Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Racconti 2

662718
Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1894
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E la vita mi sembra cosí prezioso tesoro, che nessun sacrificio può essere giudicato abbastanza elevato per conquistarlo e mantenersene il possesso. Riguardo a questo mondo, abbiamo sufficienti indizi della sua realtà. Dell'altro non sappiamo niente. Godere quaggiù non è facile. Avere almeno la certezza di vivere a lungo, ecco la felicità. Hai tu mai notato come i disgraziati siano di pelle dura? Essere disgraziati val meglio di avere in tasca una delle tante assicurazioni su la vita, che si dovrebbero chiamare piuttosto assicurazioni della morte. I supposti felici, coloro che toccano il colmo delle loro aspirazioni, dei loro desideri, delle loro speranze, muoiono quasi subito appena raggiunto lo scopo. Se, per caso, non muoiono, ricominciano a desiderare nuovamente, con maggior intensità, a sperare con più forti illusioni, cioè a tormentarsi, ad affaticarsi, a soffrire ansie e timori peggio di prima. Quando i disgraziati che non ne indovinano una si convinceranno del gran compenso che loro accordò la natura, facendoli nascere sotto una cattiva stella ma con forza di vitalità da resistere a qualunque urto, non sentiranno più invidia di coloro che essi considerano in miglior condizione di loro. Amare però l a vita per se stessa non è da tutti". "Non tutti possono essere filosofi - lo interruppi - e pascersi di paradossi!" Ridevo. "Sai tu che significa paradosso? Verità che ha l'apparenza di non esser tale" egli rispose gravemente. "Credevo significasse: stramberia che vorrebbe darsi apparenza di verità". "È errore comune ... Dunque fino ai trent'anni io pensavo come gli altri. Vedendo che non me n'andava una sola pel giusto verso, mi arrabbiavo, mi disperavo. Una volta, dopo una gran delusione, tentai anche di suicidarmi. Avevo preso ogni precauzione per non sbagliare nel finirla. Tu non lo crederai; mi andò a male anche il suicidio per eccesso di precauzioni. Avevo ingoiato cosí forte dose d'arsenico da ammazzare non un uomo ma dieci cavalli. Il mio stomaco si ribellò, rigettò il veleno quasi subito, p rima di esserne intaccato. Anzi, a quel che mi dissero i dottori, se ne assimilò tanto quanto bastò a guarirmi da una malattia viscerale che mi infastidiva e a farmi anche ingrassare. Ridi? È stato proprio cosí. Allora mi son rassegnato. Ne ho viste di tutti i colori, ne ho gustate di tutti i sapori. Quando pensavo che il destino doveva ormai esser stanco di prendersela con me, scoprivo, da lí a poco, che ne aveva già trovata una nova di zecca, assolutamente imprevedibile. "Non sono riuscito ad ammazzarmi con l'arsenico, mi ammazzeranno - speravo - la bile, i dispiaceri! ... " Niente! Muscoli di acciaio, stomaco capace di digerire i ciottoli meglio di quello degli struzzi. E intanto disdette sopra disdette. Il proverbio: se si mettesse a fare il cappellaio, tutti gli uomini nascerebbero senza testa, sembrava di essere inventato unicamente per me. Dissi: "Infine, l'aver studiato filosofia non deve soltanto servirmi per insegnarla agli scolari." E mi misi a filosofare intorno ai casi miei. Non mi parvero accidentali, dopo che intrapresi a studiarli anche negli altri. "Qui sotto c'è una legge! - esclamai. - Bisogna scoprirla!" E l'ho scoperta: legge di compensazione. Mirabile legge! Occorre di essere disgraziati per raggiungere l'estremo possibile limite della vita. Ti par poco? E d'allora in poi - per me che apprezzo la vita per se stessa - le disgrazie son diventate una benedizione di Dio. Ogni volta che intraprendevo un'impresa - qualcosa bisogna fare a questo mondo! - la mia ansietà era al rovescio di quella che sarebbe stata per gli altri: "Se, per sventura, riuscissi!" Fortunatamente non riuscivo. E cosí, di disgrazia in disgrazia, sono arrivato a ottantanove anni. Trovami uno dei pretesi felici che sia arrivato a quest'età". "Io" risposi trionfalmente. "Ebbene, eccezione che conferma la regola. Ma no; sei un disgraziato anche tu! A quest'ora, con la tua scienza, con la tua operosità dovresti essere milionario, come certi tuoi colleghi, che non valgono neppure un terzo di quel che tu vali". "Oh! oh!" feci io. "Ecco: la modestia è stata la tua disgrazia! Non era possibile che la legge fallisse!" E rideva e si stropicciava allegramente le mani. "Andiamo a fare una bella passeggiata! - dissi, levandomi da tavola. - Viva aprile! Viva la primavera!" "Sí, è stata la tua disgrazia! - egli ripeté assorto nella sua idea. - La legge non fallisce". Si fermò su la soglia, guardando un pezzetto di carta per terra. Poi si chinò, e prese con due dita quel fogliolino quadrato. V'erano scritti tre numeri. "Ho trovato piú di venti volte pezzetti di carta come questo, con tre, quattro, cinque numeri, e li ho sempre giocati al lotto, mettendovi su tutto quel che avevo in tasca. Due miei amici sono arricchiti, da un giorno all'altro, facendo cosí; e son morti tutti e due senza poter godersi l'improvvisa fortuna. Ho dieci lire; me ne serbo cinque per vivere due giorni. Siamo al venticinque del mese; tra due giorni esigerò la pensione. Mi è piaciuto sempre di fare questa sfida al destino! Ed ho sempre vinto io, pe rdendo, s'intende. Vediamo: 52, #52, 47, 21! Nemmeno uno di questi numeri uscirà sabato prossimo, in tutte le ruote del regno!" E, piegatolo accuratamente, si mise in tasca il fogliolino. Il mio amico filosofo aveva proprio scoperto, com'egli affermava, una legge? Sembra di si. Due giorni dopo, s'era fermato tutto a un tratto per guardare la tabella di un botteghino del lotto. "52, "#52, 47, 21! Oh, Dio!" esclamò. E indietreggiando, indietreggiando, come davanti all'annunzio d'una grande disgrazia, prima che io potessi afferrarlo per un braccio, era travolto sotto le ruote di una carrozza che, veniva di corsa. Quando potei sollevarlo, pesto e sanguinante, con l'aiuto di due altre persone, egli respirava appena, aveva perduto i sensi. Rinvenne un istante nella farmacia vicina, dove l'avevamo trasportato. "La legge non fallisce!" balbettò, riaprendo gli occhi. E li chiuse per sempre! -

E torcendo il collo e gli occhi - quasi gli occhi la sua mamma non glieli avesse fatti storti abbastanza - don Saverio Teri rideva, d'un risolino stentato, specie di canzonatura, senza mai prendersela per la maligna intonazione dell'augurio: "buoni affari!" che gli gridavano dietro. - Bisogna campare a questo mondaccio; e ognuno si busca il pane alla meglio che può -. Egli infatti se lo buscava tessendo, come soleva dire, e ritessendo con le gambe i tre quartieri del paese, cercando di vendere qualche pezza di tela casalinga, qualche asciugamani, qualche salvietta, un vestito usato, un paio di stivaletti quasi nuovi, una collana di corallo, una crocetta d'oro, tutto quel che gli affidavano per rivenderlo a buon mercato: - Tela, donnine, tela! Uuh! Uuh! ... Passa il lupo! - Se poi, nell'andar sempre attorno, gli capitava anche il destro di riferire, sotto voce, una parolina dolce a questa o a quella, per incarico d'un galantuomo - dicendola lo stesso galantuomo in persona, avrebbe destato i sospetti d'un marito geloso, d'una mamma severa, d'una vicina bracona -santo Iddio! che male c'era? Tanto, o da lui o da un altro, quella commissione doveva essere fatta; ma un altro, forse, non sarebbe riuscito egualmente a condurla in porto, se pure per mancanza d'abilità non l'avesse man data subito a picco. Si sa: in ogni cosa ci vuole buona maniera, accorgimento, arte; e lui - non lo diceva per vantarsi - se n'intendeva piú di qualcuno; senza contare che il suo mestiere gli apriva facilmente tutti gli usci e gli permetteva di accostare qualunque persona: - Tela, donnine, tela! Uuh! Uuh! ... Passa il lupo! - Questa tela quanto la fate, don Saverio? - Per voi, bella figliuola, c'è sempre pronto quel paio di orecchini con le pietre fine, che vuol regalarvi don Tommasino. - Tante grazie, don Saverio! - È matto di cotest'occhi ladri ... E c'è anche una veste di lana e seta, egli dice. - E mio marito? M'ammazzerebbe. - Saremmo in tre soli a saperlo: Padre, Figliuolo e Spirito Santo! - No, no, don Saverio! - Almeno dategli la risposta con la vostra stessa bocca a quel galantuomo che smania! - Che mi fate fare, tentazione? - C'è pure una pezza di tela, tessuta di mano degli angioli; tutto quel che volete. Con me potete fidarvi: sigillo di confessione ... Uuh! Uuh! ... Passa il lupo! ... A tre carlini? Con che faccia? Neppure se l'avessi rubata! - Cambiava subito tono, appena vedeva accostare qualche persona importuna. E quella volta, la moglie di Pizzutello, per ingannar meglio le vicine, mentre don Saverio ruzzolava il vicolo gesticolando e ripetendo: - Neppure se l'avessi rubata! - gli aveva imprecato alle spalle: - Rompetevi l'osso del collo! - Ma da lí a poco, invece, l'osso del collo se lo ruppe lei con don Tommasino, per un paio di orecchini e una pezza di tela! E nessuno avrebbe mai creduto che quella Madonnina immacolata, come la credevano tutti, potesse far indossare tranquillamente al marito le camicie nuove, della stessa tela vendutale una miscea da don Saverio, come aveva dato a intendere a quel povero grullo. - Una miscea, lo stesso, quegli orecchini! - Il guaio fu quando l'orefice, alla prima occhiata, dichiarò ch'erano falsi. Ci corse poco che Pizzutello non spaccasse la la testa a don Saverio e non gli desse querela di ladro. Ma non c'erano testimoni. Cavatasela con una legnata soltanto e un pochino di paura, don Saverio continuò a tessere e a ritessere i tre quartieri del paese: - Tela, donnine, tela! Uuh! Uuh! Passa il lupo! ... Salute, compare Pino ... Come va, comare Rosa? ... Bacio le mani, cavaliere ... Mastro Ignazio, tirate bene lo spago e fate punti cortini! - Aveva sempre belli e pronti un saluto, un motto, una barzelletta per tutte le persone che incontrava; sempre di buon umore, sempre chiassone, ma senza offendere Dio, protestava dopo, portando le mani al petto e chinando il capo. - Col Signore non si scherza; è il gran Maestro di cappella! E quando batte la musica pei nostri peccati, si piange davvero. Uuh! Uuh! Passa il lupo! Per questo non si era mai dato il caso che don Saverio mancasse una sola domenica alla messa dell'alba in San Pietro, dove prendeva posto nello stallo dei canonici che a quell'ora dormivano come tanti ghiri; e intonava lui il rosario e le litanie, se massaio Antonio il rosariante - lo chiamavano cosí - giungeva con un po' di ritardo. Per questo, ogni sera, all'ora della benedizione, don Saverio si metteva a suonare il campanello dai gradini della chiesa della Mercede per far accorrere gli sfaccendati di piazza del Mercato, che non si curavano di entrare, ma appena appena si cavavano il berretto, mentre il ministro di Dio dava la santa benedizione alle sole panche. Scandalo! Scandalo! Per questo, nell'accompagnare il viatico presso i moribondi, reggendo l'ombrello dietro il prete o portando un lanternone, a capo scoperto e col collo piú torto che mai, era sempre don Saverio colui che cantava piú forte degli altri: - E