorso troppo, che le sue frasi sulla estensione e la intensità della fede, sul timore di Pietro, non erano misurate, che tutta l'intonazione del suo discorso era stata troppo bellicosa e non si accordava né col mistico esordio di Dane né con le parole usate da Selva a delineare il carattere dell'unione proposta. L' Abate di Ginevra non aveva levato un momento dal viso di Minucci, mentr'egli parlava, i suoi piccoli occhi brillanti. Guardò l'amplesso di don Paolo con un misto d'ironia e di pietà, poi si alzò in piedi: "Sta bene" diss'egli. "Io non so se il mio amico Dane in particolare divida le opinioni del Signore. Veramente ne dubito un poco. Il Signore ha nominato Pietro. Ecco, mi pare che qui ci si dispone a uscire dalla barca di Pietro sperando forse di camminare sopra le onde. Io dico umilmente che non ho fede abbastanza e andrei subito al fondo. Io intendo di restare nella barca e forse tutt'al più adoperarvi qualche piccolo remo secondo la mia intenzione, perché, come ha detto il Signore, sono molto pauroso. È dunque necessario che ci separiamo e non mi resta che a domandarvi perdono di essere venuto. Ho anche bisogno di una piccola passeggiata per la mia vile digestione.- "Caro amico" soggiunse rivolgendosi a Dane "ci ritroveremo all'Aniene." E mosse verso Selva con la mano stesa, per accomiatarsi. Subito gli furono tutti attorno, meno don Paolo e Minucci, per non lasciarlo partire. Egli insisteva tranquillo, arrestava ora con un gelido sorrisetto, ora con una parolina graziosamente sarcastica, ora con un gesto elegante gli assalitori troppo veementi. Di Leynì si voltò a Farè, gli accennò di unirsi agli altri; ma il focoso don Paolo gli rispose con una violenta spallata, con una smorfia di fastidio. Intanto dal gruppo che attorniava il Marinier una voce toscana si alzò sopra le altre: "Stia bono! Non si è ancora deciso niente! Aspetti! Io non ho ancora detto la mia!" Era il Padre Salvati, scolopio, che aveva parlato; un vecchio dai capelli candidi, dal volto rubizzo, dagli occhi vivaci. "Non si è ancora deciso niente!" ripeté. "Io, per esempio, per l'unione ci sto ma io vorrei una cosa e i discorsi che si son fatti me ne arieggiano un'altra. Progresso intellettuale, sta bene; rinnovamento delle formole della fede secondo vogliono i tempi, sta bene; riforma cattolica, benissimo! Io sto con Raffaello Lambruschini, che era un grand'omo; io sto con i Pensieri di un solitario ma per il signor professore Minucci il carattere della riforma mi pare che avrebbe a essere sopra tutto intellettuale e questo, scusate ..." Qui Dane alzò la sua bianca, piccola mano di dama. "Permetta, Padre" diss'egli. "Il mio caro amico Marinier vede che si ritorna a discutere. Io lo prego di rimettersi a sedere." L' Abate levò un poco le ciglia in su, mise un sospiro scettico e obbedì. Gli altri sedettero pure, soddisfatti. Non si fidavano della discrezione dell' Abate, sarebbe stato un grosso guaio ch'egli fosse partito ab irato . Il Padre Salvati riprese a parlare. Egli era contrario a che s'imprimesse al movimento riformista un carattere sopra tutto intellettuale, non tanto per il pericolo di Roma quanto per il pericolo di turbare nella loro fede semplice una quantità immensa di anime tranquille. Voleva che l' Unione si proponesse anzi tutto una grande opera morale, il richiamo dei credenti alla pratica della parola evangelica. Illuminare i cuori era secondo lui il primo dovere di uomini, che aspiravano a illuminare gl'intelletti. Evidentemente non importava tanto di trasformare secondo un ossequio razionale la fede cattolica nella Bibbia, quanto di rendere effettiva la fede cattolica nella parola di Cristo. Bisognava dimostrare che generalmente dai fedeli si onora Cristo con le labbra ma che il cuore del popolo è lontano da lui; dimostrare quanto posto sia lasciato agli egoismi da certe pietà fervorose che credono santificarsi ... Qui don Paolo e Minucci brontolarono: "Questo non c'entra." Il Salvati esclamò che c'entrava benissimo e che avessero la bontà di aspettare. Continuò a dire di un pervertimento generale nel concetto del dovere cristiano intorno alla ricerca e all'uso della ricchezza, pervertimento difficilissimo a raddrizzare perché indurato da secoli e secoli nelle coscienze cristiane con la piena complicità del clero. "Il tempo, signori" esclamò il vecchio frate "domanda un'azione francescana. Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si provvedesse all'azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!" "Ma come?" domandò Farè. Minucci brontolò seccato: "Non è questo." Selva sentiva disgregarsi le anime che si erano unite in un primo slancio. Sentiva che Dane, Minucci, probabilmente anche Farè, intendevano, com'egli stesso intendeva, iniziare un movimento intellettuale e che quella divampata francescana era venuta fuor di tempo e fuor di luogo. Era tanto più inopportuna quanto più calda di Verità viva. Perché molta Verità c'era senza dubbio nelle parole del Padre Salvati, egli lo riconosceva, egli che si era più volte dibattuto nel pensiero il dubbio se non convenisse promovere, per il bene della Chiesa un'azione piuttosto morale che intellettuale. Ma egli non sentiva in sé le attitudini all'apostolato francescano e non le vedeva negli amici suoi, neppure nel più ardente, Luigi Minucci, un solitario, un asceta schivo della folla come lui, Selva. Le ragioni del Salvati valevano a guastare e non a edificare. Giovanni sentiva segrete ironie andare al Marinier e anche al Dane, di cui si conoscevano i gusti poco francescani, il palato difficile, i nervi delicati, gli affetti dati a cagnolini e a pappagalli. Se si voleva riescire a qualche cosa, conveniva correre al riparo. "Mi perdoni" diss'egli "il carissimo Padre Salvati se io gli osservo che il suo discorso, tanto caldo di spirito cristiano, è intempestivo. Mi pare ch'egli consenta con noi nel desiderio di una riforma cattolica. Stasera non è davanti a noi che una proposta; quella di promuovere una specie di Lega fra quanti hanno lo stesso desiderio. Ora decidiamo questo!" Lo scolopio non si arrese. Non poteva comprendere una Lega inattiva, e un'azione secondo le idee degli intellettuali non gli piaceva. L' Abate ginevrino esclamò: "Je l'avais bien dit!" E si alzò per andarsene davvero, stavolta. Selva non lo permise, propose di sciogliere la seduta, pensando di richiamare l'indomani o più tardi il professore Dane, Minucci, di Leynì, Farè. Con Salvati non c'era niente a fare, ed era meglio lasciar partire Marinier dandogli a credere che tutto fosse andato a monte. Minucci indovinò il suo pensiero e tacque, l'inconsiderato don Paolo non capì nulla e strepitò che si doveva deliberare, votare subito. Selva, e per ossequio a Selva, di Leynì, lo fecero aspettare. Fremeva, però; fremeva contro lo svizzero, sopra tutto. Dane e don Clemente erano poco soddisfatti, quale per una ragione, quale per un'altra. Dane era molto irritato in cuor suo contro Marinier e si doleva di averlo portato con sé; don Clemente avrebbe voluto dire che le parole del Padre Salvati erano state molto belle e sante e non intempestive perché anzi era bene che ciascuno lavorasse giusta la vocazione propria, gl'intellettuali per una via, i francescani per un'altra. Colui che chiama provvederebbe a coordinare l'azione dei chiamati; le diverse vocazioni potevano benissimo stare insieme nella Lega. Avrebbe voluto dire così ma non fu pronto, lasciò passare il momento, anche per verecondia intellettuale, per paura di non dir bene, per un riguardo verso Selva, che desiderava evidentemente di troncare. E fu troncato, tutti si alzarono, uscirono sulla terrazzina, meno Dane e Giovanni. L' Abate Marinier intendeva recarsi l'indomani a Santa Scolastica e al Sacro Speco; poi, forse, ritornare a Roma per Olevano e Palestrina, una via nuova per lui. Chi gliela poteva indicare di lì? Gliela indicò don Clemente. Era la stessa che aveva percorso venendo da Subiaco. Passava lì sotto, valicava l' Aniene poco più a sinistra, sul ponte di S. Mauro, volgeva a destra, saliva verso i monti Affilani, là di fronte. L'aria veniva, odorata di boschi, dalla gola stretta ond'esce il fiume sonoro sotto i Conventi. Il cielo era coperto, salvo sul Francolano. Là sopra il gran monte nero tremolavano due stelle. Minucci le mostrò a di Leynì. "Guardi" diss'egli "quelle due stelline come sfavillano! Dante le direbbe le fiammelle di San Benedetto e di Santa Scolastica che sfavillano vedendo nell'ombra un'anima simile ad esse." "Voi parlate di Santi?" fece Marinier, accostandosi. "Io ho domandato poco fa se avete un Santo e vi ho augurato di possederne uno. Queste sono figure oratorie, perché so bene che non lo avete. Se lo aveste, il vostro Santo sarebbe subito ammonito dalla questura o spedito in China dalla Chiesa." "Ebbene?" rispose di Leynì "E se fosse ammonito?" "Se fosse ammonito oggi, sarebbe imprigionato domani." "Ebbene?" replicò il giovane. "E S. Paolo, signor Abate?" "Eh, mio caro, S. Paolo, S. Paolo ...!" Con questa reticenza l' Abate Marinier intendeva probabilmente dire che S. Paolo era S. Paolo. L'altro pensò invece che Marinier era Marinier. Don Clemente osservò che neppure tutti i Santi si potevano mandare in China. Perché non sarebbe laico il futuro Santo? "Questo lo credo" esclamò il Padre Salvati. Invece l'entusiasta don Faré si teneva certo che sarebbe Sommo Pontefice. L' Abate rise. "Idea semplice ed eccellente" diss'egli. "Ma io sento la carrozza che viene a pigliarci, Dane, me e chi vuol venire con noi a Subiaco; per cui vado a congedarmi dal signor Selva." Si chinò dal parapetto a cogliere una frondetta dell'olivo piantato nel terrazzo del piano inferiore. "Dovrò presentargli questo" disse. "E anche a Loro signori" soggiunse con un gesto grazioso, sorridendo. E uscì della terrazza. Si udì infatti, giù nella strada, il rumore di un legno a due cavalli che, venendo da Subiaco, girò lo scoglio sul quale la villetta è assisa e si fermò davanti al cancello. Pochi momenti dopo vennero nella terrazza Maria Selva e Dane col suo gran pastrano e il grandissimo cappello nero a cencio. Seguivano Giovanni e l' Abate. "Chi viene con noi?" disse Dane. Nessuno parlò. S'intesero, sul rumore fondo dell' Aniene, voci e passi che salivano dal cancello verso la villa. Minucci che stava sull'angolo di levante della terrazza, guardò e disse: "Signore. Due Signore." Maria trasalì. "Due Signore?" diss'ella. Balzò al parapetto, vide due figure chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane sorrise misteriosamente. "Potrebbero venire anche al secondo" diss'egli. Maria esclamò: "Lei sa qualche cosa!" e gridò abbasso: "Noemi! est-ce vous?" La voce limpida di Noemi rispose: "Oui, c'est nous!" Si udì un'altra voce femminile dirle forte: "Che bambina! Dovevi tacere!" Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a chiocciola. "Lei sapeva, professore Dane?" fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle, era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d' Arxel volevano fare una sorpresa, gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva, in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente, il dubbio che fosse lui l'amante scomparso di quella signora, la necessità di evitare un incontro che poteva essere terribile per l'una e per l'altro. Del colloquio fra sua moglie e il Padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di scendere. Quelle Signore si erano certo servite della carrozza che veniva a prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò, dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto. "Se Lei non vuole imbarazzarsi con Signore" diss'egli "venga subito con me che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto." Il Padre parve contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno salutare. "È anche tardi" diss'egli "Ho detto all' Abate, chiedendogli il permesso, che sarei ritornato alle nove e mezzo." Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall'altro capo con Maria e Noemi. Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch'è un'appendice della villa, voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l'atto di sua moglie, prontamente sussurrò al Padre: "Scenda diritto, subito!" Ma non valse. Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando: "Dove andate?" e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l'ortolano che lo attendeva nell'angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s'incontra col monte. Chiamò "Benedetto!" e si volse a Selva. "Se Lei volesse mostrargli il campicello?" Giovanni rispose: "A quest'ora?" mentre sua moglie diceva piano a Noemi: "C'è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino." Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero. "Perché?" disse. "Sono terribili?" E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l'intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla Vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: "che fai?" vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall'ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa. Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era sfuggito all'incontro. Selva, scioltosi dall'abbraccio di Noemi, stese la mano a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di Leynì, il Padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più dove l'aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando alle loro spalle, s'incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi: "Maria!" Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna, nell'angolo lasciato cinque minuti prima dall'ortolano di Santa Scolastica, ripeteva con voce debole: "niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso entriamo."Noemi, tutta palpitante, raccontò che l'amica si era sentita mancare a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di trarla fino a quel fascio di legna. "Andiamo, andiamo" ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò, sorretta dalle altre due, fino all'uscio della villa, sedette sullo scalino, aspettando un po' d'acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

Altre cose si dicono di Lei che non hanno a che fare, per questo stia tranquillo, col codice penale ma che non si accordano molto colla morale cattolica; e Le assicuro che sono abbastanza credute. Dico per dire; son cose che non mi riguardano affatto. Del resto la santità non è mai reale, è sempre, più o meno, una idealizzazione che lo specchio fa della immagine. Se c'è una santità è quella dello specchio, è quella della gente che crede ai Santi. Io non ci credo. Ma veniamo al serio. Le ho dovuto dire delle cose sgradevoli, La ho anche ferita; ora medicherò. Io non sono credente ma però apprezzo il principio religioso come elemento di ordine pubblico, e questo è poi il sentimento dei miei Superiori, è il sentimento del Governo. Perciò il Governo non può aver piacere che si faccia un processo scandaloso a qualcuno che presso il popolo passa per Santo; un processo che potrebbe poi anche provocare dei disordini. Ma c'è di più! Noi sappiamo che Lei è persona gradita al Papa il quale La vede spesso. Ora in alto non si ha nessuna voglia di recare dispiaceri personali al Papa. Si ha dunque la buona intenzione di evitargli questo, se possibile. E sarà possibile a una condizione. Qui in Roma Lei ha dei nemici attivi, non di parte nostra, sa! non di parte liberale!, che si preparano a rovinarla interamente; nella riputazione e in tutto. Se vuole che Le apra il mio pensiero, il mio pensiero è questo: dal punto di vista cattolico hanno ragione. Io modifico un poco, per mio uso e per loro uso, il motto famoso dei Gesuiti: "aut sint ut sunt" dico io "aut non erunt." Mi riferiscono che Lei è un cattolico largo. Ciò significa semplicemente che lei non è cattolico. Tiriamo via. I Suoi nemici L'hanno denunciata al Procuratore del Re. Per Verità noi dovremmo far arrestare dai carabinieri il signor Pietro Maironi condannato in contumacia dalla Corte d' Assise di Brescia per mancato servizio di giurato; ma questa è una bazzecola. Lei si figura di avere guarito della gente a Jenne ed è accusato non solamente di esercizio illegale della medicina ma persino di aver avvelenato un paziente, niente meno! Ora noi abbiamo i mezzi di salvarla. Noi faremo in modo che la denuncia si ponga a dormire. Ma se Lei resta in Roma i Suoi nemici di Roma faranno un rumore così grande che non ci potremo fingere sordi. Bisogna che Lei se ne vada lontano; e subito! Meglio se va fuori d' Italia. Vada in Francia, dove c'è carestia di santità. O almeno ... non ci ha una casa, Lei, sul lago di Lugano? Adesso vi sono delle suore, vero? Suore e Santi stanno benissimo insieme. Vada colle suore e lasci passare la burrasca." Il commendatore parlava serio serio, lento lento, coprendo lo scherno di flemma più insolente. Benedetto si alzò in piedi, risoluto e severo. "Io stavo" rispose "presso un infermo che aveva bisogno della medicina illegale mia. Mi si poteva lasciare al mio posto. Lei e il Governo sono i peggiori miei nemici se mi offrono di fuggire la giustizia. Lei faccia il Suo dovere di mandare i carabinieri ad arrestarmi per il mancato servizio di giurato. Io proverò poi che non potei ricevere la citazione. Il signor procuratore del Re faccia il dovere Suo di procedere contro di me per la denuncia di Jenne; mi si troverà sempre a villa Mayda. Lo dica ai Suoi Superiori. Dica loro che non mi moverò da Roma, che temo un Giudice solo e ch'essi pure lo temano nel loro doppio cuore, perché Egli sarà più terribile al doppio cuore che alla violenza sincera!" Il commendatore, impreparato a quel colpo, livido di veleno impotente, prorompeva già in parole di collera quando si udì il rumor sordo di una carrozza ch'entrava nell'atrio. Levò allora lo sguardo da Benedetto, stette in ascolto. Benedetto afferrò la spalliera della sua seggiola per levarsi quell'impaccio a voltar le spalle. L'altro si scosse, riacceso negli occhi dall'ira un momento sopita; gettò il giornale che aveva sempre tenuto in mano, batté il pugno sul tavolo, esclamando: "Che fa? Non si muova!" I due uomini si fissarono per alcuni secondi in silenzio, uno con autorità maestosa, l'altro bieco. Poi questi riprese, veemente: "Debbo farla arrestare qui?" Benedetto durò a fissarlo in silenzio. Quindi rispose: "Aspetto. Faccia." Un usciere, che aveva bussato più volte inutilmente, comparve sulla soglia, s'inchinò al commendatore senza dir parola. Il commendatore disse subito "vengo" e alzatosi frettolosamente uscì con una faccia strana dove la collera spariva e spuntava l'ossequio. L'usciere rientrò immediatamente, disse a Benedetto che aspettasse. Passò un quarto d'ora. Benedetto, tutto fremente, con il cuore in tumulto e la testa in fiamme, eccitato e spossato dalla febbre, era ricaduto sulla sua seggiola, turbinandogli dentro alla rinfusa i più diversi pensieri. - Dio gli perdoni a quest'uomo! - A tutti! - Che gioia se il Pontefice non permette la condanna di Selva! - La persona che non mi può scrivere, come sa? - E adesso perché mi fanno aspettare? - Cosa vogliono ancora da me? - Oh, con questa febbre, se non avessi a esser più padrone dei miei pensieri, delle mie parole! - Che terrore! - Dio, Dio, non lo permettete! - Ma che orride viltà sono nel mondo, che vergogna di fornicazioni occulte fra questa gente della Chiesa e dello Stato che si odia, che si disprezza! Come, come lo permetti, Signore? - Nessuno viene ancora! - La febbre! - Dio, Dio, fa che io resti padrone dei miei pensieri, delle mie parole. Dio Verità, il tuo servo è in potere de' suoi nemici congiurati, fa ch'egli Ti glorifichi anche nel fuoco ardente! - Quelle due persone pensano a me, adesso. Io non devo pensare a loro! - Esse non dormono, pensano a me. - Non sono ingrato, non sono ingrato, ma non devo pensare a loro! - Penserò a te, vecchio Santo del Vaticano, che dormi e non sai! - Ah quella scaletta non la farò più, quel dolce viso pieno di Spirito Santo non lo vedrò più! - Però, Dio sia lodato, non lo avrò visto invano. - Ma cosa faccio qui? - Perché non me ne vado? - Potrò poi andare? - Questa febbre! Si alzò, cercò di legger l'ora sur un occhio tondo di orologio biancheggiante nell'ombra. Mancavano cinque minuti alle undici. Fuori, il temporale continuava. La potenza degli elementi furibondi e la potenza del tempo che spingeva la piccola sfera sul quadrante, parevano amiche a Benedetto nel loro prevalere indifferente sulla potenza umana che aveva sede dov'egli era e lo teneva in sua balìa. Ma la febbre, la crescente febbre! Ardeva di sete. Se almeno avesse potuto aprire una finestra, tendere la bocca all'acqua del cielo! Un tocco di campanello elettrico, passi affrettati nell'anticamera, finalmente. Ecco il commendatore, in soprabito e cappello. Chiude l'uscio dietro a sé, raccoglie delle carte sul suo tavolo, dice a Benedetto con piglio sprezzante: "Stia attento. Lei ha tre giorni per lasciare Roma. Ha capito?" Non cura di aspettare risposta, preme un bottone. Entrato l'usciere, gli ordina: "Accompagnate!" Giunto colla sua guida sullo scalone, Benedetto, credendosi oramai libero di scendere, le chiese un po' d'acqua. "Acqua?" rispose l'usciere. "Non posso andarne a prendere, adesso. Sua Eccellenza aspetta. Favorisca qui." Lo fece entrare, con sua meraviglia, nell'ascensore. "Anzi le Loro Eccellenze" diss'egli; e mentre l'ascensore saliva al secondo piano, venne guardando Benedetto come si guarda qualcuno cui è fatto un grande onore e che non pare meritarlo. Giunti al secondo piano, i due attraversarono una grandissima sala semioscura. Da questa sala Benedetto venne fatto passare in una stanza illuminata così riccamente ch'egli ne provò fastidio e sofferenza, ne rimase quasi acciecato. Due uomini, seduti ai due angoli di un largo canapè, ve lo attendevano in attitudine diversa; il più giovine con le mani in tasca, una gamba a cavalcioni dell'altra, il capo rovesciato sulla spalliera; il più vecchio col busto piegato in avanti e le mani occupate in un continuo blando maneggio alterno della barba grigia. Il primo aveva una guardatura sarcastica; il secondo l'aveva scrutatrice, malinconica, buona. Questi, evidentemente il più autorevole dei due, invitò Benedetto a sedere sur una poltrona di fronte a lui. "Non creda, sa, caro signor Maironi" diss'egli con voce armoniosa e sonora ma rispondente in qualche modo alla malinconia dello sguardo, "non creda che noi siamo qui due artigli potenti dello Stato. Noi siamo qui in questo momento due individui di una specie rara, due uomini politici geniali che conoscono bene il loro mestiere e che lo disprezzano meglio. Siamo due grandi idealisti che sanno mentire idealmente bene colla gente che altro non merita e sanno adorare la Verità; due democratici, ma però adoratori di quella Verità recondita che non è stata mai toccata dalle mani sudicie del vecchio Demos." Detto così, l'uomo dalla barba grigia fluente riprese a farvi scorrere su le due mani a vicenda e strinse gli occhi scintillanti di un sorriso acuto, pago delle proprie parole, cercando la sorpresa sul viso di Benedetto. "Siamo poi anche credenti" riprese. Allora l'altro personaggio alzò, senza levar il capo dalla spalliera, le mani distese e disse quasi solennemente: "Piano." "Lascia, caro amico" ripigliò il primo senza volgersi all'amico. "Siamo ambedue credenti, però in modo diverso. Io credo in Dio con tutte le mie forze che sono molte e lo avrò sempre meco. Tu credi in Dio con tutte le tue debolezze che sono poche e non lo avrai che al tuo letto di morte." Altro sorriso acuto e pago, altra pausa. L'amico scosse il capo alzando le sopracciglia come per una udita corbelleria che meritasse pietà e non risposta. "Io poi" continuò la voce sonora e armoniosa "sono anche cristiano. Non cattolico ma cristiano. Anzi, come cristiano, sono anticattolico. Il mio cuore è cristiano e il mio cervello è protestante. Io vedo con gioia nel cattolicismo i segni, non dico della decrepitezza ma della putrefazione. La carità si va disfacendo nei cuori più schiettamente cattolici in una melma oscura tutta vermi di odio. Vedo il Cattolicismo fendersi da ogni parte e vedo spuntare per le fessure la vecchia idolatria cui si è sovrapposto. Le poche energie giovani, sane, vitali, che vi si manifestano, tendono tutte a separarsene. So che Lei è appunto un cattolico radicale, ch'è amico di un uomo veramente sano e forte che si dice cattolico ma ch'è giudicato eretico, però, dai cattolici puri; e lo è certamente. Mi hanno detto che Lei è scolare di questo nobile eretico, che fa una propaganda riformatrice e che in pari tempo cerca di agire sul Pontefice. Ora un grande riformatore lo aspetto anch'io ma dev'essere un antipapa; non un antipapa nel piccolo senso storico; un antipapa nel grande senso luterano della parola. "Curiosità ci punge di sapere" come Lei creda possibile ringiovanire questo povero vecchione di Papato che noi laici precediamo non soltanto nella conquista della civiltà ma nella scienza di Dio, anche, e persino nella scienza di Cristo; che ci anfana dietro a grande distanza e ogni tanto si pianta sulla via, restio come una bestia che fiuta il macello, e poi, quando è tirato ben forte, fa un salto avanti per tornarsi a piantare fermo fino a un altro strappo di fune. Ci dica il Suo concetto di una riforma cattolica. Sentiamo." Benedetto rimase silenzioso. "Parli" riprese il nume ignoto che pareva imperare in quel luogo. "Il mio amico non è Erode né io sono Pilato. Noi potremmo forse diventare due apostoli della Sua idea." L'amico stese ancora le due mani aperte, senza levar il capo dalla spalliera, disse ancora, però pigiando più forte sulla prima sillaba: "Piano." Benedetto tacque. "Mi pare, caro mio" disse l'amico voltando il capo, senz'alzarlo, verso il collega "che questo sarà il primo fiasco della tua eloquenza. Qui il modello del nihil respondit è preso molto sul serio." Benedetto trasalì, atterrito dal richiamo al Divino Maestro, dal dubbio di parerne un imitatore superbo. Cessò in quel momento di sentire il suo male, la febbre, la sete, la gravezza del capo. "Oh no" esclamò "adesso io rispondo! Lei dice che non è Pilato. Il vero è invece che io sono l'ultimo dei servi di Cristo perché gli sono stato infedele e che Lei mi ripete proprio la domanda di Pilato: - Quid est veritas? Ora Lei non è disposto a ricevere la Verità, come non vi era disposto Pilato." "Oh!" esclamò