Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 14 occorrenze

In quanto a opporre avvocato contro avvocato, ne aveva già assaggiato abbastanza. "Buffoni! e quel buon uomo di Baltresca crede che io possa credere a queste famose pancie democratiche, come i gonzi credono alle meravigliose virtù di Dulcamara! e io darò a mangiare il mio o mi lascerò dar del cavaliere da codesti nuovi frati della santa retorica, che spennano chi ci crede in nome dei grandi principii! Preferisco i preti, che almeno son più furbi! E come ha saputo toccare il tasto del liberalismo!... ' Già, dovremo spendere un po' di denari, ma abbiam del margine. Se non basterà la prima istanza, andremo in appello, se non basterò io, chiameremo in aiuto un'altra pancia: abbiamo degli appoggi... Siamo noi che facciamo la pioggia e il bel tempo; alla garibaldina, pam, pam '. Buffoni! non darò a rosicchiare a questi liberaloni il mio formaggio... Fossi bestia! Vedo, come in uno specchio, che se mi lasciassi pigliare, non me la caverei più in trent'anni. Di tribunale in tribunale, di rinvio in rinvio, dopo avermi fatto spendere un capitale in carta bollata e in ricorsi, avrei la grazia di salvarmi un paio di scarpe. Faccian pure la causa, se hanno gusto, gli altri; io non mi muovo. Io non ho nulla a dimostrare ai giudici. Son essi che devono dimostrare che il mio testamento non è un testamento. Intanto il Berretta è a posto." Il treno lo portava nella crescente oscurità della sera verso la pianura e verso quel gran cittadone, che gli diventava ogni giorno più antipatico. Nella penombra, gli passavano davanti i casolari oscuri e raggruppati dei villaggi e dei cascinali, da cui usciva il fumo lento delle povere cene. Trasparivano i piccoli lumi delle stalle e i fuochi vivi dagli usci aperti. Qualche suono d'avemaria mescolavasi al rombo del treno, e nei pochi minuti di sosta alle stazioni vedeva dappertutto della gente felice, seduta in terra a fumar la pipa, o dei gruppi di ragazze che tornavano a casa dalla filanda, cantando come se avessero mangiato la felicità colla polenta. Quattro spanne di terra, quattro fagiuoli, una scodella di latte e questa gente è padrona del mondo. Più furba questa gente in fondo (se lo sapesse) di chi logora anima e scarpe dietro il quattrino o dietro la gloria, o a cavallo di un puntiglio, o in una continua e rabbiosa diffidenza, per non raccogliere in fine che odio e maledizioni. Qualche cosa come una maledizione sentiva che gli pesava addosso da qualche giorno, per quanto egli si sforzasse di non pensarci e di dissiparsi in cento faccende. Egli aveva bisogno di essere perdonato... Era partito bruscamente senza rivederla, dopo averla maltrattata, insultata. Aveva ruvidamente respinta la sua preghiera, per non ascoltare che le voci del suo risentimento e della sua vendetta. Per quanto la passione o quel misto di puntiglio, di rabbia e di paura, ch'egli chiamava un diritto di legittima difesa parlasse ancor forte in lui, tuttavia sentiva, non senza sgomento, l'animo avviluppato da un sentimento che un altro uomo avrebbe riconosciuto ed accettato come un rimorso, ma che nella sua quasi ignoranza del bene e del male ostinavasi a tener indietro come un primo sintomo di debolezza e di senilità. Che bisogno aveva egli d'esser perdonato da una monachina? quali soddisfazioni le doveva? tra loro due chi più in debito di gratitudine? Bastava che egli la mettesse al sicuro d'ogni altro oltraggio, questo sì: e a tal fine non aveva risparmiato passi e denari. Ma in quanto al resto non è stabilito che le donne non c'entrano negli affari degli uomini? Esse hanno la loro casa, la loro musica, le loro calze, i loro figliuoli; gli uomini hanno la banca, l'industria, il commercio, la politica, la guerra, le botte... Anche le botte, sì: la vita è una battaglia e vince chi pesta di più. Son come due amministrazioni con due libri mastri diversi che non hanno nulla a che fare l'un coll'altro; e di questo avrebbe dovuto capacitarsi quella benedetta ragazza. E mentre un pensiero sofistico andava persuadendolo di queste verità così vecchie, un sentimento non meno ragionevole e forte gli faceva capire che bisognava far la pace subito, ad ogni patto, con Arabella. Non poteva star in collera, e non poteva vivere nel dubbio di non essere amato e stimato da lei come prima. Poesia o no, questa benedetta figliuola, dal dì ch'era entrata in casa, e forse anche prima, aveva ringiovanita una vita sterile, senz'affetto, aveva rinnovate e rinfrescate delle sensazioni che parevano morte e sepolte; gli aveva fatto del bene... Per quanto procurasse e si sforzasse di richiamare le furie più scapigliate della sua natura e di affilare spade e coltelli in una guerra di diritto, non poteva sottrarsi a quel dolore vivo che prendeva nel venire innanzi la mesta figura di lei. E questa pallida e dolente figura, come lo spettro d'un morto offeso, non si rassegnava a partire. Al contrario, se la sentiva presente anche nei momenti in cui l'ira strillava di più e la mente sbandavasi di più, come una coscienza nuova fuori di lei, che esaminasse, giudicasse... aspettasse qualche cosa. Non avrebbe osato dirlo, ma cominciava ad accorgersi, istintivamente, che se Arabella non fosse mai venuta in casa, la sua strada sarebbe stata molto più facile e diritta, sempre quella che aveva battuta dal quarantotto in giù, la strada dei mezzi semplici e dei pronti risultati. Aveva voluto deviare, indugiare, fare della poesia, assaggiare prima di morire il sapore del bene e questo dolce ora facevagli male allo stomaco. Non si è mai abbastanza al riparo dalle tentazioni, e quelle che vengono dal bene non sono le meno pericolose. Che diavolo! colui che nelle cose del mondo aveva un piglio così lesto e sommario, che fin dall'adolescenza s'era abituato a stimar buono ciò che serve a qualche cosa, e ciarle inutili tutto il resto; colui che a preti, a frati, ad avvocati, a parenti, a deputati rideva tanto di gusto in viso, non era strano, inesplicabile che dovesse sgomentarsi all'idea d'una monaca a cui non doveva nulla, ma che s'era tirata in casa quasi per compassione? poesia, romanticismo! Ma non poteva cacciarla via. Una soddisfazione, una parolina di scusa doveva dirgliela. L'aveva offesa, dunque chi fa il male faccia la penitenza. Fra una mezz'ora sarebbe stato a Milano, l'avrebbe vista, le avrebbe parlato: forse avrebbe concesso oggi quel che non aveva osato promettere prima. Sì, sì, povero angiolo, bisognava che la vedesse prima di andare a dormire. E battendo le palpebre, cercò di reprimere una improvvisa commozione di pietà, che riempì e sconvolse tutta la vita. Qualche cosa di forte e di misterioso si mosse al disotto di un oscuro risentimento, che lo afferrava da tutte le parti come un amico tre volte più grande, che lo disarmava. Sporgendo il capo dallo sportello nell'aria fredda, cercò un refrigerio, si sforzò di riprendere un coraggio che fuggiva, e ritrovò finalmente gli spiriti nell'energia di una parola che tornò a inframettersi alle sue malinconie, e ch'egli pronunciò colla faccia rivolta verso i monti: "Buffoni!" In mezzo a questi contrasti arrivò a Monza ch'era già buio, e buio prima dell'ora per quel diavolo di temporale. Il treno aveva viaggiato verso il cattivo tempo, e ora si trovava nel fitto della bufera. Non pioveva ancora, ma il temporale secco scatenavasi in un turbine di vento polveroso, in lampi spessi e taglienti come lame, e in tuoni continui, ringhiosi, brontoloni. La stazione e i vagoni non erano ancora rischiarati, perché l'amministrazione non tien conto dei temporali. Ci si vedeva sì e no, più coll'aiuto dei lampi che, sto per dire, con quello degli occhi. Mentre il nostro viaggiatore stava appoggiato allo sportello, intento a strologare la tettoia di vetro che mandava bagliori e fosforescenze a ogni guizzo, un reverendo sacerdote, per quanto si poteva vedere, entrò dall'altra parte del vagone e si rincantucciò in un angolo. "Che demonio di temporale!" esclamò il reverendo, che ansava ancora per la corsa fatta, mostrando la voglia d'avere un compagno in quel breve viaggio al buio. "Eppure io credo che va a finire in nulla... Oggi è stata una giornata calda: son lampi di caldo..." Prima che il treno si rimettesse in moto, anche un giovane e svelto ufficiale di cavalleria saltò sul vagone e sedette in mezzo ai due viaggiatori, che occupavano i due angoli obliquamente opposti. L'ufficiale chiese il permesso di fumare. "Faccia pure" dissero insieme le due voci. L'ufficiale accese un zolfanello di cera e lo tenne vivo il tempo d'accendere un sigaro, rischiarando il vagone, mentre il convoglio, alquanto in ritardo, ripigliava la sua corsa. Ciò permise al signor Tognino di riconoscere nel reverendo, seduto nell'angolo, la cara e simpatica persona di don Giosuè Pianelli e a costui nel suo compagno di viaggio quel bel gioiello di sor Tognino. Per fortuna di tutti e due il buio del vagone li coprì e li nascose di nuovo l'uno all'altro e la presenza del regio esercito impedì che si guastasse strada facendo, una conversazione che pareva così bene avviata. Ma i due vecchi bisbetici, dopo essersi fiutati come due cani in collera, continuarono a ringhiare e a guardarsi nell'oscurità. Tutte le volte che l'ufficiale accendeva il sigaro (e un fumatore italiano può immaginarsi quante) quei quattro occhi, attratti da una forza che aveva nulla a che fare coll' "affinità affettiva" di cui parla il Goethe, s'incontravano nella linea diagonale sul fuoco del fumatore, che mandando globi di fumo in alto ritornava forse lieto da un lieto incontro. L'odio e l'amore son fatti per non conoscersi, ma spesso viaggiano insieme. Quei due sguardi si guardavano fissi incrociandosi come due fioretti, i lineamenti delle faccie s'indurivano, le mani diventavano pugni, poi tutto ritornava nero come i loro pensieri. Nel buio continuavano i due cuori ad azzuffarsi. Il prete odiava nell'affarista il traditore, il ladro empio e bugiardo, il sacrilego miscredente che coll'aiuto del diavolo aveva rubato alla chiesa e ai poveri un'eredità di quattrocentomila lire. L'affarista esecrava nel prete l'intrigante, il gesuita, l'impostore, la causa prima degli scandali, l'eccitatore interessato d'una masnada di straccioni. Se le idee che passano negli animi degli uomini avessero la virtù d'accendersi secondo la forza elettrica che contengono, i due vecchi bisbetici avrebbero mandato fuori lampi più sinistri di quelli che andavano guizzando e irritandosi laggiù sopra Milano, dove il treno li portava a precipizio, rumoreggiando, fischiando sotto i primi goccioloni del temporale. Ci volle tutta la carità, di cui è pieno il libro del breviario che gli faceva gonfia la veste sul petto, perché don Giosuè si trattenesse dal gridare sul muso del vecchio affarista: "Ladro maledetto, ti porterà via Belzebù!" "Ci vuol altro," pensava infuriando con se stesso il canonico "ci vuol altro che predicare pace, conciliazione, misericordia, come seguita a ripetere quell'anima di polentina di don Felice. In questi tempi di affarismo, di ebraismo, di massonismo trionfante, bastoni di ferro bisogna! l'acqua santa non spegne più nemmeno la polvere delle strade. A furia di piagnistei e di fiducia nella provvidenza ha visto il Papa quel che gli è toccato. Bastoni di ferro! trentamila cani còrsi ci vorrebbero... a... a... Animali!" Dall'altro cantuccio scoppiavano idee non meno velenose contro gl'intriganti, che speculano sui rintocchi delle agonie, sulle goccie di cera, pipistrelli dell'oscurantismo, mummie tenute su dall'ignoranza dei gonzi... L'ufficialetto sognava, col sigaro morto in bocca. Il treno entrò in stazione. Il giovinotto fu il primo a scappar via. Gli tenne dietro il signor Tognino che, colla mano attaccata allo sportello, s'indugiò un istante come se aspettasse il prete: e quando questi gli fu presso, l'affarista sputò sul predellino. "C'è del marcio..." ringhiò don Giosuè. La folla li travolse e li separò, mentre l'acquazzone rovesciavasi, crescendo, sulla volta di vetro. Il sor Tognino prese una vettura e prima di andare a casa volle vedere il notaio, col quale rimase fin verso le nove. Giunto a casa un po' più tardi, trovò sulla porta l'Augusta in compagnia della portinaia e di qualche altra vicina, che a vederlo, gli vennero incontro, esclamando in coro: "E la signora?" "Che signora?" "La siora Arabella..." ripeté l'Augusta con un tono smarrito. "Che cosa la siora ?" tornò a chiedere il padrone con impazienza. "Non l'ha trovata? non è con lei? È uscita in principio di sera e non s'è più vista." "Uscita?" dimandò, precedendo le donne fino in portineria. "Con chi uscita?" "È uscita sola." "A fare? che cosa ha detto?" "Non ha detto nulla. È uscita di punto in bianco e non si è più vista. E c'è questo tempo in aria, povareta !" "Non capisco nulla... venite di sopra..." brontolò il padrone, continuando la sua strada verso le scale.

Anche nel matrimonio si possono commettere dei sacrilegi, si può perder l'anima, quando manca la perfetta comunione degli spiriti; e ancora non sentiva di voler bene abbastanza allo sconosciuto, a cui doveva cedere tutta se stessa. Alle Cascine essa non aveva compagne della sua età e della sua condizione, alle quali potesse chiedere un consiglio, e delle sue amiche di collegio poche erano in grado di fornirle degli schiarimenti. Solamente Maria Arundelli era andata a stabilirsi a Milano, moglie a un professore di ginnasio, ma durante le vacanze non stava mai in città. La mamma, povera donna, mezza disfatta per la morte del suo Bertino, non vedeva e non ripeteva che una sola idea, anzi quasi non la ripeteva più, come se non ce ne fosse più bisogno. Badava invece a persuadere Arabella a smettere i vestiti del collegio, che la facevano comparire goffa e senza corpo. L'unica persona a cui la ragazza soleva chiedere qualche soccorso spirituale e qualche morale consolazione era la povera Angelica, una giovane contadina di ventitré anni costretta a letto da una paralisi alle gambe e alla spina dorsale. Abitava un cascinale poco distante dalla Colorina, cara alla sua povera gente, quantunque così malata, o forse perché così malata, per quel sentimento di simpatia che stringe i forti ai deboli bisognosi, sentimento che la bontà, la rassegnazione dell'inferma e la continuità delle cure rendevano ogni giorno sempre più profondo e raffinato. I Malgascia erano persuasi che le orazioni e i patimenti rassegnati della loro Angelica facevano bene alla casa, come se il Signore avesse incaricato lei di soffrire per tutti. Se la gragnuola non batteva il loro campo, se il loro fieno era meno bruciato, se il fuoco non aveva mai toccata la loro paglia, se le bestie stavan bene, il merito era di quella povera anima del purgatorio che, bella come un angelo, non si lamentava mai, non si lamentava mai. Il male, il letto, il vivere sempre rinchiusa avevano non solo educata la coscienza, ma ingentiliti anche i lineamenti della ragazza, che dal suo guanciale sorrideva dolcemente con un raggio di pia rassegnazione a chi entrava a salutarla e a portarle qualche regaluccio. Le sue mani delicate e scarne lavoravano tutto il giorno nella biancheria della casa e in qualche cuffietta o babbuccia di bambini; e spesso, quando il sole batteva vivo sulle impannate di carta, come se si movesse in lei più forte il senso della vita, lasciavasi condurre a intonare le litanie con una voce che la sentivano dal mezzo della campagna. La domenica accorrevano le ragazze dei dintorni a trovarla. Sedute intorno al letto messo pulito, in bianco, come quello di una sposa, ciascuna contava la sua, o invocava un'orazione speciale per i suoi malati. Tutte poi se ne andavano coll'animo edificato, come quando si vede un castigo immeritato santificare un'anima. Anche Arabella veniva spesso a tener compagnia all'inferma. Povera, illetterata, chiusa nel breve circolo delle sue sensazioni casalinghe, Angelica s'incontrava coll'anima viva e penetrante di Arabella in un terreno fuori del mondo, dove le anime parlano tutte lo stesso linguaggio, dove la scienza non è che una illusione perduta, per chi ha perduto il suo tempo ad acquistarla, dove i dolori e i patimenti di quaggiù hanno una ragione, anzi la sola ragion d'essere. Arabella, prima di dire l'ultima parola, volle consultare come un oracolo l'inferma, che molte volte le aveva parlato con una chiaroveggenza meravigliosa. Dio si manifesta nelle anime che soffrono, più che nella luce del sole. Per il viale dei salici giunse al cascinale un dopo pranzo, mentre la gente era sparsa sui lavori della campagna. Entrò, come soleva, salì la scaluccia di legno, spinse l'uscio della camera. Angelica, rivedendola, batté le due mani e gridò: "Viva la sposa!..." Allargò le braccia, nelle quali Arabella si gettò coll'abbandono di una bambina smarrita che trova la mamma. E cominciò a piangere. "Perché, perché?" chiese Angelica, carezzandola. "Lasciami piangere. A casa non posso mai… Ho bisogno di sollevarmi il cuore. Tu mi compatisci, non è vero? Ecco, mi sento già meglio" soggiunse, asciugandosi gli occhi e accostando la sedia al letto. "Sento dire che questo matrimonio è una fortuna per tutti." "Sì, è una fortuna: ma anche le fortune fan paura e io ero così lontana da quest'idea, tu lo sai. Io avevo promesso alla Madonna che le avrei regalato questi capelli per la pace del mio povero papà. Non si rinuncia senza dolore alla vocazione di tutta la sua giovinezza, e tu devi aiutarmi, Angelica, a vincere questa ripugnanza, perché sento che ho torto e che devo restituire a' miei parenti il bene che mi hanno fatto. Anche il signor curato mi ha rimproverata e me ne ha fatto uno scrupolo. Guai se io dicessi di no! Sarebbe come se io volessi rovinare la casa sulla testa della mia gente. Ma qui, qui..." e colla mano segnava il cuore "qui c'è qualche cosa di morto, di troppo freddo, di troppo duro, che non risponde alla chiamata, che rabbrividisce all'idea delle responsabilità che mi aspettano a Milano. Bisogna che tu preghi per me, Angelica, e interponga presso il Signore i meriti della tua pazienza, perché io possa amare l'uomo che devo sposare e che domani sarà padrone di me. Ah Dio! Dio...!" Arabella, respirando profondamente, si coprì il volto colle mani presa da un brivido quasi di terrore che le traversò tutto il corpo; e cadde in ginocchio nella stretta del letto, appoggiando la testa sulle mani della contadina. Dalle impannate socchiuse entrava, insieme al riverbero verde e al tremolio delle foglie del vicino pioppo, il soffio caldo dell'aria che scorreva sui prati. Nell'aia deserta chiocciavano le gallinette. La gran pace dei caldi meriggi di settembre cadeva sul casolare isolato nel verde e penetrava nella rustica stanza dell'inferma non addobbata che da piccoli quadri, da corone e da immaginette attaccate all'uscio. Angelica, che per un'intuizione delicata del suo organismo sentiva più in là di quel che dicessero le parole, commossa da un senso di mistica pietà capì e compatì la ripugnanza della vergine, apprezzò il suo sacrificio, e parlando come soleva nei momenti d'ispirazione, col tono elevato e profetico di chi espone più una dottrina che dei pensieri propri, prese a dire senza levar la mano dalla testa della sua compagna: "Comprendo che tu abbia a rimpiangere la tua vocazione, povero giglio del giardino della Madonna. Che cosa di più bello della santa castità? essa ci accosta agli angeli. Che cosa di più caro della nostra verginità, che ci fa tutte figlie di Maria? Essere così vicine al sacro tabernacolo e sentirsi strappare via è un gran dolore. E tu avevi consacrata a un'anima bisognosa questa tua vita di pensieri puri e immacolati, ma Dio non vuole, cioè Dio vuole da te qualche cosa di più grande, di più bello. Non tocca a noi scegliere la nostra strada nel mondo. Oh, se così fosse, chi vorrebbe essere ammalato, chi vorrebbe veder morire i suoi figliuoli, chi stentare tutta la vita per morire povero e solo in un ospedale? Se la strada del tuo dovere è diversa da quella che tu avevi scelta, cara figlia della Madonna, non devi dire che Dio s'inganna o che vuol troppo da te. Non è mai troppo il bene che si fa. Difficilmente il nostro dovere va d'accordo col piacer nostro. La croce è dappertutto e per tutti; e dappertutto tu sarai obbligata ad avere della pazienza. Tutti ne dobbiamo avere: tu che stai per entrare nel mondo, io che da quindici anni non esco da questo letto, tuo padre e tua madre che lavorano pei loro figliuoli, colui che semina, colui che raccoglie, chi ha il campo bello, chi lo vede battuto dalla tempesta. Dalla pazienza viene il coraggio e dal coraggio viene l'amore che fa piacere i nostri dolori. Gesù sulla croce non sentiva i chiodi, perché il suo dolore era immerso nell'amore: e tu non sentirai le spine del tuo sacrificio, perché nell'amore per tuo marito, per tuo padre, per tua madre, per i tuoi figliuoli, troverai il pagamento di ciò che perdi. E l'anima tormentata a cui volevi consacrare la tua vita ne guadagnerà, perché ciò che solleva le anime è il sacrificio. Apri il cuore, cara figlia della Madonna," continuò l'inferma alzando le due mani come se celebrasse un rito "e pensa che ciò che tu soffri in questo momento è ben poco in paragone della disperazione e dell'abbattimento dei tuoi parenti, se tu rifiutassi l'offerta della Provvidenza." Un freddo fremito di venerazione scosse Arabella nell'intendere parole che parevano venire da un mondo remoto. L'occhio di Angelica era splendente e sereno, la sua voce calda, misteriosamente eccitata ed eloquente, come se veramente parlasse in lei uno spirito superiore. Forse era vero quel che dicevano i suoi, che in certi momenti essa aveva l'ispirazione divina. Arabella alzò la testa e lasciò che Angelica accomodasse un poco i suoi capelli scomposti dall'agitazione e per la prima volta vide la possibilità di considerare se stessa e le cose della sua vita sotto un lato meno ristretto e meno personale. Mentre prima essa sforzavasi a collocare se stessa in un piccolo dovere scelto da lei e accomodato ai suoi istinti, ora sentì quel che vi può essere di nobile e di santo nella rinuncia della volontà. La monachella lasciavasi trascinare dall'ordine delle cose a compiere il dovere scelto da Dio. Stringendo le mani di Angelica, contemplando la miseria e la nudità di quella povera stanza, dove l'infelice compieva pregando, sorridendo e cantando, il suo lento sacrificio, l'anima viva e impressionabile della giovinetta provò un principio di quell'entusiasmo, che faceva così felici gli altri all'idea del suo matrimonio. Rimase in compagnia dell'ammalata, in intimi e caldi discorsi, finché il sole non cominciò a nascondersi dietro i pioppi, e se ne venne via col cuore cambiato. Scese la scaluccia, e attraversata l'aia, infilò il viale, sentendosi un gran calore al viso, come se avesse attraversato una fiamma. Sul crocicchio delle due stradette s'incontrò in papà Paolino e gli si mise al fianco. Il buon uomo, dal dì che aveva posta sul tappeto la questione del matrimonio, non più osava guardar in viso la figliuola adottiva, per paura che il suo sguardo avesse a pesar troppo nell'anima della fanciulla. Da dieci o dodici giorni egli viveva col cuore sospeso in croce. Il suo destino dipendeva da una parola di lei. Camminarono un tratto in silenzio lungo il canale, rasentando la chiesuola di mattoni, che si crogiolava nel raggio rubicondo del tramonto, quando Arabella a un tratto si arrestò: "Papà," disse con un leggiero tremito di voce "potrò rivedere ancora una volta le mie buone suore di Cremenno?" "Quando?" egli disse con uno sforzo di voce. "Prima di andar laggiù, a Milano" soggiunse sorridendo e indicando la punta del Duomo, che usciva di tra le piante lontane. Papà Paolino, non potendo resistere alla commozione, cercò la mano della figliuola, se la portò alla bocca, la baciò, bagnandola delle sue grosse lagrime, crollando il capo, come se cercasse inutilmente di contraddire: e continuarono in silenzio la strada fino a casa.

La porta si apre di nuovo, e, preceduto da un moderato scricchiolìo di scarpe, ecco entrare l'avvocato in persona, inchinarsi tre volte all'assemblea, che si alzò per rispetto, venire a stringere la mano, strisciando le suole sul mosaico, a Sidonia, al capitano, all'Angiolina, che allungò la sua col mezzo guanto di refe, all'Aquilino che arrossì un poco dell'onore (non si è mai veterani abbastanza nella vita): salutò con un cenno amichevole tutti gli altri più lontani che riassunse con una morbida occhiata e andò a mettersi nella poltrona di damasco, svolse un rotolo, si piegò verso il giovine biondo per chiedere una spiegazione, chiamò col dito il Mornigani, che corse a prendere altre carte. Intanto la gente ebbe comodità di osservare che l'avvocato Gerolamo Baruffa, cavaliere di San Gregorio, era ancora un bell'uomo fresco, poco in là della cinquantina, colla fronte alta e spaziosa, che andava a finire in un cranio lucido come una biglia, costeggiato da capelli ancora neri. Due basette regolate e leggermente toccate da un pennello facevano comparire più candida la carnagione morbida e ben nutrita. Gli occhi grandi si nascondevano spesso sotto due folti sopraccigli e non uscivan dal loro nascondiglio, se non quando avevan bisogno di perlustrare, diremo così, i dintorni d'una posizione. L'Angiolina notò due cose: che aveva due manine da signora e che una volta il sant'uomo adocchiò con una certa compiacenza la bella cantante. Quando il Mornigani tornò colle carte, l'avvocato, data una scossa al campanello, si alzò, si passò la mano sul labbro e con tono sommesso, quasi di confidenza, in mezzo a un religioso silenzio, prese a dire: "Signori..." Aquilino socchiuse gli occhi e per sentir meglio aprì la bocca. "Non ho bisogno, o signori, di spiegare il motivo per il quale noi siamo oggi qui raccolti, né di manifestare il grado d'interesse ch'io porto a questa, non dirò causa vostra, o causa mia, ma a buon diritto causa nostra; imperocché nel beneficio dell'eredità Ratta io devo essere interessato non meno di voi, sia pei dritti miei acquisiti in molti anni di non interrotta fiducia, come pei dritti di pie istituzioni che ho più che l'onore - il dovere - di rappresentare." Questo esordio, detto con voce solida e chiara, che rispondeva a meraviglia a un pensiero chiaro e solido, fece una buona impressione sull'animo degli uditori, che con una leggera scossa si accomodarono meglio, tesero i colli, aprirono occhi e orecchi. L'avvocato, dopo aver contemplato un poco la punta delle unghie, seguitò: "Le linee fondamentali della causa son presto segnate. Noi siamo qui non già per impugnare la validità di un testamento, che la sagacia d'un uomo, che per ora mi limiterò a chiamare avveduto e scaltro, ha saputo preparare in tempo opportuno, munito di tutti i requisiti che la legge domanda in documenti di simil natura. Io ho riscontrato il testamento depositato in mano del notaio Baltresca e ho trovato che per la forma puossi considerare come un testamento di ferro, inespugnabile. È tutto di mano della defunta, debitamente firmato, con data che risale all'agosto dell'anno scorso, ed è in questo testamento di ferro, o signori, che d'una sostanza di quasi quattrocento mila lire vien nominato erede universale il signor Tognino Maccagno, primo cugino della defunta testatrice, coll'obbligo a lui di assegnare vari piccoli legati o donazioni ai parenti più bisognosi". "Il birbonaccio!" scappò detto all'Angiolina, che non poteva più star ferma sulla scranna. La parola non fece ridere nessuno, perché ognuno era sotto la greve impressione di quel testamento di ferro. L'avvocato chetò la donna con un gesto della manina e seguitò: "Noi, ripeto, non possiamo impugnare l'autenticità di quel documento chirografico e io sarei non una, ma due volte mentecatto, se volessi contrapporre a questo un altro testamento del '78, da me in parte ispirato e alle mie mani affidato dalla stessa defunta signora Carolina, due anni prima che si facessero sentire e operassero sopra di lei delle influenze, che mi limiterò a chiamare per ora poco leali e poco corrette. Di queste disposizioni del '78 farò dar lettura a voi tra poco, affinché possiate conoscere se le ispirazioni del vostro avvocato erano in quel tempo, come s'è voluto far credere da maligni interessati, subdole e rapaci". E sollevando a un tratto il tono della voce, con un severo aggrottamento dei sopraccigli, soggiunse: "Signori! ciò che noi vogliamo e speriamo massimamente di dimostrare coi mezzi che la legge mette a disposizione nostra si è che il testamento Baltresca, per così chiamarlo, non è l'ultimo dei testamenti segnati dalla defunta Carolina: ma che dopo di questo ve ne deve essere un altro del dicembre dell'anno testé spirato. Dimostreremo quindi che, o questo testamento esiste in mani che mi limiterò a chiamare per ora avare e strette, o che viceversa il testamento fu distrutto. Dell'esistenza di questo importante documento abbiamo, o signori, due qualità di prove, le une dirette, indirette le altre. Le dirette sono: - Primo: una copia di esso in carta semplice e non firmata, fatta da don Giosuè Pianelli, qui presente, confessore della defunta Carolina, uomo superiore a ogni sospetto. Di questa copia farò dare lettura a tempo opportuno, perché ciascuno di voi possa farsi un'idea dell'entità della causa, della sua importanza morale e materiale e della presunzione nostra. - Secondo: la testimonianza dello stesso reverendo canonico don Giosuè pronto a giurare che veramente la defunta ha scritta una carta. Se non che la diffidenza da cui era tormentata la debole vegliarda, la trattenne dal rilasciare a persona di fiducia nostra il prezioso documento. Ciò fu ragion sufficiente perché altre mani, che mi limiterò a chiamar agili, se ne impadronissero, quindi ogni traccia di questo nuovo atto, che doveva essere per la pia signora un atto di resipiscenza e di riparazione, sparì; una volontà più forte della sua, quella volontà che da molto tempo la dominava spaventandola, rese frustraneo ogni tentativo di ribellione: la coercizione spense il libero arbitrio: la violenza, il diritto..." L'avvocato Baruffa batté colle nocche sul tavolo, come se schiacciasse gli ossi a questo povero diritto così spesso conculcato, e alzò la testa con un moto leonino. Un fitto bisbiglio l'applaudì. Ripreso il discorso, alzò le due mani e avviò un'altra argomentazione, dicendo con voce più chiara: "Ora voi direte: se il prezioso documento, se quello che dovrebbe essere per noi il testamento d'oro è scomparso, e non ci resta che battere il capo sul testamento di ferro, su che cosa andiamo noi a fabbricare le nostre speranze? - rispondo: sulle prove indirette, cioè: - Primo: noi sappiamo che intenzione della defunta non fu mai di negare ai parenti anche più poveri il beneficio della sua eredità... (e di ciò molti di voi saranno chiamati a testimoniare)". "C'è la Santina, c'è Aquilino..." saltò su di nuovo l'Angiolina. "Abbiate pazienza, buona donna. Ora parlo io, poi sentiremo anche voi." "Dopo, sor avvocato, sentirà la messa cantata." Una grossa ilarità salutò queste parole. L'avvocato, che era rimasto attaccato con un dito al pollice dell'altra mano, portò il dito sull'indice e contò: "Secondo! La pietà della buona defunta non poteva suggerirle di defraudare della sua carità le istituzioni di beneficenza. E infatti nel testamento del '78 è fatta gran parte a queste istituzioni. Come si spiega il cambiamento nel testamento Baltresca? Aveva la pia signora perduta ogni fede nella religione e nella carità? - Terza prova indiretta (e alzò il medio): la confessione del portinaio Pietro Berretta, il quale ha dichiarato come veramente, la notte dopo la morte, il signor Tognino Maccagno, presente cadavere, entrasse a cercare una carta nella stanza della defunta". "Ah, ah, ah…" esclamarono diverse bocche, ed erano i pochi a cui questa circostanza arrivava nuova. Gli altri, come se non potessero resistere al fascino di quei tre diti che l'avvocato teneva alti sulle loro teste, si mossero e ballarono sulle sedie. "Quarto! La confessione del Berretta fece tanto paura al nominato Tognino Maccagno, che egli cercò subito di infirmarla, e non potendo sottrarre un uomo come si sottrae una carta, procurò di diminuirne la credulità coll'accusare un povero uomo di furto qualificato e facendolo tradurre come un malfattore in carcere. Il signor Maccagno vuol dimostrare con ciò che il testimonio è bugiardo, perché è ladro: noi andremo più in fondo, o signori, e sapremo dimostrare che il signor Maccagno è ladro, perché è bugiardo..." "Bravo, bene..." scoppiò da varie parti. L'ambiente si riscaldava. Tutti si guardavano in viso con occhiate piene di calore, che sommate produssero una corrente di simpatia verso il valentuomo, il quale con animata eloquenza e ferrea dialettica sapeva così bene interpretare ciò che ognuno sentiva nel cuore come un gruppo ingarbugliato. La solidarietà dell'impresa faceva scomparire le differenze sociali e nel comune interesse tutti si sentirono alleati e fratelli. Fu per qualche tempo un agitato muoversi di braccia e di gambe; chi lodava l'argomentazione dell'avvocato, chi l'avvedutezza di don Giosuè, chi si fece rosso per il gusto e per la speranza, chi per poco non si sentì il testamento in saccoccia. E l'avvocato, tenendo sempre elevati e diritti i suoi quattro diti, lasciò passare con un sorriso di compiacenza il piccolo subbuglio; poi, aggiungendo ai quattro diti grossi anche il mignolo, gridò in tono di vittoria: "Quinto!" Il silenzio divenne di nuovo perfetto. Si sarebbe sentito volare una mosca. L'Angiolina, che non poteva più stare nei vestiti, si alzò, si voltò verso la platea e sollevata anche lei la sua mano grossa e aperta come un ventaglio, gridò anche lei: "Quinto!" "Nuova e preziosa testimonianza abbiamo in persona, che il segreto professionale m'impedisce ora di nominare, la quale è in grado di provare che il signor Maccagno entrò veramente nella stanza della defunta, mise sottosopra roba e carte... cercò nei cassettoni... frugò nello stipo... nel letto medesimo dove la morta giaceva. A che scopo? A cercar che?" E mentre l'avvocato lasciava cadere queste gravi parole, come altrettante gocce d'oro colato, era a vedersi la diversa espressione delle faccie, certi occhi imbambolati, certi cordoni del collo tesi, certe bocche semiaperte a gustare tutto il sapore di quelle grandi cose. I cuori s'eran fatti duri e stretti, non respiravasi più per non disturbare. L'oratore, continuando in un tono domestico, come tra parentesi, conchiuse: "Qui non posso dir tutto, ma ciò che dirò in tribunale sarà abbastanza pel signor Maccagno. A ogni modo voi vedete che se l'eredità fatta dal suddetto signore è splendida, non si può con egual sicurezza dimostrare che essa sia solida e invidiabile! Oh! noi non andremo a impugnare i testamenti di ferro; ma inviteremo il fortunato erede a confutare i nostri testimoni e a dimostrare al giudice e al pubblico ch'egli è un uomo onesto e delicato. Noi non potremo negare l'esistenza di un atto che nomina unico erede di una sostanza di quattrocento mila lire un cugino quasi ignoto fino a ieri alla stessa testatrice; ma noi - e quando dico noi intendo tutti voi - obbligheremo l'abile signor Maccagno a dimostrare che coercizione morale non ci fu, quando si videro allontanati dalla casa della ricca benefattrice i più vecchi e fedeli amici, che da quindici, venti, venticinque anni l'avevano assistita col consiglio disinteressato e prudente; quando si videro da lei, piissima credente, respinti gli stessi sacerdoti a cui aveva chiesto più volte il conforto dei beni spirituali; quando si vide allontanata dalla testatrice la fantesca Santina Rovatti, che essa s'era tratta in casa fanciulla e del cui fedele servizio s'era per vent'anni lodata..." "Sì! sì!..." proruppe singhiozzando la povera donzella di casa Ratta, a cui l'avvocato inacerbiva una piaga. E molti le furono intorno a compassionarla, a compatirla, mentre l'avvocato, che sentiva d'avere il suo uditorio in pugno, incalzava più forte: "Qual meraviglia se una vecchia di ottantacinque anni cedesse e cadesse vittima di questo sistema di ingiustizia e di violenza, ripudiasse quel che aveva già ordinato e scritto, scrivesse quel che le facevano scrivere, andando contro nella debolezza senile della sua ragione ai sentimenti più naturali del suo cuore?... Qual meraviglia che un giorno, vicina a battere alla porta del supremo giudice, quando pare che nel morente riviva la fiamma della coscienza, chiamasse il suo antico confessore e, approfittando d'un momento in cui si sentiva meno sorvegliata, distruggesse, in poche righe, disposizioni estorte per ritornare con un atto di naturale rinsavimento alle primiere disposizioni più consone alla sua benevolenza e alla sua coscienza? E ciò ha potuto avvenire in quel momento appunto perché Tognino Maccagno non era là. E ciò avvenne perché la stessa Giuditta Canzi, la donna spia che le avevano messo al fianco, non ha potuto negarlo. Ciò era naturale, dico, consono a' suoi sentimenti, perché... (e nel calore del dire la testa dell'avvocato s'era fatta rossa come un pomo) perché non una, ma cento prove abbiamo che la testatrice fu sempre benevola verso i parenti poveri. Agli uni faceva pervenire segrete limosine, agli altri dava sussidio di consigli ed appoggi, molti invitava alla sua mensa e, non richiesta, si abbandonava a lusinghiere promesse. Aquilino Ratta, qui presente, eroe delle patrie battaglie, onesto impiegato, soldato non avvezzo a mentire, verrà a testimoniare fin dove arrivasse la confidenza della veneranda signora verso i parenti di umile condizione." Aquilino, non resistendo alla seduzione di quella voce armoniosa e calda, che carezzava così bene il suo amor proprio, mentre arrossiva colla timidezza di una fanciulla, tuffò la mano nel taschino del panciotto, ne tirò fuori lo scatolino, lo scoperchiò e mostrò ai vicini il bellissimo dente, che prese a girare di mano in mano come una reliquia. "Ecco, ecco il terreno," continuava intanto a tonare la voce dell'avvocato "ecco il terreno, sul quale cercheremo di tirare il nostro fortunato avversario. Se noi staremo uniti e compatti, se non ci spaventeremo dei primi sacrifici, vi prometto che gli faremo un tal letto, che quello di Procuste in paragone dovrà sembrare un letto di rose." "Bravo, molto bene!" sorse a dire col suo vocione di baritono il cavalier Borrola, agitando la mazza col pomo d'avorio, acceso anche lui dall'entusiasmo, a cui non sfugge mai un'anima d'artista davanti all'eloquenza vera. Pigliando la parola per sé e per gli altri, recitò anche lui un discorso, in cui si fece interprete dei sentimenti conculcati, dei diritti vilipesi, dei... Ma l'assemblea non era più in grado d'ascoltare dei discorsi. I pianti della donzella di casa Ratta, le saette dell'Angiolina, il dente di Aquilino, le rivelazioni, i sottintesi dell'avvocato, le illusioni suscitate, fomentate, ingrandite, il desiderio di fare qualche cosa in odio a Tognino Maccagno, il fascino luminoso delle quattrocentomila lire, che stendevasi di sopra coi bagliori di un immenso sole, riscaldò siffattamente gli animi, che a fatica poté farsi sentire, in mezzo allo schiamazzo delle voci, la voce del campanello. Ognuno aveva idee proprie da suggerire, argomenti da portare, una prova da metter fuori, una testimonianza, un ricordo da aggiungere per frangia. Aquilino, preso in mezzo in un cerchio, cercava di spiegare a tre o quattro poveracci stracciati come ladri il meccanismo della causa, che Battistino Orefice, il pittore di scene, seguitava a definire un buco nell'acqua. L'Angiolina, che il diavolo non poteva più tenere, s'era messa a sedere davanti al tavolo dell'avvocato e predicando, coi pomelli rossi, andava mettendo sottosopra le carte. Il brav'uomo non arrivava a tempo a togliergliele di mano. Finalmente un'altra scampanellata rinforzata dai colpi sonori di due mani larghe come pantofole, rimise l'ordine. "Silenzio!... Come ho detto, farò dar lettura del primo testamento del '78, al quale si riferivano le disposizioni che la testatrice qualche giorno prima di morire dettò a don Giosuè Pianelli. Anzi comincerò a dar conoscenza di queste disposizioni nella copia che don Giosuè tenne con sé e che si trova allegata agli atti del presente processo. Silenzio, laggiù, se dobbiamo intenderci. Ecco dunque la forma del documento che il nostro buon amico Maccagno avrebbe avuto l'agilità... di far scomparire: ' In nome della Santissima Trinità, io sottoscritta, Carolina Maccagno vedova di Gioacchino Ratta, ancor sana di mente, ancorché debole di corpo e prossima a presentarmi al tribunale del supremo Giudice, memore dell'affetto che mi lega a tutti i membri della mia famiglia e di quella del mio compianto consorte, dichiaro annullate quelle qualunque disposizioni testamentarie che posso aver segnate nella mia debolezza e non riconosco per mia ultima e sincera e libera volontà, conforme agli obblighi della mia coscienza, che il testamento del 20 agosto 1878 da me dettato e consegnato al signor avvocato cav. Gerolamo Baruffa, abitante nella piazza di Sant'Ambrogio in Milano, al civico numero 24, e nomino di nuovo detto avvocato Baruffa mio esecutore testamentario, incaricandolo di dividere la mia sostanza nei modi che in detto testamento sono indicati a beneficio, parte de' bisognosi miei parenti e di pie istituzioni di carità, parte agli altri parenti, non che a suffragio dell'anima mia. In fede... ' E qui manca la firma. Ma che l'atto autentico sia stato scritto e firmato dalla morente, c'è qui don Giosuè, il quale potrà riferire." Tutti si voltarono verso il prete, che rosso e caldo in viso quanto si poteva vedere al disotto del suo colorito di vecchia pipa, agitando le mani legnose e parlando coi soliti gusci in bocca, raccontò a chi ne aveva bisogno come veramente la signora Carolina avesse scritta, firmata e poi trattenuta la carta; come, prima di morire, avesse fatto segno di aver firmato, ma in quel momento entrò il sor Tognino, reduce da Lodi, dov'era stato chiamato tra i giurati, s'impadronì delle chiavi, e addio. Firmata o non firmata, una carta ci doveva essere, laddove invece... "Laddove invece," seguitò l'Angiolina, picchiando un pugno sulle carte dell'avvocato e voltandosi verso l'adunanza a predicare, "laddove invece s'è trovata una bella..." L'avvocato la fece sedere per forza e, agitando il campanello sul naso dell'ortolana, gridò: "Avete inteso? facciamo silenzio? adesso, se state zitti, farò dar lettura del testamento del '78, o meglio, per accorciare la seduta, essendo il documento abbastanza particolareggiato e prolisso, lo metterò a disposizione di quelli di voi che vorranno consultarlo, tutti i giorni dalle undici al tocco. Di tutti i parenti fino al terzo grado è unita una lista che io sto compilando colla più scrupolosa diligenza, e ciascuno di voi è interessato a portare alla causa comune quegli schiarimenti che valgano a far trionfare la giustizia". Il rumore, l'acciottolìo, le ciarle non cessarono se non quando la gente incominciò a infilar la porta. Tutti sapevano ormai chi fosse Tognino Maccagno e di quanto fossero suoi creditori. Tutti imprecavano contro di lui, ladro, usurpatore, ciascuno in misura del danno che credeva d'aver sofferto. Sulla scala continuarono le discussioni: si trascinarono fin sulla piazza. Don Giosuè che era l'anima nera di quella congiura prese note, indirizzi, e col suo scartafaccio sotto l'ascella traversò di corsa la piazza per non arrivare tardi al vespero in Duomo. Aquilino Ratta rimase un pezzo sotto le piante a spiegare il meccanismo della causa a Michele Ratta e al Boffa, che parevano inebetiti dalla speranza. Aquilino, uomo sereno e non avido, poteva dire di dominare la questione meglio di ogni altro. Tra chi vedeva tutto azzurro e già si sentiva i denari in tasca, e chi parlava di un buco nell'acqua, Aquilino stava in una via di mezzo, né troppo azzurro, né troppo buco. Probabilità buone c'erano e non c'erano: l'avvocato era bravo, ma neanche Tognino era grullo. Aquilino era di questo parere, che non bisogna insegnare ai gatti la maniera d'arrampicar sulle piante. I gatti furono sempre gatti e lo saranno sempre. Una cosa sola per parte sua capiva poco, ovvero aveva penetrato poco bene; là dove l'avvocato tirò in scena il letto di Procuste. Capiva che era un'allusione alla storia romana, ma anche supponendo che Procuste fosse stato, per modo di dire, un filosofo famoso dei tempi antichi, non vedeva come c'entrasse il letto; a meno che il filosofo usasse dormire sulla nuda terra. "E quell'altra parola, chiro... chirografico?" chiese il lattivendolo. "Quella è chiara. È un modo fino per dire che Tognino è chiro...grafico ...!" E Aquilino allungò la parola, accompagnandola con un giro della mano, che spiegò come un ventaglio e chiuse in fretta come se pigliasse una mosca a volo.

