Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

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Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

323598
Lazzari Turco, Giulia 27 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
  • UNIFI
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Altro ripieno semplicissimo ma abbastanza buono. 100 grammi di midolla di manzo, 100 gr. di grasso di rognone di manzo, 1/2 noce moscata grattata, 1 uovo, 100 gr. di formaggio lodigiano, un po' di cannella.

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Diluito questo composto con brodo buono, dopo una lunga bollitura, passate il liquido dal colabrodo e, se non fosse spesso abbastanza, aggiungetevi un leggero roux (2 cucchiai di farina mescolati con un pezzo di burro al fuoco, rosolati e diluiti con un po' di consommé). Servitequindi coi filetti. Se non vi piacessero i filetti potete fare dei gnocchetti (vedi pag. 78 N. 73).

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Se fosse troppo dolce unitevi il sugo di 1 limone; se non fosse densa abbastanza un po' di mandorle grattate o anche semplice pangrattato.

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c) Preparate un bel pezzo di filetto, battendolo un poco se nonfosse abbastanza frollo. Collocatelo poi in una cazzarola sopra uno strato di lardo e cipolle, dopo avervi aggiunto del sale pestato insieme ad una fesa o due di aglio. Quando è bene rosolato da tutte le parti, spargetevi sopra un cucchiaio di farina, e quando anche questa è rosolata vino e brodo a poco a poco. Cottura ore 1-1 ½ .

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Cospargeteli di pepe, infilzateli nello spiedo, metteteli a fuoco abbastanza vivo pillottandoli continuamente con del burro. A metà cottura spolverizzateli di pangrattato, serviteli fumanti con burro d'acciuga o con qualche salsa piccante. La durata della cottura dipende dalla grandezza degli arnioni: se fossero troppo grandi vi converrà dividerli e frapporvi delle fettine di lardo marinato con pepe e altre spezie. Il sale sempre alla fine.

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lo esporrete a un fuoco abbastanza vivo di brace, pillottandolo con olio ; 25 m. prima di servirlo leverete la carta e lo lascierete pigliare un bel colore.

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Se il composto non fosse molle abbastanza unitevi un po' di brodo.

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Le persone che fanno acquisto di funghi sui pubblici mercati sono sempre garantite dalla sorveglianza degli agenti municipali ; a quelle che dimorano in campagna e specialmente in luoghi montuosi, favorevoli allo sviluppo dei miceti, consiglierei di procurarsi delle cognizioni rudimentali di micologia e non saprei raccomandare abbastanza l'opera popolare dell'illustre scienziato Abate Giacomo Bresadola I funghi mangerecci e velenosi dell'Europa media *) che saprà toglierle da ogni dubbio e fornirle dei più utili insegnamenti.

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. — Non dissimile dal precedente per la forma, la tromba da morto ad onta delsuo colore fosco e del suo triste nome è abbastanza ricercata. Essa si ammannisce in umido.

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È fungo abbastanza buono che si prepara in umido e che dev'essere freschissimo altrimenti tramanda un odore ripulsivo.

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Invece delle frutta fresche s'adoperano anche quelle conservate col sistema Appert (vedi Cap. 36) diminuendo la quantità dello zucchero in proporzione, oppure la marmellata fina, aggiungendone alcuni cucchiai alla panna finchè questa riesce abbastanza dolce e saporita, un po' di sugo di limone o d'arancio e un bicchierino di persico (vedi Cap. 37), o di un liquore simile.

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[immagine e didascalia: Forma della focaccia senza burro] po' di sale, unitevi il lievito ben fermentato, impastate tutto con forza e destrezza aggiungendo, se occorresse, un po' di latte crudo per formare una pasta bella, morbida e abbastanza consistente. Lavoratela 40 minuti circa, riducetela in forma di palla, e poi con le mani infarinate fatevi un buco nel mezzo e allargatela in forma d'anello. Collocatela sulla lamiera unta e infarinata o su un pezzo d'ardesia, lasciatela lievitare in luogo caldo, doratela col tuorlo d'uovo sbattuto e cospargegetela di zucchero a granelli. Cuocetela a forno caldo.

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Cuocetele a forno abbastanza caldo, il giorno seguente tagliatele in due parti per traverso con un coltello affilato e fatele biscottare.

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Cuocete il composto in una tortiera unta di burro e spolverizzata di farina e a forno abbastanza ardito.

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Forno abbastanza caldo.

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Cuoceteli in un forno abbastanza caldo, riuniteli con una delle creme della precedente ricetta e guerniteli con una glace corrispondente.

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Lavorate le uova collo zucchero lungamente, unitevi a goccia a goccia il burro fuso, poi la farina : stendete il composto su una grande lamiera e cuocetelo a forno abbastanza allegro. Tagliatelo quindi in forma di anelli del diametro di 20 cent., unite questi anelli con della buona marmellata e copriteli con un composto da meringa (3 albumi sbattuti a densa neve misti con 300 gr. di zucchero), collocateli di nuovo al forno (dolce) ; quando la spuma è rappresa, sfornate e riempite il vano colla panna montata. Coi ritagli della pasta fate dei biscottini.

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Dimenate i tuorli collo zucchero e gli albumi montateli a neve ; unite le mandorle pestate e quelle tagliate a filetti ai tuorli sbattuti, aggiungetevi la metà delle chiare, poi la farina, quindi l'altra metà delle chiare ; versate il composto in uno stampo che avrete unto col burro, guernito colle mandorle dimezzate e bene spolverizzato di zucchero e fatelo cuocere a forno abbastanza caldo. A questo biscotto si addice lo stampo N.° 9 e quello del Gugelhupf (vedi pag. 589).

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Empiteli a metà col composto e collocateli sulla lamiera a forno abbastanza caldo, spolverizzandoli di zucchero. Quando sono cotti aspettate un momento a levarli dagli stampini e, se la carta non si staccasse dal biscotto, bagnatela lievemente.

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Forno abbastanza ardito. Lamiera, come sempre, unta e infarinata.

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[immagine e didascalia: Forma dei fagottini] metteteli sulla lamiera unta e infarinata e cuoceteli a forno abbastanza caldo. Badate però che devono prendere soltanto un po' di colore giallolino e tutto eguale.

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Quando è bello e liscio, tiratene una sfoglia della grossezza d'una moneta da 5 lire, tagliatela a rotondini, unite questi dischi a due a due con della buona marmellata, cuoceteli sulla lamiera unta e infarinata a forno abbastanza caldo, poi velateli con una glace di limone o d'arancio.

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Amalgamate tutto sulla spianatoia, tirate una sfoglia della grossezza di mezzo centimetro, tagliatela a rotondini e cuocetela a forno abbastanza caldo. La pasta non dev'essere troppo molle. Tuttavia, se occorresse, vi aggiungerete un po' di sugo di limone.

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Stendete il composto sulla lamiera lievemente unta e asciugata e, quando ha preso un bel color d'oro a forno abbastanza caldo, riducetelo a quadratelli con un apposito tagliapasta, staccando i pezzetti che aderissero alla piastra sulla quale li lascerete poi raffreddare prima di unirli a due a due con della marmellata di arancio. Guerniteli poi anche con la glace d'arancio.

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Levate gli spicchi quando sono abbastanza morbidi e riponeteli in una catinella. Con l'acqua in cui li avrete cotti fate una buona gelée (vedi Sez. V.) aggiungendovi però, oltre lo zucchero che occorre, altrettanto zucchero quanto pesavano gli spicchi crudi. Quando è presso a condensarsi ritiratela dal fuoco e, intiepidita che sia, versatela sugli spicchi cotti. Il giorno seguente condensate il sugo e riunitelo tiepido agli spicchi.

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Se non fosse abbastanza chiaro converrebbe passarlo da un sacchetto di lana. Unitevi egual peso o metà peso di zucchero (secondo il gusto) e cuocete fino alla prova, aggiungendovi, se v'aggrada, la scorza trita finissima e il sugo di 1 o 2 aranci o limoni, oppure della vaniglina. Se le mele sono immature, potete diminuire la quantità dello zucchero egualmente. La gelée aspretta è più gustosa.

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In questo modo i legumi, che poi conserverete in un luogo asciutto entro sacchetti d'organdis, riescono abbastanza gustosi e la prova è da tentarsi perchè costa poca fatica.

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

. - Io non provo niente, forse perché non me n'hai dato abbastanza! - Neppure io provo niente. Forse quella vecchia ci ha canzonati. - Ho sonno; andiamo a letto. - Andiamo a letto. E, imbronciti, si coricarono. - Fatti più in là! Sto proprio su l'orlo. - Io sto per cascare. La moglie diè uno spintone, il marito un altro; il letto traballava. Avevano una forza insolita. Ah! L'acqua operava. Allora si chetarono, aspettando. La mattina, allo svegliarsi, si trovarono diventati ragazzi. Ma non si riconoscevano. - Tu chi sei? E che ci fai qui? - Io sono a casa mia. E tu chi sei? - Che t'importa? Facciamo il chiasso. - Facciamo il chiasso. E si misero a ruzzare sul letto, con salti e capriole. Più tardi, aprirono la porta e si trovarono nella via. - Tu per dove vai? - Per qua. - Io per quest'altra parte. Si voltarono le spalle, senza neppur salutarsi, e se n'andarono ognuno pei fatti suoi. Il ragazzo incontrò un Signore. - Vuoi prender servizio, ragazzo? - Che devo fare? - Strigliare i cavalli e portarli a bere alla fontana. Una mattina egli vide passare davanti la scuderia la ragazza, con cui aveva fatto il chiasso sul letto tra salti e capriole. - Oh! Tu? - Sono a servizio. - Sei contenta della padrona?. - Ché! Mi sgrida, mi picchia per un nonnulla. - Anche lo stalliere mi sgrida e mi picchia per un nonnulla. Vado a cavallo però, quando vo ad abbeverare le bestie. - Io vo in carrozza con la signora, quando porto il bambino. - Se fossi grande, non mi picchierebbero! - Neppur me, se fossi grande! La padrona chiamava dalla finestra, lo stalliere chiamava dalla stalla. - Fannullona! - Fannullone! E scapaccioni e strilli su in casa; e scapaccioni e strilli giù in istalla. Pochi giorni dopo, egli vide passare davanti la scuderia la ragazza che piangeva: - Che hai? - La signora mi ha mandata via. - Vado via anch'io. Andiamo insieme? - Dove? - Dove ci portano le gambe, Cammina, cammina, cammina, si spersero in mezzo a un bosco. Si faceva buio, e non riuscivano a trovare la strada. Cominciarono a strillare: - Ah, mamma mia! Come faremo? - Perché piangete, ragazzi? - Nonnina, dateci aiuto! Abbiamo smarrita la strada. - Non mi riconoscete? - Non vi abbiamo mai vista. - Sono la Fortuna. Che volete? Chiedete e vi sarà dato. I ragazzi si consultarono, imbarazzati. - Che chiedere? Ricchezze? Gliele ruberebbe il primo che capitava; non si potevano difendere. Se potesse farci diventar grandi, e darci un po' di denaro, tanto da non dover star a servizio in casa altrui! - Nient'altro? - Nient'altro. - Prendete; mangiate queste due focacce, e poi schiacciate queste due noci. Vedrete. E sparì. Mangiarono le focacce e si addormentarono. La mattina, svegliandosi, si avvidero di esser cresciuti di una ventina d'anni almeno; ma non si riconoscevano. - Chi siete? Che fate qui? - Sono una boscaiola. Faccio legna. E voi? - Sono un boscaiolo; faccio carbone. - Ho una noce: è la Fortuna. - Ne ho un'altra anch'io. Le schiacciarono e ne sgusciarono fuori tante monete d'oro, nuove di zecca. - Questa è la mia dote. - E questa è la mia. Si sposarono, e lavoravano da mattina a sera. Lei faceva legna e lui faceva carbone. Ma era una vita dura. Pure mettevano sempre qualcosa da parte. - Ci servirà per quando saremo vecchi. Spesso si lamentavano: - Che vitaccia! E contavano i quattrini già messi da parte. Erano molti, non però ancora abbastanza da potere passar bene la vecchiezza. - Quando saremo vecchi, ci riposeremo. - C'è ancora tempo, marito mio. Una notte udirono rumore attorno alla capanna, e voci cupe che dicevano: - Tu qua; tu là; io dalla porta, tu dal tetto! - Oh, Dio! Sono i ladri. Marito e moglie si sentirono gelare. Uno scassinava la porta, uno sfondava il tetto: - Non vi muovete o siete morti! Dove sono i quattrini? Erano più morti che vivi soltanto per lo spavento di quelle facce barbute che gli appuntavano i pugnali alla gola: - Dove sono i quattrini? - Eccoli lì. I ladri fecero repulisti e andarono via. La mattina dopo marito e moglie non avevano forza di lavorare e piangevano in mezzo al bosco: - Poveri a noi! Come faremo? - Che avete, buona gente? Perché piangete? - Ah, nonnina! La notte scorsa siamo stati spogliati dai ladri! - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Il meglio sarebbe stato una tranquilla vecchiezza, con tanto da non stentare fino alla morte. - Nient'altro? - Nient'altro. - Ecco qui. Mangiate queste due pere e vedrete. In questa borsa poi ci sarà sempre del denaro. Più ne spenderete e più ne troverete. Prima che le dicessero grazie, era sparita. Marito e moglie mangiarono ognuno la sua pera e si addormentarono. Allo svegliarsi, strascicavano i piedi. E si ricordavano di ogni cosa passata. - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita! Non metteva conto. Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Erano tornati ad abitare la loro casa d'una volta. Si mettevano al sole davanti la porta e stavano lì lunghe ore a guardare i bambini che facevano chiasso. - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? - Che sciocchi! Abbiamo rifatto la stessa vita. Non metteva conto. Già, farne un'altra sarebbe stato lo stesso. Fanciulli, giovani, vecchi! O poveri o ricchi, s'invecchia tutti; e tutti dobbiamo morire! Spendevano e spandevano; mangiavano bene, si prendevano ogni sorta di divertimenti, e non avevano nessun pensiero dell'avvenire; la loro borsa era sempre piena; più quattrini ne cavavano e più ce n'era. Sarebbero stati felici, se non li avesse angustiati il pensiero fisso della morte. Ogni giorno che passava, era un passo verso la sepoltura. Non se ne davano pace. Una mattina stavano seduti, al solito, davanti la porta per godersi il sole. - Chi sa, marito mio, se rivedremo il sole domani! - Eh, chi lo sa, moglie mia! Videro accostarsi una vecchina: - Fate la carità! - Siete più vecchia di noi; quant'anni avete? - Gli anni miei non si contano. Non può contarli nessuno. La guardavano sbalorditi. - E camperete molt'altri anni ancora? - Finché ci sarà mondo. - Chi siete? - Non mi riconoscete? Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. Prima di mill'anni, non ripasserò da queste parti. Marito e moglie si consultarono, imbarazzati: - Che chiedere? Gioventù, ricchezze, tutto passava, tutto andava via. Se non si potesse morir mai! L'unica felicità sarebbe questa. - Se non chiedete altro; vi sarà concessa. - Non chiediamo altro. - Ecco qui. E porse una boccettina con poche gocce di un liquore rosso dentro, che pareva sangue. - Bevete, e vedrete. Prima che potessero dirle grazie, era sparita. - Berrò io il primo. - No, berrò io. - Sono il marito; devo bere il primo. - Sono donna, perciò tocca a me. - Facciamo come l'altra volta; dividiamo le gocce. - Dividiamole; sarà meglio. Le divisero e bevvero. Si sentirono diventare quasi di acciaio. - Oh, che felicità, moglie mia! Non morremo mai! - Oh, che felicità, marito mio! Non morremo mai! Passarono più di cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, curvi, canuti, tutti grinze, senza denti, coi piedi strascicanti, e ogni giorno stavano lunghe ore davanti la porta, al sole, a guardare i bambini che facevano il chiasso: - Ricordi, moglie mia? - Ricordi, marito mio? Ma non erano però così contenti come avevano creduto di dover essere. Tutto cangiava attorno a loro, tutto moriva attorno a loro. Non si potevano affezionare a nulla e a nessuno, che già se lo vedevano portar via dalla morte. Passarono più di mille anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora, sedendo davanti la porta al sole, non badavano più ai bambini che facevano il chiasso; non ripetevano più: Ricordi, marito mio? Ricordi, moglie mia? Sbadigliavano: - Oh, Dio, che noia! - Sempre la stessa storia! Non ne potevano più. Avevano visto tante e tante cose, tanta gente, tanti avvenimenti: guerre, fami, pestilenze, feste d'ogni sorta, cose belle, cose tristi, tante, tante, tante! Ma, infine, gira e rigira un continuo nascere, un continuo morire; gira e rigira, sempre quella! Non ne potevano più; si sentivano sazii di esser vissuti tanto, stanchi di vivere ancora. - Che facciamo, moglie mia! Io vorrei morire. - Anch'io. Chiamiamo la morte. Se non la chiamiamo, non viene. E la chiamarono ad alta voce: - O Morte! O Morte! Accorse, scheletrita, con la falce in mano. - Che volete da me? - Vogliamo morire. - Non posso toccarvi; la Fortuna non vuole. Si sentirono stringere il cuore. Passarono altri cento anni. Marito e moglie erano sempre gli stessi, impresciuttiti; ma ora non si vedevano più neppure avanti la porta per godersi il sole: erano sazii anche di esso che appariva tutte le mattine dalla stessa parte e andava a coricarsi tutte le sere nella stessa parte. Il sole però non si annoiava mai, non si stancava mai! - Noi no, è vero, moglie mia? - Sì, è vero, marito mio! - E la Fortuna non si vede più! - Dovrà ripassare. Ripasserà. L'attesero altri cent'anni. Finalmente rivenne e non al solito da vecchina, ma sotto l'aspetto di bellissima donna, con lunga veste cosparsa di oro, di perle, di diamanti. Non la riconobbero. - Chi siete? - Sono la Fortuna. Chiedete e vi sarà dato. - Ah Fortuna, Fortuna! Non vogliamo nulla; vogliamo morire! - Va bene; uno oggi e subito subito, l'altro fra cent'anni. - Perché non insieme? - Non si può; uno oggi, subito subito, l'altro fra cent'anni. - Marito mio, per amor tuo, scelgo di morire io fra cent'anni. - Moglie mia, per amor tuo, cedo il posto quest'oggi. - Non siete più a tempo! A rivederci fra altri cento anni. E per cento anni, marito e moglie leticarono continuamente: - La colpa è tua. A quest'ora saremmo bell'e morti e dormiremmo in pace sottoterra! - La colpa è tua! Ah! Perché non abbiamo lasciato andare le cose pel verso loro. Contavano i giorni, le ore, i minuti, e leticavano fin sul conto di essi, tanto smaniavano di veder arrivare la Fortuna. - Eccomi. Chiedete e vi sarà dato. - Ah, Fortuna, Fortuna! Non vogliamo niente: vogliamo morire; non ne possiamo più! - Vado a chiamare la Morte. I vecchietti, contentissimi, imbandirono una bella tavola, e indossarono gli abiti di festa. La gente, meravigliata, domandava: - Che vi accade, vecchietti? - Oggi le cose tornano ad andare pel verso loro. É il verso giusto, tenetelo a mente! E caddero bocconi, freddi stecchiti. La Morte era arrivata senza ch'essi se ne accorgessero. Fiaba oscura, nespola dura La paglia e il tempo ve le matura.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 9 occorrenze

Nullameno anche fra questi esterni vi erano delle suddivisioni: alcuni vivevano abbastanza bene presso qualche parente, tutti avevano già delle relazioni, mentre Giannino non conosceva nella città che il signore, dal quale aveva già ricevuto il soprannome di vescovo. Questi, ancora giovane, era caduto poco prima assai pericolosamente, azzoppandosi dalla gamba destra. Quel primo inverno fu rigidissimo. Il piccolo "vescovo" tutte le mattine sulle otto passava per il Corso, svoltando all'angolo del palazzo Zannoni per andare al seminario senza attraversare la piazza, giacché la miseria degli abiti e l'aria sparuta del viso lo avevano segnalato alle atroci buffonerie dei monelli, che una volta gli erano già corsi sopra a palle di neve fra le risate di tutti. Nullameno il suo coraggio, simile a quello dei passeri che seguitano a cantare anche quando la neve ha coperto tutti i campi, non aveva bisogno di molti sforzi per resistere a tale vita. La mattina non faceva colazione: tornando a casa dal seminario, se per la vecchia Geltrude non era giorno di fornello, comprava in una piccola bottega, sempre la stessa, il solito mezzo chilo di pane bruno e tre soldi di frutta o tre soldi di maiale; divideva il tutto in due parti, e la giornata era trascorsa. Nel pomeriggio bisognava tornare a scuola, poi andava a spasso se non capitava qualche funzione di chiesa, e finalmente a letto col mantello dell'arciprete e tutti gli altri vestiti sulle coperte. Lì studiava allo scarso lume di un lanternino a petrolio, ma anche questo bisognava non lasciarlo ardere troppo. Ai libri aveva già provveduto: un canonico ricco e quasi pazzo per le anticaglie gliene aveva prestati parecchi, alcuni fra i migliori compagni ne diedero altri, da ultimo un ex professore di filosofia, prete buono e strano, malviso al vescovado, gli fornì il resto. Restava ancora la spesa per la carta quando non gli riusciva di farsela regalare. Nel primo mese guadagnò sedici soldi in due accompagnamenti funebri al cimitero, e poté così comprare qualche quaderno con un cartoccino di penne: a quella per le male copie pensavano i manifesti delle colonne. In una sera di neve, rincasando sull'ora di notte, aveva osato strappare un lembo di avviso che il vento gli sbatteva quasi sul volto: sulle prime, spaventato della propria audacia, credette in buona fede che i manifesti non si potessero rompere, poi si rinfrancò e, avendo studiato nel giorno i luoghi più propizi, usciva la sera circa sulle otto a fare così la propria provvista. Era una vita povera e semplice, alla quale per diventare sublime sarebbe bastata la coscienza del sacrifizio. Egli invece non ne sapeva nulla: aveva una voglia ardente di farsi prete in quel fanciullesco entusiasmo delle prime preghiere e dei primi abbarbagli mistici: sapeva che a casa il padre e le sorelle mangiando quasi sempre formentone lavoravano anche più di lui, ed egli li amava dolcemente, senza passione. Alla parrocchia futura non pensava mai, anzi quando il padre gliene aveva parlato sognando già di riposarsi vecchio all'ombra del campanile figliale, egli ne aveva quasi sofferto: benché torbido, il suo sogno sarebbe stato di studiare sempre e magari di predicare, se la voce glielo avesse permesso. Ma allora era troppo gracile, con un collo non più grosso di una canna e una voce roca, attraverso la quale tratto tratto passavano sibili di mal augurio. Non ci voleva meno di una giovinezza così casta e calma per non provocare lo stesso terribile malore, del quale la mamma era morta, appiattato quasi visibilmente sotto le sue carni biancastre. Giornali non ne leggeva perché scomunicati, poi i compiti di scuola lo tenevano occupato tutto il giorno. Egli voleva figurarvi fra i migliori nella speranza per sé e pe' suoi di essere l'anno venturo accolto gratis nel seminario, come ad alcuni altri era accaduto. Ma il suo ingegno non era molto, e la miseria invece di attirargli simpatie gli manteneva intorno quella diffidenza fredda, che tutti sentono per la gente troppo povera. Solo quel vecchio professore di filosofia sembrava prediligerlo: ma anzitutto, poverissimo anch'egli e malato nelle gambe, viveva con una sorella altrettanto vecchia, poi afflitto da una formidabile voracità non aveva di che appagarla in casa propria. Però gli era rimasto dell'abitudine professorale un bisogno insaziato di ripetere le antiche lezioni di seminario, le stesse che vi si danno oggi ancora, tutto un guazzabuglio di frasi e di pensieri dentro un mulinello di sillogismi buoni tutto al più per divertire l'incapacità di un seminarista, ma che per lui erano invece tutta la verità possibile allo spirito umano. Il suo odio contro Rosmini, del quale negava iracondamente anche l'ingegno, lo faceva alla prima obbiezione uscire dai gangheri. Sulle quattro pomeridiane, finita l'ultima lezione, il "vescovo" doveva quindi andare da don Riva in via del Filatoio per accompagnarlo a spasso: uscivano adagio dall'uscio alto tre scalini e andavano lungo il muro verso porta Montanara. Il vecchio appoggiato sul bastone, colla grossa testa bianca, un mantellone bigio e le povere gambe grosse come due tronchi, parlava forte fermandosi spesso con un gran gesto della mano sinistra per confermare un argomento. Le ragazze sorridevano incontrando quella strana coppia. Forse la loro più lunga passeggiata fra andata e ritorno non oltrepassava un chilometro, ma v'impiegavano un'ora e mezzo: qualche volta il "vescovo", sospeso quasi gelosamente a tutte le parole dell'altro, osava una obbiezione che faceva fermare di botto il professore. - Ah! tu credi - ribatteva coll'aspra superiorità del dotto, cui l'invidia degli emuli contristò la vita fra l'ignara indifferenza del pubblico: - ecco.... E spessissimo invece di rispondere all'argomento oppostogli non faceva che ripetere il proprio. Nullameno quella vita era ben dura. Ogni giorno l'ingenua confidenza del ragazzo riceveva atroci smentite: come tutti i buoni, specialmente quando sono poveri, egli aveva preso alla lettera le parole di carità, di amore, di pietà verso Dio e verso gli uomini, che sbocciavano come piccoli fiori celesti nei manuali di preghiere, o passavano con una sonorità grossolana in tutte le prediche dei parroci. La sua anima innocente aveva sperato quasi colla certezza della fede che nel seminario tutti i professori gli farebbero da padre e i compagni da fratello, mentre il vescovo alto e solenne nella dolcezza della propria autorità avrebbe vegliato su lui come un santo. Invece i professori simili a tutti gli altri maestri praticavano di mala voglia il proprio mestiere prediligendo gli scolari più servili, o dai quali potessero nelle feste attendere qualche regalo; i compagni, come quelli del suo villaggio, gareggiavano odiandosi reciprocamente e i più ricchi dominavano fra di loro, mentre egli povero, colle scarpe rattoppate e quella vesticciuola talare tutta a rammendi, diventava il bersaglio di ogni motteggio. Persino la mingherlina struttura gli nuoceva. Poi avendo confessato imprudentemente ad un amico di campare con sette soldi al giorno, questo miracolo di sacrificio parve a tutti ignobile, e lo battezzarono "Ugolino" il sublime affamato del più tragico fra i canti di Dante. Egli sulle prime rispose, poscia piegò la testa piangendo. Alle funzioni ecclesiastiche gli accadeva lo stesso; i preti se ne disputavano i pochi lucri accorrendo di lontano alle buone messe, mercanteggiando tutti gli uffici con una crudità di linguaggio troppo inconsapevole, perché non fosse una necessità della loro vita. Al disotto di loro i chierici si aspreggiavano anche più biricchinescamente nella contesa dei piccoli servigi, pagati a soldi, così che abbisognava davvero il caso di una gran festa o di un mortorio molto ricco perché il povero Giannino vi potesse penetrare. Il suo incasso più lauto in un mese furono tre lire. Siccome nessuno era più magramente vestito di lui, si divideva dai compagni sulla porta del seminario per tornare a casa coi libri stretti da una correggia fra due assicelle, scantonando vergognoso ai vicoli, colla bocca sempre sorridente per un difetto del labbro superiore e gli occhi buoni ombrati da ciglia lunghissime. I suoi giorni migliori erano quelli di vacanza, il giovedì e la domenica, perché poteva restare a letto fino alle dieci leggendo qualche libro prestatogli da don Riva, mangiando ad un'ora dopo mezzogiorno la minestra calda colla vecchia Geltrude. Questi erano sempre giorni di fornello: Giannino vi metteva tre soldi, essa quattro per cucinare generalmente dei maccheroni: talvolta la vecchia vi aggiungeva un pezzo di formaggio o di tonno o una pera. Due volte l'anno - per santa Geltrude e per la madonna della chiesa di San Francesco, la madonna mora come la chiamavano le treccole - ella lo convitava per quel bisogno anche nei più miseri, specialmente quando vivono solitari, di fare un sacrificio a qualcuno. Ma il ragazzo alla prima occasione rendeva l'invito aggirandosele intorno con una festosità di cagnolino, mentre l'altra cucinava il suo regalo: e quei giorni egli parlava anche di più, colla illusione di aver mangiato il doppio, sebbene qualche po' di fame gli fosse egualmente rimasta. La vecchia invece discorreva sempre pochissimo, stava molte ore del giorno fuori guadagnando misteriosamente quanto le serviva a campare, poi rincasava con un grosso caldano pieno di carbonella, che si metteva sotto le sottane, e nell'angolo della prima stanzetta presso la finestra ricominciava a fare la calza. Passavano dei giorni interi senza vedersi. Ella non saliva al granaio se non per spazzarlo perché il ragazzo si rifaceva il letto e si tirava l'acqua necessaria da sé. E nei momenti più tristi della sua solitudine, appena sbocconcellato in piedi, alla finestra, il poco pane, scendeva da lei per sentirsi dire qualche parola con uno di quei bruciori di essere amato, così dolorosi nella giovinezza quando la mamma sola potrebbe ancora accarezzarci come un bambino, ed è morta invece da gran tempo, ella lo salutava senza parlare con una occhiata, reclinando subito dopo la testa sulla calza. La finestra di quella cameretta, come l'altra del suo granaio, davano sui tetti di contro; non si vedeva che un piccolo piano inclinato, rigato, muffoso, scuro: quasi nessuna voce arrivava fino lassù, i vetri erano appannati, il freddo più intenso che nella strada. La vecchia andava a letto sull'avemaria per non accendere il lume, chiudendosi dentro a catenaccio; egli rincasava un'ora e mezzo o due ore dopo per fare altrettanto, spesso sorpreso da un gelo, che nemmeno il letto bastava a vincere, perché gli veniva dallo stomaco non abbastanza pieno. Faceva tutto a letto, le preghiere, le lezioni, i conti, i sogni, nei quali la giovane fantasia si rifugiava coll'istinto degli uccelli, che cercano il bosco, ma dai quali usciva spesso con una stanchezza desolata. Quanti anni gli occorrerebbero per diventare prete? Anche senza perderne alcuno, fra rettorica, filosofia, morale, teologia, tutti gli ordini e il tempo della coscrizione, sarebbero sette; sempre così solo, come un piccolo viaggiatore smarritosi al primo viaggio verso una mèta, che gli s'intorbidava nel pensiero. Infatti il seminario e il duomo grande della città colla pompa delle loro scuole e delle loro funzioni gli avevano offuscato quel primo ingenuo ideale di prete orante fra gl'increduli e i derelitti. E però la sua devozione più dolce era per la madonna, che gli ricordava la mamma morta pregando che lui, il primogenito maschio, si facesse prete: in famiglia non aveva altra tenerezza di ricordo perché la vita dura vi rendeva più esigenti tutti gli egoismi, e fuori non aveva ancora trovato un cuore che rispondesse al suo. Tutti lo avevano più o meno deriso, anche i migliori; gli altri, i preti, avviandolo per la loro carriera, erano stati anche più freddi. Ma per quanto desolata quella solitudine dei suoi sedici anni in un granaio, con dieci franchi al mese per vivere, rare volte la malinconia lo vinceva sino al pianto, anzi nelle giornate più rigide e caliginose di quel primo inverno il suo coraggio si mantenne imperterrito come nella tensione delle prime ore in una battaglia; poi la primavera lo vinse. Si sentì più solo: nella scuola gli pareva quasi d'essere smarrito fra i compagni, mentre le parole dei professori vi passavano lentamente come un gorgoglio e le orazioni stesse, rompendoglisi nella testa, svanivano in alto simili ai bioccoli bianchi delle siepi fra il vento e il sole. Era la prima volta che questo gli accadeva. Una tristezza accorata gli veniva dalla ebrietà della natura in quei primi giorni di fecondazione, mentre le donne passavano per le strade con uno splendore sul viso pari a quello dei santi dipinti nelle vetriate, e tutti, anche i monelli, presi nell'allegria di quella immensa festa, non lo guardavano più. Egli invece, deposto il pesante mantello regalatogli dall'arciprete, se ne andava entro quella veste talare appena sufficiente per disegnare un'ombra sul selciato: era più pallido, senza appetito nemmeno per mangiare il poco che aveva. Ma nessuno se ne accorgeva. Allora lo ripigliavano improvvisi pentimenti. Sarebbe stato meglio per lui rimanere col padre a fare il cantoniere: a sedici anni avrebbe avuto già mezza paga con poca fatica, e passerebbe la giornata nella strada sbadilando un fosso fra una chiacchiera ed un saluto, lieto nel sole primaverile come i suoi compagni. Invece era un malato, vestito di un ragnatelo che gli faceva freddo anche adesso che tutti incominciavano ad aver caldo, segregato dalla vita comune in una esistenza claustrale, senza la fraternità del convento e la sua quiete studiosa. I suoi condiscepoli nel seminario potevano forse soffrire per la mancanza di libertà, ma avevano tutte le ore occupate e si tenevano l'un l'altro compagnia. Egli invece, solo con don Riva, finirebbe come lui. Il vecchio prete peggiorava tutti i giorni, giacché avendo bisogno di cibi sostanziosi non ne aveva neppure abbastanza di quelli più ordinari, e gli altri preti lo sfuggivano appunto per la sua miseria; mentre il vescovo, arricchito per la terza volta da un'altra eredità di centomila franchi, fingeva d'ignorare come l'antico professore di filosofia nel seminario morisse quasi di fame. Adesso per condurlo a spasso bisognava dargli il braccio portandolo quasi di peso, quantunque Giannino anch'esso male in gambe si sentisse soventi la schiena bagnata da cattivi sudori. Una domenica fuori di Porta Pia, mentre passavano lentamente dinanzi alla bottega dei sali e tabacchi, il vecchio ritirò il braccio disotto al suo, ed appoggiando ambo le mani sulla canna disse col viso quasi nascosto dietro il bavaro rialzato del soprabitone: - Pagami un soldo di caradà... non ne ho... non ne ho! Il ragazzo provò alla gola uno stringimento improvviso di pianto a quella voce così sorda, ed entrò nella bottega.

