Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Questioni politico religiose

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Ora, egli avviene quello che noi vediamo co' nostri occhi, che il partito più violento si compone di quegli uomini che non hanno religiose credenze, o non ne hanno abbastanza per raffrenare le loro passioni, l' orgoglio sopratutto, e lo spirito di dominazione. Questi arditi brigatori e faccendieri sono temuti oltremodo per la loro attività sempre inquieta e intraprendente. I governi utilitari dunque si mettono dalla loro parte, fanno loro delle concessioni e così la fazione incredula riesce infine facilmente ad essere quella che più di tutti influisce nella formazione delle leggi e negli atti del governo stesso. Non avendo dunque gli utilitari un princìpio proprio, prendono i princìpii da quei partiti a cui s' associano, e il più delle volte ne' tempi nostri s' associano, come dicevamo, al partito irreligioso, che essendo più violento, facilmente è stimato anche il più forte. Nel che va spesso errato il calcolo degli utilitari, calcolo difficilissimo a farsi bene. La libertà di coscienza dunque degli utilitari, o è una promessa che non viene mantenuta, come quella de' due sistemi precedenti, o è una libertà effimera e accidentale, perché è quella, né più né meno, che viene loro imposta dai partiti su cui s' appoggiano. Riassumendo, tre sono dunque le false ed incoerenti interpretazioni del princìpio della libertà di coscienza: 1) Quella de' legali che definiscono la libertà di coscienza, la libertà di fare quegli atti religiosi, che non sono proibiti dalla legge civile; 2) Quella de' così detti filosofi, che definiscono la libertà di coscienza, quella che consiste nell' ateismo della legge; 3) Quella degli utilitari, che non amano definizioni, e che perciò non hanno definizione alcuna, ma consiste in promettere, quando torna conto, libertà di coscienza, e poi governare secondo l' opportunità a seconda di quel partito, qualunque sia, in cui si credono consistere la forza maggiore. Con l' aver noi indicate queste tre principali contraffazioni della libertà di coscienza, noi abbiamo risposto negativamente alla nostra questione. Ma crediamo d' aver fatto con ciò solo buona parte del cammino. Poiché il lettore, rimosse quelle libertà di coscienza illusorie, facilmente può da se stesso arrivare a trovare in qualche modo la libertà vera che andiamo cercando. Pure per approfondire e sviluppare da' suoi diversi lati il vero concetto della libertà di coscienza, dovremmo metterci in altre questioni che con questa della libertà di coscienza si complicano; il che ci proponiamo di fare in appresso. Per ora ci contenteremo di conchiudere indicando i due caratteri principali che deve presentare il vero sistema della libertà di coscienza, i quali sono: 1) Che la legge civile non s' opponga mai né direttamente né indirettamente alla coscienza religiosa dei cittadini; 2) Che la libertà di coscienza conceduta dalla legge civile sia tale e tanta, quale e quanta può essere acciocché la legge non si contraddica. Questi caratteri essenziali riceveranno lume e sviluppo dalla trattazione delle seguenti questioni. Che i cittadini sieno uguali davanti alla legge è princìpio santissimo. Ma noi abbiamo veduto già, rispondendo alle questioni precedenti, quanti equivoci si possano prendere intorno all' intelligenza dei princìpii. La loro universalità, quel ch' è più, e le parole indeterminate con le quali s' esprimono, danno luogo a varie interpretazioni delle quali una sola è vera e l' altra è falsa. Al nostro tempo non mancano i princìpii, ma le società civili sono tuttavia sofferenti e non trovano riposo, perchè i princìpii si sono divulgati senza darsi cura di determinarne esattamente il valore. Laonde, i partiti appassionati ed irreligiosi, approfittandosi sofisticamente della loro indeterminazione, se ne prevalsero per ingannare ugualmente i popoli ed i governi. Quello che resta a fare, e che è desiderabilissimo che si faccia da tutti, si è riprendere in mano i princìpii che già si sono dichiarati, rimovere da essi l' indeterminazione dei significati, fissarne il vero ed unico senso, rendendoli intelligibili alle moltitudini sin qui corbellate. Quando il popolo stesso intenderà il significato legittimo di quei solenni princìpii, che gli si fanno tuttodì risuonare all' orecchio come altrettante parole magiche, finirà il giuoco de' mariuoli, sieno questi governanti o demagoghi, e la società entrerà nella strada d' un vero e veramente umano progresso. « I cittadini sono uguali in faccia alla legge »: che cosa significa? Questo, al solito, non si dice mai. Tutt' al più si traduce quel principio in altre parole egualmente indeterminate, come a dire: « le leggi debbono essere uniformi per tutti i cittadini ». La indeterminazione tanto dell' una quanto dell' altra formola, per poco che si considerino, è manifesta. La prima, dicendo che i cittadini debbono essere eguali in faccia alla legge, non dichiara in che consista quest' eguaglianza, e pure c' è indubitatamente una disuguaglianza anche in faccia alla legge: perché la legge stessa non giudica eguale colui che è innocente e colui che è ladro; ma mette in carcere questo secondo e lascia in libertà il primo: e così essa pronunzia, che questi due cittadini non sono eguali in faccia a lei. La seconda formola dice che le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini; e qui del pari resta indeterminato di quale uniformità si parli. Infatti, se si prendesse la cosa alla lettera, tutti i cittadini dovrebbero essere soggetti a tutte le leggi; e così ne verrebbe l' assurdo, che le leggi civili non potessero essere fatte mai per una singola classe di cittadini, e che riguardassero soltanto a quello che hanno di comune e di uguale tutti affatto i cittadini. Si dirà, a cagion d' esempio, che le leggi fatte per regolare l' agricoltura, sieno uniformi tanto per gli agricoltori quanto per quelli che né lavorano, né posseggono terreni? O che le leggi che regolano l' esercizio della medicina debbano valere anche per quelli che non sono medici, e perciò non sono uniformi per tutti i cittadini, ma riguardano solamente una classe di essi, e tengono conto della disuguaglianza delle altre classi? Essendo tutto questo assurdo, è evidente per lo contrario, che gli indicati princìpii sono nelle loro espressioni indeterminati, e che involgono dell' incertezza nel modo in cui si possono intendere. Or bene, eccovi lo spirito d' irreligione e di sofisma che abusa di questa indeterminazione, e che si prevale di essa per condurre i legislatori e le leggi a favorire l' empietà, e a vessare ingiustamente i cittadini che professano la religione. Invece di fare quel che c' era da fare, cioè spiegare prima di tutto e determinare bene il senso di quelle formole, i filosofi politici, animati da quello spirito, ne deducono francamente la conseguenza che la legge civile non debba aver nessun riguardo a quelle differenze che nascono tra' cittadini dal professare alcuni una religione e alcuni un' altra, e alcuni nessuna religione, argomentando così: Le leggi civili debbono essere uniformi per tutti i cittadini. Ma non potrebbero essere uniformi, se esse tenessero conto delle diverse comunità religiose, e provvedessero a ciascuna di esse in separato, quando volgono relazioni con oggetti religiosi. Dunque le leggi civili, benché involgano relazioni con oggetti religiosi, debbono essere uniformi per tutti i cittadini, qualunque religione professino o non professino. Su questa argomentazione si fondò da' filosofi politici, noi lo vedemmo nelle questioni precedenti, la teoria del matrimonio civile. Dovendoci essere, a giudizio di costoro, delle leggi anche sul matrimonio uniformi per tutti i cittadini, ne venne di conseguenza che la legge dovesse stabilire un matrimonio estraneo ad ogni credenza religiosa; e in tal modo s' ottenesse in Francia (che ebbe però assai pochi imitatori) di stabilire per tutti, anche per la gran massa dei cittadini che non hanno rinunziato alla fede, cioè per la immensa maggioranza, quello che a tutta ragione si può definire: « Il matrimonio privilegiato de' pochi increduli ». La legge civile infatti non riconosce altro matrimonio. Così questa legge uniforme, favorevole esclusivamente agli increduli, e gravosa, ingiuriosa ed ostile a tutti gli uomini religiosi, pei quali il matrimonio è sacro, costituisce un vero privilegio sotto coperta d' uniformità. Que' filosofi dunque e que' legislatori, che credono di avere stabilito un argomento insuperabile nel sillogismo testé riferito, non s' accorgono e non vogliono accorgersi dell' incoerenza, in cui poi cadono, quando nella formazione dell' altre leggi non seguono più quel principio d' uniformità, inteso in un modo così assurdo. Poiché, riducendo, la questione alla sua generalità, noi domandiamo loro: si devono o non si devono osservare dal legislatore nella formazione delle leggi le differenze che dividono i cittadini in classi distinte? Se rispondono di sì, perché dunque pretendono che le leggi non abbiano riguardo alle differenze religiose, che pur dividono anche esse in differenti classi i cittadini? Se rispondono di no, perché dunque nella formazione di moltissime leggi hanno essi continuamente riguardo alle differenze che distinguono appunto i cittadini in diverse classi? E, per vero dire, sono assai poche quelle leggi che riguardano tutti egualmente i cittadini. Queste si riducono unicamente a quelle che non hanno altro oggetto se non l' uomo o il cittadino, senz' altra considerazione. Ma tutte l' altre leggi regolano e dispongono di condizioni speciali de' cittadini, e però riguardano esclusivamente certi gruppi di essi, gruppi o classi formate da certe loro differenze, a ciascuna delle quali ha minuto riguardo la legge. La legge civile, a ragion d' esempio, considera la differenza dell' età; quindi attribuisce diritti ed obblighi diversi alle diverse età; attribuisce ai minori d' età obblighi e diritti diversi che ai maggiori; punisce meno severamente quelli che non hanno passato un certo numero di anni di quelli che l' hanno passato; classifica dunque i cittadini secondo la differenza dell' età, e non pretende che le stesse leggi valgano per tutti ugualmente. La legge civile considera la differenza di sesso, e molte leggi ci sono che, fatte per l' uno dei due sessi, non possono valere per l' altro. Attribuisce ai maschi doveri e diritti civili e politici, che non attribuisce alle femmine. La legge civile considera la differenza delle professioni e delle arti; e ciascuna classe de' cittadini risultante da queste differenze è regolata da leggi sue proprie. La legge civile considera la differenza del sapere; fa leggi pei professori, per gli scolari, per le accademie degli scienziati. La legge civile considera la differenza dell' avere i cittadini impiego o no dallo Stato, e tra gli impiegati distingue i civili dai militari; ciascun dicastero ha i suoi propri regolamenti e le sue leggi. La legge civile considera la differenza delle fortune, quella della nobiltà di stirpe o personale, e innumerevoli altre differenze, che sarebbe lungo d' annoverare. Se dunque la legge civile è obbligata a considerare per la necessità stessa del suo fine, tutte le altre differenze dei cittadini, perché non sarà obbligata a considerare la differenza della religione? Perché questa sola differenza sarà disprezzata e negletta dalla legge civile, e riguardo a questa sola si metterà avanti il principio che la legge civile deve essere uniforme per tutti i cittadini, e non limitata ad una sola classe di essi? Perché solo in questo caso si teme che, se la legge civile si limita ad una classe, ella costituisce un privilegio? Quasiché la massima parte delle leggi civili non fossero necessariamente fatte per classi distinte, o quasiché fosse un privilegio il dare a tutti il suo, e non fosse anzi privilegio la legge universale, quando riesca utile a pochi e dannosa ed offensiva a molti? Come se dovendosi decretare l' uniforme per un esercito si pretendesse che la misura dell' abito si dovesse desumere dalla statura minima assegnata al soldato, e ciò per non creare un privilegio a favore de' soldati di statura più alta. Certamente ci sarebbe in tal caso l' uniformità materiale della legge, e lo Stato non somministrerebbe più braccia di panno all' un soldato che all' altro; ma la legge non si rimarrebbe d' essere stoltissima, e costituirebbe veramente un ridicolo privilegio a favore dei soldati più piccoli. In un modo somigliante, se quelle leggi che involgono relazioni con le credenze religiose e con i doveri e diritti che procedono dalle medesime, si vogliono fare materialmente uniformi, e per ciò stesso riguardare come non esistenti le differenze religiose, si avranno leggi d' uguale stoltezza, ingiuriose ed offensive a tutti i credenti, e favorevoli ed utili a quei pochi che avessero totalmente rinunziato ad ogni fede religiosa, e che sarebbero i privilegiati. Forse si risponderà che il legislatore non considera la differenza della religione, perché egli non vuol perscrutare i pensieri e le opinioni degli uomini: che le differenze religiose non sono differenze esterne; e che le altre differenze a cui la legge ha riguardo, essendo esterne, sono tali che distinguono gli uomini secondo la vita sociale. Certamente non mancherà e non è mancato chi risponda a questa maniera. Ma si può egli credere che una tale risposta sia di buona fede? Quando sia così, ella ci rivela la più crassa ignoranza di ciò che costituisce una religione. E infatti le religioni non sono soltanto opinioni interne, benché le interne e invisibili credenze ne sieno il fondamento: come anche in ogni altr' ordine di cose le interne opinioni e i sentimenti invisibili dell' animo sono il fondamento delle operazioni umane. Che cosa è dunque la Religione? La Religione è una credenza che produce un' esterna e visibile società; in ispecie la Religione Cattolica, l' unica vera e compiuta, è la grande società fondata da Gesù Cristo, la quale, oltre la fede, ha una organizzazione visibile, de' magistrati visibili, distribuiti in una certa gerarchia, e composta da un sorprendente numero di soci, sparsi sopra tutta la terra, che tutti si riconoscono come appartenenti al medesimo corpo sociale, aventi le stesse obbligazioni, gli stessi diritti, un culto esterno comune, un codice di leggi disciplinari, dei tribunali e dei giudizi. Tale è la Religione Cattolica. Incominciando dal simbolo, che è il segno esterno della fede, e che tutti sono obbligati di professare esternamente in faccia a tutti i governi civili, e anche a tutti i tiranni del mondo, sigillandolo con il proprio sangue, se l' empietà delle leggi civili a ciò li riduca: tanti altri sono i segni esteriori e visibili, tante le differenze profonde che separano questi credenti da tutti gli altri uomini, che presi insieme, tutti questi segni formano la maggiore e più complessa delle differenze esterne che possono mai separare una classe d' uomini da un' altra, una classe di cittadini da un' altra, né v' ha cosa che possa distinguere i cittadini tra loro, in tutta la loro vita e in tutte le loro abitudini, e in tutto il modo di operare, anche riguardante le cose umane, quanto questa credenza religiosa, da tutti quelli che la professano. Perché dunque il legislatore civile, che fa le leggi speciali per tante altre società di commercio e d' industria, società di lettere e di scienze, società di beneficenza e di carità, chiuderà poi gli occhi in faccia a questa sola, la più grande e la più importante di tutte, anche per gli interessi temporali, e dirà: Io non la vedo? Perché o affetterà d' ignorare o pretenderà d' essere obbligato a lasciar da parte una differenza così visibile, che è come città fabbricata sul monte, così luminosa, che è come il sole che illumina il mondo, una differenza che risulta da tanti doveri e diritti, costumi e azioni? Perché sarà così schifiltoso da adattare le sue leggi a questa immensa classe de' cittadini per non offenderla e danneggiarla con le sue leggi ne' più cari interessi di lei, e qui solo tutt' ad un tratto gli nascerà scrupolo di non forse creare a suo favore un privilegio, quand' egli pure adatta senza alcuno scrupolo, l' altre leggi all' altre classi e società, e tien conto, secondo il dovere, delle diverse condizioni in cui i cittadini si trovano, e delle varie loro differenze? Se la legge civile è istituita all' utilità de' cittadini, e non a soddisfare a chimeriche e incoerenti teorie, ella è obbligata certamente a rispettare tutti gli interessi religiosi dei cittadini medesimi; e quindi a considerarli, per non mettersi a cimento co' suoi ordinamenti di pregiudicarli. Non ha dunque il legislatore che due sole vie d' esser coerente a sé medesimo, o di proibire e condannare la Cattolica Religione (e lo stesso dicasi d' un' altra qualunque) o, ammettendole, di conformare ad essa le sue proprie leggi. Nel primo caso, non si parli dunque di libertà di coscienza; nel secondo caso soltanto questa libertà è salvata. La ragione dunque, che importa di necessità la coerenza, non si trova punto dalla parte de' legislatori di cui parliamo, e di cui è infetta l' Europa. Non è in un qualche ragionamento che si possa trovare il fondamento del loro sistema, ma nelle loro disposizioni d' animo e ne' loro istinti. Alcuni di essi non si persuadono che la Religione sia qualcosa di serio. Essendo essi indifferenti, o credenti freddi e trascurati, si persuadono che anche tutti gli altri cittadini non ne facciano gran conto, e sieno disposti facilmente a transigere, quando la legge civile viene a cancellare, se non direttamente, almeno le conseguenze, qualche linea del Codice religioso. Quindi, con tanto più piacere inseriscono nelle loro leggi qualche elemento d' empietà, inquantoché sembra loro con ciò di fare una bravata, e d' ostentare nello stesso tempo la potenza e l' autorità dello Stato, mettendola al di sopra delle cose divine ed umane. Schiavi del rispetto umano (segno di una gran debolezza di carattere morale), si mettono così al sicuro di non apparir troppo religiosi e un tantino increduli. E` questo un gusto delicatissimo alla loro vanità! Fatti uomini leggeri da questa loro tutta individuale disposizione (quando altramente potrebbero essere uomini serii), applauditi dagli increduli o settari di professione, a cui s' accordano tutti quelli che vogliono ficcarsi negli impieghi e procacciarsi onori governativi, con merito e senza merito, si trovano infine aver perduto totalmente di vista lo scopo vero della legge, la giusta e ragionevole soddisfazione di tutti i cittadini, per cui dovrebbe esser fatta. Costoro straziano i popoli e guastano le nazioni. Contro l' aspettazione poi, incontrano fermo ostacolo nelle coscienze, onde o sono rovesciati da' loro gradi, o, essendo scaltri e proteiformi, cedono senza convertirsi. Del resto, a coloro che s' immaginano poter le leggi civili indirettamente modificare la Religione Cattolica e abituare i cittadini cattolici a far senza di qualche suo articolo, come si tentò con il progetto di legge sul matrimonio civile, io direi: Disingannatevi; imparate a conoscere che cosa sia questa Religione: ella è un tutto solo, e questo è più duro del diamante: voi potrete con le vostre ugne graffiarlo quanto volete, ma non potrete farne saltare la più piccola scheggia, né manco un atomo. Infatti la Religione, per la sua propria essenza, o è tutto o è nulla: i cattolici lo sentono, e il volere che essi vi cedano un briciolo della loro religione, è impresa così pazza, come pretendere che ve la cedano tutta. E sta qui appunto un altro pregiudizio di certi civili legislatori: sono contrariissimi (a udire le loro proteste) a voler distruggere la Religione, ma si contentano che essa si adatti in qualche piccola cosa alle leggi civili dello Stato, e ciò per il pubblico bene. All' incontro la Religione Cattolica è di natura sua così inflessibile, sapete voi perché? perché è divina. Sembrando loro impossibile che la cosa sia così da vero, scherniscono come fanatici coloro che non si adattano alle loro voglie discrete. Ma tant' è: o conviene abolire il Cattolicismo con la legge civile, o conviene che questa legge s' inchini a lui riverente, lo rispetti in tutte le sue parti; se no, la legge cozzerà e si spezzerà contro lo scoglio: quelli che lo professano, il Cattolicismo, sanno d' essere in questo superiori alla legge civile, e superiori a tutta la forza da cui è circondata: poiché questa Religione è essenzialmente libera anche sotto il ferro, ed ella sola dà al suo seguace la vera indipendenza e il coraggio dell' uomo libero. Uno dei più grossolani equivoci è certamente quello che prende il volgo delle rivoluzioni, quando gli si fa risuonare agli orecchi la parola libertà . Per lui la libertà è la facoltà illimitata di fare tutto ciò che gli attalenta, di soddisfare agli impulsi delle sue passioni senza ostacolo d' alcuna autorità, di non essere obbligato ad alcun ordine nel suo operare. E` consentaneo che coloro i quali in un dato stato vogliono distruggere l' ordine stabilito, s' approfittino di questa viziosa disposizione d' una gran parte della plebe, e facciano risuonare a' suoi orecchi questa parola vaga di libertà, senza darsi alcuna sollecitudine di determinarla; anzi tenendola sempre a bella posta sull' indeterminato. Se ella venisse determinata ad un senso razionale, sarebbe finito l' incanto, e la magica verga si spezzerebbe nelle mani dei prestigiatori. Per questo è impossibile ragionare co' rivoluzionari di professione, e sperare di indurli a distinguere la libertà dalla licenza, considerando essi come mezzo opportuno al loro intento la confusione stessa de' concetti. Tutto questo non ci può sorprendere. Ma c' è una cosa che deve cagionare giustamente maraviglia, ed è, che non tutti quelli che prendono la licenza per la libertà , rivolgono per questo nell' animo di rovesciare i governi stabiliti: meraviglia ancor maggiore dee produre, che ce ne sieno degli altri che con quella confusione tanto volgare e tanto immorale credano di stabilirli; e sopratutto che anche non pochi di questi stessi che presiedono a' governi, almeno nella pratica, si mostrino di un tale avviso. Una persuasione così fatta genera una politica abbietta e dispregevole; si crede guadagnare al governo l' affetto del popolo abbandonandolo alla licenza e promovendola con mille modi indiretti sotto il magnifico nome di libertà; ma i governi immorali non solo si discreditano nell' opinione de' savi, ma il popolo stesso più si corrompe, e dispregia quel governo che gli fornisce i mezzi di corrompersi. Che se si cerca il fondo di questo sistema politico della licenza, si riconoscerà che i governi licenziosi, lungi dal mirare co' loro atti a stabilire la libertà, mirano veramente ad edificare il dispotismo: partono da una segreta persuasione che sia più facile dominare un popolo corrotto e sfibrato, a cui in pari tempo sia dato ad intendere che è libero, perché è libero il vizio di spaziare impunito, in parte anche onorato. Questa perfidia s' è più volte praticata tanto da' governi assoluti, quanto da' governi costituzionali e dalle Repubbliche, ché la forma del governo non impedisce punto che i governanti e i governi possano andar privi d' ogni moralità. Solamente che i primi non possono coprire la licenza sotto il mantello della libertà: è un previlegio de' secondi l' abusare ipocritamente di questa parola per trasformare il vizio in diritto pubblico. D' altra parte a questa maniera d' operare de' governi licenziosi, che per abuso di parole si dicono liberi, si rattaccano molte questioni: questioni di morale, questioni di diritto, questioni di religione e di politica. Che cosa è la licenza? - Ecco già una questione grave di morale, e può essere anco di religione, su cui si può disputare e si può non intendersi. Ha il governo civile il diritto di reprimere la licenza? o una qualche parte almeno di ciò che costituisce la licenza? - Ecco un' altra questione di diritto, che divide parimenti le opinioni. Può il governo reprimere la licenza, ogni licenza, senza mettere a rischio o la tranquillità o la sicurezza dello Stato? - Ecco una terza questione di politica, o di prudenza governativa, la cui soluzione varia indefinitamente secondo le indefinite circostanze in cui si trova la società civile. Ma qualunque sia la maniera di risolvere queste diverse questioni, conviene prima di tutto convenire in questo, che la licenza e la libertà sono cose diverse e che non conviene attribuire all' una il nome dell' altra, non conviene credere, o mostrare di credere, di far progredire la libertà quando si fa progredire la licenza. Ora la confusione delle idee nel mondo è pervenuta a tal segno, che su questo stesso è difficile ad intendersi « se esista della licenza », se differisca d' essenza dalla libertà, e l' una sia l' opposto dell' altra. Infatti, come possono concedere che si abbia una licenza opposta essenzialmente alla libertà, coloro che non riconoscono l' essenza della morale e tutto riducono ad un calcolo d' utilità? Egli è evidente, che agli occhi di costoro la licenza non può differire dalla libertà, se non per essere in certe circostanze inopportuna e disutile: non ci vedono costoro nessun male intrinseco ed assoluto: tutti credono dover valutare dagli effetti che la licenza produce. E da quali effetti? Non certamente da effetti moralmente buoni, o moralmente cattivi, ché la questione si volgerebbe in circolo, ma dagli effetti piacevoli o dolorosi, da vantaggi o svantaggi temporali, i quali si possono avere nella vita presente, da effetti utili e disutili alla potenza del governo e all' economia pubblica. Egli è dunque evidente che per tutti quegli uomini che non riconoscono la Morale, e non vedono altro che l' utilità e la disutilità nelle azioni umane, non ci può essere azione alcuna che non sia essenzialmente licenziosa e assolutamente malvagia. Epperò, se costoro hanno in mano le redini de' governi, non possono avere scrupolo a promulgare leggi licenziose e a pretendere disposizioni immorali, quando ci trovino il tornaconto, o credano secondo il loro calcolo di trovarcelo: né si può entrare con cotestoro in discussione su ciò, perché disconoscono la prima e fondamentale distinzione del bene e del male, sulla quale s' appoggia la dignità e la nobiltà del vivere umano e la sua viltà e ignobilità. Il nostro discorso adunque non può indirizzarsi a questi. Altro non possiamo dir loro, se non: ritornate ad essere uomini: se il vostro imbrutimento nasce da errore d' intelletto, istruitevi e vi sarà facile convincervi, che esiste una morale che non è l' utilità, e che quella è d' un valore assoluto, a cui niun vantaggio temporale è comparabile. Se poi, rinunziando alla morale, avete rinunziato anche alla ragione, e negate l' autorità morale unicamente perché non la volete, non ho alcun rimedio a suggerirvi; il libero arbitrio appartiene a voi, non a me; ma a chi ve l' ha dato appartiene il dimandarvene conto. Vi fo soltanto riflettere, che, se voi negate l' esistenza della legge morale e di una conseguente obbligazione morale, abdicate tutti i suoi diritti. Poiché come potete imporre altrui la obbligazione di rispettarli, quando negate ogni obbligazione? Dovete dunque convenire che voi non avete più diritti, perché non esiste più la natura del diritto, quando non ci sia di contro l' obbligazione morale che lo protegga; né voi potrete più lamentarvi, che gli altri uomini seguendo la vostra dottrina si levino la vita, l' onore, la roba, ecc., ogni qual volta il calcolo dell' utilità (ché nessun altro può fare per essi) li consiglia di operare in questa maniera. Vi resterà la forza: ma n' avreste sempre abbastanza per difendervi? Questo è quello che è dubbioso, specialmente se la dottrina che voi professate sia abbracciata da chi è più forte di voi. Lasciati adunque da parte costoro, noi vogliamo ragionare, come abbiamo cominciato, con uomini onesti, di buona fede, che non solo riconoscono l' esistenza d' una morale, ma l' apprezzano al di sopra di tutte le cose. Esistendo agli occhi di questi l' autorità, superiore ad ogni autorità, della legge morale, esiste per essi l' obbligazione e il diritto, la virtù e il vizio, la libertà e la licenza. Con costoro si può dunque proporre e discutere la questione: « che cosa è la libertà, che cosa è la licenza? ». La libertà, per contrapposto alla licenza, non può essere che il libero esercizio di tutte le facoltà umane regolato dalla legge morale. La licenza all' opposto è bensì in qualche modo un esercizio delle facoltà umane, ma non regolato dalla legge morale, anzi a questa opposto. Tutto quello adunque che è vizioso nell' umana attività, è licenza e non libertà: tutto quello che è lecito e virtuoso, appartiene alla libertà. Questi princìpii non possono esser addotti in controversia da quelli che ammettono l' ordine morale, né sono mai stati dubbiosi pel senso comune. Se dunque noi vogliamo partire da questi semplici princìpii, ci riuscirà facile rilevare quale sia la natura dei governi liberali, e quale la natura de' governi licenziosi che fanno uso riprovevole del nome di libertà per venirci. Poiché que' governi, che con le leggi e con le loro disposizioni lasciano i cittadini liberi ad operare quanto naturalmente è lecito e buono, questi, qualunque sia la loro forma, o monarchia, o aristocratica, o democratica, o mista, sono a tutta ragione governi liberali, e quanto più li lasciano liberi a ciò e meno dànno loro impacci di leggi e di decreti, tanto più sono liberali. Que' governi all' incontro, di nuovo qualunque sia la loro forma, che nella formazione delle loro leggi, e in tutti i loro atti seguitano la massima, che c' è tanto più di libertà in un popolo, quanto maggiore gli si lascia facoltà, e maggiore gli si dà occasione di ubbidire alle passioni e di sfogarsi ne' vizi: que' governi, di conseguenza, che con le dette leggi ed atti stabiliscono quasi un diritto universale l' essere impunemente licenzioso (il che provoca la pubblica licenza), questi, liberali falsamente si chiamano, ma sono veramente licenziosi. Egli è pur singolare a vedere che nell' animo di molti s' è confitta questa assurda opinione, che ci possa essere un diritto del vizio. Il vizio non può essere oggetto d' alcun diritto, assolutamente parlando, perché il diritto è cosa morale, non un semplice fatto: il diritto è una facoltà di operare protetta dalla legge morale, il vizio all' incontro è ciò che la legge morale condanna. Ma qui nasce un dubbio, che è quello che complica la questione e la rende difficile; poiché gli uomini viziosi difendono la loro libertà di peccare impunemente in due modi. Alcuni con la fronte alta vi dicono: noi siamo in diritto di fare quello che vogliamo. Alcuni altri, più cauti, dicono: l' operare viziosamente non può costituire un diritto, lo accordiamo, ma neghiamo che il governo civile abbia alla sua volta il diritto d' impedire l' operar vizioso e immorale; e però reclamano questa pretesa libertà. Questa è la seconda questione che ci proponevamo. Ai primi adunque crediamo superfluo rispondere, poiché quando dicono: noi abbiamo il diritto di operare tanto il bene quanto il male, scambiano manifestamente il diritto col fatto: che abbiano la libertà naturale d' eleggere il bene o il male non è che un fatto; non è e non può essere per modo alcuno un diritto: converrebbe confondere tutte le nozioni per dire il contrario. Se si ammette che l' operare il male sia proibito dalla legge morale; con ciò stesso si riconosce che non può essere. O dunque non ammettono l' esistenza della legge morale, e in tal caso non esiste più diritto alcuno, come dicevamo, ma dei puri fatti; o ammettono l' esistenza d' una tale legge, e in tal caso il diritto non può essere che una facoltà d' operare protetta dalla medesima, e però una facoltà d' operare il lecito. La potenza dunque che ha l' uomo di scegliere il bene ed il male, è un fatto naturale, che contiene un diritto, ma che non è tutta diritto nel suo esercizio; poiché operare il bene essendo approvato dalla legge morale, acquista con ciò la dignità di diritto; ma operare il male non ha in sé alcuna dignità morale, e però non può costituire diritto alcuno. Rispondiamo adunque ai secondi, a quelli che concedono a noi, che non si può dare un diritto assoluto del male, ma tuttavia vogliono stabilire un diritto relativo del male, cioè un diritto di non essere molestati dal governo a cagione del loro operare vizioso: onde in questo senso chiamano l' impunità del vizio, diritto di libertà civile. Interviene in questa questione un singolare equivoco. Volete voi dire, noi dimanderemo a costoro, che il vizio non possa essere represso dall' autorità de' governi civili, purché esso abbia qualche cosa di rispettabile, per un titolo insomma inerente al vizio stesso? Ovvero, volete dire che l' autorità del governo ha i suoi limiti, determinati dal fine della sua istituzione, e che la sua autorità a cagione di questi limiti non può arrivare fino alla repressione del vizio? La prima di queste due cose è così apertamente stravagante, che non fa bisogno di parlarne; convien dunque che vi appigliate alla seconda. Ora che cosa prova la seconda? Che cosa prova e che cosa viene a dire la proposizione, che il governo civile ha un' autorità ristretta entro certi limiti determinati dal suo fine? Null' altro, se non che il governo civile non avrà forse autorità di stabilire pene per tutti gli atti viziosi, potendovene essere di quelli che al fine della società civile non s' oppongono, almeno direttamente, ovvero che non si possono sopprimere senza cagionare un male maggiore. Ma poiché ci sono indubitatamente anche quegli atti viziosi ed immorali, i quali nuociono gravemente alla società civile ed al suo fine; per ciò appunto è da dire, che il governo civile abbia l' autorità e il diritto di reprimerli e di punirli. La questione in tale modo cangia di natura, e non si tratta più di sapere « se il governo possa e deva reprimere ciò che è vizioso, senza offendere la libertà »; ma si tratta di determinare entro quali limiti questo diritto del governo civile sia naturalmente ristretto, ristretto dico, non già da un sognato diritto di libertà che possa avere l' uomo a peccare impunemente, ma dallo stesso fine del governo, che ne determina le incombenze e i poteri. Ora questa è la seconda questione che noi accennavamo intorno al diritto e al dovere de' governi civili, di reprimere la licenza: tentiamone la soluzione. Ma prima qual è, ci si dice, la soluzione della questione nel sistema utilitario? parlo di quella che logicamente deriva da questo sistema. Sarà forse favorevole alla licenza? Può essere, ma certo è contraria alla libertà. Non esistendo più né morale né giustizia, per l' utilitario (poiché di tutte queste cose tien luogo la sola utilità) consegue che anche il governo civile, non possa prendere a sua direzione altra norma o regola, che la sola utilità. L' utilità checché si dica, è sempre ed essenzialmente personale, poiché colui che preferisce l' utilità altrui alla propria, non seguirebbe la norma della utilità, ma della virtù. Onde gli utilitari al governo devono di necessità considerare l' utilità propria come fine, l' altrui come mezzo, che è il carattere del dispotismo. Ma supponiamo che gli uomini del governo per una felice incoerenza si propongano a fine l' utilità pubblica; anche in questo caso ne verrà che il sistema penale, come ogn' altra disposizione governatica, sarà regolato unicamente secondo il calcolo dell' utilità. Quando la sia così, alla legge o ai giudici sarà facoltativo di sottoporre a pene anche degli innocenti, se parrà che questo sia utile. Così infatti presso certe nazioni utilitarie si puniva di morte il generale che perdesse una battaglia, benché senza la menoma sua colpa. Le vite dunque e le sostanze de' cittadini, ammessa una tale dottrina, sono subordinate a' calcoli utilitari, più o meno approssimativi degli uomini che governano. Ora da una parte quest' è il più orribile e barbaro dispotismo, dall' altra è la più obrobriosa servitù e il più profondo avvilimento della dignità umana. Per compenso questo governo tirannico potrà essere a sua voglia licenzioso, purché da' suoi calcoli utilitari risulti proficua la licenza. Il diritto penale filosofico senza alcuna base di giustizia era divenuto in fatti la dottrina comune, prima che Pellegrino Rossi, e qualche altro scrittore italiano, di nuovo lo rimettesse sulla sua base naturale ed eterna, rovesciata da sensisti e da quello spirito d' empietà e di immoralità che guastò profondamente ne' tempi recenti, più o meno, tutte le università e i governi d' Europa. Sembra già tempo di guarire da questa vertigine, di ritornare ai princìpii di giustizia e d' onestà, non meno che di ragione. Secondo questi princìpii esiste nello Stato un diritto di punire che non può applicarsi che ai colpevoli: è un diritto rivolto appunto a reprimere la licenza e a proteggere la libertà... (2).