centu milia voti sia lodatu e ringraziatu lu santissimu sagramentu - quasi in vita sua avesse fatto unicamente il mestiere di sagrestano. - Uuh! Uuh! Passa il lupo! Con Domineddio non si scherza -. Ma soleva pure aggiungere, quando occorreva: - Per mezzo dei santi si va in paradiso -. E talvolta il santo a cui intendeva alludere era proprio lui stesso: - Don Tommasino, per mezzo di lui, non era forse andato in paradiso con la bella moglie di Pizzutello? E il tale? E il tal'altro? - Però il vero santo, che don Saverio non nominava mai senza prima segnarsi e accennare di cavarsi il berretto, era quello dalle braccia aperte, col crocifisso davanti e gli angioletti fra le nubi torno torno, effigiato nella medaglia di rame piú grande d'uno scudo e tenuta appesa al collo con nastro turchino. - Avevano il mal di capo? ... Il mal di denti? - Se ricorrevano a don Saverio, che non si faceva pagare quanto il medico e non scorticava la gente, tosto egli cavava fuori la gran medaglia, l'applicava alla gota o alla fronte del sofferente e borbottava scongiuri saputi da lui solo, che fugavano ogni dolore ... se la grazia di Dio lo permetteva. - Chiedevano un influsso di buona fortuna per qualche affare importante? - Don Saverio, ch'era discreto e si contentava di un regaluccio qualunque - bisognava campare, pur troppo! - cavava fuori la medaglia, e nel porgerla a baciare borbottava altri scongiuri. - Se la grazia di Dio lo permette, verrete a darmene notizia poi. Ci vuole in ogni cosa la santa grazia di Dio; senza di essa non si fa nulla -. Talché, secondo don Saverio, occorreva la grazia di Dio fin per quelle malie ch'egli faceva o disfaceva, quando n'era richiesto a quattr'occhi, con giuramento, a piè del crocifisso, di non fiatarne con nessuno. Fallivano? Voleva dire ch'era mancata la grazia di Dio; o pure non erano state eseguite appuntino tutte le prescrizioni indicate. - E il digiuno a pane e acqua? - Me ne sono scordata! - Ecco perché Beppa la Rossa non aveva piú visto ritornare il suo amante. - E le sette croci colla mano sinistra? - L'ho fatte colla destra, povera a me! - Ed ecco perché il marito della Canzirro correva sempre dietro alla sottana sudicia di questa e di quella! Bisognava segnare sette croci con la mano sinistra e poi piantare d'un colpo un coltello nuovo nel suolo. - Come? Non aveva fatto tre nodi nel refe incantato da disperdere al vento? - Ne aveva fatto due soli! - Ed ecco perché Pietro Manduca non era riuscito ad ammansire quella ragazza sdegnosa che gli faceva dar volta al cervello. - Cosí è un buttar via tempo e fatica inutilmente! - Don Saverio mostrava di stizzirsi, di non volerne piú sapere: - Intanto bisogna rifarsi da capo! - La moglie di massaro Brigido Ledda aveva capito troppo tardi che cosa significasse quel: "Rifarsi da capo!" Una notte, con la pioggia che veniva giú a otri e il vento che pareva volesse sradicare le case, la poverina era andata a picchiare all'uscio della tana affumicata dove don Saverio abitava. - Aprite, son io, don Saverio! Non m'ha vista nessuno -. Fradicia e inzaccherata dalla testa ai piedi, ella guardava attorno pel bugitattolo, con occhi spaventati; quasi quel letto che pareva un canile, quel tavolino che non si reggeva su le gambe e tutti gli altri arnesi, che si distinguevano appena sul nero delle pareti mal rischiarate dalla lampada a olio che ardeva a stento e scoppiettava sinistramente, tutti fossero oggetti incantati, da poter far male soltanto a guardarli o toccarli! - Che vi accade, massaia? Ho avuto proprio paura sentendo picchiare con questo tempaccio. - Ah, don Saverio, voi la sapete meglio di me la disgrazia che mi sta addosso! Non c'è piú pace in casa mia. Mio marito è tra le granfie di quella maledetta Scarvagghia che se lo divora vivo vivo! Pecore, mule, raccolti, ogni cosa è per lei! ... Ed io, guardate qui, con questi stracci che mi fanno arrossire; e soltanto pane e cipolla, se non voglio morire d'inedia. Ho pregato tanto Dio e i santi: ho anche fatto dire tre messe in suffragio delle anime del purgatorio; ma né Dio, né santi, né anime del pur gatorio mi hanno fatta la grazia! Una malía, don Saverio! Una malía per quella mala femmina, e che possa struggerla come cera al fuoco! ... Non bado a spesa, don Saverio! - Ma don Saverio, col viso scurito e le mani giunte, mugolava sotto voce: - Uuh! Uuh! Passa il lupo! - Chi mai le avea dato a intendere che lui si impacciasse di quelle faccende proibite? Qualcuno che voleva male al povero don Saverio, certamente! - La massaia sapeva benissimo che con coloro delle malíe bisognava insistere, insistere; dapprima, tutti a un modo, dicevano di no! E insistette, pregandolo con le lagrime agli occhi, mettendogli in mano due scudi d'argento nuovi fiammanti, per caparra. - Non bado a spesa, don Saverio! - Ma, innanzi tutto, aveva dovuto giurare sul crocifisso di carta pesta che non ne avrebbe fatto parola con anima viva, se no la malía non sarebbe riuscita: e le era parso che il terreno le si sprofondasse sotto i piedi, stendendo la mano pel giuramento, mentre fuori la pioggia cascava a rovesci e il vento urlava e i tuoni rumoreggiavano che pareva il finimondo. In quei mesi don Saverio se la scialò nella taverna di Blasco con maccheroni, salsiccia arrosto, costole di maiale e vino di Vittoria: - Di quello senza battesimo! - ammiccava a compare Blasco. - Senza battesimo? Scomunicato! - rispondeva Blasco, dondolando il pancione a gran cassa. E la massaia intanto faceva viaggi di notte, per sapere a che stato fosse già arrivata la malía. - Non dubitate; andrà bene, se c'è la grazia di Dio -. A farlo a posta, ci fu un momento che parve ci fosse davvero la grazia di Dio, quando la Scarvagghia venne presa dalla febbre maligna, e don Ortensio, che la curava, la diè per ispacciata. Massaio Brigido, tornando dalla campagna con tanto di muso ora che la Scarvagghia andava male, trovava sua moglie che si fregava le mani, ma zitta zitta, per timore d'essere accoppata con la stanga dell'uscio. Ed egli, che aveva perduto la testa peggio di prima, non s'accorgeva del grano mancante, delle fave ridotte a met à, dell'olio e del cacio che avevano preso la via della casa di don Saverio, perché quell'affare costava un occhio. Massaio Brigido avrebbe fatto uno sproposito, se gli avessero detto: - È la malía di don Saverio che ammazza la Scarvagghia! - Chi poteva mai dirglielo? Nessuno ne sapeva nulla, neppure lo stesso don Saverio, quantunque avesse fatto la bambola di cencio e, a ogni visita della massaia, le facesse conficcare da lei uno spillonello nella testa per struggere quella mala femina come cera al fuoco; l'aveva fatta per buscarsi il pane, poiché c'era ancora chi credeva a queste sciocchezze e lo reputava fattucchiere. Le cose andarono bene finché la Scarvagghia stette tra la vita e la morte; ma la massaia, quando seppe che colei era ricomparsa sull'uscio a chiacchierare con le vicine, bianca e rossa come avanti, straluccicante di anelli e di orecchini che le sbattevano sul collo, non ebbe piú pace. - Ah, don Saverio, don Saverio, che tradimento m'avete fatto! - Don Saverio però la persuase, quattro e quattro fanno otto, che era stata tutta colpa di lei, se la malia s'era arrestata a mezza strada: - Bisogna rifarsi da capo! - E le fave, il grano, il vino, l'olio rifecero, per un pezzo, da capo, la loro solita processione dalla casa della massaia a quella di don Saverio, che andava a scialarsela da Blasco come gli accadeva di rado. Frattanto la Scarvagghia, scambio di struggersi, ingrassava. - Ah, don Saverio, don Saverio, che tradimento mi avete fatto! - lo rimproverava la massaia. Finché don Saverio non le rispose: - Me ne lavo le mani. Non voleva impicciarsene piú. Già qualcuno si era accorto di quelle visite notturne, e se ne ciarlava in paese. Un giorno, quel chiacchierone di don Paolo Conti gli aveva detto in piazza del Mercato, fra un crocchio di persone: - Come vanno le malie, gran mago che siete? Quella per la Scarvagghia è dunque fallita? - E alla risposta di don Saverio: - Il vino nuovo vi fa parlare cosí! - don Paolo, ch'era manesco, gli lasciava correre un ceffone per insegnargli la creanza. - Tela, donnine, tela! Uuh! Uuh! ... Passa il lupo! - Ma ora i tempi erano cambiati, e la gente spendeva diversamente i quattrini. Invano il povero don Saverio seguitava a rompersi da mattina a sera le gambe, tessendo i tre quartieri del paese; non vendeva neppure un cencio. Col vento che soffiava contro la religione e il santo padre, chi credeva piú in Dio, nella Madonna, nei santi, in nulla? E intanto non s'accorgevano che le male annate, i terremoti, la guerra e il colera venivano tutti di lassú, dal gran Maestro di cappella! ... Figuriamoci poi se vole vano piú credere nella medaglia miracolosa, che guariva il mal di denti e il mal di testa e portava buona fortuna, quantunque tanti e tanti ne avessero fatto esperimento! Non ci mancava altro che padre Benvenuto, smessa la tonica di cappuccino e diventato canonico, si desse a rubargli il mestiere delle malie, sacerdote e confessore com'era! - E il vescovo, prosit ! gli aveva tolto messa, coro e confessione! - Don Saverio, sentendo raccontare le prodezze del frate, masticava tossico; e scuoteva il capo, scandalezzato che un ministro di Dio facesse il fattucchiere e gabbasse la gente. E se s'imbatteva in un amico con cui poteva sfogarsi a cuore aperto, se ne lavava la bocca di padre Benvenuto e delle sue malie. - Eppure dicono che abbia i libri degli scongiuri, quelli dei frati. Se li rubò tutti lui, quando tolsero i conventi. - Ci credete? - rispondeva don Saverio stizzito. - E dicono che un teschio umano gli vada dietro per le stanze, quasi fosse un cagnolino. Vi è rinchiuso uno spirito, che parla e indovina il futuro. - Ci credete? - ripeteva don Saverio - Uuh! Uuh! Passa il lupo! - E spiegava la cosa: - Quello delle malie è dono particolare di Dio; ma occorre un maestro coi fiocchi per poter apprendere l'arte! Capite? - Voi lo trovaste il maestro coi fiocchi? - Non ne so nulla ... Io non c'entro in questo discorso -. E torceva il collo e gli occhi, facendo il modesto; ma quel suo risolino stentato lasciava intendere assai piú che non avesse l'aria di dire. - Fa pure il magnetismo, come lo chiamano. Addormenta le persone; e queste rivelano le malattie che hanno addosso e scrivono anche la ricetta -. Don Saverio scattava: - Ci credete, minchionaccio? Ve lo dico io che sia il magnetismo e come si faccia a guarire gli ammalati! Infatti, la figlia di mastro Cola aveva il male dei nervi, e ... voi m'intendete. Per virtú dello Spirito Santo! Frataccio briccone! Colei, sí, guarí, ma dopo nove mesi! - Questo non è vero; non dobbiamo dannarci l'anima, calunniando le persone. - Non è vero? Non è vero? - strillava don Saverio. E si dava con le dita su la bocca, per frenarsi di parlare: - Ho stomaco grande, compare! E se dicessi la sola metà di tutto quel che sta qui dentro ... Ah! non è vero? ... Datemi piuttosto una presa di rapé. - Si guastava il sangue cosí. E se lo guastava anche pensando che i galantuomini, invece di rivolgersi a lui come prima, facevano da loro stessi