§A questo modo Lelio Fornari era diventato l'amante della principessa Irma Montalto, però la loro relazione rimase per abbastanza tempo secreta malgrado le molte dicerie dei primi incontri. Quella violenza istantanea aveva sconfitto tutte le civetterie della donna e della dama, come accade quasi sempre quando il maschio rompendo il fragile inviluppo della educazione sociale riappare nella irresistibile sincerità della natura. Ma allora le parti s'invertirono, Lelio diventò freddo, ella si fece più amorosa; pareva che finalmente avesse trovato l'uomo della propria vita, questo ideale secreto di tutte le donne, che spiega forse la maggior parte dei loro inintelligibili capricci. Egli invece le serbava rancore dell'aver voluto tenerlo a bada sino quasi a renderlo ridicolo nella folla degli altri adoratori. In fondo quella di Lelio non era stata che una passione di vanità vivificata dal succo della giovinezza. Egli era ritornato col principe dinanzi al loro calesse. Al momento di scambiare i saluti ella poté sussurrargli: - Venite stasera. Lelio la guardò fisso. - Vieni... Contessa, stasera verrete tutti da me: finiremo così la giornata insieme. Nel vano di una finestra sotto una tenda bianca raddoppiata da un cortinaggio di seta, ella fingendo di affacciarsi alla strada osò di buttargli le braccia al collo. - Mi ami? - E tu? - Cattivo! - mormorò con voce spenta; poi con una dolcezza inesprimibile: - Mi ami? - ripeté stringendosi sotto al suo sguardo come una colomba. Una grande rosa purpurea le profumava i capelli; Lelio sentì di non poter resistere alla seduzione, e colla sua precoce esperienza cinica di romanziere, invece di renderle il bacio, le strinse con una mano quanto più poté di carne sotto il busto. Ella si allontanò tutta ilare per andarsi a poggiare dietro la sedia del marito, che giocava a scopa colla contessa. - Ha il sette bello, sai. - Vuoi dunque rovinarmi in tutto? - Ella cercò maliziosamente gli occhi di Lelio, che rimase impassibile. Ma quando egli uscì dal palazzo circa sulla mezzanotte per tornare a casa, avendo già con lei un appuntamento per l'indomani, un'amara rampogna gli strinse il cuore, di aver sperato per un istante qualche cosa di più nobile in un amore di principessa. Lelio non era geloso: fosse albagia di carattere o freddezza di cuore, non aveva ancora amato davvero attraverso le sue molte avventure femminili. Eppure dal fondo della sua anima si levavano spesso impeti tempestosi di passione che lo facevano urlare come un perduto nel primo sbigottimento della solitudine, quando la paura non ha ancora uccisa la speranza. Ed erano invocazioni deliranti di dolore, appelli forsennati di una voluttà, cui nulla aveva mai potuto appagare, e che riprendevano talvolta le vie del cielo come un ritorno mistico a Dio, il tormentatore che consola anche quando vuole distruggere la propria creatura. Ma appena di fronte alla donna lo riprendeva un'ira fredda di analisi, cercava minutamente, quasi maliziosamente, tutti i suoi difetti, decomponeva le sue sensazioni, disseccava tutti i suoi sentimenti. L'amore non era lì, in quella fragilità di corpo e di spirito, che l'uomo era sempre sicuro di spezzare al primo contatto; ma non era nemmeno altrove, o non sapeva trovarlo. Come per molti scrittori della nuova scuola naturalista, la crudità del suo pessimismo era un'angosciosa reazione contro l'inafferrabile divinità della vita, che le cose e le anime sembravano piuttosto nascondere che rivelare. Quindi tutta la malìa seduttrice della principessa non poteva trionfare della sua diffidenza. Lelio sapeva o credeva di sapere il nome di molti altri suoi amanti, ai quali naturalmente ella doveva aver prodigate le medesime scene. Se talora vinto dalle sue carezze si diceva che nessuno aveva forse saputo accendere in lei tanto ardore, poco dopo la coscienza di quella troppo facile promiscuità col marito e cogli altri lo riagghiacciava. Ella ne restava impermalita. Una volta, ed era il terzo appuntamento sempre nel suo magnifico salottino lilla, ella glielo chiese: - Tu non mi credi. - Di che fede vuoi tu parlare? - e il suo accento era duro. - Eppure devi sentirlo che ti amo - ripeté strisciandogli con una palma così lievemente sulla faccia che al buio egli avrebbe potuto prenderla per una piuma di ventaglio. - Tu sei geloso. - Di tuo marito? L'altra s'imbarazzò, non voleva accusarsi da sé stessa. Ma Lelio sdraiato indolentemente sopra una bassa poltrona trapunta la lasciava fare; tutto il suo spirito era teso nell'analizzarla; ella ne provava una pena strana, che non avrebbe saputo nemmeno accennare colle parole, qualche cosa di aspro e di freddo come gli accusati debbono risentirne nel primo interrogatorio. Andò a rannicchiarsi nell'angolo del divano, ma quantunque paresse mesta il suo atteggiamento era di una lubricità pruriginosa. Allora Lelio venne a sedersi sulla spalliera alla quale essa poggiava la testa. - Dunque mi ami... - No, poiché questo ti fa anche più piacere, tristo violatore di donne, che non sai nemmeno fartelo perdonare colla sincerità della violenza. Perché mi hai tu presa? - Perché mi tentavi tu? - Ti amavo. - Avresti amato di vedermi soffrire indarno? - Non soffro io adesso indarno? Tu non mi ami, lo so, quindi sono io che mi degrado cedendoti, ma tu rimani più basso di me. Che cosa ti avevo io fatto, cattivo soggetto? Eri bello, venni da te al veglione; e poi mi avevano tanto detto che eri un grande ingegno, uno spirito satanico... Noi non conosciamo generalmente che degli sciocchi, quelli che riempiono i nostri saloni. Tu mi dicesti quanto nessuno aveva mai osato, io quella notte non dormii. Avevo paura di darti ragione: era proprio così? Come lo sapevi tu? Era un mistero; allora volli fuggire. Sei tu - continuò violentemente - che hai voluto tutto, e mi tratti così. Pronunciando queste ultime parole era diventata pallida, cogli occhi verdi socchiusi. Una seduzione morbosa esalava da tutto il suo corpo impregnato di un triste odore di sandalo, mentre la sua lunga veste da camera di un giallo spento sembrava quasi bagnata, tanto le si modellava sul corpo. - Non ti basta una donna come me? - le sfuggì in un impeto d'orgoglio. - Forse perché sei principessa? - Fors'anche. Lelio s'alzò per andarsene, ma ella non lo credette. Infatti tardava a trovare il cappello ed i guanti: ella lo seguiva cogli occhi dilatati, si era rapidamente con una mano ravviati i capelli, mentre un piedino le spenzolava entro la calza rosea dal divano, lasciando vedere sino a mezzo la gamba. Lelio salutò sull'uscio. Ella attese ancora qualche secondo, poi gli corse dietro, lo raggiunse al secondo salone; egli si voltò al fruscio delle sottane e si sentì già avvinghiato per le spalle. - Torna subito indietro. Quando si furono daccapo seduti sul divano, ella tacque: voleva che parlasse lui per il primo. - Che cosa vuoi? - le disse finalmente. - Mi ami? - Io sì - rispose colla solita menzogna degli uomini. - La vuoi sapere la verità? Se qualcuno ama fra noi due, sono io. - Chi amate dunque, principessa? - Uno scemo che me lo domanda. E saltandogli sulle ginocchia lo morse ad una guancia. - Lo voglio, sai, lo voglio: sono io che ti violento. Credi che sia un privilegio degli uomini? - E lo aveva rovesciato sotto un'onda di risa cristalline sul divano, facendogli il solletico un po' dappertutto, così che rimaneva quasi coperto interamente dalla sua veste gialla; quindi prendendolo al collo con ambo le mani in una rabbia ipocritamente graziosa di pantera: - Ecco il violento! - esclamò. Ma dieci minuti dopo, quando Lelio fatto più molle, col volto ancora un po' madido, la lasciava baciandola sui capelli come una bambina, ella tornò a chiedere: - Mi ami? - Tu no. - Niente, niente? - ella ripeté biascicando le parole. - Nemmeno come un vestito. - Scommettiamo. Lelio era triste. - Hai paura di perdere? - insisté provocantemente: - scommettiamo. - Sia pure, ti proverò, che io per te non valgo neppure un vestito. Ella cessò di sorridere. - Ma fai davvero? - Poiché lo esigi. Involontariamente si erano staccati riprendendo ognuno la propria posa; egli pareva in visita dinanzi ad una signora, che si fosse alzata cortesemente per gli ultimi saluti, ma un freddo improvviso li aveva egualmente sorpresi. La donna fu più impaziente. - È un modo di darmi della borghese. Ma sono curiosa: me lo proverai presto? - Lo temo. - Grazie. Che cosa scommetti? - soggiunse tosto in tono canzonatorio tendendogli daccapo la mano. - Più di quello che io abbia, poiché ti perderò. - Sai, in questo momento tu non provi che una scena da romanzo: ecco perché io odio i romanzi scritti: sono sempre così falsi! - Fra un autore e una principessa chi dirà la verità? - Va via, non ti voglio più vedere sino a questa sera in teatro: oh! se non vieni a farmi visita... Quella sfida troppo seria malgrado l'aria di scherzo colla quale era stata gittata e raccolta rinfocolò naturalmente la loro passione. In fondo avrebbero voluto entrambi aver torto, mentre un secreto presentimento li avvertiva di una non lontana rottura. Perché? Non erano abbastanza belli, giovani e caldi per potersi amare? Tuttavia trepidavano di essersi già troppo conosciuti. In una fra le più deliziose leggende di Heine un ondino e un'ondina s'incontrano ad un ballo campestre: tutti ammirano la loro danza dalle ondulazioni di una strana grazia, poi la dama dice all'orecchio del cavaliere: "Sul vostro cappello tremola un giglio che cresce solo in fondo all'oceano". "Bella dama", rispose l'altro, "perché dunque la vostra mano è così gelida e l'orlo della vostra veste tanto inzuppato d'acqua?". La musica tace e la bella coppia si separa assai civilmente: per sciagura si conoscono già troppo. Ma Lelio raffreddandosi si abituava con una specie di crescendo al bisogno di quella donna di una lubricità così originale. Ella invece voleva domarlo, come fanno le donne cogli uomini, indebolendolo: senonché in tale crudele rivincita femminile spesso s'inteneriva sino alle lagrime, e allora erano deliziose melanconie, effusioni poetiche, nelle quali il fine gusto di entrambi si accordava come in una suonata a quattro mani. Ella una mattina andò a trovarlo: Lelio, umiliato da tale visita in quelle due camerette ammobigliate, dovette cedere subito alla gaiezza, colla quale ella saltellava volendo tutto vedere e frugando invece abilmente fra i suoi manoscritti per cercarvi le tracce di qualche avventura, forse non del tutto passata. Non trovò quasi nulla, poche fotografie di belle donne, che Lelio le dichiarava ad ogni sua dimanda cortigiane o modelle. - Qualcuno non ti ha veduto entrare? - le chiese diventando prudente per una improvvisa tenerezza di tenerla così in quella cameretta nella quale aveva tante volte sognato di lei. Ella vi rimase più d'un'ora. - Verresti qui una notte con me? - Nel tuo letto! - ella esclamò rispondendo al suo guardo con una smorfia di ripugnanza. - Perché? - Ma è una via pubblica, lo so. L'altro invece credette ad una schizzinosa aristocrazia di gran dama, e se ne offese. Rimasero entrambi impacciati, poi ella se ne andò nullameno sorridendo. Ma sulle dieci della sera stessa la vide sola col principino fuori di strada. Camminavano stretti l'uno contro l'altro, parlando a bassa voce, concitati: egli allungò il passo e traversò la strada cacciandosi sotto l'altro portico per seguirli non visto. Non era gelosia, ma un'amarezza della vanità e del non aver mai potuto sino allora credere ad alcuna donna. Sapeva che il principe stava per sposare una baronessa tedesca ricca a milioni, quindi i due dovevano certamente parlarne; fors'anche era la loro ultima scappata in una deliziosa soffocante ripresa di tutte le follie, studiando già il modo d'intendersi dopo quel matrimonio. Lelio sentiva che fra la principessa e il principino una vera rottura poteva anche non accadere mai in quella costante famigliarità creata loro dai rapporti mondani: egli invece doveva già affrettare il proprio ritorno in campagna per non ingrossare troppo i primi debiti contratti nella necessità di frequentare quegli ultimi mesi più assiduamente i massimi saloni bolognesi. La principessa, vana e dissoluta come quasi tutte le sue pari, aveva invece voluto prenderlo al modo che si spicca un frutto da un albero: per curiosità gelosa, convinta di fargli lo stesso onore della contessa Ghigi alla propria balia in quella visita di tutti gli anni. I due strisciavano lungo i muri nell'ombra senza voltarsi. Per un momento pensò di fare uno scandalo coll'oltrepassarli, fermandoli magari con qualche ironica trovata, ma se ne vergognò quasi subito: sarebbe stato un confessarsi ridicolamente geloso, poi tutta Bologna sapeva che il principino in altra occasione aveva dichiarato di non battersi per motivi di religione. E soprattutto a che pro, dal momento che non amava? Tuttavia si era loro appressato. Adesso non perdeva una mossa di lei, avrebbe quasi scommesso d'indovinare anche le sue risposte; passava poca gente, nullameno qualcuno si rivoltò ad osservarli avendoli forse riconosciuti. Dopo parecchi giri e rigiri arrivarono alla Seliciata di Strada Maggiore, nella quale stazionavano parecchi fiaccheri, e semplicemente, temerariamente salirono sul primo, un brougham. - Con me non lo farebbe. Ah! glielo domanderò. Invece l'indomani appena entrato nel suo gabinetto ella gli disse che andava a Parigi col principe Giulio. - Vieni anche tu? - L'altro si sentì come una stoccata nel petto. - Perché? Giulio è invitato a due lunghe partite di caccia, io resterò sola, vieni. Sei stato a Parigi? La vedrai, è la sola città dove si viva. Ma egli si era fatto anche più triste di quanto avrebbe voluto mostrarlo. - Debbo andare in campagna a scrivere un libro. - Lo scriverai dopo. - Non posso. - Lo hai già impegnato col tuo editore? - La semplicità di questa domanda parve all'altro un insulto. - Sai bene che non scrivo per commissioni - ribatté seccamente. Non si era ancora seduto. - Ah! Noi partiamo giovedì immancabilmente. - Addio - egli disse tendendole la mano. - Ma perché mi lasci così? Quando ci rivedremo? - Al mio ritorno a Bologna quest'inverno. - Non prima? - Forse che tu lo vorrai? - Oh! - esclamò finalmente - ma sei uggioso col tuo tono! Gli voltò le spalle con atto nervoso, ma l'altro non sapeva più andarsene. Una mollezza lo aveva preso in quel gabinetto tutto pieno di fiori e dell'odore di quella donna così adorabilmente fatua e voluttuosa; si sentiva vinto, finito. Una malinconia di abbandono come un anticipo della tristezza che lo aspettava alla villa in compagnia del vecchio padre, prostrava in quel momento tutto il suo orgoglio giovanile. - Hai freddo stamane: che ti faccia accendere il fuoco? - ella si volse gaiamente. - Allora io parto oggi stesso - egli disse. - Subito! Lelio le si avvicinò, la prese delicatamente fra le braccia come per piantarsela dentro alle carni, e si mosse per fuggire. - Lelio! - ella lo richiamò dal divano sul quale era caduta: - qui, in ginocchio. Promettetemi, bel signorino, che in tutti questi mesi non mi tradirete con nessuna contadina. - E tu con nessun principe. - Insolente! - ribatté con un lieve rossore alla fronte. - Addio, amore. - Addio, principessa.

L'etèra della prima scena avrebbe dovuto essere la donna pagana, abbastanza fine per cogliere i primi sottili aromi di un pensiero nuovo anche se religioso; questa della seconda sarebbe già la passione novella, l'amore umano purificato dal contatto divino e sublimatosi nel sacrificio di sè medesimo sino a diventare più limpido della innocenza. La figura di Maddadena così bella nella penombra della leggenda cristiana, schizzata con due o tre tocchi, sentite come parla: "Potrai trovare ancora un fatto, un pensiero, che superi - solo - la malizia del mondo? "E Giuda rimbecca: "Sarà un pensiero di genio". Maddalena: "Innanzi al quale il Nazareno è vile: chi sarà l'eroe? "Giuda guarda a terra, e io sono tentato di fare altrettanto, perché non credo di aver capito più di lui. Quindi disputano su Cristo; Maddalena, con un linguaggio imitato dalle eroine di Dumas figlio, accenna alla propria caduta e al perdono del Rabbi senza potersi decidere come Giuda a prendere Cristo nè per un uomo, nè per un Dio, quantunque sia venuto un giorno a sedersi sul verone della sua, casa, e lì, sognando senza forse, gli sia sfuggito dalle labbra pallide - non mandarmi questo calice, sudo Sangue, non abbandonarmi, perdona loro perchè non sanno quello che si facciano - tutti i gridi supremi, che segneranno il crescendo spasmodico del suo sacrificio. E quasi ciò non fosse abbastanza falso drammaticamente riferisce a Giuda il giudizio su lui di Cristo, così: "Giuda non è la fede di Filippo, di Bartolomeo e degli altri semplici, nè il pensiero del filosofo di Stagira: è la mezza mente che, posta fra due mondi, oscilla fra due fini e rasenta il tradimento". "Se egli si uccide, somiglia a quel tumido Uticense che stimò di non poter sopravvivere a repubblica morta da gran tempo: se mi uccide somiglia a quel Cassio iracondo che tentò rifare una repubblica disfatta sopra un uomo ucciso" Infine questa disputa di accento scolastico e di volgarità moderne finisce all'ultima moda socialistica: questo ti riguarda, Tebaldi. Giuda accusa d'insufficienza la teorica di Cristo e, profetizzando che i prelati ricchi dell'avvenire non lo riconoscerebbero se gli saltasse il ticchio di risuscitare dopo un millennio, urla contro la promessa di una seconda vita: "Ahi!... qua il solco, qua il seme, qua la spiga, qua il diritto! - Di là c'è frode". - Tutto questo è goffo, lo so: ma aggiungi ancora la bella parola: "Il venditore di Cristo non sono io: verrà!" - disse Osnaghi guardando Tebaldi, che non aveva ancora parlato. - La sola bella di tutta la scena, perchè le ultime parole di Maria di Magdala sono di una fraseologia ancora più torbida: "Se il tuo redentore è nel numero, la tua redenzione non è destinata. Va e cerca nel numero il tuo Messia che non sa liberare sè dalla turba. Addio". - Pazienza se fosse qui finita! - sogghignò Tarlatti - ma invece siamo ancora al prologo del dramma scritto solo per il motto finale nella scena dell'adultera: Chi è senza peccato scagli la prima pietra". Naturalmente tutti restano colle pietre in mano tranne il centurione, che getta il proprio bastone di vite per raggiungere Cristo dietro le quinte. - Oh! - interruppe Osnaghi - perchè non ripeti la formula frugoniana del centurione?" "Restitusci a Roma questo mio bastone di vite, e dille che una parola è nata più equa del diritto del pretore". Quale capitano di fanteria declamerebbe oggi così? - E siccome Giuda piange, Maddalena per consolarlo gli dice anch'essa il proprio giudizio: "Innanzi a te Egli è già un mito, e tu innanzi a Lui sei già la posterità incredula che simula adorazione" - La lezione è terminata! - conchiuse Osnaghi stringendosi nelle spalle. - Se l'arcivescovo di Napoli avesse saputo tacere, questo Cristo alla festa di Purim non lo si sarebbe rappresentato come non lo si era letto. - Oh - ribattè l'abate - tutto ciò che tocca Cristo diventa importante. La chiesa ha creduto di opporsi a questa opera di Bovio certo non per quello che vale, ma per quello che significa. - Forse hai ragione - disse Tarlatti. - Riassumiamo prima - si ostinò daccapo Mattioli. - Che cosa c'è in questo Cristo di Bovio? Cristo no, Giuda nemmeno, ma tre donne, una ètera di Grecia, la cortigiana di Magdala, l'adultera di Gerusalemme: una triade femminile, dentro la quale avrebbe dovuto mostrarci l'idea di Cristo. La prima non è già più una ètèra per il semplice fatto di sentire anche da lungi la sua presenza, la seconda diventa una pitonessa per avergli parlato, la terza si salva dalla lapidazione per aver ottenuto senza nemmeno chiederla una sua risposta. Null'altro. Cristo che chiama Aristotile il filosofo di Stagira è dà del tumido Uticènse a Catone, dell'iracondo a Cassio, della mezza mente a Giuda, mandandolo a pensare la verità messianica nel deserto perchè la larghezza dello spazio gli suggerisca quello che la lunghezza dei secoli dovrà rivelare: e che passa sulla terra unicamente per risolvervi un caso di adulterio come un pretore... tale Cristo è davvero la più sconoscente ingiuria proferita contro di lui in questo secolo, che dopo avergli conteso la divinità gli ha negato perfino l'esistenza. Mai più vacua corpulenza di pensiero si sgonfiò in più informi sembianze di arte, e più inetta soggettività di autore, si atteggiò drammaticamente per falsare figure ed ambiente, idea e linguaggio... - Perchè perdi in questo momento tu stesso la misura? - Perché il dramma c'era. - T'inganni. Nel medioevo la chiesa rappresentò la Passione nei Misteri, ma quando sorse il teatro nessuno dei grandi poeti pensò di trarre dalla Passione una tragedia, e bada che nè Lopez, nè Calderon sono grandi poeti. - Tu opponi un fatto ad un'idea: è troppo poco. - Forse!- intervenne Osnaghi - ma io ti opporrò idea a idea. Tu credi al dramma di Cristo, io no: tu vedi d' ambiente e la scena, Gerusalemme divisa fra partiti politici e sacerdotali, la doppia tirannia di Erode e del Sanhedrin, poi Roma più in alto. Cristo appare dal popolo, secondo te; i discepoli gli si stringono intorno, le donne s'innamorano della sua parola, i partiti si acquetano per ascoltarla. Scene di miracoli e scene domestiche abbondano gli apostoli formano una prima Tavola Rotonda, alla quale Cristo annunzia il tradimento, perché come tutti i veramente grandi egli ha presentito la catastrofe e indovinato il rivale. La bravura dei discepoli messa a dura prova nel processo soccombe, la prima fede del popolo si dissipa; Pilato, l'indulgente magistrato romano, spicca originalmente fra le sinistre figure dei pontefici, e l'ultimo atto si compie sul Golgota colle donne sotto alla croce. Ebbene, mio caro, il dramma non c'è. Se di Cristo fai un uomo, urti nel fantasma divino, che di lui è in tutte le coscienze, e in questo dissidio l'anima del pubblico si frange. Se tu lo mostri Dio, tutto il suo valore umano non è più che un simbolo vuoto. Il dramma non può oltrepassare i limiti della individualità, noi dobbiamo cozzare nel fato, in Dio, non esserlo. - Eschilo ha scritto il Prometeo. - Tragedia umana, mio caro, perchè Prometeo e Giove non superano le proporzioni di due eroi, e l'Olimpo non è più alto del Caucaso. Cristo nell'arte non può apparire che solo, figura umana, dalla quale traspare lo spirito divino, nè uomo, nè donna alla fisonomia, di una bellezza vera e non reale, come lo rappresentarono i grandi pittori antichi. Guarda i loro crocifissi: il corpo non spenzola come dovrebbe dalla croce, lo spasimo della sua faccia è ineffabile, ma non vi si sente alcuna fitta corporea, il suo dolore è divino e ha atteggiato di sè stesso la bellezza del volto. Oggi credono di fare del realismo dipingendo un uomo crocifisso: la verità è nell'altro, il Crocifisso. - La poesia è fede - esclamò l'abate: - tu sei vicino ad accoglierla. - No - interruppe Tarlatti, - la più grande poesia è nel dubbio: ecco perchè ho amato la figura di Cristo. Tu no, abate, non puoi rileggerle perchè hai la seconda vista dei mistici; ma voi altri pigliate ancora una volta le sue parabole, allineate le sue risposte. Vi è in tutte una mestizia irresistibile, una ironia sottile, che Renan solo ha saputo cogliere. Il dubbio trema nell'anima del Messia: attraverso i racconti ingenuamente impossibili degli evangelisti si comprende che il suo dubbio tocca gli altri, giacchè nemmeno i suoi miracoli più stupefacenti. come quello di Lazzaro, bastano a persuadere coloro stessi che vi assistono. All'altezza, cui è salito, la vista gli vacilla: il mondo troppo grande anche pel suo occhio di veggente sarà sempre più antico (e più vasto di qualunque opera, e la sua redenzione trionfandovi non avrà redento che pochi. Allora, il redentore preso nella vertigine della propria illusione prova nel freddo della caduta i primi brividi del nulla. Ecco il dramma di Cristo, l'impossibilità di credersi Dio e di farlo credere prima di morire. Infatti tutte le sue affermazioni sono ambigue, i discepoli, che lo seguono, non le comprendono più di colui che dovrà tradirlo: l'avvenire gli è chiuso come il passato, la morte stessa, dando agli altri la fede nella sua divinità, non gli basta più. Nessun processo somiglia a quello di Cristo, giacchè tutto vi si riassume in una parola: qui est veritas. Il silenzio di Cristo davanti a questa dimanda di Pilato è la sua sconfitta di Dio. Che importa il resto? La magnifica scena del Golgota colla ironia finale della fede, che morta nel redentore ricomincia nel ladrone crocifisso al suo fianco: l'ineffabile malinconia della sostituzione di Giovanni, il più poeta tra i discepoli, come figlio nel cuore di Maria: l'ultimo, delirante appello nel vuoto - Dio, dio, perchè mi hai abbandonato?- e subito dopo tutto il peso della morte nel terribile - consumatum est - questo finale sublime non vale il silenzio di Cristo davanti alla domanda di Pilato: quid est veritas? L'espiezione del redentore è tutta in quel silenzio. Gli altri guardarono all'abate come aspettando uno scatto, ma questo invece si volse a Tebaldi: - A te ora, poiché i poeti, i quali come Osnaghi fanno ancora dei versi, non sentono più Cristo che dipinto. Tu socialista, se davvero il socialismo sarà Un'epoca nello spirito umano, devi intendere quella, dalla quale esce. Ami tu Cristo?. - Io lo odio. - Tanto meglio! Il tuo odio potrebbe averlo compreso più dell'amore di Tarlatti. Cristo non ha egli detto: chi non odia l'anima sua in questa vita non la serberà immortale? Chi odia crede. Tebaldi il più grosso dei quattro si torse verso l'abate appoggiando il gomito sulla tavola e guardandolo fissamente; la sua faccia: quadra, bruna, dai sopraccigli quasi riuniti, esprimeva una fiera energia. - Non ho il vostro ingegno - cominciò - ma io credo; per voi altri la vita è uno spettacolo, del quale vorreste riprodurre i quadri nell'arte, e così pensereste di aver vissuto. Allora come ridete di Bovio? Perchè il suo quadro di Cristo è brutto? E bello a che cosa gioverebbe, se nemmeno la redenzione di Cristo ha giovato? Quando tu, Mattioli, parlavi di Giuda, io ti ascoltavo attentamente: il cristianesimo non ha potuto comprendere il suo tradimento, tu dicevi. Ebbene, io ti rispondo: perchè tradimento non vi fu. In che cosa si poteva tradire Cristo? Qual'era la sua idea? Io non la so. - Il mondo l'ha accettata. - proruppe l'abate.- Rimanendo tale quale, quindi non la sa come me. Egli si proclama figlio di Dio: è questa l'idea? Tutte le mitologie dei suoi tempi n'erano piene. La redenzione dal peccato originale mediante una incarnazione divina? Tutte le mitologie n'erano piene. Un'altra vita in un altro mondo migliore? Tutte le mitologie n'erano piene. L'uguaglianza del genere umano. - Sì. - Ma non osò proclamarla. - Nel cristianesimo schiavo e padrone sono eguali. - Come dunque sono ancora schiavo e padrone? Che egli abbia o no avuto una esistenza di uomo, mi pare la più inutile delle questioni dal momento che sarebbe stato un uomo non superiore al proprio tempo. - Perchè dunque hai detto di odiarlo? Gli altri assistevano quasi ansiosi allo strano duello, ma dinanzi al viso sempre così oscuro di Tebaldi, la fronte dell'abate si rischiarava; ambedue sentivano che i discorsi fatti sino allora non erano stati che divagazioni. - Per la religione del suo nome: essa è ancora il più grande ostacolo al progresso umano colla viltà dei dogmi e l'ipocrisia delle speranze. Il Dio di Cristo crea l'uomo, certamente per l'uomo e non per sè stesso, e nullameno per un primo peccato condanna tutta la sua discendenza: è una fola, lo so, ma questa fola rende ancora timida l'umanità. Cristo si proclama suo figlio, e viene a morire con noi per redimerci dalle conseguenze di questo peccato: dove? - In un altro mondo; e allora a che prò discendere in questo? E la speranza, di quell'altro mondo, che conserva tutte le ingiustizie nel nostro. Se la vita è un pellegrinaggio, perchè preoccuparci della strada? Basta la mèta, molto più che il viaggio è brevissimo. Il mondo invece deve inventare una stazione. - Nell'infinito. Arrestati, se puoi, tu che parli di stazioni: il tuo giorno è un baleno fra due ombre, la tua vita è una corsa fra due mète: hai Dio dietro e Dio davanti. Arrestati: in nessun momento della tua esistenza terrena sei pari a te stesso, solo nella tua anima immortale sta la tua identità. Atteggia, combina il mondo come ti piace, non sarà bello perchè potrà guastarsi, non sarà giusto perchè tu condanni il presente, e non puoi mutare il passato. Se tu vuoi la felicità degli uomini vivi, perchè non la pretendi anche pei morti? Il loro antico dolore non basterebbe dunque a turbare la tua gioia nel nuovo assetto sociale? Tu, che accusi d'ingiustizia l'elezione del popolo ebreo fra tutti i popoli, vorresti eleggere alla beatitudine una generazione e le generazioni di essa contro tutto il numero delle altre: pretendi la felicità, e fuggi dinanzi al problema del dolore! Perchè l'uomo soffre? Fino a quando non avrai risposto in te medesimo a questa domanda, il tuo appello alla gioia sarà per lo meno insensato; tu, l'uomo delle scienze positive, vuoi dunque risolvere l'equazione facendo a meno dei suoi dati?- La società sola riduce l'uomo infelice. - Ancora l'uomo contro l'uomo! Perché? questo se tu li credi eguali? E se invece sono dispari nella natura, solamente in Dio potranno pareggiarsi. L'umanità non è dunque più per te socialista un uomo solo, sempre uguale a sè medesimo, nella cui vita ogni generazione è un minuto, che si ricorda al di là del proprio passato, e presagisce quanto gli si prepara nell'avvenire? Il primo pensiero dell'uomo non è per sè medesimo, ma per il proprio creatore. Provati a non ascoltare la domanda, che ti sale ad ogni istante dalla coscienza: donde vengo io che vado? E subito dopo: dove vado io che passo? E poichè non sai rispondere, il problema diventa triplice: allora chi sono? Domandalo a Dio. - Troppi lo hanno già chiesto indarno. - E tutti chiederanno sempre. - Perchè il dubbio è la nostra unica verità - intervenne Tarlatti. - No, esso ne è solamente la fatica. Dio risponde perchè egli stesso, suscitando in noi queste domande, ha voluto che la nostra vita sia un dialogo ininterrotto con lui. Le vostre arti dilucidano i propri quadri sul panorama della sua creazione, le vostre scienze sillabano le prime parole sul libro delle sue leggi, la nostra storia effimera comincia e finisce nella sua storia eterna. Perchè Dio non sarebbe disceso fino a noi sotto la forma di Gesù? La leggenda mosaica, voi dite, è assurda quanto l'altra cristiana della redenzione: ma che ci resta di più ragionevole? Forse la ragione, che ignora tutti i perchè delle proprie domande e delle proprie risposte? Cancellate creatore e creazione, ma resterete sempre dinanzi al pensiero, che ha potuto tanto cancellare, e alla materia incancellabile anche per il pensiero. Siete dunque al medesimo punto, nella stessa antitesi del finito coll'infinito, dell'uomo con Dio: e poiché nulla può disgiungere materia e spirito, forma e sostanza, ordine e cose, Cristo torna mediatore fra le sue nature inseparabili. Cristo non si riesce a negarlo; tu, Mattioli, lo ammetti nell'arte, tu, Tarlatti, nel dubbio, tu, Tebaldi, nell'odio; mentre egli vi costringe tutti e per sempre nella propria orbita divina. L'umanità tenterebbe indarno di scordarlo, perchè in essa, ciò che fu, dura. Prima di strappare Cristo alla coscienza dell'umanità cercatevi intorno con che cosa riempirete in essa un vuoto di duemila anni. Chi di voi, può proclamare false le figure dello spirito accettando per vere quelle della natura? L'indimenticabile dell'uno non vale dunque l'immutabile dell'altra? Per coloro, che credono, il presente è l'eterno: per quelli, che dicono di non credere, il presente è l'effimero, ma la realtà è ugualmente per tutti nel presente: Cristo è presente nell'umanità. Tu, romanziere, hai confessato che nessun dramma è più intenso del suo: trova tu, poeta, una passione della sua più ineffabile: tu, filosofo scettico, cerca un dubbio più profondo della sua fede - se la nostra vita non viene da Dio, e non torna a Dio per mezzo di Dio, dove va la nostra vita? - Tu, socialista, accumula tutte le risorse della materia, condensa l'immensità del mondo nella brevità del tuo tempo, e costruisciti una vita di piaceri; il più piccolo dei dolori spirituali simboleggiati in Cristo ti renderà per sempre, ugualmente, inconsolabile. Tutti noi portiamo Cristo crocifisso nel cuore, e la nostra passione continua la sua, finchè sia consumata la prova e vinto il mistero. Oggi come sempre il mondo appartiene a coloro che credono. - Chi crede più? - chiesero tutti a una voce. - Coloro che interrogano senza pretendere la risposta, e coloro che rispondono senza essere interrogati: i grandi della scienza che consultano l'universo aspettando ingenuamente le sue rivelazioni, e i piccoli della storia che rispondono, inconsciamente ai suoi appelli. Sono gli eletti di Dio. - E la chiesa, della quale tu vesti l'abito? - intervenne con fine sorriso Tarlatti. - Signori, è ora di chiudere - disse l'oste appressandosi al loro tavolo dopo aver spento senza che se ne accorgessero, quasi tutti i becchi del gas; questo brusco avviso li richiamò come una strappata dalle aeree regioni, nelle quali avevano spaziato sino allora, alla volgarità dell'ambiente. Il fiasco era ancora intatto. - Oh! - proruppe Tarlatti - bisogna pagarlo ugualmente, poichè l'oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora. Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell'indomani all'università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano. - Dunque, caro abate - disse ancora Tarlatti - la conclusione è: Laus Christo, come l'intestatura dell'ultimo capitolo nell'ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo. - E a Bovio? - interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta. - Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l'abate coll'imperturbabile fede dei mistici.

Egli non sapeva nemmeno abbastanza chiaramente che cosa fosse la donna, benché avesse dovuto studiare sui libri la torbida epopea di peccato e di espiazione per la quale essa aveva traversato il cristianesimo fino all'apoteosi di Maria. Poi la sua stessa miseria di seminarista, costretto a vivere con dieci franchi al mese, perdeva ogni dolore dinanzi alla miseria mortale di quell'altra, vacillante come un'ombra fra tutti i riverberi della ricchezza, e già vicina a sparire improvvisamente nel chiarore di un'alba. L'indomani ripassò sotto le finestre del palazzo, avventurandosi per tutta la città sino nello Stradone, un largo viale fiancheggiato di platani, all'ombra dei quali nel pomeriggio le signore uscivano a farsi vedere. Tutto fu indarno, dovettero trascorrere delle settimane prima che la rivedesse in carrozza, poi la incontrò ancora a piedi sempre così lenta, vestita di chiaro, col viso bianco dentro l'aureola dorata dei capelli. Avrebbe voluto conoscere il suo nome, ma quando lo seppe gli parve volgare, Tecla, perché sentì dolorosamente l'impossibilità di aggiungervi un diminutivo; quindi ascoltando, talvolta chiedendo imprudentemente, seppe il resto. Era l'unica figlia del conte Naldi morto tisico dopo pochi mesi di matrimonio colla contessa Crivelli. Tutta la città s'interessava del caso pietoso, perché i più illustri professori avevano già dichiarata perduta ogni speranza. Solo la madre colla sublime assurdità dell'amore confidava sempre. Ma gli esami gli caddero addosso nella prostrazione fantasiosa di quel sogno, dentro il quale oramai rimaneva chiuso, senza avere ancora potuto rendersene un conto abbastanza chiaro. Egli sapeva solo di amarla con tutta la forza dell'anima dal momento che il suo pensiero si perdeva affascinato dietro di lei. La notte ed il giorno, nel silenzio delle scuole o nelle solitudini del proprio granaio, vedendo sempre la sua esile figura di fanciulla passare lentamente cogli occhi cilestri, pallidi di quello stesso smarrimento, che si sentiva nel cuore. - Merlini, che cosa avete dunque da essere sempre così intontito? Lo sgridava talora la voce aspra del professore, mentre gli altri ridevano intorno. Egli si turbava, ma nella purezza della propria coscienza non credette nemmeno di aprirsene col confessore. Quell'anno gli esami andarono meglio, poi restò ancora due giorni in città per tentare di vederla, e la terza mattina ripartì a piedi per il villaggio. Là si ammalò. Un tifo, forse dovuto all'insalubrità del pozzo di casa, lo tenne due mesi tra la vita e la morte: il medico lo aveva spacciato, il parroco volle amministrargli i sacramenti, egli invece era quasi contento pensando che forse anch'ella stava per morire. Il loro breve viaggio, così dissimile eppure egualmente triste, finiva allo stesso modo; avevano appena traversato un lembo della terra, che Dio già impietosito della loro stanchezza li richiamava. Invece guarì. Allora provò tutte le amarezze della malattia, le prostrazioni, gli scoramenti, e soprattutto l'umiliazione della miseria, che gli contendeva di rimettersi in forza coi cibi sostanziosi prescritti dal medico. Intorno a lui il padre e le sorelle erano freddi: oramai credendolo svogliato degli studi e così poco in gambe si erano rassegnati a perderlo, quindi le querimonie scoppiarono alle spese provocate dalla malattia. Egli si sentì discusso, valutato coll'atroce discernimento dei poveri, pei quali tutto deve soggiacere alla misura del danaro. Quando ripartì ai Santi per la città pareva uno scheletro, ma l'appetito gli era tornato in un rigoglio improvviso di giovinezza. Sciaguratamente i dieci franchi al mese non gli avrebbero permesso di mangiare di più, se qualche buona fortuna di chiesa non venisse ad aggiungere loro un altro guadagno. I primi mesi furono terribili, il freddo e la fame gli attanagliarono spesso lo stomaco. Rivide la giovinetta sempre così diafana, coi capelli d'oro sulle spalle, e le guance di un pallore cinereo: forse questo poteva essere un effetto del freddo, ma i suoi occhi incontrandola gli rivelarono subito, come la prima volta, che nulla era migliorato nella sua vita di fantasma. Come la prima volta ella rivolse la testa a guardarlo, ed egli arrossì nuovamente. Essa pure cominciava ad alzarsi solo con quei primi freddi a rovescio di tutte le previsioni, che non le avevano concesso altri giorni dopo la caduta delle foglie. Naturalmente si era ingiallita in un colore d'ambra sottilmente venato: solo l'oro dei suoi capelli regali scintillava agli ultimi soli. Egli la rivide ancora, e non trascorse più giorno che almeno cinque o sei volte non passasse e ripassasse sotto le sue finestre, dacché una mattina aveva creduto di scorgerla fra due tende, altrettanto bianca, col viso ai vetri, immobile. I cristalli di un pezzo solo, purissimi, lasciavano apparire la sua figura sino alle ginocchia. Egli si arrestò di botto come dinanzi ad una di quelle sante dipinte nelle alte vetriate: i capelli d'oro le facevano sul capo un nimbo di gloria attraverso la luminosità dei cristalli, che rendeva quasi trasparenti anche i suoi abiti. Per fortuna in quel momento la strada era deserta, ma quando poté finalmente sottrarsi all'incanto di quella apparizione senza che ella lo avesse ancor veduto, per rattenere uno scoppio di pianto lì nel mezzo del Corso si disse di aver fatto una grande scoperta. Quella era dunque la sua camera? Una voce segreta, inconfutabile, glielo affermava. Infatti tornandovi tutte le sere vi scorse sempre il lume; l'indizio era tutt'altro che sicuro, ma nullameno egli si sentiva certo di non ingannarsi. Quell'anno l'inverno rigido cominciò a San Martino. Egli tormentato sempre più dalla fame aveva finalmente potuto trovare un condiscepolo, al quale ripetere le lezioni di ogni giorno, nel figlio di un calzolaio, che impietosito dalla miseria di questo nuovo maestro lo invitava tutte le sere a cena. Non era un vitto molto fine, ma abbondante come in vita sua non gli era mai capitato: poi il calzolaio gli risuolò le scarpe e sua moglie gli fece un paio di calze in grossa lana nera. Così col mantellone dell'arciprete e lo stomaco pieno non aveva più freddo, ma in quella casa lo trovarono presto svogliato. Durante le ripetizioni, cui l'altro si prestava di mala voglia, frequenti distrazioni gli facevano spesso sbagliare i temi esponendolo alle berte dello scolaro contento di potersi a quel modo mostrare superiore in faccia ai propri parenti. Era una nuova tortura più aspra della fame; poi in quella famiglia il padre ateo e la madre villana non avviavano il figlio al sacerdozio che come ad un mestiere, calcolandone anticipatamente i guadagni senza un riguardo né a se stessi né a lui. I loro discorsi osceni lo facevano soffrire nelle fibre più delicate dell'anima; nullameno resistette per quella necessità di dovere pur mangiare, e soprattutto perché le ripetizioni gli avevano fornito la scusa per ottenere dal padrone di casa la chiave della porta. La libertà gli parve immensa. Tutte le sere sulle dieci ripassava due o tre volte sotto il palazzo Naldi fermandosi a considerare lungamente quella finestra illuminata. La sua sottile ombra nera si disegnava sinistramente sulla bianchezza della neve; talvolta i passanti si voltavano meravigliati a considerarlo, e allora egli riprendeva il passo nascondendo il viso magro nell'alto bavero del mantellone, colto da un senso pauroso di vergogna al pensiero che qualcuno potesse parlarne col vescovo. Perché un seminarista giovane come lui era ancora fuori ad ora così tarda? Ma siccome all'angolo della casa di contro, prima di arrivare al palazzo, v'era una piccola Madonna di maiolica rischiarata da un lampione, tutte le sere si fermava devotamente a dirle tre Salve Regina per lei. Certamente quella neve avrebbe preso prima di sciogliersi la tenue fanciulla nella propria bianchezza per nasconderla agli occhi di tutti, lieve e pura dentro l'ombra di un'altra notte più profonda. Egli lo sapeva già con una certezza che talvolta lo faceva rabbrividire. Infatti imparò presto dalla voce di tutti che la giovinetta, da quindici giorni sdraiata sopra una poltrona nella camera della mamma prospiciente sull'ampio giardino perché non poteva stare a letto, era in fin di vita. Egli ebbe uno schianto al cuore: che cosa vi era dunque in quell'altra camera perennemente illuminata? Poi la notte degli otto dicembre, festa della Immacolata Concezione, nel passare alla solita ora vide dentro l'atrio del palazzo una carrozza bruna con due immensi fanali accesi, che lo rischiaravano come di una luce d'incendio. Nevicava fittamente, silenziosamente, a larghe falde. La neve turbinava ai vetri dei fanali con un battito di piccole ale bianche crescendo pura e fredda sulla strada: nessuno passava. Egli già tutto bianco, colle scarpe sepolte nella neve e il mantellone che vi strideva dietro ad ogni passo, si diresse verso la Madonna. Dentro quella opacità la fiamma del lampione gli parve come di lampada sepolcrale. Improvvisamente sentì un soffio più freddo negli occhi e un bisogno irresistibile d'inginocchiarsi dinanzi alla Madonna singhiozzando sotto il mantello perché nessuno potesse vederlo. Appoggiò la testa al muro e si prostrò col mantello sulla testa congiungendo disperatamente le mani: le sue orazioni salirono a quella piccola immagine quasi invisibile come una fiamma fra il pianto dirotto che gli inondava il viso. La fanciulla moriva: egli se ne accorgeva come la madre ginocchioni anche essa accanto alla poltrona. Era allucinazione? Era una di quelle misteriose visioni, che la scienza nega ancora, e che lo spirito ebbe sempre? Egli mormorava sommessamente le parole del salmista ai moribondi con lo stesso accento monotono dei preti in tali istanti, simile ad un murmure di acque, che avvallino per un fondo senza fine. Quando i ginocchi intirizziti dalla umidità della neve lo fecero rinvenire, si sentì tutto bagnato: tentò di rialzarsi colle mani al muro, ma l'impressione del freddo fu così acuta che gli fece quasi gettare un urlo. Una carrozza passò rotolando sulla neve, mentre il portone si chiudeva strepitosamente. Egli intontito di quanto aveva fatto si avviò rabbrividendo per tornare a casa; nella notte lo colse la febbre.