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 9 occorrenze

Se si deve giudicare dalle scarpe e dalle calze, madamisella non ha viaggiato in carrozza, ma ha camminato abbastanza per arrivare a tempo per farsi curare da noi, come se non ne avessimo abbastanza dei fastidi nostri; già, finirà col guastare anche quelle poche feste di Natale. Questo, si sa, è l'ospedale degli invalidi. Finito l'uno, comincia l'altra, e noi, s'intende, ci dobbiamo prestare per tutti, gratis et amore, se dobbiamo guadagnarci un bel posto in paradiso. Per loro il buon tempo, la filosofia, i buoni bocconi, i complimenti, la corte dei signori, e quel che segue, fin che il buon tempo dura; quando la festa è finita, si torna a casa a farsi curare; e allora allon donc , tocca a noi far pezze della pelle per medicare le loro piaghe. Sarebbe bella che, dopo aver fatto quello che ha fatto, madamisella venisse a morir qui, proprio a tempo per liberare da ogni obbligazione quei bravi signori, che l'hanno rovinata! uscir lei dai fastidi e lasciar a noi le spese del funerale. Non mi stupirei che lo facesse, perché è sempre stato nel suo carattere di guastare le combinazioni . Mamma Santina entrò in quella collo scaldino. Pallida e tremante di emozione, quando la Lisa cominciò a voler far sentire le sue ragioni, troncò ogni discorso col dire: - Fosse la figlia di nessuno, quel che importa è che la povera figliuola sia assistita; non sei cristiana? - Non neghiamo la nostra carità nemmeno ai cani; ma io direi di scrivere subito, a buon conto, allo zio prete, per avvertirlo del fatto e per indurlo a conchiudere qualche cosa con quella benedetta contessa. Sapete che Giacomo non è uomo da risolvere una questione. Teme sempre di mancar di rispetto alla gente, la quale poi lo ripaga nel bel modo che s'è visto; e non vorrei che, a furia di aver misericordia agli altri, ci riducessimo a morir noi disperati come ladri. Se questa disgraziata deve ammalarsi in casa, bisognerà pure che qualcuno pensi alle medicine. Sarebbe bello che toccasse a noi di far la penitenza de' suoi peccati . La Lisa non avrebbe finito cosí presto dal predicare, se la mamma, facendole un vivo segno colle mani, non l'avesse avvertita che Giacomo stava per entrare. Questi s'era presa Celestina sulle braccia e raccogliendo le sue forze a un'estrema fatica, veniva su per la scaletta col peso lento della persona, che rovesciata sulla sua spalla, nel languore pesante di un corpo morto, lasciava cadere le braccia incapaci in un desolante abbandono. I capelli umidi e sciolti scendevano sul volto, velando i lineamenti già irrigiditi e mettendo una striscia quasi funebre sul candore marmoreo, mentre i piedi ignudi, che uscivano dalla povera gonna, davano alla giovine una tristezza d'infinita miseria, di vittima spenta che portassero a seppellire. - Come l'hanno conciata, pover'anima - scappò detto alla Lisa, quando, deposta sul letto la malata, dette mano a svestirla; e male resistendo alla violenza della naturale compassione, gli occhi le si fecero grossi di pianto. Giacomo ordinò con tono frettoloso e sostenuto che la mettessero a letto, mentre egli andava a chiamare il dottore. Uscí e corse, cosí come si trovava, a capo nudo, col petto mezzo scoperto, in cerca del Brandati. Celestina si lasciò svestire senza dar segno di vita. Era un letargo di piombo fuso e colato in un corpo di ghiaccio. - Non vede domattina - pronosticò don Angelo crollando malinconicamente la testa. - Nel suo stato lo strapazzo fu troppo - soggiunse la levatrice, che il dottore aveva dovuto far venire in fretta. - Santa Madonna, che brutto Natale! - La Santina nascose il volto nel grembiale, e dopo aver asciugati gli occhi grondanti, si volse al prete: - Glielo dite voi, don Angelo, a quel povero figliuolo? - Dov'è? - Dabbasso, in studietto. Da ventiquattro ore non par piú un uomo vivo. - Vado io a pigliarlo. Lo zio prete scese lentamente la scaletta e andò in cerca di Giacomo. Lo trovò nello stanzino, che serviva di studio, seduto in unavecchia sedia di cuoio, col capo curvo e colle braccia incrociate sul petto, cogli occhi fissi sul suolo, in una attitudine di attonita tranquillità. Nella luce grigia, che entrava dai nudi vetri della finestra, che dava sulla vignetta, il suo volto reso quasi trasparente dai mali, compariva ancor piú delicato e giovanile. Ma tutta la testa, sotto il cespuglio d'una chioma fatta folta e lasciata incolta, aveva un'espressione di bellezza forte e resistente. Di fuori il vento strappava i rami della vecchia vite appoggiata al muro, e nella bianchezza della neve svolazzavano per la vignetta alcuni corvi. Il cielo attraverso agli alberi e ai pergolati spogli appariva d'un azzurrino purissimo; e in quel cielo fermo e lieto, che si sprofondava nell'infinità, pareva che lo spirito di Giacomo attingesse le ragioni della sua persuasione. Don Angelo, nel passare dalla cucina, vide Battista in un angolo tra la credenza e il muro, in piedi, colle spalle appoggiate al legno, colle braccia nascoste sotto il gabbano, col testone basso, in un'attitudine di colpevole punito. Angiolino invece, che non poteva star fermo nelle sue smanie dolorose, dopo essere uscito cinquanta volte a cercare un sollievo al suo patimento in qualche occupazione materiale, s'era messo a sedere sopra un sacco di cruschello e stava lí, colla testa curva sui ginocchi, coi pugni stretti, colla gola strozzata da un dolore furioso, che non osava farsi sentire. Insieme alla pietà per la povera Celestina e per il povero Giacomo, fremeva in lui un rancore che non voleva morire; e intanto gli pareva che qualche cosa di vivo e di palpitante si distaccasse dal cuore. Senza che egli potesse capire, in Celestina, piú che la sorella, rimpiangeva lo svanire d'un misterioso incanto. Dopo il pieno scampanare della benedizione, un lungo silenzio si diffuse per la casa, per la corte spopolata, per tutta la campagna lucente al sole. Una luminosità gioiosa si spargeva in quel pomeriggio di Natale senza nuvole e senza nebbia e correva sulle creste dei monti, che riflettevano splendori d'argento nella tremula trasparenza dell'aria. Raggruppati su un vecchio trave, accanto al muro del portico, il Manetta e alcuni uomini delle fornaci discorrevano accorati con mezze frasi nel tenore morto d'un suffragio. Parlavan di lei, di Giacomo, del caso, dei mali, che vengono senza farsi cercare; poi da capo a crollar la testa ed asciugar gli occhi col ruvido palmo della mano. Una volta fece una rapida comparsa tra il chiaro e il fosco il signor della Rivalta; domandò qualche notizia e scomparve colla stessa furia. Forse c'era a casa chi lo aspettava con ansiosa curiosità. Forse correva anche lui dietro a un suo incanto. Sulla loggetta era un rapido incontrarsi di donne che non parlavan piú per rispetto alla morte. - Giacomo, - disse la voce grave di don Angelo con quell'intonazione un po' alta ed estranea, di cui si servono i preti, quando sentono di parlare in nome di una forza superiore - abbi pazienza, povero Giacomo; per lei forse è meglio cosí. Non andiamo a investigare la volontà di Dio, ma lasciamola passare. Puoi venir di sopra? - Le avete detto il mio pensiero? - chiese il nipote con voce altrettanto ferma. - Gliel'ho detto. Quasi non voleva accettare; ma quando capí che per lei non c'è piú nessun'altra speranza in questo mondo e che non potrebbe avere da te una consolazione piú grande, ha detto con gioia di sí. Ma bisogna far presto. Giacomo si mosse sotto la guida d'un segreto pensiero, che lo sorreggeva. Il vecchio prete, che nei suoi settant'anni maturi poteva dirsi stagionato contro i tocchi della tenerezza, gli passò il braccio nel braccio e volle accompagnarlo su per gli scalini. - Allora faccio venire i testimoni - disse quando furono sulla loggetta. Giacomo entrò nella stanza vicina, e ne uscí pochi minuti dopo coi capelli ravviati e con indosso il vestito nero, pronto per la cerimonia. Ebbe ancora un assalto di smarrimento momentaneo; ma il Brandati e lo zio lo presero in mezzo e lo menarono nella stanza della moribonda. La mattina le avevano portato la Comunione. Ardevano ancora sul tavolino le due candele benedette in mezzo ad alcuni fiori, che Angiolino s'era fatto dare dal giardiniere del Ronchetto. Alcune donne stavano in ginocchio, accanto al muro, col viso in lagrime. Battista e Angiolino, ai piè del letto, parevano non veder piú nulla. La cerimonia cominciò. - Voi siete i due testimoni - disse ai due giovani la voce di don Angelo, che conservava in mezzo a quello scompigliato silenzio un'intonazione d'ordine e di comando. Si mise al collo la stola rossa, aprí un libro dagli orli dorati, fece il segno della croce. Dopo aver letto sottovoce alcune preghiere in latino, si chinò sull'assopita, per dirle piano all'orecchio: - Celestina, figliuola, c'è qui il tuo Giacomo, che ti vuole sposare. La giovane aprí languidamente gli occhi, li girò per la stanza. Un umile sorriso scosse e tremolò sulle sue labbra riarse dalla febbre infettiva, che la divorava. - Mi ascolti, figliuola? - tornò a dire don Angelo. Essa fece colle palpebre un piccol segno di sí. E il prete con accento piú sostenuto: - È contento il qui presente Giacomo Lanzavecchia di sposare la qui presente Celestina Benetti? - Sí - rispose Giacomo con un'espressione e un tono di voce che, sfuggendo di mezzo ai brividi dell'anima, risonò con una dolcezza singolare. - È contenta. Sei contenta, Celestina, di sposare il tuo Giacomo? - sussurrò don Angelo, curvandosi un poco sulla testa della malata, mal resistendo anche lui questa volta alla violenza delle cose. La morente, che seguiva coll'occhio luminoso la santa cerimonia, disse un "sí" chiaro, ridente, che radunò tutte le speranze sfiorite della povera anima sua. Stese la mano stanca, mentre la mamma Santina, che non riusciva a inghiottire tutte le sue lagrime, cercava di mettere nella mano di Giacomo il vecchio anello d'oro, che le aveva dato quarant'anni fa il suo Mauro. Il figliuolo, il quale non vedeva innanzi a sé che un barbaglio di cose bianche, aiutato dai vecchi, che mescolavano colle sue le loro mani tremanti, mise l'anello nuziale nel dito della sua promessa. Poi si lasciò cadere in ginocchio e restò come morto. Celestina sollevò la mano e gliela posò sul capo. - Quod Deus coniunxit homo non separet - recitò il prete, ritrovando la sua voce naturale. Poi continuò le altre parole del rito mentre cercava di avvolgerli nella sua benedizione. Piangevano tutti, in silenzio, non senza qualche segreta consolazione. Celestina, fissati gli occhi in viso alla mamma Santina, parve chiedere qualche cosa. La mamma sollevò un poco colle mani la testa di Giacomo: - Perdona, Giacomo - disse con un filo di voce - perdona, perdona . Fu questo l'ultimo sforzo d'una vita che fuggiva già lontano come fugge un'ombra all'avvicinarsi di una gran luce. Don Angelo senza pensare a cambiar stola, voltò alcune pagine del libro, che contiene in poco spazio l'eterna leggenda delle gioie e dei dolori che passano, e cominciò a leggere le orazioni degli agonizzanti, a cui risposero i presenti, stando inginocchiati. La poverina spirò ai primi tocchi dell'avemaria sul finire di quel Natale che doveva essere per lei cosí bello e cosí felice. Giacomo si alzò e venne condotto fuori. Non piangeva. Un sentimento di serena convinzione, starei per dire di umiltà soddisfatta, gli permetteva di essere il meno scosso e il meno turbato di tutti. Sentiva confusamente che qualche cosa era finito, per cedere il posto a qualche cosa di più grande, che non avrebbe potuto trovar posto poco prima nell'anima sua.

Sentendosi abbastanza sicuro sulle gambe, provò a scendere le scale, e quando fu abbasso, nella cucina, si accostò al camino, dove bolliva sommessamente un caldano, e sedette nella poltrona di legno del pà, che era stata la poltrona dei vecchi, sempre davanti a quel medesimo camino dalle panchette logorate, dagli alari consunti, dagli oscuri ripostigli, che contenevano le cose dei morti. Ogni generazione vi aveva dimenticato qualche cosa, chi una pipa, chi una scatola di fiammiferi, chi una tabacchiera, chi una moneta, chi un cartoccio di tabacco, chi un libro da messa o un rosario, o un bastone, o un falcetto; e si sa che ogni cosa lasciata indietro ha dentro di sè un poco dell'anima di chi è partito, come resta il calore della vita per breve tempo anche dopo che la vita ha cessato di battere nel corpo. Molta cenere era stata portata via e dispersa dal giorno che davanti alla pietra scolpita del camino era stata accesa la prima fiamma; e ogni cenere morta contiene un pugno delle nostre speranze! Ma nessuno de' suoi era stato avvilito e amareggiato come avevano avvilito e amareggiato il filosofo di casa, il grand'uomo, che intorno a quell'affumicato edificio di casa sua aveva creduto d'innalzare un tempio ideale ricco di pietre preziose. Non era passato un mese dal dí che aveva sognato di far sedere Celestina al suo fianco, lí davanti a quel camino, e di rinnovare con lei nella casa dei Lanzavecchia un nuovo patto; ma intanto ch'egli costruiva i sogni suoi nella cenere, c'era chi faceva di lei e dell'onore di tutti e due il piú orribile strazio. No, no, nessuno dei vecchi padri era passato per queste verghe; nessuno avrebbe saputo immaginare per sé una simile ignominia. Questi era riservata al discendente filosofo, al raffinato analizzatore della vita, perché avesse con comodo a scriverne un bel libro. Questo gli andavano ripetendo con ironico aspetto le sedie, le casse, gli utensili accostati al muro, la polverosa cicogna, che alzava il collo dimezzo ai trespoli consunti sull'armadio, questo gli suggeriva ogni altra apparenza, a cui l'occhio, l'abitudine, la memoria avvessero attaccato un po' della sua vita. Che stava egli a tener in conto questa sua miserabile esistenza senza bene, senza coraggio e senza rassegnazione? L'odio, che gli stillava dal cuore, non faceva che corrodere come un acre veleno le sue viscere, senza infondergli l'ardimento d'una vendetta o di una qualunque azione vigorosa, che giovasse alla sua dignità. Il suo posto nel mondo non poteva essere che un oscuro nascondiglio, come si riserva agli arnesi scassinati; e allora che giovava il vivere? Ancora una volta si mosse e girò intorno alla tavola, non potendo star fermo su questi aculei; ma nell'alzare gli occhi, un cupo pensiero si fermò sullo schioppo da caccia a due canne, attaccato per la bandoliera lungo il muro sulla cappa del camino. Era un vecchio schioppo di buona fabbrica bresciana d'un calibro solido e pesante, che nelle mani del pà non aveva mai sbagliato un colpo. Giacomo osservò che uno dei cani aveva la capsula, segno che c'era dentro una carica. Con un braccio appoggiato alla sponda della tavola, a cui cercava di reggere il corpo affievolito, si domandò con terrore se il caso ha i suoi suggerimenti, socchiuse gli occhi, volò con l'immaginazione a quel che poteva essere di lui al di là d'un gesto fatale. Un gran picchio di cuore gli fece sentire il rombo della schioppettata e si rimirò disteso col petto squarciato attraverso la pietra del camino. Cedendo al fiero invito, montò sopra una sedia, distaccò il fucile, alzò il cane sulla capsula girò gli occhi intorno. Proprio in quell'istante presero a suonare le campane del Sanctus della messa. - Povera donna .! - mormorò: e buttò la capsula nella cenere. La notte, ebbe un breve ritorno di febbre; tanto che il dottore gli consigliò, anche in vista della brutta stagione, di restare a letto qualche giorno di piú.