il suo interlocutore. "E perché?" L'amico rise rumorosamente. "Perché" rispose Benedetto "chi opera tenebre, le tenebre lo avvolgono e la luce non gli può arrivare. Lei opera tenebre. È facile di comprenderlo, Lei è il signor ministro dell' Interno, La conosco di fama. Lei non è nato per operare tenebre, vi è stata molta luce in certe opere Sue, vi è molta luce nella Sua anima, molta luce di Verità e di bontà; ma in questo momento Lei opera tenebre. Io sono questa notte qui perché Lei ha pattuito un mercato non confessabile. Lei dice di adorare la Verità, domanda a un fratello se possiede la Verità e tace che lo ha già venduto!" Mentre Benedetto parlava, l'amico del ministro, Eccellenza egli pure ma in sottordine, alzò finalmente il capo dalla spalliera del canapè. Parve che incominciasse soltanto allora a stimar degno di attenzione l'uomo e quello che diceva. Parve anche divertirsi della lezione toccata al principale del quale ammirava l'ingegno grandissimo ma derideva in cuor suo le velleità idealistiche. Il principale rimase, sulle prime, sbalordito; poi scattò in piedi, gridando come un ossesso: "Siete un mentitore! Siete un insolente! Non meritate la mia bontà! Non vi ho venduto, non valete niente, vi regalerò! Andate! Andate via!" Cercò il bottone del campanello elettrico e non trovandolo nella cecità della collera, gridò: "Usciere! Usciere!" Il sottosegretario di Stato, avvezzo a queste scenate ch'eran poi sempre fuochi di paglia perché il ministro aveva un cuore d'oro, se la rideva, in principio sotto i baffi. Ma quando lo udì chiamar l'usciere a quel modo, conoscendo bene le indiscrezioni degli uscieri e pensando i pettegolezzi pericolosi che potevano nascere di questo incidente, il ridicolo che ne sarebbe schizzato anche sopra di lui, trattenne risolutamente il ministro imponendogli, quasi, di chetarsi, e disse brusco a Benedetto: "Lei se ne vada." Il ministro si diede a camminare per la sala, muto, a capo basso, a passi frettolosi e brevi, male vincendo in sé il bambino che avrebbe voluto battere i piedi sul posto. Benedetto non ubbidì. Ritto e severo, radiante invisibili raggi di uno spirito dominatore, che tennero a distanza il sottosegretario di Stato, egli costrinse l'altro con questo potere magnetico a voltarsi verso di lui, a fermarsi, a guardarlo in faccia. "Signor ministro" diss'egli "io sto per uscire non solo da questo palazzo ma credo anche, fra non molto, da questo mondo. Non La rivedrò più, mi ascolti un'ultima volta. Ella non è ora disposto alla Verità, però la Verità è alle Sue porte, e verrà l'ora, e non è lontana perché la Sua Vita discende, che si farà notte sopra di Lei, sopra i Suoi poteri, i Suoi onori, le Sue ambizioni. Allora Ella udrà la Verità chiamare nella notte. Potrà rispondere - parti - e non la incontrerà più mai. Potrà rispondere - entra - e la vedrà comparire velata, spirante dolcezza dal velo. Ella non sa ora come risponderà, né io lo so, né alcuno al mondo. Si prepari colle opere buone a risponder bene. Qualunque sieno gli errori Suoi, vi è religiosità nel Suo spirito. Iddio Le ha dato molto potere nel mondo; lo adoperi per il bene. Lei ch'è nato cattolico dice di essere protestante. Forse Lei non conosce abbastanza il Cattolicismo per comprendere che il Protestantesimo si sfascia sopra il Cristo morto e che il Cattolicismo evolve per virtù del Cristo vivente. Ma io parlo adesso all'uomo di Stato, non certo per domandargli di proteggere la Chiesa cattolica che sarebbe una sventura, ma per dirgli che se lo Stato non ha ad essere né cattolico né protestante, non gli è però lecito d'ignorare Iddio e voi osate negarlo in più di una scuola vostra, di quelle che chiamate alte, in nome della libertà della scienza che voi confondete colla libertà del pensiero e della parola perché il pensiero e la parola sono liberi di negare Iddio ma la negazione di Dio non ha né può avere carattere di scienza e voi solo la scienza dovete insegnare. Voi conoscete bene la piccola politica che vi fa transigere in segreto con la vostra coscienza per avere celatamente un favore dal Vaticano, nel quale non credete; ma voi conoscete male la grande politica di mantenere l'autorità di Chi è il principio eterno di ogni giustizia. Voi lavorate a distruggerla ben peggio che con i professori atei; in fondo i professori atei hanno un piccolo potere; voi uomini politici che dite spesso di credere in Dio, voi ne distruggete l'autorità molto più che quei professori, con i mali esempî del vostro ateismo pratico. Voi che vi figurate di credere nel Dio di Cristo, siete in realtà profeti e sacerdoti degli dei falsi. Voi li servite come li servivano i principi idolatri ebrei, nei luoghi alti, in cospetto del popolo. Voi servite nei luoghi alti gli dei di tutte le cupidigie terrestri." "Bravo!" interruppe il ministro, conosciuto per la sua morigeratezza, per le virtù famigliari, per la noncuranza del danaro. "Mi divertite!" E soggiunse, vôlto all'amico: "Proprio non valeva la pena." "M'intenda bene!" riprese Benedetto. "Sì, anche Lei è uno di questi sacerdoti. Parlo io forse di gaudenti comuni? Parlo di Lei e di altri come Lei che si credono gente onesta perché non cacciano le mani nel danaro dello Stato, che si credono gente morale perché non si danno ai piaceri dei sensi. Vi dirò due cose. Intanto, voi adorate piaceri più perversi. Voi fate di voi stessi i vostri falsi dei, voi adorate il piacere di contemplarvi nel vostro potere, nei vostri onori, nell'ammirazione della gente. Ai vostri dei voi sacrificate colpevolmente molte vittime umane e la integrità del vostro stesso carattere. Fra voi vi è il patto che ciascuno rispetti il falso Dio del collega e ne aiuti il culto. I più puri di voi sono colpevoli almeno di questa complicità. Voi torcete lo sguardo da torbide congiure d'interessi vili, da non confessabili intrighi di sêtte che strisciano nell'ombra e li lasciate passare in silenzio. Voi vi credete incorrotti e corrompete! Voi distribuite regolarmente denaro pubblico a gente che vi vende la parola e l'onestà della coscienza. Voi disprezzate e nutrite questa infamia sotto di voi. È più empio comperare voti e lodi che venderne! I più corrotti siete voi! Secondo peccato, voi considerate il mentire una necessità della vostra condizione, voi mentite come bere acqua, mentite al popolo, mentite al Parlamento, mentite al Principe, mentite agli avversarî, mentite agli amici. Lo so, qualcuno di voi personalmente non pratica l'abituale mentire, solamente lo tollera nei colleghi, molti di voi prendono con ripugnanza quest'abito nell'entrare dove si governa, come entrando in una miniera si prende talvolta una veste sudicia che difende la nostra; e all'uscire lo depongono con gioia. Ma costoro che sono i migliori, si diranno essi buoni e fedeli servi della Verità? Voi credete in Dio e forse al vostro letto di morte pensate di avere maggiormente offeso Iddio come uomini politici con azioni di violenza contro la Chiesa nel nome dello Stato. No, non saranno state queste le vostre maggiori offese. Se vengono in Parlamento e dal Parlamento al Governo uomini che professino come filosofi di non conoscere Dio ma che insorgano nel nome della Verità contro quest'arbitraria tirannia della Menzogna, meglio serviranno Dio e saranno più grati a Dio di voi che credete in esso come in un idolo e non come nello Spirito di Verità, di voi che osate parlare di putrefazioni del Cattolicismo, puzzolenti di falsità come siete. Sì, puzzolenti! Voi fate tanto impura l'aria delle altezze, a rovescio di quello che sarebbe naturale, da rendere ben difficile di respirarla. Voi avete un cuore religioso, signor ministro; non rispondetemi che in questo palazzo non si può servire Iddio ..." "Sa Lei ..." esclamò con ira il ministro incrociando le braccia sul petto. Il sottosegretario di Stato stese graziosamente una mano verso di lui per arrestarne la parola sdegnosa. "Piano piano piano" diss'egli. "Permetti? Perché mi ci diverto." Il sottosegretario di Stato, piccolo, rotondetto, rispettoso della propria sottosegretarietà, simile a un uovo in possesso cosciente di un sacro pulcino, ben minore uomo del ministro e ben diverso da lui, non aveva affatto le curiosità intellettuali del Superiore e non era venuto che per compiacere al Superiore. Il Superiore, luminosa intelligenza, soleva fermare il proprio lume ora sull'una ora sull'altra delle persone che gli giravano attorno e crederli allora lucenti per loro virtù come forse penserà il sole degli astri che gli fanno la corte. Il sottosegretario di Stato rifletteva luce al ministro e il ministro rifletteva ammirazione al sottosegretario di Stato. Il ministro lo aveva desiderato a quel colloquio non comprendendo affatto che il piccolo Mercurio del suo sistema planetario, avendo risoluto da giovine di sciogliersi dal soprannaturale che gl'impediva i movimenti più spontanei della sua natura egoistica, si era preso per il soprannaturale dell'odio che gl'infermi concepiscono talvolta per la persona della quale sanno che ha fatto delle infermità loro un pronostico triste. Come questi infelici vogliono persuadersi che il profeta non merita fede e più la sua profezia si viene avverando, più s'irritano, più si struggono di abbattere quell'autorità minacciosa; così colui, più sentiva declinargli il vigor giovanile e perder credito i dogmi materialistici e folgorargli nel cuore di quando in quando certe apprensioni lancinanti di una Verità formidabile che poi venivano lentamente meno, più s'inveleniva nell'odio coperto d'ironica noncuranza. "Senta un po', caro Lei" diss'egli a Benedetto dopo essersi fatto largo nella conversazione con quella parola e quel gesto. "Lei parla molto di dei falsi e di dei veri. Io non so se il Suo sia falso o vero. Sarà vero ma è certamente irragionevole. Un Dio che ha creato il mondo come gli è piaciuto, in modo che deve andare come va, e poi viene a dirci che dobbiamo farlo andare in un modo diverso, eh senta, via! non è un Dio ragionevole! Lei si è permesso di vuotare un sacco di contumelie, un sacco di accuse agli uomini politici, che sono calunnie, specialmente se le vuole applicare a quel Signore lì e a me; ma io Le concedo che la politica, per forza, non è mestiere da Santi. Chi ha fatto il mondo non ha voluto che lo sia! Se la sbrighi con lui. Ebbene, bisogna pure che qualcuno lo faccia, quel mestiere lì. Adesso lo facciamo noi che se non siamo Santi, almeno Lei vede quanto pazientemente trattiamo con i Santi. E senta." Il sottosegretario guardò l'orologio. "Si fa tardi" diss'egli "e nelle vie di Roma, a ora tarda, la santità corre qualche pericolo. È meglio che Lei se ne vada." Stese la mano al campanello elettrico per chiamare l'usciere. "Signor ministro!" esclamò Benedetto con tal vigore di accento che il sottosegretario rimase immobile a braccio steso come colto da un colpo di gelo. "Lei teme per lo Stato, per la monarchia, per la libertà, i socialisti e gli anarchici; tema molto più i Suoi colleghi schernitori di Dio, perché i socialisti e gli anarchici sono febbre, gli schernitori di Dio sono cancrena! - Quanto a Lei" soggiunse vôlto al sottosegretario "Lei deride Uno che tace. Tema il suo silenzio!" Senza che né l'uno né l'altro dei due potenti dicesse una parola, facesse un gesto, Benedetto uscì della sala. Egli discese lo scalone vibrando tutto nel contraccolpo delle parole che gli erano scoppiate dal cuore e nel fuoco febbrile del sangue. Le gambe gli tremavano, gli mancavano sotto. Fu costretto due o tre volte di afferrarsi al parapetto e di sostare. Giunto all'ultima colonna, vi premette la fronte pulsante, cercando frescura. Se ne staccò subito, sentì ripugnanza della stessa pietra di quel palazzo come se fosse infetta di tradimento, complice del commercio vile che vi si era fatto, atrocemente vile, fra ministri di Cristo e ministri della Patria. Sedette sul penultimo gradino, non potendone più, senza guardare ai fanali accesi della carrozza che aspettava lì a due passi, senza dubbio la carrozza del ministro; non curando esser veduto. Respirò un poco, lo sdegno gli si venne quietando un poco, quietando in dolore, in desiderio di piangere sulle tristi cecità del mondo. E cominciò anche a sentirsi solo, amaramente solo. Unica lei, la donna del suo passato errore, aveva vegliato, aveva scoperto, aveva agito. Solo per lei gli era stato dato di far fronte al ministro sapendo quale linguaggio fosse da tenergli. Gli altri amici suoi, gli amici devoti alle sue idee religiose, avevano dormito e dormivano. Gli piacque l'acre pensiero che non si curassero più di lui. Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell'uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell'anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace. Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un'altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro. "No" diss'egli. Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé , coll'ordine di consegnarla al Signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il Signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l'ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po' d'acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione: "La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest'ora, non ne troverebbe." Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un'oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l'ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé . Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell' Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé , il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l'idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l'idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch'egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l'abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d'inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell'accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo. La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un'idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il Signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma "il Signore" volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant' Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l'ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis , giunse infine al cancello di villa Mayda. Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz'altro l'ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi. "Sarà per questa sola notte" diss'egli. Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell'entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l'annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà: "Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?" Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva. Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta! Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano: IN PACE. Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall'affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto. Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l'altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl'intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: "Allora, vederci, mai più?" Sorride nell'anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

Vi si attende molta salute alla Chiesa di Cristo dall'azione cattolica collettiva nel campo amministrativo e politico, azione di battaglia per la quale il Padre riceverà ingiuria dagli uomini, e non se ne attende abbastanza dalla luce delle opere buone di ciascun cristiano per la quale il Padre è glorificato. Supremo fine delle creature umane è glorificare il Padre. Ora gli uomini glorificano il Padre di coloro che hanno lo spirito di carità, di pace, di sapienza, di povertà, di purità, di fortezza, che adoperano per i fratelli le energie della Vita. Uno di questi giusti che professi e pratichi il Cattolicismo è profittevole alla gloria del Padre, di Cristo e della Chiesa più di molti Congressi, di molti Circoli, di molte vittorie elettorali cattoliche. "Ho inteso testé uno di voi mormorare: "e l'azione sociale?" L'azione sociale, amici miei, è sicuramente buona come opera di giustizia e di fraternità, ma, simili ai socialisti, certi cattolici la marchiano con il marchio delle loro opinioni religiose e politiche, rifiutano di accomunarvi gli uomini di buona volontà se non accettano quel marchio, respingono da sé il buon Samaritano e questo è abbominevole agli occhi di Dio. Improntano col marchio cattolico anche opere che sono strumenti di lucro e questo pure è abbominevole agli occhi di Dio. Predicano la giusta distribuzione della ricchezza ed è bene, ma troppo dimenticano di predicare insieme la povertà del cuore; e se lo ommettono deliberatamente per ragioni di opportunità, questo è abbominevole agli occhi di Dio. Purgate l'azione vostra di questi abbominii. Chiamate alle opere particolari di giustizia e di amore tutti gli uomini di buona volontà, contenti di esserne voi gli iniziatori. Predicate a ricchi e poveri, con la parola e con l'esempio, la povertà del cuore." L'uditorio ondeggiò confusamente, sospinto in parti diverse. Benedetto si raccolse un momento celando il viso fra le mani. "Voi mi avete domandato che fare?" diss'egli, scoprendo il viso. Pensò ancora un poco e riprese: "Io vedo nell'avvenire cattolici laici, zelatori di Cristo e della Verità, trovar modo di costituire unioni diverse dalle presenti. Si armeranno un giorno cavalieri dello Spirito Santo per l'associata difesa di Dio e della morale cristiana nel campo scientifico, artistico, civile, sociale, per l'associata difesa delle legittime libertà nel campo religioso, con certi particolari obblighi, non però di convivenza né di celibato, integrando l'ufficio del clero cattolico dal quale non avranno a dipendere come Ordine, ma solo come persone nella pratica individuale del Cattolicismo. Pregate che la volontà di Dio si manifesti circa quest' Opera nelle anime che la pensano; pregate ch'esse anime si spoglino lietamente della compiacenza di averla immaginata e della speranza di vederla compiuta, se Dio si rivela contrario ad essa. Se Dio si rivela favorevole, pregate che gli uomini la sappiano bene ordinare in ogni parte a gloria di Lui e a gloria della Chiesa. Amen." Egli aveva finito e nessuno si mosse. Tutti gli occhi lo fissavano, ansiosi, avidi di altre parole dopo le inattese ultime di tôno scuro e grande. Molti avrebbero voluto e non osarono rompere quel silenzio. Ma quando Benedetto si alzò e tutti gli si scostarono d'intorno a cerchio riverenti, si alzò pure il vecchio Signore dal viso rosso e dai capelli bianchi, e disse con voce rotta dalla emozione: "Ella riceverà oltraggi e battiture, sarà incoronato di spine e abbeverato di fiele, sarà deriso dai farisei e dai pagani, non vedrà l'avvenire che desidera, ma l'avvenire è per Lei, i discepoli dei discepoli suoi lo vedranno." Abbracciò Benedetto e lo baciò in fronte. Due o tre vicini batterono le mani timidamente, uno scroscio di applausi suonò nella sala. Benedetto, turbatissimo, accennò a un giovinetto biondo che lo aveva accompagnato, e questi corse a lui, proprio lucente in viso di commozione e di gioia. Qualcuno sussurrò: "Un discepolo." Altri soggiunse, piano: "Sì, e il prediletto." Il padrone di casa si prostrò, quasi, davanti a Benedetto con parole di ossequio e di gratitudine. Allora uno dei sacerdoti ardì pure farsi avanti, disse con voce commossa: "E per noi, Maestro, non avrà un consiglio?" "Non mi chiami Maestro" rispose Benedetto, tutto ancora turbato; "preghi luce a questi giovani, ai nostri Pastori e anche a me." Uscito ch'egli fu, si levò nella sala un crepitìo di voci vibrate, brevi e fioche, premendo ancora lo stupore sulle anime commosse. Poi la commozione scoppiò qua e là, forte, ruppe da ogni banda, urtandosi anche le ammirazioni fra loro nell'esaltare queste o quelle parole, queste o quelle idee del discorso, l'accento o lo sguardo dell'oratore, o lo spirito di santità diffuso nel suo volto, spirante anche dalla sua mano. Ma il padrone di casa congedò gli ospiti; con molte scuse, sì, con molte parole di cerimonia, ma con una fretta quasi scortese. Rimasto solo, aperse un uscio ch'era chiuso a chiave, s'inchinò dentro l'apertura. "Signore!" diss'egli. E spalancò l'uscio. Uno sciame di Signore irruppe nella sala vuota. Una signorina matura si slanciò addirittura verso il giovine, a mani giunte, esclamando: "Oh quanto Le siamo grate! Oh che Santo! Non so perché non siamo corse tutte fuori ad abbracciarlo!" "Cara" disse una signora con ironica flemma veneta, sorridendo nei due grandi belli occhi, "perché, fortunatamente per lui, l'uscio era chiuso a chiave." Erano dodici Signore. Il padrone di casa, professore Guarnacci, figlio dell'agente generale di una di queste, la marchesa Fermi, romana, le aveva raccontato della riunione che doveva tenersi in casa sua, del discorso che vi avrebbe pronunciato lo strano personaggio di cui si parlava già in Roma come di un agitatore religioso entusiasta e taumaturgo, popolare nel quartiere del Testaccio. La marchesa si era posta in capo di udirlo non veduta. Presi gli accordi col Guarnacci, aveva tratte nella congiura tre o quattro amiche e ciascuna di queste aveva ottenuto di aggregarsi delle appendici. Era una miscela curiosa, in vista. Molte avevano toilettes da società, due vestivano proprio come quacchere, una sola di nero. Le due quacchere, straniere, parevano impazzite dall'entusiasmo e fremevano contro la marchesa, una vecchia scettica, alquanto sarcastica, che diceva tranquillamente: "Sì, ha parlato bene ma però avrei voluto vedere la sua faccia mentre parlava." E dichiarando di saper giudicare gli uomini dalla faccia meglio che dalle parole, la vecchia marchesa rimproverò il Guarnacci di non aver praticato un buco nell'uscio o almeno levata la chiave dalla toppa. "Sei troppo Santo" diss'ella. "Non conosci le donne." Il Guarnacci rise, si scusò con l'ossequio dovuto alla padrona di suo Padre e affermò che Benedetto era bello come un angelo. Ma una giovine signora insipidetta, venuta, pensavano rabbiosamente le quacchere, Dio sa perché, uscì a dire quieta quieta che lo aveva veduto due volte e ch'era brutto. "Bisognerebbe conoscere la Sua idea di bellezza, signora" disse acremente una quacchera. E l'altra quacchera mise subito fuori, ma sottovoce per acuire la malignità espressamente, un velenoso: "Naturellement!" La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l'imbarazzo e il dispetto, ch'era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre dalla Insipidetta. " Eh! Sempre nel giardino di mia cognata" diss'ella. "Sempre nel giardino?" esclamò la marchesa. "È un angelo in piena terra o è un angelo in vaso?" La Insipidetta rise e le quacchere fulminarono la marchesa con gli occhi furiosi. Entrò il thè, compreso nell'invito del professore Guarnacci. "Bella discussione, eh?" disse piano la signora Albacina, moglie dell'onorevole Albacina, sottosegretario di Stato per l'Interno, all'orecchio della signora vestita di nero, che non aveva mai aperto bocca. Colei sorrise tristemente e non rispose. Il thè, servito dal professore e da una sua sorellina, ammorzò per un momento la conversazione che si riaccese sul discorso di Benedetto e diventò un guazzabuglio tale di ragionamenti senza ragione, di giudizi senza giudizio, di dottrine senza dottrina, che la signora silenziosa vestita di nero propose all' Albacina, con la quale era venuta, di andarsene. Ma in quel momento la marchesa Fermi, scovato un campanellino sopra una caminiera, si mise a scampanellare per ottenere silenzio. "Vorrei sapere di questo giardino" diss'ella. Le quacchere e la signorina matura, infervorate a discutere l'ortodossia cattolica di Benedetto, non avrebbero taciuto per dieci campanelli; ma la curiosità della signorina matura, all'udire la parola "giardino" scattò. Scattò fuori tutta intera. Altro che giardino! Il signor professore doveva raccontare tutto che sapeva di questo Padre Hecker italiano e laico. Un po' per sfoggio di cultura, un po' per avventatezza, ella aveva già battezzato Benedetto così. Allora la Insipidetta guardò l'orologio. La sua carrozza avrebbe dovuto trovarsi alla porta. La piccola Guarnacci disse che di carrozze ce n'erano già quattro o cinque. La Insipidetta voleva arrivare al Valle per il terzo atto della commedia. Due altre Signore avevano altri impegni e partirono con lei. La Fermi restò: "Fa presto, però, professore, " diss'ella, "perché stasera mia figlia ci aspetta, me e queste altre Signore di cui vedi le spalle." "Faccia prestissimo" disse, dispettosetta, la signorina matura. "Dopo parlerà per la povera gente che non mostra le spalle." Una forestiera bionda, molto scollata, bellissima, lanciò uno sguardo ineffabile allo povere coperte spallucce magre della dispettosa, che diventò rossa di rabbia come un gambero. "Allora" incominciò il professore "siccome la signora marchesa e forse anche le altre Signore che hanno fretta sanno già quanto so io del Santo di Jenne prima della sua partenza da Jenne, quello lo lascio. Io dunque un mese fa, in ottobre, neanche ricordavo di aver letto nei giornali, in giugno o in luglio, di questo Benedetto che predicava e faceva miracoli a Jenne, quando un giorno uscendo da S. Marcello m'incontrai in un tale Porretti che una volta scriveva nell'Osservatore e adesso non vi scrive più. Questo Porretti mi si accompagna, si parla della condanna dei libri di Giovanni Selva che si aspetta di giorno in giorno e, tra parentesi, non è ancora venuta, e Porretti mi dice che adesso in Roma c'è un amico di Selva, il quale farà parlare di sé più che lo stesso Selva. "Chi è?" faccio io. "II Santo di Jenne" dice. E mi racconta questo. L'uomo è stato cacciato da Jenne per opera di due preti, farisei terribili, che a Roma si conoscono. Si è rifugiato a Subiaco presso i Selva che villeggiano lì e si è ammalato gravemente. Guarito, è venuto a Roma circa alla metà di luglio. Il professore Mayda, amico del Selva anche lui, e che lo aveva conosciuto a Subiaco, lo prese per aiuto-giardiniere nella villa che si è fabbricata due anni sono sull' Aventino, sotto Sant' Anselmo. Il nuovo aiuto-giardiniere che si fa chiamare Benedetto e nient'altro, come a Jenne, è diventato presto popolare in tutto il quartiere del Testaccio. Divide il pane con pezzenti, assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l'imposizione delle mani e la preghiera. È divenuto tanto popolare che la nuora del professore Mayda, benché sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non è né praticante né credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l'altra. Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo da una mala femmina, ha fatto ritornare in Chiesa gente che non ci aveva più messo piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant' Anselmo. La sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe." La signorina matura esclamò: "Nelle catacombe?" E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: "Mon Dieu! Mon Dieu!" e un'altra voce, grave di stupore riverente: "Che senso!" "Ecco" riprese il giovine, sorridendo "Porretti ha detto "nelle catacombe" ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco anch'io." "Ah!" fece la signorina matura. "Lei lo conosce? Dov'è?" Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione. "Scusi, scusi!" disse, frettolosa. "Lo sapremo, lo sapremo" fece la marchesa. "Ma senti un po', figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?" "Stasera" rispose il professore Guarnacci "ne avrebbe veduto qui tre o quattro e sono andati via contentissimi." "Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella." E con quest'allegra profezia la marchesa se n'andò seguita da tutte le spalle scoperte. La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame mondano se ne fosse andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano? Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di Sant' Anselmo? E della Vita passata di quest'uomo si era venuti a sapere nulla? Il professore si schermì quanto poté, riferì solamente le parole di un Padre di Sant' Anselmo: "un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero la Città Santa." Ma quando, partite tutte le altre Signore, si trovò solo con l' Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome all' Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l' Albacina di presentarlo. L' Albacina non ci aveva pensato. "Il professore Guarnacci" diss'ella. "La signora Dessalle, mia buona amica." La "catacomba" era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento. Prima, le riunioni avevano luogo nell'alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch'era partita poc'anzi, alcuni giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo, qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo, ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per una elaborazione dell'interno elemento divino combinata con le reazioni dell'esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era severissimo nell'ammettere alle riunioni perché nessuno più di lui sapeva trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che istruisce e non turba. "La marchesa" continuò il professore "dice: sarà un eresiarca, i preti che lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c'è a temere di eresie né di scismi. Proprio nell'ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie, oltre ad essere condannabili per sé, sono funesti alla Chiesa non solamente perché le sottraggono anime, ma perché, anche, le sottraggono elementi di progresso, perché se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli errori loro perirebbero e quell'elemento di Verità, quell'elemento di bene che quasi sempre è unito, in qualche misura, all'errore, diventerebbe vitale nel corpo della Chiesa." L' Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata. "La profezia del torcibudella, no!" disse il professore, ridendo. "Queste cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un'altra volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma ch'erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perché la marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che quella gente abborre e siccome contro un laico non può far niente, così pare che si cerchi l'aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l'aiuto dei carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c'è niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da un ecclesiastico straniero che un'altra volta ha chiacchierato male ma stavolta ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un'azione penale." La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo. "Come è possibile?" diss'ella. "Signora mia," disse il professore "Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni intransigenti in tonaca. Gl'intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma ch'è importantissimo." II professore tacque un momento, assaporando l'acuta curiosità che aveva destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due dame. "L'altro giorno" riprese "il segretario del cardinale. ... un giovine prete tedesco, si recò a Sant' Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita Benedetto fu chiamato a Sant' Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande affetto e un grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch'era venuto a Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza, e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l'udienza. Questo fu raccontato a Giovanni Selva da un benedettino tedesco." "E quando ci va?" chiese l' Albacina. "Posdomani sera." Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che niente ne sarebbe trapelato senza l'indiscrezione di quel frate tedesco, e che gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L' Albacina domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore sorrise. Benedetto non se n'era aperto con nessuno e nessuno aveva osato interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva, pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all'Indice. "Sarebbe poco" disse l' Albacina, sottovoce;Jeanne ebbe un fremito di consenso. "Pochissimo!" esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso dire che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire che, secondo lui, di quell'argomento gli parlerebbe certo. L' Albacina non sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; né Selva né gli altri. "Io lo spiego!" disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che nessuno capiva. "Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?" Guarnacci sorrise di un sorriso fra l'ammirativo e l'ironico, rispose. Ah, la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne irritata con se stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L' Albacina voleva sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa. "Oh lui" rispose il professore "nel Papa non considera e non venera che l'ufficio. Almeno credo. Della persona non l'ho inteso parlare mai. Dell'ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa non si sa ancora cosa sia. Si dice che sia Santo, intelligente, malato e debole. Nell'accompagnare le Signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore uscì a dire sospirando: "Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme." L' Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi: "Oh poveretto! Di che soffre?" "Ma!" rispose il professore. "Di un male inguaribile, pare; conseguenza della tifoide ch'ebbe a Subiaco e sopra tutto della Vita disagiatissima che ha fatto, delle penitenze, dei digiuni." E continuarono la lunga discesa in silenzio. Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse né parlò. Poi mormorò: "Non ci si vede." Guarnacci non sapeva e non fece attenzione né a quel momento di silenzio né al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei, scusando sé del buio, accusandone l'avarizia del padrone di casa. Jeanne salì nella carrozza dell' Albacina che la portò al Grand Hôtel Nel tragitto l' Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all'amica. "Lei non è stata contenta del discorso?" diss'ella. Non conosceva affatto le idee religiose di Jeanne. "Sì" rispose questa. "Perché?" "Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?" L' Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere: "Le sono tanto grata!" La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta. "Nientemeno!" pensò l' Albacina. "Questa è una futura dama dello Spirito Santo." "Per conto mio" riprese ad alta voce "capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl'intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l'uomo m'ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo." "Io non desidero di vederlo" s'affrettò a dire Jeanne. "Davvero?" esclamò l'amica. "Ma come? Mi spieghi questo enigma." "Così. Non desidero." "Curiosa!" pensò l' Albacina. La carrozza si fermò davanti all'entrata del Grand Hôtel Nell'atrio Jeanne s'incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano. "Finalmente!" disse Noemi. "Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perché è venuto il medico." I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori di Roma prima dell'inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre giorni dopo l'arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si tappò in camera con il proposito di starci tutto l'inverno, volle il medico due volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell'irragionevole soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel Anche i Selva erano soggiogati dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non lasciar trasparire la commozione propria, gliel'aveva taciuto. Carlino l'accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente, capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di Benedetto. "Non ti sei vergognata" diss'egli "di star ad ascoltare alle porte?" E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte. "Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!" Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L'idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi. Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale. Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli spifferi, la tenne un quarto d'ora colla candela in mano a scrutar usci, finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire. Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire né a coricarsi. Spense la luce e sedette sul letto. Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l'idea balenatale nello scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le parole sinistre "si teme che non viva" aveva quasi smarriti i sensi. In carrozza con l' Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare e con l'una e con l'altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un balenar continuo, nel suo profondo, di quest'idea, di questa proposta offerta dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava in sé, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter tutto sacrificare all'amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda Verità. Gli strepiti delle carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò: "Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto questo." Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e scrisse: "A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre ... "Credo. "Jeanne Dessalle." Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne. Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne inconsciamente orgogliosa soverchiò, oppresse l'altra quasi senza lotta. Tutta amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce, accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie tenebre, senza freno.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 10 occorrenze

Io sarò il tuo mandatario, tratterò con i creditori, venderò quello che potrò, ma intanto che io mi occupo a salvarti abbastanza da vivere, tu devi prepararti al lavoro, alla nuova esistenza che t'impone la tua situazione. Ti senti la forza di rinunziare al lusso, di sparire per alcuni anni, di rompere tutti i rapporti con la gente che conosci, di divenire un altr'uomo? Tenterò, - rispose l'altro a occhi bassi, - e se questo sforzo sarà troppo duro per me ... . Che farai allora? Ricorrerò a quel rimedio infallibile, che tu non hai voluto che usassi stamane. Oh! non vi ricorrerai più! - esclamò Roberto in tono di sicurezza. - Io so che potenza di attrattiva ha il lavoro. Discaccia ogni pensiero che a lui non sia rivolto, e gli afflitti gli devono quelle pause al loro dolore che hanno sull'anima lo stesso effetto benefico che il sonno produce sui corpi stanchi. Ma per ottenere dal lavoro questo sollievo, bisogna amarlo profondamente, bisogna ricorrere a lui come all'amico più fido. Il lavoro mi salvò allorché dopo un anno di felicità assoluta io vidi morire la mia bella Maria nel mettere al mondo la nostra bambina. Se non volevo compromettere gli affari, bisognava lavorar subito e non concedermi il lusso di piangere. Al ritorno del camposanto mi mescolai di nuovo agli operai, sorvegliando i carichi, entrai nei magazzini e vedendo che ovunque v'era bisogno del mio consiglio e del mio ordine, perché la grande macchina camminasse, potei distrarmi, riprendere le consuetudini interrotte per pochi giorni, e il dolore mi diede ore di tregua e così potei vincerlo. Vedi, il lavoro tiene, nella vita di noi uomini moderni, il posto che avevano la religione e la fede in quella degli antichi: è il nostro conforto, la nostra àncora di salvezza, il nostro rifugio. Essi si rinchiudevano in un convento per meditare e pregare, preparandosi a una vita migliore, a una vita felice; noi, che poco speriamo, che non abbiamo la pazienza di attendere una consolazione lontana, ci gettiamo nel lavoro che ci distrae la mente e ci affatica il corpo. Stanchi, dormiamo, e così di ora in ora, di giorno in giorno il dolore viene ricacciato in fondo al cuore, dove rimane in una specie di letargo, finché un nuovo dolore non lo desta; ma almeno in quel periodo di sonno ci lascia tregua, ci da agio di prepararci alla nuova lotta, come certi rimedi che somministrano i medici, non perché abbiano virtù curativa, ma solo perché infondono all'organismo la forza necessaria per vincere la malattia. La fatica della mente e del corpo, la tensione dei nervi e dei muscoli, è la vera consolatrix afflictorum degli uomini d' oggigiorno ; fa che sia anche la tua. Ebbene lavorerò! - disse il duca d'Astura, - ma tu dovrai avere con me una pazienza da santo, perché non solo sono disadatto a qualsiasi occupazione, ma non ho neppure nel lavoro quella bella fede che ti anima, nè per il lavoro quell'amore che è la condizione prima per riuscire. Vieni dal mio avvocato subito; voglio farti una procura generale, e quello che salverai dal mio patrimonio, sarà tutto trovato. Nel mio studio troverai tutte le carte, il maestro di casa ti metterà al correlile degli affari. Credo che sia un ladro. - aggiunse Franco con un ironico sorriso, - perché mi hanno scritto molte lettere anonime in cui lo accusano di giocale alla Borsa, di mantenere una bellissima donna e di far vita dispendiosa col mio. Io non l' ho mandato via per tante ragioni, ma soprattutto perché mi trovava sempre le somme di cui avevo bisogno. Questa volta, però, mi ha detto che non poteva far nulla. Dunque è divenuto inutile e tu gli puoi chiedere i conti da oggi a domani, - aggiunge sorridendo. Il cinismo e l'indifferenza assoluta di Franco urtavano Roberto, ma egli voleva esser buono col fratello e soprattutto indulgente, voleva non accorgersi dei suoi difetti, che credeva frutto di una educazione sbagliata, e sperava, sorvegliandolo, guidandolo, di rigenerarlo. Come tutti i caratteri generosi, Roberto non si sgomentava degli ostacoli che offriva l'opera cui voleva dedicarsi; il fine lo seduceva anzi e sperava di vincerli, come aveva vinto il suo carattere violento, e come ora vinceva l'amore che voleva tiranneggiarlo. I due giovani stabilirono che Franco sarebbe partito la mattina dopo per Napoli e, giunto là, si sarebbe imbarcato poche ore più tardi per Palermo, Roberto rimaneva per licenziare la servitù, trattare con i creditori e sorvegliare l'avvocato, che aveva in mano tutte le fila intricatissime di quell' arruffata matassa. Poi avrebbe raggiunto il fratello a Selinunte. Dopo uno colazione che essi fecero in comune, andarono dall'avvocato per la procura generale, pranzarono insieme e durante tutto il giorno non fecero altro che parlare d'affari; e a mano a mano che Franco esponeva i ripieghi usati per aver denari, che enumerava le ipoteche messe da più creditori sullo stesso possesso, che diceva quali terreni aveva comprati, quante case erano in costruzione, quante sfittate, Roberto si faceva più serio, ma nessuna parola di biasimo gli usciva dalla bocca. Fidati a me, - gli disse la sera lasciandolo, - e sta pur sicuro che se vi sarà qualcosa da salvare, la salverò. Poi aprendo il portafoglio mise in mano al fratello un biglietto da mille lire per le spese del viaggio e promettendogli di andare la mattina seguente alla stazione, ritornò all'albergo. Non gli pareva vero di essere in camera sua, solo, e di poter scrivere all'assente, alla donna, cui viveva castamente vicino, amandola con passione, per prepararla all'arrivo del duca; ma tutte le commozioni di quella interminabile giornata lo avevano affranto e fece uno sforzo per prendere in mano la penna. Roberto Frangipani a Velleda Bianchi. Castelvetrano per Selinunte. Mia buona signora signoraLe mandai un telegramma appena sbarcato a Napoli e uno la sera del mio arrivo a Roma e ho avuto da lei due risposte brevi, ma esse sono state la mia sola consolazione da che sono qui. Maria dunque sta bene e domanda che io torni presto a lei, spera che la mia assenza sia breve. Come fanno bene queste parole affettuose a un cuore straziato come il mio! Le nascosi lo scopo del mio viaggio a Roma, perché speravo che le notizie che me lo avevano fatto imprendere tanto a malincuore fossero false; ma ora mancherei con lei di franchezza se non le dicessi tutto. In codesta solitudine; in mezzo al mio assiduo lavoro, mi pervenne la nuova della rovina di mio fratello, duca d'Astura. Le avevo parlato poco di questo fratello col quale non ho passato altro che la prima infanzia e non ho avuto nulla di comune nella giovinezza, e poi parlandogliene avrei dovuto rivelarle un dolore che mi ha sempre angustiato atrocemente. Ora che Franco sta per giungere costà e si rassegna a incominciare una nuova vita, conviene peraltro che io glielo faccia conoscere per impedire anche che egli possa avere una influenza perniciosa sul carattere di Maria. Mio padre era il fratello minore del duca d'Astura e lo stesso divario che corre fra Franco e me, sussisteva fra quei due fratelli. Lo zio Giovanni era un uomo che si drappeggiava con compiacenza nelle glorie passate della famiglia Frangipani, - era guelfo nell'anima e si vantava che l'ultimo degli Hohenstaufen fosse stato congegnato da essi a tradimento agli Angioini, - e credevasi un gran personaggio perché occupava diverse cariche alla Corte pontificia. Del suo valore personale non gl'importava nulla e parevagli cosa superflua, dal momento che all'annunzio del suo nome, accompagnato dal titolo, vedeva spalancare dinanzi a sé tutte le porte. Mio padre, invece, fino da giovane aveva dimostrato un grande amore allo studio, un desiderio vivo di essere il creatore di se stesso. Educato semplicemente, perché non era il primogenito e non poteva sperare in un vistoso patrimonio, seguì i corsi universitarj, s'addottorò in legge e non potendo esercitare a Roma, dove la sua famiglia era fra le prime, viaggiò molto creandosi numerosi amici ovunque. In uno di questi viaggi conobbe mia madre a Palermo. Ella era una Monteleone, di un ramo cadetto, e possedeva alcune terre fra Castelvetrano e il mare, che però non costituivano una ricchezza. Era molto bella, abbastanza colta, elegante, e mio padre se ne invaghì e la sposò. Non credo peraltro che la loro unione fosse felice, perché se rievoco la mia infanzia, vedo mio padre sempre solo nel suo studio, in mezzo ai libri, e la mamma circondata da molte signore e da molti amici, fra i quali non mancava mai il duca d'Astura, nè la moglie. Essi non avevano figli e Franco viveva più in casa loro che in casa nostra. Anzi, ricordo diverse dispute fra mio padre e mia madre per questo fatto, dispute che ella troncava dicendo che Franco era l'erede naturale delle ricchezze e dei titoli del duca e occorreva lasciarlo allo zio, dal momento che desiderava di vederselo crescere accanto. Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

Roberto capiva che Franco, frequentando la casa Purpura, gli nuoceva, ma altero com'era, non volle chiedergli nessun sacrifizio e lo lasciò continuare come prima; anzi, benché gli fosse stato detto che faceva perdite abbastanza considerevoli al giuoco, non gli mosse osservazioni, perché l'altro non potesse supporre gli fossero suggerite da interessi personali, e aspettò paziente che Franco avesse terminato i denari per vederlo rinuuziare al giuoco e a quella compagnia. Intanto era giunta a Selinunte la Trinacria con il resoconto della festa. La lunga corrispondenza, segnata con la matita rossa, era un po' agra, ma non acerba, e profondeva elogi alla bella signora, che aveva fatto con cortesia da vera castellana gli onori della villa agli elettori. Se Roberto fosse stato meno nuovo alle mene elettorali e agli intrighi giornalistici, avrebbe subito capito due cose: prima, che l'autore della corrispondenza si barcamenava per lasciargli campo di fare un' offerta e in quel caso avrebbe fatto seguire quella prima lettera da un'altra laudatoria; in secondo luogo, che gli elogi a Velleda potevano servire di appiglio, se l'offerta non si fosse verificata, a una seconda corrispondenza contenente attacchi sulla vita privata del candidato. "Velleda capì tutto, ma tacque. Ella non voleva amareggiare Roberto, ne disgustarlo fin da principio, della carriera politica. Ma non suppose mai che per combattere la candidatura di lui avrebbero gettato sopra una povera donna tanto fango. Ella aveva ancora un poca di fede nel sentimento cavalieresco degli uomini; ma nonostante, mille sinistri presentimenti l'agitavano. Scrisse un biglietto al Lo Carmine, pregandolo di andare alla villa, mentre Roberto era allo stabilimento, e gli mise sotto gli occhi la corrispondenza. Ritta dinanzi a lui e pallidissima, seguiva con l'occhio ansioso sul volto di quel buon amico l'effetto che producevagli la lettura, e nel vederlo gettar via il giornale con rabbia, esclamò; Dunque anche lei legge fra quelle linee una specie di ricatto! Sì, - rispose egli afflitto, ma risoluto. - Non crede che una volta entrati nella lotta, sia necessario usare delle stesse armi che usa l'avversario? Il ricatto è palese; l'autore della corrispondenza offre la sua penna : compriamola. Ma lei conosce il signor Roberto, egli non scenderà mai a patteggiare con un vile. Fortunatamente, - aggiunse Velleda, - egli non ha capito nulla; il suo pensiero rifugge da certe bassezze. Allora concludiamo il mercato a sua insaputa, propose il Lo Carmine. - Io stesso tratterò la compra di quella penna mercenaria. E io pagherò, - disse Velleda, - ma quante turpitudini s'incontrano appena si mette il piede sul terreno degli interessi! - esclamò ella con disgusto. Dica sul terreno della politica. Ho sognato sempre di veder rappresentare Castelvetrano dal signor Roberto, ma se avessi saputo che cos'è una elezione, avrei tenuto in petto quel desiderio. Ogni mèta si raggiunge difficilmente e per conquistarla si lasciano brandelli di carne viva agli sterpi della via, che s'inumidisce delle nostre lagrime. Avanti, amico, compia la sgradevole missione di trattare con un vile e dichiari che non è il signor Roberto il compratore di quella ignobile penna, ma un amico di lui, - disse Velleda e andò in camera tornando di lì a pochi momenti con un biglietto di mille lire in mano. Credo che il corrispondente della Trinacria non meriti neppure cento lire; ma se ne chiede mille, gliele dia. Appena il Bonaiuto si vide abbordare dai due sotto direttori degli scavi di Selinunte, capì di che cosa si trattava e si armò di tutti i cavilli per farsi pagar caro il silenzio; ma il Lo Carmine, nonostante che balbettasse, sbrigò presto l'affare e con trecento lire, sborsate li sul tamburo, ebbe da quell'oscuro corrispondente di un giornale quasi anonimo la promessa di non combattere Roberto Frangipani. Badate di esser leale, se no l'avrete da far con me i gli disse il Lo Carmine lasciandolo senza stringergli la mano. Questo avveniva verso le sette. Alle nove appena il Bonaiuto s'incontrava con Franco, il quale, invelenito dal disprezzo che gli dimostrava Velleda e dai trionfi del fratello, il cui nome era su tutte le boccile, non aveva altro che l'acre desiderio di colpirli entrambi. Ho letto la Trinacria, - gli disse subito; - è molto abile l'allusione alla gentile castellana, che faceva gli onori della casa di mio fratello. Il Bonaiuto rimase impacciato lì per lì e cercò di scusarsi. Quella signora mi aveva affascinato, - disse, - e scrivendo della festa vedevo sempre dinanzi agli occhi la dolce figurina. Era la nota più gentile della giornata. Mio fratello è veramente invidiabile, - rispose Franco. - Non a tutti gli uomini soli, che vivono ritirati dal mondo, e dato scegliersi una compagna come " Melusina. "Melusina!, ripetè il Bonaiuto, che aveva letto i romanzi di lei. Sì, " Melusina, " Velleda Bianchi o Crespi fa tutt'uno. La celebre scrittrice, la finissima artista è quella che rallegra la solitudine di Selinunte. Ma davvero! - disse il Bonaiuto. - Dopo che aveva rinunziato a scrivere, si diceva che si fosse rinchiusa in un convento. No, è proprio lei; l'affaseinatrice. Se non me lo assicurasse, signor duca, non lo crederei. E mio fratello è tanto più fortunato, - continuò Franco con un leggiero sibilo nella voce, - che non ha da temere le ire del marito: l'infelice è a Nisida, nella tetra isola, a scontare un reato infamante. Il Bonaiuto aveva in tasca le trecento lire, ma sperava di farne qualche migliaio con la vendita di quel segreto. In quel momento, peraltro, cercò di nascondere la propria cupidigia di danaro, sotto la meraviglia del neofito in letteratura, e baciava a ripetere le lodi di " Melusina " a vantare la sua mirabile eleganza di forma, la passione che sapeva far vibrare in ogni pagina dei suoi libri, i più forti, i più vitali che fossero stati scritti negli ultimi anni. Se me lo avesse detto domenica chi era la