Eppure non si amavano; egli non era geloso, ella non s'inquietava di nulla, ma uguali nella tempra della giovinezza potevano abbastanza contendere nella disparità dell'ingegno e della posizione perché quella lotta sensuale durasse ancora qualche tempo. Nullameno una medesima dolente passione di non sapere amare li spingeva così freneticamente l'uno nelle braccia dell'altro quasi a frugarsi dentro l'anima, attraverso le carni, nella folle speranza di trovarvi finalmente il secreto di quell'amore, senza cui il piacere rimane sempre così al disotto della felicità. Intanto per un tacito accordo, suggerito da una stessa condizione di spirito, non s'interrogavano mai al di là del presente, divorandolo più festosamente nella coscienza secreta della sua brevità. Lelio però aveva una pretensione, che durante quel periodo ella non potesse accettare la corte di nessun altro: doveva essere questo il suo trionfo, la originalità del ricordo, che ne resterebbe ad entrambi, perché Lelio medesimo avrebbe dovuto serbarle per forza quella specie di fedeltà; poi un bel giorno o in una notte anche più bella, prima che l'amabile ingannatrice si fosse decisa a tradirlo, egli l'abbandonerebbe bruscamente. Ma certi sintomi gli davano a pensare: ella non gli aveva ancora offerto alcun regalo, nemmeno di quelle quisquiglie che le donne prodigano sempre. Voleva essa così risparmiare delicatamente il suo orgoglio di gentiluomo povero? O in quella inimicizia, risorgente fra loro da tutti gli abbandoni più voluttuosi, cercava piuttosto di avere con lui meno addentellati per balzare più agile in una improvvisa rottura? Lelio aveva creduto di riconoscere fra i suoi piccoli gioielli abituali, a certe preferenze o a certe frasi, parecchi regali di altri amanti conservati poi per gradevolezza di ricordi o di uso. A lui solo non aveva mai chiesto nulla: valeva egli meno per lei? Forse anche meno di un vestito, come si era vantato di provarle in quella scommessa? Allora lo riprendeva più dolorosa la collera di non poterla amare malgrado tutta la frenesia dei trasporti, nei quali perdeva naturalmente più di quanto ricevesse. Questa micidiale superiorità della donna lo irritava talvolta sino all'odio di sè medesimo. Perché cedere così il sangue più puro della propria giovinezza? Quella donna non l'avrebbe abbandonato forse in quel medesimo carnevale, dimenticandolo per sempre, fra la turba volgare degli altri amanti? Non era lei la vincitrice, che poteva passare la vita nei piaceri senza perdervi nulla di più importante? Colla abitudine critica di ogni vero artista egli aveva già analizzato abbastanza bene la propria passione; era una frenesia di sensi e di vanità, una forza composta di due debolezze, e profezia forse di una debolezza peggiore. Altri illustri erano caduti in quella stessa passione brutale della femmina, e vi erano morti. Da Shakspeare a Byron, da Molière a Goethe, da Heine a Garibaldi, quale triste odissea di grandi teste singhiozzanti sopra ginocchia aperte a tutto il volgo! Era sempre la stessa tragedia provocata da misteriose ed irresistibili affinità, un vizio che cresceva in un corpo e ne guastava l'anima, distruggendo quasi sempre la vita di entrambi. Forse tutti quei grandi avevano cominciato come lui, con una sensualità o una galanteria, poi l'abitudine si era fatta forte, ed era scoppiata la frenesia di amare nello sforzo impossibile di voler essere amato; e mentre la donna, forse incolpevole a forza di essere inintelligente, seguitava a discendere nelle bassure degli amori senza nome, essi le si attaccavano alle gonne piangendo di adorazione e di vergogna. Intanto quell'avventura diventata pubblica cominciava a nuocergli seriamente, alcuni amici insinuavano con delicata malignità ch'egli non avrebbe potuto durarvi per mancanza di danaro, altri più apertamente dicevano già che la principessa doveva avergliene dato: lo si sorvegliava nelle spese, si valutavano minuziosamente tutte le sue nuove eleganze. Al club pareva una intesa per comprometterlo con ogni sorta d'inviti. Una volta per una partita di caccia alla volpe nella tenuta di un ricco conte, e alla quale la principessa Irma doveva partecipare con quasi tutti gli eleganti del suo circolo e molti ufficiali di cavalleria, egli cercò invano una scusa onorevole per rimanerne fuori: non aveva cavallo. Un ufficiale con gentilezza insidiosa gliene offerse uno dei propri. - Come! le fanno dunque paura i cavalli? - Lelio ebbe la debolezza di arrossire. - No - rispose alteramente. - Ma dunque, signor Fornari, lei non sa montare? - intervenne la principessa. - Una cosa che sanno fare anche i marinai. - Lo sapessi pure, non monterei che un cavallo mio. - Siete così puritano in fatto di bestie? - Tutti sorrisero. Egli le serbò rancore, ma per quanto si fosse giurato di non entrare più in quel salone, vi andò la sera stessa del ritorno dalla caccia; ella sfolgorante di brio e di felicità parve non accorgersi di lui. Lelio invece non l'aveva mai veduta così tentatrice: cercò di affettare l'indifferenza, ma il suo orgoglio soffriva troppo di non potersene nemmeno andare senza una specie di abdicazione, perché vi riuscisse. Quella sera il principe Giulio, cacciatore solamente da uccelli, quindi un po' trascurato fra tutti quei racconti di galoppi e di salti, gli venne incontro. La loro conversazione durò troppo: la canonichessa ne fece l'osservazione in francese come della più bizzarra avventura nel carnevale, l'amante che perdendo la moglie si metteva per consolazione a corteggiare il marito, e Lelio l'apprese poco dopo dal conte Turolla. In quel momento il principino scherzava colla principessa Irma. La canonichessa gelosa impallidì: allora Lelio, che le si era già avvicinato per pungerla con qualche motto crudele, colto da un senso improvviso di pietà verso quella brutta donna, colpita come lui al cuore da una stessa ingiustizia, uscì dal salone. Questa volta era ben deciso a ritornare in campagna, subito, per riguadagnarvi, lavorando, il tempo perduto. Nullameno passarono ancora alcuni giorni, poi la rivide ad un concerto, e la sera medesima sedendole accanto nel palchetto ella si mise a premergli un piede. La mutevole creatura rideva pazzamente di un ufficiale, il più brutto del reggimento, che le faceva dalla barcaccia una corte troppo palese. - Giulio, lo vedi? - si volse al marito. - Oh! sono tranquillo sul conto suo. Infatti il principe doveva andare a Roma l'indomani per restarvi una settimana. - Bada, è troppo bello. La volgarità di questi scherzi ripugnava a Lelio, che ritirò il piede sotto il divano: ella bruscamente si volse a guardare altrove, ma l'indomani si videro per strada. Egli l'accompagnò un tratto. - Venite alla festa della canonichessa? - Non sono invitato. Ella ne fece le meraviglie. - Ah! non siete wagneriano. - Voi andrete certamente. - Sì, da sola... Sono sola sola in casa. Il suo sorriso aveva la solita lubricità, poi si passò rapidamente la punta della lingua sulle labbra. - Invitatemi a pranzo - l'altro proruppe. - Perché sono sola? - Egli capì tosto che acconsentiva. - Trovate un pretesto. - Se non è che questo! Siccome è la prima festa della canonichessa, e vi sarà tutta Bologna, avrete certamente un abito nuovo per eclissare tutte le signore. Verrò a vederlo. Ma si pentì subito dopo di averlo trovato sentendo come fosse volgare. - Sì, è veramente bello! - esclamò la donnina con uno scoppio di orgoglio infantile. Alle cinque e mezzo Lelio in marsina e cravatta bianca entrava trionfalmente nel salotto della principessa, perché a casa aveva trovato un invito per la festa da ballo. La principessa si turbò. - Allora il pretesto non serve più. Se lo sapessero! - Fammi vedere l'abito. - Non vi mostro niente. Il dibattito durò dieci minuti, ma siccome il cameriere entrava nel gabinetto per avvisare che la signora era servita, Lelio troncò ogni difficoltà col chiederle sfacciatamente d'essere invitato a pranzo, e le offerse il braccio. Il pranzo modestissimo era mal servito: ella stava contegnosa, egli disinvolto faceva dello spirito accorgendosi di riuscirle sempre più seccante. Perché? Aveva ella calcolato sulla sua assenza in quella festa, o si pentiva già di compromettersi troppo con quel pranzo, sola con lui, in faccia a tutti i domestici? Allora Lelio si fece vile: conoscendo la sua debolezza per i complimenti si profuse in frasi dolci, piene di scurrili allusioni, e finì per raccontare scherzosamente tutta la storia di un amante, che la contessa Ghigi, la divina impeccabile, avrebbe finalmente trovato in un ufficiale di artiglieria. Ella non lo credeva, ma i particolari erano così minuti e scabrosi che dovette riderne per forza. Poi tornarono un momento nel gabinetto a prendere il caffè. Pareva ridivenuta allegra. Improvvisamente Lelio, inginocchiandosele innanzi per baciarla sulla cintura, le chiese il permesso di assistere alla sua toeletta con Clelia, la cameriera di confidenza, che, al corrente di tutto da un pezzo, non ne avrebbe fatto alcuna meraviglia. Ella gli pose per risposta la mano sulla bocca. - Se invece della festa rimanessimo qui insieme fino alle undici? Poi tu vai a letto ed io faccio altrettanto: lo faresti per me un simile sacrificio? - La proposta era così stravagante che l'altra non la comprese nemmeno. - Vattene, è già tardi. - No, ti aspetterò qui. Voglio vederti prima di tutti gli altri. Ella non badò al tono freddo di quelle parole. Appena rimasto solo, Lelio si voltò verso lo specchio e vi si scorse livido di collera: il gabinetto poco illuminato da una lampada sopra un alto piede dorato, coperta di trine, pareva più piccolo; egli le sollevò dalla grossa palla di vetro appannato gettandole sopra una poltroncina, e in quella luce più viva tornò a guardarsi. Eppure gli pareva d'essere bello, almeno più che il principe Giulio e quell'altro della canonichessa, dalla quale aveva così tardi e forse a stento ricevuto l'invito alla festa. Perché dunque la principessa Irma non lo amava? La puerilità di questa dimanda, che non avrebbe osato rivolgere a nessun altro, in quel momento lo fece soffrire. La sua anima degna di più alte passioni si trovò daccapo in quel gabinetto minuscolo, di un lusso raffinato ed insignificante come la vita della donna, dietro la quale egli si perdeva da un anno; si rammentò tutto, il primo incontro, la gita a Cà de' Varchi, la scena violenta dietro al fienile, tutta la serie dei minimi drammi, i ripicchi, le carezze, i delirii della carne nella più torrida arsura della passione, quando si abbracciavano così strettamente che avrebbero potuto credere per un istante di non lasciarsi più. Poi tutto finiva un istante dopo per ricominciare ancora in una alternativa di luci e di ombre, mentre un gran vuoto gli si allargava in cuore e il cervello spossato gli si intorpidiva sotto una nebbia pesante. Perché durava ancora quella meschina novella, buona tutto al più per raccontarsi in poche pagine? Intanto egli era ancora lì ad attendere fanciullescamente la principessa trionfante nell'abito nuovo, che le avrebbe attirato gli omaggi di nuove passioni. Se ella invece lo avesse amato, quale deliziosa circostanza quella assenza del marito, e come si sarebbero sentiti entrambi felici di rinunziare alla festa per trascorrere insieme la sera, fors'anche la notte, arrischiando per questa beatitudine di poche ore magari tutta la vita! Ella intenta ad abbigliarsi non pensava invece più a lui in tal momento, perché appena incomincia per una signora la toeletta da ballo, questo solo diventa l'amante, e ogni altro scompare. Lelio aveva acceso una sigaretta quantunque sapesse che la principessa non permetteva mai di fumare nel proprio gabinetto; quindi si era gettato sopra un divano. Poi consultò l'orologio, non erano che le otto e mezzo. Quanto impiegherebbe ella a vestirsi? Per un momento ebbe quasi voglia di andarsene. Che cosa faceva lì? Non gli sarebbe toccato di uscire peggio, solo, a piedi, mentre l'altra monterebbe nella propria carrozza, giacché per nulla al mondo ella avrebbe consentito a farsi accompagnare da lui al ballo? Per così segnalato favore Lelio avrebbe dovuto essere per lo meno il principino; allora il mondo non vi avrebbe trovato nulla a ridire, ma un borghese come lui l'avrebbe resa ridicola. Il mondo riconosce parecchie categorie negli amanti come in ogni altra classe di funzionari. E l'idea di un amore profondo, tenace, con una dama bella ed elegante, che avesse potuto comprendere almeno in parte i bisogni della sua anima e la grandezza dei suoi ideali d'artista, gli appariva dentro la magia di un quadro dalle tinte delicate sopra un fondo misterioso; egli vi si sarebbe sentito più uomo nella forte calma della fede inspirata ad un'altra anima, colla soavità di un abbandono, che lo avrebbe riposato dalle virili fatiche del pensiero. Che cosa direbbe suo padre vedendolo in tal momento ad aspettare come un valletto che la principessa fosse vestita? Gettò la sigaretta e tornò a camminare. Era stanco, irritato di quella attesa troppo lunga anche per un vero amante, e nullameno senza gran cosa di anormale, dacché la festa cominciava alle dieci, e la toeletta di una signora non può in simili casi durare meno di qualche ora. Istintivamente si cercò un libro intorno, fuori nevicava. Egli aveva lasciato la pelliccia in anticamera, ma andando alla festa avrebbe avuto bisogno di trovare subito un fiacre per non sporcarsi le scarpe. Questa preoccupazione gli suggerì di chiamare un servo, che glielo andasse a cercare, poi improvvisamente diventò timido e non l'osò. Che avrebbe pensato costui? Daccapo si distrasse: quindi un altro più meschino pensiero lo fece sorridere quasi con gioia nella speranza che l'abito della principessa fosse brutto e non le attirasse che l'ironia delle signore; sarebbe stata sempre una piccola rivincita per lui, che a quella festa non avrebbe avuto alcuna importanza. Ma gli ultimi quarti d'ora furono addirittura convulsi. Finalmente intese un fruscìo. Ella entrò sorridente col viso in alto: aveva sulla testa un diadema e al collo una collana di oro massiccio ad anella e piastrine, qualche cosa di barbaro e di elegante come il diadema e la collana di Elena, che il dottore Schliemann aveva pochi mesi prima scoperto in Grecia, e già diventati di moda a Parigi. La sua bella testa di gitana ne acquistava un'aria bizzarra d'impero. Rimase un istante sull'uscio quasi incorniciata dalle sue modanature in legno pallido; aveva il busto di un rosso cupo a ricami dorati e, sotto, una campana di merletti rugginosi egualmente ricamati d'oro le copriva la sottana, della quale lo strascico si perdeva al di fuori. Ella s'avanzò guardandolo negli occhi per cogliervi il primo lampo di ammirazione, ma appena nel gabinetto si voltò allo specchio. Un odore acuto di sandalo era entrato con lei. Lelio taceva: allora ella trionfante gli sorrise nello specchio. Le sue spalle brune, nude, parevano più delicate sotto quella pesante fornitura d'oro, senza una gemma, e tutto quell'oro nel busto e nella gonna, che le accendeva intorno una strana fosforescenza. Un'idea passò lampeggiando nel cervello di Lelio. Ella sorrideva ancora. Lelio chinò lievemente la testa al suo sorriso e, affettando la massima circospezione, poiché lo strascico del vestito riempiva quasi tutto il gabinetto, le si accostò per di dietro colle labbra tese per deporle un bacio sulla spalla sinistra. La sua testa spuntò dallo sfondo lucente del cristallo, altrettanto bella, forse più pallida nell'abito nero e sopra quella camicia bianca come la porcellana, mentre ella si aggiustava un riccio sotto il diadema; ma Lelio nel piegarsi per darle il bacio traballò improvvisamente incespicando nell'abito, così che per balzare indietro ne sfondò con un piede la campana dei merletti. Lo stridore della seta lacerandosi anch'essa per oltre la metà della loro altezza fece voltare la principessa, che urtò quasi colla testa in quella di Lelio; era diventata verde come i propri occhi, cogli occhi sfolgoranti. - Villano! - gridò raccogliendo nella mano la strappatura. Lelio attese che rialzasse il capo; i suoi sguardi si urtarono allora in quelli della principessa umidi di lagrime. - Avete perduto la scommessa. Nell'ira di quel dolore ella non comprese nemmeno. - Clelia! - esclamò. - Eppure ve lo aveva detto che non avrei mai avuto per voi il valore di un abito! - soggiunse Lelio tristamente. Ma l'altra l'interruppe con un gesto di disprezzo così violento che l'altro dovette indietreggiare; ella rimaneva sempre così piegata colla strappatura fra le mani. Allora Lelio, che nell'iracondo pentimento di quella vittoria stava per rispondere una ingiuria grossolana, le si inchinò freddamente e, prima ancora che la cameriera accorresse, uscì dal gabinetto. Fuori la neve seguitava a cadere. - Dove vai? - lo chiamò una voce amica all'angolo di via Farini. - sei di ballo? - No. Ho mutato pensiero - rispose abbottonando solamente allora la pelliccia, sotto la quale l'altro aveva veduto il piastrone e la cravatta bianca. - Allora vieni con me, abbiamo una cena con cinque o sei sgualdrine del teatro Brunetti. Staremo allegri. Almeno quelle sono donne che si conoscono prima; non c'è pericolo di essere ingannati. - Tanto peggio, mio caro! - replicò l'altro. E si lasciò trascinare.