Lo sforzo che essa fece di sorridere al di sotto del velo di lagrime che le copriva gli occhi e l'abbandono inerte della sua persona non abbastanza ridesta suscitarono nel vecchio uomo una violenza di affetti, di tenerezza, di sgomento e di selvaggi rancori, una tremenda paura di sé, una così oscura oppressione, che per un istante non vide innanzi a sé che un gran bianco, un gran bianco... "Perché piange?" "Non so, un brutto sogno." "Non si sente mica più male?" "Non mi pare." "Devo aprire le imposte?" "Sì: ho dormito un pezzo?" "Forse un'ora." "Lorenzo, dov'è?" "È stato qui: ha visto che dormiva..." "Povero papà!" uscì a dire Arabella, non ancora ben uscita dalla sua dolorosa visione, continuando, per un meccanismo nervoso, il discorso accalorato, che stava facendo in sogno al suo papà morto. Il suocero attribuì a sé la tenera espressione di un nome così affettuoso, che egli non aveva mai osato chiedere per sé e che sua nuora non era mai stata animata a concedere. Colto in un momento di debolezza, s'intenerì ancor di più, e mettendosi con moti frequenti a carezzare i capelli della malata, si abbandonò anche lui, per la prima volta, a darle del tu: "Guarisci, guarisci presto, e andremo in campagna. Vedrai che bel sito! Non sei mai stata in Tremezzina? In primavera è il paese delle rose. Rose dappertutto... Anch'io ho bisogno d'andar fuori dei piedi della gente, sono un poco stanco e malato anch'io e non vedo l'ora di collocarmi in campagna a coltivare le rape e le verze..." E cercò di ridere per combattere la molle malinconia che l'assaliva da tutte le parti. Questa malinconia montava come un'acqua che scaturisce improvvisamente da una vena sconosciuta al rompersi di una roccia. Da dove derivano queste acque fredde e limpide che il passeggero incontra sulla sua strada polverosa in mezzo a un paese brullo, riarso dal sole? La natura ha i suoi misteriosi serbatoi che mandano rigagnoli ai più lontani strati e non di rado spiccia l'acqua pura anche al disotto del fango. Sentendo che insieme all'onda refrigerante saliva qualche cosa di amaro, messo in paura o in sospetto d'una mestizia che lo conduceva a cantare delle arie di gioventù col falsetto del vecchio, spaventato all'idea che egli potesse dire una sciocchezza od una meschinità, accomodò con una certa furia distratta le pieghe del letto e soggiunse, mutando tono: "Ho trovato un vin vecchio sincero che le farà bene: lei ne deve bere un bicchierino. Il dottore raccomanda il vin vecchio. Lo assaggi. Questo è sangue." Versò il vino nel calice e si accostò di nuovo, tenendo il bicchiere colle due mani, per resistere a un tremito convulso che faceva vibrare tutto il corpo. Arabella si sollevò un poco, colla sinistra mandò indietro i capelli folti che scendevano scomposti, e coll'altra mano aggradì il calice, in cui brillava un vino secco color dell'ambra. "Beva, questo è sangue..." ripeté il suocero con un tono monotono d'uomo distratto, socchiudendo gli occhi.

Non si fu svelti abbastanza, stramazzò e la riposero morta sul letto." "O Gesù, Giuseppe e Maria..." aspirò la Colomba, e con un sospiro mise giù la corona per non mescolare il bene col male. Le reminiscenze del passato erano quasi più forti dei bisogni del presente. Il Signore solo sa leggere i segreti della coscienza, e se il male non ha fatto mentire una moribonda, Dio doveva averla giudicata e compatita nella sua misericordia. E da vent'anni ormai la stessa Colomba s'era abituata a considerare le cose come oneste e naturali, allontanando sempre dal pensiero il sospetto, tutte le volte che le varie e le piccole circostanze della vita e l'indole di Ferruccio venivano a ridestarlo. Ma a certe scosse di terremoto che fanno crepar la terra, escono spaventati i più vecchi sorci: e Dio, che non paga al sabato, può benissimo far scontare a un figliuolo il peccato della mamma. "È qui, è il suo passo" disse la Nunziadina. La zia Colomba alzò lo stoppino della lampada, tolse il paralume, e alla luce diffusa e bianca credette vedere entrare dall'uscio la faccia profilata della povera sorella, com'era rimasta sul cuscino dopo l'ultimo respiro. "Mi ha cacciato come un cane, non mi ha lasciato parlare, mi ha coperto di vituperi..." Ferruccio gettò il cappello sulla sedia e fece un giro intorno al tavolo. "O povero me, io mi butto nel Naviglietto..." riprese a dire piagnucolando colla voce d'uomo che dorme il vecchio portinaio. "Ah, ti ha cacciato via..." domandò la Colomba senza levar gli occhi d'addosso al figliuolo. "Come un cane; non mi ha lasciato parlare." "E la signora Arabella?" "Io mi butto nel Naviglietto." "Voi fatevi coraggio," disse il ragazzo a suo padre "la signora Arabella ha promesso di occuparsi della vostra causa e domani mattina manderà una risposta. Per fortuna c'è questa buona signora..." "Dio la benedica..." esclamarono insieme le donne, congiungendo le mani. "Essa ha detto che ne avrebbe parlato al signor Tognino, il quale alle volte esagera apposta... Se non avessi ancora questa speranza, io non so quel che farei di me." Stringendo nei pugni i folti capelli, come se volesse strapparseli, girando inquieto per la stanza, esclamò: "Che cosa ho fatto io di male a Dio e alla gente, perché debba soffrire a questo modo? e quella donna lassù non guarda, non ha un poco di compassione del suo Ferruccio?" La zia Colomba corse verso il figliuolo e, abbracciandolo, cercò di soffocare contro il suo petto le parole che invocavano così fuor di proposito i poveri morti. Tutta la notte il Berretta rimase in cucina seduto in terra coi gomiti nella cenere del camino. Fu il solo che bene o male trovasse la maniera di dormire. Le donne provarono a mettersi a letto, ma di dormire non ci fu verso. Finché Arabella non avesse mandata una risposta era come voler dormire sopra un letto di brace. I quattro poveri martiri respirarono in questa speranza che la cara e buona signora finisse col commuovere il sor Tognino e facesse ritirare la denunzia. Ci sarebbe riuscita? a tutti pareva impossibile che si potesse negare una grazia a quella santa interceditrice. Verso il mattino la Colomba, pisolando, se la vide comparire a braccetto della povera Marietta, che mostravasi tutt'allegra e contenta; ma fu più l'ombra del suo pensiero che non un sogno vero. Ferruccio non si levò manco le scarpe, ma quasi tutta la notte passeggiò sulla ringhiera, nel raggio chiaro della luna, che s'imbianchiva sul muro e versava dalla gronda un'ombra lunga e quieta. Contò le ore fino alle tre e mezzo, sbattuto dalle sue agitazioni come un pezzo di legno in preda alle onde di un mare in burrasca. Cercò inutilmente nella serenità poetica della notte, nella pallida luce delle stelle, nell'aria frizzante che gli giocava nei capelli, un sollievo, una distrazione a quel senso doloroso e cocente, che gli pesava come una brace ardente sul cuore. A che pro' vivere onesti e buoni, credere alle cose sante, mortificare la propria giovinezza, chiedere all'ideale la virtù che ti porta in alto al di sopra di tutti gli altri, se ogni monello della via avrà il diritto di chiamarti figlio di ladri? come affrontare lo sguardo delle persone oneste, se puoi temere che ti si legga in viso la tua vergogna? Molti ti compatiranno e diranno: "Vedete quel povero giovane? ha il padre in prigione. Avrebbe potuto fare una buona carriera, è un giovane che ha studiato, ma non si può raccomandare, naturalmente, una persona che ha il padre al cellulare". E come, allora, presentarsi a cercare un impiego con questa terribile paura che ti leggano negli occhi il disonore? e poiché di un pane maledetto egli non ne voleva più mangiare, ecco, insieme al disonore, la miseria e la fame. Per poche bottiglie di vino un uomo ricco e potente cacciava un vecchio in carcere e un giovane nella necessità di dover stendere la mano. E un delitto di questa natura si osava compiere in nome della giustizia. Giustizia questa? "Ma, Signore, se è giustizia questa, io preferisco credere all'iniquità del ladro che ti assalta sulla strada. Allora, forza per forza, giustizia per giustizia, vendetta per vendetta, io stringerò il manico di un coltello, mi presenterò a quell'uomo che mi assassina l'anima, la fede, le speranze, tutto, e scriverò anch'io la mia sentenza nel sangue di quest'uomo." "O povero me!" sospirava davanti a questi pensieri, passeggiando su e giù per la ringhiera. Tacevano i giardini e gli orti nella luce smorta. Solo il vento usciva ogni tanto con un bisbiglio tra i rami in fiore e fra le tenere foglie del castagno. L'ora scoccava in quel silenzio chiaro dal vicino campanile, preceduta dal rantolo delle ruote e dei pesi, che scorrono dentro la torre. Al disopra delle case chiuse e addormentate, al disopra degli orticelli e dei muricciuoli, al disopra delle ombre e di tutte le cieche sensazioni che l'aria, l'ora, la luce, le ombre e le tristezze della notte versavano nell'animo travagliato del giovane, s'innalzava un pensiero che a volte pigliava i contorni d'una figura umana, a volte mandava i bagliori di una fonte, da cui stillasse a' suoi tormenti un soave refrigerio. Una dolcezza mistica, che usciva di mezzo ai patimenti, quale soltanto era dato ai martiri cristiani di provare nei deliri cocenti del supplizio, lo invitava a benedire la mano che percote. La sua disgrazia l'aveva avvicinato a quella donna, s'era inginocchiato davanti a lei, aveva pianto nelle sue mani; l'aveva fatta piangere ed essa gli aveva posta una delle sue manine d'angelo addosso. Queste immagini avevano la forza di eccitar l'entusiasmo della sventura. Non si poteva a un tempo soffrir di più e inebbriarsi di più del proprio martirio. Da lei sola stava per dipendere ora la libertà, l'onore, la vita di suo padre, la vita e l'onore di un povero giovane; e in questa totale dipendenza da lei, Ferruccio provava la spinta che ci trae ad abbandonarci nei momenti della disperazione nelle braccia aperte di una mamma. Verso la mattina piegò la testa anche lui sul letto e si addormentò di un sonno chiuso e senza sogni, quale prende un uomo sfinito dal lungo cammino. La Colomba raccomandò a Nunziadina di star quieta in letto, cacciò le gambe, si vestì in fretta e guidata dalla luce bianca del cielo, si preparava ad uscir di casa per parlare al padre Barca, uomo influente e giudizioso. Volle prima dare un'occhiata al vecchio e al ragazzo: dormivano tutti e due, l'uno colla schiena appoggiata al muro, l'altro raggomitolato sul letto. Fece il segno della croce e uscì dalla porta a vetri che mette sulla ringhiera. Ma si tirò indietro spaventata. Nel cortile c'erano due guardie di questura. Si attaccò colle mani alle imposte per reggersi, e sentì cinque o sei colpi tremendi nello stomaco, come se glielo picchiassero col martello. Chiuse la finestra e colle due mani sulle orecchie corse nello stanzino dove dormiva il ragazzo. Stette ancora un minuto sospesa, come se tardasse apposta, per carità, a dargli il terribile colpo; ma quando sentì che picchiavano all'uscio della scala, pose una mano sulle mani del nipote, lo scosse e disse: "Ferruccio..." "Che c'è? che c'è?" "Ci son le guardie." "Dove?" "In corte... Senti che picchiano." Ferruccio sollevò la testa e stette col viso stravolto, forse senza capire. "Che cosa si fa? O cari angeli, che cosa si fa?" Di fuori picchiarono più forte, finché anche il vecchio si scosse dal suo letargo. Ferruccio saltò dal letto, si abbottonò la giacca, ficcò le mani nella folta selva dei capelli e disse: "Non aprite, ci penso io". Andò in cucina intanto che suo padre, irrigidito dal freddo e intorpidito dal sonno e dalla cattiva posizione, cominciava a brancolare sul suolo per tirarsi su. Ferruccio ripeté: "Ci penso io..." E aprì il cassetto del tavolo di cucina per trarne un comune coltello. La zia Colomba che gli teneva dietro, lo afferrò ai polsi e mettendogli il viso quasi sul viso, con un'espressione risoluta gli disse tre volte di no, con tre rapide scosse della testa: "No, figliuolo, il coltello no: no". Ferruccio si lasciò dolcemente disarmare. In quel punto una delle guardie, che pareva il capo, comparve sulla ringhiera, sforzò senza molta fatica le vecchie e tarlate imposte della finestra lunga che metteva sul ballatoio, entrò, e disse con tono d'uomo ragionevole che sa di parlare a persone ragionevoli: "Stiano zitti, buona gente, che è il meglio che si possa fare. Siamo venuti di buon'ora apposta per non dare troppo disturbo. Siete voi il Pietro Berretta?" "Sono innocente, o misericordia! No, Ferruccio, salvami, fammi scappare..." pregò il vecchio portinaio, aggrappandosi alle braccia del figliuolo. E senza aspettare che gli mettessero le mani addosso, corse a rifugiarsi nello stanzino, affrettandosi a chiudere l'antiporto dietro di sé. La guardia ch'era nella stanza, vista la mossa, corse per tagliargli la strada; ma Ferruccio, acciecato da un fiotto di sangue che gli montò al capo, urtò con tutta la forza nel tavolo di cucina e lo rovesciò contro lo sbirro, che sospinto da quella strana macchina, barcollò sulle gambe e cadde mettendo i gomiti nei vetri della finestra. All'urto, al crepitìo dei vetri sull'ammattonato, la Colomba mandò un grido e corse a rifugiarsi nella stanza di Nunziadina, che alzò dal cuscino la piccola testa imbacuccata, per chiedere il motivo di quel diavolo in casa. Intanto il Berretta ebbe tempo di chiudere l'uscio per di dentro contro gli sforzi di una seconda guardia, che, entrata dalla porta principale, cominciava un lavoro di leva. L'uscio nella sua fragile costituzione non avrebbe resistito a lungo, se Ferruccio, inferocito dalla guerra, visto che il maggior pericolo era da questa parte, non avesse lasciato il primo sbirro intrigato nelle gambe del tavolo per scagliarsi sull'altro. Lo afferrò colle mani alla vita, e puntando un piede al muro collo slancio e col vigore elastico de' suoi vent'anni, riuscì a strappare la guardia dall'uscio, innanzi al quale si piantò lui, pallido come un cadavere, ansante, ruggente, non armato che della sua generosa sventatezza. La lotta stava per cominciare da capo, se la prima guardia, uscita tra la finestra e il tavolo, col viso e colle mani tagliuzzate dal vetro, per spirito brutale di vendetta non l'avesse assalito colla spada sguainata, correndo a colpirlo col pomo di questa sul viso e sulla testa, assalendolo di fianco e mandandolo ruzzolone col capo in sangue in un canto della stanza. Le due guardie non ebbero difficoltà a levar dai gangheri l'uscio e a metter le mani sul vecchio imprudente. Ma intanto al diavolo si erano risvegliati i pochi casigliani e la gente cominciò a radunarsi sulla porta delle "due beate". Da un piccolo male Ferruccio ne aveva fatto nascere dieci grossi, oltre ai pettegolezzi e al disonore e allo spavento delle donne. Ma a vent'anni non si sa ancora scegliere con giudizio in mezzo ai mali.

Il Botola, dopo averlo cercato inutilmente al club, al caffè, da Olimpia, dal Campari e perfino in Borsa, fu abbastanza fortunato di trovarlo verso le dieci e mezzo solo, davanti a un bicchierino di cognac, seduto a un tavolino del caffè Biffi, quasi nel mezzo della Galleria, raccolto come un filosofo pessimista a meditare sulla caducità delle cose umane. Non fu troppo agevole per il vecchio pignoratario di fargli intendere la brutta notizia. Il medico, il marsala il cognac, l'orso e l'anatra della Cagnola combattevano una strana battaglia contro lo stomaco, mandando aliti e fumi e vertigini al povero cervello. Pieno e indurito come una botte, della gran lotta della vita non gli restava che un senso o per dir meglio una reminiscenza dolorosa in fondo a quel resto di memoria che sornotava al vino e al cognac, simile al dolore d'un dente strappato male, che lascia in bocca l'impressione di un'immensa caverna. Attraversando con rapide vertigini le scene della sera prima, della notte in casa del pignoratario, del suo incontro con papà, delle male parole dette e udite, uscivano come da un miscuglio oscuro di sensazioni le immagini più vive e chiare di Olimpia e di Arabella, le vedeva cozzar tra loro, alzava una mano per separarle, mormorando parole che arrestavano i passanti, finché crollando il capo, rideva anche lui, facendo ridere la gente col ritornello dell' " Ara, bell'Ara discesa Cornara ..." una fanfaluca fanciullesca, che gli tornava sulla bocca per un travaso di sensazioni lontane e recondite. "Sono due ore che ti cerco per mare e per terra," disse il Botola "vieni, tuo padre sta male a morire." "Il padrone sono io..." declamò tragicamente l'ubbriaco, tirando un filo delle sue scompigliate reminiscenze. "Fossi almeno padrone delle tue gambe. È una disgrazia che tu non intenda la ragione in questo momento. Tuo padre è agonizzante, muore, hai capito? vieni a casa." Il vecchio cercò con forti scrolli di fargli entrare quest'idea, che come un lume attraverso le fessure d'una porta chiusa, mentre metteva l'ubbriaco in sospetto e in pensiero di qualche cosa di strano al di fuori, non bastava a dargli l'idea della cosa e la forza d'aprire. "Il padrone sono..." "Sì, sì, domani sarai padrone di tutto. Adesso vieni a casa." E cercò di sollevarlo e di condurlo via. Lorenzo non fece resistenza, e continuando a ripetere la gran ragione che il padrone era lui, si lasciò tirare fino a una vettura e trasportare a casa. Ai piedi delle scale parve al Botola di scorgere negli occhi molli dello schiamazzone un barlume di malinconia, quasi una tristezza paurosa e scontrosa e colse il momento per dirgli di nuovo che suo padre era in punto di morte. E vide allora da quegli occhi annebbiati sgorgare lentamente e scorrere sulla pelle infocata due piccole lagrime, anch'esse del colore del cognac. Dal pianerottolo per un breve ballatoio aperto si passava alle scale di servizio. Il Botola condusse al buio Lorenzo per di lì, lo attaccò colle mani alla inferriata e gli disse: "Non muoverti". E lo lasciò a meditare al fresco, al lume delle stelle. Quando gli parve il momento, lo menò nella stanza del moribondo. Era quasi mezzanotte. Una piccola lucerna nascosta da un paravento rompeva a mala pena le tenebre. Nella stretta, accoccolata sul tappeto, stava Arabella. L'infermo respirava affannosamente con frequenti urti di rantoli. Aggrappato alla sponda del letto, Lorenzo, a cui l'aria della notte aveva dissipato alquanto i fumi del vino e dell'indigestione, con un supremo sforzo di volontà, cercò di farsi un concetto della verità, che gli si presentava coi torbidi contorni di un sogno grave e fastidioso; e come se a poco a poco si accostasse a toccare la triste realtà, assalito da un violentissimo colpo di disperazione, di rimorso e di sgomento, cominciò a gemere, a singhiozzare, risvegliando Arabella, che s'era abbandonata un istante a un lento torpore. Da tre giorni anch'essa viveva, si può dire, di un sogno torbido e senza fine. Nei brevi intervalli, in cui le era concesso di ritrovare se stessa, come perduta e rimpicciolita in una gran scena d'uomini e di cose, un sentimento nuovo, vago, indefinito, l'assaliva, un sentimento che non sapeva trovare la forma d'un dolore o di una paura positiva, ma che produceva anche in lei l'effetto di una ubbriachezza strana. Suo suocero nelle poche righe scritte coll'agonia e colla morte alle spalle, senza confessare esplicitamente i suoi torti, pregava la nuora a trovare coi parenti e coll'avvocato un componimento amichevole: e ciò per la pace dei vivi e dei morti. Ogni cosa che vien dai morenti è uno stimolo di carità specialmente se chi muore ci lascia nelle mani il suo pentimento. Nulla fa tanto bene a chi va al di là come una buona speranza. E perciò Arabella spiava e aspettava il momento che il moribondo si risvegliasse dal suo torpore per dargli un affidamento che la pace sarebbe stata fatta. La raccomandazione, che il vecchio peccatore aveva scritto e affidato alla sua clemenza, se la sentiva quasi ardere nel cuore. In quest'attesa, in questo zelo pio e disinteressato di un bene supremo e urgente, ogni altra questione, ogni altro male più remoto diventava oscuro e secondario. Essa dimenticava se stessa, il suo stato di donna avvilita e tradita, quel che era stato ieri, quel che avrebbe dovuto essere domani. Sei giorni durò l'agonia, durante la quale la fibra forte e resistente contrastò a oncia a oncia il terreno alla morte. L'infermo non risvegliavasi che a brevi e rapidi intervalli di conoscenza: e allora l'occhio estinto girava lentamente intorno in cerca di qualche cosa, soffrendo di non trovarla; e solamente quando incontravasi nel volto pallido di Arabella, quell'occhio pareva rischiararsi di una luce più serena, approfondirsi in un pensiero, parlare, sorridere... Durante quei lunghi giorni e quell'eterne notti, Arabella non si tolse i vestiti d'addosso. Quando il corpo rotto e indolenzito dalle fatiche invocava il riposo, andava a buttarsi sul divanetto del salottino e subito il sonno la sottraeva alle pene della realtà. Era un sonno senza visioni, chiuso, dal quale usciva ristorata per dare il cambio all'Augusta, che con lei vegliava l'infermo. Lorenzo si moveva intorno a lei, la rasentava, arrestavasi dietro di lei in un silenzio quasi supplichevole; ma essa sforzavasi di non vederlo; o non ascoltava le sue parole, se non come si ascolta uno sconosciuto mal vestito, che ci siede vicino durante un viaggio noioso. Gente andava e veniva per la casa ad ogni ora, di giorno e di notte. Mamma Beatrice rimase colla figliuola. La zia Sidonia, messo in disparte il risentimento, trovò modo di collocarsi nello studio di Lorenzo, e rimase anche lei in attesa d'una catastrofe, che scompigliava le ire, le furie, i progetti, le speranze, i propositi nel cuore di molta gente interessata e già legata in un'azione comune. Un treno in moto e spinto a grande velocità non urta contro un muro senza dare una scossa a chi viaggia. Così avviene delle idee che urtano in una contraddizione. L'avvocato, don Giosuè, i Borrola, i Ratta, e gli altri tutti, che avevano un interesse nella causa contro un uomo vivo, non sapevano rifare sopra un uomo morto una procedura e un'azione che contentasse tutti i gusti; al punto che, se molti risero e trionfarono di vedere un ladro e un birbone punito dalla mano di Dio, molti altri, e tra questi l'Angiolina, rimasero sulle prime scornati e dispiacenti, quasi che Tognino, col morire tutto a un tratto, avesse voluto giocare un ultimo tiro da furbo ai diseredati. Le probabilità eran molte: o aveva fatto testamento o non aveva fatto testamento; o aveva nominato Lorenzo erede universale, o aveva lasciato delle disposizioni capricciose, chiamando a parte della sostanza Ratta qualche pia istituzione, per esempio, la Congregazione di carità; e in questo caso invece di un avversario avrebbero dovuto lottare con due, con tre, forse con dieci, più grandi e più formidabili. Né don Giosuè, né don Felice avevan potuto cavare da quella bocca chiusa, inchiodata dal male una parola, un segno di ravvedimento, una buona disposizione a favore dei parenti poveri. Finalmente si seppe che Arabella aveva in mano una carta e che, parlando in segreto con don Felice, aveva dato a capire che si sarebbe venuti a una conciliazione; insomma ci sarebbe stato qualche cosa per tutti... La notizia uscita di bocca a don Giosuè, mentre da una parte gonfiò le speranze dei parenti più prossimi (cioè di quelli più vicini al morto) mise in sospetto e in paura e in diffidenza tutti gli altri, che fiutarono un nuovo intrigo dei Borrola e dei Maccagno contro i poveri Ratta. Se questa circostanza d'una nuova carta aveva un valore, c'era a temere che i parenti ricchi e forti facessero la parte del leone a scapito dei parenti più poveri. Aquilino fu preso in mezzo e incaricato dai Ratta di parlarne pulitamente colla buona signora, per interessarla a impedire qualche nuovo ladroneggio. E in mezzo a questi oscuri e sommessi intrighi, per tutto il tempo che Tognin Maccagno litigò colla morte, fu un continuo correre di gente presso il notaio, presso l'avvocato, presso i preti, un gran discorrere nelle osterie, nelle anticamere, sui pianerottoli, un segreto congiurare di furbi che facevan gli ingenui e di ingenui che si lusingavano d'essere più avveduti dei furbi. Arabella assistette con fredda mestizia e con amaro disprezzo a questa nuova contraddanza di interessi intorno a un letto di morte: e mentre veniva meno nel suo cuore la stima verso gli uomini, parevale che, in mezzo a tante maschere, il morente fosse il più semplice e il più naturale. La morte, se non altro, è sincera. L'ultima notte l'infermo dormiva di quel sonno chiuso e pesante, che non è ancora la morte, ma già non è più il patimento, quando a un tratto parve ad Arabella, che vegliava sola accanto al letto, imbacuccata in un suo scialle, nell'ombra densa dei mobili, che il malato alzasse una mano e chiamasse. Si mosse, si accostò, abbassò la testa e nominando Gesù e Maria, pronunciò qualche frase di consolazione. Egli mosse con un supremo sforzo la testa, e afferrata la mano della nuora, la strinse con un fuggevole vigore, mandando fuori delle parole sconnesse che parevano gemiti. Cercando d'interpretare i monosillabi di quel confuso discorso, essa suggerì delle questioni, a ciascuna delle quali l'infermo rispose con una leggiera stretta di mano. "Voleva che i parenti gli perdonassero? era pentito? era rassegnato alla volontà di Dio?" e altre di quelle frasi che si prestano volentieri ai morenti negli estremi dibattiti, quando la nostra ragione è chiamata a pensare per una ragione che fugge. Il signor Tognino rispose sempre di sì; ma una parola più forte delle altre insisteva a ritornare e a sornotare in quel suo sconnesso monologo, che Arabella non sapeva ricomporre e interpretare. Una volta uscì il nome di Ferruccio. "Me lo raccomanda? non lo abbandoneremo..." L'occhio dell'infermo rispose con un lungo raggio di benevolenza. Poi a un tratto la fronte si oscurò come sotto a un nuvolo di tristezza. Con un ultimo sforzo nominò la Marietta... Ma Arabella non afferrò il senso di quelle ultime voci fioche e singhiozzanti. Era l'agonia. Il signor Tognino Maccagno morì tranquillamente nelle prime ore d'una bella mattina d'aprile.

La lettera di don Felice (persona degna d'ogni fede) era stata per lei come la chiave di molte cose misteriose, che prima non sapeva spiegare, una fiaccola che, se non rischiara tutti gli angoli di un brutto sotterraneo, è abbastanza per mostrare l'orrore del sito e per non invogliare a rimanervi di più. Man mano che le forze fisiche tornavano e che essa ripigliava le sue abitudini nella bella casa fresca e nuova, presa da un senso di abbandono, quasi di squilibrio nel corpo, cresceva in lei il dubbio, se poteva rimanere senza rimorso e senza vergogna a godere della sua agiatezza, acconciarsi, come scriveva don Felice, alla sua parte di complice inerte e soddisfatta dell'ingiustizia, continuando a godere i frutti d'una ricchezza, per la quale aveva perduto il frutto più caro del suo sacrificio, per la quale aveva quasi bussato all'uscio della morte. Se Dio non l'aveva voluta di là, questo era un segno che il suo dovere non era ancora tutto compiuto. Ma il suo dovere, oggi, non poteva più essere, come ieri, semplicemente d'obbedire e tacere. Il suo dovere era di combattere, forse più per gli altri che per sé. Segretamente scrisse a don Felice chiedendo qualche schiarimento e dei consigli. L'Augusta portava e riportava le lettere. Non chiesta e non desiderata, arrivò anche una lettera della zia Sidonia, che scusavasi di non venire ad abbracciare la nipote come avrebbe desiderato il suo cuore. La compassionava mostrando di separare la causa di Arabella da quella di suo suocero, uomo indegno del nome di fratello, che come aveva speculato sulla bontà dei signori Botta, costringendo un povero angiolino a sposare un uomo indegno del nome di marito, così sperava di speculare sulla dabbenaggine dei parenti, confiscando un'eredità carpita colla frode e col tradimento. E come se queste scosse non bastassero, si aggiunsero altre noie da parte della mamma. Questa benedetta donna si era fissa in mente che Arabella avesse i sacchi dell'oro in casa e che il matrimonio era stato fatto principalmente per aggiustare gli strappi, per rabberciare i buchi, per provvedere a tutti i bisogni della famiglia. È vero che il signor Tognino aveva dato di frego a un grosso debito, ma i bisogni erano più grossi. All'avvicinarsi della Pasqua scadeva una rata d'affitto, e i fieni erano in ribasso, le bestie valevan nulla e il povero papà Paolino, uomo in croce, non sapeva a che santo votarsi. La promessa che aveva fatto il signor Tognino di interessarlo nell'azienda di San Donato non aveva ancora portato a nulla, perché la guerra dei parenti e gli intrighi di una causa imprevista tenevano le cose sospese. Arabella, a sentir la mamma, avrebbe potuto o dovuto fare di più. Suo suocero aveva della bontà per lei, non le diceva mai di no, e se la ragazza avesse fatto presente lo stato della famiglia che cosa erano due o tre mila lire per un uomo quasi milionario? Una volta la buona donna disse tanto, che persuase suo marito a venire a Milano a discorrere personalmente colla figliuola. Papà Paolino venne, ma trovò Arabella così pallida, così malinconica, con un'aria così poco felice, che dopo aver girato e rigirato un pezzo di cappello nelle mani e masticato dei discorsi vaghi, se ne tornò via senza dir nulla, con un velo sugli occhi. La mamma pensò allora di ricorrere a qualche ambasciatore più coraggioso e più eloquente. Che cosa non avrebbe fatto la povera donna per il bene della sua famiglia? La malata cominciava a uscir dal letto. Suo suocero, sempre attento e premuroso, aveva pensato a farle regalare da Lorenzo una ricca vestaglia di lana, tutta bianca, con dei risvolti di seta celeste e badava attentamente che le stanze fossero ben riscaldate e che quello zoticone non portasse in casa il puzzo del tabacco e del cognac. Più volte, combattuta tra il sì e il no, essa fu sul punto d'approfittare di queste buone disposizioni di suo suocero per consegnargli la lettera di don Felice; ma ebbe paura sempre di far peggio, d'irritare il vecchio, di chiudersi la via a comprendere il resto. Un giorno, in principio di quaresima, sedeva nella sua poltrona davanti al caminetto, ancor debole e svogliata, quando l'Augusta venne ad annunciare la visita di un uomo di campagna e d'un ragazzetto. Entrò il Pirello della Cascine, con un cesto sul braccio, in compagnia di Naldo, che aveva una lettera della mamma. Erano i soliti rimproveri. Nel suo stile blando e lagrimoso, la mamma finiva coll'accusarla d'ingratitudine e di cattivo cuore. Se non voleva procurare le due mila lire, consegnasse almeno duecento lire subito in mano del Pirello: o preferiva esporre sua madre e il suo benefattore al disonore di un sequestro? Le facce contrite del vecchio contadino e del ragazzetto facevano un muto commento alla lettera. Arabella, colta in un momento di malinconia nervosa, contrastata, offesa nelle sue intenzioni e ne' suoi pensieri, accasciata da un rancore che non trovava in nessuna parte compatimento, invece di interrogare quei muti ambasciatori di tristezza, cominciò a piangere come forse non piangeva da un pezzo, come forse non piangeva più dai giorni della sua fanciullezza; era un pianto che da tre o quattro mesi andava via via addensandosi nel suo cuore. Naldo, ammaestrato dalla mamma, si accostò alla sorella, e carezzandola, le disse con una vocina di pitocchetto: "Fallo in memoria del nostro povero papà, Ara..." Il Pirello, spremendo anche lui due lagrime di compassione colla cantilena propria dei villani furbi, che cercano d'intenerire un padrone in buona fede, entrò a dire: "Fa proprio pietà ai sassi, povero sor padrone! Domani deve pagare una bestia, e il mediatore ha detto che se non ha i denari sequestra il latte e il formaggio cosa che, oltre il dispiacere, è una malora in questa stagione. Se ci fosse il fieno alto, pazienza, ma la Merica seguita a mandar giù roba, che oggi come oggi, vale di più, con poco rispetto parlando, quel che si mette sul prato, che non quel che si raccoglie. Povero padrone! con quel cuore che darebbe via anche la camicia, è proprio tribolato." Naldo, vestito di pochi panni mal lavati, col peggior paio delle sue scarpe sui piedi, andava ripetendo colla nenia imparata: "Fallo per il nostro povero papà, Ara." Arabella con una piccola scossa di donna irritata lo fece tacere; ma pentita del suo mal garbo se lo strinse subito al cuore, lo baciò sulla fronte, gli accomodò il colletto e la cravatta, mentre contemplava nei lineamenti delicati e signorili del povero ragazzo una sembianza che si allontanava sempre più dalla sua memoria, quasi ottenebrata da una nebbia di nuovi dolori. "Darò quel che potrò" disse alzandosi, e passò nella camera da letto. Essa non aveva denari, perché suo suocero amava tener lui i conti della casa; ma pensò che avrebbe potuto disporre liberamente, senza rimorso, di una bella fornitura di corallo, unico avanzo salvato e ricuperato dallo zio Demetrio dal naufragio di casa Pianelli. Questo astuccio era la sola ricchezza che aveva ereditata da suo padre, la sola dote che aveva portato andando sposa. Di questo piccolo tesoro, che per la sua antichità e per il lavoro artistico poteva valere un prezzo, come si dice, di capriccio, essa poteva liberarsene senza correre il pericolo di dar via roba non sua, e poiché l'accusavano d'ingratitudine e di cattivo cuore voleva dimostrare a' suoi che dava quanto aveva di più caro e di più geloso. Aprì il cassetto dove teneva le sue robe più fine, e tra i pizzi e le garze cercò il vecchio astuccio verde dagli orli consumati; ma non ve lo trovò più. Turbata da quel senso di penosa meraviglia che ci assale in questi casi, quando non si osa sospettare della gente che ne sta intorno e non ci si rassegna a credere agli occhi propri, rimandò le sue ricerche a più tardi, raccolse invece due o tre anelli d'oro in uno scatolino, anche questi memorie del passato, vi aggiunse la medaglia d'argento degli esami, e consegnò tutto a Naldo, con un biglietto per la mamma. "Credo che questi oggetti basteranno per ora a impedire un sequestro" disse al Pirello. "Domani manderò altre cose, se sarà necessario..." E, quando furono partiti, tornò col batticuore a cercare il suo vecchio astuccio verde; aprì tutti i cassetti, buttò in aria ogni cosa. L'Augusta, una buona ragazzona friulana, che nei pochi mesi del suo servizio aveva imparato a voler bene alla padrona, la sorprese nel momento che, affaticata, cogli occhi riarsi dalle lagrime non asciugate, tentava inutilmente di rimettere i cassetti a posto. Arabella non poté nascondere il motivo delle sue lagrime. Oltre il bene che la padroncina sapeva acquistarsi colla sua bontà, c'era per l'Augusta un'altra ragione fondamentale che la spingeva a proteggere la sua siora : ed era l'odio accanito che quel pezzo di friulana portava ai siori omeni Questi dovevano avergliene fatta una grossa al suo paese, da dove era quasi fuggita, una grossa a cui non accennava che con frasi e con pugni in aria, ma che non avrebbe dimenticato più, come non si dimentica più un male irreparabile. Nei pochi mesi che serviva in casa Maccagno aveva avuto campo d'osservare che gli omini ominisono malignazi , birboni, egoisti anche a Milano come al suo paese, forse come dappertutto, tranne forse quel povero putelo che scriveva nel mezà , con quegli ocioni neri e grandi come parioli e con quei riccioloni che facevan vogia a vederli. L'Augusta non avrebbe voluto fare la spia, perché non era nata per questo mestiere; ma la siora poteva sospettare di lei e la verità è sacrosanta come la messa cantata. Dopo aver tentennato un pezzo la testa, come se pesasse il pro e il contro, incrociate le braccia al petto, disse inchinandosi verso la padrona, che non cessava mai dal rimestare nei cassetti: " So mi dove che 'l xe sto astucio ". "Parla, dunque." " L'ho visto in te la camera del sior ." Avvertita da un pronto consiglio di prudenza e messa in guardia contro le insidie, Arabella ebbe la virtù di reprimere un senso di stupore e d'irritazione, mostrando di prendere la cosa naturalmente. Mandò l'Augusta fuori di casa con un pretesto, e corse a far nuove ricerche nella stanza di Lorenzo. Era la prima volta, dopo la grave malattia, che osava porre il piede nello studio del signor agente di cambio, trasformato in poco tempo in una specie d'antro o di covile, tanto era il disordine e lo scompiglio della roba. Il caminetto, il tavolino, il letto, erano più che ingombri, sepolti dalle cose più disparate, messe là, buttate là, e dimenticate; stivali, bottiglie di liquori, scatolette, cartuccie, pistole, morsi di cavallo, pipe e giornali illustrati e il tutto condito di quell'acredine speciale che manda il tabacco trinciato di seconda qualità, delizia e ristoro dei cacciatori di forza. Arabella, superata l'afa e la ripugnanza, cominciò a cercare con febbrile impazienza il suo astuccio verde. Che cosa l'aveva persuasa a credere così subito alle indicazioni di una donna di servizio? Non era in istato di rispondere, ma sentiva quasi che la spiegazione data dall'Augusta non poteva essere più vera e più naturale. Cominciò a cercare cogli occhi intorno, sui tavolini e sulle sedie, e non trovando quel che le stava a cuore di trovare, provò ad aprire qualche cassetto della scrivania, colla mano tremante di una doppia emozione, tra il desiderio di ritrovare un oggetto caro e il timore di scoprire qualche cosa di più triste e di più penoso. Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a se stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da cui non era uscito se non come un soldato ubriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale. Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d'ordine e di un'elevata aspirazione. Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito... La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando, cadde sull'astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L'astuccio era vuoto. Vuoto! - Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi. La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri... Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l'avvilì, come se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta. Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un vagabondo gliel'aveva carpito, approfittando d'un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un ladro volgare, nella sua camera... C'era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime: qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva. Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli suo marito è arrivato fino a lei. C'era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna. E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una bellezza maestosa e teatrale. Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo avere deposto il libro, ma nascose l'astuccio e il ritratto nell'ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non poté, come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe. Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido le corse per tutto il corpo, le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni. Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad aspettare che l'acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in fondo al suo cuore non c'era soltanto del dolore... Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio! Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti al palato che rinforzano la fibra. Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe quando vede il furore del suo padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo. Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perché dovesse fargli l'onore d'essere gelosa? E perché avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava? Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben presto che da quell'uomo non poteva venire a lei nessuna umiliazione, che quella donna poteva aver nome anche liberazione. L'enorme mare di ribrezzo, che l'anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla vittima vicina ad affogare. Prese con sé il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno. Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva acquistato un tono più vibrato e sicuro. Qualche cosa di forte e d'individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire... Dio, la ragione, la giustizia, l'opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perché, quando l'Augusta venne ad annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo segnale della battaglia.