signora Velleda, - disse il Bonaiuto, - mi avrebbe reso felice. Io sono uno dei suoi più fervidi ammiratori. La signora non vuole che si sappia e lo avrebbe assai male accolto. Non credo, - rispose l'altro con una mossa fatua, la vanità è il lato debole degli artisti e delle scrittrici, specialmente. Ella mi ha tolto una grande soddisfazione, signor duca, e suo fratello è davvero invidiabile. Poco dopo Franco giocava insieme con l'Orlando e giocava male. Egli era in una di quelle condizioni d'animo in cui ci si compiace di far del male a tutti, anche a noi stessi per dare al nostro malcontento una cagione plausibile e non confessare quella recondita, che è spesso inconfessabile. L' Orlando si accorgeva del turbamento del duca, della distrazione con cui giocava, e per questo appunto puntava forte, teneva un banco altissimo per ispennacchiare più sicuramente quel merlo arrabbiato. E vi riuscì tanto bene, che Franco perde non più centinaia, ma migliala di lire. Egli notò sul taccuino la somma perduta, e molto tardi tornò a Selinunte senza fare una parola a nessuno. Il Bonaiuto, ritto dinanzi al tavolino del giuoco, aveva puntato per il banco e in pochi giri aveva triplicato la somma datagli dal Lo Carmine. Quando tutti i giocatori se ne furono andati, egli prese l'Orlando da parte e senza svettargli le rivelazioni fattegli da Franco, disse : Ora come devo comportarmi con la Trinacria? Manda domattina subito le tue dimissioni. Io in giornata proporrò un altro che potrà sostituirti. Tu hai avuto i danari e sta zitto fin dopo le elezioni. Al poi penseremo. Il Bonaiuto, nonostante che all'aspetto fosse un giovinetto noncurante e buontempone, sapeva calcolare come un genovese e disse : Io so tante cose che potrebbero togliere al Frangipani molti voti. E le tieni per te? - domandò l'Orlando fissandolo con occhi lampeggianti; poi accorgendosi dell'errore commesso, attenuò con un sorriso ironico l'espressione di gioia del suo volto e aggiunse : Ti conosco, amico; so che non sai tacer nulla e se una promessa t'impedisce di scrivere, tu ti lascerai sfuggir di bocca tutto ciò che sai e altri scriverà per tè. In ogni maniera tu mi servirai sempre. Questa volta no, - rispose; - non faccio più nulla a ufo e quello che so, vale molto. Certo mi sarebbe pagato carissimo il silenzio. Sentiamo: che cosa sai? - domandò in tono scherzevole l'Orlando. Nulla. Ah! ti metti a far ricatti con me? Non ho mai saputo che il silenzio fosse un ricatto! Si, un ricatto alla rovescia, quando non vuoi dire a un amico cosa da cui può trar profitto. Voi fingete di non capire, - disse il Bonaiuto prendendo un atteggiamento di sfida, - ma siete molto furbo e avete capito benissimo quello che intendo dire. Se mettete un prezzo alle mie parole, io scioglierò Io scilinguagnolo; altrimenti acqua in bocca e il mio silenzio sarà d'oro davvero. Chi sa poi se non è un'illusione la tua, disse l'onorevole. L'altro gli dette una guardata come per dire che illusioni non ne se faceva e non era capace di farsene, e si alzò per uscire. Un momento, - gli disse l'Orlando trattenendolo. Il Bonaiuto sorrise leggermente. Senti, - continuò l'altro, - spero che non avrai dimenticato che quel poco che sei, ti ho fatto io. Non ho la memoria così labile e in tutto quanto posso servirvi, contate pure su di me. Ma con gli anni crescono i bisogni ed io sto per prender moglie. Sono dunque in dovere di procurarmi risorse dove le trovo. È troppo giusto, - riprese l'Orlando in tono serio, non volendosi accorgerò che l'altro lo burlava. - Ma, dimmi, che prezzo metti al tuo silenzio? Secondo il compratore. Se il Frangipani mi facesse domandare che cosa voglio, gli chiederei ventimila lire ; con voi, non saprei mostrarmi così avido di danaro. E quanto vorresti; sentiamo? Tre mila lire. L'Orlando sorrise. Tremila sassolini. Ma che cosa ti sogni di essere? Un uomo che possiede un segreto; nuli' altro. Ma non è nel vostro interesse di disgustarmi; potrei passare, armi e bagaglio, al nemico. Quel nemico può comprare il tuo silenzio, ma sdegnerà sempre il tuo aiuto. È un uomo tutto d'un pezzo, saldo sulla sua base come quell'unica colonna del tempio, che rimane ancora eretta sulla spiaggia. Ma mi ha pagato! - disse il Bonaiuto. Giurerei che non è stato lui. Non è capace di patteggiare; è un uomo onesto al quale tu non sei degno di legar le scarpe. E voi? - domandò con fare altero il giovane. Io, io non so neppur quello che sono; le circostanze della vita mi hanno gettato nella politica e seguo la corrente, ma ciò non esclude che abbia un profondo rispetto per l'uomo che farò di tutto per distruggere come competitore. Sono sincero con te, siilo con me pure. L'altro esitava e l'Orlando riprese : Ragazzo, da me hai tutto da guadagnare; ma le tremila lire che esigi non le avrai mai. Piuttosto ti faccio una proposta; che cosa vuoi quando sarò deputato? Una piccola somma si finisce presto, specialmente quando si ha il vizio di giocare; un impiego resta, sentiamo, quali sono le tue ambizioni? Il Bonaiuto riflette un poco. - Ho la licenza tecnica, - disse, - vorrei un posto nell'amministrazione delle finanze. L'avrai, ma parla. I Buonaiuto narrò tutto quello che sapeva. - Pettegolezzi! - esclamò l'Orlando per deprezzare il valore del segreto comunicategli; ma in cuorsuo esultava. Il colpo, il gran colpo lo avrebbe fatto assai prima delle elezioni, e così egli sarebbe rimasto padrone del campo. L'avvocato scrisse tutta la notte, seduto comodamente sulla poltrona nel suo studio, pensando alla quarta medaglia d'oro che avrebbe aggiunto alle altre, mentre Franco, spinto sulla via del male, vegliava anche lui. Nel tornare a Selinunte contento della perfidia commessa, rivelando al Bonaiuto un segreto che riguardava Velleda, aveva trovato una lettera di donna Paola. L'innamoratissima signora scriveva spesso al duca ed era indulgente con lui anche quando non riceveva risposta. In quella lettera ella gli raccontava di essere stata a Vallombrosa un mese senza ottener nessun giovamento alla sua salute. Molti medici mi hanno visitata - continuava, - ma chi attribuisce il mio deperimento e la mia spossatezza a una malattia interna, che mi cagiona tutti questi disturbi nervosi, chi a una tisi lenta, ma progressiva. I primi non li ascolto, i secondi li accarezzo affinchè mi prescrivano di passar l'inverno in un paese senza venti freddi e senza geli, in un tepido paese come la Sicilia. Già il pensiero di un inverno nell' isola dove lei si è rifugiato, mi rende un barlume di vita e di energia. Ella, mio caro don Franco, molto probabilmente dunque riceverà fra un paio di mesi l'invito di recarsi a Palermo e mi allieterà, spero, quel soggiorno. Se il sogno si realizzerà, io sarò accompagnata soltanto da Lavinia e dalla mia cameriera, e non vorrò veder altri che lei. Non può credere quanti importuni disoccupati si mettano d'intorno a una malata. A Vallombrosa, per mia disgrazia, ho incontrato l'on. Gelsi, l'elegante sottosegretario al Ministero dell'Interno, che non mi lasciava un momento e ora, appena tornata a Roma, mi assedia di visite. E un uomo insulso che mi annoia, ma che debbo ricevere perché mio marito ha la fisima della deputazione e naturalmente vuole l'appoggio del Governo. Quando glielo avrò assicurato, chiamerò a raccolta i medici che mi credono etica e mi farò prescrivere l'aria di Palermo. Oh come sarò felice il giorno in cui partirò lasciando mio marito a consolare l'on. Gelsi! "Non le porterò, caro amico, un viso afflitto; la gioia della partenza e l'ineffabile piacere di posare il piede sulla terra siciliana faranno di me un'altra donna. Ella mi vedrà sorridere sempre, mi vedrà sempre in moto, allegra e attiva, mi vedrà molto diversa dal passato. Si sarà accorto che noi donne siamo tali quali vogliamo apparire e che la volontà di piacere rende belle anche le brutte. Io voglio essere per lei un' allegra compagna di escursioni, una amica lieta e così sarò, stia sicuro. A presto dunque. " Franco leggeva sbadatamente le lettere della marchesa e spesso le dimenticava appena lette. Non fu così di quella. L'accenno ai rapporti fra il sottosegretario agli Interni e la sua devota adoratrice, lo fecero a lungo riflettere. Le idee perverse, dopo sorta la prima, scaturivano nel suo cervello, come i funghi dalla terra dei boschi dopo le piogge autunnali. Sorgevano, tina accanto all'altra, e tutte nascondevano in se maggiore o minor dose di veleno. Roberto, Velleda, quei due nomi che gli venivano sempre uniti alla bocca, quelle due figure die vedeva sempre avvinte in un abbraccio d'amore, alimentavano i suoi malvagi sentimenti, non lo facevano l'idre dinanzi ad alcuna bassezza. Perché non avrebbe tratto partito dall'amicizia dell'onorevole Gelsi per donna Paola, a fine di ottenere che il Governo combattesse la candidatura di Roberto? Non esitò un istante e prese la penna : "All'amica devota nella sventura, alla cara e buona amica, posso fare una confidenza, " scriveva alla marchesa dopo alcune parole di compianto per lo stato di salute di lei ". Mio fratello, spinto da una ambizione che, certo, qualche malvagio deve avergli soffiato nell'ammo, s'è ingolfato nella politica e non pensa ad altro che a farsi eleggere a Castelvetrano, contro l'onorevole Orlando, amico del Ministero e antico deputato di qui. Dirle tutti i danni che questa elezione recherà a Roberto e a me, è inutile; li capirà da sé. Mio fratello è alla testa di un importantissimo stabilimento industriale e si era addossato la liquidazione del mio patrimonio. Una volta deputato trascurerà il primo e abbandonerà i miei affari. È dunque la rovina che ci aspetta. Inoltre, se sarà eletto, io dovrò sostituirlo qui e allora addio ai ridenti disegni per l'inverno, addio riunione vagheggiata a Palermo! Se lei, cara marchesa, ha veramente affetto per me e se desidera vedermi per più mesi nel suo salotto, usi di tutto il potere che ha sull'on. Gelsi per ottenere che il Governo appoggi la candidatura dell'Orlando. Tutti gli amici del Governo e dell'ordine lo applaudiranno, perché Roberto ha fatto un programma assolutamente sovversivo, per assicurarsi i voti del partito operaio. Io rimetto la mia, la nostra causa nelle sue mani che bacio lungamente con affetto. Il giorno dopo questa lettera partiva dalla posta di Ca. stelvetrano, nel medesimo sacco in cui erano quelle dell'Orlando e le dimissioni del Bonaiuto da corrispondente della Trinacria TrinacriaSe le lettere parlassero fra loro durante il viario esse avrebbero potuto fare un dialogo abbastanza animato.

-Resti in casa; è abbastanza ammalata, abbastanza scossa per dire che si sente male; non esca dalla sua camera. Così eviterà gl'insulti di quei traviati e le persecuzioni di Franco, al quale io le prometto di parlare richiamandolo al dovere. Sia il giornale che promette la mia biografia? Lasci che la stampi. Roberto conosce la sua vita; gli onesti la compiangeranno, ai disonesti non pensi, essi non sono capaci di apprezzare una vita come lausa. Oh! l'inutilità dei sacrifizi! - esclamò Velleda. Si asciughi le lagrime. Sento che mia moglie si avvicina insieme con Maria. Si calmi.

Il Torres e il Bonajuto, giunti in tempo, eran riusciti a collocarsi proprio di faccia a Roberto, nella tavola centrale; l'agente elettorale Marvuglia alla tavola a destra. ma anch'egli era abbastanza vicino al candidato per afferrare ogni parola di Roberto, il quale parlò poco e mangiò meno durante il pranzo. La notizia dello scioglimento del Consiglio Comunale, appresa poco prima, lo costringeva a modificare tutto il suo discorso. Che parli! Che parli! - urlavano da tutte le parti, specialmente gli avversarj. Roberto si alzò e disse: La mia prima parola è un grido di protesta. Il nostro partito, che è quello degli onesti, è indignato dell'arbitrio del Governo che scioglie il nostro Consiglio perché professa idee diverse da quelle della maggioranza. Sì, io protesto perché noi non siamo più liberi, perché una tirannia odiosa cerca di soffocare ogni manifestazione di libertà. Ma il Governo è mal consigliato dai suoi fidi, poiché questi atti d'arbitrio, di spudorata ingerenza nelle elezioni, generano sempre una reazione. È vero! - gridavasi da ogni parte. I partigiani dell'Orlando tacevano. Questa protesta, - continuò Roberto, - io la dovevo far qui, ma la farò con più efficacia, se mi crederete degno di rappresentarvi alla Camera; io la farò dinanzi ai rappresentanti della nazione. Bene! - gridavano i convitati che si erano alzati e formavano come una muraglia attorno alla tavola d'onore. E l'esempio corruttore del Governo è seguito dai suoi partigiani, i quali non rifuggono da nessuna bassezza per conquistare un seggio. In una casa del paese, il candidato della parte avversa lanciava contro di me accuse, che io mi sarei vergognato di raccogliere. Ma quelle accuse stampate, diffuse, commentate da chi aveva interesse di demolirmi hanno messo lo scompiglio fra i miei operai, hanno quasi provocato uno sciopero, e un vecchio innocente è caduto sotto il colpo di uno sciagurato, divenuto assassino credendo a quelle accuse. Basta! - gridò una voce e il Torres salendo sopra una sedia ripetè: - Basta! Non accusate un assente. Tutto quello che ha detto l'Orlando è verità. Menzogna! Calunnia! - gridarono cinquanta voci a un tempo. - Altro che menzogne! - continuò il Torres, nonostante il baccano. - Se non volesse licenziare gli operai non avrebbe comprato le macchine. Negate, se potete ; chi rovina i piccoli proprietarj? - L'Orlando rovina tutti e si fa eleggere per lucrare sul voto con ogni Ministero, - gridò don Calogero, che era salito sopra una tavola e si sbracciava. - E il Frangipani si fa eleggere per salvarsi dalla rovina, - gridava il Torres. L'uditorio scoppiò in una risata. - Sì ridete - seguitò il partigiano dell Orlando, se non fosse rovinato non lascerebbe che il fratello non pagasse neppure i debiti di giucco, - e agitava la dichiarazione del duca. -E' falso - E vero. Eppoi voi, buoni padri di famiglia, persone timorate, eleggete uno che tiene una donna maritata in casa, la moglie di un forzato, e non si vergogna di affidarle la figlia che é testimone dei loro amori. Propugnerà il divorzio per isposarla. - Basta! - urlarono tutti. Ma il Torres accennava , voler continuare e agitava la carta. Uno voi e straparla di mano, il Bonajuto accorse in difesa dell'amico volarono i bicchieri e i due partigiani dell' Orlando erano stretti e circondati da una cinquantina di forsennati, Roberto si fece largo, tolse i due disgraziati tutti malconci dalle mani di chi voleva finirli, e li spinse fuori del teatro Che cosa mi avete consigliato! - disse Roberto al Lo Carmine che lo aveva seguito. Il Marvuglia se n'era andato quando aveva veduto la faccenda farsi seria. Gli amici di Roberto, sicuri che fra loro vi era più nessuno di ostile, pregarono il candidato a riprendere l'interrotto discorso. E allora Loberto dette veramente prova di essere un uomo superiore poichè mentre il suo cuore sanguinava per le offese che un indegno aveva pronunziate contro Velleda, mentre fremeva di rabbia, riuscí a imporre alla sua mente di svolgere con chiarezza ammirabile un vasto programma di riforme sociali, un programma da uomo di Stato. I suoi amici ne rimasero sbalorditi e non rifinivano dall'applaudirlo; Roberto aveva misurato le sue forze ed era contento di sè, contento del dominio che sapeva esercitare sui proprj sentimenti. Quel discorso fu stampato nella notte e la mattina Roberto ne portava un esemplare a Velleda. Lo scioglimento del Consiglio Comunale era una sfida che anche i più indifferenti tra i cittadini di Castelvetrano avevano raccolta. Molti di essi, convertiti in agenti elettorali, percorrevano le vie di campagna, distribuendo il discorso del Frangipani, enumerando le persecuzioni cui era fatto segno, accaparrando voti nelle masserie, nei paesi del circondario, spingendo alla guerra contro l'Orlando, che era il rappresentante della tirannia ministeriale. A mezzogiorno, nonostante la diserzione degli operai, cui Roberto non aveva voluto fosse distribuito neppure un esemplare del discorso, il trionfo del candidato della opposizione era assicurato. Dopo tante lotte Roberto aveva bisogno di riposarsi presso Velleda, e quando la vide nel viale dei palmizj seduta sopra una poltrona, sorridergli da lontano, sentì svanire dal cuore tutti i dolori e provò una di quelle gioie intime, così intense, che mozzano il respiro. - Legga, - le disse, - ma più tardi quando io non sarò più al suo fianco. Ora mi narri come ha passato la serata e la notte, mi dica come si sente. - Bene, - rispose ella con un dolce sorriso. - Ora non desidero nulla, - e chiuse gli occhi come fanno i convalescenti, quasi avessero bisogno di riconcentrarsi per sentire il benessere che da la salute. - Io ho un progetto, Velleda,- disse Roberto. - Se sono battuto come se sono eletto a primo scrutinio, lunedì partiamo col " Selino ", andiamo a Palermo prima e poi a Sorrento. Viaggeremo per tre settimane circa, insieme con Maria, dimenticheremo le pene di questi ultimi tempi e vivremo soltanto per vivere. - E per amarci, - rispose ella interrompendolo. Lasci che la pronunzi la parola vera che esprime i nostri sentimenti. Ho veduto la morte in faccia e ho tanto sofferto credendo di dovermi separare da lei, che è per me una gioia immensa di affermare che vivo, affermando questo unico sentimento che mi domina. Questa malattia repentina mi ha reso più sincera e più cattiva. - Non è stata la malattia, sono state le cause di essa. - È vero forse. Ebbene, ora io sento la prepotente necessità di parlarle d'amore e le confesso che la speranza della mia vita è una speranza malvagia, ma naturale. Io spero che mio marito termini una inutile esistenza obbrobriosa nel bagno. - Velleda! - esclamò Roberto. - Non glielo ho detto che sono divenuta più cattiva, che sento i sacrifizj che questo legame m'impone, che anelo di vivere perché la morte mi ha sgomentata? - Cambiamo discorso, - disse Roberto, - e non culliamoci in speranze ingannatrici. Prepariamoci al viaggio che, in tutti i casi, sarà un sollievo dopo una sconfitta. - Mi prometta che il signor Franco non ci accompagnerà. - Glielo prometto, - rispose Roberto facendosi a un tratto triste; - anzi, debbo parlargli; torno subito. E senza dir altro lasciò Velleda, che aperto il foglio che aveva in grembo, si mise a leggere il discorso, accompagnando con un sorriso di gioia la lettura. Franco era ancora a letto quando Roberto salì nel quartiere di lui e sonnecchiava, come accadevagli di fare spesso in questi ultimi giorni, come chi vorrebbe ammazzare il tempo per non soffrire le torture dell'attesa. Costanza ogni giorno sapeva dirgli, mentre nessuno li ascoltava, che aveva ancor poco da attendere ed egli dormiva, affinchè le ore passassero senza sentirne la noia incresciosa. - Franco! - disse Roberto fermandosi sulla porta con tono di voce aspro. - Che cosa vuoi ?-Domandò l'altro aprendo gli occhi. Roberto si accostò al letto senza sedersi, senza stendere la mano al fratello. - È vero, - gli domandò; - che tu non hai pagato un debito di giuoco e hai firmato una obbligazione? Roberto parlava lentamente e teneva gli occhi fissi sbarrati in quelli del fratello per avere una risposta più sincera di quella che avrebbero potuto pronunziare le labbra. - Che te ne importai - rispose il duca col solito fare sprezzante per evitare di rispondere. - Hai un debito di giuoco? Hai rilasciato una obbligazione? - ripetè Roberto a denti stretti, fremente di rabbia. Franco si sentiva dominato da quello sguardo imperioso, sotto il quale doveva abbassare gli occhi e balbettò: - Tu mi tenevi senza un soldo! Per non sentire i tuoi rimproveri ho preferito non pagare altri che ricorrere a te. - Che ne hai fatto del vaglia bancario che rappresentava il piccolo patrimonio di una famiglia? - Non credo necessario di darti conto di quel che ne ho fatto; non potevo pagare. - A quanto ascende il tuo debito? Chi è il tuo creditore? - Il debito ascende a tre mila lire; il creditore è l'Orlando. - Ah! sciagurato! - esclamò Roberto. - Tu non sai forse quanto mi hai fatto soffrire! - E per non mostrare a quel pervertito, privo di senso morale, di delicatezza, tutto il disprezzo che gl'ispirava, traversò il quartiere e scese rapidamente le scale. Giù nello stabilimento era giorno di grande lavoro. Una tartana e un vapore attendevano il carico, le barche. andavano e venivano per prendere i fusti, gli operai li rotolavano sul piazzale, gl'impiegati di amministrazione riempivano bollette, la mercé usciva abbondante e i denari rientravano in gran copia. L'industria non aveva fruttato mai quanto negli ultimi mesi, le fatiche di Roberto non erano state mai cosi largamente ricompensate. - Che cosa fanno gli operai? - domandò il padrone al Varvaro. - Lavorano o discutono il vostro programma; molti, che erano divenuti propensi per l'Orlando, ora ritornano sotto la vostra bandiera. - Badate, Varvaro, non fate loro nessuna pressione! - Padrone, mi conoscete; io ho un alto ideale del rappresentante della nazione. Altri può farsi eleggere con i raggiri e con il danaro; voi dovete essere eletto per quello che valete, e valete molto. Il vostro programma è il frutto di una mente profonda e obbiettiva, di un cuore che impone silenzio ai proprj sentimenti, per accogliere i lamenti che il dolore strappa al cuore dell'umanità. Padrone, io sono altero di starvi a fianco. - Amico, vi è un'altra difficile missione da compiere. Dopo la scena di ieri sera, diviene anche delicata. Bisogna che andiate subito in città, e ricuperiate l'obbligazione di Franco all'Orlando. Ne siete informato? - Il Lo Carmine mi ha narrato tutto. Oh! quel signor Franco! Roberto stava per allontanarsi quando richiamò il Varvaro. - Sentite, - gli disse, - bisogna preveder tutto; è probabile che il losco avvocato si sia fatto fare la dichiarazione per una somma maggiore di quella di cui Franco gli è realmente debitore; cercate di saperlo da mio fratello, io non voglio interrogarlo. Inoltre è possibile che l'Orlando ci voglia fare un ricatto e non restituisca la carta altro che sborsando noi una somma ingente. In questo caso non vi curate di ritirarla. Gli affari di mio fratello sono ben divisi dai miei e chi ha per più milioni di vino nei magazzini e possiede terre senza ipoteche, può ridere di una inezia come quella. Poi con un tono d'amarezza soggiunse: - Sapete, amico, quando tornai da Roma ero tutto lieto di poter consegnare a mio fratello qualche migliaio di lire che avevo salvate a stento dalla rovina. Vedete quel che ne ha fatto? Sono tutte passate nelle mani dei nemici, ed è in grazia di quel debito di Franco che l'Orlando mi scatena a dosso tutti i diavoli e tutte le versiere. - Oh! quel signor Franco, scusate veh! non ha ne testa ne cuore; io lo credo un infelice, ma non mi fa compassione. Questo fu tutto ciò che il Varvaro si permise di dire rispetto al duca; ma se avesse lasciato parlare il cuore oh! quanto di più avrebbe aggiunto. Roberto, per andare nel magazzino del cognac, di cui sorvegliava specialmente la fabbricazione, perché voleva mettere sul mercato, dopo alcuni anni, un prodotto perfetto, passò per l'officina dei fusti, che era sempre il focolare di tutti gli scioperi. Alcuni operai, amici di Giovanni, per far dimenticare al padrone i fatti recenti, lo salutarono; altri gli chiesero il suo parere sui lavori da farsi; si vedeva in tutti una specie di pentimento, un desiderio di farsi perdonare, che consolava quel cuore amareggiato da tanta ingratitudine. Mentre dava alcune disposizioni, un guardiano andò ad avvertirlo che vi erano due carabinieri insieme con un uomo, che volevano parlargli. Quell'annunzio non lo turbò punto, poiché dopo l'uccisione di Federigo quelle visite erano frequenti e andò a riceverli nel suo studio. I carabinieri rimasero sul piazzale, l'uomo soltanto entrò. Era mal vestito, grosso, con una faccia accesa senza baffi, e i capelli rasi. Benché potesse avere appena quarant'anni, pure le sue guance erano flosce e cadenti e la mancanza di baffi e di capelli gli dava l'aspetto di un frate. - Che cosa volete? - gli domandò Roberto cui quella faccia ispirava una istintiva repulsione. - Sono l'avvocato Mario Crespi. Ella, tiene in casa sua mia moglie, Velleda Crespi, nata Bianchi, e io le ingiungo, in forza di una ordinane del presidente del tribunale di Castelvetrano, di restituirmela. Nel caso di rifiuto, mi farei assistere dalla forza. Roberto non tremò e non impallidì. - Ah! siete Mario Crespi, condannato a tre anni di reclusione! Credevo che non aveste ancora scontata la pena. Gli occhi dell'ex forzato si abbassarono sotto lo sguardo di Roberto. - Ho avuto la grazia sovrana, - rispose, - e voglio tornare a viver insieme con mia moglie, alla quale sono pronto a perdonare. - Voi non avete nulla da perdonarle, - disse Roberto, - rammentatevi bene di questo. E io credo che ella serbi un documento che vi toglie su di lei ogni diritto e di cui voi conoscete bene il contenuto. L'ex forzato non andava in collera. - Si vede che il signore è bene informato degli affari di mia moglie, - disse in tono ironico. - Ma fino a che non mi mostrerà quel documento, io ho diritto di far valere il mio, - aggiungeva, spiegando l'ordinanza del presidente. Aspettatemi, - disse Roberto indicandogli il piazzale, sul quale i carabinieri passeggiavano. Anche questa! - esclamò uscendo dalla parte verso il mare. - Ma chi è che mi perseguita così, chi è? e quello spettro misterioso dalle cento braccia malvagie che andava anche a togliere un forzato dal bagno, gli si presentò alla fantasia più spaventoso che mai. Giunse alla villa pallido e agitato, e non incontrando nessuno dovette bussare alla camera di Velleda. Maria, esci, - disse Roberto alla bambina, cui Velleda faceva ripetere una lezione. Che cosa succede? - domandò la signora leggendo in faccia a Roberto una agitazione insolita. Non si turbi per carità. Se avessi potuto nasconderle questa nuova infamia, risparmiarle questo nuovo dolore, avrei dato tutto ciò che possiedo, ma non posso. Mi dica, serba l'atto della separazione legale da suo marito? Sono carte che non si abbandonano; è li, - disse Velleda accennando un mobile. - Ma a che può servire? Il forzato è stato liberato da Nisida e reclama sua moglie, Dov'è? - domandò Velleda. - Voglio parlargli io, voglio sapere chi lo manda. Per carità, pensi alla recente malattia. Sono