Un grosso lume a petrolio, poco pulito, illuminava abbastanza vivamente la stamberga, dietro la quale in un altro camerino si giocava a tresette. - Tira via, Rocco. - Finito! - uno replicò. - È come il gallo de la botte! Tutti si rivolsero a guardare sulla porta del camerino la grande oleografia, inchiodatavi recentemente dall'ostessa, e che rappresentava una botte con un magnifico gallo sul cocchiume e nel fondo questa scritta: "Quando questo gallo canterà - credenza si farà." - Gallo lo sono ancora - ribatté Rocco: - portami una ragazza, tu. - Tira via dunque. - Tieni. - Eh! va là che non trovi altro - disse Mengo. Quindi le voci crebbero ancora quasi schernendo il vecchio Rocco, ma con una secreta simpatia per lui, se avesse potuto battere Mengo, uno fra i migliori stornellisti di Cignale, il paese più vicino di Toscana. Era ancora l'antica rivalità fra i due stati del duca Leopoldo e del Papa. Ci fu come un momento di ansia quando Rocco abbassò la testa per raccogliersi; dall'altro camerino scoppiò un'atroce bestemmia. Fiore di brina. Chi picchia donne suona una campana, Chi spicca rose prenderà una spina. - Toh! - uno ruggì. - Oh Dio! Il fracasso di un tavolo rovesciato, dal quale cadevano litri e bicchieri, arrestò l'applauso, che l'ultimo stornello di Rocco avrebbe provocato; la gente si precipitò per la porta, vi ebbero subito delle braccia alzate, delle urla, una colluttazione di molti contro un solo, il quale si vedeva a stento stretto fra la ressa, mentre Viù, il ragazzaccio gobbo, che tutti conoscevano così tristo, si era già tirato indietro livido come la cenere. La gente lo interrogava. - È stato lui... - cercò di rispondere malignamente, ma l'altro dando uno strattone fra le braccia che lo tenevano avvinghiato, alzò il coltello. - Tu sei stato, maledetto! Volevi piantarmi questo nella pancia, ma te l'ho strappato di mano, e te lo caccio io dentro la gobba. Un sogghigno perverso stirò le labbra del ragazzo, momentaneamente rassicurato da tutta quella folla, che ratteneva il suo avversario; già i pareri oscillavano. Toto e Ghino, compagni di Viù nella partita, cercarono di dare la colpa all'altro, all'uomo, come lo avevano chiamato per dileggio sino dal principio del giuoco per marcare la sua differenza con loro, che non arrivavano ai vent'anni. Viù, il meno giovane, ne aveva appena diciotto. Ma gli sforzi di Santone per divincolarsi, mentre nessuno ancora era riuscito a trargli di mano il coltello strappato al gobbo, cominciavano ad impensierire la folla sballottata in quello stanzino troppo angusto contro i muri e nell'impossibilità di potere spiegare la propria forza. - Mi raccomando, mi raccomando! - si udiva la voce acuta di Teresa, la ricca ostessa, alta, grassa, odiosa, quantunque non brutta, per la esosità della avarizia e l'ipocrita servilità, colla quale trattava gli avventori. - Se non fosse per Santone, avrei piacere - le rispose sprezzantemente Sughetto, un giovane calzolaio - che venissero i carabinieri e vi facessero chiudere l'osteria. Ma ella si era già cacciata più avanti senza ripugnanza per tutte le mani che la brancicavano, riuscendo finalmente a riunire Rocco e Mengo perché disarmassero Santone. - E tu sta zitto - si volse al gobbo. La raccomandazione era inutile. Quella specie di furore muto, col quale Santone spiegando una forza prodigiosa tentava sempre di svincolarsi dalla folla per piombare sopra di lui, aveva gelato di terrore la fredda malvagità dell'altro. Istintivamente si era ritirato dietro il banco coperto di marmo, sul quale nei giorni di grande cucina, quando s'accendevano anche i fornelli del camerino, la Teresa disponeva i piatti e li barattava; ma appena lì dentro tremò di non poterne più uscire. Rapidamente tentò colla mano destra, senza che alcuno se ne avvedesse, i cassetti del banco per cercarvi un'arma: erano chiusi. - Ti sei messo da te nella trappola - uno gli disse ghignando dallo spigolo dell'uscio. - Lasciatemi, corpo di Dio! - urlava Santone. - Nessuno m'impedirà di finirlo. Ha voluto darmi una coltellata nel fianco, all'improvviso: glielo farò mangiare io il coltello, tutto a pezzettini. Ridi, ah! - gridò essendo già riuscito a liberare la mano, nella quale teneva il coltello. Tutti si ritrassero istantaneamente, solo il vecchio Rocco gli rimase di faccia. - E adesso dove vai? - Lo ammazzo. - Bella forza! per schiacciare una cimice come lui basta un'unghia. L'osservazione era così vera che tutti fremettero; Viù, cogli occhi sbarrati, tremava. - Lo vuoi ammazzare? - seguitò Roccò staccandosi dal banco per mostrargli il ragazzaccio, mentre prima glielo nascondeva quasi col corpo. - Non lo vedi che è già morto di paura? Va là, Santone, che la è proprio cosa da te! Lascia andare, tu sei un uomo. - Ha voluto ammazzarmi - mormorava l'altro, lasciandosi afferrare nuovamente la mano, nella quale brandiva il coltello. - Date mente a Rocco, Santone - interloquì la Teresa. - Tu porta subito una bottiglia, vecchia avara, ma se non è di quello, mi hai capito, invece di tirare il collo al gobbo lo tiriamo a te - le si volse Rocco di mala voglia. - Bravo, Rocco! Si cominciava già a ridere, questi aveva tratto il coltello di mano all'altro e, conoscendo il suo carattere impetuoso ma buono, glielo aveva di buona grazia restituito. - Tienilo, è di buona guerra. Una carogna come lui non paga la carica. - Adesso sei tu che torni a soffiare - disse qualcuno. - No. - Andiamo, via, bisogna fare la pace: quello che è stato è stato. Che diavolo! Viva il carnevale... Quindi le voci alzandosi e spezzandosi tutte in una volta ruppero la tensione della scena; oramai tutto era sedato, Santone ricadde sulla panca fra Mengo e Rocco, Toto e Ghino senza avere ancora parlato rimettevano a posto il tavolo, mentre la Teresa scopando i frantumi più grossi dei vetri brontolava già: - Li paghi tu, Santone, i rotti: il litro e tre bicchieri. - Due: vedete pure che questo è intatto - intervenne Ghino. - Va da Dio a farteli pagare. - No, sono io che li ho rovesciati - si fece avanti Viù con voce conciliante, benché non fosse vero. - Allora se paghi tu, paga subito, altrimenti non ti credo - si volse l'ostessa. - Ecco. E con un pugno di soldi nella mano sinistra tornò presso il tavolo. Non pareva più quello: colla prontezza odiosamente scaltra che lo distingueva, appena convinto di averla scappata bella voleva la rivincita. - Gran cosa! ecco qua, nove soldi in tutto, ma io avevo perso anche la partita: noi stavamo per quattordici punti e gli altri per due. Pago io la bottiglia. - Tienti il tuo danaro - mugghiò Santone, facendo atto di alzarsi per gettarglielo in faccia, se lo avesse deposto sul tavolo. - E perché? Hai vinto. Che cosa vuoi di più? Sono io che confesso di aver torto. - E il coltello? - Lo hai pure nella tasca: io sono senza, eppure mi rimetto qui a sedere. Se vuoi ammazzarmi ammazzami; che diavolo! tutti possiamo sbagliare una volta, non siamo uomini? Si rinviene, non è vero, Mengo? Ohe, Mengo, canta uno stornello. Cantavi pure di là. Santone ancora rosso dalla fatica di quella lotta guardava quasi trasognato la disinvoltura del ragazzaccio, che sembrava irriderlo con tutto il corpo: una contorsione antipatica gli faceva infatti piegare la testa sulla spalla gobba con atto sgraziato, mentre la larga bocca sensuale e gli occhi piccoli, cilestri, seguitavano a ridere del loro riso cattivo. Con una mano dalle dita lunghe lunghe aveva posato i danari sulla tavola e li teneva coperti. Santone alto e tarchiato, coi capelli rossi, i baffi ispidi, il naso corto e grosso, sembrava un bufalo; tratto tratto abbassava i sopraccigli villosi saettando in giro sguardi diffidenti. Viù lo vide tastarsi il coltello nella tasca interna della giubba. - Così non canti, Mengo? - Quella falsa scioltezza impacciava anche gli altri, quando finalmente arrivò Teresa colla bottiglia. - Un'altra, la mia - ordinò Viù spianandosi meglio sulla sedia. - Vada, tutto è accomodato. Datevi la mano - insisté due o tre volte Mengo. - Io sempre - rispose Viù, interrogando l'avversario collo sguardo. Questi gl'indovinò forse nel fondo degli occhietti la sottile canzonatura, e strinse daccapo i pugni; poi vi fu ancora uno scambio lungo, noioso delle solite raccomandazioni, molti già rientrati nella stanza tornarono intorno al tavolo per bere gratis a quella pace, vi ebbero spinte, considerazioni sciocche, complimenti sotto forma d'ingiuria, qualche ingiuria vera fra i pacificatori. Rocco, vessato da tutto quell'intervento, che riduceva a zero la parte così importante avuta nella crisi, se ne andò brontolando, e la pace fu conchiusa finalmente con una terza bottiglia pagata da Santone. Nullameno questi rimaneva accigliato; Viù invece alzando la voce provocantemente, come un vincitore, aveva già fatto cenno a Toto di ravviare la partita. Santone ricusò brutalmente, ma dopo dieci minuti, bloccato, vinto, giocava nuovamente avendo per compagno lo stesso Viù. - Asino! - questi gli gridò confidenzialmente alla prima svista: - non vedi che serbando il re di bastoni avremmo fatto l'ultima presa? Tua figlia Santina gioca meglio di te. - Va dunque a giocare con lei e cavami quattro dita dai... - Là, là, t'inquieti ancora! Bevevano già da tre ore. La partita proseguì facendosi mano mano più seria senza attirare altrimenti l'attenzione del pubblico: si sapeva sin troppo che Viù non lasciava passare giorno senza accattare briga, quantunque in fondo fosse un vigliacco e ne buscasse soventi di sonore. Suo padre, un'altra canaglia, era stato lungo tempo il terrore del paese, poi invecchiando aveva fatto meno paura malgrado l'abitudine delle minacce, e ora diventato idropico per un vizio cardiaco non era più che uno spettro giallo, il quale passava ancora lungo i muri delle case, cogli occhi opachi e il viso smunto, così grottesco nella propria orridezza che i monelli gli davano la baia. E il primo era sempre Viù, il suo unico figlio. Quel giorno stesso dalla porta della pizzicheria vecchia, questi vedendolo attraversare adagio adagio la piazzetta, lo aveva apostrofato: - Morite pure contento, babbo: io mi bevo anticipatamente i danari per la vostra cassa. - Maledetto! Ma l'ingiuria raccapricciante aveva ghiacciato il riso sulle labbra di tutti. Viù non se n'era dato per inteso, anzi scorrazzando per il paese lo aveva riempito del proprio chiasso di bettola in bettola, seguìto da una torma di giovinastri, che bevevano alle sue spalle. Difatti in quel martedì egli aveva intascato parecchie lire colla tassa sul posteggio, della quale il padre aveva dovuto cedergli la riscossione per non potersi più reggere dritto tutta la mattina a farsi pagare dai villani, che venivano colle ceste al mercato. Però l'ultima scena con Santone era rimasta sullo stomaco a Viù. Già, prima, aveva combinato con Toto e con Ghino di prenderlo in mezzo per vincergli una bottiglia e sbertarlo poi ignominiosamente; ma nonostante tutta la sua semplicità quegli se n'era accorto minacciandogli uno scapaccione. Viù di rimando aveva messo mano al coltello, se non che la grossa mano di Santone gli era piombata subito sul pugno stritolandoglielo quasi nello strappargli l'arma. Adesso ci pensavano ambedue scontrandosi tratto tratto con una occhiata seria. - Mi rendi il mio coltello? - chiese Viù all'improvviso. - No. Un lampo sprizzò dagli occhi del ragazzaccio, che finse di stringersi nelle spalle con bonomia. - Ne comprerò un altro. Santone non rispose, bevvero ancora, quindi sopraggiunsero altri monelli in sudore, perché uscivano dal ballo. Se ne parlò, si fecero i nomi delle donne che vi pestavano i piedi sino dal mezzogiorno; uno citò Girella, il peggiore ubbriaco del paese che vi ballava colla moglie e la figlia già grandicella, due sgualdrine, facendosi pagare i poncini da tutti; poi un altro si chinò all'orecchio di Viù: - C'è anche Santina mezzo ubbriaca. - Oh! La partita era alla fine. - Pago io l'ultimo litro - si volse Viù; poi disse: - Andiamo tutti nel pozzangherone. Così chiamavano in paese la sala dove si ballava. - E tu non vieni con noi, Santone? Via! balleremo io e te: io farò da donna, andiamo. "Si scopron le tombe, si levano i morti" - stridé Viù aprendo la marcia a braccio di Santone invano riluttante fra tutti quei ragazzacci, che lo trascinavano quasi a forza cantando e ridendo. Fuori la notte era buia, ma uno scirocco umido la manteneva così calda che si sarebbe potuto girare senza gabbano; per la larga ed unica strada del paesello i pochi fanali sembravano scavare delle pozzanghere giallastre entro l'oscurità dell'acciottolato, e lontano, dove il paese finiva ad un muraglione poggiato sopra una fila di archi a difesa della ripa contro la corrente del fiume, e i freddi invernali, si udivano i rantoli di un organetto. Non erano più delle dieci di notte. Tutti coloro che intendevano prendere parte al carnevale ubbriacandosi nelle bettole o ballando nel pozzangherone, erano già rincasati; dai vetri dei due caffè ancora aperti si vedeva qualche coppia ostinata in una ultima partita a carte entro la luce nebbiosa: quindi un sordo rumore di battenti percossi avvertì la comitiva che anche la Teresa chiudeva l'osteria. Un centinaio di passi più innanzi, dalle due larghe finestre, al primo piano, di una casetta tutta nera uscivano con un gran lume le battute asmatiche di una polka, che un organetto suonava appoggiandosi sui bassi di un violoncello. - Senti Caputo come raschia! - osservò Toto spiccando un salto per arrivare primo lassù. La combriccola invece si arrestò un momento al portone aperto; nel muro di contro, alla stessa altezza, si vedevano passare gesticolando delle grandi ombre entro una specie di vano luminoso, e sparire istantaneamente nell'oscurità della parete; sopra al portone e giù per l'andito nero che si apriva più basso della strada rintronavano le battute di tutti quei piedi, la maggior parte colle scarpe imbullettate, così che i muri ne tremavano; mentre uno strido rauco o un colpo di tacco più violento tentavano di affrettare ancora quel galoppo rovinoso. - E forza... dalli, dalli dunque! - urlarono cinque o sei voci. Allora l'organetto, come preso anch'esso nella vertigine della ronda, strinse così freneticamente il tempo che le note stesse sembrarono pestarsi l'una l'altra come i piedi che, non trovando più il terreno sotto, si ammaccavano balzelloni fra il polverìo rosso dell'ammattonato e il vapore di tutti quegli aliti. Infatti dalle finestre spalancate usciva come una nebbia. - Ballano, ballano! - disse Santone con un sorriso bonario contemplando i salti delle ombre nel muro opposto. Dall'andito aperto nel fondo, dietro la scala, sopra la ripa del fiume, venivano tra il tanfo della fanghiglia lasciatavi da tutti quei piedi fetori umani più acuti, che non permettevano alcun dubbio sul come gl'inquilini della casa ed altri forse del paese, essendo quel portone sempre aperto anche di notte, usassero del cortiletto. Non v'era lume, ma giù dalla scala scendeva un filo di luce sottile come un ragnatelo, appena sufficiente per indicare per dove dall'andito si montasse alla sala. Alcuni calavano già le scale, benché il galoppo non si fosse ancora arrestato. La comitiva entrò. Sopra il secondo pianerottolo quattro scalini mettevano alla sala, altri due invece scendevano in una specie di cucinetta, improvvisata a caffè, con due lunghe tavole da bettola e qualche cocoma sul focolare, ma era quasi vuota in quel momento. Il padrone, un gran pezzo di facchino dai capelli rossi, senza giacca e con un lercio mozzicone di pipa in bocca, raccolse il loro soldo a testa in un vecchio bacile di ferro, che tornò a posare sopra una sedia mezzo spagliata; più in alto, entro un pezzo di legno, era piantata una candela di sego. - Avanti, avanti! - diceva con un gran gesto, ma vedendo Santone cercarsi in tasca i fiammiferi staccò gentilmente la candela dal muro. Era impossibile entrare. In quel momento le coppie dei ballerini si precipitavano dall'uscio verso il caffè sudanti, trafelate; gli uomini trascinando a forza le donne, che sembravano non volervi accondiscendere per quella finta ripugnanza imposta loro dall'uso di dover sempre opporre un rifiuto prima di accettare un rinfresco, e rotolavano quasi dai gradini a grappoli nel buio del pianerottolo, rumoreggiando. Dentro, la sala era ancora piena. Tre lumi a petrolio, sospesi ai travicelli del soffitto, la illuminavano vivamente; in fondo, presso una delle finestre spalancate, il palco dell'orchestra non era composto che di una tavola con sopra due sedie, e i suonatori affranti guardavano con occhio vago. Si girava a stento. Quasi tutti gli uomini, specialmente quelli che non ballavano, rimanevano ritti, ammantellati come la domenica in piazza, senza muoversi: molte donne attempate sedevano sopra due panche lungo le pareti, ed erano le mamme delle più giovani venute a ballare, ma nessuno le invitava mai se non per lazzo; in un altro angolo due carabinieri in berretto e mantello vigilavano scuri, seri, quasi inosservati. Ma nonostante le finestre aperte era caldo. Un puzzo di cenci sudanti, di scarpe unte colla grascia, di petrolio, di polvere, di fiati mozzava il respiro; si parlava a gruppetti sogghignando, la maggior parte fumavano. E un altro odore acuto di vino cotto veniva per l'uscio della cucina, ove i ballerini bevevano secondo il solito dopo ogni ballo. Giga, la bella mora, non aveva voluto a nessun patto discendervi quella volta, benché fosse anche essa fra quelle scritturate dal padrone per il ballo: paga non ne riceveva come tutte le altre, ma solamente a mezzogiorno e sull'avemaria da mangiare: al resto bisognava pensarci da sé eccitando la baldoria e facendo bere i ballerini, perché lì appunto stava il guadagno del ballo. Ogni bicchierino costava due soldi e non valeva forse due centesimi, poi vi erano le zucchette di aleatico a quindici, a trenta, magari a cinquanta soldi l'una, giacché si ballava sempre a sfida. Uno scommetteva di piroettarvi intorno mulinando colla donna senza mai urtarvi del piede; nel caso contrario doveva pagare, ma se gli riusciva invece toccava all'avversario. Ed era il ballo più festoso, che eccitava tutti gli orgogli e tutte le curiosità come gli a solo in teatro. Viù si accostò a Giga. - Ohé, Mora, vuoi fare una galletta con me? - Perché no? adesso, dopo. - Allora chi pigliamo? Santina? - È andata via poco fa. - Con chi? - Lo so io? - rispose la Mora con un sorriso sprezzante che le scoperse tutti i magnifici denti bianchi. - Cerca tu le donne che vuoi. Per il ballo della galletta ce ne volevano quattro, e un uomo solo nel mezzo. Viù invece si accostò a Toto: - Dov'è Santina? - Era quasi ubbriaca del tutto, sarà andata a casa. - Imbecille! Lei non va a casa se è ubbriaca: l'avranno portata fuori. Toto si mise in cerca che già Perpignano, il direttore di sala, batteva le mani per il nuovo ballo; i ballerini ritornavano lentamente dal caffè a coppie, perdendosi fra la folla, mentre Caputo tentava d'accordare il violoncello e la gente rimaneva sempre lì nel mezzo. - Indietro dunque, indietro! - gridava Perpignano colle lunghe braccia distese per disegnare il circolo, e intanto chiedeva il soldo a tutti gli uomini che si disponevano in fila con una donna. - Indietro dunque! Paga il soldo tu, Cristiano: va bene, spingi indietro. Ehi, Tonio! non hai pagato nemmeno l'altra volta, credi che me ne sia scordato? Per Dio! ma se non date indietro vi pesto i piedi: lasciate dunque ballare. Monferrina, avanti! To,... il soldo? Mora, in fila, bella Mora, e tu, Cocca, fatti avanti con Santone. Bene, Santone! quattro salti anche tu, crepi la malinconia, bisogna divertirsi al mondo! - Viva il carnevale! - strillò Viù spingendo Santone un po' impacciato colla sua ballerina, la Berta del beccamorti, una ragazza sottile come una faina, dal musetto nero e due occhi che foravano la pelle. Ella rideva con Viù. Ma l'ondeggiamento della sala seguitava sempre impedendo al circolo di formarsi malgrado tutti gli sforzi di Perpignano, alto e secco, che pigliava la gente per le spalle, dove meglio poteva, respingendola in fila. Il pubblico troppo affollato quella sera, finiva coll'aver ragione dei ballerini. L'organetto aveva gettato la prima battuta in una nota di falsetto stridula come di una punta sul vetro, che si era perduta nel fracasso; dalle finestre aperte improvvisi buffi di vento abbassavano le fiamme dei lumi a petrolio producendo bizzarri effetti di ombra sopra quella massa grigia, compatta ed oscillante, cui le donne allineate alla parete facevano come una cornice anche più scura. Tratto tratto a un grido di ragazzetto nascosto fra le gambe degli altri, a un urto imprevisto trasalivano. Viù impaziente di primeggiare apostrofò Perpignano: - Ridammi il mio soldo, se non sai far stare la gente a posto. - Ti cogliesse un accidente! come vuoi fare? - Musica, musica! vedrai che si scostano. Infatti egli per il primo urtò in Santone spingendoselo innanzi, e tutte le coppie spostandosi in una specie di curva riuscirono a fare il vuoto nel mezzo. La monferrina, intonata con una veemenza di fanfara sugli acuti più stridenti dell'organetto, si allentava ogni tanto nella scarica di quattro passi di polka per riprendere daccapo sopra un ritmo di una monotonia accorante, senza che alcuno se ne impressionasse. Invece si notavano già le bizzarrie del ballo: quelli che non pigliavano mai il tempo e galoppavano pettoruti, o curvi, o dinoccolati, con un braccio intorno alla cintura della donna nella goffaggine pesante di una carezza, che talvolta tentavano di compiere accostandole di più il volto, mentre ella si ritraeva con ripugnanza; altre coppie più strette, che si parlavano all'orecchio brancicandosi; parole ed atti lubrici scattavano come scintille fra il polverio, senza che nessuno di quei volti esprimesse una gioia. Tutti sembravano faticare, colle carni in sudore e la bocca semi aperta. Le donne, meno grevi degli uomini, si lasciavano trascinare guizzando talora negli scambietti della polka con subita agilità. - A me! - gridò Viù cacciandosi fra Santone e Berta per portargliela via; e difatti vi riuscì col tagliare il circolo insinuandovisi poco più lungi fra le altre due coppie, mentre Santone rimasto nel mezzo fra lo scoppio di una risata generale si sentiva improvvisamente preso alle spalle. Era Cocca, la ballerina di Viù, che per non restare sola lo aveva abbracciato sospingendolo nuovamente al galoppo. - Ih, ih! frusta, Cocca - si gridava da ogni parte: - tira di fianco come un cavallo da bilanciere. Allo stesso momento Viù e Berta, nel passargli dinanzi colla leggerezza di due uccelli, sfiancavano daccapo per piroettare nel mezzo. La piccola Berta sembrava scodinzolare dentro le sottane scartando rapidamente il piede e torcendosi sui fianchi con una mossa, che faceva quasi sempre dare un urlo alla massa. Viù invece era sgarbato, ma la disgustosa brutalità della sua faccia in quelle contorsioni del ballo si animava di una lascivia esilarante. A testa bassa, col comignolo della gobba, che gli saliva quasi sopra un orecchio, fingeva ad ogni istante di precipitarsi contro il ventre della ballerina, e le donne ne ridevano più degli uomini. - Che duri, che duri! - vociavano le coppie tornate al passo per ripigliare il fiato. - Vuoi venire a bere? - domandò Santone alla Cocca. - No. Ma ad un gesto di Perpignano il galoppo ricominciò così frenetico che tutti ne indovinarono la fine; allora si alzarono proteste, gridii, pestando più violentemente i piedi fra lo scherno di quelli che non ballavano e si compiacevano di vedere i ballerini mezzo frodati del loro soldo. - Che duri, per Dio! - È finita, gobbo... - Bella Mora, avanti! - La Cocca squittì colla sua voce di volpe: - Santone, tira gli ultimi. - Vengo io - le saltò innanzi Ghino, mentre l'altro preso dalla vertigine di quel circolo troppo stretto girava sopra sè stesso come un bue colpito da una mazzata fra le corna, ma si rimise quasi subito e, riafferrando la Cocca di volo, all'ultima battuta, la sostenne per aria con una mano. - A bere, a bere! - urlarono quasi tutti aggruppandosi intorno a Santone, che si era messo violentemente la Cocca sotto un braccio: Viù li seguiva con Berta, Ghino con la bella Mora. Si misero a tavola nel camerino con dinanzi un piattello di paste e dei bicchierini di vermouth per le donne, gli uomini presero del vino caldo, ma anche lì c'era ressa. La gente non arrivava a potersi sedere, trasudata, senza un pensiero delle correnti di aria che s'infilavano su per le scale, non domandava insistentemente che da bere. - Se muta vento, Mora, farai la brina su tutto il pelo. - E tu? - Dammi una mano che ti faccia sentire fin dove son bagnato. La Mora alzò le spalle voltandosi a guardare negli occhi Ghino, che le pizzicava una coscia sotto la tavola. - Non è lì! - ghignò con un impudore sprezzante. L'altro rimase interdetto. Santone invece non sapendo cosa dire aveva già vuotati due bicchieri di vin caldo, e badava ad offrire delle paste battendo leggermente col labbro del piattello nel seno delle ragazze perché ne prendessero; nel camerino così pieno era un continuo via vai, molti si affacciavano all'uscio per scambiare una parola o guardavano solo curiosamente senza entrare, mentre la Veronica, sorella del padrone, si affannava indarno per servire tutti. Viù aveva indettato Berta. - Perché, Santone, non vuoi che Santina venga anche lei a ballare? - Non voglio - replicò l'altro duramente senza accorgersi dei sorrisi che la sua risposta provocava. - E se fosse venuta! Io almeno non l'ho vista: bel male che ci sarebbe... Adesso sarà a casa. E la voce di Berta aveva uno squillo tagliente, poiché aveva già saputo tutto prima di Toto, e lo aveva detto a Viù. - Anch'io voglio andarmene presto - disse Santone. - Perché? Qui si sta bene - rispose Ghino. - Voialtri potete starci, io me ne vado. - Santina non ha paura di rimanere sola a casa? - Perché paura? - Tu l'avresti, Berta? - Io sì - ribatté con atto monellesco che smentiva le parole. Ma un altro accordo si era fatto sentire e nuovi ballerini vennero a cercare le ragazze; i tre uomini rimasero a tavola, poi Santone alzatosi per accendere un mozzicone di sigaro ad una bracia del focolare vi rimase seduto presso alla Veronica. Era una vecchia ragazza sdentata, con un gran naso nel quale una narice molto più larga faceva come un buco; ma tutti le volevano bene perché lavorava tutto l'anno da tessitrice per mantenere il fratello ubbriacone. Quella fatica di fare da sola i ponci, i caffè e il vino caldo, sempre col viso nel fuoco, le aveva fatto diventare le guance giallastre un po' lucide. - Non ho potuto trovarla ancora - mormorò Toto, rientrando, all'orecchio di Viù. - Io so dov'è. - Tu? - Me lo ha detto Berta: è giù nel capanno della Costa con Prugnolina, Scopetta e Sandro. A quest'ora ci saranno già altri. Toto scattò per andar via. - Aspetta - fe' l'altro, gittando una occhiata sinistra a Santone: - si sono portati dietro un fiasco per finire di ubbriacarla, la metteranno in cuccagna. - Nel capanno ci si sta bene. Turulù vi ha lasciato l'altra settimana un fascio di paglia - replicò Toto cogli occhi luccicanti. - Adesso bisogna tener qui Santone. - Vado a vedere. - No, se vai ci resti: sta qui - conchiuse imperiosamente guardandogli in faccia così che l'altro si sottomise. - Allora che cosa vuoi fare? - Andremo giù noi con Santone. L'altro ebbe un gesto d'incredulità. - Gli dico che è la Sghemba di Porciano; noi l'abbiamo condotta laggiù d'accordo cogli altri e vedrai che viene anche lui. Tu vai avanti ad avvisare che scappino perché arriva Santone. L'altro non capiva ancora. - E se la scopre? - Non la scoprirà. È buio; Santina, riconoscendolo alla voce, starà zitta. Mengo e Rocco entrando dalla scala tagliarono loro il dialogo; allora Santone tornò alla tavola e la Veronica servì altri cinque ponci. - Abbiamo cantato fino adesso: ohé, Mengo!, torna a dire l'ultimo stornello - esclamò Rocco, che una sbornia affettuosa traeva a confessare la propria inferiorità davanti al rivale. Fiori di cesta. Se Adamo c'ebbe a perdere una costa nel far la donna Dio perdé la testa. Ma gli stornelli non facevano più effetto a quella ora. Fortunatamente Santone s'impegnò con Mengo in un discorso di fieno, che non poteva essere breve, perché quegli ne aveva ancora da vendere una buona partita, tutto il suo ricolto dell'estate. Allora Toto e Viù diedero una occhiata in sala e, non potendo stare neanche lì, uscirono a passeggiare. La notte era sempre così tiepida, umida e nera; non si sarebbe riconosciuto un uomo a cinque passi di distanza. - Andiamo laggiù a vedere - insisteva sempre Toto con un tremito spaurito nella voce dopo quella confidenza. Il gobbo invece rideva silenziosamente: ogni tanto qualcuno usciva o rientrava dal portone. - Dunque nessuno lo sa ancora, perché andrebbero per di là in questo caso? - egli osservò accennando verso il fiume. - Che Berta abbia tenuto il secreto? Sarà stato Sandro che non ha voluto avvisare altri; lo conosco. Se gli fosse capitato il tiro da solo, sarebbe stato anche più contento. - Ma Berta come lo ha saputo? - Non ha voluto dirmelo. - Andiamo a vedere. - Andiamo. Oltrepassarono il muraglione a passi concitati, quindi sfiancando per un sentiero discesero la sponda del fiume per tornare quasi sotto la casa del pozzangherone. In quella oscurità il pericolo di tombolare giù sino all'acqua era imminente ad ogni passo, ma i due ragazzacci conoscevano troppo bene cinghione per cinghione tutta la ripa per darsene pensiero. Appena in fondo Viù si arrestò mettendo un fischio. - Vado io. - No, verrà uno di loro - e ripeté cinque o sei volte quel sibilo del quale era solito servirsi come di un segnale. Nullameno s'inoltrarono. La corrente del fiume ingrossata dallo sciogliersi delle nevi rumoreggiava sordamente; si distingueva appena il vecchio ponte, e giù pel greto una casa perché v'era lume ad una finestra. Dall'altro lato non si vedeva che buio. Viù fischiò ancora, poco dopo un'ombra gli si parò davanti. - Sei tu, Sandro? - Sì. Ah! lo hai saputo. - Lo ha saputo anche Santone, almeno cerca Santina. - Oramai è talmente ubbriaca che non ci riconosce più. Vieni. - No, torno su per trattenere Santone; ma se mi sentite ancora a fischiare, scappate subito; vuol dire che egli viene giù. Lo conoscete! - L'altro era rimasto interdetto. La voce di Viù, la sua premura, mentre tutti lo sapevano così pronto a godersi il male altrui, gli parevano sospette. - Di', vuoi mandarci via per restare tu con lei? - La pigli così? Ti saluto. - Aspetta. Toto era perplesso, ma la soggezione verso Viù lo vinse anche questa volta; allora Sandro andò loro dietro per qualche passo, quindi concluse: - Per me ne ho avuto già abbastanza. - No, per Dio! - ribatté Viù - io torno subito. Se posso, imbroglio Santone e lo mando a cercare dal lato opposto, altrimenti calo anch'io con lui fischiando. Voialtri fuggite per il fiume: ma se veniamo soli io e Toto, ci divertiremo. Com'è, com'è Santina? - chiese mutando tono. - Oh! è da ridere; spranga calci come una cavalla. - Su, svelto, Toto! - E si separarono. Santone scendeva appunto le scale per tornare a casa, quando essi rientrarono nell'andito. - Dove vai? - A letto. - Vuoi venire con noi invece? - Dove? - Abbiamo la Sghemba di Porciano nel capanno della Costa. - Ohé! - esclamò Santone sorridendo - siamo noi soli? - Ritorno adesso di là, è mezzo ubbriaca: ho detto che venivo a prendere un fiasco. Vedrai che rideremo. - Andiamo pure. Toto non aveva fiatato; malgrado la sua precoce malvagità quel tentativo lo spaventava. Lungo il muraglione diede una gomitata a Viù, ma questi gli disse di andare innanzi; quindi scesero adagio, circospetti, perché Santone meno agile di loro veniva ultimo. - Com'è che non parliamo? Pare che andiamo a seppellire un morto - questi esclamò. - Sta zitto, qualcuno potrebbe seguirci; è meglio che siamo soli. - La Sghemba ne ha viste ben altre. - Sai pure che quando s'impunta è capace di non volere alcuno. - Questa volta la vedremo! - replicò Santone con un franco riso. - È tutto carnevale. Erano scesi. - Vado io, voialtri venite adagio - disse Viù sparendo rapidamente nell'ombra. I due si fermarono. Toto tremava. Benché il capanno non si distinguesse ancora, non era a più di cinquanta passi entro una insenatura della ripa coperta di virgulti, pei quali coll'agilità della giovinezza non sarebbe stato molto difficile arrampicarsi; e davanti gli si apriva un bel pezzo di fiume asciutto. Santone andò innanzi. - Vieni, è mezzo addormentata - gli sussurrò improvvisamente Viù sorgendogli di faccia ad una svolta: - Entra tu per il primo che sei il più forte: con te certo non la può. - Non c'è nessun altro? - No, io non sono nemmeno entrato: l'ho sentita dal di fuori nicchiare sul fieno. - Lascia fare a me. - Bada che ci siamo anche noi dopo - riprese Viù sogghignando. - Diavolo! - Ecco. Toto e Viù si ritrassero, mentre Santone allungando due passi imboccava l'apertura del capanno. - Ohé, Sghemba! - chiamò a mezza voce. Un urlo soffocato fu la risposta, intanto che Toto e Viù sgattaiolavano su per la macchia, nella quale gli altri tre erano già fuggiti. Ma Viù si fermò: il rombo del fiume in quel momento gli parve spaventevole. Aspettò ansiosamente con Toto senza capire che cosa potesse accadere, giacché Santone era sparito dentro al capanno ridendo all'urlo di Santina senza riconoscerla. S'intese un rumore sordo di lotta e la voce di Santone che disse: - Va là, Sghemba, che non mi scappi. - No, no - esclamò soffocatamente Toto alzandosi. - Che fai? - Vado via. - Vigliacco! hai paura - rispose Viù con voce tremula. - Tu sei il vigliacco - replicò l'altro: - va là, questo non ti tornerà a conto. Un urlo di donna, sottile, disperato, si spense dentro al capanno. Allora Viù rimasto solo ebbe paura. Benché la notte fosse buia, si sentì veduto fra quei cespugli: l'aria era pesante, la corrente del fiume scura come l'aria trabalzava rantolando sui sassi, tutto il resto era solitudine. Coll'orecchio teso colse i più piccoli suoni, seguì su per la ripa l'ascensione di Toto, che si separava fuggendo da quel delitto per correre senza dubbio a letto. Nel capanno non si udiva più altro. Santone scambiando la figlia per la Sghemba non si era fatto naturalmente alcun riguardo, mentre l'altra inorridita, inebetita dalla violenza aveva tentato invano di difendersi, poi si era taciuta per una ultima disperata lusinga di non essere così riconosciuta. - Cercherà di sfuggirgli improvvisamente dal capanno, dopo - pensò Viù. Ed egli aveva voluto questo per vendetta dello scapaccione toccato come risposta alla coltellata colla quale per poco non aveva aperto un fianco a Santone. Tutto quanto gli restava ancora di meno guasto nella precoce perversità del cuore balzò in sussulto; poi il silenzio dentro il capanno, come se quei due vi fossero morti, gli dié una paura istantanea, pazza, di poter essere anch'egli ucciso. D'un salto, col medesimo ribrezzo di Toto, si cacciò a caso su per l'erta, ma quando giunse sulla cima era già pentito di aver ceduto a quel moto istintivo; allentò il passo e si dispose a tornare nel pozzangherone. - Sei stato da Santina? - gli chiese Berta col suo sorriso sfrontato. La festa non gli parve più quella. Infatti la maggior parte di coloro che non ballavano l'avevano abbandonata; per le finestre spalancate l'aria della notte, entrando con un freddo umido, sbatteva sinistramente le fiamme dei lumi a petrolio, mentre gli ultimi ballerini, i più ostinati, ballavano come trottano i cavalli da vettura poco più discosti dalla stalla anche se sfiniti. Egli non rideva più. Gli sembrò che la gente lo esaminasse, Toto e Ghino erano spariti, nel botteghino vuoto del caffè la Veronica affranta dormigliava sopra una sedia. Nell'insopportabile crescendo di quella oppressione si ricordò l'atroce ingiuria detta nel pomeriggio al padre, ridotto ad uno spettro, spregiato da tutti per le violenze di una volta, e che nullameno lo aveva sempre amato alla propria maniera. La mamma era morta l'anno passato, in una sera di carnevale, mentre egli, Viù, ballava in quello stesso pozzangherone: se ne ricordava benissimo, che erano venuti indarno a chiamarlo, ma sin d'allora anche i peggiori giovinastri del paese lo avevano giudicato e condannato senza appello. - Vogliamo fare il saltarello? - gli passò innanzi Berta. - Balla tu l'ultima zucchetta - aggiunse un altro. - Balliamola, balliamola! - replicò Berta. - Ti ho detto di no, figlia di beccamorti. - Tu sei il beccamorti, che uccidi tuo padre. - Ohé, ohé! - intervenne il padrone - qui si sta allegri. Balli o non balli la zucchetta? - Viù scrollò la spalla gobba senza rispondere. - Che canaglia! - gli disse dietro il padrone. Ma appena fuori il tormento gli si fece più acuto, avrebbe voluto sapere a qualunque costo come la era andata a finire, e invece appena il pensiero gli si fermava su quella domanda si sentiva correre per le ossa un brivido gelato. Qualche cosa, che prima non avrebbe mai supposto, gli capovolgeva la coscienza, bizzarri rimorsi della vita condotta sino allora gli battevano sul cervello colla violenza di un'accusa, contro la quale non trovava risposta; perché aveva fatto così? Involontariamente tornò al muraglione spiando giù nelle tenebre, ma non udì altro che il rombo del fiume, continuo e misterioso, perdersi nell'invisibile. La notte buia diventava sempre più fredda senza stelle e senza vento: egli solo era così agitato. Sapeva dove abitava Santone, ma non ebbe il coraggio di passare da quel vicolo per vedere se vi era lume alle sue finestre, e Santina vi fosse tornata. Ella era come lui depravata e perversa. Era riuscita a scappare senza farsi riconoscere? Avrebbe voluto sperarlo, perché non ne sarebbe a quel modo rimasto più che uno scherzo: che importava il fatto, se Santone non se ne accorgeva? Questa strana moralità era la sola, nella quale vedesse chiaro. Poi quella tensione troppo forte per il suo spirito si spezzò lasciandolo in una specie di sonnolenza bruta, con un malessere di sbornia e una ripugnanza istintiva a tornare in casa, dove suo padre solo sul pagliericcio stava senza dubbio rantolando come tutte le altre notti. Accese la pipa e ripassò per tutto il villaggio, quanto era lungo, mettendosi sulla strada di Porciano. Adesso pensava alla Sghemba, quell'altra sgualdrina egualmente nota ai due paesi per la brutalità chiassosa delle proprie avventure, e ancora abbastanza bella malgrado i quarant'anni passati. Cantò Mengo, da lontano: Fior di cicuta. Io remo e la barchetta va spedita Perché, donna, dal cor mi sei caduta. Allora Viù affrettò il passo per incontrarlo, ma quando poté scorgere un'ombra s'accorse che un'altra le veniva dietro. Si avvicinava lentamente, egli riconobbe Santone e saltò la siepe nascondendosi dietro un grosso olmo. Si capiva che andavano a spasso per digerire il troppo vino ingollato, poi Mengo traballando riprese il discorso di prima con quella ostinazione degli ubbriachi, specialmente quando un ricordo affettuoso li mette sui racconti di famiglia. - Perché vedi - si sentiva piagnucolare la sua voce - io le volevo un gran bene; l'avevo sposata senza la camicia contro la volontà di mio padre, che mi avrebbe voluto dare in moglie la Ghita. Va là, vi avrei trovato duecento scudi di dote, che non mi avrebbero giovato gran cosa. Bisogna amarsi piuttosto in famiglia: allora, anche se torni a casa qualche volta ubbriaco, tutto si accomoda. La Ghita ha sposato Giustino, ebbene, Giustino ha fatto un cattivo affare... bisogna che porti sempre il basto e lei sopra. Tu capisci. Ma se vi volete bene in famiglia... la non dura. Qualche cosa ci ha sempre da essere di guasto in casa, o la moglie o la figlia. Santone dié un soprassalto. - Non dico per la tua, ma è così. Io non ho figlie, se le avessi, farebbero come le altre; che colpa ne abbiamo noi? Io me lo sono detto mille volte, i primi giorni, quando mi veniva da piangere anche per strada; e che, la colpa è mia, se Teresa mi è morta di parto? Lo so, doveva accadere così, perché fu così, ma mi pare, guarda, mi pare talvolta ancora di avercene avuto colpa. Non è vero: io non ce ne ho avuta, dillo anche tu. Non avrebbe potuto accadere anche a te? Tu vai a casa, e la moglie resta gravida: ebbene? Dovevo saperlo io che sarebbe morta? - Santone alzò la testa; erano oramai presso l'olmo, ma l'altro non finiva il discorso. - Infine - mormorò Mengo - chi non ne ha colpa non ne ha. Che cosa ci può fare un uomo? Ti capitano alle volte delle cose che non si crederebbero a raccontarle: io ho ammazzato mia moglie, sono io l'assassino! - esclamò Mengo con un singhiozzo. - L'assassino è chi lo sapeva! - mugghiò Santone cupamente stringendo i pugni nell'ombra. Eppure nessun altro assassinio n'è seguìto. Il fatto narrato la mattina da Toto occupò tutti i discorsi del paese senza che alcuno pensasse a denunciarlo alle autorità. Viù, sbigottito, sulle prime tentò di negare, ma siccome Santone era partito per Porciano, dove andava qualche volta a lavorare nelle carbonaie, non stette molto a vantarsene. Quindi la lubricità dello scherzo ne fece presto dimenticare l'orrore, molto più che Santina negando risolutamente non se ne mostrava affatto preoccupata. - Il rovescio di Mirra! - disse un giorno il segretario comunale, appassionato filodrammatico, vedendola passare sgonnellando per la strada. - Mirra, che cosa? - chiese il sindaco, ex maresciallo dei carabinieri, che aveva preso moglie nel paese. E l'altro colse a volo l'occasione di spiegargli lungamente il caso della tragedia alfieriana.