certi affari, tanto il mondo era corrotto! - Oggi le mamme vendono le proprie figliuole; e i mariti compiacenti tengono il sacco alle mogli. Nuovo re, nuova legge! Ed ecco la bella legge dei galantuomini: hanno tutti le amanti e le mantengono a viso scoperto, come tante regine! Una zitella onesta può morire di fame -. Faceva il moralista con le comari, andando ancora attorno per abitudine, con un po' di mercanzia che gli rimaneva in collo mesi e mesi; e bracava notizie da questa e da quella, rimpiangendo i bei tempi, quando tutti ricorrevano da lui, ch'era stato uno sciocco e non aveva saputo ingrassarsi a costo della gente! Padre Benvenuto, lui, sí, s'ingrassava come un maiale, restando chiuso in casa, poiché non doveva piú dir messa, né andare al coro, né confessare! E si era lasciato crescere di bel nuovo la barba da cappuccino, per illudere i grulli che accorrevano da ogni parte, anche da lontano, con muli carichi di frumento, di caci, di salami, d'ogni ben di Dio! Almeno lui, don Saverio, aveva oprato sempre in nome di Gesú e della Madonna, e non aveva mai avuto da fare col diavolo! Si era buscato il pane onestamente, contentandosi di quel pochino che gli veniva regalato, e dalla povera gente non aveva preso mai nulla. Aveva fatto tanta carità, e ora non trovava un cane che volesse farla a lui! Si era già ridotto a passare le giornate sul muricciolo fuori Porta, all'ombra degli alberi della passeggiata; o al sole chiacchierando coi contadini disoccupati, piú poveri di lui, che andavano a godersi allo stesso modo un'occhiata di sole per la quale non si pagava tassa. E una volta gli accadde di veder arrivare due carri carichi di gente e di roba, che venivano da Modica ed erano in viaggio da due giorni. - Scusate, compare; dove sta di casa padre Benvenuto? - Fu un colpo di coltello. Ma egli prese aria misteriosa, e trasse in disparte quell'uomo: - C'è meglio di padre Benvenuto, se voleste darmi retta! - Grazie, compare. Abbiamo una lettera per lui. - Insomma, di che si tratta? - Vedete quella ragazza? È diventata muta da un mese. E se le nominate Gesú Cristo e la Madonna, va subito in convulsione. - Siete cascato in buone mani, vi dico. Conosco persona che ne sa molto piú di quel frate. - Grazie, compare. Padre Benvenuto ci aspetta, e non vogliamo farci scorgere. Se mi conducete da lui, c'è un fiore anche per voi -. E il povero don Saverio dovette rassegnarsi a prendere quel fiore, una manciata di soldi, e condurre egli stesso quell'uomo, intanto che i suoi compagni avrebbero atteso lí, fuori il paese, staccando i muli dai carri. Gli tremavano le gambe nel salir le scale di colui che gli aveva rubato il mestiere: e quando fu alla presenza di padre Benvenuto - che pareva proprio un mago con la barbaccia nera, il berretto di velluto calcato fin sopra gli occhi e la sottana da prete sudicia di tabacco - non trovava le parole, quasi fosse andato a invocare aiuto e soccorso per conto proprio. E gli baciò la mano, e gli si raccomandò: - Si rammenti del povero don Saverio! Sono stato sempre buon servo di tutti. - Ma avete la lingua lunga; e questo è male! - Padre Benvenuto non gli rispose altro, secco secco, e lo mise fuori dell'uscio. E parve che queste parole gli avessero buttato addosso una malia! Da quel giorno in poi don Saverio non fu piú lui! Con febbri dietro febbri, che gli facevano battere i denti anche quando stava ad arrostirsi al sole davanti l'uscio della sua tana affumicata, egli deperiva, deperiva; e già sembrava un cadavere. - Come vi sentite, don Saverio? - gli domandavano le vicine. - Come Dio vuole! ... E come vuole la mala gente! - aggiungeva sotto voce. Ed era inutile che il dottore don Ortensio gli assicurasse: - È l'umido della casa. Questi sono reumi belli e buoni! - Ormai don Saverio era convinto che quei cani che gli rodevano le ossa e non gli davano tregua un momento, gli fossero stati mandati addosso da padre Benvenuto, per vendicarsi. Non glielo poteva cavar di testa nessuno! E un giorno lo confidò a un amico: - Mi ha buttato la malia! - E voi non sapete far nulla per voi stesso, con l'arte alle mani? - Non ce la posso con costui -. Si dichiarava vinto, sconfitto. E si lasciava morire, senza voler prendere nessun rimedio, quantunque il dottore gli dicesse che le medicine gliele avrebbe fatte dare per carità dalla farmacia dell'ospedale ... - Ah, signor dottore, c'è di mezzo una mala persona! - Non glielo poteva cavar di testa nessuno. E con questa convinzione nell'animo, una mattina, muovendo a stento le gambe, appoggiato a un bastone, col fiato ai denti, si trascinò fino a casa di padre Benvenuto. - Vi domando perdono! Ho avuto la lingua lunga, è vero! Vi domando perdono. - Siete ammattito? - Cacciatemi questi cani d'addosso! Non lo faccio piú. - Siete ammattito? - gli ripeté padre Benvenuto, vedendoselo cadere ai piedi in ginocchio. E pochi giorni dopo, al confessore che, dandogli il viatico, lo esortava: - Don Saverio, perdonate i vostri nemici, come perdonò Gesú Cristo! - Sissignore! - egli rispose con quel fil di voce di moribondo. - Anche a padre Benvenuto, che mi ha fatto la malia! Roma, gennaio 1889@. 1889.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 10 occorrenze

- Oggi sì, ma pare che in quei tempi godesse un clima abbastanza mite, tanto è vero che vi cresceva la vite e appunto per questo chiamarono quella terra Vinlandia, ossia "terra del vino". - E come scomparvero quelle colonie? - Non lo si sa. Nei primi anni della scoperta della Vinlandia molti Scandinavi s'imbarcarono per quel paese e anche molti Islandesi, fondando su diversi punti della costa grandi stabilimenti e mandando in Europa molti vascelli carichi di pelliccie; poi, a poco a poco le relazioni coll'Islanda e coi paesi scandinavi si rallentarono, finchè cessarono totalmente, forse a causa dei ghiacci che sempre più scendevano verso sud, forse per altre cause che restarono per sempre ignote. Il fatto è che tutte quelle colonie, un tempo così fiorenti, disparvero senza lasciar traccie. Anzi, taluni opinano che la Vinlandia non fosse il Labrador, ma l'isola di Terra Nuova; così incerte sono le memorie lasciate da quegli intrepidi naviganti e coloni. - Che siano stati tutti uccisi dagli eschimesi? - Non si sa, Koninson. Fors'anche dalla fame causata dal crescente freddo apportato dai ghiacci che distrusse i loro raccolti, forse da guerre civili, forse da qualche epidemia e, potrebbe anche darsi, dagli eschimesi. - E non potrebbero essersi invece fusi cogli eschimesi? - È possibile; anzi, molti scienziati sono del tuo parere, poichè è stato più volte osservato che talune tribù eschimesi sotto i loro strati di olio e di pittura hanno la pelle bianca. Ma lasciamo lì gli eschimesi e pensiamo ad accamparci. Domani, se il tempo, lo permetterà, ci dirigeremo verso quella catena di monti che chiudono l'orizzonte meridionale. - E poi? - chiese Koninson. - Poi continueremo ad avanzare verso sud finchè incontreremo il Porcupine. Quando saremo là, penseremo a raggiungere il fiume Makenzie e quindi il lago del Grand'Orso. - Perchè andremo fino a quel lago? - Perchè là appunto si trova un forte della Compagnia della Baia d'Hudson. - Allora ci andremo. Le nostre gambe sono buone malgrado la lunga prigionia subita in quella dannata capanna. Ora accampiamoci e mettiamo sotto i denti qualche cosa, poichè mi sento una fame diabolica. Staccarono la vela dalla slitta, rizzarono una specie di tenda sostenuta dall'albero e dal pennoncino e coprirono il suolo colle pelli che avevano portato con loro per ripararsi dal freddo e combattere l'umidità. Koninson, accesa la lampada, fece bollire un pò di pesce secco mescolandovi dei fagiuoli, gli ultimi che ancora possedeva, e quando tutto fu pronto invitò il tenente al magro desco. Dopo una fumata, turarono per bene la tenda e si coricarono cercando di addormentarsi. Avevano appena chiuso gli occhi che udirono, a breve distanza, un lungo urlo che aveva un non so che di lugubre. - Che razza di bestia si avvicina? - chiese Koninson, allungando la destra verso il suo fucile. - Mi pare che fosse l'urlo d'un lupo! - disse il tenente, punto spaventato. - Brutta compagnia, signor Hostrup. Forse che quei famelici animali si spingono fin sulle rive dell'oceano artico? - Nella buona stagione s'incontrano anche su queste coste. Probabilmente hanno fiutato l'odore del nostro pasto e si sono affrettati a dirigersi a questa volta. Metti fuori il capo e guarda. Koninson alzò la tela e strisciò all'aperto portando con sè il fucile. Un grande lupo dal mantello grigio urlava verso alcuni grossi animali assai villosi, che per le loro forme somigliavano ai buoi e che passavano ad un chilometro di distanza dirigendosi verso la catena di monti. - Signor Hostrup, uscite, uscite! - esclamò egli. - Vedo dei buoi. - Dei buoi? - disse il tenente. - Sei pazzo, giovanotto mio? - No, no, affrettatevi che se ne vanno. Il tenente uscì e dovette proprio convincersi che Koninson non aveva del tutto torto. - Sono buoi muschiati - disse, dopo aver attentamente guardato i ruminanti che galoppavano rapidamente verso sud. - E sono molti. - Una ventina per lo meno - aggiunse Koninson. - Sono buoni da mangiare? - Sì, fiociniere. - Che appartengano a qualche tribù di eschimesi? - No, non vivono che allo stato selvaggio e s'incontrano di rado, poichè la loro razza va a poco a poco scomparendo. - Se li inseguissimo? - Sarebbe fatica sprecata, poichè corrono e molto più rapidamente di noi. - Ma volete lasciarli andare? - insistette il fiociniere che si era fitto in capo di regalarsi, per l'indomani, delle succolente bistecche - Per ora sì, ma domani cercheremo di sorprenderli in qualche vallata e vedrai che qualcuno cadrà sotto le nostre palle. Oggi è inutile spaventarli. Il fiociniere dovette a malincuore arrendersi. D'altronde i buoi muschiati, che forse avevano fiutato qualche pericolo sia da parte dei due balenieri che dei lupi, si erano affrettati ad allontanarsi, ed in breve sparvero in mezzo alle colline di neve. Il tenente e il suo compagno ritornarono sotto la tenda e si riaddormentarono, ma furono ancora risvegliati, e parecchie volte, dalle urla dei lupi, di cui alcuni vennero a ronzare non solo attorno alla slitta, ma anche attorno alla tenda. All'indomani, un pò prima delle 6, erano tutti e due in piedi, pronti a mettersi in caccia. La giornata era splendida. Al disopra dei monti di ghiaccio che chiudevano l'orizzonte settentrionale, brillava un superbo sole il quale aveva portato la temperatura a soli 9o sotto lo zero. Per l'aria, vere nuvole di uccelli passavano e ripassavano mandando allegre grida, e sui campi di neve della terra americana si vedevano galoppare in tutti i sensi gran numero di volpi bianche occupate a cacciare i piccoli sorci di neve che cominciavano a lasciare le loro tane. La grossa selvaggina non mancava. In lontananza, fra gli "icebergs" e gli "hummocks", dei lunghi corpi nerastri si avvoltolavano in mezzo alle nevi, godendosi i tiepidi raggi di sole che li inondavano; erano foche e trichechi che, forato il ghiaccio, venivano a "respirare una boccata d'aria" come diceva Koninson. - Partiamo! - disse