Ma nel tracciare i nuovi edifizî non si osservarono con abbastanza scrupolo i confini d'un canale di scarico, dov'era anche una testa di fontana che dava un qualche dito d'acqua ai fondi del vicino. Queste quattro goccie d'acqua tirarono addosso al signor Botta una causa, coll'ordine perentorio di sospendere i lavori. La causa, come sempre, andò per le lunghe e costò un fiume di denari. Finalmente, dopo quasi tre anni di rinvii, di ricorsi, di comparse, di sopraluoghi, di perizie, il signor Botta fu condannato a pagare sotto forma d'indennizzo una somma di lire quindici mila, una volta tanto, al signor Tognino Maccagno, quale amministratore e rappresentante dei fondi di proprietà Ratta. A queste quindici mila lire bisogna aggiungere le spese di processo, gli avvocati, le carte bollate e i conti di fabbrica. La casa nuova rimase lì, né ritta, né seduta, coi muri greggi che invocavano un tetto, ma non c'eran più denari. Vi piovve e nevicò sopra fin che piacque al padrone dell'acqua e della neve, fin che quei poveri muri pigliarono un aspetto di rovina prima ancora di nascere. Di contraccolpo ne soffrì la casa vecchia e il padrone, che tra la rabbia e il dolore, ammalò di mal di fegato con travaso d'itterizia. Beatrice, con tutti i figliuoli indosso (tre del primo letto, tre del secondo), si contentava della sua parte, dava qualche comando alle persone, non badando che fosse eseguito, girava per la casa mal pettinata, mal vestita, trascinando le fascie e la cesta del suo poppante, sfogandosi con qualche vicina intorno ai suoi mali di stomaco, che le facevano sonare gli orecchi e le riempivano il capo di campanelli. Era naturale che Arabella, tutte le volte che usciva dal suo collegio bianco e pulito, si trovasse male in quel vecchio e sgangherato cascinale, tra quei pilastri di vecchio mattone, nel lezzo acuto degli strami che fanno monte in mezzo alla corte. Alle Cascine c'era sempre una stanza riservata a lei, che durante la sua assenza serviva di deposito alle patate ammonticchiate in un cantuccio. Dalla finestra l'occhio poteva scorrere sulla verde distesa dei prati fino all'antica abbazia di Chiaravalle, che usciva da un folto di pioppi e di salici cenericci con una severa e ardita dignità; ma anche in quella stanza dalle pareti ruvide e ruvidamente intonacate di calce, dai grossi travi del soffitto male spiallati, dai quadretti di vetro verdognolo sulle impannate, dal permanente odor di rinchiuso, essa stentava troppo a ritrovare la sua benevolenza, e l'energia di comparire, di operare, di concorrere cogli altri al bene della sua famiglia. E mentre da una parte contava i giorni di andarsene, non poteva sfuggire dall'altra parte a un senso quasi di rimorso di non saper restituire nulla a sua madre e al suo benefattore, in pagamento del bene che le avevano fatto, col darle una buona educazione e col metterla in grado di apprezzare i beni superiori della coscienza e della religione. Se non ci fosse stato un uomo tanto generoso da prendersi tutta una famiglia sulle spalle, che cosa avrebbe potuto essere una povera vedova con tre figliuoli piccini? Quale aiuto avrebbe dato il mondo alla figlia di un uomo che si era ucciso per isfuggire all'infamia di un processo? Queste idee, cozzando colle altre che venivano da Cremenno, facevano spesso un tal tumulto nel suo piccolo cuore che spesso non poteva dormire la notte. Una giovinetta di diciott'anni, educata a tutte le delicatezze spirituali di un collegio di monache, che chiamano peccato ogni filo di polvere dimenticato sui mobili, non poteva adattarsi senza ripugnanza all'unto e al bisunto di cose e di abitudini grossolane, alla materialità di una vita così rasente terra, agli schiamazzi, al vociare continuo, al fumo che i camini rimandano negli occhi, all'untume delle minestre di lardo, al puzzo delle stalle, al linguaggio nudo e mal vestito dei villani, che parlano secondo natura vuole, andando alle cose per le parole più corte. "Il mio collegietto di Cremenno mi è sempre nel cuore" scriveva a suor Maria Benedetta "e in questo basso mondo stento ad abituarmi. "Non può immaginare, mia buona madre, quanta malinconia mi fa la vita dei pallidi astri e dei girasoli, che fioriscono in questo nostro umido orticello, dove la notte vengono a cantare le rane. Mi assale una specie di vertigine quando penso alle mille rose che ornavano la nostra Madonna l'ultimo giorno del mese di maggio. Penso a loro così liete nella santa opera dell'educare e mi spavento quasi della mia inerzia di spirito. Anch'io ho un gran debito da pagare a Dio, e mi pare che ogni notte la povera anima venga a bussare al mio uscio. "A casa mi tornano tutte le memorie del passato e mi par di soffrire per me e per conto di un assente che aspetta tutto da me. Quel giorno che potrò consacrare il mio cuore e la mia giovinezza all'esercizio del bene e alla preghiera perenne, soltanto allora mi sembrerà di aver trovata la mia strada: soltanto allora potrò dormire tutta una notte intera." L'ultima volta che venne alle Cascine tornò a scrivere con più malinconia: "A casa ho trovato nuove tristezze. Questo mio secondo padre, al quale devo pure della gratitudine, mi ha raccontato molte sue disgrazie, da cui non ho afferrato bene che un pensiero, cioè che io son di peso. E veramente che posso fare io per sollevare questo peso? Se è vero che gli affari dell'azienda vanno male, quale rimedio posso io opporre se non è una fervida preghiera a Colui che può tutto? dove potrei pregar meglio che in codesto luogo, dove ho imparato a conoscere il tesoro dei beni spirituali? Ho fatto domandare a Lodi quel che ci vuole per ottenere la patente di maestra e nel prossimo ottobre potrei dare gli esami. Così, se non potrò, nella mia miseria, portare alla Congregazione una dote (e lei sa che di mio non ho che dolorose memorie) cercherò di portarvi un titolo utile e una bella volontà di lavorare." Questo malinconico desiderio di rinchiudersi e di sottrarsi alla tristezza delle cose cresceva in lei fino al patimento, nelle giornate bigie e in quelle piovose, quando il lungo cascinale colle molte bocche dei fienili aperte nella corte, coi porticati tozzi, ingombri di travi, di fascine, di attrezzi, coi tetti neri e lucenti, sgocciolanti acqua nelle tinozze, pareva sprofondarsi nella nebbia e nella mota. In quella scolorita tetraggine com'era triste il vociare delle oche che starnazzano nel pattume! e che indefinita voglia di non essere metteva indosso il piagnucolare del fratellino in fascie, che la mamma non sapeva consolare, un piagnucolare dolente, che saliva dalla cucina insieme al rotto frastuono delle faccende! Tratto tratto la giovinezza voleva la sua parte. Al tornare, per esempio, d'una bella giornata pigliava con sé qualche libro, l'album, il panierino di lavoro e correva colla furia d'una passera spaventata verso una chiesuola detta la Colorina, isolata in mezzo al verde dei prati, a mezza strada tra l'Abbazia e il Camposanto. Più che una chiesa, si poteva dire una vecchia cappelletta votiva restaurata e ingrandita al tempo della peste, non arredata ora che da un povero altare di legno inverniciato con quattro figure smorte su per le lesene sgretolate del muro. Serviva anche di deposito e di magazzino al becchino che vi raccoglieva gli arnesi del mestiere. Là dentro l'aria e il sole entravano liberamente per le finestre non difese che da logore impannate coi piombi scassinati, con ragnatele al posto dei vetri. Entravano nella chiesina le rondini, che avevano i nidi sotto le cornici di gesso; entravano i bimbi e le galline per la porticina sempre aperta sui campi, nella quale nei quieti meriggi di estate soffiava l'aria calda e profumata del fieno agostano ch'essiccava sul prato. Arabella, sfuggendo alla sua malinconia, si rifugiava spesso alla Colorina, costeggiando un lungo canale d'acqua corrente e lucida, chiuso tra due filari di salici. Entrava, e chiuso col saliscendi interno la porta sconnessa, si trovava subito con Dio e colle ultime rondini dell'anno a riflettere sulla sua vocazione, a meditare sui dolori della terra e sulle immense cose che riempiono il cielo, a pregare per l'anima bisognosa del povero papà. Più che leggere nel libro di devozione, leggeva nella pagina azzurra del cielo, che dal suo banchetto vedeva attraverso a una larga finestra ovale: ed era un assopimento leggero di tutti i sensi in una visione senza contorni, nella quale sentiva diluire la sua piccola vita in un mare di gaudio. Era la vigilia della Madonna di settembre. Arabella verso sera affrettavasi a dare gli ultimi punti al bucato della quindicina, di cui aveva davanti una cesta piena, sotto la finestra della sua camera, quando vide entrare papà Paolino più triste e più malato del solito. Si mise a sedere con l'aria stracca dell'uomo sfiduciato, finché in mezzo a dei grandi sospiri uscì a dire: "Puoi darmi ascolto due minuti, Arabella?" Perché non doveva ascoltarlo? il disgraziato era solito sfogarsi con lei quando la passione gli mozzava il respiro. Anche questa volta egli cominciò molto da lontano. Lo avevano tradito perché si era fidato troppo degli uomini. Tutti rubavano, tutti mangiavano addosso a lui, povero uomo, che aveva il sangue alla gola. Tornò a parlare di una certa ipoteca... parola che alla monachella ignorante suscitava l'idea d'una cosa antipatica e odiosa, ostinata a voler fare del male a papà Paolino... Un padre di famiglia, seguitava lui, non può fuggire e rinchiudersi in un convento. Come un capitano di mare, deve naufragare e abbruciare col suo bastimento. San Martino veniva avanti a gran passi, egli avrebbe dovuto rinnovare l'affitto coll'Ospedale, pagare gli interessi al sor Tognino e non aveva i mezzi abbastanza. La causa, i cattivi raccolti, la concorrenza, le malattie, i figliuoli, le spese, l'avevano mezzo rovinato. Bisognava ricorrere alle cambiali, cioè farsi strozzare o liquidare, vale a dire rovinarsi prima del tempo, perché una liquidazione agricola significa perdere le scorte, i foraggi e i frutti del capitale versato sulla terra. E poi dove andare? che cosa fare? se si fosse lumache! ma quando un uomo ha perso il credito, è peggio d'un cavallo che ha le gambe rotte... E tante altre cose seguitò a tirar fuori dal petto quel benedetto uomo, lasciando sgocciolate sulle gote rese fonde e scialbe dal male quelle lagrime, che in presenza di mamma Beatrice si sforzava d'inghiottire in stranguglioni grossi e duri come noci. Arabella l'ascoltò con attenzione, con pietà, con una commozione sincera e profonda, lontana le mille miglia dall'immaginare dove sarebbe andato a finire un discorso così patetico, che somigliava troppo a cento altri, perché ella vi potesse supporre qualche cosa di nuovo. Cercò di mettere qua e là una di quelle parole che hanno bisogno d'una gran fede nella Provvidenza per far bene; ma papà Botta pareva disperare anche della Provvidenza. Da tre domeniche non si lasciava vedere a messa. La sua vita e la sua morte erano nelle mani del sor Tognino. Questo nome di sor Tognino, insieme all'altro di ipoteca, più di cento volte era tornato nei discorsi di papà Botta, come quello di un genio cattivo della sua casa. "Mi dica, papà," chiese con un moto di lenta curiosità "questo sor Tognino non è quello stesso che ha fatto la causa di turbato possesso?" "Lui, precisamente. È un uomo forte, pieno di denari, che mi può fare del male e anche del bene." "Come c'entra ancora?" "C'entra perché io non l'ho pagato... cioè l'ho pagato parte con delle cambiali, parte con delle ipoteche." "Se io potessi capire queste benedette parole..." "Bisogna però esser giusti anche con lui e riconoscere che mi usò sempre della cortesia. Volle mostrarsi forte nel suo diritto, ma non posso dire che abbia abusato della sua forza. La gente vista da vicino alle volte è migliore di quel che sembra da lontano. Io l'ho sempre trovato un uomo ragionevole. È appunto di lui che son venuto a parlarti, la mia figliuola." "Se non lo conosco..." "Egli conosce te." "Che vuole da me questo signore delle ipoteche?" "Ti ha incontrata due o tre volte sulla strada della Colorina, è un signore che passa in una carrozza coperta, con un cavallo grigio…" "Un uomo vecchiotto..." "Ma un vecchiotto in gambe. Possiede San Donato, o se non lo possiede, lo amministra, che è quasi lo stesso. L'ho trovato sabato quindici a Melegnano e venne ad offrirmi del miglio. Poi mi domandò se quella signorina, così e così, che incontra spesso sulla strada della Colorina, è mia figlia. Gli dissi: è mia figlia adottiva, ma è più che mia figlia." Papà Botta si commosse all'idea del bene che avrebbe voluto fare ai figli di Cesarino Pianelli, e che il destino invece... "Lo so, lo so" fu pronta a dire Arabella, posando una mano sopra un ginocchio del suo benefattore. "È una bella e simpatica ragazza", seguitò il sor Tognino, e ha l'aria d'una donnina di talento. Come sarei contento (ripeto le sue parole) come sarei contento se mio figlio sposasse una ragazza così! E io: la nostra Arabella ha tutt'altre idee e non pensa a maritarsi." "Infatti..." si affrettò a dire la fanciulla, sorridendo e arrossendo un poco. "E ci lasciammo, e amen: non se ne parlò più. Comprai il miglio e questo discorso m'era già uscito dalla mente, quando stamattina ricevo, guarda, ricevo una lettera, to'..." e trasse di tasca un foglio "una lettera sorprendente, che non ho osato far vedere a tua madre, perché le donne si scaldano facilmente la fantasia e a me piacciono le cose misurate e ponderate. Sicuro! tu hai già fatto il tuo pensiero, e il tuo pensiero dev'essere per noi inviolabile come il Santissimo sopra l'altare. Prima di tutto la voce del cuore, e per quel che c'è di bello nel mondo, vorrei poter anch'io dare un bell'addio e ritirarmi sopra una montagna. Ma un padre di famiglia è come un capitano di mare. Quando ho sposato tua madre, Arabella, speravo bene di fare la vostra fortuna e Gesù è testimonio che se si fosse trattato del sangue, avrei dato il sangue. Le cose sono andate a male, pazienza! ma crepi io sotto la mia casa prima che domandi il sacrificio di nessuno. Questa lettera nessuno l'ha vista, si può leggere e si può abbruciare. Non te l'avrei nemmeno fatta vedere, se non mi si dicesse d'interrogarti; né io posso rispondere, se non t'interrogo. Leggi e per tutta risposta dimmi un no, un sì, una parola che io scriverò tal e quale al sor Tognino, senza..." Un piccolo singhiozzo ruppe a questo punto un discorso, che il pover'uomo non aveva più la forza di sostenere. Arabella, fattasi più presso alla finestra, lesse nella corta luce del tramonto le seguenti parole: "Mio caro signor Botta, vuol interrogare la buona Arabella in proposito del discorso di sabato? Mio figlio non cerca dote e quando scegliesse una moglie di suo gusto, sono disposto a far qualunque sacrificio. È libero il cuore della popòla ? potrei dire per esempio, al mio Lorenzo di passare qualche volta a caccia da queste parti? La cosa resti tra noi; ma fin d'adesso assicuro il signor Botta che se combiniamo l'affare io giro a mia nuora tutti i diritti ipotecari che posso vantare sulle Cascine. Tra buoni parenti non si guarderà al centesimo; anzi spero di fare un buon acquisto nell'esperienza del mio vicino per il buon andamento dei fondi, di cui sono un meschino e incapace amministratore. Mi mandi una risposta presto e buona". Arabella lesse due volte lentamente fin che le parole regolari e nette della lettera scomparvero nell'ombra della sera. Sebbene còlta all'improvviso, coll'animo caldo d'altri pensieri e a tutta prima l'idea del maritar le sembrasse un'assurdità da riderci su, tuttavia, nel punto di aprir bocca, sentì correre sul cuore qualche cosa come un dubbio, o come un rimorso, che arrestò la deliberazione e la trattenne in una penosa sospensione d'animo. Nel voltarsi a rendere la lettera, scorse il suo patrigno e benefattore raggomitolato sulla sedia, quasi nascosto dal buio, coi gomiti puntellati ai ginocchi, colla testa chiusa tra le mani come in due morse, nell'attitudine stanca e paurosa di chi aspetta una sentenza fatale. A quella vista non ebbe coraggio di togliergli tutte le speranze. La campanella della Colorina prese a suonare i segni del rosario. Pareva una voce che parlasse da lontano, un avvertimento che uscisse dalla tristezza infinita dell'ombra e della pianura. Dal portico saliva il piangere del piccolo Bertino malato, accompagnato da una cantilena della "Bassa", in cui urtavano i ruvidi colpi della culla sballottata fuor di tempo. Al piangere del piccino mescolavansi altre voci di ragazze e di donne, insieme al cigolìo dei secchi, al rotolare delle carriole che rientravano cariche d'erba, nell'ombra sempre crescente del casolare, in cui serpeggiava quasi un senso di paura. Rimasero tutt'e due un lungo tratto in silenzio, occupati, smarriti nella grande quantità di pensieri, che passarono in mezzo tra l'uno e l'altra, che se avessero avuto figura, si sarebbero visti intrecciarsi, cercarsi e sfuggirsi agitati da una stessa passione. Il benefattore non voleva sacrifici, ma perché aveva aperta la questione? La speranza è sempre in ciò che non si ha, e molte volte in ciò che non si vuole. Questo buon uomo, che aspettava una parola di vita o di morte, aveva strappata una povera vedova con tre figliuoli dalla disperazione e dalla miseria e aveva procurato a una fanciulla, senza padre e senza protezione, i mezzi d'educarsi, d'essere qualche cosa, togliendola ai cento pericoli che circondano un'orfanella povera e abbandonata. Quel Dio, a cui Arabella era disposta a sacrificare la sua giovinezza e la sua vita in espiazione, chi sa?, parlava forse per la bocca medesima di un uomo onesto e virtuoso, del quale s'era servito per operare i prodigi della sua bontà e della sua carità. Arabella sentì subito in quel primo e improvviso conflitto di sensazioni e di pensieri che non basta essere santi a questo mondo, cioè comprese che è impossibile diventarlo, se non si comincia coll'essere pietosi e buoni. Non volendo mostrarsi arida e intollerante, si accostò al pover'uomo, che non osava alzare il capo, e gli disse: "Questa lettera, veramente, io me l'aspettavo così poco, che non so che cosa rispondere. Bisogna a ogni modo che io rifletta, che interroghi me stessa. Ne parleremo anche colla mamma. Io non conosco questa gente: e son così lontana dall'idea di maritarmi… Ma intanto si faccia coraggio, papà, non si avvilisca in questa maniera. Ha visto che Dio ci ha sempre aiutati in cento altre circostanze..." Paolino, soffocato dalle lagrime e dalla commozione che suscitava in lui la voce tenera e pietosa della figliuola, alzò un poco la testa, prese la mano della ragazza, se la strinse nelle sue, e voleva dire ancora ch'egli non cercava il sacrificio di nessuno, che aveva parlato solo per iscrupolo di coscienza, che qualunque fosse la risposta, il suo cuore non si sarebbe mutato per rispetto alla sua cara Arabella; ma di tutto ciò non poté dir nulla. Si sentiva un uomo strozzato. La voce della mamma in fondo della scala chiamò a cena, e come se quel grido disturbasse due innamorati, papà Botta scappò via. Arabella raccolse il bucato e chiuse la finestra. Peccato! camminava così serena e sicura nella strada della sua vocazione ed era già così vicina a toccare il porto della sua pace, che la monachella si irritò non senza qualche ragione contro questo improvviso ostacolo e si meravigliò di non trovare in sé il vigore e il rigore delle vere sante, che non odono che una voce. Il dir di no e seguitare la sua via sarebbe stato più naturale e più semplice per lei e anche per la gente che si occupa dei fatti altrui, perché, infine, nulla di più ridicolo d'una mezza monachella che sulla soglia del convento si volta a sposare il primo che capita. Con tutto ciò al di sotto delle prime ragioni andava formandosi e crescendo un'altra convinzione, fatta più di coscienza che di ragioni, una coscienza mista a uno sgomento indeterminato delle conseguenze, che il suo decidersi, qualunque fosse, avrebbe trascinato con sé. Scese anche lei in cucina, come al solito, a cena. In casa Botta, seguitando gli usi antichi, ognuno pigliava un posto a una gran tavola, dov'erano distribuite molte scodelle in disordine, servite senza lusso di tovaglie e di tovaglioli. Un pentolone solo bagnava le zuppe dei padroni e dei castaldi, che tolta la ciotola in mano, sedevano in giro sui sacchi e sui barili a sbrodolarsi lo stomaco. Un'unica lucerna a petrolio rischiarava il vasto camerone, ingombro più che arredato di vecchie tavole, di sedie spagliate e zoppe, di botticelle, di sacchi pendenti dal soffitto, di molta roba usata, inutile o dimenticata, che la pigrizia lasciava lì e il disordine pigliava a calci. Bertino quella sera non fece che piangere tutto il tempo. Era arrivato anche l'attestato scolastico di Maria con delle note scadenti e una lettera scoraggiante del padre rettore. Mario, il maggiore dei due fratelli di Arabella, avrebbe dovuto corrispondere con più riconoscenza agli sforzi e ai sacrifici di papà Botta. La mamma ne aveva gli occhi rossi, ma ordinò alla figliuola di non dir nulla a quel povero uomo. In quella casa si giocava a chi sapeva più bene nascondere: e un male, che si poteva guarire a tempo, si copriva di cenci finché fosse incancrenito. Arabella, vestita d'una divisa scura di collegio, che davale già l'aspetto di monaca, cogli occhi fissi in una scodella d'orzo bollito, sentì tutta la tristezza di quella gran casa in decadenza, una barca sdruscita, troppo piena di roba e di gente, che faceva acqua da tutte le parti, dove ogni sera venivano a radunarsi i rancori, le delusioni, le tristezze di giornate lunghe, piene di fatiche inutili. Quel povero Bertino non cessò mai dal piangere. Era malato, si vedeva, d'un male che nessuno credeva necessario di curare e al quale ognuno dava un nome diverso. Sentendosi anche lei un gran peso alla testa, colse un pretesto e si ritirò prima del solito nella sua stanza, dove si chiuse al buio, per bisogno di raccogliere i suoi pensieri. Perché avrebbe dovuto maritarsi? Quando aveva ella pensato mai che ci fossero degli uomini al mondo e che ad uno di questi uomini avrebbe dovuto legare la vita e l'anima? La sua vita, più ricca di pensieri che di passioni, trattenuta anche dagli spontanei rigori di una natura tenera e delicatissima, più irrigidita che scaldata dall'educazione sistematica della scuola e della chiesa, intimidita dalle apprensioni provate fin da bambina, non conosceva nessuno di quei ciechi fenomeni dell'istinto, che turbano la giovinezza di altre fanciulle. Dell'amore ne sapeva quel poco che una collegiale può capire dai "Promessi Sposi" e dai proverbi della gente onesta, e andava, tutt'al più, a immaginare una tenera e affettuosa benevolenza tra uomo e donna, che ha per misteriosa conseguenza un certo numero di figliuoli. E con questi scarsi elementi della vita essa era chiamata a decidere della sua vita. Chi era questo bravo uomo a cui avrebbe dovuto consacrare la sua benevolenza? L'aveva mai incontrato una volta sulla sua strada? Credeva anche lui in Dio e nel bene? Come poteva dunque esitare a rispondere una parola che la salvasse subito e per sempre da una terribile responsabilità? Presa dalla voglia d'uscire al più presto da un'incertezza così penosa, accese un lume, levò dal cassetto un foglio e cominciò a scrivere a papà Botta i motivi morali che non le permettevano d'accettare l'offerta del signor Tognino. La sua vita, scriveva, era già consacrata allo sposo celeste, e non era la vocazione d'un giorno, ma il pensiero dominante di tutta la sua giovinezza. Per questo voto aveva già ricevuti replicati affidamenti di grazia, talché il venir meno alla promessa sarebbe stato per lei un tradire, un abbandonare sopra l'abisso un'anima bisognosa, l'anima del suo povero papà. In questa convinzione, che le maestre e i confessori avevano più volte ribadita nel suo tenero cuore, la fanciulla si sentì così dotta e agguerrita, che non le mancarono le parole calde e affettuose per convincere sé e gli altri; e dopo tre pagine la sua mano leggera scriveva ancora, come se un angelo guidasse la penna, provando essa stessa una soave emozione nel rileggere parole e frasi scaturite quasi miracolosamente dalla ricchezza del cuore, e che le inondavano il viso di lagrime. Sonavano le nove nel gran silenzio. Alle Cascine eran scomparsi i lumi e parevan già tutti addormentati. Dalla campagna non veniva che il rotolar sordo dei carri che battono la strada grossa, qualche abbaiare lontano di cani, due o tre volte il fischio del vapore della vicina stazione di Rogoredo. La notte era serena e scura, con un cielo gremito di stelle; per tutto un silenzio raccolto, entro il quale bisbigliava lo zampillo d'una bocca d'acqua che dava a bere ai prati. Arabella stava per chiudere la lettera, quando risonò improvvisamente un grido, che fece trasalire il cuore già gonfio e commosso. Pareva la voce della mamma. No, era ancora il piangere dolente di Bertino. Sente uno sbattere d'usci e gente che corre. Poi subito la voce di papà Botta che chiama: "Arabella!" Salta in piedi: "Che c'è?" "Vieni, io corro a cercare il dottore." E sente di nuovo il passo di papà Botta scendere la scala e correre attraverso i campi. "Che cosa c'è mamma?" Corse, entrò nella stanza della mamma e la trovò col bambino in braccio che si dibatteva in feroci convulsioni. La voce del piccino, dopo quel gran grido, usciva soffocata come un rantolo dalla gola e le manine annaspavano con violenza nell'aria, come se si sforzassero di togliere un laccio, lì alla gola. La povera mamma si era accorta da poco tempo che il suo Bertino moriva. Mezza svestita, coi capelli in disordine, bianca come la neve, non sapeva dir altro che: "Gesù, Gesù!" Arabella prese lei il bambino in braccio, spalancò la finestra e ve lo portò in maniera che la respirazione fu subito meno affannosa. Cercò coi diti di schiudere la piccola bocca inchiavata dalla convulsione; ma non poté. Finalmente venne il dottore, che giudicò un caso gravissimo di angina difterica. Bertino, un grassottello roseo, coi riccioli biondi, era il coccolo di tutti alle Cascine, e papà e mamma gli volevano bene anche per quest'ambizione. Ora papà pareva la morte in piedi, e la mamma, dopo aver brancolato un pezzo per la stanza senza conchiudere nulla, finì col cadere svenuta in mezzo alle donne. Il dottore non poté contare che sull'aiuto intelligente di Arabella, che tenne fermo il bimbo, mentre gli bruciavano in gola, soffocando nelle sue braccia i guizzi tremendi del povero angelo, resa forte del coraggio che la donna attinge alla pietà, fatta avveduta e intelligente da quella buona maestra, la natura, che mette nel cuore della donna ciò che la scienza non fa che confondere nei libri. Finita la crudele operazione, la sorella sedette accanto al lettuccio, dette delle ordinazioni, mandò via la gente, comandò che il bimbo fosse suo, notò i consigli del dottore e non si mosse più per ventiquattro ore da quel suo posto, finché durò la tremenda agonia, finché il piccino non ebbe dato l'ultimo respiro. Era la prima volta ch'essa vedeva soffrire a quel modo un'innocente creatura ed era il primo morto a cui chiudeva gli occhi; e le parve, attraverso i patimenti, di veder al di là, nel vasto mistero delle cose. Nella lunga veglia, nel faticoso sforzo dell'animo non sapeva a volte distinguere tra sé e la povera mamma, che andava e veniva come un fantasma. Era un patimento solo che stringeva due cuori; se non che la giovinezza e la baldanza delle forze facevano sentire alla figlia anche una superiorità morale, che la piegava a un senso di protezione verso la povera donna. Senza volerlo si sentì l'anima della casa. Si meravigliò di non aver conosciuto prima quel grande amore che la legava al fratellino, e contemplandolo spirato, provò lo strazio di chi si sente portar via il cuore. Qualche cosa d'irrigidito scioglievasi in lei. Non mai aveva abbracciato con tanta effusione d'affetto e di lagrime la sua povera mamma, che le ricordò nel suo sfasciamento la Madonna addolorata ai piedi della croce. E anche questa stessa pia tradizione di dolori sacri e adorati prese nel suo cuore un significato novissimo di verità, di umanità, di grandiosa comprensione, come se l'umanità saltasse fuori dalle venerate immaginette simboliche della via crucis. Nel dolore immenso conobbe l'amore, si sentì madre anche lei in qualche maniera dei piccini e dei grandi, e quando, dopo un sonno profondo di alcune ore, si risvegliò nella sua stanza e ritornò col pensiero alle cose di qua, le parve di aver fatto un lunghissimo viaggio. Rileggendo la lettera che aveva preparato per il suo patrigno, la trovò fredda e artificiale, e soffrì di non sentirla più come prima. Forse vi sono al mondo per una donna due sorta di vocazioni, di cui essa non aveva finora conosciuta che la più semplice. Nascose la lettera e rimandò la risoluzione del delicato problema a un altro momento. Continuamente ora avevano bisogno di lei. La mamma non faceva che piangere sul cadaverino e in quanto a papà Paolino metteva paura a vederlo. Lungo, scarno, col viso giallo, l'occhio itterico, i capelli irti come setole faceva e rifaceva quelle maledette scale, rispondendo a caso alle domande dei famigliari, alle consolazioni del curato, dimentico degli altri grossi dispiaceri, che per riguardo a questo si rassegnavano a tirarsi indietro. Arabella per mettere una nota di consolazione volle che il funerale del piccino fosse bello e gaio, come si usa in campagna cogli angioletti. Fece sonare a festa e mandò a raccogliere quanti fiori trovò. Preparò essa stessa la bara con molto verde e ordinò alle donne di condurre i bambini, di cui non c'è mai penuria, a ciascuno dei quali mise in mano un ramoscello di mirto. Tutti sentirono la seduzione di quei conforti, e quando il corteo si mosse sotto il sole d'una bella giornata di settembre e cominciò a sfilare lungo il canale pel viale dei salici che mena alla chiesa, tutti avevan gli occhi sopra la monachella, a cui dovevano l'edificazione commovente di quello spettacolo. Il funerale, al ponte, s'incontrò in una carrozza, che si tirò in disparte. Un vecchio signore e un elegante giovinotto saltarono dal legno e stettero col cappello in mano a veder sfilare la processione. Arabella, che veniva in coda alle bambine, credette di riconoscere il cavallo e il legno del signor Tognino e immaginò chi poteva essere il giovane robusto che era con lui. Il cuore, che aveva interamente dimenticato, balzò come al tocco d'uno spillo. Un profondo turbamento scosse il sangue. Il volto pallidissimo, stanco e sbattuto dalle lagrime, si accese improvvisamente d'una fiamma, che parve a chi la guardava dar fuoco ai sottili capelli biondi. Fu, quella la prima volta che Lorenzo Maccagno vide la figlia di Cesarino Pianelli.

Gli daremo del denaro abbastanza perché non abbia a soffrire. Ferruccio ha del coraggio e saprà fare laggiù quella fortuna che non gli lasciano fare a casa sua. Non c'è più nulla di buono da raccogliere in questo vecchio paese. Il signor delegato ha promesso di aiutarci e farà avere stasera un buon attestato. Niente lo lega al suo paese. Vorrei esser libera come lui! veder del mondo, veder della gente nuova..." E poiché la Colomba chinava la testa avvilita, Arabella si chinò verso di lei e le disse piano: "Non aspetterete che ve lo maltrattino, come avete visto fare a quel ragazzaccio..." E a Ferruccio, che la contemplava con occhio fisso e brillante, disse: "Lei non si lascerà mettere le mani addosso". Il giovine scattò dalla sedia e mosse alcuni passi sul ballatoio, colla testa bassa, colla mano dentro i capelli. Quando tornò nel vano della finestra esclamò: "Va bene, son pronto". "Tu, tu non lo dirai a quella povera donna" singhiozzò la zia Colomba, indicando l'uscio della malata. "Basterebbe a farmela morire, e allora resterei qui sola come un cane. A lei e a tuo padre diremo che hai accettato il posto che ti ha offerto il padre Barca, che parti per qualche tempo per Genova." La povera donna, portatosi il grembiule agli occhi, cercò di soffocarvi dentro il gran pianto e la passione che rompevale lo stomaco. Ferruccio le circondò la testa col braccio e vi posò le labbra un pezzo senza piangere. Toccava all'Arabella di far cuore a tutti e due. In quanto alle spese non vi dovevano pensare: essa lasciò subito del denaro per i primi bisogni. Non occorrevano grandi preparativi. Bastava una valigia colle cose più necessarie; perché Buenos Aires è paese civile e ci si trova tutto. Per non dar sospetto alla zia Nunziadina era bene che Ferruccio preparasse le sue quattro robe nell'ammezzato, dove all'indomani essa avrebbe portato il denaro del viaggio. In quanto alle donne e a suo padre, Ferruccio non doveva aver pensieri. Casa Maccagno era in obbligo di dare una riparazione, e non per nulla essa aveva perdonato il male che le avevano fatto. In questi discorsi venne la sera. Prima che fosse buio del tutto Arabella si alzò, e accompagnata dal giovine, andò a cercare ospitalità in casa dell'Arundelli, che per farle posto dovette mandare il marito a casa della nonna. Le due compagne di Cremenno passarono tutta la notte a discorrere di questi grandi avvenimenti, che tenevano la Pianelli in uno stato di febbrile orgasmo. Si vedeva dalla sua inquietudine e dalle sue parole eccitate e nervose che aveva nel cuore una grande ribellione, qualche cosa che non vi doveva essere. La buona e pia Arabella non solo parlava male della giustizia umana, ma parlava troppo di quel benedetto giovine. Temeva che il delegato non avesse a mantenere la promessa: che lo avessero ad arrestare a tradimento: che avesse a commettere un atto di disperazione. E in queste spine si voltò cento volte nel letto, sospirando, rompendo il sonno della compagna, ritornando cento volte su delle discussioni che finirono coll'impensierire l'Arundelli. Appena giorno fu subito in piedi. Si vestì, uscì con un pretesto, promettendo di tornare, corse a San Barnaba per accertarsi che non lo avevano arrestato. Lasciò detto alla Colomba che verso mezzodì li avrebbe raggiunti in via Torino, nello studio, e appena le parve un'ora conveniente, si recò in piazza di Sant'Ambrogio in cerca dell'avvocato. Questi l'accolse cortesemente e non esitò a consegnarle tremila lire, di cui essa lasciò una ricevuta; e stava per andarsene, quando il Mornigani venne ad annunciare il signor Lorenzo. "Bravo non avrebbe potuto arrivare più a tempo" esclamò l'avvocato; "e poiché domani dobbiamo trovarci tutti insieme alle Cascine a benedire col vino bianco questa bella conciliazione, permetta, cara signora, che io ne pregusti le primizie. Brava, eccolo qua..." Lorenzo, nel rivedere sua moglie, abbassò la testa e si fermò sulla soglia, come un ragazzo timido e pentito che aspetta il perdono della mamma. "Avanti, e stringiamoci la mano, cari figliuoli" declamò l'avvocato con un tono paterno e religioso. "Così, bravi! e non si parli più di quel che è stato." Arabella prese la mano che Lorenzo, commosso fino alle lagrime, le stese, e parlando a monosillabi, accettò, acconsentì a tutto quello che l'avvocato credette utile di aggiungere, come se in fondo non si trattasse di lei. E le parve di intendere che Lorenzo si sarebbe recato alle Cascine quel giorno stesso, col tram delle quattro, per accondiscendere all'invito della mamma, che aveva preparata una dolce congiura. Avrebbero potuto tornare insieme e fare ai parenti una bella improvvisata. Mentre un'Arabella rassegnata e indulgente diceva di sì e rimettevasi alla volontà degli altri, un'Arabella più nervosa, meno buona, quasi straniera alla prima, usciva da lei a combattere una battaglia in cui aveva bisogno di restar vinta. Lasciò suo marito ai grandi affari e se ne venne via col desiderio di trovarsi ancora collo zio Borrola, che aveva delle conoscenze in America e poteva dare delle buone lettere di presentazione per Ferruccio. Passando dalla chiesa di San Giuseppe, un bisogno del cuore la condusse a pregare un istante ai piedi di un altare. S'inginocchiò, fissò gli occhi sopra un quadro in cui era dipinto il Transito del santo in mezzo a due schiere d'angeli, e pregò un pezzo cogli occhi, come se non avesse più la forza di formulare col pensiero un'aspirazione. La chiesa raccolta, gelida, immersa in una luce squallida, le mise indosso dei brividi di freddo. Si scosse, venne via, traversò la piazza della Scala e le strade popolate, pensando a nulla, cedendo, più che obbedendo, alla necessità che la riconduceva a rivedere la sua casa. Non pioveva ancora, ma c'erano in aria dei brutti segni. Era una giornata bigia, malinconica, svogliata, col cielo chiuso. Domandò alla portinaia la chiave degli ammezzati e per la scala di servizio entrò nello studio di suo suocero, ancora ingombro di carte e di mobili, che si rimpiattavano nell'uggia e nell'oscurità di quella giornata semipiovosa. Passò nella seconda stanza e vi trovò della roba sparsa sulle sedie. C'eran dei libri, della biancheria. Ferruccio non aveva perduto tempo e stava preparando gli effetti di viaggio fuori dagli occhi della zia Nunziadina. Una valigia nuova era aperta sul canapè. Il giovane era uscito per presentarsi al signor Vicentelli; ma aveva detto alla portinaia che sarebbe stato subito di ritorno. Arabella raccolse alcune cosucce e cominciò a collocarle nella valigia, come aveva fatto molte volte pe' suoi fratelli alla vigilia del loro entrare in collegio. I rumori della città viva e grande che agitavasi intorno venivano dalla viuzza a urtare contro la polverosa finestra di quell'antro offuscato, in cui l'odor di chiuso s'inaspriva nell'acredine del vecchio inchiostro. Un cappello molle di campagna dimenticato sull'attaccapanni, richiamò la memoria di un uomo, che aveva finito di combattere le sue battaglie. Dio può perdonare al peccatore, ma i frutti del male devono di necessità rigermogliare sulla terra. Isolata nel suo dolore essa non viveva che di questo, come se ogni altro sentimento l'avesse abbandonata; e nel suo sentimento cercò d'immergersi, sperando di trovarvi l'attutimento dei sensi. Piangeva in silenzio, d'un pianto interno, su chi partiva e su chi restava, mentre le mani rimestavano macchinalmente nella sacca. Tra le carte sparse sulla scrivania riconobbe dei foglietti scritti di sua mano. Erano alcune pagine della lettera, che in un momento di eloquente disperazione essa aveva scritta in casa della Colomba allo zio Demetrio e che non era stata mandata a destinazione. Ferruccio voleva portarsela con sé come una reliquia. Arabella rilesse alcuni periodi colla dolente curiosità di chi rivede il proprio ritratto d'altri tempi, e si ritrova diverso, pur riconoscendo se stesso. Ora non avrebbe saputo scrivere così. Il suo cuore era più rassegnato: chi sa? forse più morto. Sul rovescio d'una di quelle paginette, obbedendo a una pietosa ispirazione, scrisse queste sentenze: "Il patimento avvicina e redime le anime, ci colloca in alto sul divino Calvario, da dove si domina la valle dei bassi egoismi. "Vi è qualche cosa di più triste che l'esser soli: è il non poterlo essere quando lo si sospira. "Morir soli è triste. Ma più triste è dare spettacolo della propria agonia in una fiera. "Non vive inutilmente chi sa ispirare una vita onesta e generosa." Scriveva queste idee non sue come per reminiscenza o per incantamento senza accorgersi che Ferruccio, entrato poco prima, aspettava timidamente sulla soglia. Da tre giorni la vita del giovane Berretta non era più che un seguito di movimenti automatici, di corse, di sgomenti improvvisi, di occupazioni frettolose e materiali, ch'egli eseguiva in seguito a spinte più forti di lui. Quando essa si accorse ch'egli era presente, gli disse senza turbarsi: "Leggerà, è un mio ricordo. Le ho portato il denaro per il viaggio. Son tremila lire che potrà far cambiare in oro a Genova. Questo denaro è mio, e intendo che lei lo abbia a ricevere come un'indennità ai danni morali e materiali che abbiamo recato a lei e a suo padre…" "Lei?..." balbettò il giovane, quasi protestando. "Sì, noi tutti... via! non stia a distinguere. Spero che il signor Galimberti avrà mandato l'attestato promesso. Vada con coraggio: suo padre riavrà il suo posto e non mancherà di nulla. Queste son due lettere per un'agenzia teatrale di Montevideo: e se si ferma qualche giorno ancora a Genova, avrò tempo di farle pervenire qualche altra commendatizia per i padri Cappuccini di laggiù. Sono raccomandazioni che litigano un poco tra loro" soggiunse ridendo, per rompere la malinconia di quel discorso "ma in un paese lontano si può aver bisogno di tutti. Lei saprà distinguere, del resto. Ha parlato con Vicentelli?" "Sissignora, pare che fino a lunedì non si possa partire." "Avrei piacere che potesse partire più presto. Per fortuna abbiamo un buon angelo nel delegato: possiamo stare coll'animo tranquillo. Ho qualche obbligazione anche verso la buona zia Colomba. Se potessi vederla prima di andar via..." "Verrà qui a momenti." "Se non la vedo, la preghi di accettare questa spilla in memoria della carità che mi ha fatto..." Si tolse dal petto una spilla d'oro e la consegnò al giovine, che mormorò qualche parola di ringraziamento. "Mi mandi qualche volta le sue notizie. Intanto io non tralascerò dal far le pratiche, perché le sia levata anche questa piccola condanna. Farò parlare e andrò io stessa dall'arcivescovo, che dice di aver verso di me qualche obbligazione. Monsignore è in buoni rapporti colla Corte e so che in certe occasioni quando non si tratta di delitti comuni si concedono amnistie speciali. Intanto non è male vedere dei paesi nuovi." Ferruccio, appoggiato colle spalle allo stipite dell'uscio, trasse un sospiro coperto come se patisse in sogno. Cogli occhi bassi, pareva tutto occupato a decifrare i disegni di un fazzoletto che teneva stretto e teso in uno sforzo nervoso colle due mani. Arabella si mosse e toccò qualche libro di quelli che erano sparsi sul tavolo e sulle sedie. "Questo è latino: bravo. Un Virgilio... Fa bene a tenersi in esercizio. Badi a non diventarmi un cappuccino anche lei..." E si volse a ridere ancora per invogliare il giovine a uscire da una tristezza, che li avviliva entrambi schiacciandoli. Vedendo ch'egli non osava alzare gli occhi dopo aver accomodate alcune cosuccie nella valigia, la signora si aggiustò un lembo del velo sul capo e sulle spalle, guardò a lungo l'orologio per fissare l'animo e la volontà in uno sforzo supremo sopra un oggetto che la sostenesse, e quasi correndo verso di lui gli tese la mano con piglio soldatesco, esclamando: "Dunque, addio!" Ferruccio vacillò, appoggiò le braccia al muro, alle braccia appoggiò la testa per nascondere e per soffocare un pianto, che non era più capace di dominare. Arabella si passò lievemente la sinistra sul volto per rimuoverne una nuvola oscura che l'avvolse, socchiuse gli occhi con un abbandono d'infinita stanchezza, si avvicinò, gli posò le mani sulle spalle, vi si appoggiò, e parlandogli nell'orecchio, ebbe ancora la forza di aggiungere: "Senti, anch'io ho bisogno di coraggio. Il tuo piangere mi avvilisce. Anch'io devo partire tra pochi minuti. Mi aspettano... Se è vero, Ferruccio, che tu mi vuoi un poco di bene, non devi farmi soffrire così." Il figlio della povera Marietta a quella voce che spasimava si rivolse, si drizzò sulla persona, e premendo il fazzoletto sugli occhi, cercò anche lui di essere forte: ma non poté dire che queste due parole: "Madonna, aiutatemi..." Era accecato dalle lagrime e dal dolore. Sarebbe forse stramazzato in terra, se le due braccia della signora non l'avessero stretto e sostenuto. Sentì il calore d'un viso ardente sul suo: sentì sulla fronte e sui capelli una furia di baci ardenti, sentì due mani gelide che gli serravano la testa: ma non osò, non poté aprire gli occhi. La sua vita precipitava in un abisso vuoto, oscuro, senza fondo. La Colomba, che entrata non vista, assisteva da mezzo minuto a quella scena, cercò di separarli. "Certo che voi morirete e ci farete morire anche noi. O Madonna dell'afflizione, abbiate misericordia!" E strappando Ferruccio per un braccio, gli disse con accento sconvolto misto di pietà e di rimprovero: "Basta il patimento, Ferruccio. Basta per amore della tua mamma. E tu, figliuola vieni con me. Non sta bene. È una tortura per tutti: insieme al cuore si perde l'aiuto di Dio." Con queste parole riuscì alla donna, inframmettendosi, di separarli. Ferruccio cadde su una sedia. Presa Arabella come una prigioniera, non senza qualche violenza toccò ancora alla Colomba di metterla fuori, nell'altra stanza, dove, carezzandola e persuadendola: "Andiamo," le disse "non si faccia vedere così: non sta bene." Chiuse l'uscio dietro a sé, le trasse di tasca il fazzoletto, con questo le asciugò gli occhi, le ravviò colle mani i capelli, le ricompose il velo, le pieghe, la rimproverò, la compatì cogli occhi. "Non sta bene neanche per l'anima. Offra al Signore quest'altro patimento. Vada dalla sua mamma. Pensi a quel che soffriamo anche noi. Pensi alla notte che dovrò passare, quando sarà partito quel ragazzo. Dio la benedica per il bene che gli vuole, ma vada via, vada via." E bel bello la spinse fin sull'uscio della scala. Sul punto di mettere il piede sul pianerottolo, Arabella con moto sdegnoso cercò di resistere ancora un poco, attaccandosi al battente dell'uscio. Sentendo uscire quasi un gemito dall'altra stanza, fece l'atto di gettarsi ancora verso la porta; ma la Colomba le si avviticchiò alla persona: "No, lascialo stare, lascialo piangere..." Arabella scese a precipizio le scale, mentre la Colomba serrava dietro di lei la porta con un giro di chiave.

Aveva visto abbastanza. Poteva tornar indietro... Era una casa maledetta, dove il suo povero papà aveva cercata la morte. C'è una mano cattiva che conduce e rimescola le cose. In quella casa, suo marito, dopo aver cicalato una mezz'ora in una poltrona, accanto a sua moglie, nell'obesità della digestione, veniva a distrarsi con un'altra donna. Voltò per tornare indietro, con un velo di lagrime steso sugli occhi, nell'umiliazione; ma poi le parve che al suo interesse non bastasse il vedere, bisognava essere veduta, e carpire una prova di più contro i sofismi della bugia. Sciocca e indegna del nome di creatura umana, se non osava rivendicare i diritti della sua dignità di donna onesta! La natura, la legge, l'opinione pubblica, la religione erano dalla sua parte. Dove manca uno scopo al martirio, non può essere santo il prosternarsi nel fango e il permettere che altri ti passi coi piedi sul corpo... Di questi concetti non rilevava che le ombre gettate rapidamente sul fondo dell'anima, come le immagini sfigurate d'una lanterna magica, in mano a un ragazzo inquieto, balzano sul muro. I piedi obbedirono all'istinto e la portarono alla casa. Entrò, e, prima che avesse tempo di pentirsene, si trovò nel bugigattolo del portinaio. Il Berretta non c'era. Il signor Tognino gli aveva trovato un altro posto. Sul tavolo fumigava in mezzo ai frastagli alle pezze e alle filaccie una meschina lampadina a petrolio, che riempiva del suo puzzo e della sua luce rossastra il piccolo covo disabitato. La fiamma non bastava a rischiarare che una porzione del portico e i primi gradini della scala. Nel resto il buio fitto involgeva la corte e gli anditi segreti di quella vecchia casa, dove Lorenzo veniva a cercare un compenso all'ineffabile noia della sua casa fresca, pulita, illuminata e impregnata d'una soverchia quantità di virtù casalinghe. Arabella, aspirando con fremito nervoso l'odore acuto del petrolio, non sentì paura di trovarsi sola, in quell'ora, in quel luogo, in quell'avventura, come se le tenebre e il triste silenzio della tana suscitassero in lei delle seduzioni meno buone, delle vertigini dall'alto in giù; ma la voce di Lorenzo e il suo passo pesante che tornava indietro l'invasero di un subito spavento. Non potendo fuggire, si ritirò dietro un pezzo di paravento logoro, che nascondeva la cucina del portinaio. Lorenzo scese di corsa, soffiando. Chiamò due o tre volte: "Carlino!" Ma non vedendo uscir nessuno, andò nella strada brontolando. "C'è 'sta carrozza?" domandò dal mezzo della scala una bella voce di contralto, che fece scattare Arabella dallo sgabello su cui s'era accovacciata.