Se il pensiero è il diavolo, i grani di quel rosario non erano ancor grossi abbastanza per cacciarlo via; ma Giacomo aveva troppa fede nella bontà, per togliere alla sua mamma un'illusione. Dall'imposta della finestra pendeva la borraccia, che gli aveva servito nella disgraziata campagna del 1866 nel Trentino, piccolo fasto, che, insieme al gamellino, ricordava una storia segnata di patimenti e forse di eroismi, di cui non si doveva mai parlare. Anche la vecchia chitarra pendeva attaccata a un chiodo, coperta da un dito di polvere, tra due sacchi di grano, un sacco di carbone e un arcolaio fuori uso. L'indole di Giacomo, cosí facile ad arrendersi ad ogni piccolo bene che parlasse un po' forte, non pareva nemmeno accorgersi della mediocrità e dello squallore, in cui era nato e cresciuto. Abituato fin da ragazzo ai gusti semplici e a cercare nelle reali compiacenze della meditazione il sapore squisito anche delle cose che non si possono avere, non solo non provava alcuna invidia per chi si pasce dei lauti favori della fortuna, ma il non vivere di idee parevagli la piú compassionevole sorte che potesse toccare a una creatura ragionevole. - Scarpe rotte e la testa in paradiso era il motto della sua nobiltà di spirito. Questa soddisfazione tutta interiore, come lo rendeva indifferente e spensierato nelle cose contingenti di questo basso mondo, lo rendeva altrettanto paziente nel sopportar i piccoli inconvenienti della povertà, le umili molestie e i pregiudizi de' suoi di casa, i piagnistei frequenti della mamma, che vedeva precipitare la sua casa, le fantastiche declamazioni di suo padre, che attribuiva al governo anche gli spropositi della sua ostinazione, le scontrosità di sua sorella Lisa (che, per far presto, in casa chiamavano Spaventapasseri), la povertà intellettuale di Battista, che vedeva in lui un prediletto il quale andava spesso a tavola in casa dei signori, perché gli ripugnava la polenta e il merluzzo di casa sua. - Ho bisogno che questa dissertazione sull' Idealismo sia stampata presto, perché il premio non si può ritirare se non si presenta l'opera stampata. E non mai, come in questi tempi, ho sentito il bisogno di denaro, non tanto per me, quanto per questa mia povera gente . Giacomo, mentre parlava, andava rimestando con un cucchiale il caffè bollente nel gamellino, come soleva fare in collegio Ghislieri, quando c'invitava a una discussione metafisica nella sua camera. - A mio padre, come forse avrai capito, manca il senso e l'indirizzo della vita moderna. Egli crede che negli affari basti essere galantuomini, e, quel che è peggio, immagina che gli altri siano tutti galantuomini come lui. Già da qualche anno siè lasciato trascinare in una falsa speculazione con un certo signore che abita quassú a un sito detto la Rivalta, un ex impresario che si è dato all'usura, un chiacchierone che incanta con la sua parlantina. Costui, col pretesto di un impianto d'una sega a vapore, credo che a quest'ora abbia già mangiato a mio padre una ventina di mila lire, e continui a mettere ipoteche su quel po' di terra che abbiamo al sole. Il male si è che il povero pà, per non spaventarsi, si sforza d'illudersi e, abilmente raggirato da quel furbo di professione, crede che il suo denaro abbia a fruttare domani il cinquanta per cento. Non volendo, per un senso d'orgoglio, confessare i suoi torti a persona pratica, cova i suoi pensieri dentro di sé, cerca di stordirsi colle barzellette, se la piglia cogli italiani, coll'esattore, colla ricchezza mobile, ch'egli crede causa della sua rovina. Se noi potessimo aiutarlo! ma Battista non ha che le spalle di buono, e ora si è fitto in capo di voler sposare la figlia dell'oste della Praschetta, che è stata l'amante di tutti i carabinieri di passaggio. Angiolino è un ragazzo che dovrà presto andar soldato. Ci sono io, il dotto, il sapiente, vale a dire il piú inutile. Se fosse greco, potrei dare un suggerimento; ma che vuoi che m'intenda io di mattoni, di tegole, di sega a vapore, di mutui e di ipoteche? Giacomo sorrise e cantarellò sull'aria del Crispino e la Comare: - Maledetto il mio troppo saper. Levò il gamellino dal fuoco, tolse dal trumò due chicchere che collocò sul tavolino, dopo averne rimossa la gran montagna di libri e di fogli scritti che vi stava sopra, e, sedendosi accanto a me, dopo avermi battuto famigliarmente colla mano sui ginocchi, riprese: - Ecco perché ti ho invitato, caro Edoardo, a passar qualche giorno alle Fornaci. Mio padre, che ha della simpatia per te, non avrà difficoltà ad avviare un discorso su questi benedetti suoi interessi, e tu potrai dargli un buon parere. Cerca di vedere un po' in fondo a questa birboneria della sega a vapore e delle ipoteche, e, se è possibile, di arrestare il male prima che diventi cancrena. - Lo farò volentieri. - Io ero tornato quest'anno con molti progetti, ma li metteremo in guardaroba con pepe e canfora fino a un altro anno. - Tu pensavi forse a prender moglie . Giacomo si fece subito rosso in viso, come soleva facilmente quando appena un'emozione un po' forte gli passava nel cuore. Versò il caffè nelle chicchere, tenendo delicatamente il gamellino per un'orecchietta, e, quando ebbe finita la delicata operazione, soggiunse: - Sai che io son legato da un'antica promessa . - Se non ricordo male, si chiamava Celestina questo tuo vecchio idealismo. - Vedi che non è un amore di ieri. Celestina è figlia d'una nostra povera parente, che, dopo essere stata mal maritata a uno scucito sarto di Oggiono, morí nell'estrema miseria. Il pà, col suo gran cuore, si prese la bambina, che rimase sempre con noi, ed è cresciuta con noi, come una sorella, fino all'anno scorso, quando la persuasi a entrare al servizio della contessa Magnenzio. Gli anni non sono piú quelli di prima, e in queste angustie la poverina non voleva piú restare di peso a' suoi benefattori. E poi per metter su casa non fa male l'aver un po' di quattrini in disparte. Un po' di quattrini lei, il premio dell'Istituto io, i mobili dello zio prete, che me li cede volentieri c'era abbastanza per fare in modo che il nostro ente ideale diventasse sussistente; ma anche per quest'anno non si potrà far nulla. Ieri il pà mi fece capire, che se gli potevo prestare cinquecento lire, gli avrei levata una spina dal cuore. Gli ho dato tutto quello che avevo su un libretto della Banca Popolare; e dico il vero che, se l'Istituto volesse anticiparmi i denari del premio, vorrei procurarmi questa consolazione di dire a mio padre: Prendete, è roba vostra. Sarebbe proprio una cosi grande consolazione per me, di poter rendere qualche cosa a questa povera gente, che, se coi libri si potesse far quattrini, vorrei scrivere e stampare tutto quel che mi passa qua dentro . Giacomo si toccò la fronte colla mano, e rimase un istante cogli occhi fissi alla luce della finestra. Poi lentamente, come se parlasse a sé stesso, soggiunse: - Tutte le volte che vedo mio padre sudar sotto il sole, intento a caricare e scaricare mattoni, che lo sento litigare cogli operai e coi capimastri, quando torna dai mercati rauco, spossato, abbattuto, mentre io sto qui di sopra a conciliare i nominalisti coi realisti o a sostenere il concetto dell'anima universale, provo una tale mortificazione di questo sapere che non sa far nulla . - Scusa, Giacomo, - interruppi con grave intonazione - tu lavori a sminuzzare la grammatica ai ragazzi, e ad elevare un edificio morale . - Ben, bene, lasciamola li. - soggiunse con un sorriso tra il lieto e il melanconico. - Intanto anche per quest'anno: cara Celestina addio. Quantunque si sforzasse di cantarellare sul suo patimento, una tenera commozione tremolò nella sua voce. Povero Giacomo! a questo suo amore aveva consacrato la parte migliore della giovinezza, quando la donna è per la maggior parte dei giovinotti allegri o una lieta scapestreria o una bambola divertente. Nel suo ascetismo filosofico aveva accesa una lampada davanti a una cara immagine, e in questa luce mite che emanava dal suo cuore, insieme alla sua virtú aveva potuto trattenerlo un santo rispetto per la celeste creatura, che l'amore monello piglia col vischio. Il tempo che egli aveva occupato in aspettare non era stato perduto per lui e nemmeno per la bella Celestina, se è vero che anche la donna migliori nel pensiero dell'uomo che l'adora. Ma perché l'aspettare sia bello, è necessario che non sia infinito. Se Giacomo, dunque, si doleva del suo destino non sapevo dargli torto. - Non conosco questa tua Celestina, - gli dissi compassionandolo - ma procuro di vederla co' tuoi occhi. - Per il momento non potrebbe essere collocata piú bene. Conosco casa Magnenzio fin da ragazzo, e quel che sono lo devo alla protezione di questi bravi signori. Fu per un legato di questa buona famiglia, che ho potuto avviarmi agli studi nel Seminario di Cremona e bussare alla porta della sacra teologia. Speravano di cavare da me un buon prete, e quando, per non ingannare la loro buona fede, ho dovuto confessare che non ne sentivo la vocazione, non mi tolsero per questo la loro benevolenza. La contessa Cristina è una donna d'animo e di coltura superiore, che sa unire a una grande delicatezza un sentimento elevato del dovere. In casa sua Celestina non può che migliorare. - E c'è anche una contessina? - Donna Enrichetta è una bambina alta, bionda, semplice come una figura di frate Angelico. A proposito di lei, mi fai ricordare che le ho promesso un sonetto per i suoi quindici anni. Tu le vedrai stamattina alla messa, perché per tua norma al Ronchetto e alle Fornaci si è tutti buoni cristiani. - Celestina vale una messa, dirò come Enrico quarto.

La contessa aveva le prove della sua innocenza, e Giacomo non poteva non credere a una donna come la contessa; ma, riandando minutamente ai particolari della sua sventura, ora temeva che l'interesse avesse a far rinnegare la verità anche ai santi, ora si accusava di non aver saputo respingere con piú violenza le cortesie del giovine conte, di non aver provato abbastanza ribrezzo di lui, di non averne parlato subito a Giacomo, e malediceva in cuor suo alla floridezza della sua giovinezza, di cui si era servito il demonio per perderla. In questo modo, co' suoi stessi dolori, essa andava fabbricando nuovi strumenti di tortura e finiva col ritrovare la spina del rimorso fin nel fiore dell'innocenza. In certe ore, in modo speciale verso sera, quando, al morire della viva luce del dí sentiamo venir meno in noi molte certezze, la sua stanza le diventava uggiosa come una prigione. Lampi di follia tornavano a guizzare nella tempesta dei pensieri. Stava immobile, cogli occhi perduti in una lenta stupefazione sulla campagna coperta di neve, o fissi alla linea dei monti lontani, tra cui andava ricostruendo qualche nota giogaia. Sentiva di essere piú che morta, sepolta viva, e piangendo, diceva in modo di poter ascoltarsi: - Giacomo, perché mi abbandoni? Vieni a vedere che cosa hanno fatto della tua Celestina. - Non pensi, Adelasia, che quella ragazza possa aver bisogno.di qualche speciale benedizione? - disse un giorno donna Gesumina alla sorella. - Ho letto nella vita di Santa Zita, patrona delle donne di servizio, che il demonio ama tormentare queste ragazze povere e ignoranti per tirarle al male. - Certi diavoli, quando ci sono, non c'è benedizione che li possa scacciare. Bisogna aspettare che se ne vadano da sè. Sono i fenomeni del suo stato. Cosí disse donna Adelasia quasi con solennità scientifica. - Basta, basta, tu sei piú in grado di me di saper giudicare - rispose, umiliandosi, la piú giovine delle due vecchie zitelle; e non tornò piú sull'argomento. Dopo molto aspettare, un giorno arrivarono finalmente due lettere di donna Cristina, una per Celestina, l'altra per donna Adelasia. A Celestina, riferiva in poche righe, non tutte sincere, il risultato del colloquio avuto con Giacomo: "Per quanto il colpo sia stato grande" scriveva la contessa "egli mi ha promesso di perdonare, e sarebbe già venuto a vederti costí, se un po' di febbre buscata con questi freddi non l'obbligasse a letto. La sua pace, la sua salute, il destino di tutta la sua vita dipende unicamente da te, mia cara figliuola. Se tu sarai buona, docile obbediente a tutto quello che ti diranno di fare queste tue benefattrici, vedrai che col tempo proverai una grande consolazione. Io faccio pregare sempre per te." Nella lettera a donna Adelasia la contessa lasciava trasparire invece tutte le paure e le preoccupazioni che aveva ridestate nel suo cuore il primo incontro con Lanzavecchia: "Speravo di trovare nel giovine una maggiore arrendevolezza; ma ho paura di aver sbagliato nel giudizio che mi son fatta del suo carattere. Soffre meno per il fatto doloroso che non per l'orgoglio ferito. Il pensiero che ci deve qualche cosa gli è insopportabile. Quale altra soddisfazione vorrà chiederci? come intende vendicarsi di Giacinto? La mia povera testa si confonde e non sa piú che cosa pensare e che cosa temere. Ora è piuttosto gravemente ammalato, non si sa se per una minaccia di tifo o per una congestione cerebrale, che lo tiene in continuo delirio: e questo dottore non è senza qualche apprensione. Nel mio egoismo non so piú che cosa augurare a me stessa e agli altri. Mi pare che, prima d'ora, non abbia mai saputo che cosa sia soffrire, né mai prima di questa grande battaglia ho tanto compatito chi piange. Ora, sí, sento nel cuore le sette spade dell'Addolorata e capisco come le ricchezze, i titoli gli onori, le vanità del mondo, non valgano un'ora di buona coscienza. Non c'è donna cosí povera tra queste contadine, colla quale non farei cambio volontieri, se Dio mi potesse restituire la pace. No, il morire non è il peggior male: è peggio il non poter morire, quando si vuole. Dio sa se io vorrei essere sotto la terra da dieci anni! almeno sarei morta nell'illusione della mia felicità, nella freschezza delle mie gioie materne, sarei morta compianta, benedetta, e avrei trovato nella memoria de' miei cari il suffragio, che ci fa vivere anche dopo la morte. Questa invece non è né la vita, né la morte. È un'agonia, un singhiozzo che non cessa mai. Io sono un dolore solo, temo d'ogni scossa, non ho piú lagrime e non ho finito di piangere, non ho riposo né giorno né notte, e, poiché non posso morire, invoco quasi la pazzia, che mi liberi da questa spaventata coscienza. Lorenzo, che non deve mai saper nulla, s'è lasciato persuadere a restare al Ronchetto fino a dicembre: cosí almeno spero di poter rivedere il giovine e di strappargli almeno una promessa, che salvi la mia povera casa. Come potrei abbandonare questo campo di battaglia? Alla ragazza non dite nulla per ora di questa malattia del giovine; ma procurate di secondare le idee, che espongo nella lettera qui inclusa per lei. E poi pregate per me: mai ho avuto tanto bisogno della preghiera di tutti. Giacinto non scrive piú, ma so che mi rimprovera di non saper far nulla per lui. Non immagina nemmeno quel che mi costa di fatiche e di spasimi questa sua colpa. Dio salvi lui e me dal dover rendere i conti, Quando mi sforzo d'immaginare quel che accadrebbe intorno a noi, se uno di questi giornali nostri nemici, che combattono per l'empietà, stampasse il nostro nome nella cronaca degli scandali; quando penso al giudizio che di lui, di me, di suo padre pronuncerebbero i nostri parenti e gli amici che ci stimano, dico il vero, non mi pare quasi che sarebbe un maggior avvilimento, se Giacinto riparasse al suo errore, come si fa in altri ceti, sposando la ragazza."

In quanto alla religione, è vero che Giacinto si sentiva e si confessava buon cristiano cattolico e osservante;è vero che non senza rimorso trasgrediva ai precetti della Chiesa; è vero che, vivendo in compagnia di amici nobili e ricchi, pei quali la religione, cosí come sta, non è l'ultima delle difese sociali, era tratto a considerare con rispetto e con benevolenza tutto ciò che si riferiva allo spirito e al meccanismo della Chiesa; ma gli pareva di aver fatto abbastanza, quando aveva pagato il suo tributo alla pratica obbligatoria. Farsi veder alla messa, specialmente in campagna, mangiar di magro il venerdí in faccia alla servitù, comunicarsi a Pasqua e a Natale, rispettar qualche vigilia, non celiar mai sulle convinzioni. Andiamo, via! per un giovinotto, che portava una spada, era piú di quel che si potesse domandare. Queste quattro pratiche non eccessivamente complicate, in cui è riassunto in certo qual modo il pensiero della Santa Chiesa, lo sbarazzavano dall'obbligo di pensare al resto, cioè, a Dio, all'immortalità e a tutte quell'altre tribolazioni, che logorano la coscienza degli spiriti filosofici. Anzi, come uno scolaro che, sbarazzati in fretta i quattro lavorucci di scuola la sera del sabato, si piglia tutta la santa festa per spassarsela, cosí don Giacinto, una volta eseguite le quattro pratiche tradizionali, sentiva d'aver una maggior libertà di movimento per tutto il resto. Di contro a questi argini posticci vennero a urtare le onde minacciose delle passioni e delle seduzioni mondane nella compagnia allegra di giovani corrotti e di ragazze disinvolte, nelle lusinghe dei balli e dei teatri, dove anche lesignore oneste fanno di tutto per piacere in quel che hanno di piú bello e di meno morale. Tutto stimola i sensi di un giovine di vent'anni, tutto parla al suo essere fisico in questi ritrovi, in cui la donna è specchio alla vanità dell'uomo; ed e facile che la donna cosí detta onesta, riesca anche piú pericolosa delle altre, se le piglia il ghiribizzo di giocare coll'inesperienza d'un giovane non spento del tutto. Questo fu appunto il caso di Giacinto colla famosa principessa romana, che lo fece soffrire sulla corda fin dove un giovane come lui era capace di soffrire, e gli tolse quest'ultimo sentimento di rispetto, che il maschio conserva anche in mezzo alla sua decadenza per la piú fragile delle creature. Celestina ne pagò le spese. Ma, per arrivare fin qui, era necessario che il vino gli togliesse il sentimento di rispetto che ogni uomo, anche il piú tristo, nutre per sé. Nelle accese giornate di corsa, nell'ebbrezza di un trionfo, nell'espansione d'una riunione di caccia, ora all'ombra di una tribuna, ora nella frescura d'un bosco selvaggio, dove anche la piú gentile signora cerca a un bicchier di sciampagna il grido selvaggio dell'amazzone, Giacinto aveva presa l'abitudine di bere, senz'accorgersi, due volte, tre volte piú della sua sete, deliziandosi nel ritrovare tra i fumi della vaga ebbrezza una dolcezza di cose misteriose, che parevano scendere a lui da un mondo ideale. Il vino dà spesso anche agli imbecilli l'idea delle cose grandi, per le quali non son nati: e cosí accadeva che don Giacinto vedesse attraverso al lucente tremolio del cristallo la bellezza e la perfezione di quel misterioso ed eroico gentiluomo che era in lui, che Dio aveva mandato in terra a riassumere la secolare tradizione di casa Magnenzio, per consegnarla nobile e pura a un'altra serie di illustri discendenti. Peccando d'intemperanza, egli sacrificava all'ideale. Il male era questo: che passata la sbornia. non restavano della dolce poesia che i conti da pagare! "Naturam expelles furca ." ha detto un poeta latino, Orazio, salvo errore, in un verso che Giacinto sapeva citare a mezzo nella fiducia che gli altri sapessero il resto. Tutta la sua erudizione classica si arrestava a quella furca ma credeva di saperne abbastanza per tirare anche Orazio dalla sua. Del resto che male c'è, se a ventidue anni un ragazzo si sente giovine? Un uomo, che può spendere diecimila lire all'anno senza sconcertare i bilanci del suo ragioniere; che col tempo avrebbe raccolta la bellezza di tre patrimoni, non solamente non era nato per portare gli occhiali, ma non poteva capacitarsi come mammà si ostinasse a voler cavare da lui un assessore comunale, o un fabbriciere, o un segretario di opere pie. Era lo stesso come voler cavare da un cavallo da sella un professore di greco. Vedendo che mammà non sapeva risolver nulla, e che alle sue insistenti lettere non rispondeva piú che inconcludenti querimonie, chiesto un congedo di alcuni giorni, capitò a Milano, dopo aver scritto un biglietto a donna Fulvia, che aveva in ogni circostanza mostrato per lui delle tenerezze materne. Donna Fulvia, che era appena entrata nel suo elegante quartiere d'inverno, lo invitò a colazione. Prima di andare da lei, il bel giovane si lasciò vedere al circolo degli ufficiali; quindi in compagnia di Pierino Scala feceuna passeggiata nelle sale dell'Unione, dove si raccoglie la sera il bello e il buono dell'aristocrazia maschile di Milano. Capí, dalle accoglienze e dai discorsi degli amici, che la sua avventura campestre non era ancora uscita dalle siepi e dall'ombra, e si consolò come un capitano, che sente di arrivare prima del nemico in una buona posizione. Donna Fulvia lo accolse colla espansione gioviale che fa di lei una delle piú ridenti signore di Milano. A colazione si parlò di tutto un po' delle corse di Roma,della bella principessa di Cerere, che doveva venir sposa nel prossimo carnevale con uno dei piú amabili gentlemen della società lombarda. Don Lodovico di Breno, uomo di non troppe parole, ma fino come una lesina, intavolò una discussione semipolitica sull'espansione italiana in Africa, ch'egli riteneva, a quei tempi, la cagione principale del nostro disagio economico; ma Giacinto, che non per nulla portava una divisa coi bottoni d'argento, gli dimostrò, tenendo la forchetta in aria, che l'avvenire del paese era là, al lago Tsana. I popoli vecchi, diceva, non hanno che da guadagnare nella fusione coi popoli nuovi; e in quanto all'Italia, noblesse oblige, era il caso di dire. Quando si è stati una volta i padroni del mondo, non si può senza vergogna rinunciare alla propria missione civilizzatrice. Per conto suo, se mammà non avesse avuto dei pregiudizi, avrebbe domandato subito d'essere mandato a combattere ras Alula. - Sí, sí, ma intanto - brontolò il conte, abbassando la sua testa precocemente calva e aguzzando gli occhi miopi su una certa miscela di carne fritta, che il cuoco aveva mandato in tavola con una salsa, in cui entrava, non so come, il principe di Galles - intanto noi roviniamo la nostra agricoltura. - Voi moderati non vedete che la politica dei vostri fagiuoli. Siete un partito vecchio, senza ideali. La bella faccia del giovane Magnenzio si rianimò all'immagine delle caccie grosse, che si posson fare al pian delle Scimmie, e alzando il calice pieno di bordò, il bel tenente bevette alla gloria dell'esercito. - Noi non ti lasceremo partire, Giacinto - soggiunse la contessa, che nella luce candida della finestra brillava d'una biondezza trasparente; - noi siamo gelose di quest'Africa, che ci toglie i nostri figliuoli. - In quanto a' tuoi figliuoli - brontolò il conte, ridendo nel piatto, mentre rivoltava la carcassa africana di quel suo magro pollo inglese - non te li toglie nessuno i tuoi figliuoli. Giacinto fissò gli occhi scherzosi negli occhi ridenti dell'amica di mammà, che rimbeccò con spirito: - La colpa è della tua politica moderata. Il bel tenente si rovesciò sulla spalliera della sedia e, balestrando il conte con una briciola di pane, gli disse: - Te la sei meritata questa volta, Vico. - Tu, taci - ribatté il conte, minacciando il giovane col dito - ne sappiamo di belle della tua politica liberale. Giacinto arrossí, e fu sul punto d'aversene a male. Ma la contessa fu pronta ad alzarsi e ad invitare il giovine a prendere il thè nel salottino. - Io vi lascio. Ho una seduta al tocco presso la Deputazione provinciale per la difesa di quei quattro fagiuoli che ci restano. Fulvia ha carta bianca per tutto ciò che posso fare per te; abbi confidenza in lei e lasciati guidare, mio caro Orlando paladino. Siamo tutti interessati a proteggerti, ma bisogna che tu faccia giudizio. Giacinto strinse la mano del conte con lunga e affettuosa insistenza per fargli comprendere che apprezzava il suo valido appoggio, e, raggirando nei polpastrelli la punta dei baffetti, promise cogli occhi quel che l'emozione non gli lasciò dire colle parole. Nel salottino rosso della contessa ardeva un bel focherello. Quando il giovine fu seduto davanti al caminetto, donna Fulvia gli offrí una sigaretta, poi gli domandò con un'intonazione un po' grave: - Ebbene? devo fare una predica? - Sono cosí pentito, cara contessa, - rispose il giovine, voltando la sigaretta fra le dita - che potrei già scrivere un quaresimale. - La povera mammà è desolata. - È desolata, ma non sa trovare un rimedio. - Non è sempre facile trovare un rimedio: ma come impedire uno scandalo? - Ha parlato con questo signor cugino, sí o no? - Nell'ultima sua lettera non mi dice ancora quale sia stato il risultato del suo colloquio con lui. E comincio anch'io ad essere un po' agitata. Comprendo tutte le preoccupazioni della povera donna. Questa benedetta questione s'impernia in un complesso di cosí gravi circostanze che ogni passo falso può condurre a un disastro. Monsignor vescovo non resterà certamente troppo edificato, quando saprà che quel suo san Luigi di nipote si compromette colle cameriere. Ma come è potuto accadere? - Come, come, - balbettò con una spallata chinandosi ad accendere la sigaretta alla fiamma del camino. - È cosí facile immaginare, Dio buono . - Diremo che è stata anche questa una passione africana, - disse col suo bel ridere argentino donna Fulvia, mentre allungavasi sulla poltrona, stendendo il corpo fino a toccare colle punte delle scarpette gli alari dorati. - È almeno bella questa Lucia del Ronchetto? - Non mi tormenti, via! - replicò egli, non senza una certa scontrosità; e, facendo sonare sul tappeto gli speroni, buttò la sigaretta nel fuoco. - Povero Giacinto, mi piace di vederti cosí contrito e umiliato. Giovinastri senza principii, senza garbo, senza orgoglio! Ma lasciamo perdere le prediche e parliamo seriamente per rendere il male minore di quel che è. Perché è inutile illudersi, in questa faccenda siamo interessati un po' tutti, i Magnenzio e i San Zeno per primi, e un poco anche i di Breno in seconda riga. Vico, che ho dovuto mettere a parte del segreto, come hai capito, ha fiutato subito il pericolo che l'affare, da scandalo privato, pigli per contraccolpo una estensione immensa, fino a compromettere i nostri interessi politici. Siamo alla vigilia delle elezioni amministrative, e puoi immaginare con che gusto i nostri nemici s'impadroniranno di questa belle Hélène. Sai che Vico l'ultima volta la portò fuori per un pelo; e uno scacco nelle elezioni amministrative vorrebbe dire in questi momenti la fine dei partito moderato nella nostra provincia. Tu non capisci che la tua politica africana, ma bisogna essere sul campo di battaglia per capire che cos'è una lotta elettorale. Come una cartuccia sparata a tempo dall'ultimo dei fantaccini può decidere una vittoria, cosí un sasso, una trave messa di traverso, può trascinare la sconfitta. Vedi quindi se Víco è interessato a mettere cenere su questo fuoco, che tu gli hai acceso accanto al pagliaio. Egli ha forti aderenze anche fuori dei suo partito e potrebbe con qualche compromesso ottenere e, se occorre, comperare il silenzio degli organetti. Ma bisognerebbe che tu aggiustassi presto i conti col cugino. Non ho ancora capito di che stoffa sia fatto questo contadino filosofo fabbricatore di tegole. Sento che ha stampato dei libri, quindi è presumibile che sia un uomo ragionevole. Vediamo un caso: potresti accettare senza scapito una sfida da lui e portare cosí la controversia sul terreno cavalleresco? Vico trova che, se egli potesse seguirti su questa via, sarebbe forse il caso di transigere su qualche particolare e di trattarlo come da pari a pari. Un reduce delle patrie battaglie, se non è nato, è cavaliere per diritto di conquista. Vico osserva anche che, se questo signor Lanzavecchia non manca d'orgoglio, dovrebbe aggradire d'essere considerato senza restrizioni. Un duello limiterebbe la questione personale e obbligherebbe piú tardi le due parti a un reciproco rispetto. Ma questo, ripeto, è il discorso di Vico. Noi donne, naturalmente, e come donne e come buone cattoliche, non possiamo approvare le risoluzioni violente. La tua povera mammà si sente morire alla sola idea che tu possa trovarti di fronte alla canna di una pistola: ma la tua divisa non ti dà un certo diritto per la scelta dell'arme? Oh che pasticcio! Vedi, benedetto figliuolo, in che imbroglio ci ha messi tutti quanti questa tua ragazzata? Donna Fulvia, che si era mossa per accendere la fiamma sotto un bricco di porcellana, si volse e, con un atto di protezione materna, passò leggermente la mano sui capelli corti, tagliati a spazzola, del bel giovinotto, che, sprofondato nella poltroncina, colle mani infossate nei taschini de' suoi stretti calzoni d'alta tenuta, stava come oppresso sotto il peso della sua responsabilità. - Quando penso che Giacinto, il biondo Apollo, è già divenuto papà. - Un sorriso d'ironia, che vibrò nella tenerezza di quella voce carezzevole, fu per il giovine tenente un filo rovente raggirato intorno alla carne viva del cuore. Nell'inchinarsi su lui, l'amica di mammà vide ch'egli piangeva. Una piccola stilla aveva già solcato il panno scuro della giubba, lasciando tra un bottone e l'altro il segno d'un punto esclamativo rovesciato. - O povero Giacinto, ti ho fatto male? come sono stata cattiva! - riprese la signora con delicata sollecitudine e con tono piagnucoloso di rimprovero a sé stessa. Volendo rimoverlo da quell'inerzia di spirito, in cui lo vedeva immiserito, si affrettò a soggiungere: - Io non dico che tu non possa trovare qualche altro rimedio. Tra gli espedienti, se io fossi in te, vorrei prendere il mio coraggio colle due mani e andrei diritto a confessare tutto allo zio vescovo. Peccato confessato è mezzo perdonato. Credo che monsignore amerà meglio saperle da te le cose, come sono andate, mentre si è ancora in tempo a rimediare, che se venisse a conoscerle dai giornali, quando non c'è piú tempo di far nulla. Nella sua alta posizione egli è piú di noi in grado di misurare il pericolo e anche di prendere gli opportuni provvedimenti. Per quanto rigido e intransigente, non può non assolvere un peccatore, che confessa piangendo il suo peccato. - Andrò a farmi ammazzare in Africa - borbottò tra il rustico e lo spavaldo il giovine, buttando nella fiamma, con un gesto aspro, la sua seconda sigaretta, come se cercasse di riaversi e di darsi della forza. Il suo capriccio non si era mai trovato a contrastare con tante seccature. Abituato a trovar sempre le porte del suo piacere spalancate, si meravigliava con attonita impazienza che non si potesse passare anche questa volta. Possibile che mancando la chiave, non si potesse sfondare l'uscio? - Per Dio! - disse ingrossando la voce per far comparire piú rauca la tenue bestemmia soldatesca, alzandosi, movendosi per il salottino. Era agitato e girava in cerca d'uno specchio per vedersi la faccia in collera. Come se l'elettricità gli uscisse da tutti i bottoni lucidi, mosse le sedie, scrollò un tavolino, e mise cosí malamente la mano sopra una gracile donnicciuola di vieux Saxe , che la rovesciò e le ruppe il naso. - Che cosa si vuole, per Dio? che mi tiri un colpo di pistola nella testa? che faccia contessa la mia cameriera? - Queste sono brutte parole, Giacinto, che ti fanno torto. Abbi pazienza. Oggi scriverò a mammà e domani concerteremo qualche cosa con Vico. Avresti difficoltà, per esempio, che mio marito andasse a parlare direttamente con Monsignore? Son due mezze potenze, sai, che nelle condizioni attuali hanno bisogno d'intendersi, e chi sa che il diavolo non sia poi cosí brutto come ce lo immaginiamo. Non andar poi a dirglielo, a monsignore, che l'ho chiamato diavolo. Donna Fulvia, sentendo muggire il thè nel bricco, ne versò una chicchera e l'offrí al giovine, stando in piedi sotto la grande specchiera, nella quale le loro belle immagini si riflettevano con nitido splendore. Calmati gli spiriti, la contessa poté condurre il discorso ad argomenti meno spinosi, e tutti e due, dopo un pezzetto, finirono col ridere come due ragazzi.