La superbia di artista, aiutata dall'orgoglio della giovinezza, gli faceva sentire di essere abbastanza bello per contendere una donna a qualunque altro uomo sino alle conseguenze più pericolose; ma i saluti e i sorrisi della principessa, appena tornata da Roma, lo avevano daccapo imbrogliato. Perché civettava ella così pubblicamente con lui? A teatro lo cercava insistentemente col binoccolo, gli sorrideva, una volta aveva persino risposto al piccolo saluto, col quale egli provocantemente aveva osato affettare verso di lei una ingiustificabile intimità. Poi all'uscita, nell'atrio, passando a braccio del marito, gli aveva rivolto un cenno confidenziale. Egli fremente si era slanciato per seguirla, ma non aveva potuto scorgere dal portico troppo gremito di gente che allontanarsi la sua carrozza; poi l'indomani era ripassato almeno dieci volte sotto le alte finestre del suo palazzo nella inutile speranza di vederla. Oramai molti si erano accorti di questo maneggio, e colla facilità del pubblico ad accrescere il numero degli amanti alle dame della grande galanteria avevano fatto a Lelio Fornari i primi complimenti insidiosi sulla sua nuova conquista. Invece egli credeva di sapere molto esattamente che la principessa era ancora in relazione con un principino della città, bel giovane magro, di un'antica famiglia rovinata, e che un matrimonio avrebbe un giorno o l'altro rimesso a galla. Si erano narrati particolari su particolari di quell'amore. Ella imprudente talvolta sino alla sfrontatezza si era mostrata con lui dappertutto, ad ogni ora, di notte e di giorno, per le stradicciuole remote e sotto i portici del Pavaglione: aveva persino viaggiato sola con lui da Bologna a Milano, mentre il marito stava a Roma. L'altro, geloso di quanti le facevano la corte, avrebbe voluto abbandonarla cento volte, ma ritornava sempre ai suoi piedi, piangendo, vinto da una malìa impudica, alla quale tutti non avrebbero domandato che di soccombere. Poi erano altre novelle di corteggiatori trascinati fino all'orlo della felicità e beffardamente respinti, o accettati con un capriccio da sultana per rigettarli poco dopo ancora più ammalati di quel sogno di amore, e vanamente indiscreti nelle rivelazioni di un segreto, che la gente fingeva per invidia di non voler credere. Ella passava dovunque altera, soventi un po' sciatta nelle vesti e nei modi, col suo portamento inimitabile, accendendo tratto tratto nei propri occhi verdi delle fiamme fatue, colla larga bocca socchiusa sui grandi denti bianchi, e il nasino corto, rialzato leggermente, che le faceva un musetto adorabile di perversità. Ma non era robusta. Malgrado l'ampiezza del petto e la snella elasticità di tutta la persona, ogni tanto compariva pallida, di un giallore ambrato sotto il bruno della pelle cogli occhi languidi un sorriso indolorito sulle labbra: allora i suoi capelli pettinati quasi sempre a madonna le davano un'aria anche più strana: pareva una graziosa bestiolina ammalata uno di quegli animali sacri ed infelici che le antiche religioni prodigavano nelle decorazioni dei templi. Era quella la sua grande originalità, l'agguato, nel quale prendeva anche i più scettici, lasciandosi sfuggire parole amare di melanconia, tutto un rimpianto di vita ideale, che nessuna ebbrezza d'amore o di vanità avrebbe mai potuto consolare. Quindi molti combattevano per lei attribuendo gli scandali delle sue relazioni alla sincerità temeraria del suo carattere, giacché si era sempre mostrata più che tenera del marito. Le sue stesse abitudini religiose sembravano contraddire all'immoralità dei suoi capricci. La si vedeva spesso di buon mattino, modestamente vestita, col viso ancora gonfio di sonno, andare alla chiesa parrocchiale per restarvi lunghe ore sola, ginocchioni, nel fervore della preghiera come le più umili donnicciuole. Poi aveva osato mantenere da moglie l'uso impostole da ragazza di seguire vestita di nero, con un immenso velo nero sulla testa e un cero in mano, la processione della Madonna di San Luca; mentre tutte le altre giovani signore non lo ardivano più tra la beffarda incredulità della maggioranza e la brutta superstizione dei villani, rimasti ormai soli in quella passeggiata decorativa. Ma Lelio Fornari, abbastanza perspicace per conciliare in lei tutte queste apparenti contraddizioni, non aveva ancora saputo indovinare il perché di quella affettazione quasi amorosa verso di lui. Pretendeva ella di arrolarlo nel manipolo dei giovanetti, prime speranze dell'aristocrazia bolognese, che la seguivano per le strade o s'affollavano nel suo palchetto in una vanità di mostra, abbarbagliati dai suoi sorrisi od ingannati dalla più semplice delle sue pose? Allora tutta l'amara, precoce esperienza del romanziere si destava in lui per renderlo anche più cinico: il suo disprezzo per la donna egualmente incapace di grandi pensieri e di grandi passioni diventava odio di battaglia, una voglia gelida ed acuta di misurarsi con questa principessa, che dominava già tutta Bologna senza altri mezzi che una eleganza e una civetteria un po' meno volgari. Un caso gli aperse i saloni della contessa Ghigi: egli vi andò e vi ottenne molto successo velando la propria superiorità intellettuale. Sulle prime erano rimasti freddi verso questo romanziere, già denunciato alla pubblica indignazione per lo scandalo del suo ultimo libro; ma presto il suo riserbo, le maniere squisite e una suprema insospettabile ironia nel lusingare i difetti più personali, e quindi più inconsci, di ognuno gli valsero la simpatia degli uomini. La sua stessa cortese freddezza colle signore calmò ogni apprensione. La contessa Ghigi, bellissima, dal viso e dal corpo di statua, ma del pari massiccia nello spirito, finì di compiacersi di lui come di un ornamento acquistato al proprio salone. Egli invece vi attendeva la principessa. La prima sera, incontrandosi, rimasero egualmente in guardia: si cantò al piano, si cenò dopo mezzanotte sui piccoli tavoli, e i cavalieri servivano le dame; non si poté fare molto spirito, si ballò, ma Lelio rimase abilmente sopra un divano col principe Giulio a parlare di caccia e del Papa. Il principe, clericale militante, riportò di lui una eccellente impressione. Dopo quindici giorni Lelio accettava dal principe l'invito per una caccia nelle valli comasche, e al ritorno trovava modo destramente di causarne un altro a pranzo. - Avete dunque mutato teorica? - gli chiese quella sera medesima la principessa Irma nel salone della contessa Ghigi, credendo di sorprenderlo nella contemplazione estatica di quest'ultima. Egli finse di non comprendere. - Adesso amate la bellezza. - La studio: la contessa è una delle donne più belle che io abbia visto. Osservate quanta finezza di disegno nell'attacco delle gote col collo, e come la sua fronte è serena; poche statue greche sono più classicamente belle, ma la contessa avrebbe sempre, anche su queste, l'incalcolabile vantaggio della pelle sul marmo. La sua ha un candore di camelia più puro ancora che nel bellissimo fiore inanime. - Non è che una statua. - Alludete forse alla freddezza del suo spirito? Questo prudente riserbo la irritò. - Via... siete troppo artista per aver potuto resistere al fascino della sua bellezza. Lelio le rispose con un sorriso di provocazione. - Non ballate? - No, sono troppo lungo: voi invece, principessa, avete nel ballo una posa adorabile tenendo la faccia volta come quella del cavaliere, e arrovesciandovi sul suo braccio. È una trovata che poche donne potranno imitare, perché ci vuole la vostra figura e soprattutto la vostra testa. - Brutta. Che cosa scrivete ora? - Nulla. - Chi amate? - Voi. - Sempre enigmaticamente? - Sempre. - Sempre colla sicurezza che un giorno ve lo permetterò? - Sempre. Lelio pareva tranquillo. - Sapete che questa potrebbe essere una insolenza? - Per voi no, perché vi credete sicura del contrario. Ella fece per voltargli le spalle, ma si ostinò; quella provocazione calma cominciava a dominarla. - Ah! dunque, un giorno dovrò permettervelo? - Perché no? L'accento di queste ultime parole era così insolentemente pieno di tutte le ciarle, che si facevano sul suo conto per la città, che ella sobbalzò come sotto una ferita. I suoi occhi verdi sfavillarono, mentre il sorriso le si irrigidiva sulla larga bocca sensuale. - In questo momento i vostri occhi hanno avuto una di quelle ondulazioni luminose, che dal mare sembrano perdersi nella luce del cielo. - Tornate poeta. - Con voi lo si diventa. - Non avete voluto venire a pranzo? - lo interruppe bruscamente. - Troppo poco. - Perché vi aveva invitato solamente mio marito? - Fors'anche. - Se vi invitassi io? - Provate. - Non proverò. - Proverete. - Testardo! La contessa Ghigi li separò; ella si avanzava verso di loro vestita di un cupo abito rosso scollato, che lasciava vedere tutta la prestigiosa bellezza delle sue spalle. I suoi grandi occhi neri lucevano senza ardere. - Parlate d'arte? - ella disse col suo sorriso sempre un po' ingenuo e cortese d'intenzione. - La principessa non ama né l'arte né gli artisti. - Che ne sapete? - questa proruppe. - Tutto quello, che voi stessa mi avete detto: detestate i romanzi scritti, come ne amereste gli autori? - Oh! alcuni possono essere amabili - ribatté la contessa senza accorgersi del loro imbarazzo. - Non saranno amati per questo. Altre signore interruppero il dialogo: Lelio notò che la principessa allontanandosi al braccio dell'amica lo sorvegliava in uno dei grandi specchi della parete, e allora finse abilmente di ammirare la superba figura della contessa. Poco dopo vennero a cercarlo per una sciarada: ma nell'andarsene la principessa gli disse che tutti i giovedì restava in casa per ricevere gli amici. Egli vi andò una volta, vi trovò un mondo di signore, e non si fece più vedere. Ella gliene chiese il perché. - Come potete ricordarvi di me in un giorno, nel quale dovete rispondere ai complimenti di tutta Bologna? - Appunto perché non me ne fate mai: li aspetto sempre. - Ne volete domani? Verrò a trovarvi sulle tre. Ella ebbe un delizioso sorriso di accettazione, gli tese la mano e la lasciò per qualche secondo nella sua; a Lelio parve che la sottile manina si schiacciasse sotto la sua stretta con una mollezza di seta, ma erano sotto il portico del Pavaglione e dovettero separarsi per non attirare troppo l'attenzione della gente. Ella si rivolse due volte a guardarlo. Quella notte Lelio non dormì. Nel suo appartamentino di due stanze appena, una da letto e l'altra da studio, che gli costavano una sessantina di franchi al mese, fece ad occhi aperti i sogni più strani, trovando sempre nel fondo di ognuno la medesima amarezza. La principessa era troppo ricca per poterla solamente invitare in quelle due camerette ammobigliate, delle quali il tappeto mostrava la corda e i mobili scompagnati raccontavano troppo chiaramente le loro ultime vicende nei magazzeni dei rigattieri. Poi quella nuova avventura finirebbe forse per costargli al di là delle proprie risorse, giacché le signore molto ricche nella loro ignoranza del denaro non s'immaginano mai quali difficoltà possa incontrare un amante, povero o quasi, nel seguire il loro meno signorile capriccio. Ma una voglia sensuale gli mordeva tutti i muscoli di stringersi finalmente sul petto, in un delirio di prepotenza, quella duttile donnina dalle movenze così voluttuose e l'espressione così multipla della fisonomia. Se non era una gitana, come le aveva detto temerariamente al veglione, aveva però qualche cosa della razza zingaresca; non era nemmeno molto pulita nella pelle e nella biancheria, si pettinava colle dita attorcigliandosi i capelli sulla nuca e fermandoli quasi sempre con un fiore. Poi a certe ondulazioni del suo passo o nell'abbandono di alcune pose balenava una lubricità, che turbava persino le fanciulle ancora condannate alla modestia di educande sotto l'occhio vigile della madre. Domani lo riceverebbe sola? In questo caso egli aveva già deciso, sebbene gli tremasse ancora qualche dubbio nel cuore, di arrischiare tutto per tutto, giacché con una donna simile le misure ordinarie della galanteria non dovevano valere; ella avrebbe forse ceduto ad un assalto subitaneo, o magari resistendovi, lo stimerebbe doppiamente per quell'audacia. Quindi l'indomani, in soprabito e cilindro, un po' pallido per la notte d'insonnia, salì lo scalone del palazzo Montalto: la principessa era uscita. - Da poco? - chiese imprudentemente. - Or ora - rispose il cameriere gallonato che gli aveva aperto la grossa porta dell'appartamento: nell'anticamera si vedevano quattro enormi casse intagliate del quattrocento. Egli ridiscese verde di sdegno per tentare d'incontrarla: infatti sulle cinque la vide sotto al Pavaglione, dentro la pasticceria di moda, fra un circolo di eleganti e di signore, che ridevano. Egli passò e ripassò davanti alla vetrina tutta piena di scatoline in raso a dolci colori, quasi aspettando un richiamo; finalmente spinse la porta. La sua faccia pallida colpì tutti. - Guardati! - gli si rivolse il conte Turolla accennandogli uno dei grandi specchi, sotto il quale la principessa seguitava a ridere senza aspettare il suo saluto. Lelio s'accorse di essere vicino a commettere una odiosa sciocchezza: con uno sforzo supremo di volontà costrinse la propria collera ad abbassarsi e mirandosi nello specchio rispose: - Hai ragione, ho lavorato tutta la notte. La principessa si alzò gaiamente per contemplarlo nello specchio invece di guardarlo in faccia: un'altra risata accolse questo scherzo, ma Lelio rimesso del tutto si era già tratto il cappello e le tendeva la mano. Ella la strinse come al solito. Poi si levò proponendo a tutti quei giovani di accompagnarla in un giro lungo tutto il Pavaglione; Lelio si era rivolto a proposito verso il banco per ordinare un vermouth chinato. - Non viene lei, signor Fornari? - gli domandò con accento vibrante di sottile ironia la principessa. - Mille grazie, ma ho un altro appuntamento. - Con chi era il primo? - Potrei forse dirlo se fosse andato a vuoto. - Altrettanta fortuna pel secondo - rispose dall'uscio salutandolo con un gesto amichevole. Egli si morse le labbra per rattenere una ingiuria plebea. Erano le cinque, l'ora del passeggio elegante sotto il portico del Pavaglione prima di rincasare per il pranzo; i negozi erano affollati, la giornata splendida, il sole di marzo aveva messo nell'aria una mollezza tiepida e profumata. Lelio sperando che la principessa sarebbe tornata a casa forse sola, a piedi, andò verso il suo palazzo per tagliarle la strada; in quel momento avrebbe voluto con lei una spiegazione a qualunque costo, anche a quello di uno scontro col marito o di sembrare grottesco a tutta la città. Ma anche quel fanciullesco proposito gli andò a vuoto, perché la principessa rientrò nel proprio palazzo dentro la carrozza della contessa Ghigi e col marito di questa. Lelio dovette rispondere al loro cortese saluto, quantunque gli sembrasse di leggere negli occhi verdi della principessa una bravata di canzonatura. Ormai quel duello lo preoccupava tutti i momenti. I compagni lo tentavano malignamente su quell'avventura, che lo aveva tanto mutato: si notavano le sue frequenti distrazioni, il suo imbarazzo nei discorsi offensivi che si tenevano su lei, si erano osservate le loro occhiate a teatro, certi fremiti in lui, quel minuscolo dramma di silenzi, di parole, di bugie pressoché uguale in tutti gli amori. Egli per difendersi affettava un cinismo anche più volgare verso tutte le donne, e si era lasciato trascinare a più di una cena con ballerine di ultima fila. Intanto il tempo passava. Una sera sui primi di maggio la contessa Ghigi invitò la principessa ad una gita sulle colline di Ozzano ad un suo podere, ove era solita recarsi tutti gli anni, almeno una volta, a pranzo dalla propria balia. Ella v'andava in confidenza entro un vecchio calesse, senza livree, col cavallo di un fattore: il principe Giulio presente all'invito domandò di esservi compreso, perché sarebbe stata per lui una eccellente occasione per apprendere se in quelle colline vi fossero delle quaglie. Lelio Fornari sopravvenne in quel punto. Ma la contessa Ghigi sembrava poco disposta ad accettare il marito dell'amica per non turbare il carattere di quella visita: i contadini avrebbero avuta troppa soggezione, e la piccola festa sarebbe diventata un'ordinaria gozzoviglia di signore in campagna. - Io sono cacciatore, trattatemi a pane di granturco: non sarà la prima volta che ne mangio - insisteva il principe. - Niente, poi nella calesse non ci si cape in più di due signore. - Ebbene, un'altra idea: vi raggiungeremo lungo la strada, magari solo al podere, io e il signor Fornari. Ella accetta, non è vero, signor Lelio? sul mio biroccino da caccia. Oh! vi attacco sempre delle rozze, io vesto male anche in città, quei contadini non mi riconosceranno. - Ma il signor Fornari - intervenne la principessa - consentirà a non essere elegante? Io - aggiunse ironicamente - mi farò prestare un abito dalla cameriera. - Io invece verrò in maniche di camicia - ribatté Fornari sul medesimo tono. La contessa rise, la partita era vinta: Lelio e la principessa si guardarono negli occhi, quindi si separarono senz'altro. L'indomani sul mezzogiorno, perché le signore malgrado tutte le vanterie della sera innanzi si erano alzate tardi, la contessa Ghigi e la principessa Irma arrivavano al podere Cà de' Varchi al disopra della vecchia badia, precedute dal principe Giulio e da Lelio Fornari montati sopra un rozzo biroccino e vestiti da caccia. Lelio conservava un certo aspetto signorile, il principe invece pareva davvero uno di quei fattori da buoi, arrossati dal sole dei mercati e dal vino delle bettole. Secondo il solito, credendo tutti quattro di andare incontro ad una grande gioia, rimasero seccati sino dal primo momento: i contadini, tranne il reggitore e i due vecchi, erano scappati per la soggezione, la casa era sporca, l'aia piccola, la buca pel letame si apriva presso la porta della cucina, unica porta di tutta la casa. Due gelsi brulli, già sfogliati pei bachi, dei quali si vedevano le stuoie dalle piccole finestre del piano superiore, battevano coi rami sui tetti. Si dovettero porre i due cavalli nella stalla dei buoi, chiamando a grandi grida uno dei ragazzi fuggiaschi pei campi, perché venisse a cavarne prima un paio di vitelli; la calesse e il biroccino rimasero sull'aia, momentaneamente all'ombra di due grossi fienili. Siccome la contessa aveva mandato avanti il cuoco con molte provviste, il pranzo era quasi pronto in una camera attigua alla cucina, e dalla quale con grave incomodo dei contadini si erano dovuti sgombrare un letto e due cassettoni. La balia, vecchia e secca, affettava molta servilità verso la contessa, che credeva ingenuamente di essere adorata da lei e da tutta la famiglia, mentre invece quella gita non riusciva loro grata se non pei cinquanta franchi, che ella lasciava sempre per regalo nelle manine sporche del ragazzo più piccolo. Né la contessa né i suoi invitati, quando per caso ne accompagnava qualcuno, avevano il senso o il gusto della campagna: volevano mostrarsi indulgenti verso le maniere o la povertà dei contadini, ed invece li umiliavano doppiamente senza trovare mai un solo accento, che destasse un'eco della loro vita. Lelio Fornari invece entrò nella cucina e coll'acuta sensibilità dell'artista si mise subito all'unissono con tutti: il cuoco già brillo vi si affaccendava col reggitore ed il nonno, intanto che la balia vestita cogli abiti della domenica doveva accompagnare la contessa, che le aveva passato il braccio sotto il braccio per mostrarsi buona in faccia agli altri invitati. Poco dopo capitò nella cucina una ragazza alta, scalza, bruna, cogli occhi ancora tutti pieni di sole, chiamata improvvisamente dal campo per girare l'arrosto. Le due signore e il principe seduti nell'aia all'ombra dei fienili si volgevano spesso verso la cucina, dalla quale venivano sino a loro risa, fumi e profumi, colla voce del cuoco e quella di Lelio, che scherzavano colla ragazza. Questa, passata sull'aia a testa bassa per la presenza dei signori, si era tosto rimessa; il cuoco diceva qualche barzelletta in bolognese, Lelio le acuminava e la ragazza imporporata dalle fiamme del focolare, sul quale girava il lungo spiedo carico di polli e di piccioni, sembrava anche più bella. Il busto rozzo, da cui la rozza camicia bianca emergeva vivamente, le dava una apparenza fantastica, coi capelli così scarduffati, più neri nell'ombra densa del camino, e le braccia nude e gagliarde, che avrebbero potuto brandire subitamente quello spiedo come un'arma. Lelio non aveva ancora pronunciata una sola parola d'italiano in quella cucina, movendovisi come se vi fosse sempre stato: anzi la sua disinvoltura, solleticata dalla loro famigliarità, lo aveva fatto trascendere sino a sturare una bottiglia dell'eccellente vino bianco, mandato su dalla contessa per berla tutta insieme nei bicchieri piccoli. - Signor Fornari - chiamò con voce secca la principessa dalla finestra, sorprendendolo, mentre pizzicava scherzosamente il collo alla ragazza. Egli invece di uscire corse all'inferriata. - Che cos'è, principessa? - e mise le mani presso le sue nel medesimo ferro. Egli stesso aveva il volto rosso, caldo; il principe Giulio e la contessa Ghigi volgevano loro in quel momento le spalle. La principessa sentì la voluttà di quel bel viso giovane. - Perché non esce sull'aia? - gli domandò con sussiego forzato dandogli del lei per la prima volta, mentre si erano trattati sino allora col voi francese. - Siete voi che lo desiderate? - l'altro replicò appressandole maggiormente il volto al volto. Nella cucina si era fatto un silenzio improvviso; la ragazza si volse di sbieco. - Vedete, principessa, avete fatto loro paura: venite dentro. Ella ebbe una smorfia di ripugnanza, Lelio si staccò dalla finestra freddamente. - Se voi amate le serve, a me non piacciono i servitori. Un lampo di collera si accese negli occhi neri di Lelio, ma seppe frenarsi, e senza nemmeno rispondere tornò al focolare presso la ragazza. Il pranzo parve anche più squisito in quella cameruccia dalle pareti scalcinate, a travi sudice, su quella tavola un po' zoppa, che la balia aveva coperta colla propria migliore biancheria; ma le posate erano rugginose, perché il cuoco aveva dimenticata a casa la sporta delle argenterie. Il principe avvezzo ai contrattempi della caccia ne rise, ma le due signore dovettero fare qualche sforzo per vincersi, mentre la vecchia balia a fianco della contessa ne restava umiliata, e suo figlio, il reggitore, bel pezzo di contadino già sui cinquanta, che serviva a tavola, cercava di scusarsi offrendo di forbirle subito un'altra volta colla sabbia. Poi l'allegria ricominciò. Lelio sentendosi in vena seppe divertire le signore con una girandola di motti fini ed originali, che finirono di guadagnargli il cuore dei contadini: nella cucina si udiva ridere, giacché tutti i ragazzi vi erano tornati dai campi. Solo la principessa ridiventava tratto tratto accigliata. Lelio la punse scherzosamente più volte, e allora ella si atteggiò nella sua bella posa di sognatrice; mangiava poco, abbandonandosi sulla sedia rustica, mentre la contessa sempre così serena le diceva dolcemente: - Ecco che ti annoi! te lo avevo predetto. - No, mia cara, sono anzi contentissima, è una giornata deliziosa. In quel momento Lelio le premé sotto la tavola un piede, ella si volse, ma non lo ritirò. Allora il dialogo si fece più scintillante; il principe, gran mangiatore, ratteneva sempre il reggitore in quella sua intensa preoccupazione di mutare i piatti per parlargli di quaglie; i prati sui colli vicini dovevano esserne pieni, perché le quaglie vi nidificano in gran numero, e l'inverno era quasi stato senza neve. Lelio corteggiava amabilmente la vecchia balia tenendo sempre fra i propri piedi un piedino della principessa, della quale il volto si velava sempre più di una fantasticheria poetica. Fuori il sole incendiava tutta l'aia di una gloria di luce, mentre da lontano gli alberi verdi sussurravano mollemente. Ogni tanto, all'aprirsi dell'uscio, si vedeva la cucina piena di gente, che mangiava in piedi, seduta, in tutte le pose; la bella ragazza scalza era sempre nell'angolo del focolare con un piatto sulle ginocchia. - Lasciate aperto - disse Lelio; - è più bello così! Ci vediamo tutti. - Sì - ripeté il principe; - democrazia almeno in campagna. Ma la principessa sorprendendo una occhiata di Lelio alla ragazza ritirò bruscamente il piedino. Lelio si sentì nel cuore un grido di trionfo; temerariamente allungò daccapo un piede sotto le sue sottane, e lasciandosi cadere il tovagliolo, le sfiorò un'anca. - Vi piacciono le contadine, signor Fornari? - domandò la principessa. - Non osereste la stessa domanda col principe. - Lo so, lo so, a lui piacciono, e a voi? - Perché negarlo? Sì. - Così sudicie - ella soggiunse a bassa voce con una moina di ripugnanza. - Come la frutta: chi lava le ciliegie in campagna? - Ben detto! - esclamò il principe. - Ah! voi dovreste tacere - gli si rivolse minacciandolo col dito la contessa: - vi si conosce anche troppo. Siete tutti così voialtri! - Che cosa trovate dunque voialtri uomini di meglio nelle contadine? - insisté la principessa. - Chi ha detto meglio? - ribatté il principe. Ma la domanda era rivolta a Lelio. - La sincerità. - O la facilità? - Spesso sono la medesima cosa -, e il suo sguardo la dominò dall'alto. Erano alle frutta. Lelio andò in cucina con una bottiglia sturata e un gran piatto di dolci per far bere i ragazzi, il principe lo seguì mettendo mano al portasigari; la confidenza tornava in tutti, ridevano fra un tintinnire di bicchieri e di piatti, perfino il vecchio cane pastore bianco era riuscito ad introdursi. Volevano scacciarlo, ma Lelio protestò gettandogli un gran pezzo di pagnotta, che l'altro scappò subito a mangiare dietro i fienili. Le due signore rimaste sole attendevano il caffè. Il cuoco brillo lo preparava in un pentolino sul focolare, ma avrebbero dovuto berlo nei bicchierini, perché si era scordato egualmente delle chicchere e del caffè, e la balia aveva dovuto andarne a cercare un cartoccino nella propria cassa. Ella sola ne prendeva qualche volta in famiglia. - Signor Fornari - chiamò la contessa - ci lasciate sole, tutti. - Usciamo piuttosto, qui si soffoca: prenderemo il caffè all'ombra del gran susino dietro la casa. Infatti uscirono tutti, anche la balia: furono portate delle sedie, si formò il crocchio. Giù da quella eminenza la valle si stendeva incantevole sino a Bologna restringendosi dietro verso i colli, che la chiudevano come un immenso muraglione giallastro. Potevano essere le due: si parlò ancora, si rise, poi la conversazione venne languendo in quella fatica della prima digestione. A poco a poco anche la cucina si era vuotata, il reggitore dopo aver condotto i cavalli a bere in una pozza non era più uscito dalla stalla, si udivano da lungi cantarellare voci fresche sui gelsi che i ragazzi sfogliavano per i bachi, e una pace dolce, voluttuosa, veniva da tutta quella campagna in fiore, colle grandi erbe ondeggianti e i grani, che si doravano lentamente alle prime intensità del sole. Lelio era caduto in una contemplazione di artista accanto alla principessa, coll'occhio vagante sulla vallata; improvvisamente si sentì addosso il suo sguardo. Si levò, anch'ella fece altrettanto; il principe discorreva tranquillamente di agricoltura colla balia e colla contessa, ma vedendoli alzarsi, tutti domandarono ad una voce: - Dove si va? - Bisogna pur muoversi. - Con questo sole! - esclamò la contessa, cui l'aria aperta metteva una bianchezza più fulgida sulle carni. - Appunto nel sole. Ah! contessa, non vi diventereste più bella perché è impossibile, ma vi mutereste per qualche giorno di bellezza. - Sì, davvero! A Rimini nel tempo dei bagni divento di un bruno orribile. - Confessate però che nessun uomo ve lo ha ancora detto. Anche la contessa, il principe e la balia si erano levati; entrarono tutti nell'aia cacciandosi nella poca ombra fra il calesse e i fienili. Il sole era ardente, la balia propose di salire nelle stanze superiori a vedere i bachi, e infatti ogni tanto si scorgeva dalla finestra il busto rosso della ragazza che li mutava di stuoia. - Ah! sei tu... - esclamò Lelio, che aveva girato il pagliaio, scorgendo il cane accosciato con un osso fra le zampe. Il cane agitò la coda come ad un saluto, ma si scostò appena di qualche passo per riaccovacciarsi subito. - La brutta bestiaccia! - disse la principessa arrivando dall'altra parte. - È un povero.... Ella era ancora così melanconica, ma negli occhi verdi le tremava una luce insolita; il sole dardeggiando sul fieno l'aveva arroventato e faceva intorno ad essi come un'aureola d'incendio. Ella alzò una mano per ripararsi la fronte. - Irma! - egli proruppe piegandosele sul volto col viso pallido e gli occhi ardenti. Erano soli; dietro il fienile un altro terrapieno si curvava quasi in una svolta, nessuno poteva vederli, ma udivano sempre dall'altro lato la vecchia balia vantare i bachi, che dormivano della seconda. - Se vogliamo andare a vederli... - Aspettiamo che abbiano finito di dar loro la foglia, si veggono meglio - rispose la contessa. - Irma! - ripeté Lelio, ma questa volta con voce così strozzata che l'altra ribatté come sfidandolo improvvisamente: - Che cosa vi prende? - Egli si guardò attorno, l'altra ebbe un moto di spavento, ma era tardi: l'aveva già afferrata alla cintura, premendola nella parete del fienile. Ella si sentì raschiare il collo, ardere la schiena, mentre il sole le batteva sugli occhi accecante, trionfale. - No, no... - Gridate dunque! - Ella fece ancora uno sforzo, ma l'altro la soverchiò con una demenza sùbita ed irresistibile. Fu un attimo. Ella dovette abbassargli il capo sulla spalla sotto la furia dei baci che le mangiavano il collo, presa dentro una stretta delirante, nella quale tutte le sue resistenze di donna svanivano, mentre una paura orribile, inutile le cresceva dalle voci parlottanti sempre all'altro lato. - No! - rantolò ancora sentendosi ardere improvvisamente i ginocchi da un raggio di sole, poi credette di svenire nella sensazione delle punte, che le foravano gli abiti sottili e le mani. Non era forse stato più di un minuto. Ella si ricompose per la prima, vinta, offesa, guardando istintivamente il cane, che non si era mosso; Lelio più sbalordito non riusciva a parlare, poi delicatamente, con due dita, le trasse una festuca dai capelli. - Questa la conserverò - disse finalmente. - Oh! - ella esclamò con accento tremulo e guardandosi intorno - se... - Io arrischiavo la vita, voi no - rispose l'altro superbamente. - Bestiaccia! - Perché dunque vi pare così brutto questo povero cane? - ribatté Lelio ad alta voce per farsi udire dall'altra parte. - Non gli guastate l'unica festa dell'anno: vedete bene che anche in questa gli toccano solamente le ossa. Questa disinvoltura finì di vincerla: Lelio calmo non si affrettava a ritornare dall'altro lato. - Andate, andate - ella diceva affannosa. - Perché? - rispose gettando un sorriso trionfante d'ironia attraverso il fienile. - Oh! Lelio! vai.

I padroni, una famiglia di canepini che vivevano lassù strettamente, quantunque guadagnassero abbastanza bene nel loro mestiere, gli fornirono la stanza con un letto, un cassettone, un portacatino in ferro collo specchio: ce n'era d'avanzo. Il cavalletto da pittore aggiungeva tutti gli altri significati. La soffitta vasta, col tetto inclinato e le travi grosse come quelle di un bastimento, sarebbe bastata da sola a più di una famiglia: d'inverno l'acqua vi gelava nella brocca, d'estate il sole vi faceva screpolare il cassettone; i mattoni del pavimento erano rotti, i vetri della finestra scompagnati, ma tutti questi difetti sparivano dinanzi a due grandi vantaggi. Rispondeva coll'uscio sulla scala e si abbelliva nella parete dicontro al letto di un antico ritratto di matrona. La sua cornice ancora dorata riverberava in certe notti di luna, l'abito cremisi della vecchia signora sembrava quasi nuovo in alcune pieghe, mentre l'ombra coagulatasi nel fondo del quadro dava come una tristezza più pensierosa al giallore opaco della sua fronte. Non si capiva bene se fosse in piedi o seduta, ma in ogni modo il suo busto scollacciato dignitosamente sino alla sommità del seno stava eretto e il superbo atteggiamento della testa sormontata da una piuma bianca le induriva alquanto la bonarietà grassa della fisonomia. Egli lo spazzolò accuratamente il primo giorno pensando di copiarlo, poi non lo fece. Un'altra volta, a secco di quattrini da molti giorni e non avendo quindi pranzato, pensò di venderlo, giacché il ritratto dimenticato nella soffitta dai vari rivenditori del palazzo evidentemente non apparteneva più ad alcuno. La notte fredda e ventosa urlava alla finestra. Egli aveva bighellonato tutto il giorno cercando qualche lavoro inutilmente: non si era incontrato in un amico, non aveva fermato una donna. Una tramontana frizzante levatasi nel pomeriggio assiderava le vie, ma sebbene i suoi calzoni avessero le pillacchere e il soprabito balenasse al gomito e al bavaro non poteva cangiarli. Era venuta la sera senza mangiare, il digiuno filava verso le quarant'otto ore. Egli si prese davanti i calzoni in una mano e li strinse. Da tutti gli usci dei caffè uscivano folate calde, su dalle finestre, dalle porte delle osterie irrompevano odori mordaci di cucina, mentre la gente, più frettolosa del solito, urtando lo destava dalle sue distrazioni di affamato. Era tornato a casa per accendere la pipa e cenare così; il tabacco gli fece bene. Quindi ravvoltolato strettamente fra le coperte, lanciando boccate di fumo come un camino, si mise a considerare fantasticamente quel ritratto. Chi era? Che cosa le era accaduto nella sua vita di quattrocento anni fa? Aveva avuto degli amanti? Tutti i suoi discendenti erano morti? La immaginazione eccitata dalla fame cominciò a battere la campagna attraverso il passato radunando le più strane novelle, i più inconciliabili aneddoti intorno a quel ritratto, finché a poco a poco la stanchezza lo vinse e la gioventù trionfando del digiuno lo addormentò. Per qualche minuto la pipa proseguì a fumare innocuamente fra le lenzuola, poi si spense, la candela poco più che a mezzo durò un'altra ora. Sognò. La soffitta rimaneva sempre la stessa, la candela agonizzava fumando: egli era triste, colla testa affondata melanconicamente nel cuscino, quando gli parve d'intendere un fruscio di seta. Qualcuno era entrato. Era una bella fanciulla dal viso pallido, vestita con rara eleganza, che si dirigeva sorridendo verso la vecchia signora: questa discese dal quadro e le gettò amorosamente le braccia al collo. Poi avevano parlato. In quel momento la vecchia signora sembrava ringiovanita; i suoi occhi grigi brillavano di bontà, la piuma bianca della sua fronte tremava come del sorriso della sua bocca, ma egli non poteva più ricordarsi le loro parole; solamente gli rimaneva il ricordo confuso di un riconoscimento, qualche cosa di drammatico fra le due donne che si ritrovavano finalmente dopo parecchi secoli di assenza. La bella fanciulla era anche più commossa; i magnifici capelli biondi le si scuotevano fra un nimbo dorato sopra la fronte di un pallore meraviglioso. Egli nascosto sotto le coperte cercava di farsi più piccolo per non essere veduto, tendendo l'orecchio ad ogni accento con una angoscia di curiosità che gli acuiva orribilmente le sofferenze della fame. Poi la ragazza uscì senza guardarlo ed egli vide daccapo la vecchia signora immobile nel proprio ritratto. Che cosa si erano detto? La fanciulla era una sua discendente? Perché era entrata in quella notte, sola ed elegante, per uscire così presto? E a poco a poco credette di indovinarlo. Quella fanciulla nobile e ricca era sola come lui; una mestizia desolata, quell'abbandono inconsolabile degli orfani come lui, senza amore nel passato e senza alcuno da amare nel presente, l'avevano spinta fuori del proprio palazzo in cerca di una mamma o di una nonna alla quale confidare la tristezza del proprio cuore. Infatti qualche cosa rischiarava adesso la fisonomia della vecchia signora dando al suo sorriso una bontà giuliva di mistero. Perché mai lo guardava così? Avevano esse parlato di lui? La sua immaginazione eccitata dalla febbre del digiuno gli persuase che la vecchia signora aveva raccontato alla fanciulla tutta la miseria di quella sua vita d'artista col cuore vuoto come le tasche, in preda ai più strambi deliri della fame e dell'amore. Anch'egli era solo nella vita, più solo di quelli che hanno tutto perduto, giacché non aveva mai avuto nulla, aspettando sempre indarno qualche cosa o qualcuno. Ma chi era quella fanciulla? Come si chiamava? Dopo aver pensato lungamente concluse che si sarebbero riconosciuti infallibilmente in qualche luogo, poiché ella doveva averlo veduto in quella strana visita e non potrebbe così presto dimenticarlo. Un profumo delicato ed acuto era rimasto nella soffitta: egli avrebbe voluto interrogare la vecchia signora, ma un rispetto pauroso, insolito ed invincibile, glielo impediva. Ella sorrideva cogli occhi grigi. L'aria del mattino dissipò quel sogno vivificandone il ricordo così che per un pezzo non poté distrarsene. La fanciulla misteriosa, l'ideale di tutte le sue visioni, era diventata una nipote dell'antico ritratto: qualche volta nelle stravaganze del suo lungo ozio gli accadeva di uscire appositamente per incontrarla, o più spesso tornando a casa si sorprendeva a domandarsi con ostinazione incredula se non fosse già su ad aspettarlo. Poi di commissione in commissione sperò che gli capiterebbe di farle il ritratto. Egli avendo già la sua fisonomia nell'immaginazione era sicuro di non ingannarsi, ella tornerebbe con lui a trovare la nonna. Ma fra tutte queste aberrazioni e i sogni del lotto, dei cavalli che dovevano rubare la mano al cocchiere e che egli arrestava ad una cantonata salvandole la vita, delle lettere profumate che non arrivavano mai; fra le fantasmagorie di troppi romanzi che si dissolvevano nell'impossibile, il suo buon senso popolano protestava ancora. Quindi scuoteva la testa per scrollarne tutte quelle immagini, ma allora una malinconia cupa come il fondo di quel vecchio ritratto gli si addensava lentamente nel cuore. Dopo molti mesi della più rigida miseria, all'avvicinarsi dell'inverno parve che la stagione per lui migliorasse. Gli furono offerti da verniciare tutti gli usci e le finestre di un appartamento, più i portoni di una stalla e di una rimessa. Il lavoro era poco nobile, ma c'erano trenta lire da guadagnare in una settimana. Accettò allegramente. A mezzo dell'opera aveva già comprato per dieci lire un vecchio paltò, nel quale si affagottava voluttuosamente andando girelloni apposta nei primi freddi notturni lungo una qualche mura della città. La sera del sabato, finito il lavoro, ne aveva intascato il resto del prezzo: quattordici lire. Erano troppe, la testa gli girò. Venne prima a casa: voleva lavarsi, pettinarsi, mutare camicia per entrare a cena in qualche buona locanda, ma la pigrizia lo rattenne da tale grossa follìa. Invece discese in una cantina, ove si cucinava anche da bettola, e vi scialò in una cena inesauribile quasi tre lire lasciando cinque soldi di buona mano all'ostessa. Fuori l'aria era pungente: nullameno egli si sbottonò il pastrano e col cappello sulla nuca, le mani dietro la schiena si mise a camminare sbuffonchiando. I maccheroni e il vino ingollato gl'infiammavano il sangue, gli pareva che la luce del gas facesse un'aureola intorno alla testa di tutte le donne, quando passavano sotto i lampioni. Ma improvvisamente, prima ancora che questo indistinto bisogno femminino gli si acuisse nella coscienza, allo svoltare di un cantone una fanciulla che veniva correndo gli urtò col viso nel petto. Era piccina, con un fazzoletto sulla testa: ella si rattenne, trattenne una risata domandandogli scusa: egli s'imbarazzò, ma l'altra rideva, risero insieme. La fanciulla aveva il visetto aguzzo, sguaiato, e le scarpette, egli ne vide una sola, scollate malgrado il freddo della stagione. - Dove vai? - finì per chiederle famigliarmente. - E tu? - Io sono stato a cena. La ragazza accettò di andare con lui. Nel passare dinanzi ad un caffè egli la guardò bene nella faccia: era pallidissima, coi pomelli rossi dal belletto. Entrarono, egli chiese un punch bianco e le disse di ordinare tutto quello che voleva. Ella esitava. - Dopo cena, quando si è mangiato bene, non c'è che un punch - egli concluse con una specie di vanteria beata. - Un punch dunque! - ripeté la ragazza, che non aveva cenato, con una contrazione fuggevole alla bocca; ma appena bevutolo d'un fiato come una medicina parlò di andare a casa. Il suo viso era talmente sconvolto che l'altro credette le venisse male. - Sarà il punch. - Che cosa vuoi? il nostro stomaco è così leggero... - ella ribatté sordamente. Strada facendo l'aria frigida la ristorò: salirono ridendo le scale. Quando ebbero acceso la candela, la ragazza rimasta nel mezzo fece un oh! di complimento sulla grandezza e sulla decenza della soffitta. Osservò il cavalletto. - Sei pittore? - Ma la tela del cavalletto era ancora bianca. Poi d'improvviso girando gli occhi gridò: - Un ritratto!... Tu che cosa fai? Ti levi il paltò. Lo hai fatto tu il ritratto? Lasciami vedere. Ma siccome era piccola corse ad una sedia, ve la portò sotto, vi salì, e cacciando la candela sotto il naso della signora: - Chi è? - si rivolse ridendo del suo riso monellesco. - Ma se è vecchia! Guarda, guarda la piuma bianca... Stupida! le piume si mettono ai cappellini. Quindi si curvò col naso sulla tela. Egli si era già levata anche la giacca e guardava dietro le sue spalle la testa del ritratto con un ricordo involontario del sogno. - Bella questa! - ella squittì; poi sillabando: - Aloisia comitissa ux... qui è cancellato... Lambertini... Toh! il mio cognome.