"Hai tu abbastanza da vivere?" "Nulla, sai bene." "È vero che tuo marito, in ogni modo, ha l'obbligo di concorrere..." "Non voglio nulla da quella gente. Piuttosto la fame." "Caro il mio angelo, anche la fame è una brutta cosa." "Non è la peggiore..." "Tu sei giustamente irritata e parli come sente il cuore; ma il cuore non è soltanto lui il padrone di casa. Vediamo un po' di ragionare sul caso tuo. Tu non vuoi tornare in famiglia, non vuoi accettare nulla da tuo marito, non puoi bussare alla porta delle monache..." A questo punto fu picchiato all'uscio. Maria, interrompendo la dolorosa argomentazione, soggiunse: "Scusa, dev'essere la mia nuova donna di servizio. Me l'hanno mandata ieri da Pallanza e non distingue il dritto dal rovescio d'un padellino. Ci vuole una pazienza!... Mi tieni un istante il piccino?" Maria collocò il bamboccio roseo e trasudato come se lo distaccò dal seno sui ginocchi di Arabella, e, trottolando coi grossi fianchi, corse a vedere quella benedetta ragazza. Arabella sollevò il bimbo mal fasciato che sgambettava, guardandola coll'occhio largo e beato dell'uomo soddisfatto, strabuzzando la boccuccia sotto gli sforzi della digestione. Quando ebbe digerito, fece un sorrisetto che illuminò la sua faccia di galantuomo senza denti, ma non trovò nessuna corrispondenza da parte della bella signora. Si sarebbe detto, al modo con cui Arabella stava a guardarlo, coll'occhio fisso e metallico, che le fosse antipatico o che provasse del dispetto a stare con lui. "Tu non puoi bussare all'uscio delle monache" riprese Maria ritornando "e non puoi andare a fare la serva." "Tu puoi aiutarmi". "Come posso aiutarti?" "Tua sorella Clementina è ancora direttrice dell'Ospedale dell'Annunciata a Genova." "Non è più direttrice, perché l'hanno nominata madre superiore; ma l'Ospedale dipende ancora da lei. Dopo l'arcivescovo è la prima autorità ecclesiastica della città; la chiaman la papessa. Ma tu non hai voglia di ridere, povero cuore. Ebbene che possiamo fare per te?" "Quelle buone monache non hanno in Genova una casa di rifugio?" "Hanno infatti un rifugio per i vecchi e per le miserie che nessuno riceve." "Dunque troverò anch'io un rifugio." "Che pensi, che cosa dici? va via, andiamo..." esclamò in tono di rimprovero Maria Arundelli, stringendosi al petto il suo marmocchio. "Maria, se anche tu mi abbandoni..." "Io non ti abbandono, ma tu adesso sei alterata dal dolore e parli a sproposito. Ti aiuterò certamente, ma non mi pare il caso di avvilirsi a questo modo e di disperare della Provvidenza." "Non nominare la Provvidenza. Sapessi, Maria, quante volte fui sul punto di negare questa Provvidenza che ci hanno insegnato a invocare nelle nostre necessità. Che cosa ha fatto Dio per me dal giorno che sono venuta al mondo? quando ho avuto un giorno di gioia serena e intera? Da bambina ho sofferto spaventi e strazi di cuore, che mi spaventano ancora e mi fanno trasalire la notte quando mi addormento male. Tu la sai la mia storia. Ho fin patito la fame... Ho chiesto a Dio di poter abbandonare il mondo, e mi hanno risposto che il dovere era di restarci. Ebbene, che cosa ho guadagnato dal mio sacrificar tutto, vocazione, simpatie e fin la mia creatura? e chi ha guadagnato almeno per conto mio? nessuno. Io non ho cambiato nulla, non ho migliorato nulla, il fango è rimasto fango, anzi il fango è cresciuto intorno a me e invece d'amore, vedi, non ho raccolto che oltraggi, odio, tradimento. No, Maria, no: non ne posso più. Non ho più forza per resistere all'onda di questi mali. Se finora ho vissuto inutilmente per gli altri, è tempo ch'io cominci a vivere non inutilmente per me, perché" (e Arabella nel dir queste parole alzò il capo con qualche fierezza) "con questo veleno nel cuore io non posso piacere a Dio e non è con questa disperazione, che mi soffoca anima e respiro, ch'io potrò meritarmi il suo perdono. Se io resto ancora un giorno nella compagnia di questa gente, la disperazione, Maria, potrebbe montare dal cuore alla testa e allora c'è la pazzia, mia cara, c'è qualche cosa di peggio..." La figlia del povero Cesarino Pianelli si attaccò con una forza nervosa al braccio dell'amica, come per sostenersi contro un pericolo nei dibattiti convulsi del suo dolore. Chinò la testa: da accesa divenne di nuovo pallidissima e mormorò come se parlasse a se stessa: "Non ho mai compatito tanto il mio povero papà come in questi giorni..." "O Madonna, tu le perdona perché non sa quel che dice" interruppe vivamente la buona e devota Maria, coprendo colle braccia il bambino, perché non sentisse le brutte parole. "Provassi! ci son dei momenti in cui pare così necessario e così bello il morire..." "Tu sei malata, la mia figliuola" gridò la povera Maria: "tu non pensi, tu non le senti le cose che dici. Scriverò subito a mia sorella, se ciò può farti un po' di bene." "Dille che son disposta a tutto: a far scuola, a servire malati, a rattoppare dei cenci, a tutto, purché sia in un luogo dove possa dimenticare quella che sono stata." "Io farò quello che vuoi, ma promettimi che non dirai più cose spaventose. Tu mi hai fatto piangere anche Napo... Non piangere così, Napo..." prese a cantarellare al bimbo che strillava per conto suo "non ha detto sul serio la zia Arabella. Adesso l'hanno fatta soffrire ed è molto malata. Quando diverrai grande capirai anche tu, Napo, che cosa voglia dire soffrire. Anche tu ti troverai in mezzo a un mondo di tormentatori e di tormentati, ma non ti piacerà far piangere la gente, vero, Napo?" Sentendo che essa stessa non sapeva più resistere alla commozione, la buona Maria si portò il suo bimbo alla bocca, in atto di divorarlo, e soffocò i singhiozzi, asciugando alle carni molli le grosse lagrime, ripetendo la cantilena dell' Ara, bell'Ara , mentre Arabella stringevasi e contorcevasi come una foglia secca nel gelo della sua tristezza. "Promettimi che non farai piangere nessuno" seguitò la mamma cullando il bambino stretto sulla faccia "e se gli altri faranno piangere te, vieni sempre dalla tua mamma, ve', Napo: io ti beverò le lagrime, io mi piglierò i tuoi dolori, ma non maledire mai il giorno in cui ti ho messo al mondo, la mia creatura; non far questo torto alla povera tua mamma, che t'ha messo al mondo con tanti dolori e con tanta gioia. Tu non hai sentito quel che ha detto la zia Ara: non credere alle sue parole. Essa è troppo buona e troppo intelligente per ammettere che i cattivi all'ultimo abbiano a vincerla sui buoni. Essa non vede che il male in questo momento, e non ricorda tutto il bene che ha ricevuto nella sua vita e quel tesoro di beni che la facevano a scuola un modello di virtù, di buon esempio, di talento, di grazia, il tesorino delle maestre, la delizia delle sue compagne. Essa non ricorda il bene che ha ricevuto dal suo benefattore e il bene che gli ha fatto, salvandolo dalla rovina e dalla disperazione. Essa non fa nessun conto del bene che le vogliamo noi, io e te, Napo, per esempio, e parla di voler morire, così, come se non le importasse nulla di chi le vuol bene..." Arabella cadde in ginocchio e si appoggiò all'amica per chiederle perdono: ma non poté pronunciare una parola. I suoi occhi non davan lagrime e portavano dentro una forte risoluzione. Essa chiedeva perdono all'amica, ma lasciava capire che avrebbe combattuto per la difesa della sua dignità. L'uscio in quel momento si aprì e dietro alla ragazza di servizio comparve la Colomba. Questa alla sua volta, volgendosi, fece l'atto di presentare qualcuno che le teneva dietro dicendo: "Guardi chi ho condotto con me." E subito dopo, Arabella vide entrare la sua mamma. Il signor Tognino aveva mandato a pigliarla fin dalle prime ore della mattina. In casa Maccagno essa s'era incontrata colla Colomba, che veniva a implorare misericordia per il Berretta, per Ferruccio, per sé, per i vivi e per i morti. Questa poté dire ove si trovava Arabella, e si offrì di accompagnarla. Arabella le andò incontro con un sorriso addoloratissimo, e stringendole le mani nelle mani, con uno stiramento convulso dei muscoli, non seppe balbettare che il nome di... mamma. Mamma Beatrice, ansante per le scale fatte in fretta e per l'emozione, si lasciò cadere sul divano, e facendo sedere la figliuola, aspettò che questa parlasse per la prima. La Colomba e Maria sedettero sulle poltroncine davanti. Nessuna osava rompere il silenzio e tutte avevan gli occhi su Arabella. Parevano donne convenute nella casa d'un morto a piangere. Fu la Colomba la prima a rompere il silenzio. Raccontò la sua meraviglia, quando s'era vista comparire la sora Arabella in casa con un tempo disperato: raccontò la visita fatta al sor Tognino e come costui l'avesse ricevuta bene, e avesse dichiarato di esser disposto a ritirare la denuncia contro il Berretta, purché Arabella tornasse a casa e si perdonasse un poco da tutte le parti. Così stando le cose, alla Colomba non pareva il caso per il momento di irritare il sor Tognino, considerando che c'erano in lui delle buone disposizioni, e per conto suo veniva a pregare la buona sora Arabella ad aver dell'indulgenza anche lei per riguardo a un povero vecchio, che marciva in una prigione, per pietà di un povero giovine malato. Non c'era tempo da perdere: si fa presto a morire. La sora Arabella aveva visto in che stato giaceva il figliuolo: orbene essa aveva già dato a Ferruccio delle lusinghe, gli aveva detto cioè che il sor Tognino non avrebbe insistito più nel processo. Ma se il sor Tognino si metteva a giocare di puntiglio, chi salvava da una catastrofe? "Nessuno più di me sa capire e compatire" seguitò la buona donna coll'eloquenza che vien dal cuore e dal proprio interesse "ma se questo primo passo verso la conciliazione può portar subito del bene, io non vedo perché dal bene abbia in seguito a derivare del male. I conti si aggiusteranno strada facendo; ma intanto il sor Tognino ha detto: ' Arabella torni a casa e farò quel che vorrà; ma prima torni a casa '. Io parlo, cara la mia creatura, per la vita e per l'anima della mia gente: la sua mamma le dirà il resto." "E il resto è molto semplice ed esplicito" soggiunse mamma Beatrice con un tono fra l'accorato e il sostenuto. "Tuo suocero non ti dà torto, ma disapprova il modo con cui hai creduto di ottenere ragione per forza. Egli è nemico degli scandali e delle pubblicità e pare che quella donna che tu hai offeso..." "Io?..." scoppiò a dire con una risata ironica Arabella. "Abbi pazienza, tu potrai aver cento ragioni, ma non ti deve piacere di mettere i tuoi dolori in piazza. Il sor Tognino è disgustato appunto per la scenata di ieri sera, che servirà ai suoi nemici per muovergli guerra. Vedrai, ne parleranno anche i giornali... Oh! a te non te ne importa; ma devi pure ricordare che il sor Tognino ha fatto del bene alla tua famiglia." "Sì?..." interrogò con una punta di canzonatura Arabella. "Sì, sì, ne ha fatto del bene, a tuo padre e a tua madre. Ad ogni modo è uomo che, disgustato oggi, potrebbe domani rifarsi del bene che ha fatto, e allora? credi che papà Botta non deva tutto a lui, se oggi non è con cinque figliuoli sopra una strada? tu non guardi che alla tua passione, al tuo interesse e dal giorno che ti sei maritata hai sempre affettata una specie d'indifferenza per la tua famiglia. Ma se ti fossi occupata di leggere anche negli interessi di casa, avresti visto che papà Botta oggi sta in piedi solamente perché il sor Tognino lo sorregge col suo credito: e che se domani si dovesse venire a una liquidazione, non è certo il sor Tognino che deve del denaro a tuo padre e a tua madre. È subito detta una divisione! ma una divisione coniugale oggi vuol dire una liquidazione di conti. Oh il sor Tognino su questo punto stamattina mi ha parlato chiaro. O Arabella torna in casa e si rimette alla nostra discrezione o io non conosco più casa Botta. Grazie del complimento! Ciò vuol dire in poche parole una rovina peggiore della prima. Ora io non so se i tuoi diritti, se il tuo vantaggio, se il tuo puntiglio valgono proprio la disperazione di una famiglia, e se potrai essere contenta il giorno che per odio a quella donnaccia saprai d'aver messo su una strada il tuo benefattore e la tua povera mamma..." Mamma Beatrice si portò il fazzoletto agli occhi. Arabella fece un gesto colle mani per togliersi dagli occhi un velo di nebbia, che le nascondeva la vista delle cose. "Creda pure, cara figliuola," entrò ancora a dire la Colomba, ribadendo il chiodo caldo, "creda pure che il diavolo visto da vicino è meno brutto di quel che dicono. Lei è giovine e fa bene ad avere della poesia e anch'io, sa, ne' suoi panni, avrei menato non una, ma tutte e due le mani. Ma creda a me che son la più vecchia. Negli uomini non è sempre questione di cuore. Si sa, anche nostro Signore ha detto che la carne è fragile e un giovinotto non può tutt'a un tratto farsi eremita. L'esempio gli sarà servito, ma a tirar troppo si rompe la corda, mentre l'esperienza insegna che piglia più mosche una goccia di miele che un barile d'aceto. Io non so se mi spiego, ma vorrei dire insomma che in queste cose non bisogna dar troppa importanza alle prime impressioni. Io ho visto in cento altre occasioni dei mariti senza conclusione stufarsi sinceramente, tornare alla famiglia, diventare mariti modello, padri di famiglia eccellenti, tutto per merito di una brava donnina, che aveva saputo perdonare a tempo. Questo in tesi generale. Nel caso suo speciale, il mio angelo, ci penserei dieci volte prima di assumermi una responsabilità, perché, come ha sentito, c'è in gioco il bene, la vita e la morte di molt'altra povera gente." Arabella, che aveva fin qui ascoltato con pazienza e docilità, alzò il capo e sbarrò gli occhi, come se cominciasse a dubitare che si trattasse veramente di lei. Maria Arundelli pensò a non lasciar cadere in terra il discorso: "Una moglie che si divide dal marito" disse "ha sempre un poco di torto. Una divisione è sempre uno scandalo o è un rimedio che non ripara nulla, e che non fa che allargare il male, creando due spostati, ci dà in pascolo alle ciarle e alle maldicenze della gente, che non è sempre disposta a compatire. La gente non ammette mai che il torto sia tutto da una parte: va a supporre che dall'altra parte ci sia stata almeno della freddezza, della poca buona volontà, della indifferenza di cuore, e fortunata la donna di cui non si pensa che questo! Una donna divisa dal marito è un oggetto di malsana curiosità per i buoni e per i cattivi. I primi pensano che abbia fatto troppo poco per andar d'accordo; i secondi che abbia fatto troppo per non andar d'accordo. Gli uni diranno che pretendevi troppo; gli altri che sei rigida, intransigente, bigotta... e, scusa ve', o che avevi un amante." "Ah...!" fece Arabella, schiudendo la bocca a una esclamazione di stupefazione. Parlavan proprio di lei? "Non offenderti. Tu hai troppo buon cuore e troppo buon senso per non tener conto del bene che puoi fare e del male che puoi risparmiare. Qui si tratta di scegliere tra due mali il minore per te e tra due beni il maggiore per gli altri. Un bel partito sarebbe di dare un addio a queste tribolazioni e di rifugiarsi in una grotta a meditare sulla vanità e sull'afflizione delle cose di quaggiù. Ma dove non arriva la voce e il rumore del mondo, arriva sempre la voce della coscienza, il dubbio, lo scrupolo di aver comperata la propria pace a prezzo d'indifferenza, di aver sacrificato troppo all'amor proprio. Quando Arabella sentisse, per esempio, che il suo secondo padre e benefattore è stretto nei bisogni, che la sua povera mamma non trova pane pe' suoi figlioli..." "Che un povero vecchio muore in una prigione, mentre si poteva..." "Mentre si poteva guadagnare la benevolenza e le benedizioni di tutti..." "Mentre si poteva evitare degli scandali." Arabella si alzò. Le labbra si mossero coll'intenzione di dire: andiamo... ma non ne scaturì che un fremito. Fece qualche passo come se cercasse di svincolarsi da tutte quelle mani amorose, che la tenevano prigioniera, da quelle parole, da quelle tenerezze che l'avviluppavano da tutte le parti. Mamma Beatrice avvertì questo primo momento di debolezza, e, tirandola in disparte nel vano della finestra, le strinse il volto nelle mani e proseguì sottovoce: "Sai che cosa mi ha detto tuo suocero? che se tu ti fidi di lui e torni a casa, buona buona e obbediente come prima, non solo farà cacciar via quella donna e obbligherà Lorenzo a volerti bene, ma mette a tua disposizione una somma, perché tu possa disporne per le tue opere di carità. Egli voleva ad ogni costo mettermi in mano duemila lire, sapendo in che imbarazzi si naviga; ma io gli ho detto: ' No, sor Tognino, io non posso riceverli che dalle mani di Arabella. Quando Arabella sarà tornata a casa sua e avrà dato segno d'aver perdonato e dimenticato, allora soltanto potremo accettare senza rimorso qualche sussidio: prima no '. Duemila lire in questi momenti sono per noi più che una bella giornata di maggio; ma tu non soffriresti mai che noi accettassimo la carità da gente che non conosci e peggio da gente a cui vuoi male. Mentre se tu ritorni, puoi mettere dei patti nuovi e puoi domandare anche un risarcimento, non ti pare, Arabella? Vieni, fidati di tua madre, che ne ha passate di peggiori e che ha sempre messo in disparte il puntiglio e la vanità, quando si trattava del bene dei suoi figliuoli. Lorenzo capirà i suoi torti, tornerà a volerti bene, e tu potrai vivere da signora come prima; mentre io, quando il tuo povero papà mi ha lasciato sola a quel modo che sai, non avevo nemmeno da mangiare. E che spavento! e che disonore... Eppure gli ho perdonato e tornerei a volergli bene ancora se comparisse..." Un torrente di lagrime impedì a mamma Beatrice di continuare un discorso, ogni parola del quale cadeva come una pietra acuta sul cuore di Arabella. Non ci voleva che l'evocazione di una triste memoria e di un fantasma non ancor morto del tutto, per debellare l'ultima sua fortezza, per annientare quel rimasuglio d'orgoglio, che la faceva ribelle e ripugnante al suo destino. La condanna del suicida non era ancora scontata del tutto; e bisognava ch'ella mostrasse almeno di perdonare a' suoi persecutori, se voleva che gli altri perdonassero a una povera anima in pena. Non aveva promesso a Dio di consacrare la vita in espiazione? Ebbene, questa era la espiazione. Ai martiri non si concede la scelta del martirio. Come se si svegliasse da uno strano sogno, le parve di ritrovare in se stessa la buona e docile Arabella di Cremenno, arrossì un poco di vergogna, come una bambina colta a commettere un piccolo furto campestre fuori del suo orticello; strinse la mano della mamma, baciò l'Arundelli sul viso, sorrise a tutto ciò che la Colomba, ridendo e corbellando, le raccontò nel discendere le scale, si lasciò condurre per tutto il lungo del corso Genova, fino a un caffè del Carrobbio, dove la mamma la persuase a prendere una bevanda calda o a bagnare un biscotto nel vermouth... Esse avevano bisogno di scaldarsi e di rinforzarsi lo stomaco. Accettò il vermouth e il biscotto; disse sempre di sì col capo a tutte le questioni della mamma; sorrise due o tre volte anche a lei, mostrando tutte le buone disposizioni di perdonare. Ma non pronunciò una parola tutto il tempo, come se la voce fosse morta nel petto. Gli occhi fissi alla vetrina innanzi alla quale si agitava il turbinío di un popoloso quartiere nella piena luce d'una bella giornata d'aprile, essa, più indifferente che turbata, preparavasi a soffrire fino alla fine... o fin quando era necessario.

"C'è abbastanza per cacciarti in galera. Aspetta." Si mosse ancora dal suo posto e buttata nella viuzza un'altra rapida occhiata, notò molta gente sulle botteghe, riconobbe l'albergatore, il tabaccaio, il lattivendolo, qualche altro, dei quali volle scrivere i nomi nel verbale, per chiamarli tutti come testimoni d'accusa nel terribile processo d'ingiuria, oltraggio e diffamazione ch'egli avrebbe domani intentato all'ortolana e a' suoi compari. Oh se li avrebbe fatti ballare! "Ferruccio!" chiamò a mezza voce, aprendo un poco l'uscio verso la scala. Il giovinetto, colle convulsioni nelle gambe, era disceso in corte e andava cercando cogli occhi qualche sorvegliante o una guardia di questura che facesse smettere la spiritata. Non pareva più Milano. La strada in poco tempo fu piena di curiosi e di sfaccendati e anche di gente che aveva qualche cosa di meglio da fare, ma che il caso nuovo e stuzzicante teneva lì, fermi a guardare e a pestar la premura coi piedi. Chi rideva, chi canzonava, chi eccitava la donna, credendola ubriaca, a dirne sempre delle più grosse. Intorno a lei si parlava (come si può parlare tra gente male informata) della vecchia Ratta, che aveva lasciato un milione: del canonico Pianelli che aveva, d'accordo col Maccagno, rubato il testamento e s'eran diviso mezzo milione ciascuno: dell'avvocato Baruffa, il quale aveva le prove in mano che la vecchia era stata avvelenata: e altre siffatte fanfaluche, che parevan vere a chi le diceva, in proporzione del gusto che ci pigliava a dirle. E siccome questo gusto è sempre un po' meno di quello che prova chi le ripete, in poco tempo la storia del testamento e del veleno si sparpagliò in tutto il quartiere, e a furia d'esser data per vera, divenne verosimile. Chi rideva come alla commedia, chi, più interessato e quindi meno ragionevole, parlava d'impiccare, di bastonare, di cavare il denaro dalle budella. E come di fuori, così nel vano del cortile sporgevano teste di donne, berretti di cuochi e di lavoranti, correvano voci da muro a muro, da scala a scala, mentre dai retrobottega uscivano i commessi e i facchini di studio a domandare, a sentire, a vedere, a mettere il naso. Ferruccio, impaurito dal crescente bisbiglio, vistosi quasi preso di mira dai curiosi, chiamato dalla voce dell'Augusta che strepitava in cima alle scale, risalì le quattro scalette a corsa, e stava per entrare nell'ammezzato, quando nell'arco della porta risonò un grido acutissimo, un grido terribile di donna spaventata o ferita, un grido che fece balzare Tognino Maccagno dalla scranna, e suscitò un immenso susurro di voci adirate e scandalizzate. Tognino Maccagno, stringendo sempre quel tagliacarte acuto e lucente come un coltello, uscì, afferrò Ferruccio che vacillava sul pianerottolo, se lo tirò dietro per un braccio, scese a precipizio, passando, urtando, tra la gente, livido in faccia, e arrivò nel momento appunto che Arabella stramazzava mezza morta ai piedi della scala. Tornava dall'aver fatto una visita a Maria Arundelli che abitava verso le parti di Porta Genova. Giunta in via Torino, invece d'entrare in casa per la porta principale, svoltò ancora nella viuzza, per ripetere e per aggiungere una nuova raccomandazione a Ferruccio in favore della povera Stella, e per incaricarlo di qualche sussidio. Svoltato appena l'angolo, era stata ravvisata dall'Angiolina, che a vederla, fu presa da una nuova idea. Lasciato il posto, dove sbraitava all'aria, l'ortolana andò incontro alla moglie di Lorenzo Maccagno, che veniva rallentando il passo, coll'animo sospeso allo spettacolo della folla insolita che ingombrava la strada, le piombò subitamente addosso come un'aquila che ghermisce una tortora, e presala per un lembo del vestito cominciò a chiamarla ladra, moglie di ladri, nuora di ladri, manutengola... Arabella, còlta all'improvviso, trasalì, stentò a capire, e per l'istinto prese a correre verso la porta. E l'altra dietro: "Mettilo giù quel cappellino, smorfiosa, figlia di ladri..." Arabella vide come una gran fiamma rossa, un fuoco agli occhi, affrettò di nuovo il passo, mentre sentiva il sangue precipitare. E l'altra sempre dietro, a incalzarla, a tormentarla fin sotto la porta, dove allungò la mano al collo della giovine, che inorridita gettò un grido, quel terribile grido, si rivoltò, vacillò, si resse colle mani al muro, poi vide scendere il buio, sentì la morte venire... e cadde sugli ultimi scalini. Molti uomini, disgustati a quella scena, presa in mezzo l'ortolana, la cacciarono via, bistrattandola e battendola. Essa corse e sparì come una grossa talpa, tirandosi dietro un nugolo di ragazzi. "È niente. State lontano, non toccatela... È niente, Arabella. Un po' d'acqua. È meglio portarla di sopra. Fate stare indietro la gente, per bacco! Arabella, è nulla, mi creda; è uno sbaglio. Pigliala, Ferruccio, che la portiamo su." Era il signor Tognino Maccagno che parlava così, che ordinava, che teneva lontano la gente, sorreggendo il corpo della giovane svenuta, trascinandola con uno sforzo verso la scala, mentre Ferruccio, cogli occhi velati da un fiume di lagrime, la prendeva fasciandole modestamente i piedi nel vestito, e aiutava a portarla su per le quattro scalette fino all'ammezzato. Pareva che portassero una morta. Aquilino si collocò ai piedi della scala e col tono irritato di chi non ama le vigliaccherie, persuase i parenti a non far scene, ch'era una vergogna. Pigliarsela colle donne è più che una vigliaccheria, è una sporchezza. Il veterano, fremendo, cominciò egli stesso colle mani e col fazzoletto rosso di cotone a mandar via la ragazzaglia, che si caccia dappertutto come le mosche. Quando fu tutto finito, arrivarono le guardie. Arabella, posta a sedere sopra la poltroncina di pelle, cominciò leggermente a sospirare. Il suocero le sorresse colle mani la testa cadente, premendosela sul petto, mentre due o tre buone donne accorrevano con dell'acqua, con dell'aceto, con del rum. Essa riaprì gli occhi, li girò mollemente intorno con aria trasognata, sospirò, si ricordò, strinse la mano del parente per ringraziarlo, e dopo aver mormorato delle parole chiuse, uscì a dire: "Non c'è più quella donna?" "Nossignora, non c'è più" disse in fretta Ferruccio, che tremava sempre come una foglia. "Non c'è più nessuno. È stato un equivoco... Ha creduto che fosse chi sa chi... Come si sente? vuol andare di sopra, Arabella?" Il vecchio Maccagno parlava con una voce così alterata, che egli stentò a riconoscerla per sua. "Se queste buone vicine mi accompagnano..." Entrano l'Augusta e la Gioconda, che si strinsero amorosamente intorno alla padroncina. Arabella si sforzò di alzarsi, ma non poté reggersi. Sentiva la testa in fiamme e la vita fuggire. Le due donne presero la poltrona e la sollevarono così, mentre Ferruccio correva innanzi a spalancar gli usci. Il giovine gemeva senz'avvedersene, come quando si soffre in sogno. Fu portata su e messa subito a letto. Una delle vicine, la moglie del mercante, capì che bisognava il dottore e ne avvertì subito il signor Tognino. "Perché, perché?" domandò il vecchio sbarrando gli occhi. "Ho paura che perdiamo le belle speranze." Tognin Maccagno si portò i pugni stretti e angolosi alla bocca; ma non volendo mostrarsi avvilito, voltò le spalle e uscì. In anticamera trovò Ferruccio, fermo in mezzo, come un mobile dimenticato. "Hai visto Lorenzo?" Il ragazzo disse di no colla testa. "Sai dove sta il dottor Taruzzi?" "Sì, lo so." "Va a chiamarlo." Il giovane s'avviava già per uscire, quando il principale lo richiamò di nuovo: "Se vedi Lorenzo, non dirgli nulla com'è stato. Chiama il dottore e poi to'... son dieci lire..." Tognin Maccagno trasse con mano tremante il portamonete e dette il denaro. "Vai a Porta Romana, pigli il tram di Lodi, e se non c'è, pigli una carrozza e avverti la sua mamma, sai? alle Cascine..." "Sì, sì" disse il ragazzo, non accorgendosi che per la prima volta il principale gli dava del tu. E tornò a discendere le scale correndo. "Il soggetto è per natura delicato," osservò il dottor Taruzzi sul pianerottolo, dopo aver visitata la malata, "però, dopo l'accidente, il fenomeno è regolare e non presenta pericolo. C'è bisogno di un'assoluta quiete per una ventina di giorni e raccomando una continua vigilanza. Poi farebbe bene l'aria di campagna. Del resto, gli sposi son giovani e non sono i figliuoli che mancano a questo mondo. In quanto al nonno, caro signor Tognino, abbia pazienza anche lui per questa volta."

Me ne ha dette abbastanza la mamma e vede che sono tornata." "Io volevo dimostrarle che non è soltanto l'interesse che ci fa parlare..." soggiunse sottovoce il vecchio suocero. "Non voglio nemmeno che lei si consideri come una nostra schiava... Guardi. Consegno a lei questo mio credito, queste mie carte. Le faccia vedere a una persona pratica, di sua fiducia: ne discorra col suo padrino, colla sua mamma, con chi vuol lei, e faccia di queste carte quel che vuol lei, le stracci, le abbruci..." Arabella rifiutò di ricevere le tre o quattro cambiali, che il suocero ad ogni costo voleva farle accettare, e ciò finì coll'irritarlo. In preda a un tremito convulso, il vecchio aprì il cassetto del tavolino da lavoro, vi cacciò le carte dentro, richiuse con furia, rosso in viso, si alzò, cercò il cappello e, inchinandosi in atto di licenziarsi, balbettò, mozzicando le parole: "Faccia come crede, signora, e perdoni se non abbiamo saputo renderla felice." "Senta, signore..." interruppe Arabella, raccogliendosi da quello stato di neghittosa rassegnazione, in cui si era ridotta per sua difesa. "Lei è libera. Se crede, può andare oggi stesso con sua madre." "Io son tornata…" provò a soggiungere la giovane. "Lei è tornata come torna una schiava, e io voglio dimostrarle che a questi patti non accetto il suo sacrificio. Vada e dica pure che l'abbiamo trattata male, dica pure che in casa nostra non ha mangiato che pane e veleno, dica pure che siamo egoisti legati all'interesse, ma non ci obblighi a mantenerla come una schiava." "Senta, signore..." interruppe Arabella, raccogliendo il fascetto delle cambiali e avvicinandosi al vecchio offeso con un contegno tra il rispettoso e il mortificato, non perché avesse qualche cosa da opporre, ma per una nuova paura che ne derivassero più gravi e più oscure complicazioni. Un malato non teme tanto i mali che ha, quanto quelli che ne possono derivare. In fondo al suo risentimento, la coscienza onesta e chiara non rifuggiva dal riconoscere che, per quanti torti avesse ricevuto in casa Maccagno, suo suocero s'era mostrato verso di lei generoso e buono, e che l'offenderlo e il licenziarsi da lui con una dura parola, oltre al non riparare nulla, metteva lei nella condizione di negare la giustizia. Per questo si mosse a trattenerlo, e fu questo stesso senso di giustizia che la persuase a mostrarsi più indulgente: "Senta, papà... abbia compassione di me. Vede che io non so quasi parlare..." "Tu mi domandi della compassione; ma, cara figliuola mia, sei tu che devi avere un po' di compassione di questo povero vecchio che tutti prendono a perseguitare…" Così proruppe con un improvviso mutamento di voce il signor Tognino, tornando in mezzo al salotto, passando in fretta le mani sugli occhi per dissipare una nebbia, umida di lagrime, segno di debolezza e di stanchezza morale, curvando il capo e la persona alla presenza di una donna che egli collocava molto in alto ne' suoi pensieri. E stretta la mano di Arabella, condusse questa a sedere sul piccolo canapè, dove cercò di continuare un discorso difficile e pesante, dal quale gli sfuggivano idee e parole. Lottò un pezzo colla sua incapacità, chiudendo la bocca al singhiozzo, premendo il fazzoletto sulle pupille oscure e dense, crollando rapido la testa come se compatisse sé stesso. Finalmente, dopo aver portata due volte la mano delicata di Arabella alle labbra, mormorò: "Abbi pazienza..." "Si sente male?" "Oh sì, molto, qui..." disse, battendo colla mano il petto. "Se io ho potuto dire qualche cosa di spiacevole..." balbettò Arabella, fissando lo sguardo sul viso pallido del vecchio. "No, no, povera figliuola." Arabella si raccolse in una penosa concentrazione davanti all'improvviso trasfigurarsi di un uomo che due minuti prima aveva visto nel pieno vigore del suo carattere ardente e tenace. Una di quelle voci improvvise, che nel cuore dei buoni sono annunci di ignote verità, sorse a domandarle, suscitando nell'animo suo un senso quasi di stupore, da qual parte fosse il maggior dolore e a chi tra lor due toccasse d'aver più carità e più compassione. Un occhio malato stenta a vedere il male degli altri. La ragione umana, che per giustificare i nostri patimenti ha bisogno di cercare un tiranno ed è quasi sempre fortunata di trovarne o d'inventarne uno che basta, si turba e non osa credere quando vede le vittime farsi male tra loro. Arabella, innanzi alle sofferenze e alle lagrime di un uomo che la fortuna aveva abituato a vincere, si domandò, confusamente e rapidamente (come sono tutti i colloqui che facciamo con noi stessi), se per caso essa non aveva abusato della sua debolezza. La puntura velenosa d'un'ape moribonda può uccidere un leone. Forse aveva detto delle inutili asprezze a suo suocero, che verso di lei si era mostrato sempre buono e amoroso. Forse aveva ragione la povera mamma. Essa non vedeva che sé... Al venir meno dell'orgoglio, che l'aveva sostenuta in questa fiera battaglia, si spaventò a un tratto come un assalito che nel furore della mischia si trova di aver oltrepassato i limiti della difesa e d'aver infierito crudelmente e inutilmente su degli innocenti. Sentì che ora toccava a lei dir qualche cosa di meno amaro, di condurre il discorso a una buona conclusione. Dal momento che aveva accettato di tornare in casa, non doveva starvi rinchiusa come una fiera irritata, oh Dio!... essa non aveva il cuore di una fiera. Chi l'aveva resa superba e cattiva? "Se le pare che la campagna possa far bene a tutti" prese a dire sottovoce "dal momento che ho accettato di rientrare in questa casa... gli obblighi di riconoscenza che ho verso di lei, mio benefattore... Se c'è speranza ch'io possa fare ancora del bene a qualcuno... insomma io non mi oppongo, disponga lei come crede meglio." "Che tu sia benedetta!" ripigliò con più calore il vecchio, facendosi più acceso in volto. "So che tu sei buona, Arabella, e se non fosse per la tua bontà, io non vorrei soffrire quel che soffro. Tutti son cattivi con me, tutti! È una congiura di tutti contro uno solo. E anche lui s'è unito a' miei nemici, anche lui mette alla porta suo padre. M'ha ferito, qui, con un coltello. E domani mi trascineranno davanti ai tribunali, mostrandomi come una belva feroce dentro una gabbia. È un intrigo mostruoso di preti, di avvocati, di lazzaroni, di parenti, di amici, di nemici, di donnaccie, tutti contro un povero vecchio... e anche lui ci sarà a gridare: dàlli, dàlli al ladro!" Un cupo e profondo sospiro interruppe la violenza di questo discorso, che Arabella cominciava ad ascoltare con mesta attenzione. "Non ha egli alzata la mano sopra suo padre?" continuò il vecchio parlando con foga accorata. "Andate via tutti, lasciatemi qui solo a vivere come un cane, solo contro tutta la canaglia di Milano, e così avrò lavorato tutta la mia vita per non raccogliere che odio, improperi, maledizioni, ingratitudine, e per essere messo alla porta da quelli che amo..." "Papà..." interruppe Arabella con un moto di terrore, vedendo il volto del vecchio infiammarsi di nuovo; ma come se egli parlasse a una turba ch'egli solo vedeva: "Andate, stampate sui muri che io sono un ladro, che ho rubato, che ho avvelenato, che ho bevuto il sangue dei poveri, aizzatemi contro i cani di Milano, fatemi maledire dai miei figli". "Ma no..." tornò a esclamare Arabella con un sincero abbandono di pietà, cercando di sviare il povero vecchio da una corrente che lo trascinava alla disperazione; ma l'orgasmo fu più forte: "So che mi avete maledetto" egli disse "so che non mi volete più; furono i preti che v'istigarono a odiarmi. Pigliatevi i miei denari, buttatemi su una strada. Alla gente io rido in faccia, ma non posso far senza della benevolenza de' miei figliuoli... Questa mi è necessaria più del pane..." E il vecchio affarista, trascinato ormai dalla sua stessa energia, non seppe più opporsi al torrente dei mali che da tre mesi andava urtando contro la sua vita, battendone e scassinandone gli argini di granito. Come per una breccia aperta, l'onda si riversò, travolgendo le sponde, e si dilagò in un mare di dolore. Arabella non aveva mai visto un bambino piangere e contorcersi nel suo dolore come vide a un tratto un vecchio di sessantatré anni, curvo, quasi rannicchiato sopra se stesso, colle mani nei pochi capelli bianchi e il volto nascosto contro lo schienale del divano. Tale fu la sorpresa, per non dire la paura, che non seppe resistere, si mosse, si chinò verso il povero afflitto, cercò nel fondo più buono della sua natura una parola buona. "Non dica, papà, che noi le vogliamo male. Tutti possiamo sbagliare nella nostra vita: e non credo che Lorenzo abbia potuto dire col cuore una parola cattiva. In quanto a me, se le pare che abbia giudicato troppo severamente, son pronta a farne ammenda. Siamo giovani, ci manca l'esperienza... Ma ella troverà sempre ne' suoi figliuoli amore e indulgenza." Che cosa disse di più? parlava come per incanto, cedendo a una misteriosa suggestione di benevolenza, non accorgendosi (ed è anche questo un vantaggio dei buoni) che nella sua carità abbracciava nel vecchio addolorato anche la causa che lo faceva soffrire. "So che tu sei buona, figliuola, e che non hai coraggio di maledire un povero vecchio. S'io fossi anche cento volte più colpevole, troverei sempre un po' di compatimento nella mia buona Arabella. Sento che fu Dio che ti ha mandata sulla mia strada. Me ne sono accorto fin dalle prime volte che ti ho incontrata sulla strada delle Cascine. Una voce qua dentro mi disse subito che tu saresti stata la luce della mia vita e della mia casa. Mi parve d'allora di aver trovata per la prima volta la ragione della mia esistenza. Soltanto d'allora cominciai a vivere per qualcheduno, per qualche cosa. Tu hai visto che a questa ragione ho sacrificato molti interessi e molti diritti. Io non fui più io. E ieri sera, quando sono tornato e che non ti ho trovata più, sentendomi quasi giudicato ed esecrato da te, ho provato un tal dolore al cuore che ho creduto di morire. Il pensiero che la gente possa farti del male per cagion mia non mi lascia più dormire la notte: è una vita troppo di tormento che mi farà morire. E pazienza! ma non dirmi che mi vuoi male, che mi disprezzi..." "Io?" uscì fuori a dire con voce esaltata Arabella, ritraendosi un poco colla persona. Egli afferrò le mani di lei e tenendola così prigioniera: "Tutto si spezza nelle mie mani", continuò "tutto si spezza dentro di me. Son più che un uomo malato, sono un uomo che si sfascia. Senti, ho la febbre. Non ho più forza. Vedo oscuro, son vecchio, son stanco, son cattivo... Ho paura di morir solo, come un cane..." Arabella, col volto afflitto da una penosa incertezza, cercò una parola d'incoraggiamento; ma le parve di capire che il viso poco prima così infocato del vecchio si coprisse d'un pallore livido, in cui i lineamenti s'indurivano in una rigidezza quasi mortale. "Son cattivo, so che son cattivo..." seguitò con lenti sospiri, parlando quasi nelle mani di sua nuora. "Ma tu sei buona e potrai insegnarmi come si fa a vivere bene. Farò tutto ciò che mi dirai di fare. Andremo via, in campagna, lontani dal mondo, la mia volontà sarà la tua volontà. Se dirai: ' Cediamo tutto ' io cederò tutto, contento di dividere con te un boccone di pane..." Arabella non afferrava ancor bene il valore di queste strane parole, che somigliavano a una confessione. Sentendone le mani ardenti, vedendo il pallore mortale, andava a pensare che il vecchio delirasse. Quel non so che di religioso e di materno, ch'era nel fondo dell'indole sua, fu tuttavia profondamente toccato dal pianto e dai sospiri del povero vecchio, che invocava pietà e misericordia. È vero: tutti lo respingevano; tutti si ergevano suoi giudici e suoi persecutori. Lo vedeva ora così malato, così abbattuto... "Via, si faccia animo, papà, e disponga pure di me fin dove posso essere utile. Non c'è male per quanto grande, a cui Dio non trovi un rimedio ancor più grande. Lei è proprio malato, vedo bene. Ha bisogno di riposo, di tranquillità d'animo. Ha la febbre, sento. Anche il suo aspetto mi dice che non si sente bene. Devo chiamare l'Augusta?" Il vecchio fece segno di no. "Lei si sente male..." Arabella cominciò a tremare, e cercò svincolarsi per correre a chiamar gente; ma lui la trattenne forte per un lembo del vestito: e mormorando parole grosse e confuse, le fece capire che voleva scrivere. "Scrivere" e indicò col dito un calamaio sul tavolino da lavoro. Arabella accostò il tavolino, aprì il calamaio, stese un foglio, mise la penna in mano al vecchio, obbedendo in preda a una convulsa agitazione ai cenni di quel povero uomo, che la tratteneva sempre per il lembo del vestito. "Passa, passa..." mormorò con voce di fiera malinconia il vecchio come se si riavesse da una momentanea vertigine. Appoggiò la testa alla mano sinistra, strappando con l'altra il vestito della giovane, che s'inginocchiò, cedendo quasi all'invito d'un comando interiore. "Ho da chiamare qualcuno?" "No, sto bene. Sta qui." E dopo aver arzigogolato un poco colla penna, il vecchio malato cominciò a scrivere in righe oblique mostrando nella contrazione dolorosa del viso duro e pallidissimo lo sforzo della fuggente volontà Arabella, che sentivasi molle il viso di lagrime, vide che a un certo punto la mano del vecchio s'irrigidì. Fu per gettare un grido di avviso; ma egli se ne accorse. Svegliandosi, la guardò teneramente, mosse le labbra a un sorriso morto, e allungando la mano a riprendere quella di Arabella, dopo un lungo sforzo per formulare la parola, disse: "Prega..." Arabella aprì le braccia e sorresse il corpo cadente, mentre cogli occhi pareva chiedere soccorso intorno a sé. Quando si accorse che il malato veniva meno, non trovando in se stessa la forza né di gridare, né di sollevarsi, allungò la mano fino a toccare il bottone del campanello elettrico, e riempì la casa d'uno squillo lungo e spaventato. Sentì correre gente. Entrò l'Augusta, che visto il viso irrigidito del vecchio e gli occhi spaventati della signora corse fuori a chiamar la Gioconda. Le due donne prestarono i primi soccorsi: finché qualche vicino avvertì il portinaio e si mandò per il dottore.

Non era filosofo abbastanza per risolvere, e neanche per proporsi delle questioni di questo genere: ma se le sentiva addosso, sotto la forma di un malessere che non si sa da dove viene, ma che tiene il corpo in brividi. Si pentì d'aver mandato via il Berretta, che colle smorfie irritava gli spiriti e rendeva almeno grottesca la paura. Palpando nei materassi gli era capitato di sentire sotto la mano il grosso e il liscio d'una certa borsa di seta, che la povera Carolina era solita portare sul braccio e recare tutte le sere in letto, con dentro, insieme al manuale di Filotea, le più care e gelose memorie, in mezzo ai gomitoli e alla calza. Gliel'aveva vista sul braccio fino agli ultimi momenti, e là dentro, senza dubbio, bisognava cercare il documento, se Giuditta non aveva visto male. La curiosità non ammetteva indugio e titubanze. Saltò in piedi di scatto, prese di nuovo il lume, traversò la stanza, pose il ginocchio in terra, ficcò la mano sotto, dove aveva sentito prima il grosso, tirò... Il corpo oscillò sul suo duro giaciglio e mentre Tognino si alzava colla candela in una mano, la preda nell'altra, l'ombra grande della cuffia che il lume prima proiettava sul soffitto, svolazzò abbassandosi sulla parete, si sciolse e lasciò vedere un enorme profilo umano, un fantasma che balzò al capo dell'uomo e l'avviluppò come l'ombra d'un uccellaccio. Fu un colpo di pietra al cuore: ma subito il vivo riprese vantaggio. Alzò il lume, sprofondò l'ombra sfigurata, si volse dall'altra parte, buttò la borsa sul cassettone, ne sciolse i cordoni, la sventrò di tutte le anticaglie che conteneva e vide uscire santini, corone, occhiali, gomitoli; e finalmente una carta ancor fresca, piegata in quattro, che Tognino ghermì, svolse, portò sotto la fiamma. Era una scrittura grossa, sconnessa, traballante che cominciava precisamente nel nome della santissima Trinità e sotto, dove corse l'occhio saltando il testo, uno scarabocchio di firma, il solito "Carolina Ratta", che visto da lontano dava l'idea d'uno scorpione schiacciato, colla sua bella data fresca vicina, tutto in perfettissima regola. E lo scritto, forse copiato da un modello, diceva… Provò a leggere qualche cosa di quelle cinquanta righe, ma alle prime parole gli occhi si fecero pieni di sangue, le lettere balzarono fuori dalla carta, un gruppo di biscie lo morsero alla gola, mentre due piccole lagrime di veleno uscivano a irritare le pupille. Con un secondo sforzo afferrò il senso, e il primo atto fu di voltarsi verso la morta, e la guardò con occhi cattivi come se la provocasse. Che parole gli venissero alla bocca non si può dire perché più che parole erano frantumi d'immagini e di sensi, impastati tutti insieme sotto il peso d'una collera terribile. Finì col sorridere e ciò lo sollevò. Quando Tognin Maccagno tornò il solito Tognin Maccagno, ripiegò lentamente la carta in quattro, se la cacciò in tasca accanto alla denuncia che doveva mandare il Berretta al cellulare. Raccolse con calma, fin con precisione i gomitoli, gli occhiali, i santini, ne riempì di nuovo il ventre della borsa, tirò i cordoni, l'attaccò alla maniglia dell'uscio e uscì mormorando in fondo dell'anima una frase scomposta e indecisa, qualche cosa che mirava ad augurare la buona sera... e tornò nel salotto. "Svelti i pretoccoli!" fu la prima espressione che dal guazzabuglio di tante sensazioni uscì con una formula logica. Buttò un'altra fascinetta sulla brace, e nel crepitìo allegro della fiamma colorita, rallegrò, riscaldò gli spiriti, dissipò le ombre e il ribrezzo. "Svelti i pretonzoli!" tornò a dire mentalmente, corrugando nella piccola fronte un fascio di rughe. E dunque un uomo furbo come lui aveva lavorato tre anni a salvare la sostanza Ratta dalle mani degli intriganti: un uomo abile come lui aveva ristaurato una ricchezza che dilagava come un vino prezioso da una vecchia botte fessa; per tre anni egli aveva sopportato le più strambe fantasie d'una vecchia bisbetica, diviso con lei i suoi pranzi di magro e i due soldi delle eterne partite a tarocco; si era fatto odiare e maledire per venire a questo bel costrutto, che un pezzo di carta, richiamando in vigore il testamento del '78, la dava vinta all'avvocato Baruffa e lasciava il sor Tognin Maccagno con tanto di naso. Oltre il danno, si vide davanti la bocca larga di don Giosuè Pianelli, e a questa idea della canzonatura, lo spirito selvatico si arruffò... Ma il più dannato era il pensiero di dover rendere dei conti a questa gente, di dover forse restituire ciò che non si poteva più restituire... Carta per carta, valevan di più quelle che da sei mesi egli aveva consegnate al notaio Baltresca. La fiamma, dopo aver avviluppato il grosso della fascinetta, scoppiò in una vampa rossastra che vibrò e ruggì nella piccola gola, riempiendo il salotto di vita e di calore, ammaliando colle sue lingue serpentine il vecchio affarista, che data un'occhiata intorno, cacciò la mano nella tasca di sotto. Le due carte uscirono insieme: confrontò alla luce del fuoco, ne scelse una, e obbedendo a uno scatto nervoso, vide il bianco nel fuoco prima che avesse deliberato di buttarvela. Le fiamme mordevano il cartoccio, destando nell'uomo quasi un senso di meraviglia. il cuore d'acciaio picchiò cinque o sei colpi, la bocca si storse a un sogghigno senza gioia, le mani si apersero irrigidite e si aggrapparono alle due gambe anteriori della sedia, come se cercassero un appoggio. La carta ripiegata in quattro resistette più che poté alle lame taglienti, si accartocciò sugli angoli, mostrò nella brace purpurea i graffi della scrittura, ma la santissima Trinità non poté impedire che una sostanza di quasi quattrocento mila lire, scritta in quel foglio, diventasse per chi l'aveva scritta un pizzico di carbone. Tognino Maccagno rimase a contemplare indurito in un senso di stupore quel pugnetto di carta nera, che si ostinava a star compatta in bocca al fuoco, mostrando i segni rossastri della scrittura. Era un acre piacere che lo inchiodava a contemplare gli avanzi di un tradimento. Tradimento di chi? non andò a cercare. Prese le molle e con un colpo violento sfondò sparpagliò, confuse, scombuiando nella cenere e nel fuoco la carta che mandò molte piccole anime nere su per la canna.