Anche dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per far ridere un Brognòlico. Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta mescolavansi altre immagini piú miti che avevano nella loro desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero. Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico? A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri, l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una corona di spine e una finale fischiata? Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume, trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista, si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva piú lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore. Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne. Rimase cosí come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che, scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.

- E come se fosse da questa riflessione persuaso abbastanza, riprese a camminare, sforzandosi di dare a' suoi discorsi interni un procedimento di filosofia naturale, quasi di commento ermeneutico al testo antico della umana imbecillità: - Ecco come si fa la storia! - diceva. - Io l'amante della contessa, Giacinto il drudo di Celestina, i denari il compenso delle rassegnazioni. E tutto questo a due passi dalle cose! Figuriamoci quel che dev'essere la storia di Ninive e di Roma. Povera Semiramide! povero Narsete! Ora mi spiego anche i discorsi di questo mio futuro suocero della Rivalta e l'immagine elegante delle galline, ch'io so spennacchiare con tanta politica. E c'è anche chi pretende di sapere che la contessa non dice mai di no a un amico della mia forza; ah porci baroni! Dunque se la gente mi fa grandi scappellate, non è certo per rispetto alla filosofia: ma la gente pensa che un uomo il quale paga i suoi debiti con tanta disinvoltura e che giuoca cosí abilmente sulla rassegnazione, è piú rispettabile d'una zecca. Giacomo a questi insulti, ch'egli procacciava a sé stesso, quasi per un fanatico piacere di confutarli, ora opponeva un sorriso acerbo di canzonatura, ora un corruccio di fiera collera, che lo faceva inavvertitamente correre per la strada deserta già immersa nell'ombra umida del crepuscolo. Non volendo portare in casa la sua inquietudine e dar motivo a sé e alle donne di provocar domande inutili e fastidiose, invece di svoltar subito verso le Fornaci, appena fu al luogo detto Sasso del Pin, continuò per il viottolo selciato, che monta dolcemente al "Roccolo" di don Andrea, entrò nel bosco artificiale di cerri, di carpini e di ginepro, che fanno del sito quasi un verde castello fortificato; e quando si trovò nel mezzo del tortuoso labirinto presso la capannuccia di legno, che serve di ricovero al cacciatore, sedette sul rozzo panchetto e lasciò che il suo cuore un po' grosso riposasse dal palpitare scomposto che avevano suscitato le parole del Brandati. Un mesto raccoglimento regnava nel boschetto già logoro e spoglio di molte frasche, che ingiallivano marcie sul terreno, mentre tra i rami chiari entrava l'ultima vampa dell'incendio d'oro, che si spegneva dietro la curva dei colli. Il cielo era sereno, con pochi fiocchi di nuvole porporine immobili nell'azzurro, fresco e ancor ridente in quella bella sera di novembre. Intorno a lui era un cinguettare rumoroso d'una plebaglia di passeri, che, partito il nemico, consideravano il "Roccolo" come la loro casa, e civettavano con plebea insolenza, là dove gli illustri loro compagni avevano lasciata la vita nelle ragne e perfin sulle canne del vischio. Ebbene! che dovere hanno i vivi di morire per i morti? - dicevano i passerotti. - La vita è forza che incalza la forza, è il giorno che succede alla notte. La lotta non cessa mai su questo campo, ora aperta, ora insidiosa; dove non arriva la spada, arrivano la calunnia e la maldicenza, che son le ragne dissimulate della morte. Che può fare la creatura contro questa fatalità della legge? - Egli poteva rispondere che l'uomo si sottrae all'invidia dei vili come l'aquila sfugge alle trappole, volando molto in alto. Ciarlino pure gli stolti; la maldicenza è un brutto animale vorace, che finisce sempre col mangiare sé stesso. Non volendo farsi troppo aspettare a cena, prese un sentieruzzo da capra, che piomba quasi diritto sulle Fornaci, e in quattro salti fu a casa. La Lisa, che stava inginocchiata davanti al camino, intenta a preparare la solita minestra, senza voltare il viso dal fuoco gli disse: - C'è stato Fabrizio con una lettera della contessa per te. - Dov'è questa lettera? - Lí, sull'armadio. Giacomo ruppe la busta, che buttò nel fuoco, e al lume maggiore della fiamma, che si sollevò, lesse queste quattro righe: "L'avverto che oggi ho lasciata Celestina presso alcune nostre parenti, che mi avevano chiesta una ragazza brava nei lavori. Ho pensato che le potesse far bene di restare in campagna, mentre noi ci prepariamo a tornare in Cremona. Venga domani verso le due; ho bisogno di prendere qualche decisione per quest'inverno".

È a lui che voglio dedicare, se campo abbastanza, questa pubblicazione, a cui intendo premettere un "Discorso preliminare intorno agli Uffici della Nobiltà nel presente tempo", che mi sta sul tavolino da parecchi anni e non aspetta che un'ultima spinta . Fabrizio, il vecchio cameriere particolare del conte, comparve in quel mentre sull'uscio: - La signora contessa prega il signor Giacomo, prima d'andar via, di passare un istante da lei. - Dite invece alla signora contessa che l'aspettiamo qui - soggiunse il conte: e fatto un cenno a Giacomo, lo trasse nel vano della porta a vetri, che dava sul giardino, dove, affievolendo colla voce la importanza della cosa, gli disse: - Eccovi le due righe di epigrafe che avrei scritte per quel povero uomo. Voi sapete da insegnarmene, ma la qualità dell'uomo presentava questa volta qualche difficoltà stuzzicante. Imbalsamare gli illustri personaggi è mestier facile; ciarriva anche il sacrestano. Il punctum è di saper far vivere nel sasso un uomo modesto, un fabbricatore di mattoni: qui ti voglio, Giovannino! non si può mica mettere sul marmo la locuzione: Fabbricatore di mattoni e tanto meno quello sguajato (sgua-j-a-to, colla coda, con vostro permesso) epiteto di fornaciajo, e tanto meno fornaciaio coll' i corto. Ergo, come ce la caviamo? il latino dà fornacator, che non ha continuità nel volgare: meglio sarebbe calcarius, ma calcario può indurre nel volgo ambiguità e far pensare a ricalcare, calco, calcagno. Plinio mi dà un buon laterariorum fornacator, vale a dire cuocitore di laterizii, ma c'è pericolo che si cada nell'astruso, mentre il bello, come il sole, è tutto nella chiarezza. Quando poi si tratta di stile epigrafico, il bello è tutto nell'evidenza . Donna Cristina entrò ad interrompere la dotta esposizione, nella quale il conte si rianimava già tutto come un anatrino, che, dopo un lungo tempo di polvere e di siccità, senta tuonare in cielo e subito dopo vede l'acqua traboccare dai fossatelli. Era la prima volta che la contessa rivedeva Giacomo, dopo la morte di Mauro Lanzavecchia: e il giovane attribuí l'animazione dolente, quasi paurosa, con cui gli tese la mano, a un sentimento di commiserazione e di fedele amicizia. - Giacomo non ci dice di no, - cominciò a riferire il conte - anzi la cosa è fatta. Io gli dicevo poc'anzi quel che mi dicevi tu ieri sera; è un piacere e un servizio reciproco, che ci facciamo. I vecchi hanno bisogno dei giovani e i giovani hanno bisogno dei vecchi. - Signora contessa, - prese a dire Giacomo con un'intonazione cosí profonda che per poco non rasentava il pianto - non è la prima volta che io provo la bontà e la generosità illuminata di questa casa e, se qualche cosa mi trattiene dal dire subito di sí, è il dubbio ch'io non sappia degnamente corrispondere. Ringrazio il signor conte, ringrazio lei, donna Cristina. - E, non sapendo piú continuare davanti alla forte commozione, stese le mani a questi suoi due benefattori, fissando gli occhi sulla luce della finestra. - Offrendole questa tenue anticipazione, non intendiamo di umiliare il suo coraggio, caro Giacomo, ma solamente di metterla in grado di compiere piú bene il suo dovere di figlio amoroso e di studioso. Non è un dono, ma un prestito, che vogliamo assicurare alla sua attività. La contessa disse tutto ciò con un accento quasi sforzato, come se ogni parola le cagionasse un tormento. - E poi, Giacomo potrà anche, restando alle Fornaci, dare un occhiata a questa nostra gente. Il fattore è vecchio e comincia a far capire poco quello che dice, come un filosofo anche lui. - Il conte, che per aver ben digerita la colazione era in vena d'allegria, seguitò a battere una solfa leggiera sulle spalle del filosofo che aveva davanti - Finché non torni a casa dal servizio militare Bogella il giovine non farà male un'occhiata intelligente alla casa. Anche questi libri avrebbero bisogno d'un buon repulisti, ma se i servitori ci mettono zampe, addio categorie . Don Lorenzo, in questo istante, per non so quale successione di idee, si ricordò di non aver ancor preso il suo caffè delle tre. Egli soleva fare la sua prima colazione alle sette con un brodo liscio, o con un caffè all'ovo,o con una tazza di cioccolata che Fabrizio gli portava in camera, a seconda delle esigenze dello stomaco. In cucina e nelle sue adiacenze giudicavano subito dell'umore del padrone dalla chicchera sporca che tornava indietro. Brodo liscio significava sempre pranzo mal digerito, notte inquieta, giornata torbida, brontolamenti a tavola, piatti di ritorno, rimproveri al cuoco, accessi di palpitazione, sgomento della contessa, lacrime delle cameriere. Quel doversi mettere a tavola senza voglia di mangiare era per il conte una mortificazione insopportabile, quasi un vivere senza speranza, come avere un bel libro in mano, scritto bene, stampato bene, e non vederci. Per mantenere il buon equilibrio dello stomaco, che pei ricchi è la base della felicità, come pei poveri si vuole che sia il ventre, don Lorenzo faceva gran conto sul suo caffè caldo delle tre, anch'esso un piccolo piacere della vita, che Orazio, il classico gaudente, non aveva conosciuto, una vera nettarea bevanda, che avrebbe potuto ispirare a Virgilio un poemetto didascalico sul tipo delle "Georgiche". Nei primi ardori giovanili, quasi tutti ci sentiamo in qualche parte di noi stessi un poco poeti, don Lorenzo aveva ben carezzata l'idea d'una Coltivazione del caffè in versi sciolti, sull'esempio del poemetto che l'Arici consacrò alla Coltivazione degli olivi; e le quattro parti eran già distribuite con una varietà di scene e di episodi, che andavano dai torridi campi del Guatemala all'Ottagono della Galleria e al caffè Biffi di Milano; ma la difficoltà inaudita d'introdurre in versi rispettabili certe parole, come chicchera e macinino, ne aveva a piú riprese stancate le mani. Dopo averne pubblicato un mezzo canto sull' "Annuario degli Agiati di Rovereto", continuò a berlo il suo nèttare, ma lasciò stare le Muse, che non potevano ispirare quel che non avevano mai provato. Mentre Fabrizio serviva il caffè nelle belle chicchere di porcellana, Giacomo espose nettamente alla contessa il desiderio di avere alle Fornaci per alcuni giorni, la Celestina, in aiuto alla povera mamma. - È impossibile, - scattò a dire la contessa colla istintiva prepitazione di chi si difende da un improvviso assalto; ma poi per correggere sé stessa e per distruggere l'impressione che doveva produrre una cosí recisa risposta: - Cioè, non per dir di no, - soggiunse con umile spiegazione: - in un altro momento non avrei fatto ostacolo; ma in questi giorni aspetto le mie cognate di Buttinigo, avremo gente a pranzo, insomma se me la lasciate . - Che cara figliuola questa vostra Celestina! - disse il conte, che cominciava a gustare col naso il profumo del suo caffè - la mi piace con quel suo fare allegro e villereccio, che mi ricorda la Nencia di Barberino. Quando mi sento di cattivo umore o lo stomaco impastato, la faccio cantare: Va là, villan e mi pare di bere una tazza d'acqua fresca del fonte d'Ippocrene. Birbone il filosofo! - sentenziò socchiudendo gli occhietti maliziosi, mentre indicava col cucchialino alla contessa l'amico Giacomo, che stava prendendo il suo caffè in piedi con un contegno imbarazzato, colla testa accesa da una non ingrata commozione. - Birbone il filosofo, in filosofia, lui dice, io sono spiritualista, hegeliano, trascendentale e, se non vi disturba, anche intinto di panteistico spinosismo; ma in amore cerco il materiale e il palpabile. Questi idealisti son piú birboni degli altri, ve': a noi dànno le penne, ma l'oca se la mangiano loro . Mentre il conte, fatto rubicondo dal piacere, interno ed esterno, rideva cogli occhi, colla pelle del naso e col cucchialino, il volto di donna Cristina, pallidissimo, si fissò sui vetri della finestra in una rigidezza piú severa che dolente. Il conte che aveva la bocca buona, continuò: - Solamente, caro Giacomo, procurate che queste signore non ve la guastino, col loro Sacro Cuore. È diventata una esagerazione questo Sacro Cuore di Gesú. Pare che non si possa esser buoni cattolici, se non si fanno smanie per queste francioserie. Adesso bisogna che anche la divozione ci venga di Francia insieme alla moda dei cappellini. Oggi "Sacré- Coeur", domani "Ravachol" . Il conte, che aveva colla Francia una vecchia ruggine per quel che aveva letto dei tempi del Terrore, non poteva perdonarle la continua e deleteria influenza, che il libro francese esercita sul modo di scrivere dei nostri giornalisti e dei nostri stessi autori, non escluso quel benedetto don Alessandro, che in questa faccenda dello scrivere ha avuto dei grossi torti. - Francioserie di lingua, francioserie di cappellini, francioserie di Madonne e di Sacri Cuori, a furia di francioserie ci sveglieremo una bella mattina con una bomba sotto il letto. Io son vecchio ormai, o almeno spero che questo balzano di cuore mi farà morire a tempo: ma voi, Giacomo, mi saprete dire, cioè non verrete a dirmelo, perché sarò morto, ma vi accorgerete che gusto sarà questo vostro Socialismo. - Non è mio, signor conte, - obbiettò sorridendo Giacomo. - Non è vostro, ma è figlio della vostra filosofia dalle maniche larghe. Ve ne accorgerete, ve ne accorgerete. Speriamo che per quel tempo io abbia finito di mangiare la mia galantina e di prendere il mio caffè. Mi rincresce per il mio Ippofilo, per Filippone, e per quell'angelo che suona il cembalo di là. Il conte tacque per ascoltare alcune battute di una sonatina di Beethoven che donna Enrichetta eseguiva con una garrula agilità. Le note entrarono e risonarono nello studio, come il trillo gaio d'un canarino. La luce tiepida del pomeriggio, passando per le finestre, diffondevasi sugli scaffali, sulle splendide rilegature dei libri, sui vasi di porcellana, sulle cornici dei quadri, sulle stoffe damascate delle poltrone in una festa tranquilla di colori e di forme, in mezzo a cui apriva le braccia un mite crocifisso d'avorio biancheggiante su un drappo rosso ricamato in oro dalle mani della contessa e sormontato dallo stemma di casa. Duemila lire! Giacomo, nel ritornare alle Fornaci per la bella strada che gira dietro il "Roccolo" di don Andrea, non fece che pensare a questa offerta, che gli avrebbe permesso di lasciare per qualche tempo l'insegnamento e di rimanere alle Fornaci a dirigere la liquidazione e gli accomodamenti della sua casa. Duemila lire! S'egli tornava indietro col pensiero fino alle prime memorie della vita, non ricordava d'aver posseduto mai, tutto in una volta, una somma cosí grossa e veneranda, né di aver mai pensato, in mezzo alle ipotesi della possibilità, a quel che si può fare con due mila lire in mano. Gli era nota la forza del sole e anche quella dell'intelligenza umana, che sa predire le eclissi: ma della potenza dinamica del denaro, se aveva un'opinione confusa, per quel che si può vedere guardandosi in giro, non ne aveva mai provata la sensazione immediata del possesso, sensazione che gli metteva in corpo una specie di vanagloriosa ebbrezza. Gli pareva che con due mila lire un uomo, che non fosse stato ne' casi suoi, dovesse realizzare un tal patrimonio di compiacenze e di cose felici che a descriverle bene non sarebbero bastate due mila pagine d'un bel formato Le Monnier. Bastava dire che in grazia di quei quattro foglietti da cinquecento, chiusi in una busta di carta, egli avrebbe potuto sposare e vivere un anno lautamente con Celestina in quattro camerette imbiancate di fresco, tra quattro mobili profumati di vernice fresca: unanno di paradiso, mezzo in terra e mezzo in cielo, di cui non sapeva supporre le delizie, senza provare delle vertigini quasi mortali. E faceva conto che restasse ancora il margine per una cinquantina di libri tra vecchi e nuovi, che, a furia di farsi desiderare inutilmente, eran diventati anch'essi una specie di amoroso tormento. A Bergamo aveva veduto esposto in una bottega un vestito intero di un panno grigio-ferro per sessantacinque lire: c'era da far la figura di un signorone. Per men di quaranta lire un suo collega, piú disgraziato di lui, gli aveva offerto un orologio d'oro, che avrebbe potuto diventare uno splendido anello con un rubino, un simbolo lucente che parlasse alla santarella d'un cuore vivo, coronato di spine, come quello del buon Gesú. E tutto questo per duemila miserabili lire, per molto meno, cioè, di quel che costa un cavallo! Il denaro non è l'idea, ma compera i padroni dell'idea. Misteriosa calamita, attira la simpatie degli uomini, di cui consolida il lavoro e la forza, come il raggio del sole si consolida nei frutti della terra. Il denaro è la volontà del mondo fatta metallo, è la forza quasi divina della materia, che il cieco volgo prosternato adora; e peggio per chi non ci crede! Le porte d'oro del piacere non si apriranno agli empi. Se non che le benedette duemila lire non erano per lui che una goccia di rugiada al sole. L'avvocato Brognolico aveva parlato chiaro. Si sarebbe tentato un concordato coi creditori, che, non potendo continuare essi a fabbricare mattoni, forse avrebbero potuto nel loro interesse venire a una intelligenza coi Lanzavecchia, che da padroni di casa dovevano rimanervi come servitori degli altri. Alla povera mamma doveva parer brusca questa sentenza, e piú brusca alla Lisa, con quel suo carattere indocile e caparbio! Battista doveva per ora e forse per sempre rinunciare alla sua Fiorenza, la quale non aveva servito che di specchietto per tirare gli allocchi nelle reti del sor Francesco della Fraschetta, un gran positivista anche lui! e anche Angiolino aveva finito di divertirsi colle sue trappole ai topi e cogli archetti agli uccelli. In quanto al sor Giacomo, il gran fabbricatore e negoziante di nebbia, come aveva già detto: Cara Celestina, addio, poteva aggiungere anche: Addio, filosofia! I creditori, gli avvocati, il curatore, il giudice, non potendo battere un morto e avendo bisogno di un vivo che potesse rispondere, venivano a cercare e a tormentare lui, che aveva studiato e perfino stampato dei libri. Camminando per la bella strada del sole, Giacomo cosí parlava all'ombra sua, che gli scivolava di sotto i piedi: - Intanto bisogna che ti metta nelle mani d'un uomo pratico, che ti consigli e ti mostri fin dove è dover tuo riconoscere gl'impegni di tuo padre. Un sapiente della tua forza è un pulcino nella stoppa in questi affari; tutti sistemi di filosofia presi insieme non pagano un soldo di pane. In queste angustie le profferte di casa Magnenzio e il soccorso pronto di questi buoni signori sono la mano di Dio, e tu non potresti rifiutare senza esporti al biasimo di altezzoso, di superbo e di sconsiderato. Non è elemosina, bensí una onesta anticipazione, che potrai restituire con largo interesse in altrettanto lavoro; ma fosse anche l'elemosina, il respingerla quando viene fatta a questo modo, sarebbe piú una scontrosità che un atto dignitoso. Si fa del bene anche col lasciarlo fare agli altri, e il saper ricevere non è merito piú comune che il saper dare. Se si toglie ai signori ogni occasione d'esser utili al prossimo, non si sa perché Dio li metta al mondo. Anche la ricchezza finirebbe col diventare un'illusione, se non giovasse a diminuire i mali del mondo, mentre nelle mani dei buoni e dei generosi la ricchezza è la vicaria della Provvidenza in terra. Tra questi pensieri giunse in vista delle Fornaci. Blitz,quando riconobbe il padrone, gli mosse incontro a fargli festa con un gran dimenare di coda. Giacomo gli strinse il muso, lo guardò negli occhi, e mettendogli vicina al naso la busta suggellata: - Indovina - gli disse - che cosa c'è qua dentro. - E siccome il cane ignorante non sapeva che odore avesse il denaro, Giacomo gli batté la busta sul naso, dicendogli: - Questo è l'Assoluto, asinaccio!