Un popolo coltissimo e non ancora in decadimento, abbastanza ricco per avere il gusto e l'abitudine della campagna, con un sentimento schietto della vita e una predisposizione alla malinconia corretta dalla fortezza della tempra. La sua campagna era feracissima, la sua religione quasi ragionevole, la sua filosofia poco teoretica, la sua poesia semplice per indole per tradizione. Tennyson stesso non poteva essere meglio dotato dalla natura ed esercitato nello studio. Ma il ferreo carattere inglese diventato di acciaio al fuoco della grande rivoluzione puritana, si era ancora più indurito nel lungo e fortunato esercizio commerciale: la religione agghiacciatasi dopo il trionfo aveva come coagulato il sentimento del popolo, il classicismo rimasto nelle lettere e nei costumi malgrado l'influenza di Byron e di Shelley irrigidiva ancora il gusto dell'aristocrazia. In Inghilterra più che altrove il concetto della vita e dell'amore erano in antitesi coll'idillio, L'agricoltura vi ha ridotto il podere come una fabbrica cogli stessi operai, le stesse macchine, la stessa speculazione crudele e trionfante: la bigotteria protestante, molto peggiore della cattolica, aiutata dall'indole del popolo e dalla sua storia vi ha costretto l'arte ad un ufficio puramente morale; quindi negate tutte le passioni, contati i generi e i tipi. Da molto tempo il teatro inglese è chiuso, per molti anni non si aprirà se la vita non vi ritorni coll'arte, quella vita, che oggi non si vuole nel romanzo perchè si condanna il romanzo nella vita. Così la ragazza inglese, ammirabile per la sua superbia d'individuo capace di bastare a sé medesimo, è forse meno di ogni altra incline all'idillio, mentre nella dignità del proprio carattere deve giudicare sconveniente ogni più ingenua confessione dell'amore. Nella Grecia non era così. La Simetha di Teocrito non è cortigiana, ma una piccola borghese come la Margherita di Goethe, camuffata così miseramente dal Gounod in angelo. Innamorata e tradita dall'amante ricorre agli scongiuri. La scena è la stessa che ai nostri giorni, solamente il rito n'è cambiato. Invece dei lauri oggi si usa il mazzo delle carte. È notte, il luogo deserto, un cortile o un giardino. La luna sogguarda dalle nubi. Simetha accompagna lo scongiuro cantando, e il suo canto esalato a voce bassa è di un effetto terribile. Si direbbe quasi un canto calmo se il ritornello indirizzato al fuso, che girando sopra sè stesso deve attirare l'assente, non avesse uno stridore di arma omicida. I cani salutano dai boschi la luna, poi il mare si queta, il vento tace, ma non le tace nel petto la passione per colui, che doveva sposarla e invece ha fatto di lei una miserabile disonorata. Questo lamento di una bellezza funebre nei versi greci è tutto di amore. Simetha non piange la verginità perduta, ma l'amante involatosi dietro un altro amore, mentre ella mostrata a dito dalle compagne più fortunate dovrà subire le baie dei giovanotti più depravati del paese. Allora il ricordo delle passate voluttà torna a fermentarle nel sangue e, levando verso la luna, che le confonde il proprio pallore sul volto, ella invoca la pianta famosa dell'Isyomane, che fa delirare cavalli e puledre lungo le valli di Arcadia. - Ah! ah! odioso amore, perchè attaccandoti al mio petto come una mignatta di palude hai bevuto tutto il sangue nero del mio corpo? - esclama cacciando un grido quasi per un morso improvviso. Questo urlo la esaurisce, ha bisogno di restare sola. La stessa presenza della vecchia Testili le diviene insopportabile, quindi la manda ad ungere la porta di Delfi con una atroce mistura di veleni. Qui la scena muta, e comincia la seconda parte dell'idillio. Simetha si sdraia per terra come una bestia, in tormento e singhiozzando, cantando, racconta a sè medesima colla passione di tutti gli infelici il proprio male. Il racconto è un capolavoro di verità e di poesia. Il ritornello della invocazione a Diana, che lo riannoda interrompendolo, invariabile nelle parole muta significato ad ogni strofa coll'accento della voce languida o minacciosa, famelica o supplichevole. Un giorno, non è molto, la sua amica, Anasso, venne ad invitarla per la festa di Diana; vi si recarono coi canestri e videro molte fiere, fra le altre una leonessa, della quale le è rimasto il ricordo. Simetha aveva fatto la più accurata toeletta, perchè la giornata era splendida ed avrebbero incontrati molti giovanotti. Infatti a mezza strada s'imbatterono in due dei più belli, Delfi e Eudamippo, che uscivano dalla palestra rossi, sudanti. Vederlo, amarlo, fu un punto solo, un colpo di vento, uno scoppio di fulmine. Forse l'amore covava da lungo tempo nel suo cuore: l'atmosfera era favorevole, la stagione di primavera, il cielo quasi bianco a forza di essere puro, Simetha innamorata di Delfi oblia la festa e scappa a casa; se fosse rimasta, e Delfi le avesse rivolta la parola, sarebbe scoppiato uno scandalo. Così Shakespeare molti secoli dopo ha fatto innamorare Giulietta e Romeo: la prima qualità dell'amore semplice è la prontezza. Appena in casa Simetha si caccia in letto e si ammala. Per dieci giorni, dieci secoli, non mangiò né bevve: un pensiero le tendeva il cervello, uno spasimo le bruciava il cuore, Delfi. La fisonomia le si emaciò, la pelle le divenne gialla come il topazio; allora pensò agli scongiuri, risorsa di tutte le immaginazioni deboli, ma gli scongiuri furono insufficienti. Ad ogni invocazione le crebbe la smania, quantunque volte pronuncia il nome di Delfi le labbra le scottano ancora. Non rimane più che un rimedio, mandare Testili da Delfi; la passione l'aveva trovato subito, ma la ragione esitava. Testili va e torna con Delfi. Qui è il punto culminante del poemetto. Parla Simetha: con un solo tratto Teocrito si rivela poeta ed osservatore di primo ordine, giacchè rivedendo con gli occhi della fantasia Delfi entrare dall'uscio ella interrompe il racconto per gettare il grido del ritornello come se la stessa emozione le si ripetesse nell'anima, e il medesimo strido della prima volta le rompesse dalle labbra. Poi un freddo le tocca tutte le carni, un sudore abbondante come una rugiada la bagna, e non può parlare nemmeno come i bambini balbettano nel sonno vagendo verso la madre. Quest'ultima nota è di un patetico profondamente femminino, giacchè l'amore sveglia sempre la maternità nella donna. Delfi entra bello e fatuo conquistatore, anche adesso le pare di rivederlo; le siede con famigliarità quasi protettrice sul letto e per farle un complimento comincia a parlarle di sé stesso, dicendo che il suo invito lo ha prevenuto come l'altro giorno egli sorpassò il bel Filino alla corsa. Naturalmente cita il più bello fra i propri amici per provarle che non teme confronti. E Simetha gli dà ragione. Per le Delfi non è l'elegante antipatico di tutte le decadenze, ma il Delfi bello, dal petto largo, dalle membra agili, il vincitore della palestra. Simetha non ha torto. Oggi ancora le donne, che si avvicinano al suo modo di sentire, sono forse anche meno esigenti, non pretendono neppure che Delfi sia bello. Ma come tutte le persone troppo amate, Delfi non ama; in pochi giorni si stanca di Simetha e la trascura; ella trema, piange, finché apprende da un'amica che Delfi è innamorato altrove, s'ignora se di un uomo o di una donna. Simetha stessa non lo ricerca: che le importa il nome? Ella non è gelosa, giacchè la gelosia discende quasi sempre dalla testa mentre ella ama coi sensi: esige Delfi, ma trova forse naturale che altri lo desideri, solamente non vorrebbe perderlo. In questo ultimo caso giura piuttosto di ucciderlo, ma anche allora non si preoccupa della rivale. Simetha ama troppo Delfi per odiare un altro. Giammai vi fu idillio più povero e più bello; oggi dopo tanto mutamento di età noi lo sentiamo ancora, noi che non possiamo più scriverlo e, quello che è peggio, rifarlo. Teocrito ha messo l'elegia, fors'anche la tragedia, in fondo all'idillio giacchè Simetha può bene ammazzare Delfi in un incontro, a certe ore, in date circostanze. Tennyson ha fatto altrettanto, ma invece di Delfi è la regina che morirà: idillio, elegia e tragedia si seguono formando un solo componimento. Là un fatto che rivive in un racconto, qua un soliloquio nel quale si perde un fatto; Teocrito ha scolpito un gruppo, Tennyson fuso una statua; il gruppo è molto nudo, la statua molto panneggiata, il primo prorompe dalla vita, la seconda rientra nel sogno. Siamo alla vigilia della festa di Maggio. La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l'indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L'apertura della scena è vera, il ritornello, che come un'eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili. Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature! Ma ecco che dalla ragazza prorompe la vergine. Ella non ha mai amato e non ama: la hanno detto che ha un cuore selvaggio, ma non ha risposto perché non avevano colpito nel segno. Molti giovani, dei quali non ricorda più il nome l'amarono. Uno solo, Rubino l'ha colpita. Ella lo vide sempre solo, raccolto in sé stesso, schivo della gente: Rubino l'ama senza averglielo mai detto. Questo riserbo è la sua superiorità sugli altri giovani, l'unica ragione per la quale ella talvolta pensa a lui; anche Rubino deve essere vergine, ma ha una fisonomia pura e malinconica, il riflesso dei lunghi sogni sulla fronte. Ma la ragazza ripiglia il sopravvento, e perdendosi già con la fantasia nel tumulto glorioso dell'indomani, con versi esultanti e sapienti, forse troppo sapienti, dipinge alla madre il quadro della festa entro il paesaggio calmo della valle che somiglia alle valli di tutte le descrizioni. Vi è persino il rivolo, che mormora tra i sassi, il sole, che al tramonto indora le cime delle colline. All'ultimo scoppio del ritornello si sente lo scoppio del bacio, che la futura regina dà alla mamma intenta a rimboccarle le coperte. Passò un anno. La regina è ammalata di tisi, la malattia delle vergini e delle sante: quando l'anima sola vive il corpo non ha che morire. Si è levata sentoni sul letto e prega la madre di svegliarla all'alba per vedere l'aurora del nuovo anno. Il soliloquio prosegue lento e stentato: un lumicino rischiara la camera, nell'aria pesa la nausea di un alito viziato, ma l'inferma perdendosi nei ricordi della propria incoronazione vorrebbe vivere fino alla prossima primavera. Perché? È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll'intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d'affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s'ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall'alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell'orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma. Povera mamma! Come dev'essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell'abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza! Il desiderio dell'ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d'inferma, o è stato un difetto nel poeta. L'agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell'azzurro, la chiama. - Addio sorella, addio mamma! La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell'anima, e in quel sogno s'addormenta. Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell'angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l'altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione. L'idillio di Tennyson è dunque un'elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell'accompagnamento, nella voce o nell'accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson? Adesso l'Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d'amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità. Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell'elegia e aspirammo alla sana giocondità dell'idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch'essa di ritornare all'antico per interrogare la natura con nuove intenzioni. La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l'Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell'atrio del proprio monumento un'altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro "all'ingresso di ogni opera d'arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano".

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 13 occorrenze

Sono stati abbastanza puniti. - Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto. - Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all'ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta. - Non andremo a Lhassa? - chiese Fedoro. - No, ho fretta di attraversare la grande catena dell'Himalaya e di calare nell'India. - Attraversando il Nepal? - È probabile - rispose il capitano. - E dove finiremo? - Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze. - Non andremo a Calcutta? - insistette Fedoro. - Non desidero che mi si veda colà. Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo: - Guardate il Nigkorta: è stupendo. L'enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l'est, capofila dell'immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin- thang-la. Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso. Lo "Sparviero", costretto a mantenersi a un'altezza di tremila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s'incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all'ora. Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d'una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto. L'indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza. Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca catena dell'Himalaya. Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall'ovest all'est con larghi serpeggiamenti. Era il Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell'Asia, perché le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengono ritenute sacre. Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell'Himalaya. Si apre un varco attraverso l'infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell'India per la valle dell'Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri di percorso. È più lungo del Gange e ha una massa d'acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl'indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo "Sparviero" lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi. - Noi spargiamo il terrore dappertutto - disse Rokoff. - Vedremo se anche gl'indiani fuggiranno. - Se ci vedranno - disse il capitano. - Viaggeremo di notte? - Non amo che gl'inglesi mi scorgano. - Non volete aver rapporti coi popoli civili? - chiese Rokoff, sorpreso. - Per ora no. - Eppure avete attraversato l'America. - E chi mi ha veduto? - chiese il capitano. - Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California? - No, mai, signore. - Eppure io sono passato su tutte quelle città. - E perché non volete che i popoli civili ammirino il vostro "Sparviero"? - Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando. Lo "Sparviero" correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s'alzavano in forma d'immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri. La gigantesca catena dell'Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall'India. Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti. Verso sera lo "Sparviero" si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d'inverno e a riaccendere la stufa. - Sarà domani che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina. - A mezzodì passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante. - E non andremo a vedere l'Everest? - Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile. - Sicché non andremo verso l'ovest? - No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. Erano appena le quattro del mattino, quando lo "Sparviero" riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli. La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri. La catena dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più grandi fiumi della penisola indostana. Ancora cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne. Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione. Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente. Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell'America meridionale. Tutti gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi. - Che cosa ne dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo "Sparviero", che aveva raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s'apriva da un fianco orientale del Dorkia. - Mettono spavento - disse Rokoff. - Un panorama meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra. - Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti. - E animali se ne trovano qui? - chiese Rokoff. - Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero. - Spero che non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse Rokoff. - Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. - Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo. - Per sempre? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - Chi può saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora ... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila, su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi. Lo "Sparviero" era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan. L'India s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

. - E noi siamo abbastanza vicini per fucilarli - disse il capitano che li aveva raggiunti, portando tre splendidi Remington. - Volete provare! Il bersaglio non è che a mille metri ed è molto visibile. A voi, signor Rokoff; i cosacchi sono, in generale, dei buoni tiratori. - Cercherò di non smentire la loro fama, capitano. Mirerò il capofila, quello che monta quel cavalluccio morello. L'uomo o l'animale? - Il cavallo prima; d'altronde il mongolo a piedi è come il gaucho della pampa argentina. Non conta più, essendo un pessimo camminatore. - Vediamo - disse Rokoff. S'appoggiò alla balaustrata di poppa, si piantò bene sulle gambe, poi abbassò lentamente il fucile mirando con grande attenzione. L'arma rimase un momento ferma, tesa quasi orizzontalmente, poi uno sparo risuonò lungamente fra le collinette sabbiose del deserto. Il cavallo morello s'impennò violentemente rizzandosi sulle gambe posteriori e scuotendo la testa all'impazzata, poi cadde di quarto, sbalzando a terra il cavaliere prima che questi avesse avuto il tempo di sbarazzare i piedi dalle staffe. Altri tre cavalli che venivano dietro a corsa sfrenata, inciamparono nel caduto, stramazzando l'uno addosso all'altro e scavalcando gli uomini che li montavano. - Ben preso, signor Rokoff - disse il capitano. - Scommetterei un dollaro contro cento che la vostra palla ha colpito quell'animale in fronte. Vi ammiro. - Tiro come un cosacco delle steppe - rispose Rokoff, ridendo. I mongoli, sorpresi e anche spaventati da quel colpo maestro si erano arrestati intorno ai caduti urlando. La loro sosta fu brevissima. Appena videro i compagni rialzarsi, ripartirono al galoppo, sparando e vociando. - Ah! Non ne hanno abbastanza! - esclamò il capitano. - Vogliono farsi smontare? Sia! Stava per puntare il fucile, quando in aria si udì uno scricchiolio, poi il fuso si spostò, piegandosi un po' su un fianco. - Maledizione! - gridò il capitano. - L'ala ha ceduto! Macchinista, le eliche prima che la discesa cominci! Il fuso non si era ancora abbassato, quantunque il movimento delle ali fosse stato subito arrestato. Soffiando un fresco venticello i piani inclinati lo avevano sorretta in modo da far conservare al fuso la sua altezza di quattrocento metri. - Ci raggiungeranno, è vero capitano? - chiese Rokoff. - I mongoli? - Sì. - Guadagnano già. - Ed il vento è debole - aggiunse Fedoro. - Signori, si tratta di non risparmiare le cartucce, almeno fino a quando avremo raggiunto o superate quelle colline. - Rokoff - disse Fedoro. - A me il cavaliere di destra; a te quello di sinistra. - Ed a me quello che li segue - aggiunse il capitano. - Vediamo se possiamo arrestarli. Puntarono le armi appoggiandole sulla balaustrata, poi fecero fuoco a pochi secondi d'intervallo. Questa volta non erano stati tutti cavalli a cadere. Due avevano continuata la loro corsa senza i loro padroni, i quali giacevano sulla neve senza moto. Il terzo invece era stramazzato come fosse stato fulminato, facendo fare al suo signore una superba volata in avanti. I mongoli, vedendo quel massacro, per la seconda volta si erano arrestati, urlando ferocemente e scaricando i loro moschettoni, le cui palle non potevano ancora giungere fino allo "Sparviero". La paura cominciava a prenderli. Passarono parecchi minuti prima che si decidessero a continuare l'inseguimento. Conoscendo ormai l'immensa portata delle armi degli aeronauti, non si avanzavano più colla foga primitiva e rallentavano sovente lo slancio dei loro cavalli. - La nostra scarica ha prodotto un buon effetto - disse il capitano. - È stata una vera doccia fredda che ha calmato i loro entusiasmi bellicosi - rispose Rokoff. - Volete continuare capitano? - È inutile sacrificare altre vite umane. Sono dei poveri selvaggi che meritano compassione. Finché si tengono lontani e non ci fucilano, lasciamoli galoppare. D'altronde, fra una mezz'ora noi li perderemo di vista; le colline sono poco lontane. - Non potranno superarle? - chiese Fedoro. - Non credo. Le ho osservate poco fa col cannocchiale e mi sono accertato che sono assolutamente impraticabili per cavalli. Sono dei veri ammassi di rocce colossali, quasi tagliate a picco, senza passaggi - rispose il capitano. - Prima che i mongoli possano girarle, trascorreranno molte ore e noi guadagneremo tanta via da non temere più di venire raggiunti. - Nondimeno teniamoci pronti a fare una nuova scarica - disse Rokoff, il quale tormentava il grilletto del fucile. - Ce la prenderemo ancora coi cavalli. I mongoli invece si tenevano ad una distanza considerevole, pur continuando la caccia. Che cosa attendevano? Che lo "Sparviero" si decidesse a scendere o che, esausto capitombolasse? Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Il lebbroso si era fermato guardando la fossa, come per assicurarsi che fosse abbastanza profonda. Si volse quindi verso il corteo, li salutò sorridendo, poi estrasse dalla ho-pao (borsa usata da tutti i cinesi) che portava alla cintura una piccola fiala e la vuotò d'un colpo, senza che le sue mani provassero il menomo tremito. - Deve essere oppio - disse Fedoro. Ciò fatto il lebbroso, sempre calmo e tranquillo si sdraiò nella ricca cassa incrociando le mani sul petto e fece un segno col capo. I due portatori coprirono sollecitamente la bara, inchiodarono frettolosamente il coperchio e la calarono nella fossa, facendo precipitare la terra ammucchiata intorno. - Se ne va contento - disse Rokoff, stupito. - Questi cinesi non temono dunque la morte? - No - rispose Fedoro. - Figurati che si preparano la bara molti anni prima che la morte li colpisca e che se la tengono sempre sotto il letto. - E noi abbiamo lasciato fare! - Non era cosa che ci riguardasse - disse il capitano. - D'altronde non intervenendo abbiamo abbreviato le torture che quel disgraziato soffriva e forse da parecchi anni. Scendiamo e tagliamo il passo a quelle persone. Se il loro villaggio non è lontano, andremo a farci vendere del tè. Girarono la rupe e avendo trovato un sentieruzzo, si calarono nel burroncello, giungendovi quando gli uomini e donne stavano per lasciare la tomba del lebbroso. Vedendo comparire improvvisamente quei tre uomini armati di fucili, i cinesi si radunarono prontamente coprendo le loro donne le quali, credendo forse d'aver a che fare con dei briganti, si erano messe a urlare disperatamente. - Pace - disse il capitano in buon cinese. - Non temete nulla dall'uomo bianco, che è amico dei cinesi. Un vecchio, che aveva una coda lunghissima e due baffi che gli giungevano fino a mezzo petto, si fece innanzi, muovendo le mani in forma di ventaglio e ripetendo: isin! isin! parola che equivale ad un deferente saluto. - Chi è l'uomo che avete sepolto? - chiese il capitano. - Un lebbroso, signore, che era stanco di soffrire - rispose il vecchio, gettando uno sguardo spaventato sui tre stranieri. - Non l'avete costretto? - No, signore, lo giuro sui miei antenati. - Dov'è il vostro villaggio? - Laggiù, in fondo a quella valletta. - Siete in molti? Tutta la popolazione è qui. - Avete del tè da venderci? - Sì, signore. Me ne porterete quanto più potrete; vi avverto però che se vi farete attendere troppo o se fuggirete, manderò ad inseguirvi un drago enorme, il quale vi divorerà tutti. - Conosciamo abbastanza la potenza degli uomini bianchi per non esporci al rischio di provarla - rispose il vecchio, che continuava a tremare. - Siccome non mi fido di te, lascerai qui qualche ostaggio fino al tuo ritorno. - Ti lascerò la figlia del lebbroso. - Purché non abbia delle pustole. - Giudicherai tu stesso, signore, se è più sana di me. Vieni, Tsi! Una fanciulla di tredici o quattrodici anni, con un visetto grazioso che la faceva rassomigliare ad una europea, salvo la tinta della pelle che era d'un giallo sbiadito, e un'abbondante capigliatura raccolta in trecce, si fece innanzi, barcollando sulle due scarpettine quasi microscopiche. Come suo padre, il povero lebbroso, indossava un casacca di seta e portava dei larghi nin-ku, specie di calzoni che scendono fino alla noce dei piedi. Sulla testa aveva una di quelle piccole sciarpe chiamate nin-hiai, usate dalle piccole persone benestanti. Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio: - Ti obbedisco. Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s'allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito. - Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore - disse Fedoro, che la osservava attentamente. - Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi. - Che suo padre fosse il capo del villaggio? - chiese il capitano. - Certo. - Che piedini graziosi! - disse Rokoff. - Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto. - Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare. - Quindi qui la bellezza non conta? - Viene dopo i piedi. - Singolare paese! - In origine però quest'usanza deve aver avuto qualche altro motivo - disse il capitano. - Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo. - Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi - disse Rokoff. - Questo è certo - rispose Fedoro. - E come fanno per arrestarne lo sviluppo? - chiese il capitano. - Perché l'operazione riesca perfettamente, secondo l'ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L'operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture. - Che tormento - disse Rokoff. - Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite. - Vorrei vedere quei piedi. - Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti. - Ah! Che bel paese è la Cina! - esclamò Rokoff, ridendo. - Il paese delle sorprese strabilianti! - Ecco gli uomini che tornano - disse il capitano. - La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto. Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l'altipiano con Rokoff e Fedoro. - Partiamo - disse. Quando giunsero allo "Sparviero" la macchina già funzionava. - Siamo pronti? - chiese il comandante. - Sì, signore - rispose il macchinista. Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s'innalzò prendendo subito lo slancio verso l'opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi. - All'ovest - disse il capitano al macchinista. - Andremo a cacciare sulle rive dell'Hoang-ho.

Rokoff e Fedoro, che cominciavano a perdere la pazienza e ad averne abbastanza di quella prigionia, si trovarono sotto uno spazioso atrio, dove si vedevano gruppi di agenti, di soldati e di guardiani che chiacchieravano fumando o masticando semi di zucca. - È questa la prigione? - chiese Rokoff. - Lo suppongo - rispose Fedoro. - Che ci chiudano ora in qualche segreta? - O in gabbia invece? - Vivaddio! Io in una gabbia? Non sono già una gallina! - La vedremo! - Non lasciarti trasportare dall'ira, Rokoff - disse Fedoro. - Forse non oseranno trattarci come delinquenti comuni, per paura dell'Ambasciata. Due uomini seminudi, dai volti arcigni, colle code arrotolate intorno al capo, armati di certi coltellacci che pendevano snudati dalle loro cinture, si fecero innanzi, afferrando brutalmente i due europei. Rokoff, sentendosi posare una mano sulla spalla, fece un salto indietro, gridando con voce minacciosa: - Non toccatemi o vi spacco il cranio! Anche Fedoro aveva respinto violentemente il suo carceriere o carnefice che fosse, prendendo una posa da pugilatore. - Noi siamo europei - gridò. - Giù le mani! ... I due carcerieri si guardarono l'un l'altro, forse sorpresi di quell'inaspettata resistenza, poi piombarono sui due prigionieri, cercando di abbatterli. Avevano però calcolato male le loro forze. Rokoff, con una mossa altrettanto fulminea, si era gettato innanzi a Fedoro, poi con due ceffoni formidabili che risuonarono come due colpi di fucile, fece piroettare tre o quattro volte i due cinesi, finché caddero l'un sull'altro, sradicati da due pedate magistrali. Urla furiose echeggiarono sotto l'atrio. Soldati, poliziotti e carcerieri si erano slanciati come un solo uomo verso i due europei, sguainando le scimitarre ed impugnando picche, coltellacci e rivoltelle. - Siamo perduti! - esclamò Fedoro. - Non ancora - rispose Rokoff, furibondo. - Possiamo accopparne degli altri prima di cadere. Si abbassò rapidamente, raccolse uno dei caduti e lo alzò sopra la testa preparandosi a scaraventarlo come un proiettile fra l'orda urlante. A quella nuova prova di vigore così straordinario, i cinesi si erano arrestati. - Vi accoppo tutti, canaglie! - urlò Rokoff. - Indietro! A quel fracasso però accorreva la guardia delle carceri, comandata da un ufficiale. Erano dodici soldati, armati di fucili a retrocarica, e a quanto pareva, non troppo facili a spaventarsi. Ad un comando dell'ufficiale inastarono risolutamente le baionette e le puntarono verso Rokoff. - Indietro! - tuonò il colosso. L'ufficiale invece armò la rivoltella e lo prese di mira dicendogli - Non opponete resistenza o comando il fuoco. Tale è l'ordine. - Rokoff, bada - disse Fedoro. - Sono soldati e obbediranno. - Meglio farci fucilare che lasciarci imprigionare. - No, amico, noi riacquisteremo presto la libertà perché la nostra innocenza verrà riconosciuta. Siamo prudenti per ora. Rokoff, quantunque si sentisse prendere da una voglia pazza di scaraventare il carceriere addosso ai soldati, comprese finalmente il pericolo e depose il povero diavolo, che pareva più morto che vivo. Nel medesimo istante compariva il magistrato che li aveva fatti arrestare. - - Una ribellione? - disse, aggrottando la fronte. - Volete aggravare la vostra posizione o farvi uccidere. - Dite ai vostri uomini che siano meno brutali - rispose Fedoro. - Noi non siamo stati ancora condannati. - Darò gli ordini opportuni perché vi rispettino, ma non opponete alcuna resistenza. Seguitemi. - Obbediamo, Rokoff. - Se tu mi avessi lasciato fare, avrei sgominato questi poltroni - rispose il cosacco. - Avevo cominciato così bene! - E avremmo finito male. - Ne dubito. - Seguiamo il magistrato. Scortati dai soldati, i quali non avevano ancora levato le baionette dai fucili, furono introdotti in un'ampia stanza dove si vedevano sospese quattro gabbie contenenti ciascuna tre teste umane che parevano appena decapitate, colando ancora il sangue dal collo. Erano orribili a vedersi. Avevano i lineamenti alterati da un'angosciosa espressione di dolore, gli occhi smorti e sconvolti, la bocca aperta ed imbrattata da una schiuma sanguigna. Sotto ogni gabbia era appeso un cartello su cui stava scritto: La giustizia ha punito il furto. - Mille demoni! - esclamò Rokoff, stringendo le pugna. - È per spaventarci che ci hanno condotto qui? - Sono gabbie che poi verrano esposte su qualche piazza, onde servano di esempio ai ladri - disse Fedoro. - Guarda altrove. - Sì, perché mi sento il sangue ribollire. Attraversato lo stanzone, passarono in un altro, le cui pareti erano coperte da strumenti di tortura. Vi erano numerose kangue, specie di tavole che servono ad imprigionare il collo del condannato e talvolta anche le mani, pesanti venti, trenta e persino cinquanta chilogrammi; canne di ogni lunghezza e d'ogni grossezza, destinate alla bastonatura; arpioni di ferro per infilzarvi i condannati a morte; pettini d'acciaio per straziarli, poi tavole con corde destinate a distendere fino alla rottura dei tendini, le mani ed i piedi dei pazienti. - Canaglie! - brontolò Rokoff. - Altro che l'Inquisizione di Spagna! Questi cinesi sono più feroci degli antropofagi. Stavano per varcare la soglia, quando giunse ai loro orecchi un clamore che fece gelare il sangue ad entrambi. Era un insieme di urla acute e strazianti, di gemiti, di rantoli, di singhiozzi a malapena soffocati e di ruggiti che parevano mandati da belve feroci. - Qui si ammazza! - gridò Rokoff, guardando il magistrato ed i soldati, minacciosamente. - Si tortura - rispose Fedoro. - E noi lasceremo fare? - Non spetta a noi intervenire. - Io non posso tollerare ... - Devi resistere, Rokoff. - Che non veda nulla, altrimenti mi scaglio contro questi bricconi e ne ammazzo quanti più ne posso. Il magistrato, che aveva forse indovinato le idee bellicose del cosacco e che non desiderava vederlo ancora arrabbiato per paura di provare la sua forza, piegò a destra, inoltrandosi in un corridoio e si arrestò dinanzi ad una porta ferrata. Un carceriere stava dinanzi, tenendo in mano una chiave enorme. Ad un cenno del magistrato aprì ed i due europei si sentirono bruscamente spingere innanzi. Rokoff stava per rivoltarsi, ma la porta fu subito chiusa. Si trovavano in una cella lunga tre metri e larga appena due, rischiarata da un pertugio difeso da grosse sbarre di ferro e che pareva prospettasse su un cortile, essendo la luce fioca. L'unico mobile era un saccone, forse ripieno di foglie secche, che doveva servire da letto. - Bell'alloggio! - esclamò Rokoff. - Nemmeno una coperta per difenderci dal freddo. - E nemmeno uno sgabello - disse Fedoro. - Molto economi questi cinesi. A un tratto si guardarono l'un l'altro con ansietà. Avevano udito dei gemiti sordi e strazianti, che parevano provenire dal cortile. - Si tortura anche presso di noi? - chiese Rokoff. S'avvicinò al pertugio guardando al di fuori, e subito retrocesse, pallido come un cadavere. - Guarda, Fedoro - disse con voce soffocata. - Che cosa fanno subire a quei miseri? ... L'orrore mi agghiaccia il sangue.

- No, Rokoff: ecco la ricetta che io ho studiato sul "Cuciniere cinese": "Prendi quanti nidi di rondini salangane potrai, perché di questa leccornia non ne offrirai mai abbastanza ai tuoi amici. "Dopo aver tolte via le penne e le altre materie inutili, farai cuocere i nidi nell'acqua fino a che formino una massa gelatinosa. "Versa il tutto su uova sode di piccione, aggiungi alcune fette di salsicciotto, le quali devono galleggiare sulla zuppa come piccole barchette sul mare. "Gl'invitati saranno entusiasti del piatto squisito e faranno grandi elogi al padrone di casa e al suo cuoco". - È passata la zuppa? - chiese il cosacco, senza voltarsi. - L'hanno divorata. - Buona digestione! - Hai perduto una rara occasione per gustarla. - Vi rinuncio volentieri, Fedoro. Hanno accoppato un altro spirito malvagio. Interessante questo dramma! Il palcoscenico è pieno di morti. Che ammazzino poi anche noi? Da questi cinesi ci si può aspettare qualunque sorpresa. Fortunatamente ho la mia rivoltella. - Ecco il tè. - Finalmente! Mi rimetterò a posto gl'intestini già perfino troppo sconvolti. Alcuni valletti erano entrati recando dei vassoi d'argento pieni di chicchere minuscole color del cielo dopo il crepuscolo, delle teiere colme d'acqua calda e dei vasi di porcellana colmi di tè shang-kiang, ossia profumato, essendovi mescolate alle foglioline delle preziose piante, dei fiori d'arancio, dei mo-lè che sono specie di gelsomini, foglie di rosa e di gardenia torrefatte. I cinesi non usano mescolarvi latte e per lo più lo bevono senza zucchero. Di rado ci mettono un pizzico di quello rosso. Quell'ultima portata segnava la chiusura del banchetto, la quale coincideva anche colla fine della tragedia. I convitati, dopo reiterati sforzi, si erano levati coi volti infiammati, gli occhi schizzanti dalle orbite, i ventri gonfi fino al punto di crepare per l'eccessivo mangiare. Qualcuno dovette essere portato dai servi, di peso fino alla sua lettiga. Quando Sing vide uscire l'ultimo convitato, si volse verso i due russi, dicendo loro: - Deve essere stato un vero tormento per voi, ma voi mi vorrete perdonare se io ho abusato della vostra pazienza. Gli europei non si trovano bene ai nostri pranzi, lo so. - Ho assistito ad altri, - disse Fedoro - quindi potevo prendere parte anche al vostro. Sing-Sing rimase un momento silenzioso, girando gli sguardi intorno alla sala deserta e silenziosa, poi riprese: - E chissà che domani questo luogo non risuoni invece di pianti e di grida. Strano contrasto, dopo tanta allegria! ... - Sing-Sing, - disse Fedoro - perché dite ciò? Spiegatevi una buona volta; quale pericolo vi minaccia? - Siete armati? - chiese il cinese. - Voi sapete, che un europeo non osa percorrere di sera le vie di Pechino senza avere almeno una rivoltella. - Venite nella mia stanza; là almeno saremo sicuri di non venire ascoltati da altri. Badate però: potreste esporvi anche voi al medesimo pericolo. Fedoro guardò Rokoff. - Noi aver paura? - disse questi. - Ah! No, non sappiamo ancora che cosa sia. Andiamo, Fedoro; questa inaspettata avventura m'interessa assai.