il tenente, dopo essersi riempite le tasche di palle e di polvere ed essersi caricato del fucile e di una scure. - I buoi muschiati non devono essere molto lontani. - E la slitta la lasceremo qui? - chiese Koninson. - Partiremo domani per il sud. Oggi ci dedicheremo alla caccia. - Non chiedo di meglio. Avanti, signor Hostrup; io ho un vivissimo desiderio di far conoscenza coi buoi muschiati. Chiusero alla meglio la tenda affinchè durante la loro assenza i lupi non facessero man bassa sui viveri, inforcarono gli occhiali per difendere gli occhi dal riflesso delle nevi percosse dai raggi solari e si misero animosamente in cammino, dirigendosi verso la catena di montagne, le cui valli non potevano essere lontane più di quattro o cinque miglia. Sul principio la marcia non fu difficile, quantunque la neve, cominciando a sciogliersi, rendesse il cammino faticoso; ma ben presto divenne aspra a causa del terreno che diventava sempre più malagevole, ora interrotto da larghi crepacci dai quali saliva una fitta nebbia che tosto si disperdeva, ora da profondi letti di neve che cedeva subito sotto i piedi, ed ora da certe collinette brulle i cui fianchi, coperti di ghiaccio, mal si prestavano per le ascensioni. Soffermandosi però di quando in quando per riprendere lena, verso le 10 del mattino i due cacciatori giungevano all'entrata di una stretta ma molto profonda e tortuosa vallata, interrotta qua e là da alte roccie sui cui fianchi germogliavano stentatamente alcuni campioni della famiglia delle sassifraghe, pochi salici artici e licheni di roccia. Il tenente, che di quando in quando si arrestava per guardare la neve, scoprì numerose traccie di buoi muschiati che si perdevano in fondo alla valle. - Siamo vicini alla grossa selvaggina - disse a Koninson. - Prepara il fucile e bada di non mancare il colpo, poichè i buoi muschiati hanno delle solide corna. - Assalgono i cacciatori? - chiese il fiociniere. - Qualche volta sì, e allora diventano pericolosi; più d'un eschimese è stato sventrato come un "toreador" spagnuolo, se non peggio. Avanti e silenzio. Armarono i fucili e s'addentrarono nella valle cercando di evitare gli stagni e i piccoli corsi d'acqua per non fare rumore calpestando il ghiaccio che li copriva e cercando pure di mantenersi nascosti più che era possibile, allo scopo di non allarmare subito la selvaggina che forse pascolava a breve distanza. Avevano percorso in quella guisa oltre mezzo miglio, quando udirono dietro alcune roccie dei sonori muggiti. - Adagio, Koninson! - mormorò il tenente trattenendo il compagno che stava per slanciarsi innanzi. - Giriamo pian piano le roccie. Si gettarono a terra e, strisciando a mò di serpenti, avanzarono lentamente finchè giunsero a una piccola rupe, dietro la quale potevano vedere e sparare senza correre pericolo. La scalarono e guardarono dall'altra parte: i buoi muschiati, che la sera innanzi avevano attraversata la pianura inseguiti dai lupi, stavano loro dinanzi, a meno di duecento passi.

Si recarono ai magazzini e colla scure fecero a pezzi la grande baleniera del cui legname, abbastanza curvo, contavano di servirsi. L'impresa non fu tanto facile, essendo sprovvisti degli utensili necessari, ma finalmente riuscirono a costruire un solido apparecchio che, se non era precisamente una slitta, di poco le si scostava. Il difficile fu l'adattamento dei pattini di ferro, non possedendo che poche lamine di metallo strappate alle imbarcazioni, poco larghe e per di più un pò avariate. Ma colla pazienza, riscaldandole sulla gran lampada e battendole e ribattendole col rovescio delle scuri, anche i pattini furono ottenuti e collocati a posto. - Speriamo che resistano! - disse Koninson, piantando l'ultimo chiodo. - E perchè si dovrebbero rompere? - Il metallo era molto vecchio e molto arrugginito, signor Hostrup. - E se tu non lo sai, fiociniere, ti dirò che il ferro arrugginito naturalmente, e così pure l'acciaio, è sempre migliore di quello appena fuso. Un celebre coltellinaio di Londra ha fatto degli esperimenti in proposito, che diedero dei risultati sorprendenti. - Io non l'ho mai saputo. - Così è, Koninson. Questo coltellinaio, che si chiamava Weiss, seppellì dei vecchi rasoi e delle vecchie lame di ferro, dopo tre anni le ritirò coperte d'un spesso strato di ruggine che pareva trasudato dall'interno e, lavoratele, ottenne delle lame d'una qualità superiore, e tali da vincere quelle famose di Toledo. - Allora non temo più per i nostri pattini. L'indomani i due balenieri riprendevano il lavoro per ultimare la slitta. Costruirono, servendosi sempre del legname fornito dalle imbarcazioni, delle casse per i viveri e per le munizioni, issarono sul dinanzi del veicolo un pennone che assicurarono saldamente e che fornirono d'una vela quadra, e finalmente fabbricarono una specie di timone munito all'estremità d'un grosso gancio di ferro che doveva servire per la direzione e, in caso di bisogno, per le fermate improvvise. Il 18 l'occuparono nel fabbricarsi degli occhiali, oggetti indispensabili in quelle regioni, quando il sole si riflette sui campi di ghiaccio. Infatti quella luce acciecante è pericolosa e cagiona spesso delle oftalmie che conducono alla cecità e delle quali non vanno esenti neanche gli eschimesi che pure nascono e vivono in quei climi. Quegli occhiali richiesero parecchio tempo e molta pazienza, ma finalmente i due balenieri ne vennero a capo. S'intende che non erano formati con lenti, impossibili ad ottenersi, per quanto desiderio avessero il tenente e il suo compagno, ma poco dissimili da quelli usati dagli indiani delle terre della Baia di Hudson. Sarebbero stati necessari dei rami di cedro rosso che essendo assai pieghevoli vengono adoperati dagli indiani nella fabbricazione di questi oggetti, ma non avendone a loro disposizione, i balenieri si servirono di un grosso filo di ferro rinvenuto in un canotto. Curvatolo in maniera da formare un ovale assai allungato, lo coprirono con una sottile pelle di foca, praticandovi, al posto degli occhi, due sottili tagli orizzontali. Ciò era bastante per vedere senza incorrere nel pericolo di rimanere acciecati o di buscarsi qualche seria malattia. La mattina del 20, tutto era pronto per la partenza. La slitta colla sua vela semi-tesa, col suo albero ben assicurato, il suo timone a posto, i viveri sufficienti per tre settimane e le munizioni rinchiuse nelle casse, non aspettava che di essere manovrata per slanciarsi attraverso il campo di ghiaccio. Uno splendido sole brillava sull'orizzonte inondando quella deserta regione d'una luce abbagliante, e un fresco vento soffiava da nord. I due balenieri, chiusi per bene i magazzini nei quali lasciavano ancora una discreta quantità di provvigioni e dato un addio alla capanna che li aveva ricoverati durante il lungo inverno polare, si affrettarono a dirigersi verso la slitta, ansiosi di toccare la costa americana. Stavano per porvi il piede, quando entrambi si fermarono come se a tutti e due fosse istantaneamente venuto lo stesso pensiero. I loro occhi si portarono sul gran banco di ghiaccio risplendente di luce e si fermarono là dove circa quattro mesi prima, in una notte d'orrore, per effetto delle pressioni, il valoroso "Danebrog" sventrato, stritolato, era colato a fondo; là dove i loro sfortunati camerati erano stati inghiottiti in quella tremenda notte. - Riposate in pace! - disse il tenente con voce solenne e triste, scoprendosi il capo. - Riposate in pace voi infelici che non rivedrete giammai le lontane sponde della vostra patria, nè avrete sulle vostre tombe il conforto di un fiore sparso da mano amica, nè una lagrima versata dai vostri cari. Addio, capitano Weimar, addio, miei poveri camerati: noi non vi dimenticheremo. - Riposate in pace! - ripetè Koninson che era profondamente commosso. - I ghiacci del polo vi siano leggeri. - Ed ora partiamo! - disse il tenente. Balzarono nella slitta che pareva impaziente di allontanarsi da quei funebri luoghi e issarono la vela, che subito si gonfiò sotto i soffi del vento settentrionale. Il veicolo per un istante rimase immobile come fosse inchiodato al banco, poi cominciò a scivolare un pò indecisamente, indi si slanciò attraverso la liscia superficie colla velocità di un treno diretto, sollevando attorno a sè una nube di nevischio e di ghiacciuoli e lasciandosi dietro due striscie fiammeggianti che in pochi istanti si prolungarono indefinitamente. Il tenente e Koninson, quasi soffocati dalla rapida e gelida corrente d'aria, flagellati da una vera grandine di ghiacciuoli sottili come aghi, solidamente aggrappati alle traverse del celere veicolo, si sforzavano di guardare innanzi per tema di trovarsi improvvisamente sull'orlo di qualche spaccatura o di urtare contro qualche sporgenza. - Apri bene gli occhi, - ripeteva Hostrup al fiociniere - e sii pronto a lasciar cadere la vela. - Non temete, - rispondeva con voce soffocata il bravo giovanotto, che non abbandonava la prua del veicolo dove maggiore era la pioggia dei ghiacciuoli, taluno dei quali gli lacerava il viso - guardo sempre. E la slitta scivolava, scivolava sempre più senza scosse, senza sbandamenti, senza deviare d'un solo centimetro sotto la robusta mano del tenente che non abbandonava il timone, lasciandosi a destra e a sinistra "icebergs" e "hummocks" e mettendo in fuga volpi, lupi e uccelli. Ben presto la sua velocità divenne tale che il tenente cominciò ad avere delle inquietudini. Oramai filava come un vero uccello, percorrendo non meno di cinquanta chilometri all'ora. Guai se si fosse trovata dinanzi ad un ostacolo o dinanzi ad una spaccatura del ghiaccio; l'urto l'avrebbe mandata in mille pezzi e i due uomini che la montavano non se la sarebbero cavata senza ossa rotte. A mezzogiorno il tenente stimò la distanza percorsa a centosessanta miglia, ma la costa americana non era ancora in vista, quantunque non dovesse essere molto lontana. - Fermiamoci! - disse al fiociniere. - Ammaina la vela. Koninson obbedì. La slitta, trasportata dallo slancio, percorse un buon miglio ancora, poi si fermò di fianco ad un alto masso di ghiaccio. Accesero la lampada che avevano portato seco loro, si prepararono un modesto desinare che in un baleno divorarono, indi rimontarono nel veicolo che riprese la corsa ma con minor velocità, essendo il vento un po' scemato. Alle 4 pomeridiane, dopo essersi più volte fermati per girare dei crepacci che erano stati scorti a tempo e per trascinare la slitta attraverso a ghiacci sollevati dalle pressioni, Koninson segnalava un'alta costa che, quantunque fosse tutta coperta di neve, non pareva una catena di "icebergs", e un pò più tardi, ad una grande distanza, mezze avvolte fra un fitto nebbione, scopriva delle vette che sembravano montagne. - Signor Hostrup! - esclamò con voce commossa. - È la costa americana! - disse il tenente, non meno commosso. - Così presto? - Abbiamo percorso oltre duecento e cinquanta miglia da stamane. Presto, fiociniere, cala la vela o ci sfracelleremo. Koninson si affrettò ad ubbidire. Dieci minuti dopo la slitta si arrestava a solo mezzo chilometro dalle sponde dell'America settentrionale.