forte, - rispose ella, - e la vista di quel miserabile non mi può commuovere. Lo faccia chiamare. Velleda! No, voglio vederlo, - e scese per dar ordine a Saverio di chiamare l'individuo che attendeva allo stabilimento; poi risali in fretta; prese alcune carte e andò ad attendere nella biblioteca. Roberto le aveva rivolto un'ultima supplica, affinchè evitasse quell'incontro. No, mio buon signore, ho bisogno di sapere, di strappargli di bocca un nome; mi lasci con lui. Roberto entrava in una piccola stanza attigua, di cui lasciava socchiusa la porta, per accorrere in aiuto di Velleda; pochi istanti dopo, marito e moglie si trovavano di fronte. Che cosa volete? - domandò lei in tono imperioso. Ricondurti a Firenze e riprendere la vita comune. Sono libera, lo sapete; l'atto di separazione mi da facoltà di vivere dove voglio. Finché non lo produrrai, ha valore l'ordinanza del tribunale ed io la farò eseguire. Vieni con le buone, se no ti costringerò a seguirmi in mezzo ai carabinieri. L'atto è nelle mie mani, - rispose Velleda, e io lo mostrerò ai carabinieri, non a voi che sareste capace di lacerarlo. E possiedo altri documenti preziosi, con i quali posso farvi tornare in galera. Quali? - domandò egli turbato. Le cambiali false. Non sono più la donna ignara, la poetessa, la romanziera, come mi chiamavate, di cui s'inganna la buona fede, che si spoglia, cui si ruba la figlia per farla morire. Contro i delinquenti ci si premunisce. Le cambiali che faceste a mio nome, falsificando la firma, non sono state da me pagate alla cieca; sono passate per le mani dei giudici, si è fatta una perizia ed è stato riconosciuto che il falsificatore siete voi. Oggi, domani, potrei intentare l'azione penale; vedete che sono armata di tutto punto. L'ex-forzato taceva. Ma le lacererò in presenza vostra, se mi rivelerete il nome del vostro liberatore; di colui che vi manda qui. Il Re mi ha liberato, - rispose egli evasivamente. Il Re firma le grazie, ma qualcuno deve avere intercesso per voi, deve avervi detto che ero qui, nascosta, vergognandomi di un nome che avevate infamato. Chi vi manda, parlate! Ma le cambiali? Le straccerò appena avrete pronunziato quel nome; ma voglio quel nome, ditelo! Una luce sinistra le balenava negli occhi che in quel momento erano orribilmente stravolti. Ti rammenti del deputato Cesti, per il quale sostenni e vinsi un processo? - rispose l'ex forzato. Ebbene, nell' inverno gli scrissi perché impetrasse la mia grazia. Per più mesi non ebbi risposta. Quindici giorni fa ricevei una lettera in cui mi diceva che il decreto era stato spedito a Monza per sottoporlo alla firma sovrana e tre giorni fa giunse la grazia e una seconda lettera del Cesti con un sussidio. Egli mi diceva che se volevo l'indirizzo di mia moglie, partissi subito per Castelvetrano e mi dirigessi all'onorevole Orlando. Egli mi ha ottenuto l'ordinanza dei tribunale e ieri sera ... . Ieri sera ... . - ripetè Velleda ansiosa. Dovevano presentarmi a un banchetto elettorale, ma nacque un tafferuglio ... . Oh, la politica! - esclamò Velleda. - E voi, voi avreste detto chi sa quali -infamieNon ti curare di quello che avrei detto; dammi le cambiali. Ella se le cavò di tasca e gliele gittò in faccia insieme con un pacchetto di biglietti di banca, dicendogli: Questa è la mia elemosina, malfattore! - e gl'indico la porta. Nell'ingresso, seduti sopra una panca, i carabinieri attendevano. Velleda pose loro sotto gli occhi l'atto di separazione. Vedete che io posso vivere dove voglio, - disse loro quando ebbero letto. Poi accostandosi al marito gli susurrò nell'orecchio: Andate lontano e non turbate la mia esistenza, perché se le mie cambiali false sono distrutte, rimangono quelle di mia madre. Ah! Velleda, come ti avrei amata se tu fossi stata sempre così! - esclamò il Crespi avvolgendola con uno sguardo cupido. Ella gli volse sdegnosamente le spalle e corse da Roberto, che incontrò nella biblioteca. Quanto, quanto fango! - esclamò afferrandogli la mano e scoppiando in lagrime. Quando si fu un poco calmata volle narrargli la scena. Ho udito tutto, - disse Roberto, - e non credo l'Orlando abbastanza potente per mettere in moto un sottosegretario di Stato ... . Lei, mia povera amica, ha rinunziato ad armi potenti; ma noi siamo sempre dinanzi a quel mistero che nulla serve a svelare, e ogni giorno ci sentiamo colpiti da qualche lato. Velleda rialzò la testa e mostro gli occhi ancora umidi di pianto, ma sorridenti. Sono lieta, vede, perché godo di aver riveduto mio marito in quello stato e di avergli gettato in faccia la mia elemosina. Sono cattiva davvero! Roberto non credeva in quel mutamento di carattere e attribuiva tutto alla malattia recente, all'eccitamento nervoso che perdurava, e ognuna di quelle manifestazioni di risentimento e d'odio lo facevano tremare per la salute della sua cara. Sì, sono perfida con tutti, meno che con lei, con tè, gli disse accostandogli la bocca al viso e sollevando su di lui uno sguardo pieno d'amore. Roberto la baciò sulle labbra e le loro bocche rimasero un momento unite. - Sai; - diss'ella senza scostare il volto, - il mondo non merita che noi c'imponiamo sacrifizj, e quel vile, cui hanno certo detto che ti amo, non merita nulla. Roberto, io voglio esser tua, voglio darti la gioia, voglio; capisci! Il passo di Maria nell'anticamera li fece sussultare. Quando la bambina entrò erano già distanti, ma tremavano come due colpevoli. Vede. Velleda, - disse Roberto, - che v'e qualcosa superiore al mondo e alla condiscendenza di un vile, qualcosa che deve imporci l'antico riserbo? Babbo, che vuoi dire? - domandò la bambina. Velleda l'attirò a sé dicendole : Tuo padre intende dire che l'affetto per te deve essere superiore a tutto. Un giorno forse capirai che cosa significano queste parole che ti sembrano oscure.

Non le pare di avermi torturato abbastanza? Ora, voglio anch'io la mia parte e l'avrò. Velleda non rispose. Maria era tornata in sala portando i suoi quaderni di tedesco, e Franco fece alla signora un saluto molto cerimonioso e uscì, tirandosi i baffi. Era quello un segno di grande collera in lui. Fortuna che le sue collere non erano frequenti, altrimenti il duca sarebbe rimasto sbarbato. Scendeva le scale lentamente e quando giunse in fondo vide Costanza seduta sul parapetto marmoreo della fontana disseccata. Ella si gingillava coi nastri di velluto e sul volto contratto le si leggeva uno strazio terribile che in quel momento non si curava di celare. Gli occhi di Costanza s'incontrarono in quelli del duca, che erano così fissi e immobili come l'acqua insidiosa dei laghi montani. Costanza non gli disse una parola, ma gli fece cenno di seguirla e traversata la sala da pranzo, lo condusse in una serra fredda, piena di mi odore soffocante di gardenie e di tuberose. Quella perfida ha stregato anche lei - gli disse brevemente. - L'ho veduto l'altro giorno in mare, è inutile che neghi. Vorrei levarmi il gusto di umiliarla. Non è questo, - disse la donna, - la desidera, ma non sa volere, se no a questura ... . Aiutami tu, Costanza e, vedi, ti regalerò quello die vuoi. Non ho mai preso danari per compiere una vendetta; - rispose alteramente. - Se la umiliasse davvero, la facesse cacciar di qui, sarei troppo felice e non avrei bisogno d'altre ricompense. Perché l'altro giorno non la sollevò nella barca? Chi vuole, non rifugge da nulla. Non vedevi come si difendeva? Sì, ma un uomo deve aver più forza di una donna se no non è un uomo. Ora è inutile qualunque tentativo, - disse Franco. È vero; ma sappia aspettare, figuri di aver rinunziato a lei e quando il padrone partirà, faccia un colpo sicuro. Sei un demonio, Costanza, - disse il duca dopo una pausa, - ma tu mi aiuterai? Con tutto il cuore e con tutte le forze. L'infame patto fu suggellato da quei due con uno sguardo soltanto. Da quel momanto Velleda non soffri più tormenti; Franco pareva che l'evitasse e avesse preso il suo partito. Spesso nel dopopranzo faceva sellare i cavalli e andava a Castelvetrano seguito da uno staffiere, visitava i Moltedo, stringeva amicizie con gli sfaccendati del caffè e della farmacia e Roberto credeva che egli si cominciasse ad assuefare alla vita di provincia. Del resto, in quei giorni Roberto e Velleda facevano poca attenzione al duca. La signora si era offerta di far da segretaria e senza trascurare le lezioni di Maria; ne le passeggiate, trovava tempo di rispondere alle molte lettere che Roberto riceveva, stando lungamente levata di notte. Non avevano nulla sacrificato delle loro occupazioni e la sera leggevano lo stesso; soltanto invece di scegliere libri di letteratura o d'arte, Velleda aveva cavato dalla biblioteca molte opere del Bianchi, del Ghiaia e del Minghetti, su Cavour e il parlamentarismo in Italia, e da quelle ella raccoglieva la narrazione delle più memorabili sedute, i discorsi più importanti, ed iniziava Roberto alla nuova vita che stava per intraprendere. Una sera, prima che Velleda si ponesse alla lettura, egli commosso le disse: Velleda, io sono troppo felice e non so come a me appunto sia toccata la fortuna di averla a compagna. Fin qui mi era sempre parso oscuro il significato di quelle parole: " intelletto d'amore " inventate da un poeta e usate tanto in questi ultimi anni. Ella me Io spiega, traduce in opera quelle parole, ogni giorno si trasforma a seconda delle esigenze della vita, mi spiana la via sempre; che cosa posso fare per dimostrarle l'ammirazione che m'ispira, la gratitudine che provo? Volermi bene! L'affetto trova la sua ricompensa soltanto nell' affetto; ma non parli di gratitudine, mio buon signore: sono sempre io l'obbligata, sono sempre io che ho ricevuto maggior copia di doni. Lei era tranquillo, se non felice, poteva, anche prima di conoscermi, estrinsecare la sua bella attività, io, io ero invece una disgraziata, una donna che i pregiudizi sociali rendevano responsabile delle colpe dell'uomo cui era legata, non avevo più famiglia, più legami, dovevo rinunziare anche al lavoro per non portare un nome infame, e lei mi ha accolta, mi ha trattata come un'amica, mi ha voluto bene. Non le pare che sia io, io che ho ricevuto la parte più grande di benefizj? - Velleda, - disse Roberto fissandola, - ella lavora non solo per farmi eleggere, ma mi prepara anche alla vita parlamentare; non ha pensato che i doveri di questa nuova vita ci terranno divisi? Senza esporla a basse calunnie, io non la potrei condurre a Roma; qui viviamo fra amici fidata i quali apprezzano le sue virtù e non giudicano con i meschini criterj della gente di città; ma a Roma ognuno vorrebbe frugare nel suo passato e ogni persona che ella avvicinerebbe, atteggerei besi a inquisitore dei nostri rapporti: non potrà dunque seguirmi. Lo so, - rispose Velleda, - ho calcolato tutto prima di consigliarla, ma al disopra delle considerazioni egoistiche che può fare il mio cuore, ve n' è un' altra prevalente. Costretta a sparire dal mondo, a far dimenticare un nome che avevo sognato di rendere glorioso, ho riportato su di lei tutte le mie aspirazioni, tutte le mie ambizioni, e voglio che quella gloria che io non ho potuto conquistare, la conquisti lei in un altro campo e me la offra in segreto; è un sogno irrealizzabile forse? Ella fece questa domanda abbassando la testa, soffusa di una luce interna. Roberto curvò il capo sulle mani di lei, che erano posate sulla tavola e vi tenne lungamente incollate le labbra. - Se le forze mi basteranno, se lei non presume troppo di me, io le dedicherò tutta tutta la gloria che potrò acquistare; come le ho dedicato l'anima mia. Vede; Velleda, lei può fare di me tutto quello che vuole. Io non ho mai capito come ora la legge della suggestione; se mi dicesse di camminare alla morte, ci andrei sorridendo. Io non ho più volontà che la sua e mi compiaccio di non averne. Che dolce sentimento è questa dedizione completa, questa fiducia intera in un'altra persona che è in noi e fuori di noi. È l'unione vera, continua, cui il cuore può dare la durata che non hanno le unioni materiali. Velleda troncò la parola a Roberto temendo un momento di debolezza e prese a dipingergli la vita che avrebbero fatto divisi. Egli doveva passare a Roma molto tempo; specialmente il primo anno, lavorare negli uffici, prendere la parola in ogni questione sociale, esser sempre sulla breccia con la minoranza, imporsi con la eloquenza vera e con la serietà dei suoi intendimenti. Ella avrebbe ripreso a scrivere, per occupare le lunghe sere invernali, ma non più romanzi. Aveva in mente un'opera più utile, che avrebbe firmato " Una donna ", un libro destinato agli operai, in cui voleva mettere tutto il suo cuore di donna per educarli ai nuovi diritti acquistati e da acquistarsi e innamorarli degli antichi doveri. Nessuno avrebbe mai saputo che ella ne era l'autrice; Roberto doveva trovarle a Roma un editore ed ella ne voleva pagare la stampa con le sue economie e farla distribuire in tutti i centri di lavoro. Sperava con quell'opera di trattenere la rivoluzione delle classi, che aspirano al primato, avviandole a una conquista pacifica. Cosi mi farò sua cooperatrice, - diceva, - e nella tarda vecchiaia tutti e due potremo guardare dietro a noi paghi di avere speso utilmente la vita sotto l'egida di un affetto che sarà stato la nostra guida. Quella sera non lesserò più, non parlarono più. La parola non bastava a esprimere quello che sentivano, e l'eco del sogno di Velleda vibrava nei loro cuori come il ricordo di una musica divina. Ella aveva preso il lavoro e i fiori sbocciavano sotto le sue dita in una deliziosa armonia di tinte, e Roberto, con le mani abbandonate sui braccioli del seggiolone, l'avvolgeva in uno sguardo innamorato, mentre il mare accompagnava i loro pensieri con un lieve rumore ritmico, che aveva la soavità di una carezza. Quello stesso rumore accompagnava la veglia di Franco Il duca era tornato tardi da Castelvetrano, dopo aver passato la sera a giuocare in casa di un proprietario del paese, il Purpura, insieme con l'onorevole Orlando e altri. Anche in quella piccola città il giuoco era in gran voga e il Purpura passava per sapere abilmente spennacchiare gl' impiegati e gli ufficiali. Naturalmente appena aveva conosciuto Franco in farmacia, aveva indovinato che il duca doveva essere uno di quelli che giocano forte ed era riuscito ad attrarlo in casa sua. In poche sere Franco aveva perduto diverse migliaia di lire senza pensare al poi, volendo solo ammazzare il tempo e addormentare i sospetti di Velleda. Don Ciccio Purpura, che era il grande elettore dell'Orlando, aveva chiamato a raccolta tutti i più forti giocatori del paese, per offrire al duca competitori degni di lui. Il deputato, che aveva un debole per il giuoco; era accordo, trovandosi in quel momento a Castelvetrano per preparare le elezioni. Conosceva Franco dì vista, per essere stato a Roma molto tempo, ed era curioso di avvicinare questo principe dell' eleganza, che s'era rovinato come tanti altri. Invece di chiamarlo don Franco, come tutti lo chiamavano; gli dette subito il titolo che gli spettava e ciò lo rese simpatico al giovane signore, il quale si sentiva ferir l'orecchio ogni volta che lo chiamavano altrimenti. Poi gli parlò della capitale; di alcuni deputati del patriziato romano, gli raccontò dei pettegolezzi sui legami di questi con certe donnine galanti, e a Franco parve di sentirsi rivivificare da quel soffio di aria che veniva di là, dove aveva vissuto e dove avrebbe voluto sempre vivere. Era un ometto molto bruno, molto vicace quello Orlando; il vero tipo dell'avvocato presuntuoso, assuefatto a farsi ascoltare, a strappar l'approvazione all'uditorio. Uomo senza scrupoli, era devoto a chi saliva, senza voltar le spalle a chi scendeva. Alla Camera, era sempre nelle file della maggioranza, ora come affigliato, ora come alleato, ma il suo nome figurava immancabilmente nella lunga lista di quelli che votano per il sì Egli si faceva perdonare la devozione per i ministri in carica con l'entusiasmo che poneva nel parlarne, con la fede che pareva riponesse in loro. Ma quell' entusiasmo che gli si vedeva brillare negli occhi nerissimi, lampeggianti, dietro gli occhiali leggermente colorati di turchino, era una spuma tutta superficiale, che svaniva subito e non aveva sede nella coscienza di quell' avvocato, buon vivente, libertino; avido di danaro e di quelle soddifazioni d'amor proprio che da la carica di deputato, di uomo influente. Quell'avvocato volgarissimo, di poca cultura, ma accorto e subdolo, sotto apparenze franche, aveva una certa vernice di uomo di mondo, di uomo elegante e raffinato, e si faceva distinguere fra gente semplice e alla carlona. Egli portava sempre una camicia candida, si vestiva a Roma dal sarto dei patrizj, conosceva tutti e parlava anche di quelli che non conosceva, come se fossero suoi amici. Quando era alla capitale pranzava ogni sera con un gruppo di deputati siciliani al Caffè di Roma, dove si conoscono tutti i pettegolezzi del mondo politico e dove si tramano tante cospirazioni parlamentari. Da tre legislazioni sedeva alla Camera e portava con molta ostentazione le tre medaglie attaccate a una catena appariscente. Agli occhi dei suoi elettori e di qualche de putato poteva passare per un uomo di maniere eleganti e di gusti fini, a quelli di Franco no. Egli indovinò subito che quell' onorevole era un villano rifatto, ma in tanta scarsezza di persone da frequentare, non avendo da scegliere, si mostrò deferente per l'Orlando, il quale affettava di fronte a lui le stesse maniere che usava con i ministri scesi dal potere: maniere umili, inchinevoli, omaggio a un infortunio immeritato, a una grandezza decaduta, che poteva e doveva assurgere a nuovo splendore e a nuova potenza. L'avvocato non parlò a Franco del processo d'Alessio e neppure della candidatura del fratello, che aveva fatto una rivoluzione in paese; evitò d'intrattenerlo di cose noiose, atteggiandosi a consolatore di quell'esule volontario e divagatore di quel grande annoiato. E nelle prime sere o durante i caldi meriggi d'agosto, mentre erano seduti davanti al tavolino da giuoco, seppe anche perdere piccole somme, per non sgomentare il duca, ma poi incominciò a spennacchiarlo per bene, giocando abilmante e approfittando dell'indifferenza che poneva Franco in ogni cosa che faceva. E fu dopo una di quelle perdite che Franco vegliò lungamente, non perché vedesse diminuita molto la somma portatagli da Roberto e che era tutto ciò di cui poteva disporre, che di questo egli non si curava; ma per aver ricevuto una lettera dal Signorini. Franco aveva sperato che quella lettera potesse servirgli di arme per umiliare Velleda, ed era invece un inno alla signora, un tributo reso all'ingegno di quella gloria fiorentina, un omaggio alla donna infelice; che aveva saputo nobilmente portare la sventura. Il Signorini diceva che il nome del marito di Velleda era Crespi; ma che ella faceva bene a ripudiarlo e a portare quello del padre, per evitare le persecuzioni di quell'uomo abbietto, che scontava nella casa penale di Nisida una truffa. Prima di terminare la lettera, il giovane signore confessava a Franco che anche lui, come molti altri, aveva fatto la corte alla bella letterata, senza però ottener da lei nulla, perché a " Melusina " non si conosceva altra passione che l'arte; altro affetto che quello di suo padre e della sua bambina, rapitale dal marito. " Questo è quanto posso dirle della signora Velleda Bianchi, - concludeva il Signorini, - e se ella, nelle sue peregrinazioni in Sicilia, riesce a ottenere le buone grazie della piccola fata bianca; potrà dirsi veramente fortunato e abile più di me e degli amici miei. Dica alla indimenticabile Melusina che io sono fra i suoi amici più devoti e fra i più caldi ammiratori e che il suo ritorna a Firenze sarebbe una festa per me. " Ecco svanita una speranza! - disse il duca accendendo una sigaretta; - ma io non posso ne voglio rassegnarmi. Quell'uomo dagli imperiosi desiderj, che si dibatteva nell'impotenza di appagarli, appariva ben diverso dal consueto e i suoi freddi occhi si posavano irrequieti sulla lettera che aveva davanti, quasi quelle righe dovessero suggerirgli l'idea che cercava invano nella sua mente sognante perfidie, senza saperle preparare. Sono un inetto e porterò questo marchio d' inettezza tutta la vita. Ora Roberto sarà eletto deputato; se io mi fossi portato a Roma non avrei raccolto mille voti: eppure ero una potenza! E da deputato salirà sempre e sempre più si attaccherà a Velleda e sempre più ella insuperbirà della gloria di lui! Ah! è atroce la mia sorte; se non fosse ridicola. Prese la lettera e stava per farla in tanti pezzetti. ma si trattenne. Mi può sempre servire a qualcosa, - pensò, e la rinchiuse in un cassetto insieme con i danari. La vista dei biglietti di banca, molto diminuiti dalle perdite al giuoco, ricondusse il pensiero di lui al Purpura, all' Orlando, a tutti quei nuovi conoscenti di Castelvetrano e s'accorse che potevano essere altrettanti alleati per combattere reiezione di Roberto. Allora un sorriso cattivo gli sfiorò le labbra e capì che tutte le speranze di vedere una volta almeno umiliato suo fratello e afflitta Velleda, non erano perdute. Non fece un piano, perché era incapace d'idearlo, anche sotto l'impulso dell'invidia e del desiderio, ma si rimise, come tutti gli inetti, nelle braccia misericordiose del caso, e confortato dormì un lunghissimo sonno, che Saverio si guardò bene dall'interrompere. Era una domenica, una burrascosa giornata d' agosto. Il mare gonfiato dal vento di terra spingeva al largo le onde crestate di bianco per modo che guardando dalla spiaggia si vedeva una distesa verde su cui svolazzavano a stormi i gabbiani e in distanza una montagna nivea e fluttuante che si confondeva con la linea dell'orizzonte. La sabbia turbinava sulle rovine, sui palmizj, sulla villa, avvolgendo ogni cosa in una nube giallastra, di sinistro aspetto. I valori e i velieri ancorati nel piccolo porto alzavano e abbassavano le prue con moto continuo e disordinato, minacciando di urtarsi, e le alberature e g'li scafi cigolavano sinistramente. Alla villa erano alzati per tempo, nonostante la veglia prolungata, e chi avesse veduto Velleda e Roberto, senati alla tavola della colazione, con la piccola Maria nel mezzo, guardandosi sorridendo, non avrebbe mai supposto che da quei due giovani era stato poche ore prima tracciato un programma così serio di esistenza operosa. Parevano due giovani imposi occupati soltanto della loro felicità e della educazione della bambina, che sedeva in mezzo ad essi. Non c'era una nube sulla fronte liscia di Velleda, sulla quale scendevano i ricciolini dei brevi capelli; non un pensiero triste negli occhi grandi e mansueti di Roberto. Tutte e due sapevano che le lotte stavano per incominciare, che una esistenza di sacrifizj li aspettava, ma ormai avevano calcolato tutto e non provavano pentimento e si sentivano uniti nell'avvenire come nel passato; uniti sempre, e in questo consisteva la loro calma, la loro felicita. Oggi, Maria, - disse Velleda, - non puoi fare il bagno e neppure uscire; fuori non si sta ritti; leggerai, ti baloccherai con le bambole e se nel dopopranzo la burrasca continua, io ti racconterò una novella. Questa promessa teneva sempre buona la bambina, perché nessun libro procuravate mai tanto diletto guanto la narrazione di una novella immaginata da Velleda. la quale univa alla meravigliosa fantasia delle razze slave, una ricchezza di colorito tutta meridionale. Ed io pure ascolterò la novella, - disse Roberto, e starò attento quanto Maria. Io pure ho bisogno di passare il tempo. Tu scherzi, babbo, a te il tempo manca sempre. Lo zio Franco, invece, non sa mai che cosa farne. Dimmi, babbo, tutti i duchi sono così disoccupati? Chi ti ha detto che è duca? - domandò Roberto. Lui stesso; anzi mi ha promesso di lasciarmi il suo titolo, perché tu non vuoi farmi portare i tuoi. Il signor Franco cerca sempre di destare in Maria idee vane e ambiziose, - disse Velleda. - Io mi sono studiata si paralizzare quell'influenza, senza ricorrere a lei, ma vedo che la nostra piccina non vuoi dimenticare le parole dello zio; ed è bene che lei, signor Roberto, si valga della sua autorità per dimostrare a Maria che e inutile che si culli in quei pensieri, che ella si chiamerà sempre Maria Frangipani e che nessun titolo vale quanto un nome onorato. Roberto soffriva visibilmente; ripugnavagli di far nascere nel cuore di Maria la sfiducia contro Franco e capiva benissimo il delicato sentimento che aveva trattenuto Velleda dal parlargli di quella opera di corruzione del fratello; ma dinanzi al male che questi poteva recare alla sua bambina, non ebbe più esitazioni e disse, atti randola a sé dolcemente: Senti, Maria, tuo zio ha ricevuto una cattiva educazione; forse nessuno gli ha voluto veramente bene. Per questo egli non sa educare gli altri e non vuol bene a nessuno. Con te, egli si balocca come farebbe con un gingillo. Non gli prestare attenzione quando ti parla, ma non gli dimostrare disistima. È un infelice che va compatito e tollerato. Egli non può lasciarti proprio nulla; neppure quel titolo di cui si vanta e che è la sua sola ricchezza. Te lo dico io, che non saprei ingannarti, come non ti sa ingannare Velleda. Dovrei allontanarlo di qui, soltanto per la perfidia con cui cerca d'insinuarsi nell'animo tuo; ma ho compassione di lui e non lo faccio. Però invito te ad esser più ragionevole di lui e a non prestar fede a quello che ti dice. Se tu non lo facessi, io dovrei dirgli di partire, e lontano di qui sarebbe anche più abbandonato e infelice. Saprai essere forte contro le sue insinuazioni, Maria? Roberto aveva nella voce e nello sguardo quell'affascinante dono della persuasione, proprio degli apostoli, di coloro che parlano al cuore degli individui e delle masse, fascino indescrivibile che sfugge ali' analisi e che consiste forse nella grande armonia fra il pensiero e il sentimento. Maria subì il fascino delle parole e dello sguardo paterno e si gettò nelle braccia di Roberto, commossa. Egli la baciò affettuosamente e nell'alzarsi disse a bassa voce a Velleda: Ci sarà fatale, Franco? Ella non rispose. I suoi presentimenti erano sinistri, ma non voleva turbare la pace di quella grande anima, e i sibili del vento, la burrasca che si scatenava sulla villa; le parvero in quel momento i prodromi dell'altra che sentiva accumulare sulle loro teste.