Ma non parendole ancora un giuoco abbastanza sicuro, pensò di cercare anche un pretesto per allontanare i sospetti e per ingannare il vecchio cavallante Fece un grosso involto con un fazzoletto, in cui mise alcune sue vesti e una scatola, strinse i gruppi del fagotto, che nascose sotto il letto, e si preparò ad aspettare la sera. Fu una giornata eterna quel benedetto martedí! Donna Gesumina venne una volta a leggerle una lunga Enciclica papale intorno alla santificazione della festa: poi le raccontò quel che a Milano un Comitato di pie signore intendeva di fare per imporre ai negozianti e ai rivenditori l'obbligo del riposo festivo. Celestina l'ascoltò benevolmente e lasciò che la signora mettesse anche il suo nome in una lunga lista, che monsignor Vicario doveva trasmettere a Roma. Queste pie preoccupazioni, accostate al grande e affannoso pensiero che le faceva il cuore duro e pieno di dolori, non potevano aver nemmeno la forza di irritarla; ma servirono invece ad accorciare il tempo, interminabile dell'aspettativa. Piú tardi venne di sopra anche Menico, ilfiglio del Pasqua, con in braccio un gran fascio di rami d'edera e di lauro fresco, con cui le due signore solevano ogni anno, nella settimana di Natale, costruire il presepio nel vano d'un armadio. Celestina fu lieta di poter aiutare la vecchia Costanza a levare da una cesta, a sciogliere dai loro involucri di carta, a nettar dalla polvere i pastori di terra cotta, le statue del Bambino, della Madonna, il bue, l'asinello, che facevano di quel presepio una delle poche meraviglie di Buttinigo. - Quest'anno aggiungeremo anche un molino mobile, vedrai - disse donna Gesumina. - Le monache della Noce non hanno un presepio piú bello. La vigilia vengono qui tutte le ragazzine e i bambini del paese colle loro mamme; e si dànno tre noci e una mela a ciascuno; ma prima si cantano le litanie. Un fuggevole senso di pentimento, un mezzo rimorso, venne una volta a indebolire le sue disposizioni. La sua scomparsa non poteva che turbare queste sante feste dell'innocenza e della pace, e procurare alle povere signore un grandissimo spavento. Se invece avesse mandato i suoi progetti a qualche giorno dopo le feste? Ma rifletté che piú tardi non sarebbe stata sicura di trovare Giacomo a casa. Poteva ella passare il giorno di Natale come una prigioniera in casa altrui, senza aver nessuna notizia de' suoi, nella cupa tristezza di chi si sente abbandonata? Dopo aver risposto, come gli altri giorni, al rosario della servitù nella grande cucina, verso le nove e mezzo accompagnò di sopra donn'Adelasia, portò l'acqua nella camera di donna Gesumina, dette e ricevette la buona notte, ridiscese in cucina a provvedersi d'un mazzetto di zolfanelli, si assicurò che la chiave dell'uscio fosse attaccata al suo chiodo. Finalmente, quando le parve che tutti fossero ritirati nelle loro stanze, calzò le scarpe di vitello sopra un paio di calze pulite, indossò un giubbetto di lana e il vestito piú pesante della festa, intascò la corona del rosario, il suo libretto di preghiere, una collana di granata e il borsellino con tutto il denaro regalato dalla contessa, si ravviò i capelli, si affaccendò piú che non abbisognasse a mettere in bell'ordine il letto, le sedie, il telaio dei ricami, il cestello delle sete e dei gomitoli, in modo che le signore avessero a ritrovare tutto a posto. Quando ebbe finito, sentí sonar le undici. Aveva ancora un'ora da aspettare. Spense il lume, s'inginocchiò a fianco del letto, si dispose a raccogliere la mente in qualche preghiera: ma l'anima non suggeriva nulla, come se la coscienza fosse già partita. Rimase però sempre in ginocchio, colla testa sprofondata nelle coltri in atto di pregare, perché il Signore e la Madonna vedessero il suo stato e l'aiutassero in questo passo. E intanto cercava di riandare nella mente la traccia della strada che avrebbe dovuto battere per arrivare alle Fornaci. Fino alla Madonnina della Noce la conduceva la solita strada del molino; al di là passa la grossa strada provinciale, nè poteva sbagliare se camminava sempre verso i monti. Rifacendo i conti a memoria, calcolò che, se la carrozza della contessa aveva impiegato meno di due ore a venire dal Ronchetto alla Madonnina, questo voleva dire che, partendo a mezzanotte e camminando sempre, lei avrebbe potuto essere alle Fornaci sul far del giorno. Se anche non ci fosse stato Giacomo, la zia Santina non l'avrebbe lasciata morir di freddo sulla strada, no povera zia, cosí buona! E forse anche la Lisa non avrebbe avuto il coraggio d'incrudelire contro una disgraziata. Le stesse bruscherie gelose della invidiosa cugina sarebbero state quasi una musica per le sue orecchie, quando avesse potuto ríposare nel pensiero d'essere nella casa de' suoi parenti. Del resto, facessero pur di lei quel conto, che si può fare di una poveretta senza meriti e senza diritti; la tenessero pure in casa come l'ultima delle serve, avrebbe lavorato per tutti, senza piú alzare gli occhi in faccia a nessuno; ma non dovevano permettere che queste signore la facessero chiudere in un ospizio, forse in compagnia di cattive traviate, o che la mandassero lontano, in paesi sconosciuti, tragente brutale, senza timor di Dio, che l'avrebbero forse maltrattata, o fatta morire a tradimento. Abbandonandosi senza ritegno alla corrente dei pensieri, che nel silenzio e nell'ombra della notte risonavano nel suo capo in una specie di gorgo, correva a immaginare colla fantasia sconvolta le piú terribili insidie da parte di questi signori, che temevano in lei un parlante testimonio dei loro peccati, e che avrebbero avuto della sua morte un sollievo immenso. Che cosa vale la vita d'una ragazza, che nessuno conosce, che nessuno difende? Se non ci sono piú nei palazzi i trabocchetti, dove una volta si facevano sparire le persone, non mancavano ai signori altri trabocchetti di ogni sorta per sopraffare i poveri. Non l'aveva forse la contessa intronata di parole e di promesse per metterla nelle mani di queste vecchie, che ora volevano seppellirla viva in un ospizio? Da questi pensieri, in mezzo ai quali errava la sua immaginazione sgomentata, fu tolta dal fragore del carro, che il Pasqua stava allestendo nella corte per la partenza. Si mosse, fece due volte il segno della santa croce, si alzò, trangugiò un mezzo bicchier d'acqua per sciogliere l'amarezza della bocca, avvolse le spalle e la testa in uno scialle bigio di lana, prese da di sotto il letto l'involto, che vi aveva preparato; e, dopo aver soffiato sulla candela, si mosse per uscire. Allo sparire del lume, la finestra si disegnò nella luce umile della luna, che dal mezzo di un cielo rigido, solcato da leggerissime ale di nuvole bianche, incombeva sulla campagna immersa nella neve. Celestina fu assalita da un panico immenso. Per poco il cuore ricusò d'obbedire alla volontà, che fin allora aveva comandato con tanta forza. La sua energia oscillò un breve istante in uno di quei dubbi dolorosi e tremendi, da cui, come dal fulcro d'una bilancia delicatissima, dipende spesso il male e il bene di tutta una vita. A sospingerla sottentrò la riflessione che per lei non vi poteva essere un male che fosse peggiore del perdere per sempre il suo Giacomo e del lasciarsi seppellir viva; e che ogni passo, in qualunque senso si faccia, per uscir dalle braci, non può essere un passo perduto. Spinse l'uscio e stette ad ascoltare ancora un momento sul pianerottolo. Quando fu persuasa che dormivano tutti, scese al buio la piccola scala di servizio, tenendosi attaccata alla parete. Guidata dal chiarore, che entrava da una mezza finestra, raggiunse l'uscio di cucina, cercò, palpando, la chiave, l'infilò nella toppa, provando al rumore che fece nel girare, quasi uno scricchiolamento in tutte le ossa; stette a sentire se alcuno dava segno di vita: e coperta dal rumore che facevan di fuori nel caricare, uscí nel cortile. Il Pasqua finiva d'attaccare il mulo, aiutato dal suo ragazzetto, che rischiarava con una lampadina la stalla. Affogato in un ferraiolo di schiavina, col cappuccio calato sulla testa, il vecchio cavallante lasciò qualche ordine al figliuolo, che si curvò ad accendere la lanterna a vento sotto la traversa del carro. Una luce giallognola e oleosa si sparse sul biancore lucente della neve e proiettò l'ombra incappucciata del vecchio, ingrandita come quella di un gigante delle tenebre, sul muro livido e muto del palazzo. La bestia istigata dalla voce sepolta del padrone, cominciò a raspare sul terreno per cercar sotto la neve il sasso; il carro si mosse, ballottando la lanterna e portandosi seco le ombre in una danza sconvolta. Quando fu per uscir dal portone e per svoltare, Celestina uscí dal suo nascondiglio, traversò il cortile; aspettò che Menico tornasse per rinchiudere, e, andandogli incontro gli disse, fingendo una certa apprensione: - O Menico, avete dimenticato questo fagotto, che va alle monache. Menico prese l'involto dalle sue mani e chiamando: - O pà, - corse dietro al carro. La giovane colse quel momento e voltò a sinistra. Camminando in fretta lungo il muro del brolo, uscí sulla strada del molino. Non era ancora sonata la mezzanotte, quando cominciò a camminare verso la strada della Madonnina della Noce, che apparve ben presto in fondo al viale in una massa densa, resa piú oscura dal riflesso vivo della campagna. Tirava una brezza acuta, quale può mandar giú la montagna in dicembre; ma essa se ne difese imbacuccandosi fin sopra agli occhi nel grosso scialle di lana e affrettando il passo. L'idea del trovarsi sola, di notte, per una strada deserta tutta piena di neve, in un paese sconosciuto, questa sola idea, che qualche mese prima, passando in sogno, l'avrebbe risvegliata in un sudor freddo, ora non le incuteva piú nessuna paura. Non c'è nulla, che abitua cosí presto al male, quanto la minaccia del peggio: e anch'essa ritrovava nella necessità delle cose quella forza misteriosa, che meraviglia cosí spesso la nostra stessa presunzione. I ladri, le ombre dei morti, che vanno attorno per il mondo, gli orrori dell'oscurità, gli spauracchi delle ombre, i gemiti, i fischi, che escono dai profondi silenzi della notte, le reminiscenze delle fiabe spaventose udite raccontare dalle comari, i terrori addensati nello spirito umano da secolari pregiudizi passati in lei per eredità, non mai scossi, che non si possono scuotere del tutto nemmeno dai piú forti, tutto questo era sempre qualche cosa di piú sopportabile in paragone di quel che gli uomini avevano fatto e volevano fare di lei. La notte, non limpida del tutto, era però rischiarata dal quarto abbondante di una luna, che le nuvole sparse per il cielo e più accumulate verso i monti non riuscivano a nascondere; e quella luce fredda, quieta, che scivolava sulla neve, eccitandone i segreti splendori, dava alla notte e alla solitudine un non so che di tenero, di seducente, o almeno di non cattivo, che parlava con una certa indulgenza all'anima primitiva della giovine. Quando, uscita dal viottolo del mulino, si trovò davanti la strada provinciale, larga, piana, rotta dai lunghi solchi delle ruote, che pareva correre senza fine al piede dei monti oscuri; e quando, fissando questi monti avvolti nelle nuvole, li vide lontani lontani, rimpiccioliti, sprofondati nella lontananza, un senso di nuovo terrore e di scoraggiamento ghermí il suo cuore. Il suono improvviso e pesante delle ore, scoccando sulla sua testa dal vicino campanile, ruppe quel breve istante di titubanza e di inerzia, che l'aveva fermata nel mezzo della strada, l'incoraggiò a continuare. A spingerla aiutò la vista d'un alto carro, che lentamente lentamente, col moto ondeggiante d'una barca che si avanza, veniva dalla parte di Bergamo, dondolando una lanterna sulla neve. L'idea d'aver dietro di sé in un momento di pericolo questo appoggio la sostenne. Volendo però stargli davanti per sfuggire alle questioni curiose dei carrettieri, si affrettò a riprendere il suo cammino nella direzione dei monti, che la chiamavano. A destra e a sinistra taceva la campagna nella sua gelida inerzia; ma questo silenzio avrebbe finito collo sgomentarla, se, oltre al soffio del suo respiro non fosse arrivato di tempo in tempo a sostenere il suo coraggio il rumore spezzato del carro che la seguiva, a cui, col raccorciare un poco il passo, cercava di accompagnarsi, appoggiandosi a quel rumore amico, che rappresentava per lei gli ultimi aiuti del mondo: cosí il bambino che si sveglia per un brutto sogno, si riaddormenta al rumore dell'arcolaio, che gli parla della mamma. E andò cosí tre o quattro chilometri, senza incontrar anima viva, sempre nella strada aperta, sempre col pensiero e coll'occhio rivolto a quei monti, che non mutavano di aspetto. Intanto pensava: - Prima che a Buttinigo possano pensare a me, io sarò quasi alle Fornaci. Troverò Giacomo? egli non può non tornare a casa a passar le feste, specialmente quest'anno di disgrazia. Se la zia non mi volesse ricevere andrò a cercar un ricovero in qualche cascinale, finché Giacomo non torni; e se anche lui non mi vuol ricevere e mi serra l'uscio in faccia, andrò a cercar lavoro a Brivio, a Lecco, in qualche filatoio, andrò a far la serva, a lavar la biancheria dei soldati, a cercar, se Dio vuol cosí, la carità sulle strade; ma in un ospizio non ci vado a farmi rinchiudere, a morire disonorata, arrabbiata come una cagna .". Col capo circondato da questi pensieri, come da uno sciame irritato di vespe, camminava sull'orlo della strada, dove la neve era già stata battuta da altri passi, fissando lo sguardo a qualche gruppo di piante lontane, che vedeva disegnarsi coi rami duri e neri sullo sfondodell'aria, provando nel suo muoversi rapido e nel calore che andava sviluppandosi dal suo corpo giovine e robusto, un senso quasi di soave energia. Dopo quattro mesi di sottili angoscie e di spasimi, durante i quali la volontà degli altri aveva fatto ogni sorta di strazi di lei, avviluppandola di fili invisibili, ubbriacandola di false dolcezze e di carezze e di moine snervanti, ora, finalmente, si sentiva libera, padrona di sé e dei suoi dolori, libera di soffrire e di morire a modo suo. Il calore del corpo, eccitato dall'andar lesto e faticoso su di una strada rammollita, dopo aver con una segreta delizia rianimato i suoi spiriti, cominciò a salire in un'afa soffocante alla testa, chiusa nel pesante scialle di lana. Lo lasciò andare sulle spalle, e provò un vero refrigerio a camminare cosí a testa nuda. Dopo quasi un'ora di non interrotto viaggio in cui poté piú di una volta abbandonarsi e dimenticare sé stessa nella successione rapida e luminosa di immagini lontane, che uscivano dal fondo scosso della memoria, cominciò a scorgere, nel bianco della strada, un gruppo di case, un villaggio, o un grosso cascinale da cui sentiva venire un abbaiare ingiurioso di cani, che si chiamavano nella notte. Stette un momento e si chiese se doveva aspettare e unirsi al carro che brontolava dietro di lei. Ma vinse quest'ultima incertezza con un senso crudele di disprezzo verso di sé. Se anche i cani uscivano a sbranarla, tanto meglio. Si affrettò a raggiungere le case, che dormivano tutte chiuse in una quiete che aveva un non so che di pensoso e di accigliato. Attraversò un grosso borgo passando prima davanti ai tarlati portoni dei cascinali, dietro i quali sentiva l'urlare e il raspare della bestia, poi davanti alle botteguccie chiuse e alla chiesa che dominava col vasto profilo nel vuoto d'una gran piazza deserta, non incontrando anima viva, cercando inutilmente coll'occhio una fessura, da dove uscisse un filo di luce. Dormivano tutti: i vecchi che hanno il sonno scarso, i giovani che portano a letto il corpo inquieto, i ragazzi che giocano anche in sogno; dormivano anche le povere mamme, che hanno i figli al camposanto; essa sola andava come un'anima in pena per le strade deserte a cercare qualche cosa che nemmeno il Signore le poteva dare. Non avrebbe domandato a Giacomo che una parola. Era persuaso della sua innocenza? bastava un suo sí, che fosse la convinzione in lui che in tutta questa disgrazia il suo amore, non solo non gli era mai venuto meno, ma non era stato toccato. Capiva che non poteva essere piú sua, ma l'essere abbandonata da lui non era nulla, se egli diceva di credere alla sua innocenza. Il suo amore gliel'aveva dato tutto e nessuno glielo poteva togliere. Questo pensiero le avrebbe infusa la forza di vivere in qualche maniera, lavorando, mendicando: nessuno, nemmeno il Signore, le poteva togliere l'orgoglio di essere stata amata da Giacomo. Ma se lui la cacciava via, se non la voleva vedere, oh allora, chi poteva assicurare della sua testa? E come se si spaventasse all'insorgere intempestivo di questa nera previsione, si fermò sui due piedi, strinse la testa nelle mani per aiutarsi con un atto vivace a non disperare, invocò tre volte il nome di Gesú, che aveva tanto patito anche Lui su questa terra; e per chiedere un aiuto a una sensazione esterna, che la sorreggesse in quel momento di vertigine, si voltò a cercare il suo carro. Ma la strada era vuota, immersa nella tristezza d'una nuvola che passava sulla luna. Forse il carro s'era fermato al borgo. Allora, per non lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, corse con affannosa precipitazione fino allo svolto della strada, che cominciava a discendere e a penetrare in certe boscaglie tenebrose piene di una neve piú bianca, che copriva un terreno piú tormentato e mosso. Sentendo passar nelle ossa un brivido di freddo, si strinse lo scialle indosso, si coprí di nuovo la testa per schermirsi dalle minute goccioline d'acqua, che stillavano dai rami sotto le scosse del vento: e fatto il segno della croce, trasse la corona e incominciò a intonare il rosario con una voce sostenuta ch'essa ascoltava. La preghiera lunga ed uguale, che nel suo sonoro meccanismo par fatta apposta per condurre gli spiriti piú inerti verso una lontana e indeterminata speranza, dopo aver rimesso in movimento la sua volontà, segnando quasi la battuta dei passi, la sottrasse per qualche tempo alla sofferenza de' suoi pensieri; non cosí bene però che gli sgominati fantasmi, sospinti da una parte, non rientrassero a poco a poco da un'altra, insinuandosi tra le avemarie, intralciandone la seguenza, interrompendone la benefica energia, finché a poco a poco la parola le moriva sulle labbra, i passi si facevan piú piccoli e pigri, l'infelice, continuando a muoversi collo spirito, dimorava coi piedi nel mezzo della via, rivolta e intenta a cercare dietro di sé qualche cosa di cui aveva piú il desiderio che la memoria. Una volta la scosse da quest'attonita immobilità il vociare grosso d'un carrettiere, che svegliatosi all'improvviso arrestarsi della bestia, gridava con anima assonnata a quest'ombra, che gli impediva di passare. Celestina trasalí con un guizzo acuto di spasimo in tutti i muscoli, balzò in disparte, si rimbacuccò nello scialle e riprese a correre sull'orlo della strada. Camminò un'altra mezz'ora, concentrando gli sforzi mentali nel richiamare la memoria di un sito, il cui nome ora le sfuggiva, dove sapeva che si passa l'Adda. Nel disordine sparpagliato delle immagini, la risonanza confusa del nome d'Imbersago, dov'è il passo del fiume, serviva come di nucleo e di centro a' suoi pensieri dispersi, in mezzo ai quali passavano delle fosforescenze febbrili. Lasciò indietro altri casolari isolati, sparsi nella campagna dai quali non usciva un filo di luce. Sentí muggire dal fondo delle stalle: incontrò altri carri schierati che seguivano il passo affaticato delle bestie e mettevano dei cupi rumori nell'aria intirizzita e chiusa. Scivolò, passò via non avvertita dagli uomini, che dormivan sulle robe, sempre sostenuta dall'orgasmo febbrile, che la faceva sognare a occhi aperti, aprendole davanti delle prospettive luminose, in cui nereggiavano i camini e i tetti bassi delle Fornaci. In questa mèta, che essa fabbricava a sé stessa, la fantasia inferma andava collocando le figure del suo pensiero, in costruzioni false ed illogiche. - Che avrebbe detto donna Gesumina, quando entrando la mattina nella stanza della guardaroba, non l'avesse piú ritrovata seduta davanti al solito telaio? forse avrebbe fatto bene a lasciare una parola scritta in un biglietto: le due signore l'avevano sempre trattata bene; ma Giacomo avrebbe scritto meglio di lei per giustificare la sua fuga. Non c'era che Giacomo che poteva disporre di lei: essa era sempre stata sua fin dal giorno che lo zio Mauro l'aveva condotta alle Fornaci sulla timonella, dopo la morte della povera mamma Mariannina. Aveva allora poco piú di cinque anni. Lo zio Mauro, che durante il viaggio se l'era tenuta sul ginocchio, nel calarla dalla timonella, l'aveva collocata in braccio a Giacomo, che la portò subito in vignetta a vedere i conigli. Fu ancora lo zio Mauro, che per una sua idea cominciò fin d'allora a chiamarla "Frulin", un nome senza senso, che pareva averli tutti al suo orecchio, quando ricordava i bei giorni passati. La zia Santina volle subito indossarle una sottanina di lana d'un color rosso vivo,che spiccasse bene in mezzo all'erba, quando andava a correre nel prato, perché non v'era buco in cui "Frulin" non si cacciasse, tanto era piccina e inquieta. E quando Giacomo sonava la chitarra nella stanza del torchio dell'uva? Lui sonava, zufolando sull'aria: Tant che l'era piscinin; e lei ballava, girando in una grande tinozza, che mandava il forte profumo del mosto. Nei sensi le parlava ancora questo acuto profumo d'uva calda. Un'onda spumante le pareva di veder scorrere qua e là in macchie purpuree sul candore della neve. E quando Giacomo se la recava sulle spalle nella gerla in mezzo alle colorite pannocchie del granoturco? Camminò su questi pensieri, senza poter distinguere sempre tra le impressioni reali e le immagini, che apparivano alla memoria, or più or meno confuse, fin che giunse all'incontro di piú strade. Qui si fermò, non sapendo per quale andare avanti, e novamente l'assalirono, come se fossero ivi appiattati ad aspettarla, i terrori della sua vita di ragazza oltraggiata, reietta, ingannata, figlia di nessuno, che nessuno voleva piú. Al chiaror della luna, che ricomparve un momento con improvvisa nitidezza, vide, sulla neve pesta, l'ombra della sua persona rimpicciolita, della sua testa nuda, che perdeva le treccie, dello scialle che, scivolando dalle spalle e mal trattenuto in vita, andava strascicando nel molliccio. Si vide, e cominciò a singhiozzare dolorosamente ed a cercare intorno a sé un'anima, che volesse aver compassione del suo stato. A sostenerla nel tristo momento venne un primo colorirsi del cielo dietro i monti, quasi un sospiro dell'alba in mezzo ad una nuvolaglia spessa, che si ammontonava sulle creste. Di là scendevano soffi piú densi, di un vento umido, pieno di ghiacciuoli, che le avviluppavano il capo, le stiravanoi capelli, le facevano desiderare qualche rifugio. Le strade del crocicchio partivano lunghe e larghe per direzioni diverse nel vasto piano di neve solcato dalle ruote, calpestato dai cavalli e dagli uomini: ma non un'anima viva nel deserto! Solamente uncapanno di paglia presso una pianta, un trenta passi fuori della strada, usciva dalla neve e pareva invitarla a prendere un po' di riposo. Vi si avviò, avendo creduto d'intendere voci di ragazze, che la chiamassero; ma, fatti alcuni passi nella neve molle, cominciò a sprofondare fino al ginocchio; e allora tornò indietro; poi, per quanto cercasse intorno, non vide né il capanno, né la strada. Si fece il segno della croce e, richiamate con uno sforzo acuto della volontà le energie dello spirito, avviò un secondo rosario colla intonazione alta, con cui soleva precedere la processione della chiesa al camposanto, durante la novena dei morti. La preghiera traboccava dalle labbra per un impulso meccanico della voce; ma il pensiero andava a ritroso, risaliva a tempi lontani, s'immedesimava con cose passate e morte, rivivendo, con lucida illusione i momenti trascorsi, indimenticabili, di una vita umile e dolce, piena di affetti, di tenerezze, di gioie nascoste, di pudibondi sogni, che non aveva mai osato esprimere asé stessa, quando il piú santo dei desideri le pareva cosí bello che non osava carezzarlo senza qualche rimorso. Si sparpagliavano come foglie trasportate dal vento le immagini, che illustravano la storia segreta del suo amore per Giacomo, dal dí che se l'era veduto venir davanti vestito da pretino (allora essa non sapeva ancora che cosa fosse amore) fino all'altro dí, cosí diverso, al tempo della guerra, quando, dopo aver provato tutti gli spaventi della morte, seppe che era tornato sano e salvo. Essa era in vignetta a coglier dei piselli per la minestra, quando il Manetta, che amava le grosse celie, le disse: - Cerestina , c'è il Garibaldi: non senti pim pum pam? - Essa rispose: - Che mi fa a me il vostro Garibaldi? - Ma non aveva ancora finito di parlare, che dietro il verde dei fagiuoli vide muoversi qualche cosa di rosso, come sarebbe stato un grembiale che sventolasse all'aria, e invece era lui, che, appiattandosi, cercava di avvicinarsi senza farsi scorgere: era lui, colla camicia rossa del garibaldino, arrivato improvvisamente; era lui annerito dal sole, lacero come un povero ladro; che, senza pensarci, se la prese tra le braccia: e anche lei, senza pensarci, gli aveva buttato le braccia al collo, mentre il Manetta cantava l'inno di Garibaldi e batteva le mani, piangendo come un ragazzo. Era cosí viva e presente questa scena che la poverina, come se l'allegria la portasse in aria, affrettava il passo, volando sulla neve, ridendo ancora giulivamente, mentre vedeva verdeggiare la strada e, in mezzo al verde, vedeva uscire il suo garibaldino. Cercava buttargli le braccia al collo senza poter raggiungerlo mai; e correva innanzi, sorretta dalla calda ebbrezza della febbre crescente, che non le lasciava sentire i brividi dell'aria mattutina. Una volta fu repentinamente arrestata e svegliata da un fischio acutissimo e dal passare rumoroso di un treno, che scivolò, lanciando una fiammata di scintille. Si fermò, girò gli occhi intontita, si raccapezzò, sentí la sua febbre, la sua pesante stanchezza; ma si consolò nel vedere già chiaro il cielo e nel trovarsi in mezzo alle note alture, poco lontana dalle sue montagne. Piovigginava da una mezz'ora, e non se n'era accorta. Sentendosi lo scialle e i vestiti inzuppati e freddi come ghiacciuoli, li scosse, si rimbacuccò, ringraziò il Signore d'averla accompagnata e (poteva dire d'aver camminato in sogno) si volse a cercar qualcuno, che le insegnasse la strada piú corta per andare al traghetto del fiume. Al rintocco d'un'avemaria, che venne da una chiesuola pocolontana, di cui scorse il campanile disegnarsi tra due cipressi, si avviò a quella parte, si mise a sedere sul gradino della chiesa, e stette ad aspettare che qualcuno aprisse la porta. Cosí accovacciata, colla testa sui ginocchi, si assopí un istante, rotta dalla fatica. Le furiose scosse della febbre la svegliarono: temette di morir intirizzita sulla strada, e colla forza nervosa ed esaltata, che dà il delirio, si mosse, si volse a tre contadine, che andavano al mercato a vender uova, e chiese loro la strada per il passo dell'Adda. Le fu indicata una stradetta, che scendeva al fiume, senza bisogno di girar tutta la carrozzabile; ed ecco dopo cinque minuti poté scorgere dall'alto della riva l'acqua incassata d'un color nero inchiostro, e al di là, nell'ombra grigia del crepuscolo, nel biancore della neve, la macchia del Santuario, il palazzo del Ronchetto e i neri camini delle Fornaci. Non sentí piú a quella vista né stanchezza, né brividi, né titubanze: di là c'era il suo Giacomo.