Finalmente un'onda li prese e li portò abbastanza tranquillamente sul banco di ghiaccio ove rotolarono senza forze e irrigiditi, in mezzo alle nevi ed ai ghiacciuoli. Erano allora le 6 del mattino.

La notte infatti passò abbastanza tranquillamente. Non vi furono raffiche violente nè cavalloni molto alti. Il 31 però la massa delle nubi divenne più densa e più nera, abbassandosi tanto da credere che volesse tuffare i suoi lembi nel mare. Il vento crebbe di violenza girando da sud a , fischiando in mille guise attraverso gli attrezzi e sollevando gigantesche ondate che andavano coprendosi di bianchissima spuma. Ben presto si udì in lontananza il tuono e alcuni lividi lampi illuminarono i neri vapori che allora correvano disordinatamente come cavalli sbrigliati. Il capitano fece chiudere buona parte delle vele e salire in coperta tutto l'equipaggio. Il lupo di mare prevedeva un uragano violentissimo e voleva essere pronto a sostenerne gli attacchi. Verso le 11 del mattino il mare diventò burrascosissimo e il vento ancora più impetuoso. Non erano onde, ma vere montagne d'acqua quelle che correvano urtandosi furiosamente. Non si udivano che i mille muggiti del vento, lo sbattere delle vele e dei cordami, il gemito degli alberi, le grida dei marinai e le strida delle procellarie. Il "Danebrog", guidato dall'abile mano di mastro Widdeak, si comportava valorosamente, fendendo le onde col suo acuto e solido sperone, ma dopo qualche ora si trovò in una situazione così scabrosa che fece illividire il viso a più di un marinaio e aggrottare la fronte persino al flemmatico tenente. Il vento aveva allora raggiunto la straordinaria velocità di 27 metri al minuto secondo, velocità che solo raggiunge nelle grandi tempeste, e alle quali ben poche navi resistono. Infatti il "Danebrog" si sentiva trascinare via con velocità incalcolabile, andando attraverso le onde che si rimescolavano orribilmente empiendo l'aria di mille muggiti, tuffando spesso il tribordo nell'acqua. Gran parte delle sue vele, in meno che non si dica, furono lacerate e strappate dai pennoni, compromettendo così molto seriamente la sua stabilità. Il povero legno, che non obbediva quasi più al timone, traballava disordinatamente, ora salendo i cavalloni, ora precipitando negli avvallamenti dove minacciava di venire per sempre inghiottito: gemeva, perdeva ora un pezzo di murata, ora un attrezzo della coperta. C'erano certi momenti che tanta era la massa dell'acqua che si slanciava sopra i suoi bordi, da non sapere se galleggiasse ancora o fosse per andare a picco. Il capitano Weimar, aggrappato alla ribolla del timone con a fianco mastro Widdeak, malgrado la gravità della situazione, conservava un ammirabile sangue freddo e comandava con voce tonante la manovra. Il tenente aggrappato ad una catena di prua faceva eseguire gli ordini con voce tranquilla, come se si trovasse in una solida casa, anzichè su una nave che da un momento all'altro poteva sfasciarsi. I marinai, scalzi, seminudi, senza berretti, inzuppati d'acqua, i volti lividi per il terrore, si tenevano stretti stretti alle murate o alle sartie, o ai bracci delle vele inferiori, cogli occhi fissi sui comandanti, pronti a eseguire le manovre. Di quando in quando qualcuno di loro, investito da un colpo di mare, veniva trascinato per la coperta o gettato contro gli alberi, riportando talvolta delle contusioni di qualche gravità. E uno fu persino sbattuto fuori dalla murata e si salvò solamente aggrappandosi prontamente ad una gru. Alle 9 pomeridiane, cioè dopo tredici ore di ostinatissima lotta, il "Danebrog" che aveva sempre camminato con una celerità superiore ai dodici, e qualche volta ai tredici nodi, si trovava a breve distanza dallo stretto di Behring. Già la costa americana, al chiarore di un lampo era stata scorta a sette od otto miglia sopravvento. Il capitano Weimar mandò due uomini sulla gran gabbia, affinchè fossero pronti a segnalare le isole Diomede che sorgono in mezzo allo stretto, e contro le quali poteva venire spinto il "Danebrog". Alle 10 una raffica furiosa si rovesciò sulla nave, la quale, presa di traverso, fu violentemente rovesciata su di un fianco. Un immenso grido di spavento echeggiò sulla coperta mescendosi a urli della tempesta. Tutti i marinai credettero che non si risollevasse mai più. Fortunatamente Koninson, che si trovava presso i bracci della vela di maestra con pochi colpi di scure tagliò le manovre. Ciò bastò perchè la nave riprendesse il suo equilibrio prima che le onde si precipitassero sulla tolda. Quasi subito successe una breve calma. Le nubi, violentemente squarciate da quel furioso colpo di vento, mostrarono per alcuni istanti il sole, che in quelle latitudini elevate, nella stagione estiva, si può dire che non tramonta mai. L'effetto prodotto da quella luce dorata sullo sconvolto mare fu stupendo, ma durò pochi istanti. Le nubi richiusero quello strappo, la semi-oscurità tornò a stendersi sui flutti e il vento ricominciò a ruggire con maggior forza, spingendo innanzi a sè la nave, alla quale non restavano più che la vela di trinchetto e la randa dell'albero di mezzana. Ad un tratto si udirono i gabbieri gridare: - Terra a prua! ... Il capitano affidò il timone a mastro Widdeak e si slanciò, nonostante i violenti rollii, a prua dove l'aveva già preceduto il tenente. Ad una distanza di quattro miglia il mare si sollevava a prodigiosa altezza intorno al gruppo delle Diomede formato dall'isola Ratmanoff che è la più grande, dalla Krusenstern che è la mezzana e da Ferway che è un arido scoglio. - Bisogna tenersi al largo assai, capitano! - disse il tenente - Mi metterò io al timone! - rispose Weimar. - Fate preparare alcune vele di ricambio. - Temete che scappino quelle spiegate? - Se giunge una raffica forte quanto quella di prima non potranno resistere, ne son certo. Il capitano ritornò a poppa e prese la ribolla del timone mentre il tenente faceva portare in coperta alcune vele. Il "Danebrog" era giunto nello stretto, il quale è largo ben 83 chilometri fra il capo orientale dell'Asia e il capo di Galles dell'America e profondo assai. Qui il mare era orribilmente agitato. Le onde, spinte dal vento, si schiacciavano, per così dire, fra due coste, quantunque, come si disse, queste siano assai distanti l'una dall'altra; e si frangevano furiosamente contro le isole lanciando sprazzi di spuma a tale altezza che questi toccavano le nere frange delle nubi. A mezzanotte il "Danebrog" giungeva dinanzi all'isola Ratmanoff, sulla quale volteggiavano disordinatamente migliaia di uccelli marini. D'improvviso, quando i marinai si credevano già quasi fuori di pericolo, una raffica furiosa investì la nave che tuffò più di mezza prua nel seno degli spumanti flutti. Gli alberi si curvarono come fossero semplici stecchi, poi si udirono due scoppi violenti seguiti da urla di terrore. Le due vele strappate dai pennoni volarono via come due immensi uccelli. Il capitano Weimar, malgrado il suo straordinario coraggio, impallidì. - Una vela! Una vela o siamo perduti! - gridò. Infatti il "Danebrog", senza un brano di tela, veniva spinto dalle onde e dal vento contro l'isola Ratmanoff che mostrava i suoi scogli a meno di quattro gomene di distanza. Il tenente, Koninson, mastro Widdeak e una decina di marinai malgrado le disordinate scosse che li atterravano, tentarono di spiegare una trinchettina, ma le onde che si precipitavano in coperta e i soffi tremendi del vento, rendevano quell'operazione quasi impossibile. Tre volte la vela fu innalzata fino al pennone e tre volte il vento l'abbattè e con essa gli uomini. Allora un grande spavento si impadronì del l'equipaggio. Alcuni marinai perduta completamente la testa per il terrore, si misero a correre per la coperta sordi ai comandi e alle minacce dei capi. Altri, non meno spaventati, si gettarono sulle baleniere. Il "Danebrog", semi-rovesciato su un fianco, coperto d'acqua ad ogni istante, andava sempre attraverso le onde malgrado gli sforzi disperati del capitano che non aveva abbandonato la ribolla. Ad un tratto avvenne un urto formidabile sul tribordo, seguito da un crepitio sinistro. Il capitano, il tenente e i marinai furono violentemente rovesciati in coperta. Quando si risollevarono il "Danebrog" non correva più. Si era arenato a una sola gomena dall'isola, in mezzo ad un gruppo di scoglietti le cui punte nere uscivano dalle onde.