Il sole, abbastanza tiepido, faceva scintillare vivamente le acque del lago, le quali assumevano le più svariate tinte con striature d'argento e di porpora. Il russo ed il cosacco, si erano subito cacciati sotto i boschi, levando numerose bande di pernici da neve e di galli selvatici, che si erano ben guardati dal salutarli a colpi di fucile per tema di spaventare la grossa selvaggina che poteva celarsi in mezzo ai folti cespugli di nocciuoli e di betulle nane. Procedevano adagio adagio, girando intorno ai colossali tronchi degli abeti e dei pini con mille precauzioni e fermandosi sovente per ascoltare. - Credi che noi troveremo qualche orso? - chiese ad un tratto Rokoff dopo che avevano percorso quasi un miglio, senza aver incontrata nemmeno una lepre. - Mi pare invece che queste macchie siano assolutamente deserte. - Le trote le troveremo questa sera; in quanto al prosciutto ho i miei dubbi. Che i plantigradi non siano rari in queste regioni, è vero; ma trovarli subito, sotto la canna del fucile non sarà cosa facile - rispose Fedoro. - Mi spiacerebbe non poter accontentare quello strano comandante. Sai che deve essere un bell'originale? - Comincio a essere convinto. Non so; quell'uomo deve essere molto eccentrico. - Allora sarà un inglese. - Non credo non avendone la pronuncia. - E perché vuol conservare l'incognito? - Non so che cosa rispondere, Rokoff. - Che sia pazzo? - Oh! - Ha dei modi così bizzarri! ... - Non dico il contrario. - L'altra volta, per esempio, l'aveva col tè e come hai veduto, per procurarselo, per poco non comprometteva la sicurezza di tutti. Questa volta invece l'ha con le trote. - È vero, Rokoff. - Un uomo assai misterioso, Fedoro. - Comunque sia noi non possiamo lagnarci di lui. - Oh no, tutt'altro. - Lasciamolo quindi fare; forse un giorno riusciremo a conoscerlo meglio ed a comprendere le sue eccentricità. - E fors'anche a sapere da dove è venuto ed a quale razza appartiene. - Lui e anche il macchinista. - To'! Chiacchieriamo come pappagalli e dimentichiamo gli orsi. - Ne hai veduto qualcuno? - Non scorgo che pini e abeti, betulle e pini. Se piegassimo verso il lago? In mancanza di orsi fucileremo oche e anitre. - Saremo più fortunati e almeno non torneremo al campo colle mani vuote - rispose Fedoro. Lasciarono le macchie e si diressero verso il lago, il quale doveva essere vicinissimo, udendosi le onde sollevate dal vento siberiano, infrangersi contro le sponde. Attraversate parecchie macchie, giunsero sulle rive d'una profonda insenatura sulle cui acque si vedevano volteggiare dei giganteschi volatili dalle piume candidissime e che mandavano dei lunghi fischi. - Dei pellicani? - chiese Rokoff, preparandosi a far fuoco. - No, dei superbi cigni - rispose Fedoro. - Valgono bene uno zampone d'orso. - Sì, Rokoff. - Lasciamoli calare in acqua; mi pare che ne abbiano il desiderio. - Non resistono molto al volo essendo troppo pesanti. Teniamoci però nascosti dietro questi cespugli perché sono molto diffidenti. Ecco che calano. I cigni si lasciavano infatti cadere, tenendo le ali aperte le quadi servivano da paracadute. Ben presto quindici o venti si trovarono in acqua. Rokoff aveva già puntato il Remington, quando si sentì prendere per le spalle. - Fermati! Non sparare! - aveva detto Fedoro precipitosamente. - Perché? - chiese il cosacco, sorpreso. - Vi è qualcuno che ci spia. - Chi? - Non lo so, ma ho veduto un'ombra nascondersi in mezzo a quella macchia di betulle. - Un mongolo? - Non ho potuto osservarlo bene. - O l'orso che cercavamo? - Non muoverti: aspettiamo. Il russo ed il cosacco, un po' inquieti, temendo d'aver da fare con qualche banda di mongoli, quantunque fossero certi di aver lasciato ben indietro quelli che li avevano inseguiti, si nascosero in mezzo ai cespugli, senza più occuparsi dei cigni. Qualcuno, animale od uomo, si teneva celato fra le betulle. Si vedevano i rami agitarsi e si udivano anche le foglie secche scrosciare. - Che sia qualche altro leopardo delle nevi? - chiese Rokoff, che non poteva rimanere fermo. - Preferirei un orso - rispose Fedoro. - Almeno si mangia. - Prima che se ne vada andiamo a scovarlo. - Volevo proportelo. - Vieni Fedoro. Strisciarono fuori dai cespugli e si diressero verso le betulle, le quali continuavano ad agitarsi. Pareva che l'uomo o l'animale che fosse, cercasse d'aprirsi un passaggio. - Tu a destra e io a sinistra - sussurrò Rokoff. Stavano per separarsi, quando le betulle s'aprirono ed un animale comparve, arrestandosi subito e fiutando l'aria. Doveva essere un orso, quantunque fosse molto piccolo per crederlo tale, essendo non più lungo d'un metro. Aveva il muso assai corto e la testa piuttosto larga, le zampe basse, coi piedi massicci e rotondi ed il pelame foltissimo, biancastro al dorso e nero sulla testa e sul collo. Essendo i due cacciatori nascosti dietro una piega del suolo, non poteva averli ancora scorti, però il vento che soffiava dal lago doveva aver portato fino a lui le loro emanazioni. Ed infatti non pareva molto tranquillo. Si alzava di frequente sulle zampe posteriori per spingere lo sguardo più lontano, raggrinzava il naso, aspirava l'aria, poi si lasciava ricadere a terra per poi tornare poco dopo ad alzarsi. Di quando in quando mandava una specie di grugnito che somigliava un po' al nitrito d'un mulo. - Che cos'è? - chiese Rokoff a Fedoro, il quale non aveva veduto che i giganteschi orsi neri degli Urali e quelli bruni delle steppe. - Un melaneco - rispose il russo. - Ne so meno di prima. - Uno dei più piccoli orsi. - Vado a prenderlo pel collo e lo porto vivo al capitano. - Sei pazzo Rokoff? - Non è più grosso d'un montone. - Non vorrei provare le sue unghie. - È dunque pericoloso! - Assalito si difende al pari di tutti gli altri orsi. - Sono buoni i suoi zamponi? - Come quelli dei maiali. - Allora prendi, mio caro. Rokoff aveva afferrato il fucile, slanciandosi risolutamente contro il melanoteco. Questi, scorgendo il cacciatore, si era alzato bruscamente sulle zampe deretane, spingendo innanzi quelle anteriori e sfoderando gli artigli. A dieci passi, Rokoff aveva fatto fuoco. Il melanoleco, quantunque colpito in direzione del cuore, si precipitò furiosamente, cercando di stringere l'avversario fra le poderose zampe e di soffocarlo. Fedoro, che si teneva a pochi passi dall'amico, fu pronto a puntare il fucile ed a scaricarlo. La palla fracassò la mascella destra dell'animale e penetrò nel cervello. - Morto! - gridò Rokoff, vedendolo cadere. - Fulminato - rispose Fedoro, lieto del suo colpo. Il povero melaneco aveva avuto appena il tempo di voltarsi su un fianco, rimanendo subito immobile. - Ecco gli zamponi pel capitano - disse Rokoff. - Non credevo che avessimo tanta fortuna. - Quell'uomo deve essere uno stregone - disse Fedoro. - Ci aveva promesso un orso e ce lo ha fatto subito trovare. - Che sia venuto ancora qui a cacciare questi animali? Che cosa ne dici. Fedoro? - Non so che cosa risponderti, amico Rokoff. Posso solamente dirti che quell'uomo diventa ogni giorno più straordinario. Prima pareva che non fosse mai venuto in Cina, ora conosce il deserto a menadito, sa che vi sono delle trote squisite nei laghi del Caracorum e degli orsi sulle sue rive, come se avesse soggiornato a lungo in questi paraggi. Domani ci dirà forse che in mezzo a queste macchie ha confezionato dei pasticci di carne di cigno o che ha fumato la pipa coi Chalkas. Io non capisco più nulla. - Ed io capisco meno di te, Fedoro - rispose Rokoff. - Scommetterei che quando attraverseremo il Tibet, troverà degli amici fra i Lama. - Che abbia già fatto il giro del mondo con il suo "Sparviero"? - Non mi stupirei, Rokoff. - Lasciamo il capitano e occupiamoci del nostro orso. - Portiamolo all'accampamento, intero. Non pesa molto, forse cento chilogrammi. - Costruiamo una barella? - Sì, Rokoff; faticheremo meno. Tagliarono alcuni rami di pino e di betulla, intrecciandoli alla meglio e legandoli colle loro fasce di lana, caricarono il melaneco e si diressero verso l'accampamento costeggiando il lago, onde non smarrirsi fra le macchie che diventavano sempre più fitte. Quando vi giunsero, non trovarono che il macchinista, il quale lavorava febbrilmente a riparare la disgraziata ala. - Ed il capitano? - chiesero. - Eccolo che ritorna - rispose il giovane. Infatti il comandante saliva in quel momento la riva, portando un canestro che pareva molto pesante e un ammasso di reti. - Vedete che non mi ero ingannato - disse, quando vide l'orso che Rokoff stava già scuoiando. - Anch'io però ho mantenuto la promessa e porto delle superbe trote che domani assaggeremo. - E perché non questa sera? - chiese Fedoro. - Perché domani voglio offrirvi un pranzo veramente squisito. - - Si festeggia qualche lieto avvenimento? - Può darsi - rispose il capitano col suo solito sorriso enigmatico. - Oh, non vi lamenterete di questo ritardo; ho ucciso un magnifico cigno che sta già cucinando al forno, è vero macchinista? - Deve essere già pronto, signore. - Allora prepara la tavola, mentre io lo dissotterro. - L'avete sepolto? - chiese Rokoff. - Io cucino la grossa selvaggina alla moda africana - rispose il capitano. - Non avete mai assaggiato un piede d'elefante od un pezzo di proboscide cucinato dai negri? - Mai, capitano. - Ed io sì. - Voi dunque siete stato in Africa? - chiese Fedoro. - Sì. - Col vostro "Sparviero"? Il capitano invece di rispondere a quella domanda girò intorno al fuso, si armò d'una corta zappa e mostrò al cosacco ed al russo un fuoco che ardeva sopra un piccolo rialzo di terra. - Il mio forno - disse. - Il cigno deve essere arrostito a perfezione. Sbarazzò il suolo dai tizzoni e dalle braci, poi scavò dolcemente la terra e mise allo scoperto una massa avvolta fra larghe foglie avvizzite, che mandava un profumo così appetitoso da far venire l'acquolina in bocca al cosacco. Tolse le foglie e mise allo scoperto un grosso cigno, cucinato intero e che depose su un gigantesco piatto d'argento, portato dal macchinista. - Andiamo a dare l'assaggio - disse. - Sarà squisito. La tavola era stata preparata presso il fuso, accanto ad un allegro fuoco di rami di pino e col solito lusso. L'assalto dato dai quattro aeronauti fu tale, che dopo mezz'ora del superbo arrosto non ne rimaneva che un terzo. - Capitano - disse Rokoff, che aveva divorato per quattro. - Siete un cuoco ammirabile! - Vedremo che cosa direte domani delle mie trote - rispose il comandante, con un leggero accento ironico. Passarono buona parte della serata attorno al fuoco, fumando e sorseggiando dell'eccellente ginepro e del whisky, poi verso le dieci si ritirarono nelle loro cabine. Il macchinista invece aveva continuato il suo lavoro, punto seccato dal vento freddissimo che soffiava dalle non lontane vette dei Kentei. All'indomani la riparazione era finita. L'ala era stata rinforzata così robustamente, da non temere che dovesse cedere anche dinanzi al vento più furioso. - Resisterà quanto e forse più dell'altra - disse il capitano, che aveva osservato attentamente il lavoro compiuto dal macchinista. Poi, senza aggiungere altro, diede mano a preparare il pranzo che doveva far stupire i suoi ospiti. Questi, avendo appreso che la partenza non si sarebbe effettuata che nel pomeriggio, si erano recati sulle rive del lago a fucilare le oche, le anitre ed i cigni che si mostravano sempre numerosi nelle piccole insenature, dove trovavano abbondante nutrimento. Quando tornarono, così carichi di selvaggina da non potersi quasi reggere, il capitano stava levando dai suoi forni gli zamponi del melaneco, mentre il macchinista si aggirava fra cinque o sei pentole dove friggevano o bollivano pesci, anitre e legumi. La tavola, questa volta, era stata preparata sul ponte dello "Sparviero", anzi era stata levata perfino la tenda che era servita al macchinista per ripararsi dal freddo durante il lavoro notturno ed era stato imbarcato anche il fornello. - Pranzeremo in aria? - chiese Rokoff. - Ma ... ah! Udite? - Che cosa, signore? - Queste grida. - Per le steppe del Don! Ancora i mongoli? In lontananza, verso l'est, si vedevano alzarsi sulla pianura sabbiosa dello Sciamo un nuvolone di polvere e si udivano echeggiare delle urla. - Sì, i mongoli - disse il capitano. - Fortunatamente arrivano troppo tardi. Fece portare a bordo gli zamponi e le pentole, gli avanzi dell'orso e la selvaggina uccisa dal russo e dal cosacco, poi disse: - Innalziamoci. La macchina era già sotto pressione. Le eliche orizzontali cominciarono a funzionare elevando il fuso, poi le due immense ali si misero in movimento. Lo "Sparviero" saliva veloce, un po' obliquamente, fendendo rumorosamente l'aria. I mongoli giungevano a corsa sfrenata urlando e sparando, ma era troppo tardi. La preda tanto agognata, ancora una volta sfuggiva loro. - Buon viaggio! - gridò ironicamente il capitano, salutandoli col berretto, mentre lo "Sparviero" s'allontanava velocemente verso il nord. - Badate di non storpiare i vostri cavalli. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro aggiunse: - A tavola, signori e fate onore al mio pranzo. Il capitano, che doveva essere un buongustaio raffinato, aveva preparato un pranzetto veramente luculliano: zuppa di anitra con legumi, lingua di orso, zampone al forno, trote in salsa bianca e fritte nel burro, ananas di Tahiti, banane della Nuova Caledonia e ignami mostruosi, pasticci di varie specie e pudding. Attese che i suoi ospiti avessero finito, poi offrì loro dei sigari di Manila e un certo liquore color dell'ambra, dicendo: - Ebbene, che cosa ne dite delle mie trote? - Squisite, capitano - rispose Rokoff, che era ancora entusiasmato di quel pranzo. - Quelle che si pescano qui non uguagliano certo, per sapore e anche per grossezza, quelle che si prendono nei fiumi e nei laghi del mio paese. - Ve lo avevo detto - disse il comandante ridendo. - E questo liquore? L'avete assaggiato? - Delizioso! L'avete fatto voi? - Sì, e la ricetta me l'ha data un monaco del monte Athos. - Ma dove siete stato voi? Si direbbe che nessun angolo del mondo vi sia sconosciuto. Avete attraversato l'Asia Minore col vostro "Sparviero"? - Mi sembra - rispose il capitano, con un sorriso misterioso. - Bevetene pure, non vi farà male, anzi. Guardava i suoi ospiti sempre ridendo, senza però accostare alle sue labbra il suo bicchierino che rimaneva sempre pieno. Né Rokoff né Fedoro vi avevano fatto caso. Quel liquore era eccellente e da veri russi, che sono i più famosi bevitori dell'Europa, ne approffittavano per digerire meglio quel troppo copioso pasto. Rokoff soprattutto, sempre assetato come lo sono tutti i cosacchi, cacciava giù un bicchierino dietro l'altro, non stancandosi mai di lodare l'aroma di quel liquido. - Se i frati del monte Athos ne fanno uso, non devono essere lugubri - diceva celiando. - Se mi nominassero loro cantiniere, non so quali vuoti farei nelle loro riserve. Vi deve essere dentro dell'essenza dei famosi e antichissimi cedri del Libano. Squisito! Delizioso! Capitano, un altro bicchierino che vuoterò alla salute vostra. - Ed un altro a me che berrò alla buona riuscita del vostro viaggio - diceva Fedoro, che diventava d'un'allegria strana. - Anche dieci - rispondeva il capitano. - Ne ho parecchie bottiglie e poi colla famosa ricetta ve ne posso fare quanto voglio. - Quel frate era più bravo di papà Noè - riprendeva Rokoff, i cui occhi rilucevano come quelli degli ubriachi. - Se lo conoscessi gli bacerei la barba. Scommetto che qui c'entrano delle gocce d'acqua del Giordano. - No, del Mar Morto - rispondeva Fedoro, che aveva il viso acceso. - Ma che! Saprebbe di bitume questo meraviglioso elixir! Quanto deve prolungare la vita! - Sì, Rokoff, perché tutti i monaci del Monte Athos diventano vecchissimi. Me lo ha narrato un viaggiatore mio amico. - Vecchissimi! T'inganni Fedoro! Non muoiono mai. - Buono questo liquore, è vero Rokoff? - Capitano, un altro bicchierino ancora? - Una bottiglia! - Anche dieci bottiglie, Fedoro! Il capitano ha la ricetta! Il Comandante dello "Sparviero" non aveva cessato di ridere. Aveva fatto portare una seconda, poi una terza bottiglia e pareva che si divertisse immensamente dei discorsi dei suoi ospiti e che gradisse assai gli elogi fatti a quel meraviglioso liquore. Già Rokoff e Fedoro avevano tracannato il, decimo od il quindicesimo bicchiere, quando uno dopo l'altro si rovesciarono sulle loro sedie, pallidissimi e come morti. Il macchinista ad un cenno del capitano, era accorso. Prese la bottiglia ancora semipiena ed il bicchiere del suo padrone che non era stato toccato e gettò l'una e l'altro fuori dalla navicella. - Portiamoli nelle loro cabine - disse il comandante. - Non si sveglieranno, signore? - Il narcotico è potente. - Che cosa diranno poi? - Non sono forse io il padrone qui? Non devo rendere conto a chicchessia delle mie azioni. Aiutami. Presero prima Rokoff e lo portarono entro il fuso, deponendolo nel suo letto, poi fecero altrettanto con Fedoro. Né l'uno, né l'altro avevano fatto un gesto durante quel trasporto. Parevano morti. - A tutta velocità - disse il capitano, quando risalì. - Non dobbiamo essere lontani più di centosessanta miglia e ci si aspetta. - E il telegramma del russo? - chiese il macchinista. - Andrò a spedirlo io. I cavalli non mancano in questa regione ed entrerò in città senza che nessuno se ne accorga. Aumenta più che puoi. In quattro o cinque ore vi saremo.

. - Riprenderei volentieri il sonno così inopportunamente interrotto; manda a dormire quest'uomo barbuto e fagli comprendere che ci ha seccati abbastanza col suo Buddha. - Il vostro compagno parla un'altra lingua! - esclamò il Lama. - Non andrà nella Mongolia? - No - rispose prontamente Fedoro. - Egli è destinato a recarsi presso le tribù dei Calmucchi e dei Kirghisi, presso le quali la religione buddista non è rigorosamente osservata; ecco perché non parla il cinese. - E il vostro quarto fratello dove andrà? - Nella Siberia. - Un paese che non ho mai udito nominare, ma il mondo è così vasto! E poi noi non usciamo mai dai confini del Tibet. Stette un momento silenzioso, guardando ora Fedoro e ora Rokoff con una cert'aria imbarazzata. Pareva che volesse fare una domanda, ma che non osasse. - Fedoro - disse Rokoff a mezza voce - sta in guardia. Mi pare che questo monaco rimugini qualche cosa di pericoloso nel suo cervello. Bada di non farti cogliere in fallo. - Me ne sono accorto anch'io - rispose il russo. Il Lama, dopo aver scosso più volte la testa ed essersi lisciata ripetutamente la lunga barba, disse con una certa timidezza. - Vorrei rivolgere una preghiera ai figli del grande Illuminato. - Parlate - rispose Fedoro - quantunque, prevedendo un grave pericolo, si sentisse accapponare la pelle. - La voce del vostro arrivo deve essersi sparsa fra tutti gli abitanti e i monasteri del Tengri-Nor e domani i pellegrini accorreranno in folla a vedere gl'inviati del nostro Dio. - Non abbiamo alcuna difficoltà a mostrarci alle turbe dei fedeli - rispose Fedoro, credendo che tutto si limitasse a quella domanda. - Il nostro monastero organizzerà una grande cerimonia religiosa per rendere grazie all'Illuminato d'essersi degnato di mandare qui i suoi figli. - Diavolo, dove andrà a finire costui? - pensò Fedoro. - Vorrei pregarvi di tenere una conferenza sui doveri dei buoni buddisti, per ispirare maggior zelo nei nostri pellegrini. Sarà un avvenimento pel nostro monastero, il quale acquisterà una maggior celebrità tale da oscurare per sempre quella di Tascilumpo. Altro che pelle d'oca! Fedoro sudava a freddo. - Hai capito nulla? - chiese a Rokoff. - Affatto - rispose questi. - Domanda a me di fare un discorso. - Trovi difficile il farlo? - Non conosco che vagamente la religione buddista. Che cosa potrei dire? Che racconti delle frottole? Non dobbiamo scherzare colla Perla dei sapienti. - Come vuoi cavartela? Se ti rifiuti chissà che cosa potrà nascere. Per ora acconsenti, tanto per guadagnare tempo, poi vedremo. - Il figlio del grande Illuminato accetta? - chiese il Lama. - Sì - rispose Fedoro, a denti stretti. - Quale onore pel nostro monastero! - esclamò il Lama. - Poi sospirò a lungo, guardando Fedoro. - Si prepara a darti un altro pugno - disse Rokoff. - Lo vedo; prepara la difesa, Fedoro. - Potessi prepararla almeno tu, questa volta! - Io non so il cinese; non parlo che il calmucco e il kirghiso - rispose il cosacco che rideva sotto i baffi. - Ah! Se voi voleste! - disse finalmente il Lama con un altro sospiro più lungo del primo. - Quale sarebbe l'onore pel nostro monastero! ... Più nessun pellegrino si recherebbe a quello di Tascilumpo e nemmeno a quello di Lhassa. - Con tutti questi onori chissà in quale ginepraio finirà per cacciarmi - mormorò il povero russo, le cui inquietudini aumentavano. Nondimeno si fece animo, dicendo: - Parlate, spiegatevi meglio. - Rimanete sempre qui con me - disse il Lama. - Faremo di voi, due Buddha viventi, due vere incarnazioni del Dio. - È impossibile! - esclamò Fedoro, spaventato. - E perché? - Siamo attesi in Mongolia e in Siberia. - I mongoli e i siberiani potranno farne a meno di voi - rispose il Lama, con una certa durezza che sconcertò il russo. - La vera religione buddista è qui, non fra quei selvaggi, ed è sulle sacre rive del Tengri-Nor che viene più scrupolosamente osservata. - E se nostro padre non lo permettesse? - Buddha è grande e ama i suoi adoratori, potrebbe lui scontentarli? Noi raddoppieremo le preghiere e i sacrifici e sarà contento. - Ciò che voi ci chiedete non sarà mai possibile - rispose Fedoro, con voce recisa. - Noi dobbiamo compiere la nostra missione. - E se i montanari si opponessero alla vostra partenza? - chiese il Lama. - Come potrei io impedirlo? Non ne avrei l'autorità. - Voi, un Bogdo-Lama! - esclamò Fedoro. - Un pontefice della religione a cui tutti i fedeli debbono obbedienza? - Sono molti e quando vogliono una cosa nessuno potrebbe più domarli. Pensate che io non ho forze da opporre loro. - Minacciate di scomunicarli e di scatenare tutti i fulmini del grande Buddha. Un sorriso un po' beffardo spuntò sulle labbra del Bogdo-Lama. - Vedremo - disse poi - spero che non spingeranno le cose fino a tal punto. Però vi dico che sarebbero orgogliosi di avere, sulle sponde del lago sacro, due Buddha viventi. Si era alzato. - Sarete stanchi - disse. - Molto - rispose Fedoro, che non desiderava altro che tagliare corto quel dialogo, che diventava di momento in momento più imbarazzante. - Gli esseri celesti saranno miei ospiti e nulla mancherà loro, finché si fermeranno nel mio monastero. Fin da questo istante verranno trattati cogli onori dovuti ai Buddha viventi. - Il grande Illuminato sarà riconoscente ai suoi fedeli adoratori del Tengri- Nor, dell'accoglienza fatta ai suoi figli. Il Bogdo-Lama s'accostò a un piccolo tavolo e scosse un campanello d'argento. Quattro monaci, che dovevano essersi fermati al di fuori, in attesa dei suoi ordini, entrarono. Il Lama rivolse loro alcune parole, poi s'inchinò dinanzi ai due europei, facendo quindi segno di seguire i religiosi. - Siamo finalmente liberi? - chiese Rokoff. - Se la durava ancora un po', perdevo la pazienza e prendevo quel monaco per la barba. - Avresti compromesso gravemente la nostra posizione di Buddha viventi - rispose Fedoro, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte. - Di Buddha viventi? Che cosa dici, Fedoro? - Taci per ora. Restituirono al pontefice di Dorkia il saluto e uscirono preceduti dai quattro monaci, i quali a ogni istante si volgevano verso i due europei inchinandosi fino al suolo e balbettando delle preghiere incomprensibili. - Come sono cerimoniose queste persone - brontolò il cosacco - comincio ad averne fino ai capelli. Percorsero parecchi corridoi sempre tappezzati di meravigliosi paraventi, salirono parecchie gradinate e finalmente furono introdotti in una sala immensa, colle pareti coperte di seta gialla fregiata da iscrizioni tibetane, ammobiliata con divani d'eguale stoffa e colla volta a cupola la quale, essendo composta di lastre di talco, lasciava trapelare un debole chiarore. All'estremità s'aprivano due porte che pareva mettessero in altre sale o in altre stanze. Un dolce tepore regnava là dentro, nonostante la vastità dell'ambiente. - Il vostro appartamento - disse uno dei quattro monaci, in lingua cinese. - Tutto quello che potrete desiderare vi sarà recato; basta battere il gong sospeso alla porta. - Una bella prigione - disse Fedoro, volgendosi verso Rokoff, mentre i monaci uscivano. - Una prigione! - esclamò il cosacco. - Come! Questi bricconi osano mettere in gabbia degli uomini scesi dal cielo? - Faranno di più, mio povero Rokoff. - Che cosa vuoi dire? - Che noi stiamo per diventare dei Buddha viventi. - Ne so meno di prima. - Non hai mai udito parlare dei Buddha che vivono? - Niente affatto, Fedoro. Mi spiegherai ciò dopo colazione. L'aria del lago mi ha messo indosso un appetito indiavolato. Non so più dove sia andata a finire la cena che ci ha offerto l'altro monaco. - Tu scherzi? - Vorresti vedermi piangere? - Rokoff la va male. - Perché vogliono fare di noi dei Buddha viventi? Se così fa piacere a loro, lasciali fare amico mio. Purché non ci impalino o non ci gettino in qualche cantina piena di scorpioni, non vi è motivo di spaventarci. - Non sai tu che cosa sono i Buddha ... ? - Persone che mangiano e bevono al pari di tutti gli altri mortali, a quanto suppongo. - Se non vengono strangolati. - Eh! Che cosa dici, Fedoro? Vuoi guastarmi l'appetito? - Non ne ho alcun desiderio. E poi, come me la caverò colla predica che devo tenere ai fedeli? Io che conosco così poco la religione buddista! Sarà una catastrofe completa. - Dimmi, Fedoro, credi tu che quel monaco barbuto abbia prestato cieca fede a quanto noi abbiamo narrato? - Uhm! Ho i miei dubbi. Non deve essere così sciocco la Perla dei sapienti. - E perché non ci ha scacciati come impostori? - Non avrebbe guadagnato nulla, mentre presentandoci come figli del cielo attirerà al suo monastero migliaia e migliaia di pellegrini. - E gli abitanti? - Sono così idioti da credere a tutte le panzane che smerciano i loro Lama. - E come te la sbrigherai colla predica? - Non lo so, Rokoff. - Chi è, innanzi tutto, questo signor Buddha? - Un saggio, un illuminato nato a Ceylon che creò una nuova religione, non so precisamente se per convinzione o per detronizzare la triade indiana di Brahma, Siva e Visnù. - Un brav'uomo? - Certo, perché predicò la pietà verso il prossimo non solo, bensì anche verso gli animali. - Allora dirai che il paradiso di Buddha è pieno d'asini, di cavalli, d'insetti, di balene ... un vero serraglio. - Ah! Rokoff. - Non preoccuparti. Facciamo colazione e vedrai che dopo riempito il ventre le idee scaturiranno in tale abbondanza da fare un predicone. Ah! se conoscessi il cinese vorrei far stupire perfino la Perla dei sapienti. Ci metterei perfino dentro il Don e i cosacchi delle steppe. Combineremo tutto insieme e ... - Ci farai prendere a legnate. - E noi risponderemo a calci. Rokoff s'alzò e percosse furiosamente il gong, gridando: - La colazione pei figli di Buddha e per oggi non seccateci più le tasche. Siamo occupati a pregare Domeneddio, cioè no, l'Illuminato.

Ne ho abbastanza di questo vallone e anche degli altipiani del Tibet. - Hanno già accomodato i piani, avendo avuto il tempo di ritirare il feltro prima che venisse stracciato dagli jacks. Viaggeremo colla massima velocità e non ci arresteremo che al lago di Mont-calm. Se nessun incidente sopraggiunge, fra tre giorni anche gli altipiani saranno superati e scenderemo verso regioni più civili. - Vorrei già essere in India. - Vi arriveremo, signor Rokoff, non dubitate. Spero però che non rinuncerete a vedere Lhassa, la capitale del Tibet, la sede del Buddha vivente e del Gran Lama, una delle città più celebri del mondo e che ben rarissimi europei hanno potuto vedere. - Giacché lo volete, andremo a Lhassa. Non vedendo comparire più alcun tibetano, levarono la lingua ad un jack che doveva essere stato ucciso, durante la carica da qualche cavaliere, e tornarono verso lo "Sparviero". Il macchinista aiutato da Fedoro e dallo sconosciuto, aveva allora terminato d'inchiodare il feltro sui piani danneggiati. - È tutto pronto? - chiese il capitano. - Sì, signore - rispose il macchinista. - Allora innalziamoci! Salirono tutti sul fuso. In quel momento il sole, forata la nebbia, proiettò un fascio di luce nel vallone illuminandolo da un'estremità all'altra. Più che un vallone era un immenso abisso di tre o quattro miglia d'estensione, largo cinque o seicento passi, colle pareti tagliate quasi a picco e alte per lo meno cinquecento piedi. Un solo albero, un pino colossale, s'alzava quasi nel mezzo. Era su quello che lo "Sparviero" aveva urtato nella sua discesa e che per poco non aveva rovesciato il fuso. Dall'altra parte invece, una gigantesca cascata saltava nell'abisso, con un fragore assordante, precipitando entro un profondo bacino. Lo "Sparviero" mise in moto le ali e le eliche e si alzò maestosamente, salendo verso l'altipiano. Aveva già raggiunto i duecento metri, quando dietro alcune rocce si udirono rimbombare dei colpi di fucile. Erano i tibetani che cercavano, ancora una volta, di abbattere gli stranieri. Si erano nascosti in mezzo ad alcuni crepacci aperti nella parete e vedendo i loro nemici fuggire, li avevano salutati con una scarica. Gli aeronauti non si degnarono nemmeno di rispondere. D'altronde lo "Sparviero" s'innalzava con crescente rapidità, aumentando di momento in momento la distanza. Sorpassò il margine dell'enorme spaccatura e si slanciò attraverso gli altipiani nevosi con una velocità di trentacinque miglia all'ora. L'uragano erasi calmato e anche la nebbia si era completamente dileguata sotto i vigorosi colpi di vento del settentrione. Che caos però presentava l'altipiano, dopo lo scatenamento degli elementi! La neve, strappata dalle raffiche irresistibili, si era accumulata in mille guise, formando qui un bastione, più oltre una montagna, più innanzi una serie di cumuli che si profilavano indefinitivamente. In certi luoghi vi erano delle enormi valanghe staccatesi dai Crevaux e soprattutto dal Ruysbruck, la cui mole imponente giganteggiava un po' al sud, all'estremità occidentale della catena e degli ammassi di ghiaccio capitombolato dai ghiacciai che si mostravano numerosissimi in quei luoghi. - Guai se invece di scendere nel vallone noi ci fossimo arrestati qui - disse il capitano. - Il nostro "Sparviero" sarebbe rimasto schiacciato subito, non credendo io che i Crevaux ci fossero così vicini. - Ed è anche stata una fortuna che l'ala si sia spezzata - disse Fedoro. - Diversamente ci saremmo fracassati contro quelle montagne che la nebbia c'impediva di scorgere. - Sì, una disgrazia ed una fortuna ad un tempo. - Che si rompa ancora l'ala? - Non lo credo, essendo stata saldata perfettamente, meglio dell'altra volta. - E anche i piani funzionano come prima? - Sono diventati più pesanti, ma lo "Sparviero" ha una forza ascensionale poderosa e non se ne risente. Attenti, amici, passiamo i Crevaux. - I Crevaux! - esclamò Rokoff. - Un nome francese in mezzo al Tibet. - Dato a questi monti da Bonvalet - rispose il capitano. - Quella missione ha battezzati anche parecchi laghi con nomi che ricordano la Francia. Lo "Sparviero" s'innalzava facendo forza d'ala, onde superare la catena, la quale appariva imponente, e con una massa di piramidi e di picchi altissimi, coperti di neve e di ghiaccio. Esso si dirigeva fra l'estremità occidentale dei Crevaux ed il Ruysbruck, dove si vedeva una enorme spaccatura, che doveva servire di passo ai pellegrini provenienti dalla Mongolia. Che orribile regione era quella! Abissi, valloni selvaggi, creste che pareva si spingessero fino in cielo, punte aguzze, nevi e ghiacciai. Non un albero, non una pianticella qualsiasi, nemmeno dei modesti licheni. Una vera regione polare, forse peggio; perché anche nelle isole dell'Oceano Artico e anche in quelle dell'Antartico, durante la breve estate nasce un po' di vegetazione. E poi non un animale, non un volatile. Perfino le aquile mancavano. - Questa si potrebbe chiamare la terra della desolazione - disse Rokoff. - In questa stagione sì - rispose il capitano. - In estate invece vi sono dei pastori che si spingono anche quassù colle loro mandrie di jacks e di montoni. - A pascolare che cosa? - Le magre erbe che spuntano timidamente fra i crepacci. - Questa regione non potrà mai essere popolata stabilmente. - Eh! Chissà, signor Rokoff. Io non mi stupirei se fra due o trecent'anni anche questi spaventevoli deserti avessero una popolazione. Pensate che gli abitanti del nostro globo aumentano ogni anno prodigiosamente e che la nostra Terra rimane sempre eguale per estensione. - Oh! Ve ne sono ancora degli spazi inoccupati. - Meno di quello che credete, signor Rokoff. Guardate l'America del Nord per esempio. Cinquant'anni or sono le sue immense praterie erano popolate solamente da poche centinaia di migliaia d'indiani; oggi tutti quei terreni sono stati invasi dalla razza bianca che non è meno prolifica di quella mongola, e spazi liberi o semideserti non ve ne sono quasi più. - Non dico di no. - Guardate l'Africa. Cent'anni or sono aveva immense plaghe abitate da tribù di negri; ora gran parte di quel continente è stato invaso e fra altri cinquant'anni non vi saranno più terre disponibili. - In quanti siamo ora noi? - La popolazione del mondo conta oggidì, in cifra tonda, un miliardo e cinquecento milioni, mentre le terre abitabili o semiabitabili non sono che quarantasei milioni di miglia quadrate. Calcolato che le terre fertili non possono nutrire più di duecentosette abitanti per miglio quadrato, vedrete che non rimarrà gran margine pei nostri futuri nipoti. E non dimenticate che fra i quarantasei milioni di terre, ve ne sono quattordici di steppe e quattro di deserti. - Sicché voi credete che fra due o trecento anni la nostra terra non sarà più capace di nutrire tutta la sua popolazione. - Molto prima, signor Rokoff. Da un calcolo fatto da eminenti scienziati, parrebbe che quell'epoca fatale dovesse scadere dopo il duemila. Vi sarà forse dell'esagerazione, perché vi sono certi paesi anche oggidi occupati da una popolazione intensissima e che pur vivono comodamente. La Cina, per esempio, ha duecentonovantacinque abitanti per miglio quadrato e il Giappone duecentosessantaquattro, eppure cinesi e giapponesi non muoiono di fame. - La prima, però, di quando in quando, soffre delle carestie disastrose - disse Fedoro. - Questo è vero, e anche l'India perde ogni anno parecchie centinaia di migliaia d'abitanti, avendo già una popolazione troppo esuberante per la sua estensione. I morti di fame non si contano ormai più in quel paese. - Gli scienziati troveranno il mezzo per raddoppiare le produzioni del suolo. - Certo, ma non faranno altro che ritardare l'epoca fatale e niente di più. - Sicché - disse Rokoff - se il sole non arrostirà l'umanità, questa sarà condannata a morire di fame. - O tornare all'antropofagia. - Preferisco vivere ora e mangiare costolette di bue piuttosto di avere per colazione una bistecca d'uomo. Meno male che noi non ci saremo più in quel tempo. Il passo dei Crevaux era stato superato felicemente e lo "Sparviero" ridiscendeva verso l'altipiano, diretto al lago di Mont-calm, che è uno dei più alti, trovandosi a ben cinquemila metri sul livello del mare. Il paese non accennava a variare. Era sempre il deserto di ghiaccio e di neve, con spaccature, abissi e scaglioni immensi che si succedevano con monotonia desolante. Alle otto di sera lo "Sparviero" calava sulle rive settentrionali del Montcalm, il quale era coperto da uno strato di ghiaccio. Il freddo era considerevolmente aumentato e un vento secco e insistente soffiava dal nord, facendo soffrire assai gli aeronauti, i quali si sentivano screpolare la pelle del viso e gelare le dita. Si rinchiusero nel fuso, dove qualche ora prima era stata accesa la stufa e dopo la cena si cacciarono nei loro letti. L'indomani lo "Sparviero" riprendeva la sua corsa, aumentando considerevolmente la velocità. Anche il capitano cominciava ad averne fin sopra i capelli di quel deserto di ghiaccio e sospirava il momento di scendere nella regione dei laghi, per ritrovare una temperatura più mite e rinnovare anche le sue provviste. Almeno là era certo di trovare abbondante selvaggina, essendo le vallate del Tibet meridionale ricche d'asini selvaggi, di jacks, di argali e di stambecchi. Ci vollero nondimeno altri due giorni prima di giungere al margine meridionale di quell'eterno altipiano e di calare nelle ricche vallate dell'Or, cosparse di laghi e laghetti e anche di villaggi popolosi. Veramente l'altipiano continuava ancora, estendendosi fino sulle rive del Tengri-Nor. È solamente nelle vicinanze di quel lago sacro che cessa, nondimeno non aveva più la elevazione di prima, né appariva brullo e nevoso. Anzi, cominciavano a vedersi foreste di pini e di abeti, di querce gigantesche e di aceri, e anche campi coltivati a orzo e poi si vedevano pascolare cammelli, jacks domestici e bande di montoni guardate da numerosi pastori, i quali accoglievano coraggiosamente lo "Sparviero" a colpi di fucile, scambiandolo per qualche aquila mostruosa. Non avendo che delle pessime armi a miccia, le palle non giungevano mai fino agli aeronauti, i quali, per precauzione, si mantenevano a un'altezza di tre o quattrocento metri. Quando lo "Sparviero" passava invece sopra qualche borgata, un profondo terrore si spargeva fra gli abitanti. Tutti fuggivano urlando, i cammelli si gettavano al suolo nascondendo la testa fra le gambe anteriori, gli jacks muggivano, i montoni si disperdevano fra i dirupi e i cani latravano con furore. Quella confusione non durava che qualche minuto; l'aerotreno s'allontanava rapidissimo, senza aver divorato alcuno. La sera del terzo giorno, dopo aver attraversato la regione dei piccoli laghi del Bilui-Dyka e i monti Nobokon-Ubaski, la macchina volante calava sulle rive del Buka-Nor, un vasto bacino disabitato che si trova al nord del Tengri. Il capitano avendo veduto fuggire numerose bande di animali che supponeva fossero asini, era calato in quel luogo, colla speranza di abbatterne qualcuno. Rokoff però, udendo parlare d'asini, non aveva potuto trattenere una smorfia. - Vi pare una selvaggina apprezzabile, degna d'un colpo di fucile? - aveva chiesto al capitano. - E come! - aveva risposto questi, quasi scandalizzato. - Sdegnate un boccone da re? - Mangiano gli asini i re di questo paese? - L'onagro, si chiama anche così, è una selvaggina scelta, ricercatissima, che supera lo jack e il montone. Voi non sapete dunque la storia della bella figliola di Semengam, uno dei più celebri re della Persia. - Niente affatto, capitano. Andava matta per gli asini, quella signora? - Narrano le antiche cronache persiane, che quella fanciulla si fosse innamorata alla follia di Rustan, uno dei più prodi cavalieri dell'Iran, perché questi, fra le tante sue meravigliose gesta compiute, aveva fatto anche quella di divorarsi nientemeno che un asino intero. - Che stomaco doveva avere quel guerriero persiano. Io non l'avrei di certo invidiato. - Perché non avete mai assaggiato la carne dell'onagro. Me ne direte qualche cosa domani, se riusciremo a catturarne qualcuno. - Come li cacceremo? - Standocene sullo "Sparviero": diversamente perderemmo inutilmente il nostro tempo, essendo velocissimi. - Sapendovi un buongustaio raffinato, proverò anche la carne degli asini - disse Rokoff. - Suppongo che non sarà peggiore di quella dei cavalli, e nella guerra russo-turca e anche nella spedizione di Samarcanda, dei corsieri ne abbiamo divorato più d'uno. Il capitano non si era ingannato a scendere in quel luogo. Lo "Sparviero" si era, l'indomani, appena alzato costeggiando le rive del lago, quando a circa un mezzo miglio fu veduta una immensa truppa di quegli animali galoppare sull'altipiano. Erano tre o quattrocento che s'avanzavano su parecchie linee, preceduti dai capi, coi maschi dinanzi e le femmine in coda. Correvano all'impazzata, facendo rimbombare il suolo e ragliando rumorosamente, poi s'arrestavano un momento, quasi tutti d'un colpo, per fare poco dopo un rapido dietrofront e ripartire come un uragano. Brucavano un po' le magre erbe e i licheni, quindi, presi da un nuovo capriccio, riprendevano le loro corse disordinate. Erano animali grossi quasi quanto gli asini europei, cogli orecchi però meno lunghi, il pelame bigio oscuro, attraversato sul dorso da una lunga striscia nera che s'incrociava sulle spalle con altre due bigie. Questi animali sono anche oggidì numerosissimi e s'incontrano di frequente sugli altipiani dell'Asia centrale, nelle pianure persiane e anche nell'India settentrionale. Viaggiano in bande immense, emigrando ora fra i deserti e ora fra le steppe, non temendo nemmeno le tigri, che affrontano con un coraggio straordinario, colpendole cogli zoccoli, e se non basta, mordendole ferocemente. La truppa scorta dagli aeronauti pareva che colle sue continue mosse disordinate e colle sue fughe precipitose, cercasse appunto di sfuggire a qualche pericolo che la minacciava. Il capitano, che la osservava con un cannocchiale, indovinò ben presto da quali nemici era assediata. - Si difendono dai lupi - disse a Rokoff che lo interrogava. - Sono numerosi? - Un centinaio. - Che riescano a fare un macello degli onagri? - Saranno i lupi che avranno la peggio. Cercano di forzare le linee degli asini per gettarsi sui piccoli, ma non riusciranno a nulla. Assisteremo a una bella battaglia. Ehi, macchinista, rallenta e teniamoci ben alti onde non spaventare i combattenti. Gli asini, dopo aver fatto parecchie corse, si erano fermati in mezzo a una vasta pianura, dove avevano potuto spiegare i loro battaglioni. Con un insieme ammirabile avevano formato un immenso cerchio: i maschi alla periferia, le femmine e i piccini al centro. I lupi, che erano più di cento e molto affamati a giudicarli dalla loro spaventosa magrezza, correvano intorno ululando ferocemente, cercando il punto più debole per rompere le linee. Ogni volta però che s'avvicinavano al circolo, i maschi voltavano il dorso e colle zampe posteriori tiravano calci con un rapidità sorprendente. Più d'un lupo, colpito, volteggiava in aria semifracassato e quando cadeva, tre o quattro asini gli si precipitavano addosso mordendolo ferocemente, finché esalava l'ultimo respiro. Non ancora soddisfatti, lo calpestavano furiosamente riducendolo in un informe ammasso di ossa e di carne triturata. Le asine e i loro piccini, spaventati dalle urla dei carnivori, si serravano le une addosso agli altri, ragliando disperatamente come per incoraggiare i maschi a difendere la loro prole. Non ne avevano veramente bisogno, perché quei bravi animali mantenevano le linee sempre strette, tempestando senza posa gli assalitori. - Come si difendono bene! - esclamò Rokoff. - Non credevo che potessero tener testa a un simile attacco. - Aspettate - disse il capitano. - A loro volta daranno la carica e io non vorrei trovarmi al posto dei lupi. Infatti gli asini, vedendo che i loro avversari continuavano le loro corse, perduta la pazienza, si preparavano ad assalire a loro volta. Non fu che la prima linea che si mosse. La seconda, con una prudenza incredibile, rimase ferma per impedire ai lupi di irrompere attraverso il cerchio. Quei cinquanta o sessanta animali, i più robusti e i più coraggiosi, partirono al galoppo, spezzando in più parti le linee dei voraci avversari. S'impennavano lasciandosi cadere di peso, distribuivano calci con rapidità vertiginosa, afferravano i nemici colle poderose mascelle e li scuotevano furiosamente, strappando a un tempo lembi di pelle e di carne. Qualcuno, assalito da tre o quattro lupi, che lo azzannavano alla gola o agli orecchi, cadeva, ma tosto i compagni accorrevano in suo soccorso, liberandolo prontamente. La battaglia durò un quarto d'ora e, come il capitano aveva predetto, finì colla completa sconfitta dei carnivori che, perduta ogni speranza di fare un pasto abbondante, almeno per quel giorno, dovettero in breve salvarsi con una pronta fuga, lasciando sul terreno un bel numero di morti e di moribondi. Era in quel momento che lo "Sparviero" scendeva. Gli asini, vedendo proiettarsi sul suolo quell'ombra gigantesca, s'arrestarono stupiti; poi, scorgendo quel mostro scendere, presi da una pazza paura, partirono ventre a terra in direzione del lago, salutati da tre colpi di fucile. Una femmina, colpita mortalmente, cadde dopo breve tratto, ma gli altri continuarono la loro corsa indiavolata, scomparendo in mezzo alle rupi. - Signor Rokoff - disse il capitano, balzando a terra. - Avrò l'onore di offrirvi delle bistecche così squisite da far perdonare il vostro disprezzo per questa delicata selvaggina. - Non ho ancora dato il mio giudizio - rispose il cosacco, ridendo. - Non dubito che sarà favorevole. Due ore dopo il bravo cosacco confessava candidamente che la carne degli asini selvaggi valeva ben quella degli jacks e dei bovini europei e che gli sciah persiani avevano pienamente ragione di stimarla come un boccone degno dei re.