Il signor dottorino

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Per quanto in seguito domandasse alle persone del paese, non gli venne dato di cucire altre notizie, perché il barone non aveva amici, sua figlia non usciva mai, e il vecchio servitore incaricato delle provvigioni parlava un napoletano burbero, ma abbastanza chiaro per dar una lezione di prudenza ai curiosi. Tutte le sere si rinnovavano le lusinghe: anzi una volta donna Severina, posata la punta delle dita alle labbra, lanciò al lago un bacio, che fece arrossire e tremare il povero Marco; dopo il primo smarrimento, egli prese la corsa su per un viottolo alpestre, non curando i triboli e i ciottoli, cacciato da una folla di fantasmi schiamazzanti, finché cadde sfinito sul sagrato d'un tabernacolo montano; abbrancò l'erba, la strappò dalle radici, e stendendo le braccia al bigio villino che appariva di sotto fra una corona di lauri e di magnolie gridò al cospetto del cielo e della terra: Divina! Divina! La vita gli diveniva ogni giorno piú nojosa: cogli infermi era spiccio e trasognato, cogli amici collerico, coi libri adirato: amava la solitudine, il languore, e il giacere lunghe ore sotto un noce in cima a un pascolo, cogli occhi fissi al vario movimento delle frasche, all'andare e venire dei pettirossi e dei merli, allo svolazzare voluttuoso d'una farfalla felice piú di lui, perché poteva senza pericolo discender basso basso fino a quel davanzale, dare una volta in quella cameretta destando accenti di amore e di tenerezza. In quella dormiveglia febbrile andava sognando cento espedienti che lo potessero avvicinare a Severina: tutto gli pareva abbastanza onesto, foss'anche un assalto al suo balcone, un malanno che lo facesse cadere agonizzante sotto la finestra di lei, o un incendio, di cui egli solo avesse il dominio. Lanciarsi tra le fiamme, salire di volo la scala correre fino a lei sbigottita, afferrarla, discendere con essa per una scala sottile e cinta dalle fiamme, deporla sopra una zolla fiorita, dirle: Tu mi devi la vita! e poi fuggire, e sparire per sempre dalla faccia della terra... ecco le dolcezze sognate nei deliri d'amore all'ombra d'un noce di duecent'anni. Ma da sé il buon dottorino non sarebbe venuto a capo di nulla; la condizione del barone Adriano non gli permetteva neppure di sognare tanto scioccamente. Un giorno, il vecchio servo entrò in farmacia tutt'affannato cercando del medico. - Son qui - rispose Marco, e uscí come una saetta e corse senza perder tempo e fiato, fin alle ultime case del paese. Non osava domandare notizie, per lusingarsi alla speranza di poterle toccare il polso; camminò per un lungo tratto di via senza rompere il fascino dell'ignoto e sol quando fu al cancello della villa si fermò ad aspettare il vecchio che ansava e gli chiese: - È malata? - È il gondoliere di Sua Eccellenza, un veneto goloso di ostriche, che vuol morire di indigestione; Zeno dovrebbe sapere che i pesci grossi uccidono mangiando e i pesciolini lasciandosi mangiare. Gli antichi diedero segno di somma sapienza quando figurarono amore in un fanciullo, perché nessun altro sentimento è tanto irragionevole. Il dottorino desiderava che donna Severina fosse malata, e si rattristò della burla. Quando attraversò il giardino alla volta d'una casa rustica, appartata, udí la voce di Severina che cantava o meglio trillava sulle note alte, toccando tratto tratto i tasti bassi del pianoforte. - Non sa la signora che vi è un malato in casa? - Saperlo o non saperlo, è lo stesso - rispose con nebulosità sibillina il vecchio burbero arrestando i gesti in aria come usano spesso i napolitani. Il gondoliere guarí, e fatto il solito giuramento e le solite croci contro le ostriche tornò al remo, all'acqua e al vino, specialmente sotto il Grotto del Nino o alla riva di Lemna dove lo si vendeva buono. Ma il dottorino era malato gravemente, e sparsa la voce d'una rabbiosa febbre intermittente scrisse al suo vicino collega, raccomandandogli per quindici giorni i suoi infermi e offrendogli il proprio cavallo; col permesso de' superiori aveva intenzione di andarsene lontano, e presa la via delle Alpi, penetrare nella Svizzera tedesca, spendere un migliaio di lire, salire i gioghi ghiacciati, litigare coi vetturali, colle guide, cogli osti e colle paffute montanare e ritornare finalmente piú povero, piú stracciato, piú bisognoso, ma guarito da quell'amore che minacciava la sua fortuna, e la dignità d'una famiglia illustre. Le intenzioni del signor Marco erano buone; preparata una piccola valigia aspettava il piroscafo della sera, quando il suo domestico gli consegnò un biglietto di visita dicendo: - Egli aspetta. Il dottore lesse: Barone Commend. Adriano Siloe. Il barone chinò la testa a un dignitoso saluto. Egli forse non oltrepassava i cinquant'anni; vestiva elegantemente di nero; scarno era il viso ma di linee belle; alta la fronte con rari capelli, lentissimo il gesto, profonda la voce, ma che tratto tratto si faceva melodiosa quasi rispondesse a sentimenti improvvisamente piú lieti. - Riesco importuno, signor dottore? - chiese fissando gli occhi al suolo secondo il costume e arrestandosi immobile in mezzo alla stanza. - Ella mi onora - fu presto a rispondere il dottorino, che non sapeva spiegarsi questa visita inattesa, e aggiunse: - Se avessi saputo, sarei venuto io stesso. - Grazie, ma la prudenza mi consigliò di prevenirla. - Il tono di voce naturale e conveniente a un uomo di tanto riguardo, parve in sulle prime misterioso e provocante al povero dottorino, onde cominciò a temer forte che il noce della montagna non avesse scosso dai rami qualche segreto. Sedettero entrambi, e il barone, senza torcere gli occhi dal suolo come se vi leggesse quello che stava per dire, incominciò: - Sento che ella gode bella fama non solo di medico provetto, ma anche di uomo saggio e generoso, onde, sebbene io disperi degli aiuti della scienza, tuttavia un barlume di speranza brilla ancora in me per quella scienza che ha, dirò cosí, la baldanza della gioventù. Inutilmente ho interrogato i piú sapienti medici d'Europa... A questo preambolo recitato colla moderazione d'un uomo che pensa quel che dice e al modo migliore di dirlo, il dottorino spalancò tanto d'occhi ed entrò in maggiore curiosità; però, fatto un cenno d'umiltà innanzi a elogio sí ragguardevole, si atteggiò in modo da non perdere una sillaba sola di quelle preziose parole. Il piccolo sospetto natogli in principio, cioè che il barone avesse letto nel suo cuore l'amore per donna Severina, si sciolse da sé stesso, e Marco, osservando il colore olivigno e quasi terreo di quel viso e il corrugarsi frequente di quella fronte, pensò di aver innanzi un illustre infermo. Ma il barone l'imbarazzò alquanto allorché gli disse: - L'ammalata è mia figlia, donna Severina. Essa è l'immagine viva di un'altra donna che nella mia giovinezza amai e venerai in appresso per piú di vent'anni di matrimonio. Morta mia moglie, mi restò Severina unico amore, unica ragione della mia vita; la mia natura essendo inclinata a melanconia, e la mia mente al dubbio d'ogni cosa, soltanto Severina poté colla soavità delle sue parole e coll'eloquenza de' suoi sguardi indurmi a poco a poco a persuasioni piú sante, o dirò meglio piú umane. Ma Severina da un anno è molto malata. Il barone corrugò la fronte in un modo strano e trasse un lungo sospiro. - Posso io... - mormorò premurosamente il dottore, ma anche la sua voce tremava, e a stento gli riuscí nascondere il turbamento che questa notizia aveva gettato nel suo cuore. Il barone con un segno della mano graziosamente lo interruppe ed... - È necessario - disse - che io narri prima la cagione di questa malattia, se lo permette... - Si figuri. - Severina fu già fidanzata a un nobile toscano, il conte Giulio - taccio per pietà il nome del casato. - Essa lo aveva conosciuto in una di quelle feste eleganti in cui le giovinette frequenti volte incominciano fra la musica, le danze e i fiori una storia che finisce in pianti e in vergogne. Giovane di acuto ingegno, bello di aspetto, di parola facile e ornata, discreto scrittore, don Giulio era ben accetto anche fra i crocchi nei quali oltre il vano cicaleccio ha pur qualche valore una parola seria e sincera. La fanciulla rispose ai primi sguardi alle prime parolette con quella commozione di tutti gli spiriti, con que' rapidi rossori e quell'immobilità pensosa degli occhi, onde per la prima volta si manifesta l'amore. Essendo però fanciulla savia e schiva dai sotterfugi, venne subito da me, e sedendo, come soleva spesso, sulle mie ginocchia, mi disse: "Papà, io amo.... La fissai e mi accorsi che amava molto. Umide erano le ciglia, accesa la fronte, trepide le labbra e in tutte le membra irrequieta, come se le scorresse l'elettrico entro i nervi. "Intanto il conte Giulio passava due o tre volte al giorno a cavallo sotto il terrazzo della nostra villa presso Fiesole; io non so negare che in qualche tramonto non gli rispondesse una voce modulata al canto, o uno stormire insolito dei lauri sopra la cinta del giardino, o un saluto indiscreto; mi spiaceva soltanto che il contino non uscisse da quelle incertezze, per verità sconvenienti e pericolose. Ma non tardò molto. Suo padre, il venerando conte Gian Andrea, il fratello del quale fu cardinale di Gregorio XVI, venne regolarmente e come richiedevano le leggi d'onore, da me. Illustre era il casato, secondo i voti del mio cuore, o, se le piace, secondo pregiudizî di vecchia data, che io non intendo però né difendere né accusare, ma che per antica tradizione domestica hanno per me santità di legge. Tra le due famiglie si strinsero nodi di amicizia: inutile il dimostrare come i parenti esultassero, come la città ne parlasse, come Severina corresse a imaginare l'avvenire d'oro. A dieciott'anni ognuno di noi suol ricrearsi un mondo di suo genio, quasi correggendo l'opera di Dio; fatica vana per chi deve ben tosto distruggerlo colle proprie mani e inciampare e seppellirsi nelle sue rovine. Verso la fine del verno notai sulla fronte di don Giulio una nube ostinatamente fissa e in tutto lui un languore insolito, inesplicabile in un giovane della sua età, del suo ingegno, e che poteva col semplice specchiarsi in due pupille conoscere quanto la sua esistenza fosse preziosa e cara. Amava i lunghi ragionari della politica, pendeva precocemente al grave, al triste, e se pur talvolta sforzavasi richiamare gli antichi spiriti, non gli veniva affatto di nascondere interamente l'artificio delle arguzie e dei sorrisi fatui. "Un giorno mi raccontò d'una certa causa presentata ai tribunali per la rivendicazione di non so quali terre nelle Romagne, per la quale gli era giuocoforza ritardare il matrimonio di qualche stagione; anzi per la composizione di questa causa interessante don Giulio doveva allontanarsi spesso da Firenze, e privava in tal modo Severina delle sue visite preziose. "Com'era mio dovere, lo spiai, e non fui il primo in Firenze a scoprire la vera causa di queste titubanze. Severina ne sapeva qualche cosa? prima di me aveva scoperta l'immensa noia che travagliava il suo povero amico e ne piangeva in segreto, e veniva a chiedermi spiegazioni con voce straziante, pregandomi d'indicarle in che cosa ella fosse mancata verso don Giulio. Io, naturalmente, sperando sempre in un vicino ravvedimento, andava lusingandola con parole vaghe, le dimostrava come l'esito di quella causa fosse veramente tale da compromettere la felicità di don Giulio. Dovevo forse dirle: Asciuga gli occhi, poverina: egli ama un'altra donna?". - Un'altra donna! - interruppe il dottore coll'esclamazione d'uomo che stenta a credere; difatto, secondo il suo sentimento, come si poteva amare un'altra donna dopo aver conosciuto Severina? Il barone confermò: - Era costei, - disse, - una celebre cantante francese che in quella stagione aveva trionfato per bellezza e per arte al teatro della Pergola; don Giulio aveva fatto a fidanza della propria virtù e sebbene non venisse a quest'altro amore per malanno, sebbene lottasse per onor delle armi co' propri scrupoli, qual vantaggio per Severina? La città intanto ne sussurrava colla solita compiacenza. "Non da padre sdegnato, ma da umile supplicante scrissi una lettera al vecchio conte, che mi rispose cortesi promesse, ma dalle quali traspariva un amaro cordoglio. Don Giulio, che non osava lasciar la mia casa, fidandosi nella nostra cecità, tornò con varie pretese sí indiscrete alle quali io non poteva cedere senza offendere Severina e l'integrità del mio nome. Evidentemente egli cercava un pretesto per rompere ogni promessa, e fra noi due si scambiarono parole asprissime. Severina n'ebbe sentore, si meravigliò che don Giulio s'arrestasse innanzi a qualche articolo di contratto nuziale, ma non mi avvidi che ella conoscesse ancora la dura verità. Perché non le giungesse sgarbatamente qualche voce della cronaca cittadina la condussi meco a Livorno, ove abbiamo una vecchia parente. Ella mi seguí docilmente, e quando ci trovammo soli, lontani dai luoghi testimoni della prima felicità, ella mi si abbandonò piangendo al collo e mi disse: Padre, perdonagli; cedi alla sua inesperienza; io lo amo... "Terribile momento fu quello, dottore; la parola crudele mi corse alla lingua, litigò fra i denti, ma temendo che Severina non mi cadesse morta ai piedi o che smarrisse la chiara coscienza di quelle virtù per cui sua madre era tanto benedetta, preferii comparire io stesso come il gran colpevole e promisi ravvedermi. Le narrai minutamente la storia del nostro diverbio; le dissi come, impaurito per l'esito fatale di quella sciagurata causa, io secondava di malgrado quel matrimonio, ma, dal momento che ella ne soffriva, avrei fatto ampie scuse all'amico; insomma mentii per la prima volta in vita mia, ma trassi piú sicuro il respiro quando vidi tornare un sorriso di speranza sulle labbra di Severina. Ma perché l'aveva io tornata alla speranza? perché le andava promettendo che don Giulio sarebbe arrivato di giorno in giorno? io temeva dire la verità, ma qual beneficio era mai il mio infingere? Lottava come uomo che sta per affogare: ad altre mie lettere non si rispose piú da Firenze: Severina era angustiata, seccante, insistente. "Una mattina essa sedeva al balcone, gli occhi fissi al mare, donde io avevo molte volte promesso che don Giulio sarebbe arrivato. Aveva tra le mani una lettera d'una sua amica, maritata da un anno, la quale col diritto dell'esperienza si faceva ardita di darle consolazione e avvertimenti non chiesti. Un poscritto diceva: "Egli è partito per Parigi; sei benedetta da Dio, Severina". Severina guardava fisso il mare, come se volesse scoprire lontano lontano le coste di Francia; una povera cameriera, messa alle strette, aveva narrato tutto". - Mio Dio! - esclamò sottovoce il dottore. Don Giulio aveva seguito il corso della sua stella e andava incolpando me d'intolleranza e d'avarizia. - Il barone cosí dicendo sorrise amaramente. - Posi una mano sulla testa della fanciulla, che levati gli occhi, mi sorrise mestamente. Era bella, giovane, innamorata, semplice ne' suoi affetti come una bambina e non sapeva persuadersi di quanto le avevano narrato. "Fissava il mare placidamente azzurro, il colore de' suoi pensieri, e non si ricordava che anche il mare ha le sue orribili tempeste nelle quali si frangono le piú belle opere degli uomini. Ella non saliva tanto alto nella considerazione del male, ma io, caro dottore, io che teneva una mano sul di lei capo, che nella vita ero passato attraverso dure esperienze, che mi vedeva offeso e tradito nella parte migliore di me, non seppi raffrenare un urlo di rabbia feroce, come di belva, a cui ella si scosse e rispose con un grido... "Ah! dottore, odio gli uomini; odierei anche Iddio, se lo conoscessi!". Il povero dottorino chinava la testa mortificato, come se di quella storia egli fosse un po' colpevole: osservò di sottecchi l'aspetto del barone e n'ebbe tanta compassione che per poco non ruppe in singhiozzi. Dopo un istante, nel quale si udí persino il rumore del pendolo sul camino, il barone ripigliò: - Da quel giorno Severina è malata e la scienza mi rifiuta ogni consolazione. Quel giorno che ella avesse chiusi gli occhi io tornerei alla mia libertà, e... - Non lo dica, signore... - Non sono avvezzo a promettere senza mantenere: quel giorno mi ucciderei. - Ringrazio Dio che il signor barone non sia tutt'affatto deluso della scienza. - Voglio morire, s'intende, senza l'ombra d'un rimorso. - Le risposte del barone erano brevi, decise e pronunciate a testa bassa. - Se è vero che per volontà degli uomini avvengono spesso dei miracoli, io voglio tentarne uno - disse il dottore colla sicurezza dello scienziato. - Ella avrà piena libertà in casa mia. Il dottorino, preso, non so come, da un vago presentimento che in quell'incontro vi fosse la mano di Dio, si fece animo e interrogò il barone sopra alcuni particolari della malattia, dicendo: - Forse donna Severina sentí il contraccolpo di quella sventura nel sistema nervoso, o ne patirono i bronchi, o... - Dottore - interruppe ruvidamente il barone - non ho ancora detto che Severina... Il povero padre si coprí il volto colle mani, e ritornato a poco a poco all'abituale sua freddezza, seguitò con voce calma e quasi indifferente: - Non ho ancora detto che Severina è pazza? Il dottorino balzò in piedi e gli parve che precipitasse la notte. Severina era pazza! il povero padre non sapendo resistere alla pietà di quel racconto, piegò la testa sul petto e strinse i pugni quasi sfidasse il proprio destino, mentre poche lagrime gli solcarono, suo malgrado, le guancie. Il dottorino invece mosse qualche passo per la stanza, ricordò rapidamente tutte le grazie di Severina e i suoi inesplicabili sorrisi, crollò la testa sbalordita per quella notizia e stette alcun tempo incapace di trovare parole che non tradissero i suoi segreti innanzi al barone. Finalmente, usando una vecchia frase, esclamò: - Dio solamente può consolare questi dolori. - Dio! - replicò con asprezza il barone - difatto non può essere che un Dio quei che ce li manda. - Sia pure! se vinceremo la prova, questo Dio sarà qualche cosa meno di noi - osservò il nostro dottorino con parole piú gonfie e che nella loro misteriosa nebulosità velavano assai bene il vero stato dell'animo suo. Ma venendo all'argomento aggiunse: - Non senza trepidazione, confesso, oso tentare anch'io un esperimento che ha già deluso i piú dotti; ma se mi regge l'animo gli è perché qualche volta gli uomini sono preziosi non per la loro speciale virtù e sapienza, ma per la condizione speciale in cui si trovano rispetto agli altri. La formica non gareggierà coll'elefante, ma nel caso di appiattarsi ognuno di noi vorrebbe essere formica. - E quali sarebbero queste condizioni? - Sono eventuali, né io le conosco. Il dottorino avrebbe voluto aggiungere: l'amore è maestro, l'amore rende audaci e presuntuosi anche i piú timidi; ma tutti questi pensieri non si manifestarono che in un mesto sorriso, onde il barone che sentí tremar la mano di lui nella sua, gliela strinse cordialmente e disse: - Ella mi riconcilia quasi con gli uomini. Quando verrà a veder Severina? - Quando ella vuole. - Per non darle sospetto venga domattina a colazione da noi; io lo presenterò come il figlio d'un mio vecchio amico. - Benissimo. E cosí si lasciarono. Il dottorino, restato solo, cominciò da capo a passeggiare su e giù, in lungo e in largo per la stanza, tirato dal filo delle sue idee, inconsapevole di tutto ciò che avveniva fuori di lui, anzi in gran parte ignoto egli stesso a sé, finché stanco e col capogiro sedette presso la finestra. Sul ponte si raccoglievano già i crocchi di coloro che aspettavano il piroscafo, dei curiosi, e insieme molte belle fanciulle villeggianti, con abiti freschi e leggieri, molti stranieri dai cappellacci pesti, sul ghiaieto e sulla piazzetta molti monelli scalzi che si rincorrevano alzando il chiasso. Lo scarlatto acceso degli scialletti di lana, che riparavano le belle spalle dalle punte della brezza, il bianco dei grembiuli e delle cuffie delle bambinaie, il bigio e il verde dei parasoli, tocchi appena da un raggio roseo, le sciarpe e i veli azzurri dei cappellini e dei cappellacci, le tende vergate delle gondole, le bandiere tricolori sulle prore risaltavano dal piano liscio dell'acque, che, splendidamente azzurre, man mano si allontanavano da questa riva mescevano allo zaffiro ombre sempre piú dense, finché finivano all'altra riva, sotto il riflesso dei macigni, in un grigiastro quasi nero. Tutti questi colori si movevano sotto la luce fuggitiva del sole e allorché dalla punta di Torno squillò la campana si fece piú caldo il bisbiglío, il correre, l'urtarsi dei carri e dei facchini, il baciare e il baciucchiarsi delle donne, sempre piú amorose quando si abbandonano: il piroscafo si avanzava a corsa, poi rallentò l'ansia e a poco a poco, come cosa viva, venne docile e umile a bacío della sponda. Selmo, il domestico di Marco, entrò in fretta e in furia, ma il padrone gli disse: - Non parto piú. - Marco stette colle braccia e il volto appoggiati al davanzale, cogli occhi fissi, ma stupidamente fissi su que' colori e sul vivo agitarsi di tanti uomini e di tante cose. In ogni giovinetta gli pareva rivedere Severina; tutte le somigliavano nelle curve dei fianchi, nella dolcezza dei movimenti, nel candore del volto, nelle onde lusinghiere dei capelli; ma tutte queste avevano la coscienza della loro bellezza, dei loro dieciott'anni, e trepidavano sotto quel raggio e allo spirare di quella brezza come arboscelli che sentono la primavera. Invece Severina era pazza, peggio che morta! vive erano ancora le sue guancie, accesi gli occhi, magico il sorriso, ma da quegli sguardi e da quelle labbra scattava un pensiero scemo, vanesio, dolorosamente buffo. - O perché dissipi tanti colori e tanta bellezza, o natura? - esclamò a mezza voce battendosi la fronte. Il suo cuore si rimpiccioliva innanzi a questa verità, ma ei l'andava contemplando e ripetendo con quella voluttà di strazio che spinge il romito a battersi il petto con un ruvido sasso. Chiuse gli occhi e imaginò l'istante nel quale ei si sarebbe accostato alla fanciulla, a lei dalla quale avrebbe voluto prima esser lontano le cento miglia; egli avrebbe scrutato fondo in quelle pupille, e toccata quella testa con tutti i diritti che gli dava la scienza. Perché aveva accettato questo esperimento pericoloso? - Ma alfine - disse direttamente a sé stesso - posso io amarla ancora? quelle grazie che mi fecero innamorare di lei erano funesti segni di follia, e non per me soltanto. Persistere in un sentimento che oggi ha radice soltanto in una materiale compiacenza mi sembra indegno d'uomo onesto. No, no, svegliamoci da questo sogno e contiamola fra le avventure di gioventù. Quando il dottore riaprí gli occhi il piroscafo era già scomparso e scendeva piú fitta la sera. Gli parve riconoscere la voce del burbero napoletano che parlava sotto la sua finestra con un signore, ma mentre stava per tendere l'orecchio, due colpi secchi all'uscio lo fecero trasalire. Era il dottor Celestino, suo collega, che dietro suo invito veniva a sostituirlo per quindici giorni. Costui aprí l'uscio con un grosso bastone e gridò fermandosi sul limitare: - Ohe! Selmo, portami da bere. Era un giovinotto dell'età di Marco ma per robustezza di membra e per prosperità di salute ne valeva cento. Entrò trafelato, sebbene l'ora non fosse cocente, rosso cotto in viso, colle scarpe impolverate, un cappello molle e schiacciato sulla nuca e una pipa lunga in bocca. - Come mai? non sei tu partito? - domandò a Marco. - Mi pare di no. - Cosa mi hai scritto? - L'uomo propone e Dio dispone. - Dio ti benedica, anima mia. - Tu non giungi importuno perché quindici giorni di riposo mi faranno bene. - Difatto, mi hai una cera da candela benedetta. Cosa mi fai, Marcuccio? sentiamo il polso: vediamo la lingua... Sporca, sporca - e Celestino tentennava il capo. - Vuoi un mio parere? - Sentiamolo. - Prendi moglie. - Credeva che mi ordinassi del reobarbaro - disse Marco ridendo. - Questi libri ti assottigliano la vita, asinaccio. Selmo portò del vino e dell'acqua che Celestino bevette d'un fiato come un pesce che sfuggito dal carniere si rintuffa nel fiume. Poi si spogliò del ferraiuolo, del panciotto e del colletto e col tono d'un prete che canti l'epistola ricominciò: - Questi libri ti assottigliano la vita. Cosa sperate dal vostro studiar giorno e notte? di scoprir l'arte di non morir piú? Bel servizio rendereste, in mia fede, all'egra umanità, togliendole quest'unico sfogo! ah! ah! ai tempi di Galeno si campava forse piú vecchi. Celestino, come si vede, prendeva la vita piú alla buona e si sarebbe detto, guardandolo in viso, ch'egli avesse scoperto il segreto di crepar di salute. Egli aveva un cuor d'oro, ed essendo per natura inclinevole alla bontà, né sapendo d'altro lato sopportare il fastidio della tenerezza, la disperdeva in risate sonore, in pugni sulle spalle degli amici e in prediche stravaganti che avevano però la virtù di mettere sete al predicatore. Cosí anche il peggior vino gli sembrava discreto. Marco in confidenza narrò all'amico la storia del suo innamoramento e della visita e dell'invito ricevuto e quando Celestino ebbe inteso il casetto strano non seppe trattenere le lagrime pel tanto ridere che ne fece, e giurò di raccontare la panzana al dottor Pellani, e al sindaco di Vercurago e al curato di Moltrasio; ma il nostro Marco, colto il momento che egli vuotava il bicchiere, gli raccomandò il piú scrupoloso silenzio. - Come vuoi; - rispose Celestino - comunque sia puoi guadagnare de' bei soldi. Marco tacque ma non poté nascondere un senso di dispiacere a queste parole egoistiche dell'amico, onde questi sdraiandosi sul divano, e soffiando larghi buffi di fumo esclamò: - Ho capito, sempre magnanimo il nostro dottorino. In compagnia cosí allegra, Marco ritrovò il retto senso della vita, il quale spesse volte sfugge a chi col fantasticare va creandosi un mondo che non esiste nella lista dei pianeti. Al mattino seguente il dottorino camminava verso il Ritiro . Marco, uscito allo spuntar del sole, trovò le griglie e gli usci del villino ancor chiusi e per ingannare il tempo, che gli pareva lento e nojoso, salí il sentiero che menava al tabernacolo alpestre, dove aveva molte volte pensato a Severina; e di là girò gli occhi ai monti, al lago e al campo sereno del cielo. Credeva di esser guarito, ma l'aspetto di quei luoghi ridestò nuovamente il malanno de' suoi pensieri, che gli erano brulicati in testa durante la notte. La malinconia lo sorprese e a stento frenò le lagrime al rivedere di sotto, fra il verde delle piante, il tranquillo villino dove forse a quell'ora essa dormiva e sognava. Molte volte questo abbandono dello spirito aveva funestato la vita del nostro amico, sia per una falsa coscienza della propria nullità, sia per un'inaspettata delusione, sia per un desiderio immenso di amore e di verità; dalla lotta fra il volere e l'essere scaturivano giorni di amara tristezza, di languida noja, per la quale la vita gli si rimpiccioliva alle misure di un sogno, la natura gli appariva a colori scialbi, le speranze si facevano sceme e fatue, e i grandi travagli della umanità gli stuzzicavano un sogghigno crudele. Scarsi erano questi giorni, ma egli li assaporava ora per ora in un ozioso dispetto, quasi succhiasse il sugo di una vita inutile, penoso e troppo a sé stesso, invocando l'antica sorte delle fate, lo scomparire. Una parola amica, un guardo benevolo avrebbero bastato a ritornarlo al migliore sentimento di quegli istanti in cui egli inorgoglivasi della propria virtù, fissava il pensiero a tutte le glorie umane, lasciava che il fascino etereo delle idee e della natura lo rapisse ne' suoi giri vorticosi. Allora egli sentiva questa natura, che aveva studiato sui libri, palpitare viva dentro di sé e fuggendo il cicaleggio degli uomini soleva contemplare i vergini pascoli delle alpi, ove un popolo d'erbe e di bruchi ama e soffre; di là sentiva la divinità propagarsi e gli pareva d'esser vicino a scoprire il grido selvaggio dell'uomo nudo, adoratore della madre terra. Ma Severina gli negava questa parola amica e i suoi sguardi vitrei lo spingevano al furore. Discese a rapidi passi, giurando in cuor suo di essere uomo serio e obbediente al proprio dovere. Quella mattina s'era messo l'abito nero e i guanti, aveva tocca col rasojo la barba che gli scendeva in due pizzi dal mento; i capelli rovesciati sulla testa lasciavano aperta la fronte alta e senza rughe; era insomma il solito dottorino ma piú bello e piú galante. Il barone lo accolse in un salottino arredato splendidamente, gli strinse la mano e lo fe' sedere vicino. Severina s'era già levata, secondo il solito, da una mezz'ora e attendeva alla sua toletta: - Severina - disse il barone - non ha per nulla cambiate le abitudini della sua vita, ma colla mente ella sposta il tempo e lo arresta ora a un momento ora ad un altro del suo passato. Oggi, per esempio, mi parla di don Giulio come di persona incontrata poco prima alla festa della contessa Emma; domani mi racconta ch'egli è passato a cavallo sotto la villa e che l'ha salutata: un altro giorno siede sulle mie ginocchia e mi confessa il suo amore con tanta vivacità, con tanto rossore ch'io non reggo allo strazio. Quando io la condussi sul lago di Como sperai che il quadro diverso della natura divergesse l'ostinato corso delle sue idee; ma ella rivide nel lago il mare, e crede d'essere a Livorno al tempo in cui si ruppero i buoni accordi fra noi e don Giulio... - Non chiede mai di don Giulio? - No, perché va ingannandosi da sé stessa. Può avvenire che lo aspetti per qualche ora, ma subito dopo ne ragiona come di persona partita di recente. Soltanto verso sera o nei giorni piú nebulosi si raccoglie in brevi silenzî, arcigna, fosca in viso come se cercasse penetrare le nebbie d'un mistero; ma ne esce spensierata, allegra, siede al pianoforte, disegna, scrive molte lettere a Giulio. - Poverina! - disse sospirando il dottore. - Io conservo queste lettere ed ella, dottore, potrà, leggendole, scoprire la legge di questa ragione inferma; vedrà come raramente divaghi dal retto senso delle parole e del pensiero e conversando con lei avrà qualche cosa a imparare. - Dunque, se don Giulio ritornasse... - L'ho già pensato - interruppe rannuvolandosi il barone; - ma don Giulio non lo sa, e quel giorno ch'io l'incontrassi sulla mia strada non gli chiederei certamente una grazia. Severina direbbe ch'io ho insultato la sua infelicità. - Dubito che per altra via si possa giungere a miglior risultato. - Ho parlato ieri sera di lei a Severina: fra poco essa scenderà a colazione. - Mi manca il cuore... - disse con fil di voce il dottorino, che si pose a notare non so che sull'album delle sue memorie. Dalla finestra del salotto vedevasi un largo tratto di lago, di cui la riva opposta stendendosi in giro, popolata di case e di alberi, formava come un lungo braccio di golfo; dagli stipiti delle finestre sporgevano ramicelli di edera di cui era tappezzata la parete esterna, e dal piede spuntavano le teste dei fiori. Mobili intarsiati e vasi d'erbe esotiche negli spigoli, specchi e ritratti rendevano geniale quel salottino silenzioso e profumato; le farfalle venivano e posavano sulle foglie, e si sperperavano quasi scosse dal vento. In questo casino fresco e romito, dove la natura si era lasciata educare dall'arte, ove non giungeva che il rumor dell'onda, o il fruscío degli alberi o il ronzare di qualche ape lavoratrice, un uomo e una donna, giovani e innamorati, avrebbero potuto dimenticare il cielo e la terra e tentare di nuovo la virtù degli angeli. Cosí almeno la pensava Marco, rimasto solo, mentre il barone era presso la figliola a ricevere e a dare il bacio del buon giorno. Un servo l'invitò nella sala vicina ove era preparata la tavola della colazione: dal balcone scoperse la strada per la quale egli soleva passare a cavallo, col cuore in tempesta e cogli occhi fissi a quel gruppo di oleandri. Staccò una foglia, ma la abbandonò all'aria. Così era svanita la sua felicità. Fra cinque minuti egli l'avrebbe riveduta, ne avrebbe udita la voce armoniosa, e stretta la mano. Si sforzò di pensare alla sacra missione per cui era venuto, ai lobi del cervello, e agli autori alienisti, che aveva sfogliato, consultato quella notte; e fu sí forte il suo proposito che, quando riudí la voce del barone e uno strascico d'un vestito di seta, stette ritto in piedi senza tremiti, senza titubanze, nella placidezza solenne d'un sacerdote. Forse da un primo sguardo egli poteva scoprire un sistema, od ottenere il dono di un'ispirazione: perciò l'occhio doveva essere limpido, sereno, attento: la mente signora di tutte le sue forze; il cuore non valeva nulla questa volta. Il barone diceva a Severina: - Tu non lo conosci, ma il figlio d'un mio amico ha diritto alle tue grazie. Caro dottore, presento mia figlia... Il dottorino s'inchinò: avrebbe dato metà del suo sangue per una parola che lo togliesse subito d'imbarazzo, ma sebbene l'avesse pensata e preparata, alla vista di Severina vestita tutta di bianco si smarrí. Severina gettò un grido e lasciò il braccio del padre. Severina sorrise, si fregò la faccia come per togliersi una nebbia dagli occhi; e con vivace trasporto esclamò: - È lui? è lui?.. Ah! papà briccone, e cosí inganni la tua bambina? quando sei arrivato, Giulio...? vedi, babbo, se io avevo ragione? O mio Dio, quanta gioia!... Giulio, amico mio, anima mia!... Severina corse verso il dottore, gli cinse il collo con ambo le braccia e posò la fronte alle di lui labbra. Il dottorino perdette per un istante la coscienza di sé stesso, ma stette rigidamente ritto al suo posto, come una colonna. Come ognun vede Severina era vittima di un nuovo inganno, e il barone se ne accorse subito nel riconoscere al portamento all'abito, e all'eleganza del dottore una non lontana rassomiglianza con don Giulio; ma per Severina questo inganno era già cominciato quel giorno che il dottore passando a cavallo sotto il villino, aveva rinnovato, senza saperlo, le usanze del bel contino innamorato. Marco interrogò d'uno sguardo il barone, che a testa bassa e con voce sommessa esclamò: - Secondiamola, per pietà. - Non mi dici niente? - interrogò la fanciulla. - Non mi dai neppure un bacio sulla fronte? sei proprio adirato con noi? - Perché dovrei essere adirato? - balbettò Marco e posò ad occhi chiusi un bacio su quella candida fronte. - Avete fatto la pace, uomini seri? - esclamò Severina. - Papà non sperava piú di vederti, ma io gli andava dicendo: Verrà, verrà... e toh! eccolo qui... Dimmi, e questa causa eterna di rivendicazione...? - È vinta - disse il barone soccorrendo il povero dottore. - Dunque non c'è piú pericolo che per una questioncella di dote e controdote mi vogliate morta.. Come sono cattivi gli uomini d'affare...! ma tu cos'hai che non parli? - Il signor barone... - mormorò! con voce moribonda il dottore. - Ah! ho capito, non siete ancora assolti e benedetti: ebbene qua le vostre mani e che tutto sia finito in nome di Dio e della mia povera mamma. - Il dottore e il barone si strinsero la mano, ma non osarono mirarsi in volto. Essi tremavano. - Ora che i nostri feudi sono rivendicati, pensiamo a far colazione perché la vostra castellana sente il pizzico della fame. Signor cavaliere errante, è pregato... Marco sedette ed era tempo perché sembrava accasciato, e supplicò di nuovo il barone di toglierlo d'imbarazzo. - Il nostro Giulio è alquanto turbato - disse il barone Adriano - perché ha lasciato a Firenze il suo povero padre gravemente infermo.-- Davvero? oh poverino!... - Anzi - fu presto ad aggiungere Marco - la mia dimora a Livorno non sarà che di poche ore. Severina tentennò il capo, si accigliò, raccolse la mente, ma tratta da un'altra idea piú lieta domandò: - Hai ricevuto tutte le mie lettere? - Sí. - Perché non mi hai risposto? - Don Giulio aspettava da me il permesso di risponderti - osservò il barone. - Ebbene, se ora ti faccio una domanda hai il permesso di rispondermi? - Credo di sí - disse il dottore. Severina si chinò quasi sulla spalla del dottore e scotendo con aria civettuola il fascio de' suoi capelli domandò sottovoce: - Mi vuoi proprio bene? Il barone mormorò con voce cupa: - Il nostro Dio si diverte. - Mi vuoi proprio bene? - ridomandò Severina. - Perché lo dimandi? - chiese alla sua volta il dottore. - Perché ho sognato brutte cose di te. - Non credere a' sogni, che sono l'ombra de' nostri pensieri - osservò il barone. - Cos'hai sognato di me? - domandò il dottore che desiderava scendere piú a fondo in quella fantasia. - T'ho veduto passeggiare colla moglie di Putifarre. - Severina cosí dicendo ruppe in un riso smodato e scemo, che conturbò il nostro dottorino, nuovo a questi sbalzi e che sentiva quasi scivolare fuor di mano il filo logico di quella ragione. - Don Giulio - riprese il barone tentennando il capo - vide ieri i nostri amici di Firenze. - E che si dice laggiù del nostro matrimonio? - Tutti applaudiscono - rispose Marco - ma la gioia di tutti è oggi funestata dalla malattia del mio povero babbo. - È proprio vero che il conte Gian Andrea sia malato? - Perché dovrei mentire sul capo di mio padre? - rispose seriamente il dottore, a cui premeva piú d'ogni altra cosa persuaderla di questo fatto e della necessità del suo ritorno, unico mezzo, per vero dire, di rompere quella rete magica nella quale erano fatalmente caduti. - Mi meraviglio - continuò in aria di rimprovero il dottore - che per te mio padre sia semplicemente il conte Gian Andrea e che il suo pericolo ti commuova sí poco, come s'ei fosse uomo qualunque. Severina spalancò tanto d'occhi, sospesa tra la meraviglia e l'ilarità, e pareva chiedere una spiegazione a suo padre, il quale, colta la palla al balzo, seguitò nell'istesso tono: - Don Giulio ha ragione: una grave sventura minaccia la sua casa; rapidamente venne a Livorno per salutarti, per piangere un po' con te e lo ricevi distratta, non prendi nessuna parte al suo dolore, non ti ricordi che fra poco egli ritornerà presso il letto d'un moribondo. Queste parole passando nella testa e nel cuore della fanciulla vi destarono un'insolita compassione, cosicché le pupille le si empierono di lagrime e brillando andavano chiedendo perdono ora dal padre, ora dal dottore; questi sentivasi struggere. - Povero padre! - mormorò anch'essa giungendo le mani in atto di preghiera e sprofondandosi in una difficile meditazione. - Severina - disse il barone di lí a poco - vuoi preparare un mazzo di fiori come tu sai cosí bene? i fiori piacciono agli infermi e il povero conte, sapendo che vengono dalle tue mani ti manderà una benedizione. Severina si mosse; spiccò dalla parete un cappellino di paglia bianca, e un piccolo canestro di vimini. Non osava parlare, ma dalle contrazioni del mento e del collo vedevasi chiaramente come ella lottasse contro i singhiozzi; scese i gradini che conducevano al giardino, col grembiule agli occhi. - Crudeli! - mormorò il dottore. - Forse abbiamo buon filo in mano per uscir da questo labirinto - osservò il barone. Severina oggi è inclinevole a lasciarsi persuadere, e una volta che ella, dottore, sia partito in pace, spero che non si ricorderà di lei come di persona non vista mai. Il dottore seguiva intanto cogli occhi il muoversi di quel bianco cappellino di paglia che spiccava sotto il sole e sopra il color vario delle aiuole: per quanto ei fosse venuto disposto ai miracoli vedeva benissimo come l'opera sua, insistendo, anziché districare ingarbugliasse vieppiú la matassa. - Ella, dottore, potrà incominciare da lontano una cura intesa piú a mitigare che non a sanare le aberrazioni di questa mente. Il dottore non udiva e gli sortí questa frase: - Sarei ben felice di poter continuare questo pietoso inganno. - Avventura da romanzo, caro mio. - Certamente impossibile - aggiunse alla sua volta il dottore che gli pareva d'aver detto troppo, ma nel fondo del cuore gli spiacque che il barone trovasse avventura da romanzo un tentativo che non gli sarebbe spiaciuto provare. Forse, oltre le cento ragioni che ognun vede da sé, il barone temeva questa comedia anche per quel sentimento aristocratico, che confondendosi spesso colla dignità e col dovere, erasi fatto in lui la legge suprema della vita. Forse anche il dottore la pensava cosí perché rispose alquanto acre e imperioso: - Allora, signore, un uomo solo è qui necessario. - No, dottore - rispose fieramente il barone - ho già espressa la mia opinione a proposito di quello sciagurato... Basta! Poiché il mio destino è superiore a qualunque volontà e a qualunque scienza, io la ringrazio, dottore, della sua buona intenzione. Non le resta che di trovar modo di licenziarsi da Severina senza irritarla, e da uomo che obbedisce suo malgrado a una suprema necessità. Perdoni, povero signore - e il barone gli stendeva la mano - ella non è stato piú fortunato degli altri, anzi mi rincresce che per un'ora abbia rappresentato una brutta parte. - In verità, sono umiliato! - disse il dottore chinando la testa; il barone riprese il suo passeggiar lento e grave. Intanto Severina era venuta a sedersi sulla gradinata che dal salotto scendeva al giardino col canestro pieno di verbene, di fuchsie, di basilico e d'altre erbe e frasche odorose, di cui prese a formare un mazzo. Vedendo il dottore fisso in lei gli fe' cenno colla mano d'accostarsi, e volle che sedesse sul medesimo gradino, sotto un pergolato di non so quali arrampicanti americani, tra il profumo dei fiori e colla vista innanzi del lago e dei monti. La fanciulla era docile, graziosa e dolcissima; toccava al buon dottorino cogliere il momento opportuno per tôrre congedo da lei, senza urto, e in capo andava preparando un discorso eloquente; Sua Eccellenza, accostandosi tratto tratto gli susurrava qualche consiglio, ma la parola, la prima parola non gli voleva uscire come se fosse impiombata in cuore. Il sole facevasi varco fra i rami di quel pergolato che un vento sottile di meriggio scuoteva a intervalli e che disegnava una scacchiera di luci e di ombre tenuissime e balzanti sulla balaustra, sui gradini, sul vestito e sul cappello di Severina; in quell'ora calda il silenzio era profondo, non interrotto che da un fruscío passeggiero di foglie, o dal ronzare di un moscone, o da qualche squillo lontano di cornetta, o da qualche scoppio di mina lontano lontano nelle vallate. Marco cercò la manina bianca della fanciulla e fattosi coraggio in nome del proprio dovere e in considerazione del momento solenne incominciò con voce calma e quasi armoniosa: - Perdonami, Severina, se poco fa, dimenticando la tua età e la tua naturale allegria, usai teco parole troppo aspre; ma io sono partito dal letto d'un infermo e sto per ritornare al letto d'un moribondo; tu sai chi sia quel venerando vecchio! Questa sventura tocca sí da vicino anche la tua sorte, ch'io vorrei vederti piangere con me. - Il dottore si faceva a carezzare un nodo di capelli che le scendeva sopra una spalla. - Il dovere e l'amore vogliono invece che io mi allontani subito da te; avrai tu il coraggio di restar sola? potrai dimostrarmi come una donna sappia soffrire piú dignitosamente di questi poveri uomini seri, pasciuti di vanagloria? Saprai dirmi addio senza tremare?.. Ma la voce del dottore incominciava a tremare; per quanto studiasse di resistere agli scherzi della fortuna e di consumare tutto intero il suo dovere, non poteva non sentire le voci del cuore smarrito e tocco. Il barone applaudí fra sé a quel lungo e artificioso discorso, che pronunciato veramente col calore della persuasione e della verità pareva s'insinuasse sufficientemente nel cervello di Severina; costei infatti che in quelle parole e in quell'accento aveva scoperto non so quale nuova tenerezza, fece puntello d'una mano alla testa e socchiuse voluttuosamente gli occhi. - Sono cattiva, n'è vero? - disse abbandonandosi fanciullescamente sulle spalle di Marco. - No, tu non sei cattiva, tu sei un angelo. Il barone passeggiava grave e solenne nel salotto. Impeti affannosi provò il cuore del dottore sotto il fascino di quella tentazione esagerata per la virtú d'un uomo: cosa avrebbe fatto don Giulio al suo posto? non aveva egli diritto di fare altrettanto? l'ardore che uscí dalle sue labbra entrò nelle vene di Severina che riarse negli occhi, in viso e nelle mani. Il dottorino balzò in piedi e disse freddamente: - Addio! Severina stese una mano, senza levar gli occhi e raccapricciò. - Addio, signorina - ripeté quasi in atto di scusa il dottore. - Tu parti? - Sí. - Quando ritornerai? - Quando potrò. L'infelice si fregò la fronte bagnata di sudore e un lampo sinistro brillò nel bianco della sua pupilla; il barone preso sotto braccio il dottore lo trascinò quasi fino in alto del terrazzo. Il canestrino dei fiori cadde dalle ginocchia di Severina e rotolò spargendo poche foglie fino al basso della gradinata. Adriano susurrò a Marco: - Ella mi riconcilia cogli uomini - alle quali parole il dottore sospirò coll'affanno di chi ha l'anima aggravata e non erano ancora a mezzo del salotto quando un acutissimo grido li fe' trasalire. Marco si sciolse dal braccio del barone, che si turò con ambo le mani le orecchie. A un secondo grido piú rantoloso il dottore precipitò fuor della stanza lasciando il suo ospite in una rigida immobilità. Scese i gradini e vide la fanciulla, che distesa, rovesciata, faceva strazio de' capelli, come se volesse strapparli; l'occhio era squallido; bieche le labbra e spaventoso il lamento; le imprigionò le mani nelle sue e gridò tre volte: - Severina! - ella colla forza d'un epilettico si svincolò dalle sue strette e afferrandolo per le spalle esclamò: - Assassino! So dove vai! tu ami un'altra donna... Uccidimi prima... Il dottore sia che intendesse o no queste parole, girò le braccia attraverso di lei e tentennando la portò sopra i pochi gradini, fissandola in viso come se volesse ammaliarla, e appoggiandone, per meglio sorreggerla, la testa al suo petto. Accorsero alle grida le donne di casa che tolta Severina in braccio la portarono pesa come corpo morto fino alla sua camera: all'ira era succeduto uno sfinimento di tutte le forze e un pallore letale e un sudore freddo che grondava dal viso e le inumidiva le mani. Quando fu collocata nel suo letto il dottore notò che una crisi pericolosa minacciava l'inferma e diede i primi ordini per acquetarne il sistema nervoso e per impedire che ella si facesse ancora violenza colle proprie mani. Nel pericolo Marco sapeva sempre trovare la chiara coscienza di sé, e infatti assisté le donne e le rincorò, scrisse una ricetta, mandò un servo alla farmacia, parlò, consigliò, si mosse insomma con quella sollecita prudenza che prevede il pericolo senza sgomentarsene. Ben presto si avvide che il barone non li aveva seguiti e preso da un pauroso sospetto discese precipitosamente dabbasso dove lo trovò ancor immobile, come lo aveva lasciato, fitto al suolo l'occhio nerissimo, solcato da un'onda sanguigna e che brillava di luce tetra nell'orbita livida e profonda. Le grida e i rantoli di Severina avevano avuto per il povero padre qualche cosa di non mai udito e dubitò che quella esistenza, mantenuta finora da un duro inganno non si fosse spezzata come una bolla di vetro compatto che il martello non rompe, ma che un leggiero contatto spesse volte frantuma. - È morta? - domandò quando vide il dottore. - No. - V'è speranza che muoia? Il dottore osservò un guardo fuggitivo del barone verso la parete donde pendeva una bella pistola cesellata e si ricordò la promessa che il signore aveva fatto a sé stesso. - Forse non morrà - rispose quasi con freddezza il dottore; - però se in questo doloroso istante le venisse meno la protezione paterna sarei costretto a ricoverarla in un manicomio. Il barone rabbrividí e Marco fu contento d'aver toccato una corda sensibile, anzi aggiunse con accento vibrato e solenne: - La pazzia è sempre da preferirsi alla disperazione: quella ignora sé stessa, questa... - Questa fa dimenticare i propri doveri - seguitò il barone con voce profonda. - Signore, ella m'intende piú che io non mi spieghi: quanto avviene intorno a noi è straordinario, ma non è quanto di piú terribile videro gli occhi miei nel breve corso della mia vita. Vidi delle povere donne di campagna piangere per fame, cinte dai loro figliuoli e non perdere mai la speranza. Esse erano forse superstiziose, ma sarebbe doloroso che la loro superstizione fosse dappiú della nostra sapienza. Il barone si trascinò fin presso a una poltrona e sedette in modo di rivolgere le spalle al dottore, che nell'aspetto e nella voce gli aveva apparenza d'un giudice severo; posò la testa alla sponda e coprendosi il viso con ambo le mani esclamò: - Si può soffrire piú di cosí? - uno scoppio di pianto disse quanto non è concesso a noi di imaginare. Il dottore lasciò che quelle lagrime scendessero liberamente e, sedutosi appresso, dopo cinque minuti di silenzio ripigliò senza esitazioni e come se leggesse in una pagina scritta: - Signor barone, voglio manifestare una speranza che mi viene dalla considerazione di questi avvenimenti e da quel po' d'esperienza che ho acquistato in questi pochi anni. La mente di donna Severina non è sconvolta in modo da non lasciar nessun barlume di ragione, ma solamente spostata e fissa a momenti imaginarî o a rimembranze passate. Da un anno fu chiusa come in un anello, che oggi per la prima volta noi, senza volerlo, abbiamo spezzato. Difatti non è la prima volta che si ricorda del tradimento del conte? - Sí, è la prima volta. - È la prima volta che al suo furore segue tanta prostrazione di forze? - Sí. - Ebbene da questo pericolo può scaturire la sua salvezza e veda come io la ragioni: Severina ha perduto ogni sentimento, la febbre la percuote, il delirio l'inganna e anziché oppormi a questa guerra che le fa il male, aggiungerò le mie cure per maggiormente abbattere la natura e la fantasia vivacemente accesa. Ella fra qualche giorno uscirà dal lungo letargo, stupita, fiacca, direi quasi distrutta, ma disposta a lasciarsi ricreare; la reazione non avrà piú forza contro la mano medica e soltanto allora credo possibile dare alle sue facoltà mentali quella piega dolce, vera, e pietosa che si desidera. Insomma per venire al caso pratico, supponiamo che donna Severina si riscuota, giri gli occhi intorno, domandi con un fil di voce dove si trovi, che avvenga intorno a lei; non vede, signore, come sarà facile riconciliarla col suo passato? Le si dirà che ella è molto malata, che da tre mesi lotta fra la vita e la morte; che trasportata a stento sul lago di Como, comincia appena a riaversi; che accanto al suo letto vegliò per tre mesi suo padre, attento ad ogni suo delirio, e non solo il padre, ma il fidanzato e le amiche... Tutti questi vengono ad uno ad uno presso al suo letto, si rallegrano con lei che incominci a sorridere e a guarire; allora tutto il passato si presenterà all'inferma colla leggerezza d'un sogno, o d'un delirio... Don Giulio siede veramente vicino al suo letto, e lo può toccare con mano, ne ode la voce lacrimosa, ne sente i baci sulla fronte. Forse avremo un minuto di tentennamento fra la verità e l'apparenza, fra il passato e il presente, ma tocca alla nostra solerzia scacciare le nebbie de' suoi sogni e porle questo presente e questa realtà. Mi par di udirla: "Dunque fu un sogno!" -. "Sí, infelice, fu un sogno di moribonda" le risponderei; "tutto quanto hai sofferto non fu che un rodimento febbrile che noi colle veglie, colle cure, colle preghiere abbiamo guarito; vieni e contempla com'è bella la natura; vedi quanto ha sofferto tuo padre e il tuo sposo.... - Signor barone - esclamò levandosi in piedi - m'inganno troppo? non può avvenire quel che suppongo? - Può avvenire. - Perciò è nostro dovere di provare. - Ma noi torniamo... - Io ripeto per la terza volta una preghiera, che potrebbe essere ormai anche un comando. È necessaria la presenza del conte. Il barone non rispose, ma dal suo volto traspariva la lotta ch'egli combatteva presso di sé fra la pietà e l'orgoglio. Il dottorino