Ad oriente cominciava a biancheggiare quando si rimisero in viaggio, favoriti da un vento abbastanza forte che soffiava da sud-sud-est. La slitta, vigorosamente cacciata innanzi dalla grande vela che era così gonfia da temere che scoppiasse, si rimise a scivolare sulla pianura con un lungo stridio e con una velocità che fu stimata non inferiore ai nove nodi all'ora. Il tenente, che stava a timone, la spinse al di là del bosco lasciando alla sua destra il fiume che accennava a piegare verso sud, poi la lanciò dritta dinanzi a sè, sapendo bene che in qualunque punto avrebbe incontrato sul suo passaggio il Makenzie, il quale taglia quella desolata regione fino alle rive dell'oceano artico. Il paese era sempre piano e disabitato. Solamente a nord, alcune catene di monti, assai lontane, apparivano semi-nascoste fra un fitto nebbione e verso sud dei grandi boschi di pini e di abeti costeggianti il corso del Porcupine. Di quando in quando da quegli alberi uscivano correndo torme di lupi affamati, i quali si davano a inseguire la slitta colla speranza di raggiungerla, ma ben presto desistevano riconoscendo l'inutilità dei loro sforzi; talvolta invece delle renne dalle corna ramose apparivano fra i cespugli e, dopo aver guardato quello strano veicolo che doveva sembrare ai loro occhi un immenso uccello, fuggivano spaventate senza lasciar tempo al fiociniere di prendere il fucile. Dei Tanana nessuna traccia, quantunque i due balenieri si guardassero ben bene d'attorno e porgessero attento ascolto ai rumori del largo. A mezzogiorno, dopo aver percorso molte miglia sotto un sole che cominciava già a diventare caldo ed a sciogliere i ghiacci, Koninson additò al tenente una specie di battello sospeso ad alcuni piuoli alti un paio di metri da terra e che si trovava sull'orlo della foresta. - Cos'è quella roba là? - chiese. - Indica la presenza di qualche tribù di indiani, o la vicinanza di qualche villaggio abbandonato? - Nè l'uno, nè l'altro - rispose il tenente. - Se non m'inganno, quella è una tomba. - Che non ci potrà certamente giovare. - Anzi, troveremo qualche cosa che farà per noi. Ammaina la vela e andiamo a vedere. Il fiociniere s'affrettò ad ubbidire e la slitta, trasportata dal proprio slancio, andò a fermarsi a poca distanza da quella strana tomba. Il tenente e il fiociniere vi si diressero e la esaminarono con curiosità. Consisteva in un vero canotto indiano di corteccia di betulla e armatura di salice, lungo circa otto piedi, solido e leggero ad un tempo. Era sospeso a circa due metri da terra con alcuni piuoli e sotto di esso la neve appariva smossa di recente e vi si vedeva un certo rigonfiamento come se nascondesse qualche cosa. - Il morto è nel canotto? - chiese Koninson. - No, giace sepolto sotto la neve. Il canotto conterrà invece le armi, le scarpe, le reti e le lenze appartenenti all'estinto. - E dei viveri? - Forse, ghiottone. Sali nel canotto e guarda dentro. Il fiociniere si alzò sui piuoli e salito nella leggera imbarcazione gettò giù due fiocine di corno di narvalo diligentemente aguzzate, un paio di scarpe assai malandate, alcune reti e una lenza di pelle di foca lunga una trentina di metri. - Non valeva la pena di venire fin qui - diss'egli di assai cattivo umore. - Ci avessero messo almeno qualche sacchetto di quell'eccellente "pemmican" che sanno fare gli indiani di questa regione! - Sanno bene che i morti non mangiano, ragazzo mio, - disse il tenente. - Ma perchè mettono sulle tombe le armi e le reti? - Perchè se ne servano nell'altra vita. - Ah! Credono che i morti risuscitino. - Tutti gli indiani ne sono convinti. Ora scendi e cerchiamo di procurarci la colazione. Tò! Ecco dei lupi che urlano nel bosco. La loro carne è pessima, ma chi non ha di meglio può accontentarsi. - Voi v'ingannate, signor Hostrup, poichè ho qualche cosa di più appetitoso da offrirvi. Guardate in alto. Il tenente alzò il capo e vide un grossissimo uccello il quale volava pesantemente come se facesse molta fatica a mantenersi in aria. Imbracciò rapidamente il fucile, mirò alcuni istanti con molta attenzione, poi premette lentamente il grilletto. Il grosso volatile colpito dall'infallibile palla del cacciatore, rotolò due volte su sè stesso mandando una nota che parve emessa da una tromba, poi piombò a terra con sordo rumore rimanendo immobile. - È un cigno - disse Koninson precipitandovisi sopra. - Trenta libbre di carne eccellente! - rispose il tenente. - Ma come mai questo uccello si trova qui? - In estate i cigni vengono a visitare questa regione. La presenza di questo uccello indica che lo sgelo dei fiumi non è molto lontano. - Brutta nuova per chi non ha che una slitta a vela. - Bah! Fra poco non avremo più bisogno di questo veicolo, poichè il Makenzie non deve essere molto lontano. Koninson si affrettò a spennare il volatile il cui peso, come aveva detto il tenente, superava le trenta libbre, poi ne mise un grosso pezzo al fuoco che in quel frattempo era stato acceso con legna morta raccolta nella vicina foresta. Calmata la fame, i due naufraghi tornarono a imbarcarsi, e la slitta, favorita ancora da un buon vento, ripartì costeggiando sempre la foresta. L'indomani, dopo una ventina di miglia, il terreno che fino allora si era mostrato molto favorevole cominciò a cambiare. La gran pianura era spesso interrotta da ondulazioni, da salite, da larghi crepacci e da ruscelletti, le cui rive assai più alte dei corsi d'acqua facevano trabalzare disordinatamente il veicolo, minacciando spesso di mandarlo in pezzi. Anche un largo fiume che il tenente suppose fosse il Peel, uno degli affluenti al Porcupine, e che sbocca a breve distanza dal Makenzie, venne ad interrompere la corsa. I due naufraghi furono costretti a calare la slitta dalla riva e attraversare il ghiaccio per poi issarla sulla sponda opposta. In quella traversata poco mancò che affondassero nel fiume poichè il ghiaccio, corroso dall'azione delle acque e dal sole, più volte crepitò e tremò sotto il peso della slitta. II 14 maggio il vento improvvisamente mancò e così pure per altri tre giorni durante i quali il sole, che rapidamente diventava caldo, sciolse gran parte dello strato di neve rendendo così la marcia della slitta assai penosa. Il 18 dovettero rinunciare a partire di giorno, quantunque il vento fosse propizio, anzi molto forte. La neve, eccessivamente rammollita, non permetteva più lo scivolamento. La gran pianura, percossa da una vera pioggia di raggi caldissimi, presentava un sublime spettacolo. Pareva che un immenso incendio la divorasse, estendosi fino agli estremi limiti dell'orizzonte. La neve, i massi di ghiaccio, gli "hummoks", si fondevano a vista d'occhio e fitte masse di vapori ondeggiavano in tutti i versi, sbattute dagli impetuosi soffi del vento meridionale. Di quando in quando, però, fasci di luce scaturivano da quelle masse, e così abbaglianti che gli occhi dei due balenieri non ci potevano resistere. Le acque pullulavano dappertutto correndo in tutte le direzioni, radunandosi nelle bassure, formando torrentelli e stagni, e producendo un ronzio che, di mano in mano che il sole si alzava sempre più splendido e sempre più caldo, diventava più forte. - Corpo di una balenottera! - esclamò Koninson che si era affrettato a tirarsi i capelli sugli occhi per non rimanere cieco. - Si direbbe che oggi messer Febo si è avvicinato alla terra di qualche milione di miriametri. - Se non ci affrettiamo, la nostra vela ci sarà affatto inutile. Fra un paio di giorni la pianura rimarrà scoperta - disse il tenente. - E quando partiremo? - Stasera farà ancora un pò di freddo e tutta quest'acqua e questa neve geleranno. Il tenente non si era ingannato. Verso le 11 di sera, quantunque il sole fosse ancora sull'orizzonte, la temperatura precipitò quasi improvvisamente di parecchi gradi, fino a toccare i tre sotto lo zero e la vasta pianura gelò. I balenieri spiegarono la vela e ripartirono con una velocità notevolissima, essendosi il vento mantenuto assai forte. Alle tre del mattino avevano già percorso trenta e più miglia, ora scendendo ed ora salendo. Ad un tratto l'orecchio di Koninson fu ferito da uno strano muggito che veniva da est. - Abbiamo qualche branco d'alci dinanzi a noi? - chiese egli prendendo il fucile. - Lo spero - rispose il tenente, prendendo la sua arma. Di mano in mano che la slitta procedeva il muggito cresceva sempre, ma sulla pianura non si vedeva alcun essere vivente, per quanto i balenieri aprissero gli occhi. Koninson, che cominciava a diventare inquieto, s'alzò in piedi e si issò sull'albero. Un grido gli sfuggì tosto: - Lasciate la scotta. Abbiamo un fiume dinanzi! - È il Makenzie! - esclamò il tenente. In un baleno, lasciò andare la fune, ma ormai era troppo tardi per arrestare la slitta che divorava la via con una celerità di quindici nodi all'ora. In men che lo si dica, giunse al fiume che correva incassato fra due alte muraglie, barellò un istante nel vuoto, poi precipitò giù inabissandosi nei gorghi del Makenzie.