Teresa

678558
Neera 9 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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. - Non ne ha abbastanza di Carlino? - Oh! non per me; ma le ragazze, poverette, che cos'hanno di buono a questo mondo?… Un grande sconforto le piegò gli angoli della bocca, e i suoi occhi neri, opachi, si velarono di lagrime. - Su, su, lasci stare le malinconie. Siamo donne, ma, diavolo, non c'è stato nessuno che ci abbia mangiate. Tre ragazze le ha già, una piú, una meno ... così il suo Carlino non va soldato. Il silenzio si rifece, grave, tormentoso; rotto a tratti da' gemiti della sofferente. - Vede, signora Caterina, in questa camera io son nata; in questa camera ... presto ... forse oggi, chi sa non abbia a morire. - Ma ne devo sentire ancora? - interruppe la signora Caterina, ponendosi le mani sui fianchi - si crederebbe, a darle ascolto, ch'è una bambinetta senza giudizio, e non la madre di quattro figli, a momenti cinque! Perché deve morire? Tanto può morir lei, come posso morir io, sul colpo, di accidente. Ha sentito ieri? Il fratello del sindaco, quel pezzo di uomo che pareva il ritratto della salute? ... In un jesus, nemmeno il tempo di dire amen; stava leggendo una lettera, paf, era morto. Non si deve pensare alla morte; quando viene, è perché deve venire; del resto noi donne abbiamo sette anime e un animino ... allegra dunque. Fra un'ora, un'ora e mezzo al piú tutto sarà finito. Guardi, l'ho detto a mia cognata Peppina prima di uscir di casa: aspettami all'alba, che la signora Caccia si sbriga presto. Non è il primo giorno che ci conosciamo, eh! Si fidi. La signora Soave, un po' calmata, girò attorno per la stanza uno sguardo carezzevole, quasi per trovare degli amici nei due canterani di legno di noce a pancia rigonfia; nel letto, mezzo nascosto sotto una bella coperta di filugello giallo a fioroni verdi, colle lenzuola rimboccate, guernite di una gala di mussolino; nell'inginocchiatoio, tutto pieno di libri, col predellino incavato dalle lunghe genuflessioni; nello specchio piccolo, verdognolo, appeso troppo in alto, dove non si vedeva che la faccia; nelle tende della finestra, lavorate da lei, a rombi, con un uccellino e una palma alternati per ogni rombo; nei due unici quadri, in cornice di legno nero, rappresentanti il matrimonio di Maria Vergine. Ma piú che tutto, lo sguardo della signora Soave si arrestò con compiacenza sopra un bambinello di cera coperto da una campana di vetro. Quel bambinello giallino, con due puntini neri al di sopra di un piccolo rialzo che simulava il naso; quel bambinello dall'espressione dolce e rassegnata, coricato da piú che vent'anni in mezzo ai fiori di carta e alle striscioline d'argento che gli ornavano la culla; quel bambino nudo e santo attirava in modo particolare la tenerezza della signora che si sentiva struggere di amore e di rispetto; con una voglia di piangere, una voglia di baciarlo, e una voglia di raccomandarsi alle sue manine benedette. La grandezza di Dio, rappresentata da quel piccolo bambino, la colpiva di uno stupore pietoso e devoto. Si alzò, e, movendosi a stento, andò a deporre un bacio sulla campana di vetro; restando poi immobile, colle mani giunte, assorta in una contemplazione dolorosa. L'uscio, di fianco al letto, si aperse pian pianino, e una testa di fanciulla, passando tra la fessura, domandò: - Mamma! La signora Soave si scosse: - Che vuoi Teresina? Non ti sei coricata un poco? - Oh! com'è possibile? Sto alla finestra con Carlino; aspettiamo il babbo. È passato Caramella, mi ha detto di stare tranquilli, che pericolo per il momento non c'è. Papà verrà presto. - Dio sia lodato! Va' a letto, Teresa, va' a letto. - E tu mamma? - Or ora ci vado. La fanciulla fece atto di ritirarsi; ma, prima che l'uscio fosse chiuso, la madre le si avvicinò, perplessa, ponendole una mano sulla spalla e dicendole a bassa voce con accento tremante: - Prega per me ... - Mamma ... mamma ... Ella si pose un dito sulle labbra, composta, con una solennità misteriosa e dolce: - Questa notte avrai un altro fratellino ... sono cose che capirai piú tardi ... ma già sei la maggiore tu, devi pur saperlo. Ora va a letto. La pose fuori con amorevolezza, e chiuse l'uscio. Dall'altra parte, in uno stretto corridoio, che divideva la camera nuziale dalla camera delle ragazze, Teresina rimase immobile, appoggiata allo stipite dell'uscio, con una oppressione in gola e un turbamento improvviso. Aveva quindici anni. Era cresciuta nell'ambiente tranquillo della famiglia, in quella cittaduzza di provincia, lontana da tutte le emozioni. Era il primo anno che stava a casa da scuola, e ne' suoi doveri di giovane massaia aveva ancora l'incertezza della inesperienza; ma si sentiva compresa della sua missione di aiutare la mamma. Il suo temperamento la portava alla serietà, e il suo cuore all'affetto. Le poche parole della madre, pronunciate lì sull'uscio, nel turbamento di quella notte, l'avevano profondamente impressionata. Si sentiva a un tratto fatta donna - con un presentimento improvviso di dolori lontani, con una responsabilità nuova, con un pudore bizzarro, misto di una straordinaria dolcezza. Sembrava che in quel momento, solamente in quel momento, ella riconoscesse il proprio sesso, sentendosi scorrere nelle vene un'onda di languore non mai avvertita prima, e, nel cervello, sorgere una curiosità viva, pungente, la quale cessò di colpo davanti al rossore che le invadeva le guancie. Tutto ciò durò lo spazio di cinque minuti, come fosse ricaduto il lembo di velo che le aveva squarciato il futuro. Ella si rifece calma, di una calma piú malinconica, piú intensa; rientrò nella propria cameretta; il fratello che l'aspettava, appoggiato al davanzale della finestra, guardò con una intuizione nuova, ed avendo egli pronunciata qualche parola, trasalì al suono di quella voce d'uomo, e lo guardò, alla sfuggita, temendo ch'egli potesse leggerle sul volto il suo segreto. Ma Carlino non si occupava che della piena. Avrebbe voluto trovarsi anche lui sull'argine, insieme agli altri, e si sporgeva fuori dalla finestra per vedere se passava qualcuno a cui domandare notizie. Qualche altra finestra, come quella dei due ragazzi, era aperta; donne spaurite vi si affacciavano origliando, temendo sempre i rintocchi della campana che doveva avvertirle di fuggire. - Sai? - disse Carlino, col riso un po' melenso dei fanciulloni di quattordici anni - la vecchia Tisbe è in piedi da due ore, colle sue posate d'argento nel grembiale e il cagnolino sotto il braccio. Teresina non rise. - Se potessi ... - tornò a dire Carlino, ponendo una gamba a cavalcioni del davanzale - solamente una scappata, tanto da vedere. Credi che non sarei capace di scendere dalla finestra? - Andiamo, via, ci mancherebbe altro. Gli rispose cosí, a fior di labbro, dritta dritta nel vano della finestra, collo sguardo fisso ostinatamente nel buio. A un tratto si accostò a suo fratello, passandogli un braccio intorno al collo, chinandosi lievemente, fino ad accarezzare colla guancia i capelli di lui corti ed ispidi come le setole di una spazzola. Egli non avvertì la carezza. Tutto sporto fuori colle braccia, guardando in direzione della piazza, diceva: - Se venisse giù di lì! giù! giù! uh! che fracasso ... Non lo sgomento del pericolo lo agitava, bensì l'emozione di quel divertimento nuovo. Tutto il fiume giù in paese! uh! ... E rideva, pensando ancora alla vecchia Tisbe, col cagnolino sotto il braccio e le posate nel grembiale. - Che grossa disgrazia! - mormorò Teresina, rabbrividendo, stringendosi contro al ragazzo con un bisogno irresistibile di tenerezza. - Auf! - fece egli, dando una crollata di spalle - mi soffochi. E si sciolse dall'amplesso, sbuffando. La fanciulla, mortificata, si ritirò in fondo alla camera, dove c'era il suo letto. Sedette sulla seggiolina, accanto al capezzale, e lasciò cadere la testa fra i cuscini. Lì presso c'era il letto delle gemelle; coricate l'una da capo e l'altra da piedi, vestite, con un scialle buttato a traverso dei loro corpi. Dormivano saporitamente. Di lí a poco, un andirivieni, un movimento insolito in camera della madre, fece risollevare il capo a Teresina, che si portò accanto all'uscio, origliando. Successe un breve silenzio. Ella stava per riprendere il suo posto, accanto al letto, quando un vagito di bimbo le trasse una esclamazione; e subito, senza riflettere, obbedendo ad uno slancio del cuore, entrò nella camera attigua. - Mamma, mi permetti? La signora Caterina si fece sull'uscio, seria, con un dito sulle labbra. - La lasci entrare - mormorò fiocamente di sotto la coperta a fiorami, la voce della signora Soave. Teresina entrò in punta di piedi, commossa, rattenendo il fiato. La signora Caterina le presentò una bambinetta appena nata, tutta rossa, avvolta in un pannicello. - Oh! com'è piccolina. Voleva prenderla in braccio, ma la signora Caterina non lo permise. - Dopo, quando sarà fasciata. Teresina la baciò adagio sui capelli; poi, avvicinandosi al letto di sua madre, vi si chinò sopra, riverente, piena di tenerezza, con un senso recondito di timore. - Lasciala stare la mamma - disse bruscamente la signora Caterina. - Sto bene - tornò a mormorare la signora Soave, ricambiando con uno sguardo le carezze della figlia; e soggiunse: - Teresa è la mia donnina, dovrà fare da seconda madre ... - Sí, sí - rispose la fanciulla, tanto commossa, che quasi singhiozzava. La signora Caterina, senza dir altro, la prese per un braccio, e la pose fuori della camera. Carlino venne incontro a sua sorella, gridando: - C'è qui il babbo. Ora sentiremo le notizie; mi ha già detto che hanno atterrato tutte le case vicine a San Rocco. Teresina non capì nulla; aveva anche lei la sua notizia e la disse al fratello, tremante, tutta pallida: - Ci è nata una sorellina. - Ah! sì? - fece Carlino - lo sapevo che doveva nascere. E scese le scale di corsa, per incontrare suo padre. Teresina rimase immobile, colpita dalle ultime parole del fratello. Come mai egli lo sapeva?

Pagina 13

Questa frase monca, che per un movimento del predicatore era giunta abbastanza distinta al suo orecchio, la scosse; procurò di stare attenta alla parola divina, aggrottando le ciglia, stringendo le mani sopra il suo libro di preghiere. Ma dopo qualche istante le mani tornavano ad allontanarsi, gli occhi ripresero le vie aeree su per i cornicioni, nel fogliame dei capitelli, dentro lo sfondo della cupola, e ancora sulle ogive pallide battute dalla pioggia. Un sorriso impercettibile le sfiorò le labbra; per un giuoco strano della fantasia ella aveva visto improvvisamente quel finestrone illuminato da un tramonto d'autunno e le saliva alla testa, con un profondo sospiro, un profumo acuto di basilico; proprio come se avesse davanti i ciuffi rigogliosi di quell'erba. Chiuse gli occhi, abbagliata. Per un po' di tempo s'avrebbe potuto credere che ella pure dormisse, tanto era immobile, assorta nella visione. "Così avverrà quando, per la misericordia di Dio, ci troveremo riuniti in paradiso". La predica era finita. Tutti si alzarono, stirando le gambe, sbattendo le palpebre per cacciare un resto di sonno. Teresina aperse il manuale, a caso, temendo avesse qualcuno ad accorgersi delle sue distrazioni, volendo cacciarle coll'intensità della preghiera. Non era il posto della messa, ma ella lesse egualmente, con un ardore inquieto, pronunciando le parole, spiccandole, piena di fervore. "Vi abbraccio, o Gesù, mia gioia e mia consolazione. O anima mia, creata ad immagine di Dio, ama il tuo Dio da cui sei tanto amata. O Gesù, se non vi amo abbastanza, accendete in me il fuoco del vostro amore, che mi abbruci, che mi consumi, che mi faccia tutta vostra". Il celebrante trascinava l'ultima parte della Messa, assorto nel mistico raccoglimento della comunione. La signora Soave, rispondendo ad una inchiesta delle gemelle, disse: - Or ora, abbiate pazienza. Fate l'atto d'adorazione. L'Ite missa est fu accolto con un movimento di soddisfazione generale. Teresina chiuse il libro, in apparenza composta, ma con un tremito in tutto il corpo. Si segnò, fece la riverenza; il cuore le batteva disordinatamente. Appena fuori di chiesa, sulla soglia, prima ancora di aprire l'ombrello, ella guardò ansiosa in un certo angolo della piazzetta. Orlandi era là, riparato sotto un'ampia gronda all'antica, colle spalle al muro, l'occhio intento. Scambiarono uno sguardo rapidissimo, lor due soli; e poi, quando furono vicini, il giovane salutò. - Come fa Orlandi ad essere ancora qui? - disse la signora Soave. - Dovrebbe trovarsi a Parma già da un mese. Teresina non rispose; ma il suo viso divenne rosso infiammato. Non osava piú alzare gli occhi; camminava automaticamente, fissando i quattro stivaletti delle gemelle i quali battevano il lastrico davanti a lei. Dalla chiesa di San Francesco alla lor casa erano pochi passi. Sulla porta furono raggiunte da Orlandi, che si scusò dell'ardire, annunciando che l'indomani partiva per Parma, ed era venuto a chiedere se la signora Caccia avesse qualche imbasciata per Carlino. La signora, grata e sorridente, lo invitò ad entrare; egli volle schermirsene; ma siccome discorrevano sotto la pioggia, le gemelle apersero la porta, e Orlandi si tirò indietro per lasciar passare le signore. Entrarono prima le gemelle, la mamma e da ultimo Teresina, la quale, piú morta che viva, sentì prendersi rapidamente la mano e far scivolare in essa una lettera. Non ebbe tempo né di rifiutarla né di parlare e nemmeno di guardare l'audace che, ritto sulla soglia, protestava di non voler entrare a dar disturbo, bastandogli una parola per Carlino. Il ricevitore uscì dal suo studiolo, alla voce d'Orlandi; le gemelle salirono lentamente la scala, strisciando le scarpe per farle asciugare. Teresina le seguì. Quella lettera le bruciava il palmo della mano; non sapeva dove metterla. Si spogliò con un pugno chiuso, a movimenti febbrili; divorando cogli occhi le due ragazze che non terminavano mai di levare gli abiti. Sotto il portico, Orlandi, il signor Caccia e la signora Soave scambiavano dei complimenti; poi Orlandi se ne andò. Teresina col viso contro i vetri lo vide allontanarsi verso la piazza. - Non siete ancora pronte? ... - Che te ne importa? Facciamo il comodo nostro. Le gemelle erano cattive e maligne; l'istinto le avvertiva che annoiavano Teresina restando in camera, e vi restarono piú a lungo. Teresina colla fronte appoggiata ai vetri guardava a piovere; aveva messo la lettera in tasca, e vi teneva sopra la mano, stringendola con furore. Finalmente se ne andarono. La fanciulla balzò all'uscio, tirò il catenaccio e, tremante come fosse sul punto di commettere un delitto, aperse la lettera. "Ho bisogno di parlarle da solo a sola; non mi neghi questo favore. Stassera, dalle dieci alle undici, passeggerò finché ella abbia la bontà di aprire la finestra terrena. Aspetto e spero. E. ORLANDI. Era piú, ed era meno di quello che supponeva. Da un mese il giovinotto le faceva, visibilmente, quantunque delicatamente, la corte. Una dichiarazione formale non poteva essere molto lontana dalle idee di Teresina; se la fanciulla avesse avuto il coraggio di interrogare se stessa, avrebbe trovato il desiderio di quella dichiarazione in tutti i sospiri che gettava al vento, nelle ansie della domenica, quando doveva andare a messa e sapeva di vederlo, là, al solito posto; nelle distrazioni frequenti, nei sonni agitati: - sì, la dichiarazione era attesa. Ma quella lettera non diceva una sola parola d'amore, e le chiedeva invece, senza preamboli, una cosa tanto grave, qual'era un appuntamento. Teresina non sapeva che risolvere; si trovava in una agitazione strana. Per fortuna nessuno venne a bussare al suo uscio, così che ebbe tempo di rimettersi alquanto, almeno in apparenza. Nascose la lettera in seno; ma era troppo alta, la sentiva scricchiolare ad ogni movimento; aperse il busto, e la spinse piú avanti, vicino al cuore; allora le venne il dubbio che potesse scivolarle giú per la vita e perdersi per la casa; ne provò un terrore pazzo; tornò a slacciarsi tutta, assicurando la carta con uno spillo alla camicia. Ancora non si sentiva tranquilla, e ad ogni tratto andava tastando colle dita se la lettera fosse al posto. Che voleva Orlandi da lei? Era possibile che l'amasse davvero? Egli, il piú bel giovane del paese! Si batté la fronte: - oh! - proruppe in un oh! di rabbia, di dolore. Ricordava una fotografia trovata nella valigia di Carlino, il ritratto di una bella donna che suo fratello aveva chiamata l'amante d'Orlandi. Uno strazio, una smania orribile la prese, una gelosia rapida, quasi fulminea; un bisogno di interrogare suo fratello, di sapere chi fosse quella donna, se Orlandi l'amava molto, se l'amava ancora, dove era, che faceva, tutto tutto. E Carlino era a Parma! Si morse le mani dal dispetto; almeno glie lo avesse domandato subito, lo saprebbe. Ma che glie ne importava allora? - E adesso? Lo amava già tanto quell'Orlandi, lo amava al punto di soffrire, da piangere per lui? perché piangeva, non dirottamente, ma con quelle lagrime scarse e brucianti che lasciano il solco. Non sarebbe andata all'appuntamento, oh! no. Gli avrebbe rimandata la sua lettera, con un silenzio sdegnoso. Ma se la storiella del ritratto non fosse vera? Se Carlino avesse affibbiata all'amico quella innamorata, così per celia? In fatti, perché tenere nella sua valigia il ritratto dell'amante di un altro? Si chetò. Rifece, dolcemente, la breve tela de' suoi incontri col giovane; la prima volta che si erano conosciuti, nella passeggiata alla Fontana; l'improvvisata che egli le aveva fatta, trovandosi subito la domenica appresso sulla porta della chiesa. Ripensò i suoi sguardi così espressivi, quella bella persona, quella testa intelligente, quel sorriso che pareva un raggio di sole. Una soavità d'amore la invase; sentì correre per le vene un giubilo novo, come se una grande felicità l'attendesse, come la sua vita, chiusa fino allora, si aprisse ad orizzonti sconfinati. Ma volle frenarsi, dopo tutto non sapeva che cosa le avrebbe detto Orlandi. Pensò un istante di chiedere consiglio alla pretora. Se fosse stata presente, le avrebbe narrata ogni cosa. Ma la pretora, quel giorno non si fece vedere. Prima di scendere Teresina cedette a un desiderio invincibile di rileggere la lettera. Era la terza o la quarta volta che si sbottonava l'abito, che sentiva correre sulla pelle quel foglietto di carta levigata, morbido come una carezza, pungente come una ferita; ed alla carezza sorrideva, alla puntura gettava un piccolo grido smorzato dal piacere, tutta tremante, sembrandole che quel foglio, uscito dalle mani di un uomo e che ella nascondeva in seno, togliesse il primo velo al suo pudore di vergine. Quando andò a raggiungere la madre nel salotto terreno, ella si era composta una fisonomia calma, ma così seria, così piena di mistero, che la signora Soave le domandò subito che cosa avesse. Teresina mentì, come mentono tutti gli innamorati. Ma in fondo al cuore le doleva quella menzogna alla mamma, non sapendo poi nemmeno lei perché taceva, perché mentiva. La signora Soave, colle manine di cera abbandonate sui ginocchi e lo sgabello sotto ai piedi, incominciò a parlare di Carlino, delle camicie che bisognava mandargli, dei fazzoletti che non erano orlati ancora; ogni tanto interrompeva la litania monotona con un: - Te ne rammenti, nevvero, Teresina? Teresina diceva di sì. - Tuo padre si lagna sempre; dice che non facciamo economia, che quel ragazzo gli costa un occhio, e che, se noi non sappiamo limitarci nelle spese, sarà costretto a fargli sospendere gli studi ... Un lunghissimo sospiro sollevò il petto gracile della signora Soave, per un po' non ebbe voce; indi riprese, affievolita, tenendosi una mano sul cuore: - Ho raccomandato all'Orlandi di dargli dei buoni consigli … che posso fare, mio Dio, che possiamo fare noi donne? A quel nome di Orlandi, Teresina aveva trasalito impercettibilmente, volgendo gli sguardi al gran quadro meccanico che conteneva l'orologio. Erano le due. Otto ore ancora! Le gemelle intanto si accapigliavano nel vano della finestra, mute, senza chiedere soccorso a nessuno. Convenne dividerle; cinque minuti dopo si abbracciavano, al medesimo posto, facendo sberleffi alla loro sorella maggiore. L'Ida si annoiava con quella giornataccia: in causa della pioggia non poteva uscire nel cortile a giuocare. La noia pei bambini è sinonimo di capricci; ella incominciò a far tante diavolerie, che la signora Soave, colla testa intronata, sentendo un principio di emicrania, pregò Teresina di occuparla. E Teresina, pazientemente, si pose a ritagliare degli ometti di carta, e poi delle carrettelle, e dei vasi da fiore, e poi delle casette col tetto, colla porta, colle finestre da chiudere e da aprire. Era calma, sorrideva; ma ad ogni quarto d'ora i suoi occhi cercavano con ansia le sfere dell'orologio, e ad ogni ora che suonava, il sangue le dava un tuffo. Per lo sforzo del contenersi, era diventata pallida. Aveva dimenticato di far colazione; si sentiva appetito, ma non la voglia di mangiare. Anche il parlare le costava fatica. Avrebbe voluto chiudersi nella sua camera, e non far altro che pensare a lui, intensamente, esclusivamente. Non era possibile. Verso le quattro dovette andare in cucina ad ammannire il desinare; la mamma l'aiutava, debolmente, sedendosi ad ogni minuto, stringendo colle manine gialle il capo che le doleva. - Va', va', mamma; faccio io. - Le gemelle potrebbero darti una mano ... - No, mamma; hanno i loro compiti di scuola. Le gemelle erano l'incubo di Teresina. Ella se le vedeva crescere accanto astiose, diffidenti, ricambiando con una musoneria fredda tutte le sue premure. Avrebbero potuto essere le sue amiche, le sue confidenti, e invece una barriera di ghiaccio le divideva. Questo era un grande sconforto per Teresina. Così, tutta sola nella cucina bassa, intenta a uffici volgari, la fanciulla ingannava l'eternità dell'aspettativa avvinta docilmente alla sua catena, imparando la grande virtù femminile del dominarsi, la profonda abilità femminile di nascondere un tormento dietro un sorriso. Nel muoversi rapidamente, nel chinarsi, ella sentiva ancora lo sfregamento della lettera sulle carni delicate del seno; allora stringeva le labbra, palpitando lievemente, come per assaporare meglio quella sensazione che era ad un punto dolore e piacere.