. - Ne ho abbastanza dei cinesi e delle loro lanterne. - Non sei entusiasta di questo spettacolo, Rokoff? - chiese il giovane, ridendo. - Eppure questa sera Pechino presenta delle scene meravigliose. - Preferisco le mie steppe del Don, colle loro alte erbe: almeno là si può vedere il sole o la luna e anche bruciare selve e accendere pozzi di petrolio senza farsi schiacciare dalla folla. - Tutti così questi cosacchi - rispose il giovane. - La steppa ed il loro fiume, le loro albe ed i loro tramonti, poi basta. - È vero, Fedoro - rispose l'uomo barbuto, facendo una smorfia che voleva, essere un sorriso. - Siamo un po' selvaggi noi. - Dunque, Pechino non ti alletta? - Noi ci troviamo qui da tre ore, e non ho veduto finora altro che lanterne e fuochi artificiali; fuochi artificiali e lanterne. Ah! Mi dimenticavo anche zucche pelate e code; code e zucche pelate, e chiami tutto ciò uno spettacolo, Fedoro? Io ne ho fin troppo, te l'assicuro. - Quando saremo a casa di Sing-Sing, non dirai più così. - Troveremo almeno da mangiare? - chiese il cosacco, dimenando ferocemente le mascelle. - E come? Ad un uomo che viene a contrattare cinquecento tonnellate di "tè polvere di cannone" non vuoi che si offra da mangiare? Anzi giungeremo in buon punto per assistere ad uno di quei banchetti fenomenali che non scorderemo più, mio buon Rokoff. - Ti assicuro che mi farò onore, perché da Taku a oggi, non sono mai riuscito a calmare interamente la fame, quantunque abbia mandato giù non so quante terrine di riso, di pasticci inqualificabili e non so quante migliaia di chicchere di tè. Se noi resteremo in Cina un mese ancora, dimagrirò spaventosamente. - Tra dieci giorni torneremo a Taku e c'imbarcheremo per l'Europa. - Per Odessa, mio caro. Se avessi saputo che la Cina era così, non avrei lasciato il mio squadrone per accompagnarti. - Sì, per Odessa.- rispose Fedoro. - Per le steppe del Don! Che non finisca più questa marcia? E che questi cinesi non diminuiscano mai? Comincio a perdere la pazienza e allora guai alle code che si troveranno alla portata delle mie mani. Fedoro interpellò il ragazzo che portava la lanterna, ormai mezza schiacciata dai continui urti della folla. - Presto, signore, due passi ancora - rispose l'interrogato, in pessimo inglese. - La casa di Sing-Sing non è lontana. - È mezz'ora che quel monello ci ripete questa frase - disse l'irascibile figlio delle steppe, tirandosi l'irsuta barba. - Mi ha l'aria di beffarsi di noi, questo briccone. - Pazienza, Rokoff - disse Fedoro. - Non bisogna aver fretta in Cina. I figli del Celeste Impero non hanno una misura esatta del tempo. - Auff! E sempre folla! Le vie si succedevano alle vie, fiancheggiate ora da casupole, ora da templi immensi, ora da dimore splendide coi tetti a punte rialzate e le pareti coperte di porcellane, da chiostri meravigliosamente traforati, da padiglioni e da giardini tutti fiammeggianti di lanterne multicolori. La folla si precipitava come un torrente senza fine, pigiandosi fra le case, irrompendo tumultuosamente nelle piazze, urtandosi, spingendosi fra grida, urla, fragori di trombe, di tam-tam, di gong, di mille strani strumenti musicali, mentre le bombe tuonavano senza posa sui poggioli, sulle verande, sulle terrazze, e le girandole lasciavano cadere una pioggia di scintille sugli ampi capelli dei curiosi, sui cavalli, sugli asini e sulle portantine che s'incrociavano in tutti i, sensi. Fedoro, stanco, stava per fermarsi onde prendere un po' di respiro, quando il ragazzo, che aveva rinunciato a portare più lungi la sua lanterna, ormai ridotta in uno stato deplorevole, si volse verso di lui, dicendogli: - Ci siamo. - Finalmente! Anch'io, non ne potevo più! - Si vede quella dannata casa del signor San ... San ... Ting ... Auff! che nome! Non riuscirò mai a digerirlo, mio caro Fedoro. - Se dice che ci siamo! ... - Non è la prima volta che ce lo ripete. Che abiti all'inferno questo negoziante di tè? - Pazienza, Rokoff; poi ci riposeremo. - Riposeremo dal cinese? - È mio amico. - Bella amicizia! Una zucca pelata! ... - Troverai un uomo amabilissimo e gentile. - Uhm! - Che sarà orgoglioso di ospitare un tenente della cavalleria russa. Il nostro paese gode oggi molte simpatie qui. - Eppure i nostri in Manciuria ne hanno commesse di quelle grosse. Ne hanno annegati a centinaia nelle acque dell'Amur. - Inezie, Rokoff. - Saranno tali forse per i cinesi: già, son così tanti, che diecimila più o meno non contano. - Non dire però male dei cinesi quando saremo da Sing-Sing. - Anzi dirò che sono bella gente - disse il cosacco, ridendo. - Sarò gentile; te lo prometto, Fedoro. - Allora tutto andrà bene. - Eccoci - disse in quel mentre il ragazzo. Fedoro ed il suo compagno erano giunti dinanzi ad una sontuosa dimora, adorna di colonnati coperti di lanterne, di frontoni di marmo, di ghirigori di porcellana, con tetti e soprattetti a punte arcuate sormontati da una vera selva di antenne sostenenti bandiere, draghi e gruppi di gigantesche lampade. Ondate di luce variopinta si proiettavano sulla folla stipata dinanzi al palazzo, dove bruciavano girandole, bambù crepitanti, fuochi di bengala e detonavano razzi e petardi in gran numero. - Bella casa! - esclamò il cosacco. - Principesca - disse Fedoro. - Ciò non mi stupisce, perché si dice che Sing-Sing, col commercio del tè, abbia accumulato milioni su milioni. Il ragazzo si era slanciato sull'ampia scala marmorea, sul cui pianerottolo si accalcavano numerosi servi vestiti sfarzosamente, con ampie zimarre di nankino fiorito e larghe cinture di seta ricamata in oro. Un momento dopo il gigantesco tam-tam, sospeso sopra la porta, echeggiava con fracasso assordante, annunciando al padrone della splendida dimora una visita importante. - È per noi che fanno tanto rumore? - chiese Rokoff. - Sì, rispose Fedoro. - Avrebbero fatto meglio a risparmiarsi questa musica che sfonda i timpani degli orecchi. - Rokoff! Tu diventi brontolone - disse Fedoro celiando. Un cinese, un maggiordomo di certo, obeso come un ippopotamo, tutto vestito di seta rossa a fiori bianchi ed a lune sorridenti, che traballava grottescamente sui suoi zoccoli quadrati dall'alta suola di feltro, s'avanzò verso i due europei e s'inchinò profondamente incrociando le mani sul petto e muovendo graziosamente le dita, salutandoli con un cordiale: - Tsin! ... Tsin! ... - Ecco un uomo che deve mangiare delle grasse galline o per lo meno delle oche - mormorò il cosacco. - Si deve star bene in questa casa. - Siete voi gli europei che il mio padrone aspetta? - chiese. - Sì - rispose Fedoro, il quale comprendeva benissimo il cinese. - Io sono Fedoro Siknikoff, rappresentante e comproprietario della casa di esportazione di tè, Siknikoff e Bekukeff di Odessa. - E l'altro? - chiese il maggiordomo, guardando il cosacco. - Un mio amico. - Seguitemi: ho ricevuto ordini a vostro riguardo. Fedoro mise in mano al monello un tael, somma ragguardevole in Cina dove un operaio, lavorando dall'alba al tramonto, non guadagna più di sessanta centesimi, e seguì il maggiordomo in un superbo vestibolo scintillante di luce per la moltitudine di lanterne di seta che coprivano il soffitto. Attraversarono in seguito parecchie gallerie, colle pareti coperte di arazzi meravigliosi rappresentanti draghi vomitanti fuoco e gru e cicogne in gran numero; passarono in mezzo a paraventi di seta di tutte le tinte, leggiadramente ricamati ed entrarono finalmente in una stanza illuminata da una gigantesca lanterna coi vetri di madreperla e che spandeva una luce diafana, del più sorprendente effetto. - Aspettate qui gli ordini del mio padrone - disse il maggiordomo, inchinandosi fino a terra. Rokoff, ch'era passato di stupore in stupore, s'era fermato sotto la lampada, girando all'intorno uno sguardo attonito. Quella stanza, quantunque ammobiliata semplicemente, non usando i cinesi mobili pesanti, era così graziosa, da far stupire lo stesso Fedoro, quantunque da lunghi anni avesse percorso il Celeste Impero, visitando tutte le città costiere. Era un quadrilatero perfetto, col pavimento coperto di piastre di porcellana azzurra che avevano dei dolci riflessi sotto la luce della lampada; colle pareti coperte di quella meravigliosa carta di Tung che invano gli europei hanno cercato di imitare, a fiorami dorati, che parevano ricamati, e col soffitto a quadri pazientemente intagliati. Le finestre, piccolissime, avevano tende di seta trasparente che coprivano i vetri di talco. Nel mezzo due letti massicci, bassi, con coperte di seta ricamata e guancialini di sottilissima tela fiorata; negli angoli, invece, leggeri tavoli laccati, scaffali di ebano, sputacchiere e vasi istoriati pieni di peonie fiammeggianti, e sedie di bambù che avevano certe vernici che parevano strati di vetro. Su tutti i mobili poi, vasetti, vasettini, statuette, palle d'avorio traforate, ninnoli d'ogni specie, di porcellana, di ebano, di osso, di talco, di madreperla, di oro e d'argento, specchi di metallo a rilievi e profumiere. - Non avrei mai supposto che questi cinesi sfoggiassero tanto lusso nelle loro case - disse Rokoff, dopo essersi guardato attentamente intorno. - Che cosa ne dici, Fedoro? - Che vedrai ben altre cose - rispose il giovine. - E il padrone di questa dimora? - Spero che si farà vedere presto. Noi siamo ospiti che valgono delle centinaia di migliaia di lire ed i cinesi ci tengono al danaro anche ... Un colpo bussato alla porta, gl'interruppe la frase. Il maggiordomo entrava portando due giganteschi biglietti di carta rossa, lunghi più d'un metro e larghi quasi altrettanto, sui quali si vedevano delle lettere adorne di geroglifici mostruosi e tre figure rappresentanti un fanciullo, un mandarino e un vecchio seduto presso una cicogna, cioè l'emblema della longevità. Li depose su un tavolo, poi usci senza aver pronunciato una parola. - Che cosa sono? - chiese il cosacco stupito. - Dei paraventi? - Dei biglietti di visita - rispose Fedoro, ridendo. - Eh! ... Scherzi? Questi, dei biglietti! ... Buon Dio! ... che portafogli usano dunque questi cinesi? - E d'augurio anche; guarda: vi sono dipinte sugli angoli le tre principali felicità ambite dai cinesi: un erede, un impiego pubblico e lunga vita. - Un erede! ... Ma noi non siamo ammogliati, Fedoro. - Lo diverremo forse un giorno. - E non sognamo pubblici impieghi, almeno io. - Accetterai almeno l'augurio di diventare vecchio. - Ah! ... Questi cinesi! ... - Taci! Il maggiordomo torna. - Con altri biglietti di visita, forse? Fabbricheremo dei superbi paraventi, mio caro amico. - No, con dei regali, invece. Dopo gli auguri, i presenti: è la prima luna del nuovo anno. - Siano benvenuti. Il maggiordomo, dopo d'aver bussato discretamente, era entrato assieme a due servi, i quali portavano un paniere di vimini adorno di nastri e di frange dorate. - Il mio padrone prega di accettare questo in attesa di visitare gli ospiti - disse. Rokoff levò la coperta di seta che copriva il paniere, levando successivamente dei barattoli che dovevano contenere degli unguenti preziosi, delle statuette d'avorio, delle pezze di seta, poi dei recipienti d'argento di varie forme e finalmente una superba anfora d'oro, finemente cesellata ed incrostata di pietre preziose. - Fedoro! - esclamò. - Un regalo da sovrano. È meravigliosa! Vale una fortuna! - Che non è destinata alle nostre tasche, Rokoff. - disse Fedoro. - Se ce la mandano in regalo! - Ma essendo l'oggetto più prezioso, non possiamo accettarlo. Il cosacco lo guardò con uno stupore facile a comprendersi. - Lo dici per scherzo? - chiese. - Sing-Sing si degna di trattarci da amici e come tali non dobbiamo abusare della sua generosità. Che cosa vuoi, mio buon Rokoff? Siamo in Cina e dobbiamo uniformarci agli usi del paese. - Che generosità pelosa! - gridò il cosacco sdegnosamente. - Da negoziante e soprattutto cinese. Metti l'anfora da una parte. - Un così bell'oggetto regalato! Se l'avessi io, mi comprerei cento cavalli, ma che dico? Parecchie centinaia. Ah! E non si mangia qui? - Aspettiamo prima la visita di Sing-Sing. Non si farà aspettare. Fedoro aveva pronunciato quelle parole, quando il maggiordomo entrò per la terza volta, annunciando il padrone. Un momento dopo Sing-Sing, il più ricco negoziante di tè della capitale dell'impero, entrava nella stanza.

Comincio ad averne abbastanza della Mongolia. - Ed io pure - disse Rokoff. - Speriamo che non trovi anche là qualche principessa che s'innamori della mia barba rossa. - Ci guarderemo dall'accostare i tibetani, molto più pericolosi dei calmucchi, non vedendo volentieri gli stranieri sul loro territorio. Se volete andare a riposarvi, fatelo pure; veglierò io assieme al macchinista. - Non vi fermerete in qualche luogo? - chiese Fedoro. - Domani, quando avremo raggiunto il deserto. - Allora possiamo tenervi compagnia - disse Rokoff. Lo "Sparviero" filava colla velocità d'un uccello, costeggiando l'acquitrino che si estende al sud di Turfan e muovendo verso la piccola catena dei Chacche-tag. Alla mezzanotte gli aeronauti si libravano sopra Toksun, piccola fortezza mongola, occupata da un presidio cinese per frenare le tribù nomadi del deserto che esercitano, su vasta scala, il brigantaggio contro le carovane degli zingari. All'alba il lago di Bagratsch-kul era già in vista e le sue acque salate assai scintillavano, come bronzo ardente, ai primi raggi del sole. È un bel bacino, di forma molto allungata, formato dal Chaidagol e che ha, a poca distanza, delle cittadelle molto importanti e popolose, assai frequentate dalle carovane. Al pari di tanti altri, del Tibet specialmente, è tenuto in molta venerazione e nelle sue acque vengono gettate le ceneri dei defunti, credendo gli abitanti che giungano più presto nel paradiso di Buddha. Lo "Sparviero" rasentò per alcune miglia le rive orientali, poi continuò la sua corsa verso la piccola catena dei Kuruk-tag, entrando poco dopo il mezzodì nello Sciamo occidentale, molto più sabbioso, più brullo e più pericoloso di quello orientale, in causa dei venti impetuosi che soffiano dagli elevati altipiani del vicino Tibet. Non è però arido quanto il Sahara, avendo dei laghi di estensione considerevole, come il Lob-nor che si trova ad un'altezza di settecentonovanta metri sul livello del mare ed il Tustik-dum, ed anche un fiume di largo corso che lo attraversa dal sud al nord, il Darja, senza contarne altri minori. Sabbie se ne vedevano dappertutto e sempre irrequiete. I venti del Tibet le sollevavano in ondate e cortine e talvolta in colonne immense, roteando su se stesse e le cui cime toccavano di frequente anche lo "Sparviero", quantunque questo si mantenesse ad una altezza di quattrocento metri. - Come è brutto questo deserto - disse Rokoff che lo guardava con una certa curiosità. - Non è allegro di certo - rispose il capitano, che gli stava vicino, tracciando delle piccole croci rosse su una carta geografica. - In tre giorni e anche meno lo attraverseremo e ci slanceremo sugli immensi altipiani del Tibet. - E mi pare che non faccia nemmeno caldo qui. - Ci troviamo a milleduecento metri sul livello del mare. - Ditemi, capitano, è vero che sulle rive dei fiumi che attraversano lo Sciamo si trova molto oro? - Tutta l'Asia centrale e specialmente la Cina ha miniere ricchissime, forse più che l'America e l'Australia. - E non si lavorano? - Voi dimenticate che la Mongolia appartiene all'impero cinese. - E che cosa volete dire con ciò? - chiese Rokoff. - Che il governo imperiale proibisce severamente ai suoi sudditi di lavorare sia le miniere d'oro, che d'argento e di mercurio. - E per quali motivi? - Per non togliere braccia all'agricoltura e anche per evitare disordini. Ogni minatore sorpreso a cercar l'oro, qui come in Cina, senz'altro viene decapitato. - Oh! gli stupidi! Eppure la Cina non è molto ricca in fatto di monete d'oro e d'argento. - Lo so e anche l'Imperatore ricaverebbe immensi vantaggi se levasse la sciocca proibizione. Ciò non impedisce però che nella Mongolia, la quale è prodigiosamente ricca di miniere, talune vengono lavorate di nascosto. I minatori per far ciò devono riunirsi in bande numerose e bene armate, onde tener testa alle truppe che il governo non esita a mandare contro di loro per catturarli e decapitarli. Si può anzi dire che buona parte delle ribellioni interne avvengono precisamente per la lavorazione delle miniere, essendo i minatori costretti ad inalberare il vessillo della rivolta. Sono per lo più banditi, bene armati, che non s'accontentano solamente di frugare le viscere della terra, saccheggiando anche le vicine regioni per provvedersi gratuitamente dei viveri necessari. - All'incirca come i primi minatori californiani e australiani - disse Fedoro. - Anche essi, prima della proclamazione della famosa legge di Lynch, derubavano tutti. - Peggio ancora - disse il capitano. - Non sono molti anni, precisamente in queste regioni, un cinese, e ve ne sono molti che sono dotati d'una capacità straordinaria per trovare i giacimenti auriferi, regolandosi, a quanto si assicura, sulla conformazione delle montagne e sulle piante che vi crescono, scopriva una ricchissima miniera. Sparsasi la voce, in pochi giorni diecimila banditi si radunavano per sfruttarla. Mentre però la metà di quei minatori passavano al crogiuolo i quarzi che contenevano oro in abbondanza incredibile, l'altra metà devastava i dintorni saccheggiando mezzo regno d'Uniot, che allora era tributario della Cina. Per due anni lavorarono estraendo tali ricchezze, che l'oro in tutta la Cina diminuì la metà del suo valore. - Che miniera! - esclamò Rokoff. - Saranno diventati tutti ricchissimi costoro. - No, finirono invece tutti male - disse il capitano - e in causa dei loro continui saccheggi e dei loro disordini. Il loro numero era così aumentato, che il re d'Uniot non osava assalirli, malgrado i reclami dei suoi sudditi e anche della Cina; ma un giorno costoro ebbero l'imprudenza di fermare la regina mentre stava attraversando una vallata per recarsi a pregare sulla tomba dei suoi avi e di depredarla di tutte le gioie che aveva indosso. - Si vede che non erano ancora contenti dell'oro che estraevano - disse Rokoff. - E fu la loro rovina, perché il re, indignato, mosse contro di loro, aiutato da buon nerbo di cavalleria tartara e ne fece un orribile macello. Essendo alcuni riusciti a fuggire e riparare entro la miniera, i tartari turarono tutte le uscite e poi li affumicarono. Per alcuni giorni si udirono le urla e i gemiti di quei disgraziati, che erano racchiusi in parecchie migliaia, poi a poco a poco si spensero, finché il silenzio regnò assoluto. - L'oro non aveva portato fortuna a quei minatori. - Nemmeno ai pochi che erano caduti vivi nelle mani dei vincitori; furono fatti tutti accecare per ordine del re. E ora, se volete, signor Rokoff, andate a lavorare le ricche miniere dell'impero cinese. Per parte mia vi rinuncio, preferendo conservare i miei occhi e anche la testa.

. - Non ne hanno ancora abbastanza. - Ritenteranno l'assalto - rispose il capitano. - Non è la prima volta che il mio "Sparviero" viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m'hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m'hanno lacerata tutta la seta dell'ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America. - Sono ben coraggiose - disse Fedoro. - Il mio macchinista porta ancora la traccia d'un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l'avrebbero portato via. - Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? - chiese Rokoff. - Degli adulti no, ma dei ragazzi sì - rispose il capitano - Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità. - E anche dei fanciulli? - Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s'accorgono della presenza di qualche aquila. - Signore, tornano - disse il macchinista. - Ancora? Sono cariche le vostre armi? - chiese il capitano. - Sì - risposero il russo e il cosacco. - Mirate le ali. Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione. Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante. - Sono a buon tiro! - gridò il capitano. I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

. - Ne ho anch'io abbastanza di questa caccia. - Uscire! - esclamò Rokoff. - Lo potremo noi? Guardate, signore, e ditemi come potremo fare a tornare lassù.

Ci fu fra di loro un silenzio abbastanza lungo e anche molto imbarazzante, poi il Lama riprese, facendosi coraggio: - È il grande Buddha che vi ha detto di scendere fra i fedeli del TengriNor? - Sì - rispose prontamente Fedoro, con calma imperturbabile. - Il possente Dio ci aveva pregato di venire a visitare i conventi del lago sacro. - Perché siete discesi fra le acque invece di prendere terra dinanzi al nostro monastero? - Perché lo spirito del male aveva scatenato contro di noi i venti e le folgori, onde impedirci di compiere la nostra missione. - Noi vi avevamo veduti ieri sera lottare contro la tempesta avvolti fra una luce intensa, abbagliante. Buddha illuminava il vostro grande uccello per guidarlo anche fra le tenebre. - È vero - disse Fedoro - ma il genio del male pareva che in quel momento fosse più forte di noi e chi sa dove ci avrebbe spinti se noi non ci fossimo lasciati cadere fra le onde del lago. - Voi non eravate soli. - No, avevamo altri due compagni. - Dove si sono recati costoro? - A visitare i monasteri del settentrione. - Andrete poi anche a Lhassa? - Dobbiamo visitare il Dalai-Lama - rispose Fedoro. - Siamo incaricati d'una missione per lui. - Da parte del grande Buddha? - Sì. - Si lagna dei suoi fedeli? - È anzi soddisfattissimo, ma desidererebbe che i pellegrinaggi diventassero più numerosi e più frequenti. - La colpa non è nostra, bensì dei briganti che infestano i passaggi degli altipiani. - Buddha li sterminerà certamente - disse Fedoro. - È già stanco delle innumerevoli scelleratezze che compiono quei miserabili e abbiamo anzi già ricevuto l'ordine di farli divorare, dove li incontreremo, dal nostro terribile uccello. - Deve essere terribile quel mostro - disse il Lama, mentre un brivido di terrore lo faceva sussultare. - Divora cento uomini cattivi al giorno e con pochi colpi delle sue ali abbatte dei villaggi interi. Quattro giorni or sono ha distrutto un covo di banditi, bruciandolo completamente. - Ha il fuoco nel ventre? - chiese il Lama stupito. - Vomita fiamme che nessuno può spegnere. - Quanta potenza vi ha dato Buddha! Dove risiede ora il nostro Dio? - Sta pregando sulla vetta del Tant-la. - E quando tornerà a mostrarsi ai suoi fedeli? - Deve compiere ancora molte incarnazioni, prima di tornare uomo - rispose Fedoro sempre imperturbabile. - Forse fra mille anni si degnerà di mostrarsi sulle acque del Tengri-Nor, montando un uccello simile al nostro, ma cento volte più grande. Tremino allora i cattivi, gli empi. Tutti verranno distrutti dal fuoco del suo mostro e dannati per tutta l'eternità a cucinare nel lago di Boracee sotto forma di scorpioni. - Basta, Fedoro - disse Rokoff, il quale non comprendeva nulla. - Domanda se ha una cena da offrirci e del fuoco per asciugarci. Questo monastero è freddo come una ghiacciaia. - Stiamo discutendo su Buddha. - Me ne infischio io del loro Dio color della terracotta. - Un po' di pazienza. Il Lama li lasciò parlare, poi riprese: - Non parla il cinese, il vostro compagno? - No - rispose Fedoro. - Egli non conosce che la lingua che si parla sulle montagne della luna, dove si trovano i Lama della Mongolia, che si sono guadagnati il nirvana. - Desidera qualche cosa? - Si lagna d'aver fame e freddo e di essere ancora bagnato. - Potevate dirlo prima. Tutto ciò che si trova nel mio monastero è a disposizione dei figli prediletti del grande Buddha. S'accostò a un piccolo tam-tam e fece vibrare due volte il disco metallico. Il monaco che aveva la collana entrò, inchinandosi fino a terra. Il Lama scambiò con lui alcune parole, poi si volse verso i due europei, dicendo: - Seguitelo e avrete cena, fuoco e da dormire. Io intanto approfitterò del vostro riposo per avvertire del vostro arrivo il Bogdo Lama del monastero di Dorkia. - Pare che non sia questo quello di Dorkia - pensò Fedoro. - Purché non ci invitino a recarci colà! Mi spiacerebbe che il capitano non ci trovasse più qui. S'inchinarono dinanzi alla statua di Buddha e seguirono il monaco che aveva staccato dalla volta una lanterna. Al di fuori li attendevano gli altri cinque monaci, pure muniti di lampade. Rifecero parte del corridoio, poi salirono una scala a chiocciola che doveva condurre ai piani superiori ed entrarono in un'altra stanza, più vasta di quella di prima, egualmente tappezzata e illuminata e fornita d'un caminetto dove ardeva un allegro fuoco. Nel mezzo vi era una tavola, molto bassa, e all'intorno dei comodi divani. I sei monaci, con cenni, invitarono i due europei a sedersi, poi uscirono per rientrare poco dopo portando dei vasi e dei tondi d'argento, finemente cesellati, e dei bricchi col collo assai lungo e molto artistici. - Che ci sia da mangiare, lì dentro? - chiese Rokoff. - Certo - rispose Fedoro. - Se questi monaci ci lasciassero ora soli! Non mi piace che vedano come mangiano i figli della luna o del cielo. - Li pregherò di andarsene, quantunque non capiscano una parola di cinese. - Mandali via con una spinta; capiranno meglio. - Oh! Rokoff! Dei figli di Buddha che maltrattano i loro adoratori! ... I monaci continuavano a portare vasi, tondi, recipienti, chicchere, bricchi, coprendo tutta la tavola. Fedoro li lasciò fare, poi con una mimica molto espressiva, indicò loro la porta. Fu subito compreso perché i monaci, dopo un altro e più profondo inchino, se ne andarono non senza manifestare però un certo stupore che non sfuggì al russo. - Probabilmente avevano ricevuto l'ordine di servirci - disse a Rokoff, il quale, per non venire più disturbato, aveva spinto un divano contro la porta. - Ne faremo senza - rispose il cosacco. - Quelle facce smorte m'avrebbero fatto perdere l'appetito. Sai che son ben brutti questi tibetani, specialmente quando caccian fuori le loro lingue d'appiccati? Ora che siamo soli, asciughiamoci un po'. Credo di avere dei pezzi di ghiaccio dentro la camicia. Stava per spogliarsi, quando Fedoro gli mostrò parecchie tonache di feltro pesantissimo, che parevano affatto nuove e che si scaldavano presso il caminetto. - Devono averle portate per noi - disse. - Getta via le tue vesti e indossa queste. Ti troverai meglio. - E tu? - Io faccio altrettanto. To'! Vi sono anche delle camicie di seta e delle calze. Questi bravi monaci hanno pensato a tutto. Vedo anche delle scarpe somiglianti a quelle dei cinesi. - Allora lascia i tuoi stivali, che spandono acqua da tutte le parti. - È il ghiaccio che si fonde. Ma ... per le steppe del Don! Che figura faremo noi vestiti da monaci! - Superba, Rokoff - disse Fedoro, ridendo. - Tu poi, colla tua statura e colla tua lunga barba rossa, diverrai maestoso. D'altronde, dei figli di Buddha vestiti all'europea non devono ispirare fiducia agli abitanti di questa regione. - Ah! Siamo figli di Buddha! - Non so ancora quale posizione veramente noi occupiamo, ma altissima di certo, al rispetto che ci dimostrano questi monaci. - Diventiamo allora buddisti - disse Rokoff. - Dopo tutto, una religione vale l'altra. Si riscaldò alla fiamma del caminetto, indossò una superba camicia di grossa seta cruda, infilò le calze e le scarpe e si cacciò dentro a una tonaca ben calda, mandando un lungo sospiro di soddisfazione. - Come ti sembro? - chiese a Fedoro, che faceva altrettanto. - Tu farai morire d'invidia tutti i Lama dei monasteri - disse il russo. - Che aspetto imponente! Sei un magnifico superiore, parola d'onore. - To'! un'idea! - Parla, Rokoff. - Se chiedessi un monastero? A un figlio, o segretario, o messo di Buddha non si dovrebbe negarlo. - Penseremo a questo dopo la cena. - Mille fulmini! Mi dimenticavo che ho il ventre vuoto. Speriamo di trovare in questi recipienti qualche pezzo di jack o un prosciutto d'orso. Ho udito narrare che i monaci mangiano bene. - Uhm! della carne! Non ne troverai, mio povero amico. - Eh! Forse che i Tibetani vivono d'erbe cotte? Rinuncio fin d'ora a diventare il superiore d'un convento. - Come vuoi che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l'anima di tuo padre, o di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana. - Non ti capisco, Fedoro - disse Rokoff. - Ignori dunque che i buddisti credono che l'anima d'un defunto s'incarni subito nel corpo d'un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto, magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno qualunque di quegli animali o insetti. - Sicché qui le bestie si lasciano vivere. - Finché muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo, allora, e non tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni. - Al diavolo i buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi? - Vediamo, Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli. - Procediamo a una visita e facciamo la scelta. Alzarono i coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d'argento e il cosacco dovette convincersi che non v'era nemmeno l'ombra d'una costoletta o tanto meno del sospirato pezzo d'arrosto. Vi erano invece delle salse di tutti i colori, dell'orzo bollito nel latte, dei pasticci pure d'orzo, delle erbe di varie specie, condite con certe poltiglie nere. In un grande piatto d'argento scoprirono però un magnifico pesce che nuotava in una certa materia trasparente e gommosa. - Che questo abitante delle acque non contenesse l'anima di nessun buddista? - chiese Rokoff. - Hanno fatto forse un'eccezione a noi - rispose Fedoro. - E noi mostreremo che i figli di Buddha non sdegnano i pesci. Che cosa sarà poi questa salsa? - Sarà impossibile saperlo. Assaggia, amico Rokoff. - Non è cattiva, almeno alla mia bocca. - Allora divoriamo, finché si scalda l'acqua del tè. Il pesce scompare ben presto, quantunque dovesse pesare almeno quattro chilogrammi, poi a poco a poco sparirono anche le focacce e l'orzo al latte e finalmente anche le salse. Otto o dieci chicchere di tè squisito, finirono quella cena che era meno cattiva di quanto dapprima i due europei avevano creduto. - Peccato non aver con me la mia pipa e la mia borsa di tabacco - disse Rokoff - Non si fa uso qui di tabacco - rispose Fedoro. - Avrebbero dovuto portarci almeno qualche bottiglia di vino. - Non si conosce qui il vino; fanno però molto uso d'acquavite d'orzo che bevono tiepida e non so davvero perché non ce l'abbiano portata. Bah! Quando verrà il capitano vuoteremo una bottiglia di più. - Chissà quando tornerà, Fedoro. Il vento deve averlo trascinato molto lontano; non poteva più resistere. - E che le ali non siano state spezzate, mio caro Rokoff. - Sarebbe stato meglio. In tal caso non sarebbe caduto molto lontano. Mi rincrescerebbe però assai che fosse toccata qualche disgrazia a quel valoroso aeronauta. - Io non ho alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere felicemente terra - rispose Fedoro. - Con una simile macchina e così perfetta, si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo ritornare a riprenderci. - Avrà osservato dove siamo caduti? - Come noi abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi. - Seguo il tuo consiglio - rispose il cosacco. Si sdraiarono sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto. Il loro sonno fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece balzare in piedi. - Che sia già l'alba? - si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi. - No, la fiamma non si è ancora spenta - disse Fedoro. - Che cosa vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero? - Ci invitano ad aprire. - Che sia giunto il capitano? - Uhm! Non odi il vento ruggire al di fuori! - Allora li mando a quel paese. - No, non guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente. Il cosacco allontanò il divano e aprì la porta. I sei monaci, ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli - Cominciano a diventare noiosi coi loro inchini - disse Rokoff. - Sarebbe stato meglio se ci avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono? - Non ne so più di te - rispose Fedoro. - Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa di nuovo che ci riguarda. - Che ci conducano ancora da quella mummia vivente? - Lo vedremo, Rokoff. Seguirono i monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi era la statua di Buddha. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio. - Ci mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di terracotta - disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. - Che questi monaci invece di dormire passino le notti pregando? Il Lama, vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro: - Preparatevi a partire. - A partire! - esclamò il russo, sorpreso. - E per dove? - Pel monastero di Dorkia. - A che cosa fare? - Il Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi. Fedoro aggrottò la fronte, fingendosi indignato. - Noi non siamo i servi del Lama di Dorkia - disse con voce acre. - Perché non viene lui qui? - Io non posso altro che obbedire - rispose il monaco. - È mio superiore, comanda a tutta la regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi guerrieri e farci tutti prigionieri. - Noi dobbiamo aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni. - Se tornano, dirò loro che siete nel monastero di Dorkia - rispose il Lama. - Ce lo promettete? - Ve ne dò la mia parola. - Come andremo noi a quel convento? - Il Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta. - Chi l'ha avvertito che noi siamo scesi qui? - Su tutte le spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la regione montati su un'aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende. Fedoro tradusse a Rokoff l'esito di quel colloquio, non senza celargli le sue apprensioni. - Se ci rifiutassimo? - chiese il cosacco. - Il Lama di Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza. Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle migliaia? - Sicché non ci rimane che obbedire. - Purtroppo Rokoff. - Ah! Diavolo! Mi pare che quest'avventura s'imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri? - O fare di noi dei Buddha viventi? - disse Fedoro. - Prenderemo a pugni il Lama e i suoi monaci. - Dunque? - chiese il vecchio, con una certa ansietà. - Siamo pronti a seguire la scorta - rispose il russo. Avremmo però desiderato fermarci presso di voi alcuni giorni. - E io sarei stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero - rispose il monaco, con un sospiro. - Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di pellegrini, colla vostra presenza. Accompagnò i due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle loro tonache, dicendo: - Spero di rivedervi presto: che il grande Buddha, vostro padre, vegli su di voi. - Vi promettiamo di tornare - rispose Fedoro. - Non dimenticatevi però di avvertire i nostri fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia. - Saranno miei ospiti. La scorta mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini d'aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi, animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere né gli aspri sentieri di quelle orribili montagne, né i freddi intensi degli altipiani. Due cavalli più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli di Buddha. Il comandante della scorta, un montanaro d'aspetto imponente, con un barbone che gli saliva fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a loro, disse in cinese: - Ricevete fin d'ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente onorato d'ospitarvi. Poi li condusse verso i cavalli, invitandoli a salire. I cavalieri intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne dei loro moschettoni. - Decisamente noi stiamo per diventare personaggi celesti - disse Rokoff, accomodandosi sulla larga, ma anche molto dura sella del cavallo. La scorta si era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro su due file. La notte era orribile, essendo l'uragano tutt'altro che cessato. Un vento impetuosissimo e così freddo da far tremare persino i cavalli, nonostante il loro villoso mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti dai ghiacciai. Il lago, che lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile. Montagne d'acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole, rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine di spuma fino addosso ai cavalieri. Sopra, l'immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce. - Bella notte, per farci fare un viaggio - disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero della sua tonaca. - Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta la carne del mio volto. - Non mi stupirei se ciò ti toccasse - rispose Fedoro. - Certe volte i venti acquistano una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del vento tibetano. - Il Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo viaggio. Aveva paura che scappassimo? - Io sospetto invece qualche cosa d'altro. - Ossia? - Che temesse che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che noi eravamo tornati in cielo. - Che questi signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri? - Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d'un uccello. - E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente? - Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna. - Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff. - Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano. - Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri? - Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto. - E se fosse morto? Fedoro non osò rispondere. Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor. I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri. Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini. Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore. Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente. I cavalli s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone. Giunti dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor. - Dorkia - disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo- Lama vi attende.

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