La slitta, quantunque avesse sotto di sè un buon strato di solido ghiaccio che la faceva scivolare abbastanza bene, diventava pesante a causa del pendio che cresceva sempre più, ma i due marinai, che avevano fretta di uscire da quel pericoloso passo, non si arrestarono e incoraggiandosi vicendevolmente colla voce e coll'esempio, continuavano a salire, aggrappandosi alle pareti rocciose quando si sentivano trascinare indietro e piantando profondamete i bastoni nella neve. Dopo aver fiancheggiato dei profondi abissi da cui saliva una densa nebbia sotto la quale si udivano ululare i lupi, dopo aver arrischiato venti volte di fiaccarsi il collo, dopo aver sollevato, con uno sforzo sovrumano, più di una volta la loro slitta per superare certe creste ove nessuna mano di uomo aveva aperto un passaggio, verso le dieci del mattino giunsero dinanzi ad una specie di caverna che occuparono per prendere un pò di riposo. Mentre Koninson, che non poteva star fermo, s'ingegnava ad accomodare la slitta che in quei trabalzi aveva sofferto non poco, il tenente fece un'ampia provvista di lichene di roccia con cui contava di regalarsi una eccellente zuppa. Fu in quella raccolta che egli scoprì una strana pianticella che prima d'allora non aveva mai vista e della quale non aveva mai udito parlare. - Vieni, Koninson, - disse. - Ho messo la mano su una rarità che i botanici ancora ignorano. - Roba da mangiare? - chiese il fiociniere, che pensava al pranzo. - No, ma sono contento di averla scoperta. Il fiociniere raggiunse il tenente che gli mostrò un bizzarro fiore, piantato in mezzo alla neve e cresciuto fra i gelati soffi del vento settentrionale, formato di tre sole foglie del diametro di circa tre pollici coperte di microscopici cristalli di neve e d'una stella, i cui petali, lunghi quanto le foglie e larghi un mezzo pollice, mostravano dei piccoli punti lucenti come diamanti e della grossezza di capi di spilli. - È meraviglioso! - disse il fiociniere. - Un fiore che nasce in mezzo ai ghiacci! - Ne hai visto di simili? - Mai, signor Hostrup, eppure ho viaggiato assai nelle regioni polari. Tò! E cos'è quella roba rossa che vedo laggiù, presso quel masso di ghiaccio? - Un'altra pianta meravigliosa forse? - Non credo, signor Hostrup. Io la direi ... - Neve rossa, vuoi dire. - Precisamente. - E lo è infatti. - Come? Forse che c'è anche della neve rossa? - Altri viaggiatori artici l'hanno veduta più a nord. Si diressero verso quello strato rosso che non occupava però più di tre o quattro metri quadrati e si convinsero che era proprio neve colorata di rosso. - Ma come diventa di questo colore? - chiese Koninson, meravigliato. - Forse per la presenza di vegetali coloranti microscopici? - Lo si è creduto, Koninson: ma il viaggiatore Scoresby, che l'ha studiata, non è di questo parere. Secondo lui, il principio colorante deriverebbe da migliaia di piccoli infusorii che si muoverebbero con rapidità vertiginosa. - Che abbia differente sapore della bianca? - Non credo; del resto puoi ... - Zitto, signor tenente! - Cosa c'è ancora? - Udite! Il tenente tese gli orecchi e fra i cupi rimbombi dei ghiacci scivolanti dalla montagna, udì delle urla acute che rapidamente sì avanzavano. - Bah! Sono lupi! - disse. - Ma mi sembrano molti. - Abbiamo i nostri fucili, ragazzo mio. - Non ci assaliranno? - Forse, ma noi li respingeremo. Entriamo nella caverna e prepariamo la zuppa. Trascinarono con loro la slitta onde porre in salvo le provvigioni che ancora restavano e raggiunsero il ricovero, dentro il quale potevano difendersi contro l'attacco delle voraci bestie. Koninson accese la lampada, il tenente sciolse sulla fiamma un pò di neve e mise nella marmitta il lichene raccolto che ben presto cominciò a bollire, spandendo all'intorno un profumo appetitoso. Quando fu ridotto in una specie di pasta gommosa e nerastra, il tenente invitò il fiociniere ad assaggiarla. - Il colore non è rassicurante! - disse Koninson. - Ma il profumo è promettente. E l'assaggiò una, due, tre volte. - Eccellente! - esclamò. - Rammenta il sapore del manioca. E come si chiama dagli eschimesi, questa zuppa? - Trippa di roccia. - Evviva la trippa, adunque! La marmitta, vigorosamente assalita, fu ben presto vuotata. I due balenieri stavano per porre sotto i denti alcuni biscotti onde completare il pasto, quando un enorme lupo, dagli occhi scintillanti e dal pelo lungo e arruffato, fece il suo ingresso nella caverna emettendo un lugubre ululato. - Troppo ardito, mio caro! - disse il tenente afferrando il fucile. All'ululato del lupo fecero eco altri ululati che venivano dal di fuori. - Diavolo! - esclamò Koninson, prendendo l'altro fucile. - Abbiamo una banda dinanzi alla grotta. - Hanno fame quelle brutte bestie e forse calcolano di sfamarsi colle nostre polpe. - È ciò che vedremo. Il lupo, punto spaventato, non si muoveva e pareva invitasse i compagni a seguirlo; ma il tenente con un colpo di fucile lo abbattè. Alla detonazione e all'urlo di dolore emesso dal colpito, gli altri lupi invece di fuggire s'affacciarono all'entrata della caverna, mostrando minacciosamente i loro acuti denti e dardeggiando sui due balenieri sguardi ardenti. Koninson fece fuoco in mezzo al gruppo e fece cadere il più ardito. La banda intera si precipitò sul morto e lo fece a brani contendendoselo ferocemente. - Ah! - esclamò il fiociniere. - Il proverbio questa volta riceve una solenne smentita. - È vero! - disse il tenente. - Ora non si dirà più che lupo non mangia lupo. Orsù, mano alla scure e carichiamo quelle canaglie ... Gettando alte grida, si slanciarono in mezzo ai lupi i quali s'affrettarono a battere in ritirata arrestandosi però a breve distanza. - Pare che non abbiano voglia di lasciarci, signor Hostrup. - Ma noi partiremo lo stesso. Ho fretta di raggiungere la cima del colle. - In marcia, adunque. Caricarono i fucili, s'attaccarono alle corde della slitta e usciti dalla caverna, ripresero la faticosa ascensione. I lupi si misero a seguirli ad una distanza di trenta o quaranta passi, destando tutti gli echi delle montagne coi loro interminabili ululati. Per due ore, tirando e spingendo rabbiosamente la slitta che pareva diventasse sempre più pesante, seguirono quella specie di passaggio ma, giunti ad una certa altezza, si trovarono dinanzi ad una parete di ghiaccio che chiudeva la via e così elevata da non potersi superare. Dovettero deviare ed arrampicarsi sui fianchi della montagna più vicina, che erano i meno aspri, ma che tuttavia presentavano delle pendenze che talvolta parevano inaccessibili, lambendo certi burroni che solamente a guardarci dentro venivano le vertigini. I loro sforzi sovrumani però trionfarono di tutti quegli ostacoli e, verso le otto della sera, rattrappiti dalle immense fatiche e dal freddo che lassù si faceva sentire assai vivo, giunsero finalmente sul versante opposto della montagna dove si fermarono, spaziando gli sguardi sul panorama che si stendeva dinanzi a loro, per un tratto di moltissime leghe. Proprio sotto di loro la montagna scendeva rapida, affatto liscia, coperta da enormi lastre di ghiaccio sovrapposte a strati altissimi, senza abissi, senza valli, senza alberi. Più oltre, una pianura scintillante si apriva a perdita d'occhio, smarrendo verso sud, senza alture, senza capanne, senza boschi, senza un essere animato. A destra ed a sinistra, sulle due vicine montagne, due grandi ghiacciai, due veri fiumi di ghiaccio in movimento, scendevano verso la pianura vomitando di quando in quando degli "icebergs" del peso di parecchie centinaia di tonnellate, che il sole imporporava splendidamente. Una fitta nebbia, che il vento sbatteva a destra ed a sinistra e che talora lacerava, s'alzava dal fondo di profondi abissi, dentro i quali s'udivano muggire degli impetuosi torrenti. - Dove siamo noi? - chiese Koninson. - Sul fianco di una montagna - disse il tenente. - Lo vedo bene, signor Hostrup, ma io vorrei sapere in qual luogo: se vicini o lontani dalle terre abitate. - Vicini no di certo. Bisognerà giungere al Porcupine prima d'incontrare qualche tribù d'indiani. - È molto lontano questo fiume? - So che scorre verso sud, attraverso a questa immensa pianura, ma a quale distanza precisamente non lo so. - A qualche migliaio di chilometri no di certo. - No, ma a più di duecento sì. - Allora lo raggiungeremo. - Ne sono certo. Dove sono andati i lupi? - Pare che si siano stancati di seguirci, signor Hostrup. Certamente hanno capito che la nostra carne non era troppo buona per i loro denti. - Meglio così. Dormiremo più tranquilli. - Contate di rizzare la tenda qui? - E perchè no? Scendere è impossibile per le nostre gambe che non stanno più ritte e il luogo non mi sembra cattivo. - Sarà solido il ghiaccio? - Lo credo poichè non scorgo nessuna spaccatura, nè odo alcuno scricchiolìo. - Allora accampiamoci. Staremo un pò troppo freschi, ma ci siamo ormai abituati. Assicurarono la slitta perchè qualche colpo di vento non la facesse scivolare su quella ripida china, rizzarono la tenda appoggiandola ad un grossissimo masso di ghiaccio, una specie di "hummok" che pareva fosse rotolato dalla cima della montagna, ma che sembrava irremovibile, e si cacciarono sotto. La notte non doveva essere tranquilla sui fianchi di quella montagna, e con quei due ghiacciai vicini che non stavano un solo istante zitti. Parecchie volte, agitati da strani presentimenti e spaventati dalle detonazioni dei ghiacci che diventavano più intense, i balenieri uscirono per vedere se correvano qualche pericolo. Verso la mezzanotte però, affranti dalle fatiche e da quella quasi continua veglia, s'addormentarono profondamente. Non erano trascorse tre ore, quando il tenente fu improvvisamente destato da un formidabile boato che fece tremare il ghiaccio su cui posava la tenda. Aprì gli occhi e attraverso il tessuto scorse un vivo bagliore che pareva cagionato da un grande incendio. - Guarda! - esclamò. - Si direbbe che la montagna brucia. Alzò un lembo della tenda e strisciò all'aperto. Una superba aurora boreale, forse l'ultima della stagione invernale splendeva sull'orizzonte settentrionale lanciando attraverso la volta celeste immensi fasci di luce rossastra, i quali tingevano del colore del fuoco tutte le montagne, i ghiacciai e la gran pianura. Ma questo non era tutto. Si sarebbe detto che quella luce avesse avuto anche il calore del fuoco, poichè tutti i ghiacci delle montagne si fendevano in mille guise come se sotto di loro la terra si sconvolgesse e precipitavano a migliaia nella sottoposta pianura in un disordine spaventevole, sibilando, fischiando, tuonando e tutto abbattendo sul loro cammino. Il tenente balzò in piedi, ma si sentì subito atterrare. Anche i fianchi della montagna su cui si trovava erano in movimento, e quelle grandi lastre di ghiaccio, che poche ore prima parevano inchiavardate e sicurissime, si fendevano in tutti i versi e scivolavano giù per le chine. - Siamo perduti! - esclamò involontariamente. - Koninson! Koninson! All'erta! Il fiociniere si slanciò fuori della tenda, ancora mezzo addormentato. - Cosa succede? - chiese. La sua voce si perdette fra le detonazioni dei ghiacci. Si precipitò verso il tenente che, impotente e ormai rassegnato, aveva incrociato le braccia sul petto aspettando la morte che pareva ormai certa. - Fuggiamo, signore! - esclamò. - Dove? - Alla grotta. - È impossibile, la via è interrotta. - Allora siamo perduti. - Chissà! Speriamo in Dio. - Signor tenente ... Il fiociniere non proseguì. Una scossa violenta l'aveva atterrato assieme al tenente e alla tenda. Quasi subito udirono una detonazione paragonabile solo allo scoppio d'una mina di cinquecento chilogrammi di polvere e si sentirono trascinare verso il basso, dapprima lentamente e poi con una rapidità vertiginosa. Un lastrone di ghiaccio di dimensioni enormi e del peso di parecchie migliaia di tonnellate, su cui si trovavano i due balenieri, si era staccato e scendeva la montagna più rapido di un treno diretto, seco trascinando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, fiancheggiato e seguito da un vero esercito di massi di ghiaccio che rimbalzavano in tutte le direzioni. I due balenieri, mezzo soffocati dalla rapidità della discesa, storditi dalle migliaia di ghiacciuoli che li percuotevano incessantemente, assordati dai fragori che produceva il lastrone nella sua corsa e che talora erano fischi stridenti e tal'altra ruggiti che sembravano emessi da fiere in furore, tentavano di mantenersi presso la slitta, ma brusche scosse, di quando in quando, li separavano violentemente lanciandoli a destra o a sinistra, innanzi e indietro a rischio di cadere in mezzo a tutto quel rovinio di massi che non avrebbe mancato di schiacciarli. Dopo un minuto, che ai due disgraziati parve lungo quanto un secolo, il ghiaccione toccò il piano. Si raddrizzò con un colpo tremendo che lo fece crepitare e fendere in più luoghi, indi continuò la corsa attraverso la pianura con un rullìo paragonabile a quello di una nave in un giorno di tempesta. Ad un tratto avvenne un potente urto. Il lastrone aveva cozzato contro una rupe che s'alzava di pochi metri sulla superficie del suolo, ma che presentava una resistenza incalcolabile. Il ghiaccione si rialzò come un cavallo che si inalbera sotto una violenta speronata, e ricadde spaccandosi in venti e più parti. I due balenieri, scaraventati innanzi da quei due urti, caddero in mezzo alla neve ove rimasero immobili come se fossero stati uccisi sul colpo.