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Quando Caramella fu abbastanza lontano per non destare piú sospetti, Orlandi supplicò: - Un'ultima parola ... Teresina riaperse i vetri. - Mi dica che mi vuol bene anche lei! Questo, Teresina non lo disse; ma sospirò e tremò per modo e strinse così soavemente le mani del giovane, che costui non le chiese altro. - Buona notte. - Buona notte. - Pensi a me ... Silenzio eloquentissimo, prolungatissimo. - Addio. - Addio. Però non si staccavano. - Verrò presto ... Un altro passo, in lontananza, li decise; Orlandi, gettandosi il mantello sulla spalla, fradicio d'acqua, strinse ancora una volta le mani della fanciulla e si allontanò. Teresina, nello staccarsi dalla finestra, dovette reggersi al muro perché barcollava. Aveva le guance, il collo, le braccia bagnate dalla pioggia; eppure ardeva. Trovò il lume semispento, dietro il pilastro. Salì adagino, cauta, ma non piú timorosa, meravigliata ella stessa di sentirsi così forte. Tutta la casa era tranquilla. Le gemelle dormivano, russando lievemente, colla coperta fin sopra le orecchie. Teresina cadde in ginocchio nel corsello del letto, colla fronte contro il guanciale, in un'estasi d'amore; con un bisogno immenso di elevare il cuore a Dio, di prenderlo a testimonio delle sue emozioni, di benedirle e di purificarle nello slancio di una preghiera ardentissima. Il cielo, per lei, era il punto di partenza d'ogni cosa bella, ed al cielo mandava i suoi novi desideri, casta, fidente. Ringraziò Dio come di una grazia ricevuta, come di una felicità insperata. Si sentiva duplicare la vita; un altro essere palpitava in lei, dandole la sensazione strana di due pensieri in un pensiero. Era amata! Amava! Si spogliò rapidamente, dimentica di tutto e di tutti; del padre terribile, della sua buona mamma, dell'Ida che fra poche ore sarebbe desta, chiedendo le sue cure. L'assorbimento amoroso si manifestava con tutta la sua potenza. Dio e Orlandi. In letto, cogli occhi sbarrati, il corpo immobile, colla lettera stretta sul seno, ella ripensò parola per parola, carezza per carezza, tutta la scena della sera. Ed era felice. Di dormire, nemmeno la piú lontana probabilità; potendo, non avrebbe voluto, per non staccarsi dall'immagine diletta. Si rammaricava un po' di non aver saputo parlare, di non aver chieste maggiori spiegazioni, di non avergli fatto promettere che l'avrebbe amata sempre. Le dispiaceva soprattutto di non avergli domandato il suo nome. Come si chiamava Orlandi? Nella firma della lettera prima del casato c'era l'iniziale E. Forse Edmondo, come quell'amico di suo fratello? Forse Enrico? Edoardo sarebbe pur stato carino, o Edgardo ed anche Eugenio. Baciò la lettera a piú riprese teneramente, parlandole come a persona, improvvisando canti e poemi, trovando tutte quelle parole che un'ora prima, alla finestra, aveva inutilmente invocate. Stava bene dappertutto, nel corpo, nell'anima, nel cuore. Un'armonia dolcissima correva da' suoi pensieri alle sue sensazioni; aveva la piena coscienza della sua gioventù e della sua salute. Era sana ed era felice. Si abbracciava da sé, colle mani sull'alto delle braccia, sembrandole di avere nelle carni un piacere nuovo; e dentro, nell'intimo delle fibre, una leggerezza ideale che la trasportava. Non prese sonno in tutta la notte, ma sognò tra un dormiveglia delizioso, mormorando nomi d'amore. Aveva spiegata la lettera sul guanciale e vi posava sopra la faccia, colla bocca in giù, respirandola.

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Non si trovava mai pulita abbastanza; avrebbe voluto olezzare come un fiore, per lui. La maggiore delle Portalupi si faceva sposa, non col sotto-prefetto, con un impiegatuccio di Cremona. Le orfanelle cucivano il corredo, e Teresina, che conosceva la direttrice del pio ospizio, andò un giorno a vederlo insieme alla pretora. La sola parola "nozze" le faceva battere il cuore. Si sentiva trascinata con una curiosità ardente verso quel corredo che le orfane eseguivano sopra modelli fatti venire appositamente da Milano. Le povere ragazze, un po' stupide, molte ignoranti, tutte brutte, spiegavano la biancheria, mostrando i ricami di una pazienza inaudita. La direttrice, vecchia zitella, coi peli sul mento, colla faccia indurita nell'ascetismo, toccava colle sue mani scarne la batista pieghevole, passando il lembo del grembiale sotto i trafori, per dar loro maggior risalto. - Questa ghirlandina di viole - disse la pretora. - E questo punto di Venezia - soggiunse Teresina, indicando una camicia, la cui metà superiore era tutta di trine trasparenti. La direttrice la spiegò interamente, volendo mostrare la diligenza delle sue allieve. In fondo alla camicia, dopo l'orlo, correva una gala di trine arricciate, di una leggerezza ideale. Teresina interrogò cogli occhi la sua amica. - Sono bizzarrie ... sai, in alcune circostanze. La direttrice, rigida, non comprendendo nulla all'infuori del lavoro, teneva la camicia alta, spiegata come una bandiera. Intorno a lei, le orfane cogli occhi imbambolati, le bocche aperte, guardavano in silenzio. - E tutte le camicie senza maniche? - esclamò Teresina. - Oh! - fece la direttrice con accento pudibondo - quelle per la notte no. - Quelle non si portano - mormorò la pretora. - Che dici? - sussurrò Teresina a bassa voce, sgranando gli occhi. - Dico che quelle orribili camicie alte fino alle orecchie, colle maniche lunghe, tutte a pieghe sul petto, coi manichini ed il collo rivoltati, grazie a Dio, rimangono sempre come mostra nei corredi. In pratica servono meglio le altre. La direttrice si morse le labbra, dura e corretta, prendendo un pacco di fazzoletti bianchi, e poi un altro a colori assortiti; crema, roseo, azzurrino, lilla pallido. Tutte quelle tinte giovanili, messe insieme, sembravano un mazzo di fiori, e rallegravano la bianchezza uniforme della tela, ricomparendo nei nastri delle cuffiette, negli sbuffi delle camiciuole da mattina. La fanciulla osservava tutto minutamente, colla testa bassa, attenta, volendo ritenere i disegni dei ricami, per copiarli, pensando con un po' di rammarico che ella non avrebbe mai tutte quelle meraviglie. - Abbiamo anche un corredo da bambini già pronto; desiderano vederlo? - Di chi è? - Della signora Luzzi. - Oh! la sorella. - Appunto. - È dunque vero? ... Si è fatta aspettare alquanto, eh? La direttrice non rispose. Ella non aveva l'obbligo di conoscere queste cose. La pretora diede un'occhiata superficiale al corredino. Ne erano già passati tanti per le sue mani! ed alla fanciulla che lo andava esaminando disse: - Per questo hai tempo. Teresina arrossì. - Ne facciamo dei piú semplici all'occorrenza, - soggiunse la direttrice, la quale seguiva il filo delle sue idee, impassibile - e prendiamo tutto dalle nostre clienti, la tela, i merletti ... - Bene, bene. - Si fa per queste povere ragazze che non hanno né padre né madre. Teresina guardò le orfane schierate in fila, e le parvero tutte così brutte che ne provò una compassione grandissima. Certo, nessuna fra esse avrebbe conosciuto l'amore; e, senza amore, a che cosa si riduce la vita di una donna? - Poverine! La direttrice, credendo quella parola pietosa fosse diretta alla povertà delle sue allieve, si affrettò a soggiungere: - Qui però stanno bene; il cibo è sano, il lavoro non eccessivo. Quando escono, se hanno imparata un'arte, è tutto vantaggio loro. La pretora approvò in silenzio, col capo. Teresina non era convinta di quella fortuna. Pensava ad Egidio, a' suoi sguardi di fuoco, alla stretta appassionata delle sue mani. A poco a poco si staccò dall'ambiente in cui si trovava. La sua amica parlava, in piedi, colla direttrice, ed ella, interrogata, diceva: sì, no, bello sorridendo o crollando il capo, come una macchina, senza capire. Dentro a lei, intorno a lei, un'onda di pensieri la cingeva al pari di una nube, isolandola. Erano frasi tronche, un moto delle labbra, un guizzo, un silenzio, un sospiro ... L'ultima volta che si erano trovati insieme, egli aveva detto "le mie manine" baciandole; e, ripensando a quella sera, Teresina ripeteva "le mie manine" cogli occhi socchiusi, le braccia lente, stringendosi da se stessa la mano. Si scosse quando la direttrice la salutò, ed a quel saluto fecero eco le orfanelle, in coro. Ma fuori, nell'ampiezza delle vie deserte, nel verdeggiamento degli alberi, sotto il cielo digradante in pallori da opale, la seguì quell'onda dolcemente incalzante, quell'assorbimento in un pensiero unico che tiranneggiava tutti gli altri. Alla sera, intanto che si stava spogliando, rivide la fantasmagoria delle trine, della batista ricamata, dei nastri cerulei e color di rosa. Sospirò lievemente, con un'ombra di malinconia sulla fronte, e provò ad arrotolare le maniche della sua camicia, in alto sulle spalle, per giudicare l'effetto delle camicie senza manica. Concluse ch'ella non avrebbe mai osato portarle; ma si pose a letto turbata, assalita da tentazioni che la tennero desta per molto tempo. Aveva ventidue anni, si trovava nel pieno rigoglio della giovinezza; pura, non insensibile. Il mistero della vita incominciava a farsi strada nel suo cervello; ma non avendo ancora avuta una rivelazione brutale, il fatto restava sempre soggetto all'idea. Sentiva, non sapeva; e queste sue sensazioni tentava nascondere come una colpa, appunto perché ignorava che fossero le sensazioni di tutto il mondo. Non le passava neppure per la mente che sua madre avesse potuto amare così, neanche la sua amica, né alcuna delle persone di sua conoscenza. A tutti costoro, che amava da anni, cui era legata per vincoli d'abitudine e di confidenza, non avrebbe palesato uno solo de' suoi ardori. Un pensiero che l'assaliva ogni sera, nella solitudine del suo lettuccio, nella infinita dolcezza del buio, era questo: Che cosa avrebbe fatto Egidio appena si fossero sposati? subito, il primo momento? Ella non dubitava punto che l'avrebbe abbracciata. Aveva letto qua e là, di amplessi amorosi, ricordava certe frasi, certi lembi di conversazione e le sembrava che l'abbraccio, senza l'inferriata di mezzo, dovesse essere la maggior delizia dell'amore. Chiudeva gli occhi, e si sentiva scorrere un brivido per tutto il corpo. Però, se il curato di San Francesco tuonava qualche volta contro le passioni peccaminose, se nel suo libro da messa leggeva gli anatemi scagliati contro la carne, era assalita dagli scrupoli. Si credeva allora una grande colpevole, e arrossiva nel suo lettuccio, al buio, raggomitolandosi tutta nella camicia con un pudore bizzarro. Un altro pudore strano, inesplicabile, le era venuto ne' suoi rapporti col fratello. Aspettava le visite di Carlino con ansia grandissima, per avere notizie di Orlandi, per sentirne parlare; ma non correva piú a' suoi baci; non cercava le sue carezze; non gli si metteva vicino vicino, come una volta, per fiutare l'odore del sigaro o per sfiorargli la barba nascente. Se egli la prendeva per la vita, scherzando, si scioglieva come sotto l'impressione di un malessere, quasi di una ripugnanza fisica. Si affrettava poi a correggerla con una parola affettuosa, ma una specie di acredine le restava nel sangue. In una di queste occasioni, Carlino le disse: - Come sei selvaggia! Se fai sempre così non potrai piacere molto agli uomini. Ella rimase un po' mortificata, temendo di non avere grazie sufficienti. Tuttavia sapeva bene che con Egidio non sarebbe stata selvaggia; al contrario, era sempre tormentata dal desiderio di accarezzarlo, ed uno de' suoi piaceri piú intensi, quando sarebbero maritati, doveva essere quello di abbracciarlo e baciarlo come faceva coll'Ida. L'Ida se la prendeva sui ginocchi e, incominciando dai capelli, le baciava ridendo tutto il volto, fino al mento, fino al collo, fin dietro nella nuca dove spuntavano i riccioli ribelli. Egidio però non lo poteva prendere sui ginocchi, e l'idea che si potessero invertire le parti, le procurò una delle veglie piú agitate.

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Il signor Caccia restava sempre immobile, profondamente meditabondo: non udendo nemmeno il rumore che faceva l'Ida, trascinando un carretto sotto il portico, né la voce spezzata della signora Soave che le raccomandava la tranquillità; e nemmeno due colpi abbastanza risoluti picchiati sul battente della porta. Quando si aperse l'uscio sollevò gli occhi e fu meravigliato di veder entrare Orlandi. Con Orlandi si diffuse per lo studiolo un tale sprazzo di gioventù e di allegria che l'esattore aggrottò le sopracciglia, e si fece ancor piú cupo; alla qual cosa il giovine non diede importanza, ma, tendendo cordialmente le mani, salutò l'esattore con molta disinvoltura. - A che posso attribuire? ... - disse subito il signor Caccia, sollevandosi per metà dalla poltrona con quel tanto di cortesia indispensabile, ma volendo mostrare che la visita era inopportuna. - Le porto anzitutto i saluti di suo figlio. - Mio figlio! ... Avrebbe ben meglio a fare che mandarmi dei saluti. Tuttavia s'accomodi. Spero non avrà altri incarichi da parte di mio figlio? ... Invece di sedersi il giovane fece atto di partire. - Scusi, vedo che la incomodo. Se vorrà ricevermi un altro momento, la prego di farmi conoscere l'ora in cui posso trovarla libera. Il signor Caccia balbettò una scusa; capì di essersi spinto troppo oltre, e volle dare una giustificazione al suo malumore: - No, prego, s'accomodi. Deve compatire se risposi un po' irritato all'udire il nome di mio figlio. Quando si dedica tutta la vita ad una idea, quando del dovere di padre di famiglia si è fatta una religione, quando e spese e sacrifici, tutto si affronta per il bene dei propri figli, è assai duro il vedersi così male corrisposti, come lo dimostra un giovane che non ha né puntiglio, né delicatezza, né cuore. Orlandi ascoltò questa sfuriata nel piú rispettoso silenzio, e solo quando l'ultima sillaba di cuore morì nell'eco delle quattro pareti, si credette in obbligo di rispondere: - Dubito che un istante di collera, certamente giustissima, ma forse un po' eccessiva, le faccia giudicare a torto ... - Giudicare a torto? - interruppe il signor Caccia. Osservi questa lettera, e lei, che è amico di mio figlio, mi sappia dire, se lo sa, dove, come e quando si possa fare un debito di cento lire. E noti che non gli manca nulla! Alloggio, vitto, vestiario, tutto pagato. Quel debito di cento lire non poteva far molta impressione su Orlandi; anzi, se fosse stato il caso di esprimere netta e chiara la propria opinione, non avrebbe esitato a dichiararlo una vera miseria. Tuttavia, per non irritare maggiormente l'esattore, egli mostrò di comprendere la sua indignazione, soggiungendo però molte cose a discolpa di Carlino; l'età, l'occasione, l'esempio, i compagni. - Appunto i compagni! Il signor Caccia, accentuando la frase, fulminò il giovane con un'occhiata olimpica. - È molto tempo che non faccio vita con Carlino. Orlandi disse queste parole semplicemente, senza avere l'aria di discolparsi: tanto che il signor Caccia tornò ad aver vergogna de' suoi trasporti, e si rinchiuse in una taciturnità piena di sussiego, piú che mai impettito. - Il motivo che qui mi conduce - continuò Orlandi con voce chiara, ben timbrata - è di natura così opposta alle preoccupazioni in cui la vedo assorto, che temo ... Si fermò, non perché non sapesse che dire, ma perché voleva che l'altro lo incoraggiasse. - Parli pure liberamente; sono avvezzo a far tacere i miei sentimenti particolari. Quando si occupa un posto di pubblica fiducia ... Dica, insomma, dica. Pronunziò queste parole con molta dignità, tenendo il pugno teso sulla scrivania, la faccia immobile. - Lei saprà che ho terminato la pratica d'avvocato nello studio di Sandri. - Mi pare infatti di averlo sentito dire. Gliene faccio i miei complimenti. - Grazie! ma, come può credere, non è per questo che son venuto. Ho premesso il fatto de' miei studi compiuti per ispirarle la fiducia della quale ho bisogno ... Lieve esitazione; immobilità perfetta del signor Caccia. - ... nel momento in cui vengo a chiederle la mano di sua figlia Teresa. Dette queste parole, Orlandi alzò la bella fronte altera, dove si leggeva la persuasione dei propri meriti e la grande fiducia del suo amore corrisposto. Per qualche istante il signor Caccia non diede alcuna risposta, sembrava pietrificato. In realtà pensava alle frequenti passeggiate d'Orlandi nella via di San Francesco, ad alcune allusioni scherzose udite in caffè, alle distrazioni di Teresina, e, se non avesse avuto un illimitato rispetto di se stesso, si sarebbe dato della bestia per non aver subodorato la faccenda. Ma riguardoso piú che tutto del decoro, si fermò e, accontentandosi di inarcare le ciglia col piú severo de' suoi sguardi disse: - Obbligatissimo dell'onore ... ma ... la sua posizione ... - Non è assicurata, - interruppe il giovane con fuoco - è vero; tuttavia quell'amore che mi fece superare i primi ostacoli, mi aiuterà a vincere gli altri. Solo ch'ella voglia darmi appoggio. - E quale appoggio? Orlandi non si era immaginato, preparandosi al colloquio, che questo argomento dovesse riuscire così scabroso. A pensarlo non era stato nulla; sul punto di tradurlo in parole balbettò: - Quando avessi una piccola somma per l'avviamento ... - Ah! Ed ella conta su di me per questo? Mia figlia non ha dote. Ho quattro ragazze, signore, e se dovessi dare una dote a tutte quattro, non resterebbe altra risorsa a mio figlio che quella di andare a fare il contadino. L'evocazione di suo figlio inasprì maggiormente il signor Caccia. Si levò in piedi, tutto rosso e sbuffante, deciso a troncare bruscamente la quistione. Soggiunse a questo proposito: - No, mia figlia non è per lei. Orlandi, pallido d'ira, era stato ad ascoltarlo senza poter credere alle proprie orecchie. Le ultime parole lo ferirono come freccia; fece un passo avanti, baldo, sicuro coll'occhio che gli fiammeggiava, colle vene della fronte leggermente gonfie: - Signor Caccia, amo sua figlia, e le mostrerò che non ho bisogno della dote. Se ella avesse avuto un po' di fiducia in me, un po' d'affetto per Teresina, noi saremmo piú prontamente felici. Così è una quistione di tempo, e per parte mia avrò il piacere di non doverle nulla. A rivederla. Uscì bruscamente, lasciando l'esattore intontito. La signora Soave fu la prima a ricevere il contraccolpo della scena. Suo marito la trovò nella camera nuziale, genuflessa davanti al bambinello di cera. - Non si può proprio fidarsi di nulla in questa casa! Dovrei aver occhio a tutto; agli affari, all'azienda domestica, al figlio, alle ragazze! - Che hai Prospero? Ella si alzò, un po' tremante, vedendo che suo marito dava la chiave all'uscio. - Ebbene? Il signor Caccia stette zitto un momento, tanto da comporsi in attitudine severa, ferma; poi, con quanta maestà poté mettere al di sopra della sua collera, disse: - Non ti sei mai accorta che Teresina amoreggi con qualcuno? Un rossore di fanciulla spaurita apparve e sparì subito dalle guancie della signora Soave; ella balbettò abbassando gli occhi: - Sai bene, le ragazze ... - Come? - interruppe tuonando il signor Caccia. - È di mia figlia che debbo udire queste cose? Sono questi i principii da me inculcati? Sono questi gli esempi dati? - Volevo dire ... Non c'è niente di male in ciò. Teresina ha quasi ventitre anni; sarebbe tempo che si mettesse a posto. - E per mettersi a posto fa la civetta cogli scapestrati! Udendo parole così grosse, la signora Soave si turbò tutta, e riprincipiò a tremare; non bastandole l'animo di tener fronte a suo marito, eppure disperata per le accuse fatte a Teresina. - Come puoi dire così di una ragazza tanto buona? La frase le venne spezzata due o tre volte dai singhiozzi, i quali non commossero affatto il signor Caccia, fisso nel principio dell'inflessibilità. - Era una buona ragazza, o almeno la credetti tale, il che è certamente piú esatto; perché una figlia rispettosa non si sarebbe mai arrischiata a incoraggiare, senza il consiglio dei genitori, l'amore di un giovane ozioso e vagabondo. Pare che egli metta giudizio. Ha terminato gli studi, ha fatto la pratica… E poi? ... e poi non ha un soldo. Non ha una professione. Aspettando che gli capitano i clienti vorrebbe mangiarsi la dote della moglie. Bel partito! Ella fu sopraffatta dall'evidenza del ragionamento. Per quanto il signor Caccia vi aggiungesse di suo, spinto da una naturale antipatia, la posizione di Orlandi non era la più sicura. Avvezza d'altra parte a riconoscere sempre, in ogni occasione, la superiorità di suo marito, si persuase che egli aveva ragione in massima; salvo il caso che Oralndi, col suo ingegno, riuscisse a far fortuna. - E però - disse ancora la signora Soave, sentendo nel cuore tutta l'angoscia della figlia - se egli mostrasse di far bene veramente, se ottenesse un impiego, che so io? Un mezzo per crearsi una posizione onorevole, non saresti disposto ad anticipare qualche cosa a quella povera ragazza? - Si vede proprio che non hai un'idea pratica della vita, che sei una donnicciuola, non capace che di cianciare. - La mia dote… - La tua dote, divisa in cinque, non darebbe a ciascuno il pane. E abbiamo il maschio, il sostegno della famiglia! È per lui che dobbiamo fare dei sacrifici. Quando saremo vecchi non è dalle ragazze che potremo sperare aiuto. Il maschio porta il nome e l'onore dei Caccia: non posso trascurare il suo avvenire per dare alle femmine una dote, che andrebbero a portare in casa altrui. La signora Soave non parlò piú. Era convinta, rassegnata; piegava il capo davanti all'eloquenza del marito, fatta persuasa da una lunga abitudine che le donne devono cedere sempre. Lo strazio fu quando dovette spiegarsi con Teresina. La ragazza aveva già letta la propria sentenza sul volto accigliato del padre, che a lei non si degnò dir nulla; ma quando la mamma tentò di rimuoverle il pensiero di quell'amore, mostrandole che non poteva condurla ad altro che a gravi dispiaceri, ella proruppe in un pianto così disperato, e si disse cosí ferma nella decisione di sposare Orlandi, che la signora Soave dovette, per la prima volta, riconoscere in sua figlia qualche somiglianza coll'energia e colla fermezza del signor Caccia. Né tale scoperta in quel momento poteva farle piacere, che vide subito a quali attriti sarebbero giunti i due caratteri in lotta. Veramente spaventata, ella chiese a Teresina, se avrebbe avuto il coraggio di resistere a suo padre. Senza esitare la fanciulla rispose: - Sì. - Di disobbedirgli? Il sì, questa volta non venne cosí subito. - Disobbedirgli veramente ... non credo ... ma nemmeno rassegnarmi. - Figlia mia! - gridò la povera donna singhiozzando - non vorrai dare a me e a tuo padre il dolore di maritarti, senza la nostra benedizione! Teresina la rassicurò, dicendole che non avrebbe fatto cosa che potesse recare disonore o dispiacere alla propria famiglia. - E allora? - Aspetterò. E perché questa parola non avesse da essere fraintesa, soggiunse prontamente: - Orlandi mi ama ed io ho fede in lui. Fra un anno egli avrà una posizione così brillante che mio padre non potrà piú rifiutarlo per genero. La signora Soave credeva di sognare. Sua figlia parlava con sicurezza, coll'accento di una volontà irremovibile. La guardava e le sembrava trasfigurata: piú alta, colle linee del volto che avendo perdute le rotondità esuberanti della giovinezza, davano alla fisionomia una espressione caratteristica. Aveva nell'occhio la serietà pensosa delle donne che amano, e il raggio di quelle che si sanno amate. Era nel massimo sviluppo della sua bellezza e della sua forza. - Che Dio t'ascolti e ti benedica! La madre non trovò altro da dire. Dopo averla contemplata se la tirò vicina, abbracciandola, ravviandole i capelli sulla fronte, come avrebbe fatto con un bambino; presa tutta dalla tenerezza di quella grande passione. La sera stessa Teresina riceveva una lettera d'Orlandi, nella quale il giovane le giurava eterno amore. Madre e figlia piansero nel leggerla.