nell'entusiasmo della sua sacra missione aveva dimenticato del tutto le sue piccole follie, e in tutto il ragionamento tenuto al barone il cuore non aveva dato un sussulto, come se la causa del cuore fosse innanzi all'interesse della scienza. Forse Marco poteva ingannarsi, ma presentemente non vedeva altro rimedio che la presenza di Giulio, talché per vincere del tutto la ripugnanza del barone aggiunse: - Questo solo mi risulta, e sarei costretto a ritirarmi se mi fosse rifiutato quanto ho il diritto di avere. - Non ci abbandoni, dottore - rispose svegliandosi di sbalzo il barone; - non ha inteso quelle strida? non ha visto quegli sguardi? Dottore, io non mi rifiuto, ma penso al modo di obbedirla. Seguí un momento di muta riflessione per entrambi, nel quale ciascuno si raccolse piú attentamente sui piú intimi affetti. Il barone man mano che si persuadeva della bontà di quel consiglio, e si disponeva a seguirlo, sentiva l'anima rallegrarsi come se uscisse da una rete sottilissima di rimorsi, di rammarichi, di odi e di grettezza; il dottore invece a cui sorrideva la certezza d'un miracolo, e che aveva tanto santamente adempiuto il proprio dovere, era meno disposto al compiacersi di sé stesso, e starei per dire che nel fondo del suo cuore pullulasse una radice amara. - Si scriva dunque al conte - disse il barone, che sebbene fosse disposto a farlo, andava cercando quella via di mezzo che non conduce gli uomini alla gloria. E continuò come se parlasse a sé stesso: - Quanto mi dice, dottore, ha tutta l'apparenza dell'utilità e sarebbe colpa d'entrambi se non si tentassero anche i rimedi eroici; ma come scriverò a don Giulio? debbo pregare o minacciare? non sarebbe piú opportuno che scrivesse per me qualche persona estranea all'offesa? - Sia pure - disse il dottore che non vide di malanimo questo breve imbarazzo del barone. - Se scrivere al conte fosse delle mie forze crede ella che io non l'avrei già fatto? - È una lettera difficile, ne convengo. - Difficilissima per me, non per una terza persona che senza preoccupazioni la scrivesse come da uomo onesto a uomo onesto; supponga che il conte sia ancora un uomo onesto. - Si cerchi un amico comune il quale s'incarichi di questo atto di carità. - Io vivo solo da un anno, né conosco persona piú adatta di lei, dottore... - Io? - disse il dottore con eccessiva sorpresa. - Chi meglio di lei può narrare al conte la miseria di Severina? come medico e amico mio si presenta a don Giulio, non in mio nome, s'intende, ma in nome della scienza e della umanità. - Ma io, sconosciuto al conte... - balbettò il dottore. - Un uomo che ha persuaso me, saprà persuadere anche don Giulio, ma voglio che la lettera abbia un carattere segreto, come se io non ne sapessi nulla, ed ella mi tendesse una rete amorosa. - Ebbene, quando ella vuole... Il dottorino che pareva alquanto umiliato alzò di subito la fronte e disse: - Scusi, Eccellenza, ma chi sa dove il conte si trovi? - Io lo so: da un anno lo seguo coll'occhio per tutta Europa e ciò prova che da un anno teneva in petto il desiderio di riaccostarmi a lui. Fra poco le farò avere l'indirizzo. - Va bene! - mormorò Marco col tono di chi dica: Pazienza! - Ella è mio ospite e padrone della mia casa. Il barone incrociate le braccia al petto si fece a considerare il volto di Marco, che sorrise mestamente: - Dottore - disse - ella è un uomo generoso e forse in questa rara virtù sta il segreto de' suoi miracoli. Accetta la mia amicizia? - Come onore e come ricompensa. Si strinsero la mano commossi e mentre il barone, tocco dalle parole del suo giovane amico, sentivasi inclinato perfino a perdonare, il dottorino non pareva troppo festoso di questi trionfi, e non poteva impedire che un maligno demonio non gli soffiasse nell'orecchio una parola strana, non mai compresa, e di minaccia contro un uomo lontano, non mai conosciuto e punto invidiabile. Egli doveva invitare quest'uomo in nome dell'umanità e della scienza alle dolcezze de' baci di Severina... Diciamolo: il dottorino incominciava a odiare. La storia della fanciullezza di Severina somiglia a quella di molte fanciulle gentili, cui la modestia cela agli occhi de' curiosi e piú a loro stesse. Le preghiere confidate alla mamma, i consigli materni, la lettura scelta, la compagnia onesta avevano fatto sí che a quella tenera età in cui la vita non è che un miscuglio dell'anima col corpo, esistessero già in lei uno spirito padrone e un corpicino obbediente come un novizio. Quattro noci, un panino, una mela e qualche confetto e acqua di fonte saziavano Severina a dodici anni, ma gli occhi insaziabili giravano irrequieti per la campagna, per il cielo, tra la varietà dei fiori, sui vari riflessi delle acque e si fissavano estatici sugli splendori delle notti d'estate. Il suono di una cantilena, d'una campana lontana l'arrestava su' due piedi, e se squillavano a morto piangeva senza saperlo; altre volte rideva pazzamente colle sue compagne, mentre colle dita magre e lunghe andava tagliando fiori di carta o ricamando merletti sottili come la nebbia. Ma le ginocchia soffrivano del troppo star sul freddo sasso innanzi all'altare, dove ella ritiravasi all'avemaria a pregare, fissa nella vergine Maria, a cui il bagliore rossigno d'una lampada dava risalto e movimento. Come piacciono a quest'età le finestre ad angolo acuto, i castellacci neri, le vetriate dipinte, le ombre lunghe che scappano via dai capitelli su per le pareti d'una chiesa lombarda; si potrebbe dire che ciascuno di noi passa nelle diverse età per quei medesimi sentimenti che il popolo provò nel succedersi dei secoli, e che a dodici anni si viva misticamente come san Francesco e il beato Jacopone. Anche Severina ebbe le sue estasi e le sue visioni di angeli custodi (chi di noi non ne vide alcuno?) dei quali anzi sentí piú volte un batter d'ali, che movendo l'aria intorno al suo collo circondava tutto il corpo di una voluttuosa frescura: ogni musica aveva le cadenze dell'organo di chiesa, e nei sogni sfilavano le tredicimila vergini di santa Chiara intorno al suo letto, le quali cantando e con fiori in mano portavano a seppellire una bambina, vestita di bianco e benedetta da un raggio bianco di luna. Chi era la bambina? lei stessa, che si deliziava di quel giacere colle mani incrociate sul petto: e cosí via via cento altri simili fantasmi o sognati o pensati o ricordati in questa età in cui si sa come si muore, non come si nasce. Ma un giorno Severina si avvide che il suo abito era stretto, se ne meravigliò e pensò con pena al perché: nello stesso tempo le parve che crescesse il bisbiglio della gente sul suo passaggio, e sebbene non osasse levare le palpebre, pure sentiva molti sguardi fitti in lei, come per delicatezza di nervi una cieca sente il colore delle cose. Certe mattine, svegliandosi avanti l'alba, sedeva sul letto, le mani in mano, i capelli sciolti, gli occhi fissi alla punta de' piedi che sporgevano da un lembo di coltre, senza un pensiero determinato, senza una volontà, col solo desiderio di piangere, ma pur sorridendo di queste sue sciocche melanconie. Stava cosí lunga pezza stringendosi colle mani le spalle, e abbracciando sé stessa strettamente per immenso bisogno di amare qualcuno. Cosí infatti cominciano ad amarci le fanciulle, prima che ci conoscano, e quando ci presentiamo loro la prima volta, esse ci guardano come gente non affatto ignota e potrebbero dire a ciascuno di noi: È un pezzo che ti sento venire. Quando Severina conobbe don Giulio, senza ombra di peccato le si presentò l'amore, perché là dove pur le sembrava che morisse la grazia della fanciulla, le dissero incominciare la santità della madre; così la virtù lega la donna d'una catena d'anelli diversi, che essa porta come il suo piú bel monile. Ma la pazzia aveva frantumato questo monile. In Severina erano bensí rimasti tutti i sogni e tutte le speranze della fanciulla e della donna, ma orribilmente sconvolti; la natura cieca - e il dottorino se ne accorse subito - continuava contro di lei una gara vigliacca, poiché il pensiero balzano non solo non difendevasi, ma ingigantiva e sconciava i fantasmi della colpa. Così dell'antica severità non era rimasta che l'apparenza, e delle virtù una fredda abitudine, mentre l'occhio acceso e sinistramente poetico, le labbra semiaperte a bevere ogni soffio di brezza, i gridi improvvisi tradivano una povera natura che si rifaceva selvatica. - Insensato! - disse Marco a sé stesso la notte, quando fu solo nella camera che gli ebbero assegnata. - Come si chiama questo mio amore? credo follia, ma follia indegna di ogni compassione. Colui che costringe la vita in una precoce serietà vi muore racchiuso come una larva nel suo involucro. Severina può intendere questi miei spasimi? quel barlume di intelligenza che splende in lei, quel po' d'anima che la fa piangere e sorridere non sono per me, ma io rubo ciò che altri ha ispirato. Ecco il destino di coloro che a vent'anni sono già virtuosi fossili, i quali per amore del giusto perdono sovente il senso del dolce e dell'utile e finiscono miserandi o grotteschi. Cosí lamentavasi fra sé il povero dottorino, girando gli occhi intorno e rimirando i mobili di quercia e il ricco padiglione di pizzo che scendeva sopra il suo letto. Dov'era egli? perché era venuto in quel palazzo incantato? perché non posava la testa sopra i grossi libri che ragionano dell'anatomia del cuore umano? v'era anche una piaga del cuore? Sullo scrittoio trovò un fascio di carte e un biglietto manoscritto; le une erano lettere scritte da Severina a varie persone nel corso di quell'anno fatale, e l'altro l'indirizzo del conte Giulio, Hôtel Suisse, Genève. Vi tenne gli occhi fissi, incantati, temendo che se vi ponesse la mano sopra non isparisse tutta la magia di quel palazzo e di quel sogno. Suonarono le undici e mezzo al paese vicino ed egli, immerso in una poltrona d'alto schienale, e al lume di una lucerna d'argento meditava ancora sulla sua sorte, e ricamava intorno a quell'indirizzo una storia capricciosa e galante, ma non piú lieta della sua. La vecchia Marianna bussò dolcemente all'uscio e riferí come Severina, cessato il delirio e lo spasimo, fosse caduta in un sonno piú tranquillo; Marco le raccomandò di sorvegliarla tutta la notte e chiuse l'uscio con due giri di chiave come se avesse bisogno di segregarsi e di venire dimenticato. La finestra dava non sul lago, ma sull'erto dosso dei monti a' piedi de' quali sorgeva il Ritiro , un pendío piuttosto ripido, coperto di folta e boscosa vegetazione, a quell'ora tocco lentamente dal raggio della luna, sotto il quale spiccava qua un sentiero che s'inerpicava, là il bianchiccio d'un ghiaieto, piú su la figura d'un campanile ritto come un gendarme di guardia; si udivano tratto tratto susurri misteriosi di acque e di frondi secondo la direzione del vento, rauco e sommesso giungeva in quella parte il batter dell'onda contro la riva e lento, quasi pauroso, il battere delle ore. Da una finestra a lui nascosta usciva un raggio che si rifletteva nel verde lucido del boschetto di magnolie, sul quale si disegnava l'ombra mobile d'una cuffia gigantesca; quel lume usciva dalla camera di Severina posta in un angolo della villa e il dottorino esclamò: - E se ella morisse? - Ma non volle durare in queste melanconie, onde tornato allo scrittoio prese a sorte una di quelle lettere e lesse a caso: "Ti aspetto, ti aspetto! guardo il lembo ultimo del mare sperando che tu spunti di là come una rondine; se tu venissi sarei piú contenta del grillo che fa cri cri nell'angolo del focolare e della cavalletta verde che salta sull'erba. Senza di te l'anima mia è vuota, mentre vicina a te sento la voglia di cantare e di arrampicarmi sulle quercie come fanno i passeri, gli usignoli, i pettirossi e le allodole. Senza di te io sono zoppa; vieni, mio caro bastone. Se tu mi lasci sola voglio vivere sotterra vestita di ragnatele". Il dottorino lasciò cadere il foglio e tornò alla finestra perché il disastro di tanti sentimenti e di tante idee lo adirava; suonò in quel mentre la mezzanotte e ricorrendo col pensiero a casa sua si compiacque d'imaginare Celestino sdraiato nel suo letto, colle coltri alla rinfusa, immerso in uno di quei beatissimi sonni che Dio concede soltanto a' suoi frati. Gli parve vedere gli abiti buttati come Dio vuole sopra una sedia, i coturni distesi in mezzo alla camera, la pipa sul tavolino da notte fra gli zolfanelli, la borsa del tabacco, le poesie di Guadagnoli, il ritratto d'un'osteria e una bottiglia coperta da un bicchiere. - Lui felice! - mormorò il dottorino. - Infelici coloro che non vogliono essere quel che sono! Frattanto senza avvedersi andava stropicciando fra le dita l'indirizzo del conte, e quando si allontanò dalla finestra sentissi il collo indurito, e un brivido nelle spalle; era stanco di pensare e cercò di impiegar meglio il tempo scrivendo la lettera al conte, come aveva promesso. Infatti prese un foglio, bagnò la penna, si fregò la fronte e cominciò a pensare al principio che è sempre la metà d'ogni impresa; le lettere di Severina stavano sparpagliate dinanzi, e Marco quasi a suo dispetto invece di scrivere lesse a caso anche questa pagina: "Cara contessa Emma , "Finalmente ieri sera don Giulio si è presentato col suo venerando genitore a mio padre. Quante belle cose mi disse sottovoce, mentre i due babbi favellavano, e quante altre piú belle io gli tacqui! Mi serrò il mignolo col suo mignolo, e sarei stata contenta se un anellino di ferro mi avesse in quel momento legata a lui per sempre. Era il primo uomo, dopo mio padre, che osasse toccarmi un dito, e sentii un fluido venire da lui a me, come quando in collegio tutte in catena si provava la scossa elettrica. Davvero, n'ebbi lo stesso fremito e quell'istessa convulsione che fa ridere, che strappa le lagrime e fa gridare: ahi! ahi! Cos'è l'amore? La nostra madre superiora, te ne ricordi? soleva nelle commediole sostituire a questa brutta parola o amicizia, o stima, o gratitudine, o riverenza e cento altre parole consimili; mettine pur mille e sommate tutt'assieme e non avrai ancora il sinonimo d'amore. Questa è un'idea di Giulio, veh!- se sentissi, come ragiona! "Ieri sera presi la mia Celeste sulle ginocchia e mi sono seduta alla riva del mare. La chiamai Celeste perché è il colore che piace ai poeti, al Padre Eterno, e a lui. Non l'hai mai vista la mia bambina? è bionda, magrina, vispa, e sapiente! quando pongo le labbra sulla pozzetta del suo collo mi sembra di succhiare tutte le debolezze di cui è ripieno il paradiso. O cara Emma, ho bisogno di parlare, di gridare, di propagarmi come una divinità antica, e invidio la pioggia d'autunno che si riversa, e bagna tutto, e scorre da per tutto e si sprofonda in tutte le screpolature della terra...". "Se nella mia vita" pensò il dottore, "mi fosse dato trovare una donna che sentisse razionalmente come Severina; se ella stessa guarita, volesse dire a me quanto scrive d'un ingrato, potrei io resistere all'oceano traboccante di questa felicità? mi sazierei di quest'onda? invecchierei ancora un giorno nella mia vita? Quest'amore ha istinti immortali e se l'anima dell'uomo spirasse in queste maestose imaginazioni, porterebbe seco la gioia per tutta l'eternità." Ma che penso io mai? non sono idee da matto anche queste? perché vado aizzandomi? questo silenzio mi sgomenta...".No, no - gridò a voce alta lacerando coi denti l'indirizzo del conte, alle quali parole rispose un gemito, e un fruscio di foglie nel giardino. Il dottore già coi nervi irritato e la fantasia tesa si sgomentò come innanzi a un grave pericolo e tese ancora l'orecchio, ma non udí che un suono di piccoli passi scricchiolanti sulla sabbia. "Chi passeggia a quest'ora?" pensò " chi sospira?". Prese la lucernetta e si accostò alla finestra: ma un buffo improvviso di vento gliela spense: sparito era anche il lume dalla camera di Severina; buio e silenzioso il giardino. Scoccò un'ora. Il dottorino corse fino al letto e vi si buttò vestito come uomo che per paura si rintani. - È questo l'amore? - domandò a sé stesso e quando a Dio piacque si addormentò. Appena desto, coll'alacrità che ispira l'aria fresca del mattino e la luce del sole, sedette allo scrittoio e scrisse d'un getto questa lettera: "Illustrissimo signor conte, "Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll'autorità d'un superiore, ma io parlo in nome del dovere e della pietà. Chiamato dall'illustrissimo signor barone commendatore Adriano Siloe per esercizio del mio ministero conobbi una donna infelice, pazza da un anno, della quale non oso pronunciare il nome innanzi a lei sperando che sia ancor vivo nel suo cuore. Forse Dio vuol servirsi di me, ultimo uomo della scienza, per guarire questa ragione che una grave sventura ha crudelmente ferito; ma io non potrei far nulla senza la presenza di V. S., S.,perciò venga senza indugio a **** sul lago di Como e cerchi del dottore sottoscritto". Questa lettera mostra evidentemente come Marco obbedisse di malanimo al suo dovere, perché non bisognava, io credo, usare uno stile troppo asciutto e rigido verso una persona che si doveva persuadere e commovere. Ma il dottorino quando contemplò queste quattro righe buttate là nel peggior modo e colla peggior penna si rallegrò come se avesse riportato un trionfo sopra sé stesso o piuttosto per quel suo pregare ruvido che aveva l'aria d'una sfida. Scrisse anche un biglietto a Celestino, dandogli sue notizie, ma prima di chiudere le lettere, quasi gli piacesse d'indugiare, visitò l'inferma. Poca luce entrava nella camera di Severina, e il dottore poté avvicinarsi al suo letto quasi senza essere scorto dalla povera Marianna che sonnecchiava nella poltrona. La febbre tormentava ancora Severina, ma già le sue forze parevano piú stremate, gli occhi piú languidi, e meno accese le guancie. L'inferma non sentí la mano che le toccò i polsi e la fronte, e solo mormorò colle labbra aride parole inintelligibili; il dottorino però interpretando il suo desiderio sollevò di una mano la testa della fanciulla e porse una tazza d'acqua ghiacciata a quelle labbra sitibonde; poi ricompose le coltri fino al mento, raccomandò il silenzio e l'oscurità e usci in punta di piedi. La malattia seguiva secondo i suoi desideri e se ne fregò le mani d'allegrezza: - Diavolo! il mondo ne avrebbe parlato... Un servo lo fermò nel corridoio e gli consegnò un biglietto del barone che dopo aver vegliato gran parte della notte, si era buttato nel letto sul far della mattina. Il biglietto diceva brevemente: "Spero che ella avrà spedita la lettera al conte colla posta della mattina; se non lo ha fatto, non perda piú tempo" - A che ora parte la posta della mattina? - Alle cinque. - Sono le otto: vieni da me fra un quarto d'ora - e il dottorino ritornò nella sua camera molto indispettito con Sua Eccellenza che dopo un anno di perditempo diventava a un tratto scrupoloso dell'ora e del minuto. Dopo lunghe ricerche ho finalmente scoperto che la celebre cantante, per la quale don Giulio erasi fatto cosí leggiermente spergiuro, chiamavasi Adriana Saintrose, bellissima donna, una delle stelle fisse dell'Opéra. Alla Pergola, e specialmente dal primo ordine di palchi, era furiosamente applaudita tutte le sere e piú ancora lo fu, quando si seppe che fra i suoi antichi amanti erasi iscritto anche un alto personaggio della corte francese. Molti di quei signori dalla testa lucida si mantenevano dapprima in un dignitoso riserbo, temendo di aver tra le mani una prima donna comune; ma dopo che il marchese Ercole portò da Parigi la peregrina notizia, cessarono gli scrupoli, e l'entusiasmo lanciò via il tappo. Il contino Leopoldo che allora faceva le prime armi nel bel mondo possedeva un guanto rapito ad Adriana, mentre ella saliva in carrozza; reliquia, che se a uno spirito chiuso e alieno da queste delizie sembra poco meno che inutile tornava invece preziosa fra persone sensibilissime alle grazie della bellezza e dell'arte. Adriana, da parte sua, rispondeva con tanti baci, buttati a piene mani qua e là sull'amato pubblico, e questi baci pur troppo erano colpi di sasso per molti cuori di vetro; gli animi, riscaldati da sguardi, si erano a poco a poco accesi e si era giunti al punto che ognuno credeva follia la speranza di essere prediletto. Si disse che il conte Giulio dal suo palco di proscenio avesse già ottenuto qualche grazia, ma era un'argomentazione di coloro i quali conoscendo i gusti della Saintrose, sapevano che il conte aveva cinquanta mila lire di rendita all'anno Però lo si disse e lo si credette, e ognuno sa che molte cose esistono in cielo e in terra, per l'unica ragione che si credono. Don Giulio, da vecchio lupo di mare, ne rise come d'una facezia e posando al serio, rispondeva che aveva ben altre faccende per la testa; ma quando suo cugino, il famoso marchese Ercole, lo invitò a una serata di gala in casa di Adriana, tentennò, preso da un certo timido imbarazzo, che forse aveva radice in qualche sentimento piú intimo e segreto. Il buon cugino, battendogli paternamente le guancie con due dita gli disse: - Poverino, tu ardi. - Di che? - Di Adriana; lo dice tutto il mondo. - Fai male a ripetere questa sciocchezza, che potrebbe compromettermi in faccia al barone Siloe - Certamente: Adriana da parte sua non è piú prudente di me - Chi? la Saintrose? - Sí: ella chiede sempre del bel contino. - Baje!, - Te lo giuro e, poiché io sono il suo primo confidente, mi ha fatto molte volte il tuo elogio, e mi ha obbligato a trascinarti alla festa o vivo o morto. - Se io non venissi? - Faresti opera santa certamente - rispose il cugino sogghignando. - Io so che voi ridereste crudelmente di me. - Ohibò! tutti noi si direbbe: Gran uomo quel conte! - Io vi conosco troppo, e temo piú di tutti voi i sarcasmi di questa donna olimpica. Sono uomo di spirito e non dubitate che questa sera verrò a vostro dispetto. Non solamente la paura di sembrare uomo dappoco e novizio, ma anche una misteriosa spinta aveva persuaso don Giulio ad accettare un invito obbligantissimo e innocente. Non era amore, ma forse una naturale compiacenza, perché Adriana aveva chiesto di lui; era quasi un senso di riconoscenza, o, sopra ogni cosa, quella curiosità dell'ignoto che attrae gli uomini come i vortici del mare inghiottono i pesci. Dopo tutto non credeva d'offendere la causa di Severina, troppo alta, troppo santa, per essere confusa con un capriccio di prima donna, con un fuoco d'artifizio, colla commedia di una sera, con un amore infine che simile al vin spumante, traboccava tutto dall'orlo, lasciando secco il bicchiere. Di quanti dolori è madre questa facile filosofia delle distinzioni! Il marchese Ercole presentò don Giulio ad Adriana dicendo: - Sposo novello e fra poco marito fortunato. - Possibile? - esclamò la bella donna spalancando in aria di stupore i suoi grandi occhi di bove. - Sissignora: amante e marito fortunato - rispose senza esitazione il conte. - Da noi è un fenomeno ancor possibile, per chi, s'intende, ha meriti speciali. Il conte sapeva a memoria queste vecchie parti, né si smarrí innanzi al sorriso sardonico che sfiorò le labbra di Adriana, la quale, stesagli la mano, disse: - Lasciatevi complimentare. - Credeva che diceste: lasciatevi copiare - rispose il conte con uno scoppio di risa, che toccò nel profondo del cuore la sdegnosa donna. Fra cinque o sei che formavano un crocchio intorno alla regina della festa, s'incrociò un fuoco di fila contro il povero conte, e contro la sua precoce serietà; don Giulio sentí le punte di quella satira fine, e ricorse alla protezione della padrona di casa, che con aria grave e solenne troncò le ciarle, dicendo: - Il signor conte ha ragione: il miglior amante per una donna dev'essere il marito. - D'un'altra... - continuò la voce rumorosa del marchese Ercole, e don Giulio, pensando a Severina e a sé stesso, provò un senso di rimorso non senza dispetto. - Voi siete caduto fra i pirati, conte - gli disse Adriana prendendolo per una mano e indicandogli una sedia vicina. - Vi rincresce, poverino, d'essere rapito, eh?.. Don Giulio sedeva per la prima volta vicino a quella donna favolosa, che era solito vedere cinta del mitico fascino delle luci, delle gemme false e delle armonie; questa donna, che odiava gli sciocchi d'odio selvaggio, aveva cercato lui, e ora lo dominava colla pupilla mobile, eloquente e supplichevole; la voce di Adriana, era nel discorso melodiosa come nel canto, anzi aveva certi sbalzi improvvisi, certi strascichi sottovoce, certi sorrisi granulati che davano i brividi all'anima. - Rispondete, amico - replicò quando furono lasciati in disparte - Vi rincresce d'essere rapito? - Come posso saperlo? - rispose con un leggier tremito di voce il conte. - Io non conosco quel che valgo; sono io merce preziosa o di contrabbando? - Uomo di poca fede e di pochissima carità. - Adriana s'impensierí, lesse a lungo i rabeschi del tappeto, e balzò rapidamente a servire il the. Don Giulio sentiva un fruscio nelle orecchie e una vertigine al capo, come uomo che giunto all'orlo d'una cascata gira e precipita. La conversazione di quella sera tumultuosa non concesse ad Adriana la vittoria, ma le ispirò un immenso desiderio di vincere, il conte, schermendosi a tutt'uomo, non aveva perduto un palmo di terreno, ma non poteva fuggire senza vergogna e senza pericolo. Di fermo proposito la sera appresso stette a lungo nel palco del barone, seduto vicin vicino a Severina, quasi per ritemprarsi nella contemplazione di quella bellezza gentile e casta. Ma la Saintrose fu piú d'ogni altra sera prepotente, affascinante e strappò le lacrime ai vecchi abbonati. Don Giulio, che vedeva molti cannocchiali diretti verso di lui e Severina; che udiva costei tessere gli elogi di Adriana e che, pur troppo, non era senza esca al cuore, si domandò imperiosamente: "Che faccio?". Per le gallerie, sulle scale venivano a congratularsi con lui, come se nel trionfo di Adriana egli avesse gran parte; qualche giovinetto, vedendolo passare, lo seguiva d'uno sguardo lungo e pieno d'invidia, onde il conte stizzito, malcontento di sé e di tutti, pensò di lasciare il teatro, che gli pareva una fornace ardente. Prese onestamente licenza da Severina e dal barone, ma nell'atrio gli fu consegnata una lettera, che alla scrittura riconobbe del suo buon cugino il marchese. Eccola in tutta la sua semplicità: "Caro Conte, "Scrivo sotto dettatura di una persona la quale ti prega di concederle per mezz'ora la tua carrozza dopo l'opera; prima della fine del ballo la carrozza sarà a' tuoi ordini. Il y a anguille sous roche. ERCOLE" E piú sotto in piccolo carattere: "Adriana". Don Giulio corrugò la fronte e si carezzò tre volte i baffi, come soleva nei gravi istanti della vita. Maledisse il cugino, che per suo piacere andava tendendogli queste trappole, ma subito dopo riconobbe che l'intervento di Ercole era forse un'astuzia di Adriana. La preghiera era onesta e discreta e il conte non poteva, senza vergogna, esporsi a un duro rifiuto, che il buon segretario avrebbe reso noto al mondo con qual scandalo, Dio lo sa! Diede perciò gli opportuni ordini al cocchiere, raccomandandogli di essere di ritorno avanti la fine dello spettacolo, quindi tornò al suo palco di proscenio, mentre incominciavano le prime note del ballo; vi si rannicchiò all'ombra per paura che il barone e Severina non lo ravvisassero. Sebbene giuocato dal caso e dagli amici, tuttavia questo nascondersi, questa paura d'essere veduto tornarono agre e noiose a don Giulio, che, umiliato, se la prendeva con Adriana, col cugino, coi cicaloni, con sé stesso. Amava egli Adriana? poteva negare d'aver tremato innanzi a lei? non aveva stentatamente trovate parole per Severina, egli che vantavasi bel parlatore ed esperto nell'arte del commuovere? Sfilarono schiere di ballerine, apparvero sulla scena mari e monti, ma il conte nel fondo del suo palco fissava gli occhi sotto la sedia, colla testa stretta fra le mani; vedeva una carrozza correre per le vie di Firenze, arrestarsi in via Tornabuoni; una donna scendeva, dava una grossa mancia al cocchiere, e insieme una lettera, un invito per domani, un colloquio insomma... Ed ecco i servi della casa a parte del segreto; tutti i servi della città e tutti i padroni di questi servi parlavano di lui e della Saintrose, e cosí lo scandalo andava allargandosi come una macchia d'olio sopra un pannolino. Non era questa appunto l'intenzione di Adriana? per ciò gli aveva chiesta la carrozza quasi volesse allearsi tutta la città per combattere lui solo, inerme, pauroso del ridicolo, vanaglorioso, e che a venticinque anni vantava il coraggio di prender moglie. Aveva bisogno di respirare l'aria della notte e uscí a mezzo il ballo: la testa gli ardeva e il cuore, fatto piccino, soffriva come d'un doloroso presentimento. Incontrò non so quale deputato, suo amico, che gli presentò un alto personaggio russo; il conte balbettò una delle solite frasi e stava per andarsene, quando una voce argentina, nel piú armonico francese, fece rivolgere perfino l'alto personaggio. Tutti s'inchinarono e fra sei o sette curiosi accorsi si apri una via gloriosa, per la quale passò Adriana, vestita come lo sa fare un'artista da palco scenico, che ha fretta, cioè il ricco abito di raso dell'ultimo atto, un peplo mezzo greco e mezzo parigino intorno alle spalle e una nube di garza bianca intorno alla testa. Don Giulio impallidí ma essa venne senza esitazioni a lui, gli stese la mano e distintamente: - Vi ringrazio, conte, che mi offriate la vostra carrozza; accetto, perché il carrozzone del teatro è un attentato contro l' arte... Il conte diede la mano ad Adriana; gli occhi dei curiosi, dei portieri, dei gendarmi, dei pompieri, dei servi schierati innanzi alla porta si conficcarono su questi felici mortali, e don Giulio ne sentí veramente il bruciore come se cento lenti infuocate lo pigliassero di mira. Il conte non poteva chiuder sola Adriana nella carrozza, né ella glielo permise: sedette vicino a lei e i cavalli scalpitarono, gettando scintille, sul difficile selciato. Trentasette cannocchiali (il marchese Ercole li contò) si fissavano in quell'istante verso Severina. In una valle degli Appennini il conte Gian Andrea possedeva un antico castello, quasi sempre disabitato e che per il lungo disuso minacciava rovina. Ne restavano ancora intatte dieci o dodici sale, tappezzate dai ritratti di famiglia e ingombre, piú che adorne, di mobili massicci di noce, con vecchie stoffe dorate, e da una dozzina di panoplie e di alabarde. In una di quelle sale, seduta in una vasta poltrona cardinalizia troviamo Adriana, stanca d'un lungo viaggio, percorso fra le due e le sei del mattino. Come vi sia giunta lo potrebbe dire meglio di me don Giulio, che siede a lei di fronte, immerso in gravi pensieri e coll'abito di velluto alla cacciatora coperto di polvere. Il carnevale è finito a mezzanotte e siamo alla prima mattina di quaresima: l'alba rischiara dai larghi finestroni le cornici d'oro, gli schienali delle sedie, dà al pallore dei due amanti un'espressione abbastanza medioevale. - Messere - esclama Adriana sorridendo - siete già pentito? - Ora che vi amo.? - risponde il cavaliere, prendendole ambo le mani. I misteri vogliono poche parole, e quando abbiam detto che un nuovo amore ha cacciato il vecchio, non ci resta altro a spiegare per chi d'amore s'intende; gli altri credano al mistero, piú comodo e spiccio d'ogni dimostrazione. - Mi piacciono queste vertigini - esclama accendendosi alquanto in viso Adriana. - Cos'è la vita senza le commozioni? a mezzanotte era in teatro; quattro ore di fuga attraverso boscaglie ed eccoci al mattino in pieno medioevo. Non avete liuto, conte? - Voi avrete bisogno di riposo. - Voglio dormire in questa sedia patriarcale. Credete voi che nessuno conosca il nostro nascondiglio? - No: ho fatto credere a una certa causa di rivendicazione di terre, per la quale è necessaria la mia presenza. Adriana, dite almeno che credete all'amor mio: non vi pare che abbia fatto qualche cosa per voi? - Sí, sí, vedo quanto vi costo. - Non dico questo. - Vi costo una dote di due milioni, se non mi sbaglio, e una fanciulla ingenua, che è quanto di piú raro esista, dopo i milioni. - E, se ciò fosse, non merito la vostra fiducia? - Adriana, voi m'insegnate veramente cos'è l'amore. Il cavaliere veduto da lontano sarebbe sembrato inginocchiato presso Adriana, rapito in quegli occhi, che avevano tutte le variazioni azzurrine dell'aria. Durante quell'estasi, l'intelligenza di don Giulio non aveva la virtù di oltrepassare il breve circolo di quelle pareti, in cui stringeva tutto il suo universo, e ogni legge di onore, ogni suo dovere, ogni rimorso, dileguavano come cera alla fornace, o gli sembravano leggi necessarie per il bene di tutti, ma fatali a ciascuno. Severina, nel caldo immaginare di quegli istanti, gli appariva come una di quelle sbiadite figure a guazzo, mingherline e grette, mentre Adriana brillava di tutti i colori ardenti di Tiziano. Don Giulio tornò due o tre volte a Firenze, e credette opera generosa confessare al padre le sue intenzioni; il conte Gian Andrea, vedendolo tanto risoluto, aggrottò le ciglia e gli voltò le spalle, esclamando: - Fate voi, ma è un'indegnità. - In questo tempo Severina cominciò a notare la freddezza del conte, e nacquero i primi disaccordi col barone, disaccordi che portarono, come sappiamo, a un fiero contrasto fra i due gentiluomini e che affrettò la partenza del conte per Parigi. A quest'uomo aveva scritto il dottore la lettera che conosciamo, ma la penna gli diventava di piombo, quando egli si accingeva a porvi il fatale indirizzo. Si imaginava già presente il conte e distrutte le care illusioni, che da un mese lo facevano tanto felice. Perché non ritardava di qualche giorno il compimento di questo sacrificio? aveva diritto il barone di comandare a lui, arbitro della salute e della felicità di Severina? Il servo entrò. - Cosa volete? - gli chiese il dottorino. - Non aveva una lettera da consegnarmi?, - Vi ha mandato qui Sua Eccellenza? - Nossignore, ma ella stessa non mi ha pregato poco fa… - Sí, sí... Eccola. Il dottorino sillabò nello scriverle queste parole: Genève, Hôtel Suisse, mentre un agro sorriso gli sfiorava le labbra. - Sua Eccellenza - disse il servo - mi disse di affrancarla - Fate pure, galantuomo... Il servo, presa la lettera, andò diffilato alla posta. Marco si coprí il volto, strinse i pugni ed esclamò: - Ah, io divento perverso... Non importa, il conte almeno non verrà. Il buon dottorino era colpevole d'un gran peccato, ma non è il caso di confessarsi ora per lui. Secondo il consiglio del dottorino, il barone scrisse alla contessa Ippolita, una delle piú care amiche di Severina, e alla marchesa Ermanna, la vecchia zia, pregandole di venire in suo soccorso, ed esse accorsero sollecite al letto dell'inferma, che già cominciava a uscire del lungo assopimento e a dar segno di conoscenza. Era il sesto dí che Marco dimorava al Ritiro e la malattia, precisamente come egli aveva pronosticato volgeva a buon fine: il conte Giulio, dietro le congetture del barone, doveva aver ricevuto già da tre dí la lettera del dottore e forse fra un'ora, forse fra due poteva arrivare chi sa con quale aspetto! chi sa con qual animo! Alle vaghe interrogazioni di Sua Eccellenza, il dottorino rispondeva con parole monche, sforzandosi di mettere innanzi non so quali dubbi sul carattere di don Giulio, uomo, secondo lui, di nessun valore e inabile a ogni buon'azione. Adriano, occupato nel pensiero di Severina, desideroso e nello stesso tempo pauroso d'incontrarsi in quell'uomo fatale, prestava orecchio distratto alle parole dell'amico, accorgendosi né poco né tanto del suo sguardo timido, del suo frequente smarrirsi e del colore insolitamente pallido. Sua Eccellenza, per quel resto d'orgoglio che ogni uomo porta con sé anche nel sepolcro procurava nascondere l'ansietà che lo dominava, né i servi, né altri, meno la vecchia zia, sapevano del ritorno del conte; il barone soffriva una nuova pena, l'aspettare, ma il suo contegno era sempre grave, solenne e di una immobilità marmorea Invece una gran tempesta rumoreggiava nel cuore di Marco, il quale era certissimo che don Giulio non sarebbe giunto mai, se non per miracolo. Nessuno meglio di Marco sapeva quel che era scritto sopra la lettera mandata a Ginevra, e il buon dottorino che non si era ancora pentito del crudele scherzo giuocato a due uomini illustri, stava, covando rimorsi, ad aspettare gli eventi. A questi rimorsi non era abbastanza compenso l'amore di Severina? egli solo finalmente dominava il campo e don Giulio non era forse tal uomo da meritarsi anche di peggio? Severina, sebbene sfinita, aveva riconosciuto la zia e l'amica, ma destandosi e smarrendosi a vicenda, stentava a raccapezzarsi del luogo e del tempo: girava gli occhi incantati, e ad una ad una andava risuscitando le memorie piú note e piú lontane, senza mai chiedere di don Giulio, come s'ei fosse scomparso dalla memoria. La sera si avanzava. Il barone passeggiando sul terrazzo, spingeva l'occhio nella lontananza del lago già involto dall'ombra; passò l'ultimo piroscafo, né don Giulio comparve. Che avrebbe detto a Severina, se per caso domattina, nelle ore piú serene, chiedeva del suo fidanzato? Come ingannarla ancora senza mettere a estremo pericolo questa fragile intelligenza? Intanto il dottore, venuto al letto della malata, vide che gli occhi estatici di lei si fissavano per la prima volta ne' suoi e che un leggiero rossore, come un raggio passeggiero di sole, colorava le sue guance e saliva, smarrendosi, fino alla fronte. Se non gridò per la gioja, fu per non sembrare scemo o crudele, ma sentí ch'ei rinasceva nel pensiero della fanciulla proprio secondo il suo desiderio, e gli parve di essere lí a contendere quella bella creatura a un branco di avidi ladroni. La luce che usciva dalle sue pupille in quel momento aveva un non so che del falchetto e dell'aquila. - Don Giulio? - domandò sottovoce la vecchia marchesa, che seduta in una grande poltrona a' piedi del letto, diceva corone. - Non è arrivato - rispose Marco. - Noi forse lo cerchiamo invano sulla terra, e questa povera bambina... - I singhiozzi l'interruppero, ma poi seguitò: - Può darsi che anche tornando a ragione continui l'inganno di prima e che voi, dottore, suo fidanzato... - Io? - esclamò tremando il dottorino. - Se ella vi amasse, e se ciò fosse la sua vita? - Ma, io povero uomo... - Il conte aveva un milione e mezzo: io ve ne darei due, dottore, per amore di questa bambina... - Sua Eccellenza non acconsentirebbe mai. - Adriano ama sua figlia... e sopra la necessità non vi è che Dio. Il dottorino a queste parole, pronunciate da una voce tremula e lagrimosa, sorrise fantasticamente e si appoggiò, per non cader ginocchioni, alla sponda del letto. E qui torna opportuno, anche a giustificazione intera del nostro buon amico, osservare come da un mese egli vivesse in un mondo meraviglioso, nel quale i suoi pensieri erano messi alla tortura e i suoi affetti esposti alle piú nude tentazioni onde non dobbiamo far gli occhiacci se qualche volta lo troviamo in colpa e in falsi giudizi. Un dí vede una solitaria bellezza fra le piante sorridere a lui e se ne accende come è ben naturale in un animo gentile; ma questa fanciulla è ricca ed è pazza ed egli cerca di fuggire; no, il destino lo spinge verso di lei, che l'abbraccia, che gli dichiara un immenso amore, che cade come morta a' suoi piedi: da una settimana veglia per lei a consultare gli oracoli della scienza ne spia ogni respiro, ogni batter di palpebre; la gelosia gli entra in cuore quel dí che egli si sente degno di Severina; qual meraviglia se tutti questi casi hanno dato al suo carattere un accento esasperato, frenetico, fanatico e se le sue idee non si svolgono secondo il corso ordinario? Egli stesso se ne accorse alcun poco, e quando venne questa stessa notte a chiudersi nella sua camera, andava chiedendosi se per avventura egli non avesse fumato dell'oppio, o passeggiato a capo nudo sotto il sole. Severina aveva arrossito onestamente innanzi a lui; sia che ella l'amasse come conte, sia che l'amasse come dottore, nessuno poteva negare che tornando miracolosamente alla vita e alla ragione la fanciulla non si attaccasse a lui, come a un caro salvatore. - Domattina sarebbe ritornato a quel letto e alla luce chiara del dí Severina lo avrebbe riconosciuto: "Sei tu?" (il dottorino immaginava per suo conto anche il dialogo). "Sei tu, caro Giulio?- oppure, chi siete voi?" "Io son uno che vi amo, Severina!". "Ah! Dunque fu tutto un sogno quel che io soffrii...?". "Voi avete veduta la morte ma io ho tanto vegliato presso di voi...". "Ah! grazie, mio caro" "Chi oserà porsi fra noi?". Quest'ultima frase Marco la declamò, destando perfino il rimbombo sotto la volta della camera, ed egli stesso n'ebbe vergogna e paura. "Diavolo!" pensò "che la sua pazzia mi entri addosso?". Altri pensieri nol lasciavano requiare, perché la voce misteriosa della vecchia marchesa ronzava ostinatamente al suo orecchio: "Io vi darei due milioni...!!...". Questo era il mondo della favola! che dovesse svegliarsi un bel mattino ricco sfondato? Egli aveva sempre pensato da stoico sul valore dei beni di quaggiù; ma il diavolo non aveva mai fatto tintinnare tanto da vicino il sacchetto dell'oro, come quel dí, e il suon del metallo, ognun lo sa, fa voltare anche il sordo. Essere ricco e amato! - gli pareva la somma di una filosofia nuovissima, che abbracciava in poche parole tutto l'universo, anima e corpo, la vita e la morte e andava domandandosi se egli poteva senza scrupolo stendere la mano a quel mucchietto e stringere in pugno il proprio avvenire; ma le risposte venivano facili e in folla, dal punto che tutto era per la salute di Severina. Come si vede, questo rimuginare gli doveva mettere le fiamme al viso e lo sbalordimento al cervello; gli parve che la sua camera divenisse troppo angusta per quelle idee magnifiche, onde uscito bel bello, venne a una scaletta che metteva al giardino, sforzò dolcemente la molla d'un cancello di ferro, uscí all'aria aperta, che gli era tempo. - Non era ancor suonata mezzanotte, ma tutti dormivano in casa; nessun cane vegliava a custodia, cosicché il dottore poté passin passino attraversare il largo del giardinetto alla volta del bosco di magnolie. - Viaggiavano nel cielo certe nubi distese in figure grottesche e come agglomerate intorno a un piccolo cerchio di luna squallida squallida; l'aria sentiva ancora del fresco e dell'umido di una pioggia cessata da poco, e che aveva sí immollato il terreno che il piede vi sfondava mezzo; poco lontano risonavano i fiotti del lago, grosso in quella notte, che rompendosi contro il solido granito delle fondamenta mandava il suono di una pasta molle sbattuta da un furioso. Qua e là, negli spazi di terra luccicavano sotto quel pigro lume le pozze d'acqua, in ogni forma e misura, come i frantumi d'uno specchio. Il dottore, che stringeva, come dicemmo, il suo destino nel pugno tornò all'idea fissa della pazzia, né gli parve improbabile questo pericolo per un uomo che si trovava al cospetto d'un domani sí meraviglioso e fantastico. Gli vennero in mente le favole di certi romanzi letti da lui in quella età che gli altri li fanno e trovò non esser falsi del tutto quei personaggi, fabbricati a Parigi, pieni di peccati e di milioni, che passeggiano la notte a meditare astuzie e trappole, che compiono le piú fiere vendette, uccidono rivali, avvelenano vecchie avare, rubano testamenti... - Ma che diavolo! mormorava e si batteva la testa col pugno. - Son io che penso cosí? Il dottorino sognava ad occhi aperti e del suo fantasticare avevano colpa, non solo gli avvenimenti, ma anche quel cielo a ragnatele, quelle goccie diacciate, che grondavano dalle lucide foglie delle magnolie, quel brivido che gli serpeggiava sotto pelle, quel non so che, fra la speranza ed il dubbio, che fa tentennare i piú saldi, quella fede in un amplesso vicino, in un bacio sí ardente che avrebbe fatto di una pazza una savia donna e di un uomo ragionevole forse... Udí poco lontano il suono d'un passo e un fruscío di foglie. Ristette su due piedi, ma il cuore accelerò i suoi battiti fino allo strazio - Tende l'orecchio, traguarda fra ramo e ramo e sente un vero scricchiolío di sabbia, onde pauroso, non per natura, ma per le circostanze in cui si trovava, si rannicchiò nei rami sporgenti e aguzzò verso il tempietto del fauno che sorgeva in fondo a quel viale. Di là spuntò un'ombra, che forse era un uomo. Forse anche l'ombra notò un agguato sul suo cammino, perché ristette ferma, senza fiatare, spiando senza dubbio nelle fitte tenebre dove stormivano le foglie. Il dottore andava almanaccando tra sé chi poteva essere l'ignoto vivo, che a quell'ora passeggiava in un giardino chiuso, non certamente il barone che era alla statura piú piccolo d'una spanna, non uno dei servi, né un ladruncolo perché al portamento, al nero cupo dell'abito e a certi rivolti candidi al collo e alle maniche, gli pareva un uomo molto ben vestito. Si ricordò, nel tempo di un amen, d'aver già udito altra volta dalla finestra un suono di passi nel giardino e dei gemiti sommessi e subitanea, come il lampo, gli balenò un'idea, una brutta idea per la verità: - Che fosse il conte? L'ombra rassicurata, si avanzò di buon passo direttamente e verso il dottore, che avrebbe voluto sprofondarsi sotterra. - Chi siete? - domandò con voce strozzata Marco. - Lode a Dio! temeva d'incontrarmi nel barone Adriano. - Ma voi? - Ella è forse il signor dottore? - disse sottovoce lo sconosciuto. - Lo sono, ma vorrei cortesia per cortesia - rispose alquanto stizzito. - Sono il conte Giulio - e nominò quel cognome che noi non possiamo trascrivere pei dovuti riguardi. - Come sta la poveretta? - chiese di nuovo il conte; ma il dottorino, che sentiva un'ambascia insolita e come goccie d'acqua diacciata stillargli sul cuore, non rispose che con un mugolío sordo di meraviglia e di rabbia. Finalmente trovò modo di domandare alla sua volta. - Avete forse ricevuto la mia lettera? - Quale lettera? - disse il conte non badando al modo famigliare e duro del suo vicino. - Vi ho scritto saranno tre dí, ma non so... - Da quindici giorni mi trovo sul lago e da una settimana penetro tutte le notti in questo giardino, come un ladro di campagna; ella saprà che io ho tanti rimorsi da scontare... - Lo so. - E che cosa mi si scriveva? Il dottore pensò un istante e franco rispose: - che ogni speranza per Severina era perduta; che non veniste piú da queste parti perché Sua Eccellenza ha giurato di uccidervi. - Il dottore nel pronunciare queste parole andava tendendo i nervi e stringendo i pugni come se volesse soffocare alcuno. - È la grazia che cerco - disse lentamente e chinando la testa l'infelice. Il dottore lo adocchiò, e non poté impedire che questo accento disperato non vibrasse in modo strano dentro di lui. - Vorrei parlarle con sicurezza - disse per il primo il dottore dopo un lungo silenzio. - Dove potrò trovarla, signor conte? - Alla riva di Molina, non lontano dall'Orrido, al di là del lago. Domandi a qualcuno ove abiti l'Inglese e glielo diranno. - Ella traversa il lago tutte le notti? - Verrà una notte che mi fermerò a metà. - Ah! - esclamò Marco, con un grande respiro, sollevando gli occhi al punto piú alto del cielo, e quel grido pareva volesse significare: Io sono ben tristo! - Non dirà d'avermi incontrato, dottore? - No! - Resto qualche ora a contemplare il lume di una finestra; finché quel lume risplenderà... ma alzando le spalle il conte s'interruppe dicendo: - Buona notte, dottore. - E gli stese la mano: poi sparí per il lungo viale. Marco era legato alla terra, né sapeva formolare un pensiero che avesse un colore e una proporzione; tentennava la testa, sorrideva a fior di labbro e all'improvviso cantare d'un gallo si scosse pauroso, girò gli occhi intorno, uscí dal suo nascondiglio, corse in punta di piedi fino al cancello, salí al buio la scaletta, precipitò nella sua camera e cadde colla testa sul guanciale. La peggior tempesta rumoreggiava in quella povera testa: non aveva per avventura traveduto, sognato, delirato? No, il conte era vicino a due passi da Severina, a due passi da lui. Come poteva egli indifferentemente rinunciare alla felicità per cedere il posto a questo ladrone notturno? Il conte non temeva il barone, e il barone lo aspettava ansiosamente; questi due uomini non si odiavano piú. Chi travolgeva le piú semplici leggi della natura e del cuore umano per tormentar lui, che aveva tanto fatto per Severina? Questo miracolo non avveniva per volontà di Dio, perché il barone non credeva in Dio: uno spirito maligno faceva strazio del suo cuore, e moveva gli avvenimenti come in un giuoco di scacchi. - Oh mia povera Severina! - disse sospirando - ch'io abbia a fuggire da te nel momento che, riaprendo gli occhi, mi avresti beato del tuo sguardo dolcissimo? Prima che spunti il sole, ella potrebbe svegliarsi piú serena, piú docile, piú ragionevole: "Don Giulio non è con voi?" domanderebbe alla zia e all'amica. "Dov'è don Giulio? Chiamatelo" Il momento è solenne! Il dottore ritto in piedi nel mezzo della camera e nell'ombra accompagnava coi gesti questi pensieri tumultuosi. "Il momento è solenne! io entro... Sei tu?..E dopo? se quell'uomo si uccide? se l'inganno non durasse piú d'un giorno? che diverrei io in mezzo a questo mondo fantastico, falso di nome, fra abitudini non mie, fra gente che mi compatirebbe, o riderebbe di me.? Troppi gruppi in una volta, mio Dio!... E pensò finché un tremendo riflesso di luce non disegnò i contorni del monte Bisbino, che sovrastava; il cielo s'era fatto lucido e netto e brillavano ancora molte stelle. Fissò gli occhi in quell'azzurro e in quelle luci, e l'arcana poesia de' suoi quindici anni risuonò a lui d'intorno quasi portata dall'aria mattutina, bisbigliata dalle foglie scosse. Qualche pettirosso provava la voce, ma la sua vicina aveva ancora troppo sonno per rispondergli. Rumori incerti, susurri, fruscii parevano accennar ai primi moti d'una natura che si sveglia, e, la calma del mattino era succeduta ai tenebrosi schiamazzi, alla pioggia e al vento della notte. - Addio! - mormorò il dottorino, non sapendo bene egli stesso a chi fosse rivolto questo saluto. - Addio, sí; ma prima voglio vederti. Si vede che la risoluzione era presa; una fuga. Era ben tempo di fuggire, e troppo grave era stato il castigo di tanto indugio. Fuggire con una dolce imagine nel pensiero, e l'orgoglio in cuore di aver compiuto una nobile azione pareva bello a chi non aveva mai pensato che un uomo possa uccidersi. L'aspettavano ancora le Alpi, i vetturali, gli osti e le montanine della Svizzera; al di là si vendeva birra eccellente a buon mercato e alla peggio la birra istupidisce. Dopo un mese sarebbe tornato allegro come Celestino, con una lunga pipa, coperto d'una buona crosta di esperienza, che salva l'anima dalle malattie croniche. Egli sarebbe partito al primo raggio di sole, lasciando al barone un biglietto coll'indirizzo del signor Inglese e tanti saluti in casa. Era risoluto come un gendarme, ma prima voleva rivederla una volta, il tempo d'un minuto, d'un batter d'occhio. Pensò che a quell'ora tutti dormivano nella casa, perché la vecchia zia ritiravasi a mezzanotte, e Marianna sul far del mattino, nel tempo che ogni infermo suol essere piú tranquillo, godevasi un sonnellino. Un corridoio e una scala di pochi gradini lo separavano da quella cameretta. che avea incominciato a venerare; l'andarvi in quell'ora e solo sarebbe sembrato altre volte alquanto indiscreto, ma egli, fuggendo per sempre, moriva per Severina e a chi muore si usa pietà. Uscí; né tremava, né titubava. La sua ragione era tornata ai sodi principi, alla verità delle cose, ai propositi schietti e luminosi, e se concedeva un'ultima lusinga al cuore, era per meglio rabbonirlo. Giunse e stette innanzi all'uscio; era il medico e poteva entrare. Entrò. Marianna sonnecchiava in una poltrona accanto al caminetto, sul quale ardeva una lucerna accesa appena appena da non essere spenta. Si accostò al letto dell'inferma come aveva fatto cento volte in