. - È uno spettacolo che non si è mai stanchi di vedere, e che non si è mai osservato abbastanza bene. - È vero, fiociniere! - rispose il tenente. - Pare di assistere sempre ad un fenomeno nuovo. - Sapreste dirmi, signor Hostrup, da cosa deriva? - Hum, è un po' difficile saperlo, mio caro fiociniere, poichè gli scienziati non sono ancora d'accordo, su ciò. Pare che sia causato da un accumulamento di elettricità e per mio conto credo che sia l'ipotesi migliore e più giusta, considerati i pochi uragani e l'estrema siccità dell'aria che s'oppone alla sua dispersione. - È vero, signor Hostrup, che l'aurora altera le bussole? - Verissimo, Koninson, e non solo quando esse sono in vista della luce, ma anche quando si trovano lontane dal cerchio luminoso, il che fa supporre che le aurore boreali siano in relazione col magnetismo. - E sono sempre uguali queste aurore? - Se ne sono osservate di quelle strane. Mairan ne vide una nel 1726 trovandosi a Breville-Ponte, che era formata da un gigantesco segmento nero traforato regolarmente da punti luminosi. - Questi fenomeni sono però molto frequenti. - Secondo gli anni. Lotten, che fece parte della spedizione d'Islanda per studiare i fenomeni della regione polare, nell'osservatorio da lui stabilito a Bossekop ove rimase otto mesi negli anni 1838-39, ne vide ben 143 in 206 giorni e le più frequenti fra il 17 novembre e il 25 gennaio. - Speriamo di vederne molte anche noi. - Ne vedremo, Koninson. Intanto l'aurora continuava le sue oscillazioni e i suoi bruschi salti, ora scemando di proporzioni ed ora ingigantendo. Tre ore durò, poi nuovi raggi apparvero, fra cui uno biancastro altissimo, indi ricominciò ad ondeggiare, a indebolirsi e finì con lo sfasciarsi e scomparire. Le tenebre, ripreso il loro impero, tornarono a distendersi sui campi di ghiaccio e sull'orizzonte, poco prima infuocato, non rimasero a brillare che gli astri.

Si coprirono alla meglio, si armarono di un grosso ramo di pino per aiutarsi nell'ascensione che stavano per intraprendere attraverso le dirupate colline, e si misero in cammino con passo abbastanza rapido, tastando però prima il terreno onde non cadere in qualche crepaccio che poteva celarsi sotto lo strato di neve. Per un po' di tempo seguirono la costa passando in mezzo a picchi aguzzi, poi deviarono verso sud non essendovi più passaggi e cominciarono a scalare un'altissima collina coperta di neve e sulla quale ruggiva furiosamente il vento, torcendo un gruppetto di intristiti abeti. - Dannata bufera! - esclamò Koninson, piegandosi verso terra per meglio resistere agli urti del vento. - Quando cesserà? - Ne avremo fino a domani di certo. - rispose il tenente, che segnava la via. - Se il "Danebrog" si trova ancora in mare, sarà a quest'ora ben lontano da noi. - Se non lo troveremo oggi, sarà domani. - Ma dove dormiremo stasera? - In qualche altra caverna. - E metteremo sotto i denti? - Ho un bel pezzo di foca in tasca. Animo, Koninson, che la marcia comincia a diventare faticosa. Bada di non perdere l'equilibrio se non vuoi fracassarti le ossa. La marcia infatti diventava allora difficilissima e anche pericolosa. Non c'erano sentieri in nessun luogo e dalle nevi sorgevano punte rocciose così aguzze da lacerare le scarpe. Oltre a ciò il vento non cessava dal soffiare; anzi, la sua violenza, man mano che i due marinai si innalzavano, diventava sempre maggiore, trascinando con sè nembi di neve e ghiacciuoli e strappando, dalla cima del colle, delle pietre di non piccola mole, le quali scendevano rimbalzando violentemente di roccia in roccia. Verso la cima si udivano poi certi fischi e certi muggiti da mettere i brividi. I due poveri cacciatori di balene, acciecati dalla neve, gelati da quel ventaccio, percossi dai sassi, ora spinti da una parte e ora dall'altra, non procedevano che con molto stento. Ad ogni istante erano costretti a curvarsi ed aggrapparsi alle roccie per non essere portati via. Verso il tocco, sfiniti, insanguinati, coperti di neve, colle vesti lacere, le scarpe sfondate, giungevano sulla cima della collina che si stendeva in forma di altipiano. Colà il vento, non più imprigionato fra le rupi, urlava in modo orribile sconvolgendo lo strato di neve e torcendo come pagliuzze i pochi abeti che lassù vegetavano. - Vedete nulla? - chiese Koninson, addossandosi ad una rupe. Il tenente si arrampicò sulla cima della rupe e guardò innanzi a sè. Alla sua sinistra, ad un miglio di distanza, scorse il mare coperto di ghiacci; alla sua destra si elevava un'alta montagna dirupatissima e coperta di neve; dinanzi si estendeva una pianura ondulata, interrotta qua e là da piccoli corsi d'acqua gelata. Ad un tratto fece un gesto di stupore. Seguendo collo sguardo la costa, aveva veduto sorgere nel mezzo di una profonda spaccatura che doveva senza dubbio essere qualche piccolo seno o qualche stretto "fiord", gli alberi di una nave. - Vedete nulla, signor Hostrup? - chiese Koninson per la seconda volta. - Sì, fiociniere, vedo gli alberi di una nave - rispose il tenente. - Ventre di foca! Una nave avete detto? Il "Danebrog" forse! - Sì, è il "Danebrog", ne sono certo, Koninson. - Iddio sia ringraziato! È molto lontano? - Un miglio e mezzo forse. - Partiamo, partiamo, signor Hostrup! Non sono più stanco. Ah! Bravo capitano! Urrah! Urrah! - Calmati, Koninson. - Andiamocene di qui, signor Hostrup. Io ho le vampe sotto i piedi. Il tenente, che malgrado tutta la sua calma era pure impaziente di ritornare a bordo del valoroso "Danebrog", scese dalla rupe e si mise in cammino preceduto da Koninson. Nonostante la furia della burrasca, attraversarono rapidamente l'altipiano e scesero sul versante opposto lambendo un profondo abisso da cui uscivano dei lamentevoli ululati, forse emessi da qualche branco di lupi affamati. Dopo aver arrischiato più di venti volte di fracassarsi in fondo di quell'abisso e di rompersi le gambe giù per il dirupato pendio, giunsero nella pianura. L'attraversarono quasi a passo di corsa e si arrestarono sulle alte sponde di un lungo e stretto "fiord", in fondo al quale stava solidamente ancorato il "Danebrog" fra un gran numero di ghiacciuoli staccatisi da un grande e grosso banco di ghiaccio che si era incastrato dinanzi l'uscita di quel braccio di mare. - Ohe! Del "Danebrog"! - urlò Koninson con voce tonante. Un marinaio, poi due, poi cinque, poi tutti apparvero sulla tolda della nave. Un gran grido echeggiò - Il tenente Hostrup! Viva il tenente! Viva Koninson! Una baleniera fu subito calata in acqua, sette uomini, compreso il capitano Weimar, vi presero posto, e si diresse a tutta forza di remi verso la riva. Pochi minuti dopo il tenente e Koninson si trovavano l'uno fra le braccia del capitano e l'altro fra quelle di due camerati che ormai li avevano creduti per sempre perduti!

Il 26 l'equipaggio del "Danebrog" notò che i ghiacci diventavano più numerosi e che il termometro scendeva abbastanza rapidamente, quantunque il sole brillasse sempre sull'orizzonte. La nave però continuò a spingersi verso nord. Ormai nessuno, eccettuato il tenente Hostrup che prevedeva il pericolo cui andavano incontro, voleva rinunciare alla caccia delle balene che doveva assicurare ai Danesi la vittoria. Il 27, verso sera, a quattrocento miglia dalla costa americana, fu veduta verso nord una luce bianca, abbagliante. Era il "blink" che segnava la presenza di uno o forse di più banchi di ghiaccio. Ma le macchie oleose si dirigevano pure verso nord e quantunque anche nell'animo del capitano si fosse fatta strada una certa inquietudine, il "Danebrog" non cambiò rotta. All'indomani, verso le 9 antimeridiane, il gran banco fu raggiunto. Presentava una fronte di dodici o tredici miglia, irta qua e là di punte aguzze, di bizzarre colonne, di strane cupole. Nel mezzo di esse si apriva un canale largo un trecento o più metri che si smarriva verso nord. - È un banco solo o sono due divisi dal canale? - si domandò il capitano. - Sono due senza dubbio - disse Koninson che l'aveva udito. - E le macchie oleose continuano nel canale. - E cosa vuoi concludere, fiociniere? - Che le balene si sono cacciate là dentro sperando di uscire dall'altro lato. - Hai ragione, Koninson. Ehi, Widdeak, governa dritto al canale! Il "Danebrog", che avanzava con una velocità di otto nodi all'ora a vento in poppa, dopo aver descritto una curva attorno ad un "iceberg" immenso, alla cui estremità si innalzava una specie di torre di dimensioni pure colossali, entrò nel canale frangendo col suo solido sperone una moltitudine di ghiacciuoli che altro non aspettavano se non un pò più di freddo per unire i due grandi banchi. Le macchie oleose vi erano ancora e in grande numero e spiccavano vivamente su quelle acque che la candidezza dei ghiacci e il "blink" rendevano oscure assai. Numerosi uccelli marini, strolaghe, urie, gazze marine e oche, occupavano le due sponde intenti a pescare ed a spennacchiarsi. Il "Danebrog" guidato dall'esperta mano del vecchio Widdeak si avanzò nel canale evitando i non piccoli "streams" e "hummoks" che, di quando in quando, sotto i tepidi raggi del sole, si staccavano dai campi di ghiaccio. I marinai, certi ormai di tenere le balene, si erano arrampicati sulle griselle, sulle coffe, sui pennoni e sulle crocette, ansiosi tutti di scoprirle. Ma la giornata intera passò senza che apparissero. Verso le 8 di sera, il fiociniere Harwey dalla crocetta del trinchetto, gridò: - Capitano! Il canale è chiuso! Weimar salì sull'alberatura seguito dal tenente e da Koninson. Appena volse gli sguardi verso nord, un'imprecazione uscì dalle sue labbra. Quattro miglia più innanzi il canale era chiuso da un terzo campo di ghiaccio più grande, a quanto pareva, degli altri due. Delle balene nessuna traccia, eccettuate le macchie oleose che pareva si spingessero fino all'estremità di quel braccio di mare. - Bisogna tornare indietro - disse il tenente. - Ma le balene dove sono fuggite? - chiese il capitano con i denti stretti. - Probabilmente sono uscite prima dell'arrivo del banco. - Se pure non sono uscite nuotando sotto i banchi - aggiunse Koninson. - Che fare ora? - chiese il capitano. - Capitano, - disse il tenente - badate a me, lasciate andare le balene e ritorniamo subito. - E la scommessa? - Ci prenderemo la rivincita l'anno venturo. Il capitano, sceso in coperta diede l'ordine di tornare indietro. Il "Danebrog" virò prontamente di bordo e si diresse verso sud correndo bordate, essendo il vento proprio diritto in prua. Ma quando, dopo una lunga notte, giunse all'imboccatura del canale, questa era già stata chiusa. L'"iceberg", visto al mattino, spinto dal vento del sud si era incastrato solidamente fra i due banchi presentando alla nave baleniera la sua imponente torre!

Essi giunsero come un uragano fino a pochi passi dal tenente e dal fiociniere, poi si fermarono di colpo in un atteggiamento che nulla aveva di ostile, e uno di loro, il capo senza dubbio, facendo un passo innanzi, disse con voce abbastanza graziosa e in lingua russa: - Siate i benvenuti. I Tanana sono vostri amici!

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