Uno sguardo gettato sull'assemblea lo rassicurò; i suoi elettori erano tutti nella sala, anche quelli sui quali dubitava, come un certo negoziante fallito, col quale aveva avuto un diverbio abbastanza vivo parecchi giorni prima per la perdita di una causa; il legame degli interessi; dunque, non si scioglieva; il partito che da questi era retto restava unito. Ilare, dunque, e con gli occhietti die gli brillavano dietro gli occhiali azzurrognoli; il candidato ministeriale incominciò dal tessere la sua storia, senza modestia la modestia era considerata da lui una qualità dannosa, perché la gente ha la memoria labile e dimentica molto facilmente i benefizj - si disse figlio affezionato di quel paese, al quale aveva dato nuovo lustro, mercé i suoi trionfi nel foro; disse di avere spesa tutta la sua vita nel sostenere gl'interessi della città con amore di figlio, con dignità di cittadino; notò che aveva votato tutte le leggi che estendevano le franchigie popolari, e non menti perché ogni progetto ministeriale aveva avuto sempre la sua approvazione, e disse e disse finché gli parve di aver bastantemente encomiata la sua vita d'avvocato e di deputato. Questa prima parte fu salutata da applausi vivissimi e il primo a batter le mani era il Torres; che aveva intascato la sera avanti i danari della missione ed era divenuto entusiasta addirittura dell'Orlando. Dopo aver bevuto l'acqua inzuccherata ed essersi soffiato il naso, l'oratore riprese la sua orazione: Amici. - aggiunse, - voi non ignorate certo che il candidato dell'opposizione è il signor Roberto Frangipani. Io non vi avrei parlato di lui, se egli, nel suo discorso di Selinunte, non avesse detto che si presentava come candidato degli onesti e che sotto la bandiera dell'onestà chiamava a raccolta tutti coloro che desiderano la rigenerazione morale del paese. Parlare di onestà è più facile che praticarla e l'apostolo dovrebbe incominciare a predicarla con l'esempio. Vi pare atto d' onestà quello di concentrare nelle proprie mani tutto il commercio vinicolo del circondario? Prima che quell' uomo benefico fondasse Io stabilimento sulla spiaggia di Selinunte, molti proprietarj, e fra voi non ve ne sono pochi, vendevano i loro vini a prezzi vantaggiosi, e ogni proprietario viveva piuttosto bene. Ora, comprando egli tutte le uve o i vini, facendosi incettatore, ha creato un tipo, il Selinunte, schiacciando la piccola produzione. Nessuno spedisce più via una pipa di vino e se voi dovete vendere il vostro, dovete cederlo al Frangipani, passare sotto le sue Forche Caudine e ricavarne un prezzo bassissimo, cioè non quello che vi pagava il consumatore e il negoziante, ma quello che impone il fabbricante manipolatore. Io vi domando se questo è atto onesto? No! No! - gridarono da tutte le parti i piccoli possidenti falliti, non per colpa di Roberto, ma per la loro imperizia. - È uno sfruttatore, ci ha rovinati! Questo è l'uomo probo, irreprensibile che vorrebbe rappresentare Castelvetrano alla Camera; egli è un vampiro, che in breve paralizzerebbe tutte le iniziative, succhierebbe il sangue di tutti i cittadini, i quali sarebbero ridotti a chiedergli lavoro come operai. Rammentatevi che porta un nome infame; il nome di quei traditori guelfi dell'ultimo Hohenstaufen, i quali venderono il biondo e innocente Corradino a Carlo d'Angiò, senza che egli potesse toccare le navi ospitali di Pisa. Astura è là, crollante sul Tirreno, a rammentare l'infamia di questi mercenari reali, e il sangue di Corradino chiede ancora vendetta sulla piazza del Mercato a Napoli. mentre i Frangipani portano un titolo infamante: quello di duchi d'Astura. L'Orlando, mentre pareva s' infervorasse tanto a evocare dalla tomba dei secoli un fatto non ben chiarito ancora, rideva dentro di sé di quell' arma elettorale: nuova di zecca e che pur produceva l'effetto volato. perchè grida irose uscirono dalla folla commossa" quasi che essa appartenesse alla generazione che vide le lotte cruente fra Carlo d'Angiò e i ghibellini d'Italia. Il Torres, nel suo entusiasmo, non si peritò a urlare: - Morte ai traditori - e a quell'urlo gli elettori dell'Orlando risposero: - Morte! Il candidato si spaventò dell'effetto che avevano suscitato le sue parole e si affrettò a soggiungere: - Morte sì all'ipocrisia al tradimento che si copre con la bandiera dell'onestà, quasii che gli onesti avessero bisogno di affermare che sono tali. Voi, io, certo siamo onesti, eppur non lo diciamo. È vero! È vero! - urlava la folla. Passiamo ad esaminare il candidato avversario sotto un altro aspetto. Egli si è sempre mostrato molto inchinevole ai preti. Fa andare ogni anno per Pasqua il parroco di San Giovanni a benedire lo stabilimento, costringe gli operai a recitare una preghiera dopo il pasto, fa ufflciare la domenica una chiesetta per la gente di Selinunte; ma tutto questo è fumo che getta in faccia ai creduli. Egli si serve della religione, come dell'onestá; per coprire i suoi vizj e scroccare la fama di persona intemerata e devota. Se non mi repugnasse penetrare nel santuario della famiglia, vi svelerei io che cosa cela quel palazzetto di Citera, nascosto fra le palme ... . Ma già; voi lo sapete come me. Lasciatelo là dunque su quella spiaggia ad occuparsi dei suoi vini, lasciatelo ai suoi ozj di Capua, ma non permettete che la nostra nobile città sia rappresentata al Parlamento da un Frangipani. Lo semina della sua. famiglia rappresenta una mano che spessa il pane: la sua ve lo toglierebbe; utopista per gli altri, è pratico per sé e da agli operai, per tenerli a bada, un ridicolo dividendo, mentre accumula ricchezze. Poveri operai illusi! Essi non sanno che appena il loro padrone avesse acquistato un seggio a Montectorio, mercè i loro voti, li rimunererebbe mettendoli in mezzo di una strada! Sono giunta dalla fonderla Oretea di Palermo le macchine per la fabbricasione dei fusti, altra ne giungeranno per travasare i vini e metterli nei tini, è pronto il tram elettrico, e cosi falegnami, bottari, facchini, e carrettieri, saranno licenziati. Questo lavoro da gesuita è un orrore: smascheratelo, elettori, e se il mio nome non raccoglie più i vostri suffragi, sostituitelo con un altro. Non è il desiderio di trionfare di lui che mi spinge a combatterlo; è il timore che egli sia per Castelvetrano quello che furono per Selinunte l'invasione saracena, i terremoti, la sabbia: il Flagello! Lo distruggeremo! - gridò la folla, che a mano a mano si era avvicinata alla tavola dell'oratore e lo circondava, formando intorno a lui una massa compatta. L'eccitamento di essa non si manifestava con urli ne eoa schiamazzi, ma con occhiate torve, con una serietà da veri cospiratori. Tutti quei nemici di Roberto, a uno a uno, stringevano la mano all'Orlando mentre scendeva, da quella specie di podio e accompagnavano quella stretta di mano con uno sguardo signincativo, che voleva dire: Siamo con voi! Appunto allora giungeva in sala il Bonaiuto, serio e accigliato, e la folla gli andò incontro, poiché molti sapevano di dove veniva. Ebbene, che cosa ha detto? - gli domandò l'Orlando. Le solite cose in altra forma, - rispose il Bonaiuto, però v'era molta gente, moltissima, e tutti i parrucconi della città. Ci sono quindici giorni ancora alle elezioni e io ho in tasca certi argomenti! Ne sono convinto, - rispose l'altro con un sorriso d'intesa. - Ma vi confesso che senza l'amicizia che ho per voi, passerei anch'io sotto la bandiera avversa; don Roberto ha una eloquenza che convince e che trascina. Sotto quella bandiera lì, amico, tu morresti di inedia, mentre sotto la mia, anche sbrandellata, tu raccapezzi qualcosa. Va' in tipografia a vedere se il discorso mio è stampato e fallo affiggere e distribuire, specialmente dinanzi a casa Moltedo. E a me, onorevole, non date nessuna incombenza? domandò il Torres che da ventiquattr'ore si figurava di meritare tutta la fiducia dell'Orlando. Non dubitate, c'è da far per tutti, - rispose il candidato. - Questa volta i danari per le elezioni non mancano; ce li ha forniti la cassa del nostro avversario, perché le somme perdute da don Franco non hanno altra provenienza. Il giochetto è bello e divertente quanto mai. Imparate, giovinetti, come si fanno le elezioni! Il Bonaiuto era uscito e l'onorevole Orlando, un po' eccitato ed impaziente di vedere che effetto avrebbe prodotto la lettura del suo discorso su quelli che non appartenevano al suo partito, spedì il Torres a raccogliere informazioni e a spiare i discorsi. Intanto la folla aveva lasciato la sala e per curiosità si era diretta in piazza, verso la casa Moltedo. Roberto aveva parlato più lungamente dell'avversario e gli elettori dell'Orlando giunsero in tempo per udire gli evviva fragorosi che salutavano la fine del suo dinuovi venuti, i quali, scorso. Quegli evviva irritarono sotto l'impressione delle parole pronunziate dal loro candidato, risposero con gridi di: Abbasso il gesuita! Abbasso lo sfruttatore! Abbasso l'incettatore! Abbasso il libertino! Don Calogero Moltedo e molti altri si affacciarono udendo quelle grida e risposero con parole offensive per l'Orlando. Allora il farmacista Sarno, che era fra quelli che gridavano di più, apostrofò il dottore: Se avete coraggio, uscite! Era una sfida e fu raccolta da molti. In un momento la sala dell' adunanza si vuotò, e gli elettori di Roberto erano giù in piazza, in atteggiamento minaccioso, prima che il Frangipani si fosse accorto di che si trattava. Quando lo seppe, perché gli fu detto dai pochi rimasti intorno a lui, corse alla finestra, ma la zuffa si era già impegnata e volavano pugni e sassi, e i pochi carabinieri, volendosi intromettere, erano sballottati di qua e di là dagli urti di quelle due masse che si attaccavano e si respingevano con furia. Roberto pallido e calmo si fece largo fra i suoi e con la voce potente gridò: Basta! Basta! Egli dominava tutti con l'alta persona e fu ubbidito. In quel momento comparve il Bonaiuto alla testa di una squadra di ragazzi, carichi dei discorsi dell' Orlando, offrendoli a tutti. Alcuni partigiani di Roberto li stracciarono con rabbia, altri prendeva il foglio stampato e si metteva a leggerlo. La presenza di Roberto impedì che il conflitto ricominciasse, poiché nessuno degli avversarj osava ripetere in faccia a lui i gridi che aveva pronunziati poco prima. Si può dire che tutto Castelvetrano fosse su quella piazza, diviso in due campi. Roberto, vedendo così numerosi i suoi partigiani, ebbe un lieve sussulto. Ormai era nella lotta e voleva vincere, però non voleva che si ripetesse la scena di poco prima, che poteva degenerare in battaglia, e indusse i suoi ad andare a casa. Essi ubbidirono, facendogli una nuova dimostrazione di simpatia e a poco a poco la piazza si votava. Alcuni minuti più tardi Roberto traversava il paese in carrozza e non incontrava altro che gruppi di amici e di nemici che leggevano il discorso dell'Orlando. Il Lo Carmine ne aveva una copia in tasca, ma esitava a metterla fuori. Allorché la carrozza fu a una certa distanza dalla città, Roberto gliela chiese e la lesse senza turbarsi. Calunnie che non faranno presa, - disse rendendo il foglio all'amico, - infante cui non merita rispondere; esse non mi strapperanno un voto. L'altro lesse pure, ma si turbò. Era più assuefatto alla vita politica, aveva maggior pratica delle elezioni e conosceva meglio la sospettosa indole del popolo; quella allusione al palazzo di Citerà lo afflisse immensamente. Roberto non conosceva i precedenti attacchi della Trinacria, diretti contro Velleda, non sapeva degli spasimi della povera signora, non aveva letto la biografia di lei, pubblicata quella mattina istessa, nella quale sotto un diluvio di elogi per l'opera letteraria di quell'ingegno eletto, si fingeva di commiserare la sorte toccata alla donna alla moglie, svelando tutte le piaghe della sua vita col pretesto di accennare alle cagioni che l'avevano tolta al mondo delle lettere. Non c'era una parola di cui non fosse stato prima calcolato l'effetto sul lettore ; e siccome il Lo Carmine supponeva, con ragione; che quasi tutti quelli cui era capitato in mano il discorso dell'Orlando avessero pure percorso l'articolo su Velleda, era sicuro che l'allusione agli amori di Roberto non sfuggisse ad alcuno e che il nome di Velleda venisse coperto di motteggi e di onta. In quelle ore passate in carrozza e in casa Moltedo, egli aveva pensato sempre a lei, a lei che doveva soffrire mille strazj e mille torture. Restate a colazione da me, - avevagll detto Roberto quando la carrozza era entrata nel giardino, e mentre il Frangipani saliva in camera sua, il Lo Carmine penetrava nella sala da pranzo già apparecchiata. dove incontrò il Varvaro. Dio mio! - esclamò il direttore appena lo vide; che cosa abbiamo fatto con questa, elezione! Avete letto anche voi? - domandò lo scienziato alludendo all'articolo della Trinacria. Altro che letto! La signora Velleda è stata colpita da una febbre! Da più ore è sul letto e trema senza che si riesca a riscaldarla. Avete chiamato il dottore? No, non avevo la carrozza, che è tornata adesso. Sono un poco medico io stesso e le ho fatto dare il chinino, il cognac e applicare senapismi; ma essa non migliora; Maria non vuole uscir di camera e la chiama incessantemente, Costanza l'assiste. Il Lo Carmine dette allora al Varvaro il discorso dell'Orlando e gli narrò la scena avvenuta in piazza. A che cosa giungeremo? - domandò il direttore sgomentato. - In questi quindici giorni si dibatterà anche il processo contro Alessio al tribunale: avremo altri attacchi dall'OrIando, altre scene ... . Purché non si veda scemare il numero dei partigiani del signor Roberto! - rispose Io scienziato. - Questo discorso mira a ciò. Per ora sono fedeli, - osservò il Varvaro, - ma sono così mobili! Pochi giorni fa gli operai adoravano la signora Velleda come si adora la Madonna; ora rifiutano il pranzo perché è lei che ha istituito le cucine, e la insultano. Il Varvaro tacque, udendo i passi di Roberto sulle scale. Egli scendeva insieme con Maria e aveva scritto sul volto il dolore che lo torturava. Perché mi avete nascosto tante cose? - domandò al Varvaro e al Lo Carmine severamente. - Eicevo ora, insieme con la biografia della signora, due numeri dello stesso giornale che io dovevo aver letti da più giorni! Oggi hanno avuto l'accortezza d'inviarmeli in busta chiusa, se no li ignorerei ancora; chi lotta deve essere informato di tutto. La signora, - rispose il Varvaro per iscusarsi, voleva che le fosse risparmiata questa pena e noi le abbiamo ubbidito. Roberto non parlò quasi mai durante la colazione, ma si vedeva che egli ruminava un pensiero. Prima di alzarsi disse: Sentite, Varvaro: io vi affido una missione delicata o spero la compirete. Andate a Palermo; il treno passa alle tre e minuti da Castelvetrano e giungerete in tempo; a Palermo vi recherete alla dirczione del giornale e sappiate intendete, sappiate farvi dire chi è l'autore dell'articolo. Intanto da Castelvetrano spedite il dottore: la signora Velleda sta male. Il Varvaro andò a preparar le valigie, e il buon Lo Carmine, pentito di essere stato lui la causa involontaria di tanti dolori, rimase a divertire Maria, mentre Roberto risaliva in camera della malata, che era tuttavia scossa dal tremito della febbre.