quei giorni, e non meno franco, e non meno onesto. Sedette sopra la sedia vicina e ascoltò il dolce respiro della dormiente. - Dorme! - disse a sé stesso per il bisogno di occuparsi in qualche argomento. Ma il misurato respiro della fanciulla a poco a poco prese il suono d'un ragionamento susurrato all'orecchio, e il dottorino si chinava per udir meglio; ma non sentiva che un alito sul viso. Il dottorino si strinse le tempia fra le due mani, e la pazzia dell'amore, della voluttà, dell'odio svolazzò e lo toccò; il pianto che da due ore ruggiva chiuso nel petto, minacciò rompere il suo silenzio, e il dottorino lottava atleticamente con un altro sé stesso piú selvaggio, piú irriverente. Entrambi erano forti, ma il selvaggio conosceva certi impeti maligni, che avrebbero ucciso un uomo, e perfino svegliata Severina. - Ah mia bella.... - soffiò il maligno, e svincolavasi dalle strette; ma l'angelo buono lo buttava ginocchioni a piè di quel letto, fremente, ma devoto, riverente, adoratore di quella divina bellezza assopita. Mentre il dottorino, caduto a piedi del letto, smemorato di ogni cosa andava di fantasia in fantasia, una mano fredda, ma dura come ferro, lo toccò. Levò gli occhi. Era il barone. - Usciamo - disse freddamente il barone e si avviò verso la porta, né si arrestò che nella propria camera, seguito in silenzio dal dottorino, che senza imbarazzo, senza preoccupazioni, ma rispettoso e severo, stette innanzi a Sua Eccellenza, gli occhi fissi nel suo viso. Il barone, chinando le palpebre come soleva fare nei grandi momenti, domandò: - Ama ella mia figlia? La domanda era inaspettata, sebbene il dottore avesse già fiutato nell'aria la tempesta, onde balbettò, ma non rispose. - Ella non mi risponde. - Sono colpevole? - domandò alla sua volta il dottore per lasciare il fastidio della risposta al barone. - Io non giudico, esamino. Quali sono le sue intenzioni, signore? - Fuggire da questa casa. - Grazie: almeno è onesto, se non... - Se non ricco! - continuò con amarezza il dottore. - Ciò che non posso concederle, o signore, è il diritto di offendermi. - È giusto! - mormorò il dottore, chinando umilmente la testa. Il barone prese a passeggiare innanzi al dottore, che sentiva rimbombare nel cuore ciascuno di quei passi solenni, e pesandogli il silenzio ancor piú dei rimproveri, si fece forza a dire: - Vostra Eccellenza non vorrà essere troppo severo nel giudicarmi; io non cercai il pericolo, e innanzi al pericolo fuggo. - Il conte è qui - esclamò Adriano alzando la voce. - Come sa? - Ella l'ha incontrato questa notte nel mio giardino. - Ero sorvegliato? - L'amore toglie il sonno agli amanti... - Ella ci ha spiati... - Il conte è qui forse da molto tempo, perché venne al convegno notturno, come uomo che conosce bene la sua strada. Perché ella non me l'ha detto? - Perché... - il dottorino arrossí sebbene avrebbe potuto rispondere d'ignorarlo; ma non affatto innocente, come sappiamo, ebbe paura che il barone gli leggesse in viso il tranello della lettera falsa, ma gli occhi di Sua Eccellenza notarono quelle vampe. - Basta, signor dottore; le risparmio la pena di una menzogna. - Ma!... - Ella ha interesse che il conte non ritorni... - Cioè, interesse... - La vista del dottore cominciava a offuscarsi. - Povera Severina, perdette un amante e ne ritrova due: da bravi, come l'aggiusteranno, messeri? è ai dadi o all'armi che si giuocherà questo cencio di dote? Era troppo; e il dottore, sotto lo spasimo di questo sarcasmo, che gli passava il cuore, evocò quell'antica fierezza di carattere che altrimenti si potrebbe dire coscienza della propria virtù. Non era piú la condizione casuale di un uomo, che lotti contro un sentimento ampio, indefinito, fatale, ma era lotta sincera di un uomo giusto contro un uomo ingiusto, e il conforto della propria innocenza gli ispirò una risposta vivace: - Quel che mi dice Vostra Eccellenza non mi offende, perché non mi tocca; ella non può compatire un minuto di viltà in un uomo onesto, né io mi meraviglio, sapendo come non a tutti gli uomini è dato d'essere generosi... Gli occhi del barone si animarono e nell'arrestarsi a un tratto Sua Eccellenza non seppe celare un insolito impeto d'ira; ma trovò una fronte alta e due occhi, che non temevano i suoi. - Chi non sa perdonare, - continuò il dottore - non intende e per verità lodo Dio che a non tutti abbia largito i tesori di un'anima capace d'intendere e di perdonar tutto. Amai donna Severina, non lo nego, e l'amava già prima di metter piede in questa casa; ma, poiché ella, signore, ha spiato i miei passi, avrà scoperto come non mi giovassi delle occasioni, che un beffardo destino mi offriva, quanto trepidassi alla vicinanza di questa creatura, che si dava tutta a me, come ad un amico, come ad un fratello; tentennai un giorno, non lo nego, ma fu sotto il fascino di alcune domande che feci a me stesso: Non sono io degno di lei? Non l'ho io ricreata? - Oggi rispondo calmo, sereno che no, e fuggo. Se paresse al signor commendatore ch'io fossi troppo pigro ad andarmene, può licenziarmi: una pena la merito e son pronto a scontarla. Il barone andava squadrando questo giovanotto con occhio stupito, e gli impeti di un sacro orgoglio offeso salirono piú volte a suggerirgli una parola acerba, e che fosse l'ultima di un dialogo già troppo lungo e umiliante; ma la parola non venne, e invece gli parve di cedere al peso di un'eloquenza seduttrice, che gli mescolava i giudizi nel capo, e confondeva le verità piú lucenti. Non rispose subito, perché si avvide che le parole vecchie non valevano, e a trovar le convenienti, che sciogliessero il nodo e che fossero nello stesso tempo aristocratiche e giuste, non aveva la calma necessaria.. Il dottore stanco d'aspettare quest'ultima parola, che egli stesso aveva invocato, urbanamente disse: - Se il signor barone mi crede indegno di questa parola, io ubbidirò anche a un gesto... Al fremito, che corse per tutto il corpo del barone, si sarebbe detto ch'ei fosse adirato di quella non mai finita umiliazione, o che avesse dispetto di quell'uomo, tanto pieno di giustizia. - Cedo il posto, - seguitò Marco - a persona piú degna e piú rispettabile... - Non è vero! - gridò infuriando Sua Eccellenza. - Questi elogi non richiesti sono per me una nuova offesa: è una gara di generosità, che mi adira. - Il conte ha dei diritti, o, se meglio le piace, dei doveri. - Chi intende queste contraddizioni? - Mi sforzo d'intenderle. Amo, lo confesso, ma il mio posto non è qui. - Sa il conte d'essere aspettato fra noi? - Lo saprà avanti mezzodí. - Non precipitiamo gli avvenimenti. - Donna Severina potrebbe dimandare di lui. - Di lui! di lui! - ripete Adriano. - Il mio sangue si ribella ancora a questo nome. - Ancora? Non intendo... - Ah! non intendete alla vostra volta: voi siete un uomo ben stravagante. Perdonate la confidenza colla quale vi parlo. Il dottorino strabiliava e sentendo la voce piú conciliante e il modo col quale il barone gli parlava, piú modesto e amichevole, fissò uno sguardo curioso in quel volto pallido. - Il conte non merita questa felicità, n'è vero? - Non voglio giudicare... - Severina forse... - Il barone esitò e poi alzando a un tratto la voce esclamò - Vi rincrescerebbe, dottore, s'io diventassi generoso? è invidiosa la vostra virtù? - Ciò vuol dire?.. - Vuol dire che ogni minuto della vita c'insegna una verità: dottore, è finita la prova, e vi ritrovo, qual vi pensai, grande e degno d'una regina... - Io? - Voi, sí, voi. Da molto tempo vado spiando i vostri passi, le vostre veglie, e quando penso che per opera vostra Severina m'è ridonata, e che ella ha imparato ad amarvi, e che voi l'amate, come posso io preferire un uomo, che l'ha tradita, e che versò il pianto de' suoi rimorsi nel seno d'altre donne? - Ma il conte l'ama... - Ami! è questa la mia vendetta. - Ciò è impossibile. La nobile e dignitosa condotta del dottorino, una speciale simpatia per lui, la gratitudine naturale per il tanto bene da lui modestamente compiuto avevano risvegliato nell'animo del barone non so quali antiche memorie di tempi giovanili, allorché, levando la testa dai grossi libri della filosofia, egli discorreva fra gli uomini a cercare le orme d'una virtù, che dicevasi passata sul mondo. In quei dí, nella vivacità dei vent'anni, sorvolando ai fatti comuni della vita accidentale, e alle frequenti viltà, il barone soleva fermarsi piuttosto a contemplare in sé stesso gli elementi di una filosofia umana capace di fatti grandiosi; perciò al tornare di quelle memorie, credeva ritrovare nel dottorino quel sé stesso, che la disperazione aveva da molto tempo ucciso. In questa bassa landa dei vivi, dove l'esercizio di una semplice bontà è tenuto a vile, e dove si preferiscono le grandi massime che intontiscono alle povere opere che guariscono, dove gli uomini si fanno ogni giorno piú noiosi che utili, il barone compiacevasi di aver trovato una rupe solitaria, che aveva ancora del vecchio macigno. Se prima non se n'era accorto, la ragione si è che viveva lontano dalla gente e questi rari avanzi giacciono nascosti nella moltitudine e non li trova se non chi li desidera. Il barone strinse la mano dell'amico e gli domandò: - Avete capito? - Se non è un sogno, è questa un'offerta ch'io non posso accettare... - Temete l'ira del conte? - Il conte è un infelice. - Lode al vostro Dio. - Eccellenza, - rispose con voce commossa il dottorino - vi fu un istante che io sognai questa lusinga e questa fortuna, ma cattivo consigliero è il cuore innamorato e il piú delle volte trionfa a danno della sana ragione. Quale sarebbe il mio destino s'io non fuggissi? lo dica una parola: Sarei un uomo spostato. Innanzi agli altri cesserei d'essere quel che sono, per diventare che cosa?.. un amante, un marito, un ricco fortunato e caro al cielo. Signore, per tutto ciò può pur meglio di me bastare il conte, e lasci che io torni, ove sono desiderato, fra quella gente a cui ho promesso il mio aiuto, dove il conte è inutile. - Amiamo l'equilibrio delle cose che regge il mondo. Chi mi assicura oltre a ciò che Severina non si ravveda dell'inganno? Abbiamo incominciato questa storia pietosa come una novella per le donne gentili, ma è tempo (e ne sento il bisogno) di tornare al giusto senso delle cose, di ristabilire l'ordine, anche a dispetto del cuore... Lasciamo i vecchi romanzi e facciamo della vita. - Il conte ama donna Severina, e da molte notti entra in giardino per sedersi sotto una finestra illuminata; anche qui, signore, c'è dell'infermità, e un'offesa fatta a un uomo disperato potrebbe eccitare una vendetta, in qualunque modo spaventosa sia che il conte castighi me, e sé stesso, o tutte quante le donne che gli parleranno d'amore.- Invece s'io torno al mio paesello, Celestino sarà contento, il conte tornerà giustificato dai rimorsi, ella, Eccellenza, avrà la consolazione di ricordare un uomo... non affatto indegno di vivere... La voce gli mancò e non potè arrestare una mezza lagrima che spuntò sotto le palpebre; il barone, che stava riflettendo alle cose udite, sorreggeva il volto colla palma e tentennava la testa sforzandosi di rassegnarsi. - Non è meglio cosí? - riprese con voce piú chiara il dottorino come se ora parlasse per conto altrui. - Il cuore non è ostinato e si lascia a poco a poco persuadere, se la ragione sa parlar come va. - Questo signore... tornerà? - mormorò Adriano. - Non so imaginare il modo migliore di riceverlo. - Gli scriva due linee d'invito, che io porterò; cosí avrò la coscienza di aver compiuto tutto il mio dovere, e sconterò qualche peccatuccio... - Il dottore sorrise. - Mandiamo un servo. - No. È necessaria una persona che narri la storia di questa malattia, e che dimostri la necessità d'un pronto ritorno, se no, il conte potrebbe pensare a un tranello. - Per parte mia? - So quel che mi dico, Eccellenza, quando parlo de' miei peccati: due amanti, che s'incontrarono sotto la medesima finestra, si scambiarono delle spiegazioni, ma può darsi che qualcuno abbia accusato anche Vostra Eccellenza di un delitto premeditato. - Il dottorino sorrise allegramente, e sforzò al ridere anche la patetica faccia di Sua Eccellenza. A colazione la vecchia zia narrò come Severina allo svegliarsi avesse dimandato di don Giulio e il dottore permise che le si parlasse del prossimo arrivo del conte. - Ma Severina non si accontentò di vaghe promesse e il dottore le fece dire dalla contessa Gemma come prima di sera don Giulio sarebbe di ritorno. - La malata in questa dolce aspettazione si acquetò. - Tutto va bene, - disse il dottore fregandosi le mani - e farò stampare questa guarigione sul bollettino medico. Chi sa che non mi faccia una gloria europea. Ho bisogno di un po' di gloria… Il barone scrisse un breve invito per il conte e sul far del mezzodí il dottore scendeva i gradini di una scala che metteva nel lago, ove era pronta una piccola gondola. Adriano lo accompagnò fino all'ultimo gradino, muto, malinconico, come se partisse l'amico della sua infanzia, e a stento seppe balbettare: - Passerò tre ore di febbre. Il dottorino entrò nell'elegante gondoletta e in tre colpi di remo si allontanò solo solo da quella malaugurata costa. Quando fu nel mezzo del lago, tirò i remi in barca e, lasciando che l'acqua leggermente commossa dal vento lo cullasse a suo capriccio, cercò di occuparsi in idee comuni per distrarsi, ora guardando il cielo coperto di nuvole, ora i monti e i loro contorcimenti, ora le coste interrotte dai rapidi ghiaieti. Cosí oziando e tratto tratto movendo i remi colla noncuranza d'un pesce che scuote le pinne, venne senza accorgersene quasi a contatto d'un'altra barca, guidata da un vecchio rematore, che a' giorni suoi non aveva mai tratto a riva un carico tanto irrequieto. Erano dieci sartine, venute da Milano a far festa sul lago, pigiate sui loro sedili di legno, con abiti quali li sa fare chi veste sí bene le altre, le une bionde, le altre brune, qualcuna né bionda né bruna, tutte con occhi ladri, delicati, e scosse in quella vecchia barcaccia dagli urti, che dava la vivacità, lo scherzo e la paura. - Legna verde! - disse il vecchietto al dottore, accennando a quel complotto vivace, che faceva un cicalío da cento passere sopra una pianta; e il dottore fu sorpreso dalla varietà degli scialletti rossi e azzurri, dalle piume confitte in gusci di noce, o cappellini, legati sopra una piramide di capelli, come, alla lor volta, le fanciulle destate dallo scherzo del barcaiuolo, si fecero a contemplare la bella gondoletta e il bel pedagogo che andava, dicevano, a pesca d'anguille, non risparmiando le puerili esclamazioni, né le risa semplici, che scoppiavano a loro dispetto dai fazzolettini bianchi e profumati. - Marco, sebbene avesse l'animo penosamente occupato, pure fu in procinto di seguire la bella comitiva fino alla villa Pliniana, dov'erano dirette: passare un'ora fra quelle passerelle, spiegar loro l'iscrizione latina che vi è coi soliti commenti che un giovane di spirito sa cavare da una pagina di bel latino, sarebbe stata senza dubbio la consolazione di tutti i suoi mali. Qualcuna aveva sul viso una espressione profondamente erudita e avrebbe saputo cavar nuovi commenti dalla lezione, supponiamo, carezzare la barba del bravo pedagogo pescatore d'anguille; ma il braccio, seguendo l'impulso d'un pensiero piú profondo girò a poco a poco il remo e spinse la gondoletta piú in là verso la riva di Molina, dove già apparivano poche case e piú in su, a mezzo il monte, tre paesetti con ville eleganti e tra le pieghe del monte ombre e verdi cupi e su su le nude rotonde delle cime e sopra tutto il panorama una tinta di sole acquaiuolo. Che malinconia! Che voglia di piangere! Ma il fantasticare era inutile dal momento che la barca, toccata riva, non poteva andare piú oltre (egli avrebbe cosí vagolato per sempre), onde sbarcò, chiese al primo uomo, che gli venne incontro, del signor Inglese, e, dietro le indicazioni, venne frettolosamente a un'osteria modesta, ma di bell'apparenza. Intese come, secondo il solito di tutti i dí, milord fosse andato al vicino Orrido di Molina, dove passava qualche ora a dipingere, e senza perder tempo il dottorino prese la strada dell'Orrido, che ben conosceva, annoiato di questi indugi che prolungavano il suo martirio. Sassosa era la strada ed essendosi messo un vento straordinario, ei camminava con pena, presso a poco come chi sogna di correre e che sente le gambe intralciate. Il cielo facevasi sempre piú spesso di nuvole e andava offuscandosi specialmente per un cumulo gigantesco, che montava dietro il montagnone - la cuffia del Bisbino; la punta di Torriggia appannavasi sotto un velo di nebbia e le case al di là, fra cui il Ritiro sfumavano come vecchie pitture sopra un muro umidiccio; stormivano gli alberi, si turbavano i ciuffi d'erba che spuntano dai crepacci, e volavano folate di polvere, onde il dottore si fermò a considerare come cosa non mai veduta, la superficie del lago senza riflessi e qua e là qualche barca peschereccia, che guadagnava la riva, le onde, che venivano attorcigliate come cannoncini e che finivano a squagliarsi fra i ciottoli in spume bianchiccie e morbide come la panna. Qualche uccellaccio del mal augurio strapiombava da una catena all'altra dei monti, sopra le ali lunghe e immobili, e nell'aria tutta sentivasi un tempo diavolone. Per conto suo il dottore non era malcontento che la natura prendesse il colore de' suoi pensieri e stette fermo a contemplarla, finché le prime goccie non lo scossero. Il conte vestito di un abito di flanella bigia, succinto e stretto alla vita da una cintura di cuoio, con un berretto alla staffiera orlato di nastro scozzese, veniva, con una cassettina sotto il braccio, alla volta del dottorino che, tiratosi sotto il monte, pareva un masnadiere in attesa. - Signor conte - disse. - Chi mi chiama? - Sua Eccellenza il barone Adriano Siloe mi manda; eccole un suo biglietto. - Che? Sua Eccellenza ha scoperto... - Ha saputo che don Giulio è da quindici giorni sul luogo. - Da chi lo ha saputo? - Io glielo dissi. Non si ricorda, conte, di avermi incontrato questa notte? - Ella è il dottore? È questo l'avviso d'un'ultima disgrazia? Dica schietto, vi sono da lungo tempo preparato. - Cosí disse il conte, ma contro sua voglia impallidí. - Ho bisogno di parlarle a lungo, né qui mi pare luogo opportuno. Come si vede il dottore pigliava tempo a rispondere e il conte, confusamente commosso, correndo col pensiero a indovinare, balbettando rotti monosillabi, precedette il compagno verso l'osteria e sentiva dentro di sé che, se la fanciulla era morta, eterna sarebbe stata per lui la disperazione d'averla uccisa. Cosí nel primo momento, ma poi riebbe il sopravento quell'orgoglioso cinismo, che da qualche tempo si era fatto in lui un'abitudine, molto piú che agli uomini in genere spiace sempre mostrarsi ad altrui vinti dalla propria coscienza; talché la disperazione dell'animo, che stava per rompere in furore, si sciolse in un amaro sogghigno e in un tentennamento del capo e in un levar di spalle beffardo, come chi dicesse: - Tutto è finito. Entrarono nell'osteria, dov'erano raccolti alcuni barcaiuoli e pescatori e, quasi milord temesse che quella buona gente leggesse nel suo volto il gran delitto, si fece a ciarlare con loro, guastando l'italiano da bravo inglese, e cercò del fuoco alla pipa di Anselmo, l'oste, e comandò del vinetto bianco per sé e per il dottore. Costui andava considerandolo con meraviglia, ma piú occupato di sé, seguí il conte su per una scaletta fino a un camerone, disposto a studio di pittura, con un cavalletto e sopra un quadro coperto, presso la finestra, una tavola piena di manoscritti, di giornali, di musica e uno sparpagliamento di disegni, di schizzi e di stampe su per le pareti e per il pavimento. La bella Luisina entrò con un fiasco di una vernaccia favorita da milord, e bisogna dire che il conte si fosse dato a tristi abitudini a giudicare dall'esagerazione del fiasco. Infatti don Giulio non esitò a tracannare d'un fiato il suo bicchiere e, come se ad un tratto uscisse in una sfida, gridò: Lo dica dunque, è morta. - No. - È moribonda? Sia spiccio. - No. Donna Severina è guarita. - La pazza? - Non è piú pazza. - Lo sono io? beva dottore e parlerà piú chiaro. - Benissimo! - gridò alla sua volta il dottorino, riempiendo il bicchiere. - Beviamo, perché il racconto è allegro e bello. Il conte non bevve piú durante il racconto del dottore, che si fece a narrare con tranquillità tutta la storia di Severina dal giorno che egli l'aveva conosciuta e l'invito ricevuto dal barone e l'incontro colla fanciulla e i nuovi inganni, in cui era caduta e i baci e gli abbracci che egli, senza suo merito, aveva toccati e la crisi del male risolta e la sicura guarigione. Tacque affatto del suo amore e fece bene; però per acquistar lena e per rischiarare le idee, il buon dottorino, che pareva il piú allegro uomo del mondo, empí non so quante volte, dopo la prima, il suo bicchiere, non per deliberato proposito di ubbriacarsi, ma sbadatamente. Quando don Giulio intese com'egli fosse aspettato, il suo volto s'infiammò per un precipitoso afflusso del sangue, tentennò la testa per tirarla al giusto apprendimento di quella notizia e balbettò: - È vero? - To'! - gridò ridendo pazzamente il dottorino - ch'io sia venuto a contar fandonie? - e picchiava troppo forte il bicchiere sulla tavola. - Severina? - esclamò il conte balzando in piedi e fregandosi la fronte e gli occhi. - Ma non è un sogno questo? mi svegli dottore, se questo è un sogno. Il dottorino ghignava allegramente. Il conte pareva fuor di sé e girava per la camera, ridendo, esclamando, scarmigliandosi i capelli, frugandosi nelle tasche, come uomo che cerchi qualche cosa e che non sappia ove riesca. Il tempo frattanto si era fatto buio e le vetriate tremavano per i forti buffi, che venivano dal bacino di Argegno; una pioggia a sbalzi picchiava rabbiosamente sui vetri e lampi rapidissimi si disegnavano facendo aureola fiammeggiante al montagnone di contro e talora nicchiando come la pupilla d'un selvaggio incatenato. Il dottorino stentò a levarsi dalla sedia e non senza fatica venne fino alla finestra, da cui grondavano rigagnoli lunghi e giallognoli e serpeggianti, come vermiciattoli, fino a mezzo della stanza. Appoggiò la fronte, che bruciava, al vetro gelido e forse per effetto di quella vernaccia, bevuta in mal punto, dopo un lungo digiuno e un viaggio malaugurato, vide sul piano plumbeo del lago sorgere boschetti e cespi e un villino e macchie di fiori, fra i quali movevasi un bianco cappello di paglia. Però il conte, già troppo egoista per natura, non si avvide né dei fumi, né dei barcollamenti, da cui era preso il dottore. - Bisogna partir subito. - Subito - rispose il dottore. - Non permetto che ella mi segua con questo tempo, - Si figuri - rispondeva l'altro, tanto per rispondere. Ma nessuno di que' barcaiuoli volle prendere il remo e sfidare il tempo, neppure per qualunque offerta, segno che della vita quei filosofi avevano un concetto piú largo d'una moneta d'oro. Il conte cominciò a bestemmiare fra i denti e domandò al dottore, se sentivasi cuore d'accompagnarlo. - Anzi è il dover mio - rispose il dottore, tanto per rispondere. Ma questa volta milord aveva fatto i conti senza l'ostina, la bella Luisina, che, all'intendere quella disperata risoluzione, fu per cader morta o poco meno, dallo spavento; venne innanzi al bell'inglesino, e alzò la voce e le braccia, e lo cinse al collo e lo bagnò di lagrime, chiamandolo con tali nomi pietosi, che tradivano in lei quella cara amicizia, che va perdendosi nel mondo. Spiacque a don Giulio questo contrattempo, sebbene non gli riuscissero tutt'affatto nuove queste cerimonie della bella ostina, onde con violenza aspra e ferina si sciolse da lei, che cadde davvero ginocchioni al suolo; il conte urtò nel gomito il dottore e quasi lo sospinse fino alla gondoletta, maledicendo a mezza voce le ostine, che, quando amano, amano davvero. - È giusto che mi ricordi di te, ma domani... Presto, dottore, a poppa. Il tempo è molto brutto, ma ella conoscerà meglio di me questi venti... Il dottore obbediva. Arrancarono i remi, e aiutati da pochi pescatori accorsi, presero il largo, ma l'onda li risospinse ancora a riva, finché accordatisi colla voce, si curvarono entrambi sui quattro remi gagliardamente, piú con rabbia che con arte, ciascuno, per ragioni sue particolari e alla sua maniera, orgoglioso di sfidare la morte. La gondoletta prese l'aire come vollero i padroni, e, quando fu a cento colpi di remo dalla sponda, cominciò a galoppare, precisamente come un poledro balzano e il conte andava gridando con voce chiara ed eroica: - Attento! l'onda è qui: su! - e la gondola montava in groppa a un'onda, che veniva per schiacciarla; il vento si portò i cappelli dei remiganti, la pioggia fitta li batteva ostinatamente nel viso e negli occhi. Si era già al tramonto, che in quel dí aveva precipitata la corsa e al giungere della sera meschiavansi, non saprei dire, quali nuovi venti alla battaglia, cosicché l'onde squallide si gonfiavano e si sbattevano affannosamente le une contro le altre destando rombi e gemiti misteriosi. La gondola una volta dié di cozzo nella curva di un'onda e da tutte per un terzo girò sopra un fianco, schiaffeggiata le parti da fiotti, che sormontarono e che cercarono tirarla giú coi loro uncini di spuma, ma i due rematori con un grido se l'intesero, e con un po' di tabusso e di scialacquo si drizzarono. Toccavano già il mezzo del bacino sudati, grondanti d'acqua, coi capelli strabuffati, arsi in volto, coi denti stretti, e mandavano ad ogni colpo una specie di ruggito che alla sua maniera sfidava le furie delle acque e dei venti. - Severina merita questo viaggio, n'è vero, dottore? Cosí domandò il conte in un istante di tregua e seguitò: - Da bravo, punti a destra. Io vedo già nelle tenebre il mio paradiso... Il dottorino man mano che entrava nell'animo del conte, scopriva come l'orgoglio e l'egoismo ispirassero tutte le sue passioni come quel riaccendersi dell'amore avesse in se piú del furore che della compassione e infatti don Giulio sentivasi spinto verso Severina da una disperazione, che, radunata per tanto tempo fra le strane avventure, assopita qualche volta ma non spenta mai, aveva minacciato rompere in follia. Questa disperazione, quando riprese nome di amore, piú che amore si poteva chiamare bufera voluttuosa che eccitava gli spiriti fieri del patrizio e l'avidità cieca dell'uomo. Ecco perché il conte, senza accorgersene, riusciva crudele contro il dottore. Questi aveva già l'esca al cuore; la vernaccia gli dava le vertigini, l'ondeggiamento della gondola gli metteva in corpo la nausea, la pioggia e il vento gelato, destando in lui i brividi della febbre, congiuravano contro la sua ragione e contro i propositi gravi che aveva promesso di mantenere: passavano degli intervalli fra queste tenebre, nei quali il dottore smarriva del tutto la coscienza di sé e, come se la testa abitasse in qualche pianeta lontano, ragionava sí, ma non colle idee di tutti i dí, esagerandole, mescolandole, addormentandosi talora in una dolorosa estasi, che non era altro se non smemoramento. Perciò alle parole del conte sentí ribollire i vecchi spiriti domati fin qui, e, perduto il sentimento del giusto e dell'utile da ubriaco, infuriò contro l'uomo che l'oltraggiava contro la sorte che l'aveva stretto fra le asse d'una gondola, e si sarebbe volentieri rovesciato nei flutti, non per volontà di morire, ma per scatenarsi contro un nemico qualunque. Fu in questo rapido delirio ch'egli dié quattro o cinque colpi di remo a contrattempo, in risposta all'offesa del conte, il quale non immaginando quello scherzo e colto all'improvviso, fu imbarazzato nel remeggio, talché un'onda subdola, che incalzava, urtò la navicella di traverso, la spinse e la portò con una lama d'acqua, per buon tratto, all'indietro contro un'altra, che piombò sopra la prua dov'era il conte: questi, che sentí cedere l'assito, tentennò, si protese col corpo piú che poté sopra il remo sinistro, e, rinversandosi energicamente sulle calcagna, trasse la gondola da un pericoloso avallamento, sebbene fosse già stortata sul fianco e assediata da nodose spire. Un lampo rossigno, che balenò, illuminò il valoroso lottatore, bello nel suo abito bigio, e coi capelli ricciuti, che colle scosse cavalline del capo, toglieva dagli occhi; anche il dottorino lo vide e gli parve sublime. - Conte - gridò - pare che l'inferno sia ben vicino al vostro paradiso. - Avanti, il vento è gagliardo, ma per Severina scenderei anche negli abissi. - Povero Orfeo! ahi! mi si è spezzato un remo. - Maledetto! - urlò il conte, che sentí un sinistro scricchiolio e un nuovo urto alla gondola. - Che è questo, che è questo? - ripeté. Una spaventosa idea venne in mente al conte, a cui il contegno del dottore cominciava a parer ben stravagante. - Conte - seguitò il dottorino con voce sguaiata - fermiamoci alla prima osteria? Luisina ci porterà della vernaccia. Queste celie, che scaturivano quasi dal buio, fra pericoli di morte, suonarono male all'orecchio del conte, che cominciò a dubitare d'un inganno. Il racconto udito poco prima gli parve a un tratto inverosimile, e corse col pensiero al barone; pensò che Severina fosse veramente morta e che questa fosse una trappola e una vendetta. Vendetta di chi? non d'altri che di quest'uomo venuto a sfidarlo sí bizzarramente fra la tempesta, correndo egli stesso pericolo di morte. Non aveva detto il dottore di baci e di abbracci ricevuti, senza meritarli? non aveva vegliato molte notti al letto di Severina? ch'ei l'amasse? non aveva costui contemplato a suo agio tanta bellezza? ah certi suoi sorrisi maliardi! senza dubbio il dottore era un rivale disperato. Queste idee si accumularono nella testa del conte nel tempo che brilla un lampo, e la gelosia feroce e la vergogna dell'onta, e la paura della morte e dell'ignoto destino piombarono, come tanti nembi, nell'anima, e gli oscurarono la vista. Il dottore taceva; era forse scomparso? il conte lavorava di braccia, la pupilla fissa innanzi a scrutare il pericolo, l'orecchio attento ai piú deboli fiati di vento, presentendo quasi coi nervi il venire di un'onda, fiutando nell'aria la via giusta, duro, ostinato, pronto a contendere quella spanna di assito alle furie e all'ira degli uomini. Povero Marco! era ubbriaco e se ne accorse egli stesso allo scombuiamento, che nacque nel suo cervello, a certi vacillamenti delle gambe, alla spossatezza degli spiriti tutti, al tremolío della vista; le sue parole gli risonavano ancora nelle orecchie fastidiosamente, come avviene a chi si accorge d'aver detto uno sproposito e che avvilito e vergognoso non ha scuse pronte. Quel che avesse detto non sapeva raccapezzare, e di questo solo aveva un barlume, d'essere cioè un miserabile senza lealtà, senza coraggio, che aveva assalito un nemico incapace di difendersi. Perché era dunque venuto in traccia del conte? perché aveva ingannato il barone? quale lotta orribile e grottesca si era preparata, dopo tante prove? - Aspettava seduto sulla punta della barca che il conte, abbandonati i remi, si slanciasse contro di lui a chiedergli parole piú chiare, a scongiurargli il suo amore per Severina e Dio sa la tragedia che la gelosia e l'ubbriachezza avrebbero potuto rappresentare su quella scena di flutti, nel disordine della bufera. Si sarebbero afferrati pel corpo? avrebbero lavorato di ugne e di morsi, finché nel nome di Severina non fossero entrambi precipitati a finir la lotta nel fondo? Il conte, che nell'affanno del remare non aveva fiato per una parola, a poco a poco, ripigliato l'andamento dell'onda, cominciò a cercare del dottore, che rannicchiato a poppa, non dava segno di vita. - Dottore! - chiamò; e sospettò ch'ei fosse, nello scompiglio della tempesta, caduto nel lago; ma un singhiozzo lo fece trasalire, al quale seguí un altro e finalmente un pianto lamentoso, come di bimbo istizzito, con parole mozzicate, delle quali il conte non intese se non: - Scusi, sono ubbriaco. Il dottorino infatti aveva sentita tanta compassione di sé, che piangeva per non saper far di meglio, né desiderava altro che di poter svanire come un buffo di fumo. Il conte piú attonito che irritato si ricordò della vernaccia tracannata ingordamente dal dottorino all'osteria, e, pensando che nella foga del remare gli fosse andata al capo, compatí quello sciocco ubbriacone, che pieno di vino osava sfidare tant'acqua. - Si sente male, dottore? si consoli che il vento cala e che siamo sotto costa. Non si muova, perché Bacco e Nettuno non se l'intendono troppo bene. Ne faremo un quadretto, dottorino, per i morti miracolosi di Torno. - Il conte rideva. Queste celie giungevano al dottore come il suono d'un lontano fruscio di foglie, perché il suo cranio era girato e raggirato fra certi anelli, che si dilatavano e si stringevano a vicenda, rapidamente, sí che talora gli sembrava di scender basso basso fino a toccare fondo e di balzarne su elasticamente come un sughero, fino al pelo dell'acqua. Il conte rideva, ma alla vista di lanterne a vento, che movevansi innanzi a un casino e al mormorio di voci non troppo lontane, il cuore tornò a picchiar forte, come al tempo dei piú ingenui amori; guidò la gondoletta a una nota scogliera, ove soleva sbarcare nelle altre sue visite notturne, e fu solo all'urto della punta contro i sassi che il dottor si svegliò di soprasalto, girò gli occhi, rammentò, comprese dov'era, si mosse quasi per istinto, e cadde, piú che non saltasse, dalla gondola all'asciutto. Il conte gli diede mano, perché non tuffasse, ma vedendo che il malanno era poco, e che il dottore, tornato in sé dopo un sonnellino di cinque minuti, balbettava scuse stracche, lo affidò alle cure della Provvidenza e prese la corsa verso il Ritiro . Il dottorino restò immobile alcun tempo cogli occhi fissi al suolo e sorrise mestamente di sé stesso; lasciata la gondola ben assicurata colla catena a un macigno, montò fino all'orlo della strada e chiamò il conte; ma il conte non c'era piú. Cercò qua e là, come meglio poteva nell'oscurità cupa di quella strada, ma si trovò solo, troppo solo. Stette pensando al cammino che doveva prendere, se verso il paese o verso il Ritiro , e sentí proprio come due forze egualmente tenaci che lo tiravano dalle due parti. Don Giulio venne di corsa fino al Ritiro , che distava cento passi dallo sbarco, e i servi, avvisati del suo arrivo, gli furono incontro e lo riconobbero. - Mi attende? - disse con ansietà. - Da due ore e colla piú grande inquietudine - rispose il vecchio napoletano. - Dov'è? - Di qui; a destra per la scala. Il conte precedeva il servo, che non correva abbastanza; agli ultimi gradini gli mancò il respiro, e calmò il battimento del cuore premendovi ambo le mani. - Come il dottore aveva consigliato, si era tenuto discorso a Severina del prossimo arrivo di don Giulio, che si fingeva chiamato da Milano: ma al giungere di quel tempaccio, nacque in tutti la paura che il dottore e il conte fossero stati sorpresi per via. Il barone passeggiò per il tratto di due miglia nella camera di Severina, che, tendendo l'orecchio ad ogni soffio d'aria andava dicendo: - È qui?.. Il barone, che correva col pensiero a imaginare qualche nuova disgrazia, fatto piú livido, piú cupo stringeva le mani tanto da tagliarsi coll'unghie. Quando intese un suono di passi nel giardino e riconobbe la voce del conte, un grido che gli muggiva sordamente nel petto venne fino alla strozza, ma la superbia, lo sdegno di padre e di patrizio ve lo soffocò. Quale vergogna! sarebbe stato un grido di gioia. La vecchia zia entrò, sbattendo furiosamente le porticine e, agitando le braccia sopra la testa, disse piú che non parlasse. Severina balzò a sedere sul letto, spingendo innanzi il capo, spalancando i grandi occhi spiritati, colle chiome che si sparpagliavano, per immensa trepidazione. La contessa che l'aveva assistita in que' giorni, commossa, cadde muta, sospesa, accesa in volto a piè del letto; il barone si rintanò nel vano d'una finestra, e due, forse tre minuti secondi passarono silenziosamente e parvero lunghi come quei dell'agonia, finché suonò un passo nel corridoio. La fanciulla, ridendo scosse la testa, dilatò le pupille, portò le mani ai capelli, e, guizzando, sarebbe balzata dalle coltri, se prima non si fosse precipitato verso di lei un uomo. Un grido acutissimo s'udí, che non pareva umano, e sparí la pazzia. Chi non avrebbe pianto? Adriano posò la testa allo spigolo della finestra e guatò sdegnosamente l'ombra della notte; nessuno si accorse delle sue lagrime. Severina, dopo molte risa convulse e selvaggie, ruppe in lagrime e posò la testa sul guanciale, come persona stanca. Don Giulio piegò un ginocchio e, presa una mano di lei, vi pose le labbra e chiese, tremando ed esaltato, il conforto di una benedizione, che ottenne di poi. Marco, che veniva gesticolando verso il Ritiro , assorto in penose investigazioni, delle quali non conosceva bene egli stesso la ragione, intese quel grido acutissimo, in cui pareva trasfusa tutta un'anima umana, l'amore, la gioia, e la pazzia. Si arrestò di botto, e quasi si svegliasse da un sogno, si orizzontò, ritrovò sé stesso, capí che la bella storia era finita, sorrise in atto di chi si rassegni, e mosse gli ultimi passi verso il cancello del Ritiro . Lo trovò chiuso, perché i servi, occupati altrove, non si sognavano punto di lui; sforzò colle mani le sbarre e le sentí rigide, dure, resistenti e nel loro tintinnio alquanto canzonatorie; alzò gli occhi alle finestre e vide un muoversi di lumi e un disegnarsi di ombre su per le ampie cortine; tutto era silenzio là dentro, ma era facile immaginare perché ciascuno tacesse. Immaginò alla sua maniera quella scena di aspettazione, di pianto, di slanci indomabili, di frenesie voluttuose, sebbene meste, e non seppe trattenersi dal dare una scossa a quell'inferriata. Piovigginava ancora, e, sebbene nessuno avesse voluto di proposito escluderlo, tuttavia parve al dottore che il conte o altri si fosse vendicato dell'audacia d'un povero dottorino, che aveva fermati gli occhi e il desiderio sopra una baronessa. - Era la prima volta ch'egli si accorgeva che la figlia d'un barone è una baronessa. Piovigginava ed egli, come un pezzente, non sapeva staccarsi da quella illustre porta, e andava cercando nell'ombra l'immagine diletta, per la quale tanto soffriva; ah poveretto! aveva fatto a fidanza sulla virtù razionale del suo ingegno e sulla fierezza stoica del suo carattere, spregiando in malo modo le esigenze del cuore. Il cuore aveva sofferto e taciuto fin lí, ma ora punto dall'ira e dalla gelosia, sorse a spaventosa ribellione; l'amore per la bella baronessa dagli occhi molli, dalle membra delicate, che egli aveva contemplata bellissima nel sonno, piú bella nel sorridere, quasi ammaliatrice nell'abbracciare nella follia e nell'abbracciare un amico, - quest'amore compresso, trascurato, reietto tornò con tutte le lusinghe delle memorie, con tutta la poesia delle imagini, con tutte l'armi di chi, desiderando vuol contrastare ad altrui un bene, e infuriò sotto la pioggia, il vento, il freddo... - Ah l'indegno! - disse con un rantolío alla gola, puntando la testa al cancello. - Ah l'indegno! - urlò lanciandosi a corsa per quella strada buia, e piena di fango, scendendo alla ventura per i sassi della riva, finché tornò alla gondoletta, la sciolse, vi entrò e colla punta del piede la spinse in là, fra le onde, non per voglia di morire, ma perché in tanto scompiglio della ragione e del sentimento gli pareva quella una via buona ed unica. Vi si distese come un morto nel cataletto, posò la faccia, stretta fra le palme, sull'assito e poiché, fra il rumore dell'onda e dei venti, il suo pianto non sarebbe giunto a orecchio umano, e le sue imprecazioni non a Dio, gemette e imprecò ad alta voce contro sé, il conte, gli uomini tutti meno Severina, che si figurava invece di sorprendere in quel vano tenebroso nella notte, fra l'accendersi dei lampi, e il rigoglio dei flutti. Gli ultimi fumi della vernaccia davano alle imagini della fantasia e alle cose vere contorni nebulosi, in modo da confonderle tutte quante in un via-vai da labirinto in quadri placidi dissolventisi ad ogni tratto per trasformarsi. Poiché Severina era perduta per sempre, accese l'immaginazione a determinare il valore del bene perduto, riproducendola in tutta la sua bellezza co' suoi capelli ondeggianti, che tentava toccare, con quei tremiti di labbra, che aveva tante volte sorpreso, a cui credeva accostarsi e ne prelibava quasi la dolcezza... finché un urto piú forte alla barca gli ricordò dove fosse. La bufera stava per finire, e ne fu il segnale un fulmine che si scaricò al di sopra di Nesso: Marco balzò a sedere e vide corruscarsi tutto il lago in rapide scintille d'oro, e ripiombare poi piú tetre e spesse le tenebre. Dove andava? la tempesta non era sdegnosa abbastanza per travolgerlo; l'ubbriachezza cessava, e sentivasi trascinato dal sonno. Parve ridicolo a sé stesso e se ne adirò. Non voleva essere eroe, non voleva morire. Giudicava il morire azione da vile, e forse aveva paura. Pensò che il genio buffo, il quale sorveglia ogni uomo serio, gli mormorasse: "Lí sotto non troverai Severina e domani ti pescheranno come un luccio" Il dottorino era lombardo, e sentiva tornare a poco a poco quell'antichissimo buon senso, che vola da queste parti e che proibisce a molti buoni di diventare eroi inutili. Cominciò ad arrabbiarsi, e finí col ridere, - era l'ultima conclusione - e rider forte di questo povero dottorino, cullato dalle onde come Mosè, e che molle d'acqua e di vino avrebbe voluto combattere una battaglia contro una rovina di sassi e afferrare le saette per mettersele in saccoccia. Gli parve udire la voce grossa di Celestino, che rideva, onde brancicò per cercare i remi; ma quei del conte erano rimasti sulla riva e i suoi come trovarli? Girò dunque gli occhi oziosamente all'intorno, e li fissò alla riva non troppo lontana, dove campeggiava l'ombra del campanile del suo paese e vide errare dei lumi, e lo ferirono voci indistinte, che venivano di là. Ma a un tratto trasalí per una voce non tanto discosta, che gridava: - Tonio! Tonio! - e piú lo spaventò un tabusso come d'uomo che annaspi nell'acqua; guardò e vide a tre passi un cencio nero che si voltava nell'acqua e piú in là il lume d'una barca mentre la medesima voce ripeteva: - Tonio! - Si curvò sulla sponda della gondola e scrutò fra le tenebre; gli ultimi abbarbagli del lampo non erano troppo accesi per rischiarare la scena, ma un rantolo d'uomo che si anneghi, gli manifestò troppo chiaramente che Tonio non poteva rispondere. Non era tempo di vani pensieri: trasse le scarpe, e la giubba, e si rovesciò sopra un fianco della gondola, che si capovolse. Nuotò verso il corpo, coperto tratto tratto dall'onda non ancora tranquilla; la spuma dei fiotti gli entrava negli occhi, ma guidato da un buon istinto, venne sotto al corpo, lo sollevò con una mano, lo trasse per un lungo spazio alla cieca finché, scrollando il capo, poté orientarsi sulla giusta direzione. La barca gli era sfuggita e pensò meglio fatto dirigersi alla riva. Lottava con un braccio contro le resistenze dell'acqua, che faceva gorgo intorno la sua testa non furiosamente, ma colla tremenda morbidezza di cuscini che si ammucchiano. Dietro di lui risuonò un tuffo di remi, e la medesima voce di prima: - Di qua, di qua! La testa di Tonio ballonzava pesa sulla sua spalla e tratto tratto il cadavere tirava in giù il vivo; dico cadavere sebbene Tonio viva ancora a contarla, ma allora perduti i sensi, pieno d'acqua come una botte, rigido e stecchito pareva che avesse giurato di trascinare il dottorino alla casa dei pesci. Andò ancora un poco come a Dio piacque, finché sentí sferzarsi il viso da una scuriada, che lo acciecò e per poco non gli sfuggí di mano la preda; l'afferrò con avidità rituffandosi piú d'una spanna, e ritornò a galla ansante, sbuffante, e alquanto disgustato di quell'acqua che non era vernaccia. E già la destra sentiva i pizzichi del granchio, e gli abiti molli e saturi pesavano come cappe di piombo e gli sovrastava minacciosa la noiosa legge che tira i pesi al centro, quando una nuova frustata attraverso il collo gli fe' gettare un grido di dolore; sentí serrarsi fra le orbite di un serpente, cioè di una corda, che gli lanciavano per la seconda volta dalla barca che, avendo a lottar colle tenebre, col vento e coll'onda non osava avanzarsi troppo per paura di schiacciare i naufraghi. - L'ha abboccata: forza, ragazzi. - Cosí predicava la medesima voce, e il dottorino, che aveva abbrancata la fune, si sentí a un tratto tirato in rimorchio; l'acqua tagliata dalla barca veniva a gorgogliare all'orecchio di Marco, che per quel fregamento provava in tutti i nervi un voluttuoso solletico. Era tempo. Lo trassero a riva in tale stato che Tonio poteva sfidarlo alla corsa. Mentre lo portavano in un casolare vicino rinvenne alquanto, e parlava ancora d'una miriade di lumi, visti in quella dormiveglia, di voci che schiamazzavano, come se i lanzichenecchi fossero alla canonica, e di un amalgama di ciclo e di acqua che lo chiuse in una notte profonda. Il fatto si può contar presto. Tonio, uno dei pescatori di quel paese, s'era indugiato sul lago, pigliando a gabbo certi fischi, che gli avevano zufolato: - Va' via! - onde fu colto dalla tempesta proprio nel momento che non avrebbe voluto esservi. Le sue donne a casa chiamavano già tutti i santi per nome, e i suoi amici, che l'avevano veduto un'ora prima presso Torno, avevano sfidato coraggiosamente il pericolo per venirgli incontro. Oggi a me, domani a te - dice la povera gente, e per fare una buon'azione non pensano mai a formare un comitato: perciò in dieci minuti furono nelle peste in cerca di Tonio; ma questi, che da mezz'ora nuotava in cattive acque, colla barca crepa e il timone rotto, aveva creduto migliore buttarsi a nuoto, ed era, dopo un'altra mezz'ora di lotta bestiale, ai rantoli; quando gli furono addosso il dottorino, e in seguito gli amici. Allorché riconobbero il sor dottorino nel miracoloso salvatore di Tonio, tutto il paese fu in rumore, come se si avesse detto l'imperatore; la voce si sparse per tutte le case e prima di mattina lo sapeva il sagrestano del duomo di Como, che la contava ai preti, e via via fino all'imperial regio commissario. Ai nostri giorni l'avrebbero fatto cavaliere, ma a quei tempi avari si contentarono di parlarne coll'istesso calore che d'un omicidio e dello scandalo d'una bella signora. Tonio guarí e dei due non saprei dire quale salvasse l'altro, perché, quando Marco aperse gli occhi, dopo una notte di febbre in casa sua, sentí una dolce consolazione e un gran piacere di essere al mondo, onde sono per credere che l'uomo soltanto, il quale abbia l'idea della sua dignità, è veramente vivo e incomincia a morire il dí che diventa inutile. Al suo fianco sedeva Celestino, che lo risvegliò del tutto dicendogli: - Raccontami qualche cosa del regno delle sirene; è vero che finiscono in coda di pesce?..che peccato! - Celestino gli somministrò un cordiale di risa sí sgangherate da riscuotere una mummia. La febbre durò tre giorni, ma Celestino assicurò che era tanta salute e non volle che si levasse da letto; dopo il quinto dí, poiché l'infermo aveva avuto giudizio, il dottore permise un bicchiere di contraveleno, cioè di quel vino che strappava le lagrime di riconoscenza verso la Divina Provvidenza, che dopo aver creato l'uomo, lo vuole allegro. Sul far della sera si bussò all'uscio. - Chi è? - domandò Celestino. - Sono io - rispose una voce. - Chi è l'io? - Sono il morto. Entrò Tonio, un po' pallido, ma in gambe e lo seguiva la donna con un bimbo al collo, e ultima veniva la vecchia madre appoggiata alle spalle di una bambina, che di pulito aveva soltanto gli occhi. Tonio teneva per la coda un grosso luccio, uno di quelli che l'avevano aspettato a cena quella brutta notte. - Che diavolo! - gridò Celestino. - Non è la festa delle rogazioni. - Scusi, sor dottorino... La Ghita ha voluto venire per ringraziarlo dell'incomodo, che si è preso per me l'altra sera. - Dov'è? è qui? - domandò la vecchia madre, che era cieca - È qui - le rispose la fanciulla. - Ne ho benedetti molti e sono stati fortunati. Marco stese la mano commosso a Tonio, che gli offrí il pesce d'una libbra e tre quarti, assicurando che cotto nell'aceto doveva essere un cappone. - Grazie, buon amico - rispose il dottorino. Celestino voltò le spalle e andò a suonare il tamburo sui vetri: certe cose gli rimescolavano il sangue. La vecchierella venne fino al letto e posata una mano tremante sulla testa del giovane: - Benedetto te - esclamò - benedetti i tuoi figli e la tua sposa, quando l'avrai, perché hai salvato un padre di famiglia. - Sicuro - disse Tonio; - se non c'era lei, la era finita per questi, come si dicono? Di' anche tu qualche cosa, Ghita, ci vuol altro che piangere... Anche il dottorino ebbe una benedizione e, come se tutta quella felicità gli venisse da Severina. socchiuse gli occhi per rivolgere a lei un ultimo pensiero, che fu il piú venerabile e il piú delizioso. L'amore diventava religione. Questa scena di pietà sarebbe durata a lungo, se Celestino non avesse levata la voce a sgridare Tonio, perché aveva lasciato il letto troppo presto, a sgridare la vecchia perché uscita di casa con tanti malanni in corpo e il bimbo perché aveva il naso sporco e la fanciulletta perché non si lavava la faccia. Se non si aiutava con questa sfuriata, Celestino (non state a ripeterlo) era un uomo da commettere uno sproposito, non dico piangere, ma commuoversi. Venne il giorno che i due amici dovevano lasciarsi. Marco accompagnò Celestino per un buon tratto di via, e, man mano che si andava innanzi, le parole si facevano piú scarse, finché stettero a guardarsi in faccia, tenendosi per mano, sorridendo, ma non allegramente. Celestino aveva lasciato spegnersi la pipa. Marco gli aveva narrata la dolorosa istoria del suo amore, e Celestino per assicurarsi che era veramente guarito gli disse: - Il barone, Severina e l'altro sono partiti ieri sera. - Buon viaggio - rispose il dottore, ma la voce gli si affievolí. - Troverai nel tuo scrittoio una lettera di Sua Eccellenza, che ho ricevuto ieri, ma che tenni nascosta per riguardo alla tua convalescenza. A proposito di lettere eccotene un'altra che mi ha scritto un uomo bizzarro pochi giorni or sono, e fa di leggerla mentre ritorni a casa, perché la strada è deserta e potrai riderne a crepapelle. Celestino diede la lettera, accese la pipa, toccò vezzeggiando il ganascino all'amico e gli disse: - Stammi bene, mio bel filosofo, e guardati dai colpi di sole. - Poi se ne andò fischiando. Il dottorino ritornò verso casa e, aperta la lettera rise di cuore nel riconoscere la propria scrittura e nel rileggere queste righe: "Illustrissimo signor Conte, "Non si meravigli se uno sconosciuto si rivolge a Lei coll' autorità d'un superiore.... La lettera, respinta da Ginevra per difetto di indicazione, dopo lungo giro, era venuta nelle mani di Celestino, al quale era diretta. La lettera del barone diceva semplicemente: "Il vostro Dio meriterebbe d'esistere", e chiudeva due biglietti da lire mille. - M'hanno pagato! - borbottò il dottorino e fu per stracciare quei preziosi cenci di carta, ma pensò che venivano da Severina e che molte spose del suo paese non avevano un soldo di dote. Passarono molti anni da quel giorno; la baronessa divenne contessa e dispero di ritrovarla fra i vivi; il conte ingrassò ed era nel suo pieno diritto, il barone si chiuse in biblioteca, che fu la sua prima tomba, l'epicureo Celestino, morto di colera, fu sepolto, come desiderato, colla sua pipa. La benedizione fruttò al dottorino di campar lunghi anni sano e rubizzo, e, sebben vecchio, vive ancora contento di vivere. A chi gli domanda il segreto di questa beatitudine mostra una ricetta in latino, trovata fra le carte del suo povero amico, la quale può chiudere a guisa di morale, queste pagine non immortali. Recipe vinum bonum et pippam longam , e io la consiglio alle anime sensibili. 40