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Teresina si meravigliò, e quasi ne fece a se stessa un rimprovero, di non commuoversi abbastanza a questa partenza. Amava meno suo fratello? No, certo: ma era così assorta nell'amore di Orlandi che ogni altra affezione sembrava pallida al confronto. E poi aveva già molto sofferto. Il suo cuore non provava piú lo slancio subitaneo della prima giovinezza; incominciava ad essere stanco, e a misurare il dolore. Aveva riflettuto qualche volta - non senza esitazione, temendo di essere una cattiva sorella - se, non essendovi Carlino da mantenere agli studi, il ricevitore le avrebbe assegnata una piccola dote. Come tutto in questo caso sarebbe semplificato! Capiva le ragioni del padre: aveva troppo vissuto in quell'ambiente e in quello solo, per non essere persuasa che la sua condizione di donna le imponeva anzitutto la rassegnazione al suo destino - un destino ch'ella non era libera di dirigere - che doveva accettare così come le giungeva, mozzato dalle esigenze della famiglia, sottoposto ai bisogni e ai desideri degli altri. Sì, di tutto ciò era convinta; ma anche un cieco è convinto che non può pretendere di vedere, e tuttavia chiede al mondo dei veggenti, perché egli solo debba essere la vittima. Quando Carlino partì, accompagnato dai voti e dalle speranze d'ognuno, Teresina mormorò tristemente: - Ecco, egli va a formarsi il suo avvenire come vuole, dove vuole! E una quantità di riflessioni dolorose vennero ad assalirla, così che trovossi paralizzata nel momento dell'addio. Parve fredda, indifferente. Appena scomparso, fu presa dai rimorsi; si rimproverava sempre, da se stessa, ad ogni movimento di ribellione. Sotto il velo delle lagrime, le si disegnò sul volto uno sgomento di persona colpevole, e insieme un terrore timido, uno sconforto, qualche cosa di indefinibile. Somigliava tanto alla sua mamma, allora, con quell'aria di rassegnazione stanca, che il signor Caccia le ravvolse entrambe nel medesimo sguardo olimpico, sdegnoso, riportandolo poi, con una lieve dilatazione di compiacenza, sull'Ida bella e robusta: festevole, anche nella dimostrazione del suo rammarico. Ida, in famiglia, produceva l'effetto di un raggio di sole, era l'idolo, il beniamino di tutti, aveva avuto, nascendo, il dono di piacere; ognuno era indulgente con lei. Studiava per fare la maestra e la consideravano già come un prodigio. Dopo l'Ida, il posto piú in vista, lo occupavano le gemelle; era impossibile non accorgersi di loro, grosse, grasse, rubiconde, indivisibili, somiglianti al padre nella truculenza sgarbata, nelle larghe spalle e nel vivo colorito. Si atteggiavano a padronanza, forti della loro duplicità e di una volontà sola, alla quale ubbidivano due voci, quattro occhi, quattro mani. Insediate nella gran camera di Carlino, erano esse che alla mattina si ponevano alla finestra per guardare i passanti, fresche e ardite nei loro vent'anni. Teresina pativa ora il freddo, e alla mattina, appena levata, era troppo pallida per farsi vedere alla finestra. Le gemelle avevano stretta relazione coi nuovi inquilini della casa della Calliope - i Ridolfi - , che avevano due belle ragazze; e da una casa all'altra si telegrafava continuamente con occhiatine, con piccoli segni, con sorrisi e cenni di convenzione. Teresina restava esclusa da questi maneggi, e li comprendeva poco, perché, avendo trascorsa la giovinezza nel fare da mamma alle sorelle, non le era rimasto il tempo di cercarsi un'amica della sua età. La pretora le si conservava fedele, ma anch'essa invecchiava, aveva le figlie grandicelle, tanti pensieri, tanti sopracapi. Con grande stento Teresina l'aveva persuasa a ricevere in nome suo le lettere di Orlandi. Queste lettere erano fiacche, scarse, eppure Teresina le apriva sempre con un palpito di cuore, le leggeva avidamente. La pretora crollava la testa: cose lunghe diventan serpi. Secondo lei non c'era piú nessuna ragione di continuare la corrispondenza. Ma Teresina ricordava l'ultimo colloquio, gli schietti trasporti, i baci che non ingannano. Dieci mesi erano già passati - dieci mesi che non vedeva Egidio - eppure le memorie di quella notte la inseguivano ancora: il ballo, l'audace apparizione, sopratutto l'appuntamento in fondo al giardino, dopo la veglia, nell'alba fredda di quel mattino di febbraio. Ella pensava che anche lontano Egidio dovesse conservare l'ardore del desiderio, come lo conservava lei, e che nessuna donna potesse interessarlo, come a lei non interessava uomo. Eppure questa fede ingenua veniva scossa qualche volta. Vedeva, guardandosi attorno, riflettendo, confrontando e capiva che tutto nella vita di un giovane si svolge in modo opposto a quello di una ragazza; per conseguenza l'amore dell'uno non può essere uguale all'amore dell'altra. S'accorgeva anche di una crescente compassione per lei, nelle persone buone; compassione che i maligni rivestivano di una ironia piccante. Frequenti allusioni alle fanciulle che invecchiano in casa, prive d'amore, la ferivano acutamente. Forse ch'ella non amava? Forse che non era amata? Ma che cos'era dunque quel mistero che le sfuggiva continuamente, sul quale sembrava concentrarsi l'attenzione di tutti? Quale catena, quale segreto accordo legava insieme uomini e donne, per cui si intendevano con un monosillabo, con un'occhiata? L'amore? Ma ella amava. Si poteva amar di piú? Arrestandosi a questa riflessione, un rossore tardivo le saliva alle guancie. Non era piú il rossore invadente dei quindici anni; era un riflesso che dava appena un po' di tepore alla pelle, per cui tornava subito pallida come prima. E pensava: "No, non è possibile. Qualunque cosa ci possa essere, non potrebbe farmi piú felice di quanto lo fui, stretta nelle sue braccia, in quel mattino ... Egli era allora tutto mio". Tentava qualche volta di prendere una rivincita su quelle arie di protezione sprezzante; e rispondeva con alterigia, o non rispondeva affatto. Una volta la pretora le disse: - Non fare così; diranno che inacidisci come una zitellona -. A tali parole Teresina, colpita, andò a chiudersi in camera, e pianse come non aveva mai pianto da che era al mondo. Pianse le lagrime disperate della giovinezza che muore. Pianse su se stessa, per il suo volto emaciato, per i suoi begli occhi che si spegnevano nell'atonia; per il suo povero corpo che, dopo aver vissuto come una pianta, stava per fossilizzarsi come un sasso. Ebbe un accesso di vera disperazione, durante il quale sentì agitarsi nel fondo delle viscere un torrente d'odio, di passioni malvagie, di invidie non mai provate. Si torceva sul letto, mordendo le coperte con una voglia pazza di fare del male a qualcuno, col desiderio mostruoso di veder scorrere del sangue insieme alle sue lagrime. La trovarono sfinita, livida in volto, coi denti serrati. Il dottor Tavecchia, chiamato per tranquillizzare lo spavento della madre, accennò a un isterismo nervoso e prescrisse dei calmanti. Da allora, ogni tratto, le convulsioni si rinnovarono, tenute dapprima nascoste perfino alle sorelle, poi accettate come crisi passeggera, prodotta da un generale indebolimento dell'organismo. Il dottor Tavecchia ordinò le pillole di ferro. L'inverno fu tutto occupato nell'allestire il corredo per la sposa. Si faceva economia, cucendo ogni cosa in famiglia. Teresina, naturalmente, aiutava, e spesse volte, ricamando i festoncini intorno alle camicie, le venivano i goccioloni agli occhi. Un giorno, dopo aver lavorato quattro ore di seguito, dichiarò di essere stanca; le bruciavano le palpebre, e davanti alla pupilla vedeva come una nebbia. - Se fosse il tuo corredo - disse crudelmente la sposina - non ti stancheresti. Teresina chinò il capo in silenzio. Nessuno seppe la forza ch'ella dovette fare a se stessa per non schiaffeggiare la sorella. Lo sposo veniva in casa tutte le sere. Era innamoratissimo; si sedeva vicino alla sua promessa, e sembrava volesse mangiarsela cogli occhi; aveva dei baci sulle labbra ed ogni parola che ne usciva, volava a lei come una carezza, calda, fluente, tiepida per ardori repressi. Pareva che la sua testa, le sue mani, i suoi ginocchi fossero muniti dell'ago calamitato; si volgevano sempre a quel punto, trattenuti solo dal rispetto. Per tacito accordo, intorno alle sedie dei due fidanzati, si formava il vuoto. La signora Soave non si moveva dal divano, circondata dalle altre tre figlie, tutte curve sul lavoro, affrettate, attente, rispondendo brevi parole ai dolci lamenti della madre. Dall'angolo dei fidanzati, in una lieve penombra, veniva il mormorio sommesso delle paroline, dei sospiri interrotti: sfumava in un irradiamento giulivo, egoisticamente trattenuto nel cerchio della penombra; finché all'arrivo del signor Caccia la conversazione si faceva generale. Alle dieci, regola invariabile, si spegneva la lucerna. I fidanzati si salutavano con una lunga stretta di mano, guardandosi negli occhi, e Teresina, chiudendo l'uscio della sua camera, pensava tristemente al tempo in cui, dopo una serata di noia, Egidio l'aspettava alla finestra. Il signor Caccia era fermamente persuaso che sua figlia non avesse piú alcuna relazione con Orlandi; la continuata assenza di costui gliene confermava la sicurezza, ed ella avrebbe preferito scomparire nella profondità della terra anziché essere scoperta per la terza volta. Pazientava per questo le intere settimane, non osando scrivergli sovente, temendo sempre uno smarrimento delle lettere. La pretora che riceveva in suo nome quelle di Orlandi, gliele consegnava a malincuore; avrebbe preferito che Orlandi non scrivesse piú. Anzi, una volta, si decise a scrivergli ella stessa, esortandolo a non intrattenerla con vane speranze. Il giovane rispose in modo evasivo. Disse che egli aveva già tentata questa separazione, scorgendo troppo lontana la possibilità di un matrimonio; ma che Teresina non voleva acconsentire, né egli aveva il coraggio di essere il primo a lasciarla. La pretora spiegazzò la lettera: Bel coraggio quello di restare, a cento chilometri di lontananza e con tutte le distrazioni possibili a guisa di consolazione! Per mezzo delle Ridolfi, e col pretesto del corredo, le gemelle avevano introdotto in casa alcuni giornali di moda; dietro a quelli fece capolino un giornale politico del mondo elegante, sul quale Teresina leggeva curiosamente i resoconti delle prime rappresentazioni, dei balli ai quali sapeva che Egidio interveniva. L'elenco delle belle signore, la descrizione degli abiti, qualche aggettivo di soverchia ammirazione, le mettevano il tossico nel sangue. Non dormì una notte per questa frase: "La signora A. dalle forme giunoniche, artisticamente esposte in un elegante costume di Diana cacciatrice, era accompagnata da uno de' nostri piú brillanti giornalisti, il signor O.". Ella non aveva la certezza che quell'O. volesse dire Orlandi; eppure si tormentò per gelosia. Con uno sfogo dell'immaginazione, riuscì a crearsi la figura della signora A., e le sembrava di vederla colle sue forme giunoniche appena velate, appoggiata al braccio di Egidio. L'articolo, descrivendo la festa, soggiungeva: "Non si può ideare nulla di piú splendido, se non pensando ai giardini d'Armida. I fiori dai profumi acuti, dai larghi calici vellutati, dalle corolle frementi, si intrecciavano a festoni, a ghirlande sovra le coppie che passavano dolcemente attirate dall'ebbrezza della musica, dai vapori olezzanti, dal barbaglio di mille e mille lumi; e quando, dopo cena, l'ardore del ballo si calmò per qualche istante, dietro ogni cespuglio, nel vano d'ogni finestra, sotto i rami fioriti delle azalee, le coppie trovarono dolci e voluttuosi riposi, che l'orchestra blandiva coi notturni piú delicati di Chopin, colla inebbriante serenata di Gounod". La povera martire chiudendo gli occhi, sognava, sognava con una lucidità spaventosa, tutti quegli splendori, quel lusso, quelle morbidezze della vita. E lui godeva tutto ciò! Oh! quelle donne che lo vedevano sorridere, che gli stringevano la mano, quelle donne che egli teneva serrate col braccio, che gli tributavano i profumi della loro bellezza, quelle donne vicine a lui come erano felici! Ma perché egli andava ai balli? Poteva divertirsi? Poteva sorridere ad altre, stringere altre? ... Ella non lo avrebbe potuto. Durante le sette, otto ore che egli aveva trascorse in quelle sale incantate, fra gli strascichi di raso e lo scintillio delle gemme era mai possibile che avesse pensato a lei? La dimenticava dunque per sette, otto ore; mentre ella non lo aveva mai dimenticato un'ora sola! Milano era diventata la meta tormentosa dei suoi pensieri. Ogni avvenimento che accadesse nella grande città, aveva per lei interesse speciale. Se si trattava di risse, di ferimenti, temeva sempre che Egidio vi fosse compromesso. Se erano divertimenti, cene, teatri, pensava che egli vi assistesse e si informava dei piú minuti particolari, con un'ansia tormentosa, gelosa, che la rodeva mezza. Spesso il giornale recava le notizie del tempo: "Oggi abbiamo avuto una giornata splendida" - oppure - "La pioggia minaccia di eternizzarsi". Teresina correva subito col pensiero ad Egidio, seguendolo nelle vie a lei ignote sotto il sole e sotto l'acqua, facendosi la di lui compagna, seguendolo passo a passo. Qualcuno disse una volta in sua presenza che le milanesi sono molto simpatiche, e Teresina ne ebbe dispiacere; un dispiacere muto, profondo, al quale si univa, come gli altri suoi dispiaceri, il sentimento umiliante di persona legata, che non può difendersi, e le cresceva sempre piú quel livore, quel fermento del cuore insoddisfatto che, mal pago dell'amore, sente la tentazione dell'odio. Ma poi veniva la reazione, veniva il pentimento. Erano i momenti in cui si confessava a Dio, come una grande colpevole, e, non volendo accusare nessuno, si reclinava su se stessa, piangendo a calde lagrime.

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È abbastanza giudiziosa; nevvero? Sedette accanto al letto, sorridente, calmo, collo sguardo fisso su Teresa. Il signor Caccia, impazientito, si diede a passeggiare per la camera; poi, fuori dell'uscio, facendo sentire una tosse secca d'uomo che si frena. Il dottore rimase solo in mezzo alle due sorelle, voltando un po' le spalle a Ida, tutto intento all'ammalata. Teresa sentiva quello sguardo penetrarle nelle viscere e nei pensieri: non lo incontrava, ma anche fuggendolo, ne avvertiva l'intensità, e in questo caso le si palesava anche piú forte, per cui prese il partito di guardarlo essa pure, attratta da un magnetismo che la dominava; finché stette immobile, improvvisamente calmata. Allora il medico le prese dolcemente una mano contando i battiti del polso. - Bene. Si alzò, invitandola a mettersi nella posizione di prima, ritta sulla vita. Ida fece atto di chiamare il padre. Il medico l'arrestò con un gesto, intanto che si chinava verso Teresina, accostandole l'orecchio al cuore. Nel silenzio della camera si udivano i tre respiri. - Basta - mormorò quasi subito l'ammalata. - Le faccio male? Non rispose: ma ricadde sui guanciali, pallidissima. Il medico strinse le labbra. - Permetta ... abbia pazienza. Tornò a posarle la testa sul cuore, premendo leggermente. Aveva una foresta di capelli castagni, un po' grossi, dai quali emanava un profumo lieve; scomposti dal movimento, quei capelli toccavano quasi la bocca di Teresina, che si irrigidiva, dilatando gli occhi, sotto la tentazione di un desiderio pazzo. Intorno all'orecchio, fra il lobulo e la radice dei capelli, il principio del collo si disegnava vigoroso, leggermente arrossato verso la gola; sulla nuca, candidissimo. Egli aveva ventinove anni. - Nulla. Il cuore non ha nulla ... esternamente. Marcò con una lieve esitazione quest'ultima parola, raddrizzandosi, un po' colorito nel volto. Il signor Caccia rientrò in quel punto. - Sua figlia ha una costituzione buonissima; i polmoni sani, il cuore sano; una tendenza all'anemia, forse, ma anche questa temporanea, dipendente da cause che sfuggono al nostro esame. - Ma se la vedesse nel momento della crisi, quando la prende la convulsione ... Non se la può figurare. - Oh! sì - fece il medico sorridendo - me la figuro perfettamente; ma non è altro che una alterazione nervosa. Col tempo e con un po' di buona volontà, credo potrà svanire. Nel dire "buona volontà" tornò a guardare Teresa. - Non sta troppo in casa, nevvero? - Ma ... veramente - balbettò il signor Caccia - le donne ... Il medico riprese senza lasciarlo finire: - Quando si manifesta un perturbamento dei nervi così vivo, con caratteri francamente isterici, la miglior cura è quella di non abbandonare l'ammalata a se stessa. Io posso ordinare delle medicine, ma se non sono aiutato dal sistema ... - si volse - direttamente a Teresa. - La stagione è favorevole, abbiamo una primavera che è un incanto. Esca spesso. Vada a trovare un'amica, procuri di interessarsi a qualche cosa, di cambiare l'ordine abituale de' suoi pensieri, di non fissarsi in una idea. Faremo una piccola cura arsenicale combinata col ferro, ma il primo rimedio, se ne persuada, lo deve trovare in se stessa. Mi comprende, nevvero? Le strinse la mano, colla sua dolcezza indolente d'operatore, mostrando i denti bianchi nell'arco del sorriso; lasciando sul capezzale come un profumo della sua vigorosa giovinezza. Tornò qualche giorno dopo, per vedere l'esito della cura, ed essendo comparso all'improvviso davanti a Teresina, ella arrossì, tutta confusa, con un sentimento recondito di vergogna. Quella specie di intimità con un uomo giovane, senza il legame dell'amore, la turbava. Era meravigliata di non trovare maggior avversione al contatto, di sorprendere nei suoi sensi una vita autonoma, indipendente dal cuore e dalla volontà. Fino allora aveva amato, in un sol uomo, l'incarnazione dell'amore; ma nella tensione di tutto il suo essere verso quell'ideale, il cuore e la mente resistevano, i nervi no. I nervi, a sua insaputa, con una ribellione mostruosa, vibravano quando il giovane dottore le stringeva la mano, e la guardava colla sua pupilla intenta. E Teresina spasimava, sentendosi prendere alla gola da un rantolo convulso; trovando in se stessa, nella tardiva rivelazione dei propri sensi, l'enigma della vita, che le era sempre apparso a tratti, mascherato, svisato, tenuto nascosto come un'onta. In quei giorni, per una combinazione, avendo suo padre acquistata, senza guardarla, una partita di libri vecchi, ella pose le mani sopra un libriccino gualcito. Il titolo l'invitò a leggere le prime pagine, e poi continuò meravigliata, ansiosa; passando dalla sorpresa alla indignazione, fino a un feroce diletto, fino alla nausea la piú ributtante. Restò immobile, col sangue che le formicolava nelle vene, con una fiamma sulle gote, il palato arido, le fauci ingrossate, gli occhi vitrei. Non aveva mai udito né immaginato niente di simile. Al primo rinvenire, l'indignazione la vinse su ogni altro sentimento; stracciò il libro in mille piccoli frammenti, rendendoli sempre piú piccoli, piú piccoli ancora, ponendoli da ultimo sotto i piedi e gustando, nel calpestarli, una gioia che la purificava. Raccolse poi gli avanzi informi e li gettò nella cassetta delle spazzature; ma si vedevano; la loro bianchezza sudicia risaltava sul fondo nero. Ella non era contenta. Tornò a raccattarli e li volle abbruciare - vivi - ché quei frammenti agitati dalla fiamma, le davano veramente l'impressione di cose vive, di mostri osceni, condannati al rogo. Ristette infine, palpitante, davanti al mucchietto di cenere, persuasa che nulla piú esistesse di quelle sozzure. Ma si ingannava. Il suo pensiero era colpito, macchiato irrimediabilmente. Per quanto facesse non poteva togliersi il ricordo delle pagine lette; ed era un ricordo amaro, come di medicina che torni a gola. E venivano, non cercate, le riflessioni, i confronti, le induzioni. Cento cose rimaste oscure fino allora le si chiarivano spietatamente; non poteva piú dubitare, non poteva piú illudersi. Quelle spiegazioni crudeli erano la sola risposta ch'ella trovava alla sua lunga, insoddisfatta curiosità di fanciulla. Quelle pagine stampate, che non volavano come le parole, che non svanivano come i sorrisi, che ella aveva distrutte in un esemplare ma che esistevano in mille altri, quelle pagine infami erano un documento della miseria umana, della sua propria miseria. Un libro osceno le dava la chiave del mistero ch'ella aveva ricercato invano; ch'ella aveva interrogato nei fremiti paurosi e pudibondi di se stessa, nelle reticenze maligne degli altri. Era dunque quello l'ignobile segreto che teneva uniti gli uomini alle donne? Quello l'amore? Sottile, profondo, un pensiero sopra tutti la martoriava: Egidio. Quando l'immagine di lui venne a mischiarsi alle rimembranze lascive, ella provò la maggior vergogna della sua vita. Le parve di veder trascinare nel fango tutto quanto aveva di sacro al mondo. Era la profanazione dell'affetto piú gentile, era l'altare che si frangeva, l'idolo che diventava creta. Arrossì, sola, di se stessa. E la prese una tristezza, un dolore come avesse perduto per sempre una persona adorata. Per tutto quel giorno non poté incontrare alcuno a viso alzato; aveva orrore dei suoi simili. Alla sera, chiudendosi nella sua camera, si illuse di potersi disfare dall'incubo; ma l'incubo divenne piú violento. Mentre si spogliava, era assalita da curiosità brutali. Sembrava che le pagine infami si fossero incollate alla sua pelle, che le formassero, come la camicia di Nesso, un involucro di fuoco, entro il quale si dibatteva. Cadde in ginocchio disperata, recitando macchinalmente tutte le orazioni che sapeva, unendo il nome di Egidio al nome della Madonna, con un bisogno ardente di dimenticare. Accovacciandosi sotto le coltri, spossata, evocò le pure visioni del suo amore: l'incontro nella cappella, i ritrovi in chiesa, il primo appuntamento alla finestra, sotto l'acqua che veniva a rovesci, che nessuno di loro sentiva, e quei baci di cielo in cui ella credeva di dare l'anima. A poco a poco la pace entrava in lei. Una dolcezza malinconica la cullava, la consolava. Egidio era sempre stato sincero; non l'aveva ingannata, non l'aveva tradita mai, non si era fatto migliore di quel che fosse. Che cosa si può chiedere di piú agli uomini? Sentiva ora una tenerezza straordinaria a compatirlo, a comprenderlo nelle debolezze del suo sesso. Il recente dolore le faceva sanguinare il cuore; ma da quella stessa ferita saliva, alle piú nobili idealità del suo pensiero, una compassione pietosa, una commiserazione di questa umanità sofferente e bestiale, un delicato istinto di perdono. E piú forte, piú puro, emergeva da tanto fango l'affetto ch'ella aveva nel cuore e che sapeva diviso. Chiuse gli occhi rassegnata, sospirando lievemente. A tratti, un fremito l'agitava ancora ma anche quello andò scomparendo sotto il torpore del sonno; finché rimase l'affanno dei sospiri, sempre piú lievi, a indicare che il pensiero si addormentava.

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È abbastanza caro nevvero? Tornò a sorridere e si lisciò colle mani - due piccole manine di cera gialla - i capelli che incominciavano a perdere i riflessi bruni. La pretora restò con lei quasi tutto il giorno. All'indomani mattina, tutta vestita di nero per il lutto, con un velo che le nascondeva mezza la faccia, Teresa chiudeva la porta della sua casa. L'amica, fedele fino all'ultimo, le era vicina. - A rivederci, a rivederci, sai? - Speriamo - rispose Teresa, con accento profondo, già impressionata dei misteri del futuro. Don Giovanni Boccabadati, tutto ravvolto in una pelliccia, mise il capo alla finestra. Teresa si ricordò il giorno in cui egli pure era partito, partito col sole e colle rondini, in un mattino di primavera. - Hai una brutta giornata - disse la pretora. Ella guardò in alto, con indifferenza, e s'avviò coll'amica verso la stazione. Prima di entrare nella sala d'aspetto, si fermarono ancora qualche istante per salutarsi, per rinnovare la raccomandazione di scriversi. Nel momento che Teresa varcava la soglia, avendo già consegnato il biglietto, l'amica le si slanciò contro, abbracciandola. Voleva dirle qualche cosa ancora, ma ammutolì nell'amplesso. Si guardarono intensamente, senza profferire una sola parola. - Partenza! partenza! La pretora corse al cancello che chiudeva la via ferrata. Fu in tempo a vederla un'ultima volta. Si salutarono colla mano e cogli occhi, finché fu possibile. Poi il velo nero di Teresa cessò di fluttuare allo sportello del carrozzone; il treno si mosse. Nevicava. 101

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- Abbastanza; ma le donne non glie ne lasciano molti -. Abbassò la voce un altro tono. - Vedi quella figura alta, pallida, là in platea? - Con un velino in testa? e una rosa rossa? - Appunto. È la modista di piazza. Qualche - anno fa egli l'ha ... - pausa - e dovette sborsare una bella somma. - Sì? - Per il figlio. Teresina ascoltava, ritta, immobile. Non poteva vedere la modista, che le stava a tergo, ma aveva davanti don Giovanni nella sua sibaritica indifferenza, grasso, florido; già invaso dal torpore che aspetta, sulla quarantina, gli uomini che hanno goduto largamente la vita. Quella gran pace, dopo ciò che aveva udito, la turbava; era segretamente irritata da un mistero che le sfuggiva continuamente. Un momento ancora, e la sua attenzione era tutta quanta assorbita dallo spettacolo. Non batteva ciglia, non fiatava; appena un personaggio apriva la bocca, ell'era tutt'orecchi, appena uno si muoveva, i suoi occhi lo seguivano attentamente. Calato il sipario, si voltò di botto verso la pretora. - E Gilda? - Gilda verrà or ora, al secondo atto. - Mi pare cattivo quel buffone. - No, non è cattivo; vedrai in seguito. - E il duca? - Ah! il duca ... vedrai, vedrai. Gilda apparve, vestita di bianco, bruttina, ma abbastanza giovane, e con un'aria modesta che piacque subito a Teresa. Cantò bene, con sentimento in luogo di voce, infiorando d'una malinconia soavissima il racconto de' suoi amori collo studente. Teresina era rapita in estasi; il bello dell'arte si rivelava al suo cuore, già aperto all'amore. Ella seguì con ansia angosciosa lo svolgersi dell'azione drammatica; si spaventò al ratto di Gilda, pianse con Rigoletto, ebbe sdegno e disprezzo per i cortigiani, e attese, palpitante, il ritorno di Gilda sulla scena. Qui tornò a stendersi un velo nella sua mente. Fu tentata di chiedere, perché Gilda si mostrasse tanto disperata per trovarsi in casa del duca; un vago istinto le suggerì che la sua domanda era ridicola, e tacque, meditando. Arse d'ira contro il duca, nella scena del bosco. Maddalena le parve una sguaiataccia, incapace di poter destare amore. Ma la tragica fine di Gilda, intanto che lo scettico passa nel fondo canterellando la sua canzone, quella fine la colpì profondamente. Dovette ritirarsi, nell'ombra, a nascondervi le sue lagrime. - Che fai, bambina, è possibile tanta ingenuità? Non è un fatto vero, sai? Gilda, a momenti, andrà a cena, pienamente d'accordo col suo amante. Così la moglie del pretore tentava di acchetare Teresina, senza riuscirvi, perché la sua commozione aveva un'origine occulta. La passione intensa di quel dramma d'amore trovava una corrispondenza segreta ed intima nell'anima della fanciulla, a cui l'amore si era rivelato con una sofferenza. Le potenti creazioni di Rigoletto e del duca, la soave figura di Gilda erano piú che personaggi; erano sentimenti, erano passioni incarnate e la grandiosità terribile ed umana di tutto quel lavoro si ripercoteva in ogni sua fibra. Sotto i colpi di quella forte commozione, la natura spirituale della fanciulla si temprava, nobilitandosi, afferrando i contorni di un ideale sicuro. Ella fuse, nel suo pensiero, il proprio amore coll'amore di Gilda. I ricordi, che già principiavano a sbiadire, perdettero l'impronta personale, mescendosi a una quantità d'altre impressioni e ad aspirazioni nuove. Da quella sera non pensò piú, direttamente, al giovane che le aveva suscitato il primo palpito. Pensò all'amore, vago, misterioso, sterminato: a tutto un mondo tumultuante, non ancora interamente rivelato, ma che le si svolgeva a gradi, con bagliori improvvisi, con rapide ferite, con intuizioni meravigliose, poggiando fra la canzone beffarda del duca e il rantolo di Gilda morente ...

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