Gliene furono messi davanti tanti, ma Franco fingeva di non sapersi risolvere; uno era troppo meschino, un altro non aveva la montatura abbastanza elegante, un terzo era troppo materiale e intanto il duca stava sulle spine per andarsene. Glieli possiamo mandare a casa perché li esamini con più comodo, - disse il commesso e già aveva preso un libro d'appunti per scrivere l'indirizzo. Il signore abita ... ? No, tornerò con la signora, - disse risolutamente il duca e uscì con passo celere dal negozio; ingolfandosi nei vicoli di Toledo. Bisognava che vendesse i gioielli; ma come fare, come dirlo? Girando leggeva tutti i cartelli sulle botteghe e finalmente ne vide uno su cui stava scritto: "Banca di facilitazioni e di pegni sopra oggetti di valore. " Senza riflettere più, tirandosi il cappello sugli occhi, entrò in una specie di andito buio e lurido. Una mano dipinta in nero sulla parete, all'angolo della scala indicava che la Banca era su al primo piano, e Franco salì di corsa gli scalini. Gli pareva che tutti lo avessero veduto, che tutto il vicinato lo segnasse a dito. Spinse una bussola verde, unta e bisunta, e si trovò in una stanzetta bassa, divisa per tutta la lunghezza da un bancone alto di legno, su cui erano posate le bilance. Un uomo ben pettinato, giovane, con una cravatta rossa sopra una camicia sporca e con le mani coperte d'anelli, registrava delle polizze in un libro grandissimo; un altro esaminava una spilla di brillanti che gli porgeva una donna pulita, che all'apparenza pareva una cameriera. Franco sudava freddo. L'uomo del registro, che lo aveva sbirciato, alzò gli occhi e gli domandò che cosa voleva. Allora il duca cavò di tasca i gioielli e con mano tremante si lasciò cadere sul banco lurido e lustro ove migliala di mani si erano posate e migliaia di oggetti, dagli stracci ultimi del povero alla collana della patrizia. Erano bottoni di perle, un anello con un ricco solitario. gioielli ricchi, da gran signore, comprati dai primi ore fici, e pagati somme vistose. Il padrone della banca lo capì sabito; fece il saggio delle montature, esaminò le perle sogguardandole, con una punta d'acciaio spinse il brillante fuori della galleria d'oro, lo pesò, pesò le perle facendo ogni cosa con cura minuziosa. Franco era sulle spine; non vedeva il momento d'intascare il danaro e di andarsene, e in cuor suo malediceva quella Lois, che lo aveva trattenuto e lo sottoponeva a quel supplizio. Duemila lire, - disse l'uomo dopo un lungo esame. Franco si morse le labbra, ma chinò la testa in segno di annuenza. L'anello solo gli costava tre volte quella somma. Che sperpero! Il suo nome? - gli domandò l'uomo. Il duca esitò, l'altro lo fissava e quello sguardo turbavalo. Francesco Frangipani, - rispose tremando. E l'indirizzo? - domandò l'altro che registrava gli oggetti sul grande libro. Mergellina 33, - disse Franco rammentando un numero letto il giorno prima andando a Posillipo. Finalmente il padrone aprí una cassaforte, ripose i gioielli e contò duemila lire in tanti biglietti di diverso taglio, trattenendosi circa duecento lire per i meriti del Monte di Pietà e i diritti proprj. Poi consegnò la somma a Franco insieme con gli scontrini, raccomandandogli di tornare entro quindici giorni a ritirare le polizze e pagare la differenza, qualora il Monte avesse dato una somma minore. Quel supplizio era durato una mezz' ora e nella stanza buia erano entrate molte persone, che attendevano il loro turno, squadrando quel signore che impegnava. Una donna con un fagottino sotto il braccio, cenciosa. spettinata, lo aspettò sull'uscio e stendendogli la mano, gli disse: Eccellenza, datemi una lira; risparmiatemi d'impegnare questa vesticciuola della figlia mia; abbiate pietà di me! Franco si sentiva morire: lasciò cadere in mano alla mendicante gli spiccioli e scese le scale a precipizio, e guardò a destra e a sinistra prima di uscire da quella casa. Ed appena tornò a Toledo entrò da un parrucchiere col pretesto di farsi arricciare i baffi, ma in realtà per vedere se i capelli gli erano imbiancati. La perdita del suo patrimonio, le visite ai direttori di Banche per ottenere imprestiti e dilazioni, tutta la via crucis della rovina, non gli era parsa tanto amara quanto quella mezz'ora passata dinanzi al bancone nero, che pareva inghiottisse tutte le superfluità, tutte le ricchezze degli sciuponi a vantaggio di quell'uomo azzimato, con la cravatta rossa e i ricchi anelli e i ricchi bottoni sulla camicia sudicia. Ma i capelli del duca erano sempre neri ed egli disse fra sé : Vuoi dire che gli strazj non fanno incanutire, altrimenti ... . - e si mise a passeggiare per Toledo, fermandosi dinanzi alle botteghe. Prima delle due era all'albergo, pagava il conto, regalava a Lois un anello di molto valore, e senza lasciarsi intenerire dalle suppliche di lei, imbarcavasi prima di sera per Palermo, nervoso, agitato ancora da quella sosta nella casa della miseria, da quell'angoscia che non sapeva dimenticare. E per chi poi! - esclamava con disprezzo, ripensando a Lois,

Il fatto era abbastanza grave e assai strano, perché quella regione da diversi anni godeva di sicurezza e nessun attentato vi era stato commesso, ne contro le persone, ne contro gli averi. Roberto narrò che il malandrino trovato ferito nel giardino della villa era appunto un operaio licenziato; allora il direttore di polizia, accorgendosi che si trattava di una rappresaglia, di una vendetta, si mostrò meno impensierito del fatto, e in presenza di Roberto telegrafò non solo al comandante dei carabinieri di Castelvetrano di mettere un picchetto nella villa, ma ordinò a quello di Mazzara di spedire subito un rinforzo e di far perlustrare le campagne, per giungere all'arresto dei colpevoli. In quei giorni si discuteva appunto il bilancio dell'Interno e le interpellanze piovevano al ministro sulle condizioni della pubblica sicurezza in Sardegna e in Sicilia. Il direttore, per risparmiarne un'altra al suo capo sul fatto di Selinunte, pregò Roberto di non parlarne ad alcuno, e specialmente ai deputati della regione, promettendogli che di lì a poche ore gli avrebbe comunicato notizie confortanti. E appena il visitatore fu uscito, il funzionario andò al telefono e chiamato il direttore di un diffusissimo giornale ufficioso, che aveva ogni giorno telegrammi da ogni parte d'Italia, gli disse di non pubblicare la notizia su Selinunte, nel caso gli pervenisse. Era domenica; giorno di pausa per gli affari, e Roberto trovandosi costretto all'inazione, sentiva anche più acerbo il dolore della lontananza dalle sue care e si arrabbiava della sua impotenza. Era tornato all'albergo in attesa di telegrammi e ogni momento ne spediva uno, ora dirigendolo al Varvaro, ora a Franco, ora a Velleda. Egli, sempre calmo, era in quel giorno impaziente e incerto. Quella grande distanza che lo separava dalla casa sua, da quelle due creature che occupavano tutto il suo cuore, gli metteva addosso una irritabilità, una irrequietezza insolite. Con raccapriccio pensava al pericolo corso da Velleda e da Maria, e la fantasia eccitata gliele rappresentava sotto il colpo di nuove minacce, di nuovi pericoli. Egli non sapeva più quello che fare, allorché ricevè un secondo telegramma da Velleda più rassicurante, insieme con uno del capitano dei carabinieri, il quale gli diceva : Io stesso trovomi villa, rimarrò qui finché occorre. Stia tranquillo. Respirava! Ma voleva saper più, sempre più, e salito in una carrozza tornò al Ministero dell'Interno, ove fu subito ricevuto dal direttore della pubblica sicurezza. Il ministro, prima di andare in Consiglio, - gli disse, - ha dato istruzioni severe al prefetto di Trapani; A me è giunto un rapporto telegrafico del Capitano dei carabinieri: lo legga pure. Velleda, pur narrando a Roberto tutta la verità sui fatti, gli aveva taciuto che l'attentato fosse rivolto contro Maria. Il telegramma del capitano dei carabinieri metteva in rilievo appunto questa circostanza, che gettò sempre maggiore sgomento nell'animo di Roberto. Egli ringraziò brevemente il funzionario e uscì risoluto a partire la mattina dopo, a non curarsi degli affari di Franco, a lasciare die tutto andasse al diavolo. Non aveva la forza di rimanere, non poteva star lontano dalla sua bambina, ne da quella donna che era la sua vita. Che importavagli il resto del mondo? Di loro soltanto gli premeva. Andò all'albergo, mise in ordine le carte del patrimonio Astura, scrisse una lunga lettera all'avvocato di Franco e telegrafò di nuovo annunciando la partenza, scongiurando di fargli trovar notizie alla stazione di Napoli, a Palermo e a Castellamare del Golfo. Quarantt'ore lo dividevano dal momento dell' arrivo, e quelle quarantottore nella sua impazienza gli parevano un'eternità e non sapeva davvero come passarle. La sua mente di consueto così occupata, era ora incapace di pensare e vedendo avvicinarsi la sera si sentiva assalito da un tremito che lo scoteva tutto e parlando a voce alta ripeteva : Oh! se tentassero di nuovo! Non si accorse che era digiuno dalla mattina e passi metà della notte nei dintorni dell'ufficio del telegrafo, entrando ogni momento per domandare se v'erano telegrammi al suo indirizzo. Camminava come un matto parlando sempre a voce alta e l'idea di ritrovarsi solo in una stanza d'albergo, mentre il suo cuore volava anelante presso le sue care, lo turbava a segno che preferiva vagare per le strade. Il sentimento di quella impotenza assoluta di traversare lo spazio, di trasportarsi a casa sua, lo rendeva debole e nervoso, e il suo pensiero era fisso, inchiodato alla sua casa; e all'aria aperta, sotto la volta stellata, parevagli di esser meno separato, meno distante da quel santuario dei suoi affetti, che stando fra quattro mura. L'alba stendeva un velo bianco sul cielo, allorché egli tornò all'albergo, senza pensare neppure a coricarsi. Non aveva mai sentito come in quelle ore di spasimo, quale immenso affetto lo legasse a Velleda, a quella cara e coraggiosa creatura, che come gli era apparso dai diversi telegrammi, s'era esposta per vegliare sulla casa e su Maria, Una di quelle sante esplosioni di tenerezza che sono rare nei caratteri forti, ma che hanno effetto così benefico, gli scaturì dal cuore e prendendo l'ultima lettera di lei, in cui facevagli in tono quasi solenne la promessa di vegliare su tutto ciò che amava, la baciò con furia, piangendo. Per un fenomeno strano, tutto psichico, gli parve a un tratto che da quella lettera gli venisse una fiducia nuova, una calma insperata. Perché tremare quando Velleda vegliava? Perché agitarsi e sciupare le forze? Non era stato forse paralizzato l'attentato, mercé il coraggio di quella creatura sublime di devozione; non era forse scongiurato il pericolo? E allora il dovere fece udire all'orecchio di Roberto la sua voce solenne. Non poteva, non doveva partire. Abbandonando Roma, mandava a monte la vendita del palazzo, non poteva impedire la dichiarazione del fallimento e privava suo fratello degli ultimi rimasugli del suo patrimonio. Rimanendo poteva impedire tutto questo e ottenere nel tempo stesso che l'opera del Governo contro i malandrini non si rallentasse, non sonnecchiasse. Resterò! - disse con calma e tolse dalle valigie i vestiti che vi aveva gettati in fretta nel momento della massima esaltazione, e stracciò la lettera all' avvocato. Assai prima delle otto riceveva un telegramma di urgenza spedito un'ora avanti da Castelvetrano. Velleda con quello gli annunziava che la notte era stata calmissima, che i carabinieri non lasciavano un momento la villa e che Maria, mentre ella scriveva il telegramma, dormiva ignara di tutto. Quel dispaccio era certo partito all'alba da Selinunte, per esser consegnato così presto a Castelvetrano, e Velleda aveva dunque voluto che gli giungesse prima che si mettesse in viaggio. "Era una delle tante delicate attenzioni di lei per tenerlo calmo. Oh! come benediva il momento che ella era entrata in casa sua, come benedivala per sapersi fare a volta a volta, amica devota, consolatrice sua e protettrice della sua bambina! Perché la sorte, che gli aveva fatto incontrare quella donna rara, quel cuore pieno d'affetto, poneva fra loro un ostacolo insormontabile alla piena, alla completa felicità? Sarebbe troppo! - mormorava egli chinando il capo rassegnato e cercava di scacciare quel pensiero, che era una chimera, un sogno, per abbandonarci alla contemplazione spirituale di Velleda. Roberto la vedeva vegliare tutta la notte accanto al letto di Maria, sussultare al più lieve rumore e tanto precisa era la visione evocata dalla fantasia; che tendeva l'orecchio come se volesse afferrare il fruscio che facevano le vesti leggiere di lei quando movevasi andando a origliare alla finestra o alle porte, aggirandosi inquieta e trepidante per quella stanza nella quale egli da molto tempo non aveva messo piede. L'ultima volta che vi era stato, se ne rammentava Bene, era la vigilia di Natale. Maria aveva la febbre e Roberto era entrato dietro al dottore e ne era uscito subito commosso. La stanza semplice era piena di lei, del profumo sottile che emanava dalla sua pelle delicata, dai piccoli oggetti che ella soleva usare di continuo. In uno scaffale chiuso vi erano i libri scritti da Veliera, che rappresentavano il passato, sotto, una tavola con i quaderni di Maria, i libri sull'insegnamento, che rappresentavano il presente, cioè un'occupazione arida da cui scompariva la personalità, l'ingegno; una rinunzia coraggiosa ai sogni dell'artista, un annichilimento volontario che ella aveva preferito alla gloria, che le prometteva grandi soddisfazioni, mescolate ed acerbi dolori. Lungamente Roberto s'indugiò con il pensiero in quella camera quasi verginale, ma ad un tratto si scosse rammentando che occorreva rimettersi agli affari, e dopo aver telegrafato a Velleda, annunziandole che non partiva più, andò al palazzo Astura ad attendere l'acquirente. Era questi uno svizzero grasso, sorridente, un vero uomo d'affari, il quale giunse puntuale al convegno e girando insieme con Roberto per le vaste sale del pianterreno, toccava le stoffe delle portiere, squadrava i mobili, i ninnoli e ripeteva sempre: Quanto danaro sciupato! Quanti capitali immobilizzati! Ora a venderla tutta questa roba non ci si prenderebbe nulla! nulla! Era quello il sentimento anche di Roberto, ma gli dispiaceva di sentirlo esprimere da un uomo volgare, al quale del resto, in quel momento, non voleva inffliggere un biasimo per non disgustarlo dall'acquisto, e silenziosamente lo seguiva nelle stanze, scendeva e saliva dietro a lui, con una pazienza impostagli dalla situazione. E sempre il grasso svizzero, per deprezzare il palazzo, diceva quanto avrebbe dovuto spendere per ridurre i piani superiori a uso d'albergo, i capitali che gli occorrevano per ammobiliare le camere, e tutte queste lamentazioni terminavano con il solito ritornello : Ho offerto anche troppo, non posso dar di più, non posso davvero. Se avessi calcolato meglio le spese da fare, avrei fatto un'offerta minore, ma la cifra è detta. Roberto faceva obbiezioni, si mostrava incerto, adducendo per pretesto che il palazzo non era suo, che cedendolo per quella somma si addossava una responsabilità troppo grande; cercava tutti i mezzi per strappare al compratore qualche migliaio di lire di più, ma l'altro teneva duro, e finalmente Roberto, per non mandare a monte l'affare, annuì. Lo svizzero era di quegli uomini che hanno sempre fretta e che non rimettono mai al domani quello che possono far subito. Egli volle che Roberto andasse insieme con lui dall'avvocato per firmare il compromesso e lì sul momento sborsava la caparra, rimettendo a otto giorni la stipulazione del contratto e il pagamento della intiera somma. Ora che l'affare era conchiuso, si mostrava raggiante e nella sua vanità di proprietario diceva che a Roma ne altrove vi sarebbe stato un albergo come il suo al quale voleva dare il nome pomposo di Hôtel dell' Urbe UrbeAnche Roberto era contento e si applaudiva di non essere partito. Con quella vendita rapidamente conclusa, evitava tante vergogne, tanti scandali, rigenerava moralmente suo fratello. Egli andò a recare la buona notizia alla vecchia duchessa d'Astura, che in quei giorni, tutta afflitta per Franco, che nella sua estrema indulgenza scusava con tenerezza materna, aveva scritto più volte a Roberto per sapere come stavano le cose. Figlio mio, - diceva ella vedendo Roberto e buttandogli le braccia al collo, - tu ci hai salvati. Che il Signore ti benedica e benedica la tua piccina! Prima di morire penserò a lei, non dubitare. Maria non ha bisogno di nulla, - disse Roberto rammentando l'ostilità della duchessa al suo matrimonio. Lo so che sei ricco, molto ricco, ma nel commercio si può perdere a un tratto un patrimonio, le imprese rovinano; vedi che cosa è successo a Franco. Zia, - rispose Roberto, - il suo esempio non mi sgomenta. Egli s'è condotto come un fanciullo; io sono un uomo. La vecchia dama chinò la testa dinanzi a quella sobria affermazione di forza, e per la prima volta pensò che suo marito avrebbe fatto meglio a istituire suo erede Roberto, nelle cui mani il patrimonio Astura non sarebbe stato sperperato. La duchessa voleva che il nipote lasciasse l'albergo e andasse a stare da lei e non sapeva più che cosa fare per dimostrargli la sua gratitudine. Roberto ricusò dicendo che da lui capitava tanta gente e di ogni conio, che non gli piaceva di riceverla nel palazzo. .Ma di quella offerta fu lieto; ormai i parenti, e avelie la vecchia dama, si ricredevano sul conto suo, ormai dimostrava loro che sua madre aveva avuto torto di pronosticargli che avrebbe dovuto vivere delle largizioni del fratello. Era una tarda riparazione, che lo compensava di molte amarezze. Prima di accomiatarsi promise che sarebbe andato una sera a pranzo dalla zia, e accompagnato dalle benedizioni di lei, uscì da quel palazzo che gli ricordava tante umiliazioni infantili, tanti piccoli dolori tenuti segreti, e ai quali doveva in gran parte l'impulso al lavoro, la febbre di conquistarsi un avvenire, di cui la famiglia gli negava il diritto. In quell'edifizio tetro, fra tutte quelle cose vecchie, sotto quelle grandi volte fregiate di rilievi pesanti e fino alle quali la luce saliva scarsa, pareva si fossero rifugiate tutte le idee, tutte le superstizioni di un mondo sparito e sotterrato. Il passato vi aveva conservato dimora, e nell'aria rarefatta e satura di quel forte odore che tramandano i mobili antichi, gli antichi parati serici, le porte tarlate, i cuoi irrigiditi dal tempo, Roberto si sentiva opprimere, come da bambino, allorché la zia, la vecchia duchessa, gli amici di casa e soprattutto la madre lo deridevano per le sue tendenze moderne, di lavoro e di sentimento di se, e gli facevano il doloroso pronostico; che egli aveva reso bugiardo con la pertinacia e la fede nelle proprie forze. I suoi forti polmoni furono sollevati quando ebbe varcato il portone del vecchio palazzo e lasciando dietro a sé le vie strette, fiancheggiate dagli alti palazzi e dalle case luride della Roma vecchia, si rivolse con passo spedito verso la nuova. Ma qui se era confortato dall'aria pura, che circolava nelle larghe vie assolate, quel sentimento d'arte che suo padre aveva destato in lui e che egli aveva sviluppato con lo studio dei ruderi di un'epoca classica, era offeso dalla vista delle case sproporzionate, sopraccariche di goffi ornamenti e nelle quali tutti gli stili si confondevano. Come l'aveva sognata diversa da quel che era, questa Roma moderna, questa Roma italiana di cui aveva seguito da lungi, con amore di figlio, la creazione! E camminava guardando in su, sostituendo alla brutta realtà il sogno, senza vedere chi gli passava d'accanto, procedendo spedito per la via Nazionale, fra la gente che s'avanzava lentamente per solo diporto. Ma nell'avvicinarsi all'albergo i ricordi del passato lontano, le considerazioni sulla Roma moderna, tutto svanì dal cervello di Roberto e sentì nel cuore come una martelleta annunziante il ritorno di un cocente pensiero, assopito momentaneamente, che reclamava l'assoluto dominio. E quel pensiero si riassumeva in Velleda. Mi avrà scritto? - susurrava. Ma un rapido calcolo distrusse ogni speranza. Anche se Velleda avesse risposto subito alla sua lettera, la replica non poteva essere a Roma altro che il giorno seguente. Il portiere dell'albergo gli presentò invece un telegramma del Varvaro, col quale gli annunziava la cattura dei due malandrini fuggiti e la morte di uno dei feriti. Aggiungeva che i due ultimi arrestati nè gli altri non erano dei d'intorni; Alessio solo era del paese e bisognava considerarlo come capo del complotto. Un respiro di soddisfazione uscì dal petto di Roberto. In quei due giorni s'era angustiato maggiormente all'idea che i malandrini fossero tutti operai, tutta gente beneficata da lui, tutti ingrati. Invece non c'era altri che Alessio che avesse appartenuto allo stabilimento. Alessio che egli aveva tante volte cercato invano di piegare a migliori sentimenti, Alessio il ribelle, il pervertito, il corruttore, che aveva dovuto licenziare per salvare alcuni altri operai, i quali subivano il fascino di quel vizioso, che si vantava delle sue turpitudini. Si rammentava che uscendo dallo stabilimento l'ultima volta, col salario della settimana nel palmo della mano, Alessio vi aveva sputato sopra, lanciando al padrone uno sguardo di sfida. Oh! se Maria fosse caduta nelle mani di quell'uomo! Gli si rizzavano i capelli a pensarci. Era ancora scosso da quella sensazione dolorosa, allorché fu bussato all'uscio. Un cameriere entrò e gli dette una busta grande, elegante, sulla quale era scritto il suo indirizzo con un carattere inglese di mano femminile. Roberto guardò a lungo quella lettera senza aprirla, Non conosceva nessuna signora a Roma, dove non capitava mai, e le sue relazioni si limitavano a deputati siciliani, banchieri, avvocati, creditori di Franco; chi poteva scrivergli dunque? Stracciò la busta e lo sguardo cercò subito la firma, ma nel leggerla scrollò il capo mestamente. La lettera era della marchesa Paola Salvati e la povera signora gli chiedeva di andar da lei quella sera e supplicavalo di entrare in salotto e di salutarla come se l'avesse già conosciuta, caso mai vi fossero altre persone. Poi gli avrebbe spiegato tutto, gli avrebbe detto il perché di quel mistero. " Venga, venga, - scriveva prima di firmarsi, - glielo chiedo in carità. " Quella supplica ardente turbò Roberto. Fra tante noie, non si aspettava che gli capitasse anche quella di liquidare gli amori di Franco, di consolare le vittime dell'egoismo e della vanità di lui; ma non volle rispondere con un rifiuto alla preghiera di una signora, che gl'ispirava tanta compassione, e dopo pranzo salì in carrozza e andò in via Condotti. Il vecchio servo doveva aver ricevuto ordini dalla padrona, perché lo introdusse subito annunziandolo. Donna Paola era sola, e lo sforzo che fece per sollevarsi dalla poltrona nella quale stava abbandonata, la magrezza della mano che stese a Roberto, rivelavano i patimenti di lei. Gli occhi soli pareva vivessero in quel viso concontratto e consunto: due occhi grandi, ardenti, pieni di tragica passione. Scusi, - gli disse con voce tremante, - scusi di averla disturbata, ma sono una grave malata e agli infermi si usa compassione. Mi dica, mi dica, è vero che Franco ... che il duca è partito per sempre? Mio fratello è partito da quindici giorni, - rispose Roberto, - ma non credo per sempre; nessuno lo costringe a stare assente da Roma. Ah! come mi consola! - esclamò donna Paola. Io sono stata molto ammalata, credevo di morire e non sapevo più nulla di quello che accadeva intorno a me ; la mia malattia data appunto dal giorno successivo al Derby e a un pranzo in casa del duca. Roberto ascoltava come se non sapesse nulla. Ma ogni giorno io vedevo il mio letto coperto di rose e mi dicevano che il duca mandava a prender notizie mie e m'inviava quel dono. Ieri una mia amica, la principessa San Secondo, è venuta. Non avevo ricevuto nessuno, non sapevo nulla di quello che è accaduto a Roma in questo tempo, ed ella mi narrò tante frivolezze che non rammento: rammento soltanto che mi disse che Franco era fuggito, che il palazzo era in vendita e si aspettava da un momento all'altro la dichiarazione del fallimento. Mandai al palazzo ed ebbi la conferma della partenza; mandai di nuovo per sapere l'indirizzo e il guardaportone disse che non poteva darlo, ma aggiunse che lei era a Roma all' Hôtel del Quirinale e lo rappresentava. Sono tanti anni che conosco don Franco, aggiunse arrossendo lievemente, - e non potevo rimanere indifferente alla sventura che lo colpiva. E poi quando uno è malato è più sensibile, è più eccitabile, non è vero? Roberto capiva lo sforzo di donna Paola per scusare il suo operato e finse di non accorgersi della passione che la divorava" Io la ringrazio, - disse, - di mostrar premura per mio fratello. È tanto raro di conservare gli amici nei giorni di sventura! Ma si rassicuri, Franco non è fuggito. La sua amica era male informata; Franco ha venduto il palazzo a buone condizioni, e non si tratta di fallimento, ma di sistemazione di affari, alla quale lavoro e lavorerò anche in seguito. E quelle rose? - domandò donna Paola sorridendo. Franco, sapendola ammalata, mi aveva detto di nasconderle la sua partenza mandandole ogni giorno quei fiori che le facessero credere che egli fosse ancora qui. Povero, caro amico! - esclamò riversando la testa sui guanciali accasciata da quell'insperata consolazione. Veda, io non posso ancora regger la penna e ho detto di sentirmi forte per poterla ricevere, ma gii scriva lei, gii dica che aspetto una lettera sua e che quelle rose-quelle care rose mi hanno tenuta in vita. Ormai la felicità le impediva di aver reticenze con Roberto, e la fisonomia dolce e compassionevole di lui la spingeva alla confidenza. Gli pareva di parlare a un amico e gli rifaceva la storia delle sue angosce di quelle ultime ore, gii diceva che il suo male derivava da una immensa gioia distrutta; lo supplicava di tornare a visitarla spesso, molto spesso. Roberto si sentiva a disagio. Non voleva cullarla con vane speranze, e lo stato veramente lagrimevole di Paola impedivagli di essere veritiero e di dirle che Franco non meritava quell'appassionata adorazione che ella gii portava. Ogni momento faceva atto di alzarsi, ma la marchesa con uno sguardo supplichevole lo tratteneva, dicendogli : È tanto difficile che mi trovi sola un'altra volta che possa parlare con lei liberamente come stadera; rimanga. E Roberto rimaneva ad ascoltare lo sfogo di quell'anima sensibile, divorata dall'amore, che pareva da un momento all'altro dovesse abbandonare il corpo. Ed era lei che Franco aveva chiamato a sparger di fiori e di lagrime il suo cadavere! La visita era durata due ore e Roberto, nello scender le scale, pensava con raccapriccio al grande, all'immenso egoismo di Franco che voleva morendo uccidere una povera creatura colpevole soltanto di amarlo. E il fratello allora gii apparve vile come quei Werther da strapazzo, che inducono una donna a farsi ammazzare da loro, esaltandola al pensiero di una riunione eterna nella morte, e quasi sempre tremano nello sparare contro se stessi e vi rinunziano o si feriscono leggermente. Povera donna! - esclamò, - se potesse dimenticarlo! ma non lo dimenticherà. Il cuore di Roberto era una di quelle arpe divine che vibrano al soffio di ogni umano dolore, che si commovono non in ragione della sventura maggiore o minore, ma del grado di resistenza dell'infelice che deve sopportarla. E Paola a gli occhi suoi apparve debolissima. Il sentimento era il perno della vita di quella donna, anzi era la vita stessa. Tutte le altre facoltà, lasciate sonnacchiose da una educazione sbagliata, erano subordinate a quello. Non lo sapeva. Paola non gli aveva fatto nessuna confidenza sulla vita anteriore al matrimonio, ma era sicuro che quella pallida creatura era cresciuta fra le mura claustrali di un convento, ove le tendenze appassionate dell' anima si erano manifestate ora nelle estasi della comunione con lo sposo celeste, ora nell'adorazione di San Luigi, ora nella passione per una compagna. La religione, questo balsamo delle anime forti, questo rifugio delle menti torturate dal dubbio, era stata un eccitamento troppo forte per quella sensitiva. Se le persone cui era affidata l'educazione di Paola, avessero capito il frutto che potevano trarre da quella sensibilità, avrebbero dato vigore alla mente della bambina, esercitandola in severi studi, costringendola a pensare più che a sentire, e nello stesso tempo con i! moto razionale, con l'aria, col cibo, avrebbero dato forza ai muscoli. Stabilito l'equilibrio fra quella triade di forze che costituisce la vita dell'individuo, data al sentimento una direzione più ragionevole, Paola sarebbe stata una donna onesta e utile, una di quelle donne che sono una benedizione per la famiglia, sulla quale spargono i tesori della loro tenerezza. Invece era una infelice; e un cenno di Franco sarebbe bastato a farne una colpevole. Ovunque guardava, Roberto non vedeva altro che vittime di una falsa educazione, che forze disperse a danno dell'umanità e del bene, che elementi buoni sviati dal grande scopo e convertiti in cagione di malessere sociale. Come benediva suo padre di averlo diretto, educato; di aver fatto di lui un uomo! E quanto era grande il desiderio di far del bene che lo animava, ma quanto sentivasi impotente dinanzi a tanti dolori, a tanti pervertimenti. Doveva limitare l'opera sua a Franco, pensare a lui solo per non sperdere le forze in altri tentativi che avrebbe dovuto abbandonare subito. Franco bastava per il momento. E tornando in camera scrisse al fratello una breve lettera ringraziondolo di quello che aveva fatto, dimostrandogli una calda gratitudine. Si protestava suo obbligato per togliere all'altro una parte dell'onere della riconoscenza, che spesso è grave a portare e infonde nell'anima del beneficato un sentimento di avversione per il benefattore. Non voleva che Franco provasse rispetto a lui, nessuna avversione; voleva poter spargere nel cuore di quell'indifferente i semi dell'affetto e sperava raccoglierne i frutti, non perché avesse desiderio di farsi voler bene da Franco, ma per nobilitarlo con un sentimento buono. In quella lettera accennò alla visita a donna Paola, gli descrisse lo stato lagrimevole in cui avevala trovata e lo esortò a scriverle una buona lettera, da amico vero, senza sentimentalità e senza lamenti, per calmarla ancora più e trattenerla dal commettere atti inconsulti che potessero comprometterla. Quando ebbe terminata quella lettera, Roberto si sentì preso da un sonno prepotente. Era il fisico che riprendeva i suoi diritti, che reclamava alcune ore di riposo, dopo due giorni di continua angoscia, di continua tensione della mente. Tutto si confuse a un tratto nel pensiero di Roberto e quasi macchinalmente cercò il letto, e si addormentò di un sonno pesante, scevro di sogni, che sono il ricordo confuso di certe impressioni, che il letargo del pensiero e del sentimento non riesce a dileguare.

Dopo, liquidato tutto, confido che ti rimanga abbastanza da vivere; se non riuscissi a questo, la mia casa sarà sempre la tua e i beni di nostra madre ti appartengono come a me. La povertà dunque non ti spaventi, Franco; ti spaventino le azioni inconsiderate che possono distruggere l'opera mia. Perché scrivere alla marchesa quella lettera così triste e affettuosa? Non sai che ella voleva venire qua ad ogni costo e offrirti la consolazione del suo amore? Povera Paola! - disse Franco lusingato nell'amor proprio. - Avrebbe fatto questo? Non scherzare con quel cuore appassionato di donna: l'amore per te è la sua malattia, e di quella morirà, tè lo assicuro io. Sii circospetto, scrivile quel tanto che basta a tenerla calma, ma non le fare sfoghi per intenerirla. La fuga di lei dalla casa del marito sarebbe la più grande sventura che potrebbe capitarti in questo momento. Sarebbe per me il colpo di grazia! Io non voglio fastidj, non voglio seccature e qui si vive così bene, in questo nuovo mondo dove mi hai trasportato! 0142 Dunque la signora Velleda e i pochi amici miei ti hanno affezionato a questo luogo? Mi pare di esservi stato sempre e di non potermene più allontanare. È la vita nel Paradiso terrestre e non manca neppure l'Eva adorabile. Roberto fu offeso da quella ammirazione espressa in tono fatuo e non rispose. Poi parlò della zia, della buona duchessa, che era rimasta così afflitta della lontananza del suo Franco e alla quale la marchesa Paola aveva fatto una visita, la prima dopo la sua malattia, per parlarle dell'assente. Grazie a te, - disse Franco rinchiudendo il vaglia nella scrivania, - non sono stato mai così ricco come adesso. Ho una piccola somma e nessun conto da pagare, nulla da spendere. Mi pare un sogno. Prima potevo avere in cassa migliata e migliala: il dare superava sempre la riserva e a giorni non avevo da pagare una carrozza ; che vita tranquilla che tu mi hai preparata! In questa gratititudine, che il duca si compiaceva di esprimere al fratello, non v'era mai un accento che partisse dal cuore, una parola calda e sentita. E anche la gratitudine si limitava alla parte materiale dell'esistenza, non al lato morale di essa, al quale Roberto aveva pensato soprattutto nell' addossarsi gli affari di Franco. Come farò a destare in lui il sentimento della dignità, come farò ad assuefarlo ad anteporre i beni morali a quelli materiali? - pensava Roberto e si convinceva che l'opera più difficile cominciava appunto ora. La campana dello stabilimento annunziò la pausa nel lavoro e Roberto si alzò prontamente. Vuoi venire ad assistere al pranzo degli operai? disse. - Oggi è il primo maggio e la signora Velleda ha preparato loro una piccola festa. Franco si alzò anch'egli e i due fratelli scesero nello stabilimento. Nel vederli passare; tutti gli operai che 0143 stavano aggruppati intorno alla fontana si voltarono. Il duca vestito di lana bianca, sottile, nervoso, elegante, con lo sguardo freddo, distratto, e l'andatura stanca pareva un gran signore capitato per caso in quel centro di attività; Roberto, con l'abito di tela da lavoro, le forti spalle, l'occhio animato e vigile, era uno di loro, il primo e il più attivo. Gli operai notavano quel contrasto fra i due fratelli e alcuni dicevano: Vedi, don Franco non avrebbe la mano di ferro del padrone! Si, - rispondevano gli altri, - ma con lui si chiuderebbe subito lo stabilimento. Non è un uomo! A poco a poco la tettoia delle cucine si era riempita. Roberto e Franco stavano in disparte, gli operai andavano ad occupare i loro posti, e le donne incominciavano la distribuzione dei maccheroni. Dalle grandi caldaie scoperchiate uscivano nuvole di vapore e dalle teglie di rame saliva nell'aria l'odore del sugo di carne. Quando i maccheroni erano già distribuiti giunse Velleda sola; a poca distanza la seguiva Maria insieme con la nutrice. Questa pareva invecchiata di parecchi anni in quegli ultimi giorni e camminava con andatura stanca. La signora sorrise ai due fratelli e si diresse verso i fornelli; Maria corse vicina al babbo e Costanza rimase sola. Ella cercò con l'occhio il posto dell'operaio col quale aveva parlato due sere prima sotto la carrubba, e vedutolo fece diversi giri fra una tavola e l'altra, scambiando parole con questo e con quello e accostandosi sempre a lui senza dar nell'occhio. Che ne dite eh, del ragout? - domandò la nutrice quando fu accanto a Giovanni, atteggiando le labbra a un sorriso. Dico che è buono, ma non posso dir altro. Tutto è mistero, Costanza. Il sorriso svanì dalle labbra della donna e i suoi occhi espressero un'ansia straziante. 0144 Oggi, - aggiunse l'operaio; - tutti fanno sciopero negli stabilimenti di Marsala, e noi siamo qui a mangiare un buon piatto di maccheroni. Chi soffre e chi gode; chi è rinchiuso e chi è libero così è la vita. Da quelle vaghe parole Costanza aveva capito che Giovanni non aveva notiza del prigioniero e s'allontanò a testa bassa, sconsolata. Gli operai mangiavano avidamente le buone pietanze ordinate da "Velleda. Molti, già sazj, rinvoltavano in un foglio il pesce e il formaggio, pensando alla cena e già stavano per alzarsi e ritornare al lavoro, quando Roberto si accostò alla tavola centrale e disse con la sua bella voce sonora: Figliuoli, i vostri compagni d'Italia e di tutto il mondo hanno voluto che questo giorno fosse santificato ovunque. Ma invece di trascorrerlo nel riposo, lo impiegano a contare le forze, a chiedere con minacce una riduzione delle ore di lavoro. Prima che voi mi faceste questa domanda, io vi proposi di limitare a ott'ore il vostro lavoro quotidiano, sicché su questo punto non vi sono stati fra noi malintesi. Oggi non mi avete chiesto il riposo, ma io ve lo concedo da mezzogiorno in poi; e se stamane vi ho fatto venire al lavoro, è stato soltanto per dimostrare agli altri proprietari di stabilimenti che voi mi ubbidite e che fra noi non sussistono attriti. Questa ubbidienza io sento di doverla all'amore e alla giustizia con la quale vi guido. Talvolta mi accuserete di durezza, ma per guidare trecento uomini ci vuole severità ed io vi spingo a lavorare e ad esser disciplinati per non avere il dolore di licenziarvi, poiché io vi voglio bene e mi separo con rincrescimento dai miei cooperatori, e non è neppure la sete di guadagno che mi fa lavorare più duramente di voi, no. Io ho bisogno di poco e le mie terre mi darebbero da vivere: è il desiderio di rendermi utile, di far prosperare questa regione, di dar lavoro a voi che vi siete nati. Se domani, disgustato 0145 dagli ostacoli che incontro, io chiudessi lo stabilimento, voi dovreste andare in altri paesi, in cerca di lavoro, e forse emigrare in America, abbandonare le vostre famiglie. È dunque soprattutto l'interesse vostro che mi spinge a volere che l'attività non cessi a Selinunte. Aiutatemi, lavorate con amore, e invece di guardare quei pochi più fortunati di voi, fermatevi a considerare i più infelici, quelli ai quali il lavoro manca, che a turbe debbono abbandonare tutto ciò che amano, per recarsi a chiedere a una terra lontana quel pane che rifiuta loro la patria. Figliuoli, a quegli infelici pensate e il lavoro vi parrá lieve e forse lo spettacolo di tante miserie profonde vi farà benedire la mia operosità. Gli occhi di molti operai erano umidi di lacrime e il vecchio Federigo, quegli che soleva intonare la preghiera quotidiana, si alzò e fissando Roberto, disse: Non abbiamo bisogno di guardare i più infelici di noi, per benedirvi, padrone. Quanti sciagurati voi avete trattenuti sull'orlo del precipizio, quanti avete salvati! Questi fatti sono scritti nei nostri cuori. Voi siete il nostro padre severo e amoroso e i morenti si confortano pensando che voi non abbandonate le loro famiglie. Le vostre opere danno frutto, padrone; noi vi siamo devoti e l'azione malvagia di un perverso, di un compagno che rinneghiamo, ci ha fatto sentire meglio quanto vi siamo affezionati. Che Iddio vi benedica, o padrone, e benedica l'opera vostra! Un grido uscì da tutte le bocche, un grido lungo che commosse Roberto e riempì di lacrime gli occhi di Velleda. Le labbra di Giovanni rimasero chiuse e Costanza si fece livida. Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

Sempre più quella donna appariva a Franco un enigma; era bellina, era abbastanza ricca, era giovane e sola e qual ragione mai la spingeva a sotterrarsi viva su quella spiaggia abbandonata? Se avesse conosciuto Roberto, prima, se lo avesse amato, era naturale che fosse andata presso di lui; ma non lo aveva mai visto e come mai s'era imposta quel sacrifizio volontario, senza esservi neppure spinta dal bisogno? Il duca rivolse altre interrogazioni al Varvaro, senza ottenere maggiori notizie di quelle che già sapeva. Velleda aveva saputo ispirare tanto rispetto in quell'uomo semplice, che si sarebbe vergognato di nutrire un sospetto sulla sua esistenza precedente, e Franco si accorge che aveva sbagliato strada per giungere a scoprir terreno. Poco dopo il Varvaro augurò a Franco la buona notte e questi, rimasto solo, aprì la lettera del fratello. Roberto scrivevagli lungamente, narrandogli che nei primi giorni, al palazzo, non cessava mai la processione dei creditori. Informati dai giornali della sua partenza, sarti, calzolai, carrozzieri, fiorai, orefici, fornitori delle scuderie e delle cucine, tappezzieri, tutti eran corsi e volevano essere pagati. Ma i servi erano andati via, i cavalli erano stati venduti, e il guardaportone aveva ordine di mandar tutti dall'avvocato, che li aveva calmati con alcune migliata di lire, ricavate dalla vendita dei cavalli e delle carrozze e con l'esazione di alcune pigioni arretrate. Lo scandalo volgare, dei piccoli e clamorosi creditori era stato dunque evitato e Roberto sperava di evitare anche quello grosso. Aveva, dai direttori d'istituti di credito, ottenuto una dilazione per il rinnovo delle cambiali e ora trattava con un proprietario di albergo la vendita del palazzo. Con la somma che sperava ottenerne, avrebbe soddisfatto i debiti ipotecare che su quello gravavano e gli sarebbe bastata anche a pagare gl'interessi delle cambiali. Voleva ad ogni costo evitare il fallimento, per non vendere disastrosamente. Egli invitava Franco a farsi animo, assicurandolo che da quel disastro gli sarebbe rimasto qualcosa. Intanto, appena venduto il palazzo, sarebbe partito da Roma, per tornarvi alla nuova scadenza delle grosse cambiali; a regolare le altre minori bastavano le pigioni delle case affittate. Terminava dicendo: Credo di aver interpretato un desiderio tuo non denunziando il maestro di casa come ladro. Egli non ha saputo rendermi i conti di più migliaia di lire. I giornali si sarebbero valsi di quella notizia per dire il vero e il falso sul conto tuo, e il silenzio, in questo momento vale più di ogni altra cosa. Le rose fioriscono sempre e la marchesa Salvati ne riceve ogni giorno. Ella sta meglio. Ancora non ha saputo della tua partenza e ogni giorno ti manda a ringraziare. Scrivile per annunziarle che sei costà, affinchè risorgendo non lo sappia da altri e preparati con serietà di proposito alla nuova esistenza, che potresti rivolgere a utile tuo e di altre persone. Questa lettera consolò Franco rispetto ai suoi interessi. L'arrivo del fratello a Roma in quel momento disastroso era stata una fortuna per lui. Senza Roberto tutto, tutto sarebbe stato inghiottito, senza soddisfare chi avanzava. È una potenza quel Roberto! - esclamò il duca e riepilogando tutto ciò che aveva veduto in due giorni e che era opera soltanto di suo fratello, questi gli apparve potente e saldo come una delle colonne gigantesche che rimanevano erette sulle sabbia, una di quelle colonne che nè commozioni telluriche, nè furia d'intemperie, nè rabbia d'uomini avevano potuto abbattere. Oh! che invidia ispiravagli quel colosso, che dominava gli eventi, che lo vinceva nella forza, nel sapere, nell'intelligenza, nella bontà, in tutto, in tutto, anche nella bellezza fisica, perché Roberto era la vera espressione della bellezza maschile! Ma non può non avere un lato vulnerabile, - diceva Franco a se stesso, - e quel lato io lo scoprirò certo; so volere tenacemente anch'io! Mentre il duca sfogava nella sua camera l' invidia contro il suo salvatore, Velleda, in atteggiamento umile, di devota, dinanzi a una sacra reliquia, rileggeva per la terza volta la lettera di Roberto e giunta alla firma, posava su quella le labbra. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime, ma un sorriso di beatitudine le illuminava il volto delicato, curvo sui fogli coperti di una scrittura unita e marcata. Nessuna lettera di Roberto l'aveva fatta piangere, perché nessuna era più dolce, più cara di quella. Mia buona amica, - diceva quella lettera, - lasci che io le dia questo nome che riassume i sentimenti di stima profonda e di affetto vero che nutro per lei. Nessuna donna, credo, abbia mai avuto nel cuore di un uomo onesto il posto che ella occupa nel mio. Non le ho fatto mai questa confidenza, poiché non volevo che vicino a lei la commozione mi vincesse, e perché potevo esser debole anch'io e noi dobbiamo esser forti; ma ora, da lontano, posso farle questo sfogo, posso aprirle il mio cuore di cui ella è signora. E questo dominio che ella ha preso su di me, non sussiste da che le sono lontano, da che sento la mancanza di lei ad ogni istante, no. Rammenta la lunga lettera che mi scrisse appena io ebbi accettato la sua offerta di essere per Maria una seconda madre? Spinta da un sentimento di delicatezza sublime, ella volle farmi una confessione generale e mi narrò la sua triste infanzia fra una madre, gran signora, dissipatrice, capricciosa, una di quelle russe che hanno tutte le superstizioni delle razze corrotte e tutti gli ardimenti di quelle primitive, pietosa e barbara, entusiasta e calcolatrice, nevrotica e dispotica sempre; e un padre, artista di piccola ambizione e di modesta fama, gretto, schiavo della moglie, incapace di farsi valere dagli estranei e di farsi rispettare in famiglia. E accennava alle scene disgustose, ributtanti, fra la dama che rinfacciava al suo schiavo la propria inettezza a conquistare un nome e una fortuna, che il più delle volte sorride soltanto agli auduci. Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 1 occorrenze

Non c'erano perle abbastanza grosse per farle il vezzo, brillanti abbastanza belli per comporle la corona, nè stoffe preziose degne di essere portate da lei. Il mercante lo sentì dire: pensò al suo bel vestito di teletta d'oro, e benchè fosse vecchio, stravecchio, volle mettersi in cam- mino per andare a vendere al re di Fran- cia la stoffa preziosa a gigli d'argento. Un re gliela avrebbe pagata da re, e Sgricciolina avrebbe avuto una bella dote. Abbracciò Sgricciolina, le raccomandò di essere buona, di star sempre in casa ad aspettarlo, e andò via. Cammina, cammina, arrivò finalmente alla Corte del Re di Fran- cia il giorno avanti le nozze; ma le guardie non volevano introdurlo alla presenza del sovrano. - Il Re ha già comprato tutti i re- gali; il Re non vuole essere disturbato. - Ma il mercante tanto insistè, che fu ammesso a udienza; e appena ebbe spiegata davanti agli occhi del sovrano la sua ma- gnifica stoffa, il Re ne rimase incantato: or- dinò che la Principessa non dovesse vestire altro abito il giorno seguente, che era quello delle nozze, e disse al mercante di sce- gliere quel che voleva nel suo tesoro, in compenso del tessuto prezioso che gli aveva portato. Il mercante, che era vecchio e che non poteva portare tanto peso di monete, scelse un brillante bellissimo; e, tutto con- tento, pensando alla sua Sgricciolina e alla dote che le aveva assicurato, si mise in cammino per tornare a casa. Lasciamo il mercante per la strada e torniamo alla Corte del Re di Francia. Furono subito chiamate dieci sarte per ordine del Re, e tutte e dieci lavorarono l'intera notte a tagliare, imbastire, cucire e guarnire l'abito della Principessa, sicchè all'alba era pronto. Ma appena le came- riere lo misero addosso alla Principessa, questa cadde in terra fulminata. Furono chiamati tutti i medici, gli scienziati della Corte per farla rinvenire: il Re era di- sperato; prometteva mari e monti a chi gli avesse richiamato in vita la sposa; ma per quanto facessero a nessuno riuscì. Allora furono sospese le feste; il Re volle che la sua sposa fosse messa, vestita com'era, in una cassa di cristallo, e subito diede ordine che le guardie montassero a cavallo e gli portassero vivo o morto il mercante. L’abito della Principessa doveva es- sere avvelenato, e doveva averle cagionato la morte. Le guardie raggiunsero il mercante in un’osteria dove s'era fermato per passare la notte; lo condussero alla presenza del Re, lo sottoposero alla tortura, lo minac- ciarono della morte se non confessava il suo delitto; ma il vecchio, sempre impas- sibile, rispondeva: - Giuro per la mia Sgricciolina che sono innocente. - Tu hai fatto il male, devi cono- scere anche il rimedio. - Sono innocente! Sono innocente! - Nonostante tutte quelle proteste, il Re dove, sopra un mucchio di foglie secche, passò la notte. Il moscone, posato sopra una frasca, le fece lume col suo chiarore. A giorno Sgricciolina riprese il suo fa- gotto, e via dietro al moscone. Quando venne la sera incontrò in mezzo a un bosco un’altra vecchina nuda bruca come la prima, e più grinzosa, se era pos- sibile. Sgricciolina le dette il secondo vestito per riscaldarla, e la vecchina, che basiva dal freddo, le disse appena potè parlare: - Giacchè sei una buona ragazza, ti voglio aiutare. Eccoti una boccetta d'olio; basta che tu unga il palmo delle mani della sposa del Re di Francia, perchè quella da morta ritorni viva. - E che me ne importa se la sposa del Re di Francia, è morta? Io cerco il mio nonno. - Prendi la boccetta e cammina notte e giorno. - La sera la fanciulla trovò una terza vecchina intirizzita dal freddo, e anche a quella dette il terzo vestito. - Giacchè sei una buona ragazza, - disse la vecchina - ti voglio aiutare. Pren- di quest'anello con un ametista. Basta che tu rivolti la pietra dal lato del palmo della mano, perché tu veda senz’essere veduta. - Sgricciolina non voleva l'anello. - Cerco il mio nonno, e che m'im- porta d'essere invisibile? - Prendilo e te ne troverai molto contenta. - Sgricciolina ringraziò e s'incamminò, sempre dietro al moscone, finchè non ar- rivò alla città dov'era la Corte del Re di Francia. Lì il moscone si fermò, e andò a po- sarsi in vetta alla torre del palazzo reale, dove splendeva come una stella. Sgricciolina non si mosse per tutta la notte dalla piazza, davanti al palazzo; e la mattina, appena aprirono le porte, voltò l'anello e vi s'introdusse. Gira, rigira per le stanze, per le sale, passava in mezzo alla gente senza esser vista, ma non le riusciva di trovare la torre dove era murato il suo nonno. Che fece allora Sgricciolina? Andò nelle cu- cine reali, guardò e osservò; vide final- mente che uno sguattero empiva un pa- niere di roba da mangiare e diceva al cuoco: - Porto il desinare al vecchio. - Sgricciolina si sentì battere il cuore; si mise alle calcagna dello sguattero, e salì, salì, passò corridoi, stanze, soffitte, e final- mente arrivò davanti a un foro praticato nella muraglia. Lo sguattero consegnò il desinare al prigioniero, e Sgricciolina vide da quel foro il suo nonno, diventato scarno da far pietà, con una barba lunga che lo copriva tutto, le unghie lunghe un braccio e gli occhi infossati dal piangere. Aspettò che lo sguattero fosse andato via, e poi rivoltò l'anello, mise il visino al buco e chiamò: - Nonno! - Il vecchio si scosse, chiuse gli occhi e non rispose. - Nonno! - ripetè Sgricciolina. Il vecchio, pur sentendosi chiamare, stava sempre zitto, ma piangeva. Alla terza chiamata socchiuse gli oc- chi, e mandò un grido. Allora Sgricciolina volle sapere per- chè l’avevano rinchiuso nella torre, ed il nonno glielo disse. - State tranquillo, - osservò la nipo- tina - che il mezzo di salvarvi ce l'ho io. Domani la Principessa ritornerà in vita, e voi sarete libero. – Rivoltò l'anello, diventò di nuovo in- visibile, ritraversò corridoi, scese scale, uscì fuori sulla piazza e si mise ad aspettare il passaggio del Re, che in quel giorno ap- punto doveva partire per la guerra. Quando lo vide uscire dal palazzo, Sgricciolina si gettò in ginocchio e lo sup- plicò di lasciarla mezz'ora soltanto nella stanza della Principessa morta, chè se dopo mezz'ora non le avesse reso la vita, doveva sottoporla, come impostora, a qualsiasi sup- plizio. Il Re fermò il cavallo, dette ordine che fosse rimessa la partenza a un altro giorno, e tornò al palazzo con Sgricciolina. - Bada, - le disse con faccia se- vera - se tu m'inganni ti faccio tagliar la testa. - Sgricciolina sorrise e fu lasciata sola nella stanza dove, su un piedistallo d'oro massiccio, riposava la cassa di cristallo contenente il corpo della Principessa. Sgricciolina alzò il coperchio, tolse alla Principessa tutti gli anelli che aveva nelle dita, e le unse il palmo delle mani con l'unguento della vecchina. A un po' per volta la morta incomin- ciò a batter le palpebre, ad alzare le braccia, a muover le gambe, finchè si alzò, sor- rise e andò alla presenza del Re suo sposo. Non si può dire la gioia del Re e le feste che furono fatte a Sgricciolina. Il Re voleva che rimanesse alla Corte, voleva crearla prima dama della Regina; ma Sgricciolina ricusò, e, come ricompensa, chiese la liberazione del nonno, che le fu subito concessa. Fu fatto lo sposalizio con gran pompa, e ci assistettero pure Sgricciolina e il nonno; e dopo, felici e contenti e carichi di regali, tornarono a casa loro. Ma allo sposalizio c'era pure un altro Re d'un paese vicino, che si commosse tanto al racconto di quel che aveva fatto Sgricciolina per salvare il nonno, che poco dopo andò a chiederla in moglie, e si spo- sarono e furono felici e contenti. E termina così la mia novella Ditene, se vi pare, una più bella.

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