La morte dell'amore

663206
De Roberto, Federico 3 occorrenze

… E si può dire di conoscerla mai abbastanza? Perché, guardi, tutto questo è ciò che suggerisce la logica, il buon senso; ma se io l’amo ancora, quest’uomo? Se il cuore mi sanguina, rileggendo queste fredde parole, queste frasi studiate, dopo le lettere pazze che gli scrivevo fino all’altr’ieri? Se non posso, non posso rassegnarmi all’idea di perderlo, dopo quel che mi costa, dopo quel che siamo stati l’uno per l’altra? Ma non è vero che io prevedessi di non poterlo più amare, non è vero che io fossi già stanca: se pensai questo, fui una sciocca, fui una stolta, perché non potevo giudicare della forza d’un amore che non era ancora stato ancor messo alla prova… – Badate: qui sotto potrebbe nascondersi quell’illusione molto frequente che consiste nell’apprezzare una cosa pel solo fatto d’averla perduta. – Illusione, realtà: dove cominciano? dove finiscono? – disse la giovane, voltando un foglio del suo taccuino. – Vi sono certe realtà di cui neppur ci si accorge, e certe illusioni che ci mantengono in vita… Io sento di non poter vivere senza quest’essere che è stato tanta parte, la miglior parte di me. Io sono impegnata da un giuramento, e lui pure… È una cosa sacra, il giuramento; non si può calpestarlo così. Ho il dovere di rammentarglielo, egli mi ascolterà; perché anch’egli deve soffrire. Io non sono stata eloquente abbastanza; se egli ha rifiutato di cedere, il torto è mio, che non ho saputo assicurarlo della forza di quest’amore. Forse in questo momento, mentre io mi struggo per lui, anche egli anela di rivedermi, anche egli vorrebbe chiamarmi. Un senso di falso amor proprio ci ha trattenuti: una sola parola basterà a dissipare quest’incubo… "No… – continuò Emilia, riprendendo a leggere nel suo taccuino – non è vero, non è possibile che tu m’abbia detto quelle parole. Certe volte, i sogni hanno l’intensità della vita vissuta: io ho sognato. Tu sei sempre l’amor mio forte e soave; se anche tu volessi, non potresti, intendi? lasciarmi. Tu hai dimenticato un momento quel che sono stata per te; ricordati, vedrai se ho ragione! Tu mi hai detto, colle tue labbra, che io sola t’ho compreso, io sola t’ho compianto, io sola ho cancellato i tuoi lunghi dolori, io sola ho compensato le tue infinite amarezze, io sola ti ho fatto pianger di gioia. Tu non me l’hai detto soltanto: io ho visto le tue lacrime, io ho pianto con te. Tu hai voluto riscattare col tuo sangue il mio pianto; ora, comprendi, quando questo è avvenuto fra due creature, esse non possono dividersi più. Vedi bene che noi siamo legati per la vita e per la morte, come tu mi giurasti, come io ti giurai. Ed ascolta: vienimi accanto, metti la tua mano nella mia, reclina il tuo capo sul mio petto: ti ricordi quante volte, restando così, tu mi chiedevi di dirti che cosa tu eri per me, com’era fatto il bene che ti volevo? ti ricordi come t’aprivo il mio cuore, come pensavo a voce alta; e come t’estasiavi a quelle prove d’amore che tu stesso mi suggerivi, senza avvedertene? Ebbene: nessuna di quelle prove era seria, nessuna aveva un valore: la prova vera, la prova grande, la prova unica io posso dartela ora, amandoti ancora, amandoti più, dopo quel che m’hai fatto: ora soltanto tu puoi credere a questa passione e andarne superbo. Quante volte mi hai fatto giurare che io non avrei mai avuto secreti per te! che t’avrei mostrato sempre tutti i moti più intimi del mio cuore, tutti i miei pensieri più reconditi! Vedi bene che tu devi sapere quel che io provo ora per te: lascia che te lo dica; farai, dopo, quel che vorrai; mi lascerai ancora, se ti piacerà… No; tu non farai questo!… Ascolta ancora. Se tu hai riacquistata la tua fede unicamente per me, io, sola fra quanti ti circondano, ho creduto in te. Non lo sai? Dicono che i tuoi sguardi sono falsi, che le tue labbra mentiscono, che l’anima tua è corrotta… Io sola ho creduto ad ogni tua parola; non è vero che io sola ho letto in fondo al tuo limpido sguardo? Che cosa sanno gli altri di quel che so io? Ma non fare che anch’io disperi di te; non disperare tu stesso: sarebbe troppo triste, troppo malvagio. Provami ancora una volta che io ho avuto ragione, abbi fede in te stesso!… No; non mi dar retta! Ho avuto torto di scriverti questo. Ma è che io non so più quel che dico… Se potessi vederti un istante!… Non ti direi nulla: credo che morirei ai tuoi piedi… Una volta, io ti dissi: "Come sai bene pregare!…". Ti ricordi quando te lo dissi?… Ebbene, oggi son’io che ti prego, ti supplico, ti scongiuro, in nome di Dio, dell’amor nostro, di tutto quel che hai di più caro al mondo, pei tuoi stessi dolori che io ho divisi, per la memoria dei tuoi poveri morti che io ho amati, per la morte che può cogliere d’istante in istante noi stessi, ti scongiuro di non abbandonarmi, di ascoltarmi… di lasciare, almeno che io pianga un’ultima volta al tuo fianco…" –. La voce della giovane tremava un poco; il suo sguardo velato si distoglieva dalla carta, intanto che la duchessa, visibilmente commossa anche lei, esclamava: – Come l’amate! – Ma, a quelle parole, come quando una brezza sottile increspa la superficie dell’acqua, la fisonomia di Emilia si venne corrugando fino ad atteggiarsi ad un sottile sarcasmo. – Come l’amo!… – ribatté, ridendo – vuol dire come sono sciocca!… Deve bene trionfare costui, non è vero, vedendo la mia disperazione; deve ben sorridere di vanità soddisfatta!… Il suo amor proprio sarà, senza dubbio, gradevolmente solleticato dallo spettacolo del mio cordoglio… – Allora, il vostro amor proprio s’impenna… – Allora, la mia tenerezza, la mia sommessione, la mia fiducia, tutti i miei buoni movimenti sono dispersi dallo sdegno, dall’odio, dal bisogno feroce di dirgli in faccia che non so che farmi di lui, che egli s’inganna stranamente se ha creduto al mio dolore! – E dopo la lettera d’implorazione, ne avrete scritta un’altra di disprezzo… – Ciò che ho scritto è appena la millesima parte di ciò che ho pensato. Ella si stupisce della contraddizione che scoppia tra gl’impulsi ai quali obbedisco? tra la ragionevole rassegnazione e la passione disperata, tra l’umile preghiera e la rivolta sdegnosa?… – Non mi stupisco affatto: nulla di più umano che la contraddizione e l’assurdo. – Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa. E il più strano è che tutte costoro non parlano già ad una per volta, ma insieme, interrompendosi, contraddicendosi, confondendosi tumultuariamente. Lo scritto ha il torto di non dimostrare questo dissidio… – Consolatevi pensando che anche la parola sarebbe impotente. – È vero! La nostra mente è un abisso!… Io debbo dunque implorare costui, per dargli la soddisfazione di respingermi ancora? Ma è una cosa ridicola! Qual donna al mondo ha mai pregato un uomo così? Io potrei implorarlo se fosse un altro, se non fosse una creatura malvagia e bugiarda. Perché hanno ragione gli altri; e l’imbecille son io! Come ho fatto a pigliarlo sul serio, a soffrire tanto per lui? Ed egli avrà riso di me!… Ma se non l’amavo più! se ero così stufa da non saper che inventare per evitarlo! se non l’ho amato mai! – Oh, questo poi… – Ma sì, ma sì… anche al tempo del nostro idillio, io ridevo talvolta tra me delle mie declamazioni! Allora, soffocavo le mie risa; ora sono esse quelle che soffocano me! Ora ho bisogno di prendere la mia rivincita. Ma quel che ho tentato di scrivergli non può dare la più lontana imagine di quel che mi ribolle dentro… – La vostra lettera dice?… – "Caro signore, le sono oltremodo obbligata della iniziativa presa da lei, tanto più che m’ha risparmiato il fastidio di prenderla da me. La buffa commedia che abbiamo rappresentato insieme minacciava di finire tra le fischiate della platea: era proprio tempo di smettere. Non è da dire per questo che essa non m’abbia dato un bel da fare! Mi sono, come si dice, stillato proprio il cervello per mettermi nei panni del mio personaggio, ho soffocato una quantità prodigiosa di sbadigli per mantenere un contegno decente; e il più comico è questo: che m’accorgevo benissimo di sprecare le mie fatiche, perché ella sbadigliava senza tante cerimonie, spalancando talmente la bocca, soffiando così forte, che era, anzi non era un piacere a vederla. Ella pel primo non credeva a ciò che le dicevo: è stata una delle rare prove di spirito che m’abbia date; gli elogi della gente l’hanno guastato, caro signore, ella s’è formato, intorno ai suoi mezzi, un concetto, mi consenta di dire, molto esagerato. Oramai ci conosciamo intus et in cute, si scrive così? e non abbiamo più nessuna ragione d’ingannarci scambievolmente. Il suo spirito è, creda pure, molto inferiore all’opinione che ne ha ella stessa; riconosco però che ne possiede abbastanza, e spero che ne mostrerà ancora un poco nella circostanza presente, non credendo neppure alla scena che le recitai l’altro giorno. Mi premeva di fare certe osservazioni, volevo verificare certi miei antichi convincimenti: addebiti a tutto questo la mia soverchia insistenza. Non importa: debbo averle fatto l’effetto di una famosa seccatrice! Questo pensiero la conforti: che non sarò mai più tentata di occuparmi di lei – glie ne do parola d’onore! Del resto, se l’ho seccata, debbo anche averla fatta ridere un numero infinito di volte; sono però in dovere di aggiungere che il ricordo di certe sue sciocchezze allieterà i miei giorni più tardi… Probabilmente, questa mia lettera le parrà poco sentimentale: ma le sentimentalità, signor mio, sono una cosa; e la verità è un’altra. La verità è che ella m’ha dato ciò che poteva darmi, e che io l’ho pagato abbastanza. Adesso, ciascuno proseguirà per la sua strada. Si diverta sempre – e che le nostre menzogne ci siano rimesse…". – Eh!… non c’è mica male!… – esclamò la duchessa con un fine sorriso. La giovane rimase un poco a capo chino, senza dir nulla, poi, passatasi lievemente una mano sulla fronte, disse, molto piano: – Ma sa lei che cosa ho provato nello scrivere questa lettera?… che cosa provo adesso dopo averla riletta?… Un secreto scontento, un pentimento addolorato, quasi un rimorso. Mi par d’avere, con sacrilega mano, profanato tutto quel che v’era di più puro in fondo al mio cuore. Io potrò accusare quest’uomo, io potrò disistimare la creatura che si è rivelata improvvisamente in lui; non potrò dimenticare le divine emozioni che m’ha procurato. Comunque egli sia fatto, è stato per me l’oggetto di un culto; qualcosa delle virtù che io gli ho attribuite è rimasta in lui, come qualcosa della santità che i feticisti vedono nell’idolo di cartone resta in esso e lo sottrae alla derisione degli stessi miscredenti… Poi, io penso che quest’uomo, come tutti gli altri, non è responsabile di quel che fa; penso che forse ne sarà punito, un giorno, più crudelmente che io oggi non possa imaginare… E tutto quel che v’è di buono in me protesta contro i propositi di vendetta, m’ispira invece una grande compassione per quest’anima ammalata… Senza tornare ad illudermi sul prezzo che ha potuto dare all’amor mio, penso che non sono stata per lui un’indifferente, che egli ha avuto fede, almeno per qualche tempo, nelle mie parole. Allora giudico che sarebbe degno di un’anima non volgare il dimostrare come, malgrado i torti ricevuti, di questa fede si voglia sempre essere meritevoli... – In altre parole, voi volete fargli vedere che siete migliore di lui! – Sarà forse questo il secreto movente: che importa? Una buona azione non diventa già cattiva pel fatto che ci torna comodo compierla… – Certamente! Così, voi avete abbozzato un’altra lettera ancora? – Sì, ed è questa… – Sfogliato il suo taccuino, la giovane riprese a leggere: – "Voi non volete più rivedermi: parto oggi stesso. Ho l’anima straziata; se voi poteste soltanto imaginare quello che soffro, vi farei molta pietà. Tuttavia, qualunque sia il male che voi m’abbiate fatto, vo’ dirvi, prima di lasciarvi, che non vi porto odio o rancore. La mano che oggi colpisce è la stessa che un giorno si distese a soccorrermi; non potrò dimenticarlo mai. Non vi dico questo per intenerirvi: nessuna speranza mi sorregge, capisco bene che tutto è finito, per sempre. Come sarà triste la vita che comincerà domani per me! Come potrò sopportare il ricordo dei giorni luminosi nell’oscurità che m’aspetta?… Sarà di me quel che vorrà Dio – e perdonatemi ancora questo momento di commozione. Sul punto di lasciarvi, consentitemi di dirvi un’ultima parola. Se l’avvenire è incerto per me, potrà anche darsi che ore dolorose suoneranno per voi: un giorno, potrete aver bisogno di qualcuno che vi stia al fianco, che stringa la vostra mano, che v’infonda coraggio. Io desidero ardentemente che questo giorno non sorga; ma se dovesse arrivare, ricordatevi di me. Dovunque io sia, venite: nulla potrà impedirmi di accogliervi come s’accoglie un fratello…". – È bello ed è nobile ciò che voi avete scritto! – disse la duchessa. – Però, se nel vostro cuore si combatte una così fiera battaglia, quale di queste lettere vi risolverete a spedire? – Lo so io, forse? – ripeté la giovane. – Se fossi capace di decidermi, non ne avrei scritte tante!… A lei stessa, mia buona amica, io ardisco chieder consiglio… – La vecchia signora fece con la mano un piccolo segno di rifiuto. – Non è un argomento intorno al quale se ne possano dare. – Perché? Io sono ridotta, non vede? in tale smarrimento d’animo, che non so più discernere da me la via giusta: una parola suggeritami da una persona superiore come lei, mi toglierebbe a questa dolorosa incertezza, mi farebbe un gran bene –. La duchessa restò un poco in silenzio; poi, guardando negli occhi la sua compagna, chiese: – Allora, voi farete quel che vi dirò? – Può esserne certa. – Ebbene… se non vi dispiace, cominciamo col riassumere in poche parole la vostra situazione. Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura, la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione del sarcasmo sprezzante, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene? – È così. – Però, nello scrivere tutte queste lettere, una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di cotest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora, voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto. – Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto. – O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo. – Quale lettera debbo dunque mandare? – La vecchia dama rispose: – Nessuna –.

Se non credevo d’avergli dimostrato abbastanza che mi teneva luogo di tutto, che era tutto il mio bene sulla terra, l’unico giudice del quale temessi le condanne! Che cosa non avrei fatto per dargli questa dimostrazione? Come lo scongiuravo, in ginocchio, con le mani giunte, di dirmi che cosa voleva da me per credere all’amor mio! Come sarei stata felice se fossi morta di sua mano! Egli m’uccise – altrimenti. Egli non credeva all’amor mio perché non credeva a nulla. Vi sono di questi esseri fatali su cui sembra pesare la maledizione divina: belli come l’arcangelo caduto, come lui aridi e falsi. Un sorriso che sembra beato ed è schernitore illumina i loro occhi, parole che voi credete mistiche e sono bugiarde escono dalle loro labbra. Se per vostra sciagura v’imbattete in qualcuno di essi, siete dannati. Alla loro seduzione non si resiste. Secondati dalle ingannatrici apparenze, voi non metterete più un freno alle vostre aspettazioni, educherete le più folli lusinghe e precipiterete tanto più in basso quanto più ardito sarà stato lo slancio. Voi crederete di trovare nella loro anima le rigogliose fioriture della vostra; crederete di fare un sol cuore e una sola vita; e quando v’accorgete che ciò non è, accuserete voi stessi! Come sospettare la loro colpa se tutto ciò che in essi è parvenza brilla ed incanta? E vi torturate, vi rimproverate torti imaginari, procurate di riscattare i difetti dei quali vi sentite pieni, sognate di conquistare tutte le virtù che vi mancano. E tutto ciò è invano; e voi pensate ancora: "La colpa è mia! Io non l’amo abbastanza, non so fargli vedere il suo pensiero all’origine d’ogni pensiero mio proprio, non riesco ad ottenere da lui la stessa fede ardente che io gli porto…". Infatti egli vi sfugge, e questa fede altri avrà forse saputo ispirargliela! Allora non vi rimproverate più nell’intimo della vostra coscienza, ma v’umiliate apertamente dinanzi a lui, lo scongiurate d’avere almeno pietà: almeno questo sentimento allignerà nel suo cuore! Improvvisamente, un atto, una parola, ve ne dimostra l’orribile vuoto: allora un crollo tremendo avviene dentro di voi; ma siete guarita – radicalmente –. Ella fece col braccio disteso, con le dita adunche, il gesto di svellere qualcosa. Tacque un poco battendo rapidamente le ciglia, poi continuò: – Questo fu il mio primo amore. Mi costava tutto, quell’uomo; ma io gli avrei tutto perdonato se non m’avesse tolto ciò che mi rimaneva di unicamente caro: il conforto d’esser stata compresa, almeno un giorno, almeno un’ora; la fiducia di non essermi perduta per niente – per niente! Gli avevo perdonato tante vergogne, tanti abbandoni, tanti tradimenti! Ero stata sorda agli stessi dileggi, agli stessi sospetti, agli stessi affronti! Credevo sempre in lui, suo malgrado. Volevo trovare qualcosa di buono in fondo al suo cuore; stimavo sempre che ne avesse. Mi accorgevo che l’amore boccheggiava in lui, che era già morto; ma pensavo almeno che fosse stato vivo, una volta! Con una parola infame egli mi tolse quest’ultima lusinga, calpestò la stessa illusione; quando volli ricordargli questo amore, le parole che m’avevano esaltata, i giuramenti che m’avevano ubbriacata, egli mi disse: "E tu li hai creduti?…". E con la stessa bocca che li aveva proferiti disse ancora: "Ma sono la moneta con la quale si pagano quelle che non son da comprare!…". Allora, vedete, l’unico mio scopo, l’unico mio bisogno, ardente, imperioso, vorace, fu di diventar come queste… – La sua voce, che s’era fatta rauca tanto da costringerla a tossire replicatamente, si schiarì ad un tratto. – Non lo accuso più. Compresi, tardi, che la colpa non era stata neppur sua, che egli non poteva esercitare virtù che non aveva. Non crede chi vuole. Forse, chi sa, affinch’egli soffrì –. Ed alzò le spalle e scosse un poco la testa con l’espressione indulgente di chi ha visto molte miserie. – Comprendete bene dunque – riprese – la condizione mia all’apparire dell’Altro. Intatta, insaziata, esasperata, io portavo con me la mia fede – e non ero più degna d’esser creduta. L’Altro mi credette. Per lui era il primo amore. Nessuna donna aveva ancora sospettato il tesoro di sentimenti che egli portava in cuore; e questo tesoro tanto grande che non v’era purezza capace di pagarlo, io, l’ultima delle creature, l’ebbi, tutto. No, il povero linguaggio umano non potrà mai dir che cosa fu questo amore, l’esultanza divina di due esuli ciascuno dei quali ritrova nell’altro tutta la terra, tutto il cielo della patria lontana. Il linguaggio umano può dire soltanto le umane miserie, i dubbii, gl’inganni, i tormenti – e chi sa la vita comprenderà quelli che fatalmente ci aspettavano. Per un uomo che m’aveva avvilita, profanata, perduta, io avevo dato tanto, che nulla più mi restava da dare a quest’altro – per cui avrei voluto versare il mio sangue fino all’ultima stilla. Io avevo imparato a costo della salute dell’anima che non basta sentirsi giurare un affetto, che bisogna anche ottenerne la prova. Ed io non potevo dargli altro che le mie parole, e sapevo che le parole possono mentire, e sentivo che in bocca mia la menzogna doveva esser giudicata facile e pronta. Allora il dubbio che egli non mi credesse più cominciò a insinuarsi in me. Era dubbio e divenne certezza. Se quell’uomo avesse potuto leggere nel mio cuore come vi legge Dio sarebbe stato sicuro che tutti i palpiti del mio cuore erano suoi. Ma questo potere egli non lo aveva. Egli doveva paragonare, invece, sé stesso al mio primo amante, il bene infinito che mi faceva al male spaventevole che il primo m’aveva inflitto; ed avvertire che mentre il male era stato da me ricompensato con il massimo dei beni, a lui non potevo dare più nulla. E badate: non era già l’orgoglio suo che lo persuadeva a stimarsi di tanto superiore al suo predecessore, a pretendere che io facessi per lui molto di più che per costui: io stessa glie lo dicevo, glie lo ripetevo, glie l’attestavo. Ma come più gli parlavo dell’influsso maligno esercitato da costui sulla mia vita – per esecrarlo – più egli pensava ad esso – per temerlo. Egli non sapeva le sciagurate contraddizioni del nostro cuore, temeva che fossi ancora attaccata a quell’uomo in ragione degli stessi dolori che mi costava. Come dunque, come provargli il suo inganno, la dispersione assoluta di ogni memoria di quel passato, la fine della stessa esecrazione – poiché tutto l’orrore nel quale ero affondata non m’impediva la nuova felicità? E vedete di quali reazioni continue è fatto il nostro pensiero: mentre il conseguimento di questa felicità attutiva il sentimento dell’indegnità mia, questo sentimento si ridestava da un’altra parte, più acuto, più torturante – poiché la mia indegnità mi toglieva di dare a quest’uomo la luminosa dimostrazione che egli era in diritto di esigere! Allora qualcosa di più strano – di più umano – accadde in me. Quando io avevo portato nell’amore un cuor nuovo, un’anima vergine, tutto ciò che questa vita può dare di meno indegno, io m’ero accusata di non meritare abbastanza il ricambio dell’amore mio; ora che non me lo meritavo davvero, sentivo la ribellione prepararsi sordamente dentro di me. Dinanzi all’ideale Giustizia io era nel torto per avere criminosamente sperperato quei beni che andavano invece serbati con cura gelosa in attesa di offerirli a chi solo avrebbero dovuto appartenere; dinanzi a quest’uomo io ero in debito – e noi siamo così fatti da non tollerare il rimprovero dei nostri torti… E se ancora quest’uomo m’avesse apertamente rimproverato la mia miseria, se m’avesse buttato in faccia la mia abiezione, se m’avesse torturata ogni giorno, forse sarei stata meglio difesa contro le folli aberrazioni dell’egoismo; ma egli non fece questo, mai! Una tristezza senza fine velava talvolta i suoi sguardi, ma il suo linguaggio era sempre quello della dolcezza, della devozione, dell’umiltà. Allora io pensavo che egli parlasse così per compassione, che intendesse farmi un’elemosina, che non contento ancora dei suoi tanti vantaggi, volesse finire di schiacciarmi con la sua generosità – e la sorda ribellione diveniva più minacciosa. Avrei dovuto stargli in ginocchio dinanzi, e mi sentivo distaccare a poco a poco da lui … Il nostro cuore è così miserabile che non sopporta la gioia assoluta: una dose d’amore è necessaria al suo nutrimento. Quell’uomo aveva una gran colpa, non mi faceva soffrire. E come io lo disconoscevo, anch’egli disconosceva me. Perché la vita m’aveva contaminata, pensava che non fossi più capace d’apprezzarlo, che altre avrebbero saputo amarlo meglio di me. Presumeva ch’io dovessi portargli una gratitudine eterna per avermi sollevato fino a lui, che il pensiero di cercare altrove un altro amore – il pensiero che egli stesso accarezzava! – non dovesse neppure affacciarsi alla mente mia. E troppo sicuro d’essere amato, rispondeva meno all’amor mio, non pensando che questo fosse un torto, o pensando che fosse un torto minore e più tollerabile di quelli che altri m’aveva fatti. Ma le azioni umane non hanno tutte un valore relativo a chi le commette, alle circostanze nelle quali sono commesse, allo stato di colui che le apprende? E la freddezza d’un uomo come lui m’era più grave, dopo ciò che avevo patito, di tutti i tradimenti dell’altro amante… Così, giorno per giorno, il dissidio cresceva. L’ingrato destino ci era stato largo d’un bene incredibile; noi ce lo lasciammo sfuggire. L’amor nostro fu il vero, il grande, il solo amore; non sapemmo riconoscerlo. Come potevo riconoscerlo, io? Non m’ero ingannata altre volte? Non dovevo inevitabilmente sospettare di ingannarmi anche ora? A quel segno poteva riconoscerlo, egli che non aveva termini di confronto? Così il nostro inganno procedeva da opposte ragioni. Mancava ad entrambi la prova. L’avemmo –. Ella ripeté: – Fu questa –. E passatasi una mano sulla fronte, lentamente, da una tempia all’altra, disse, come in sogno: – Io lo tradii –. Dopo una pausa riprese: Imaginate voi che cosa dev’essere un pazzo che abbia perduto, insieme con l’intelletto, la vista? Soltanto un pazzo cieco avrebbe potuto fare quel ch’io feci – ragionatamente, deliberatamente. Pensai che egli non mi amava più, che non m’aveva amata mai. Credetti alle parole d’un altro, di quelli che ci troviamo attorno nelle agonie del sentimento, corvi che hanno fiutato il cadavere. No, non lo credetti! Non credevo più nulla. Ma questo scetticismo, la certezza che non c’era più nulla, la persuasione d’esser discesa tanto in basso da non poter cadere più giù mi buttò incontro ad un altro. Egli s’era accorto di quest’altro e non aveva trovata una sola parola per salvarmi. Io pensai: "Vuol dunque gettarmi via come una cosa inutile e vile!". E volli io stessa lasciarlo. Quando glie lo dissi …– Ella s’interruppe, esitante; e ad occhi chiusi, rovesciando un poco la testa, irrigidita come per catalessi, con voce lenta e gelata soggiunse: – Dopo che sarò morta, dopo che m’avranno chiusa dentro una bara, dopo che la terra mi avrà ricoperta, io udrò ancora quell’urlo –. Rimase quasi assorta qualche momento, poi ricominciò: – Saremmo stati ancora a tempo. Ma la benda non era ancora tutta caduta dagli occhi nostri. Io credevo d’averlo ferito nell’orgoglio soltanto, trionfavo provandogli che valevo ancora per gli altri, ottenevo la rivincita! Egli vide confermato il suo giudizio sulla mia infamia. Un intimo senso di sollievo, quella calma ingannatrice che precede lo scatenamento delle tempeste, ci pervase entrambi. Egli scomparve ed io ricaddi. Allora, allora soltanto, quando un altro prese il suo posto, quando io mi sentii nelle braccia d’un altro, quando questa carne miserabile fu preda d’un altro, un gemito sordo e lungo, il gemito d’una disperazione mortale uscì dal mio petto –. E un sorriso indefinibile, d’ironia, di pietà, di sprezzo, rischiarò quel viso. – Io sapevo, per averla tanta provata, la nausea del risvegliarsi accanto a qualcuno che fino alla vigilia è stato un estraneo e che dopo l’ultima intimità sarà più estraneo di prima. Io avevo curata questa nausea col procurarmene un’altra maggiore, e poi un’altra ancora maggiore. Ora non ne provavo alcuna. L’insensato stupore, il tremendo e senza fine sterile rimorso m’agghiacciavano troppo. No, io non credevo alla realtà; mi sentivo come sotto l’impero d’uno di quei sogni mostruosi durante i quali sappiamo però di sognare. Ed un pianto sconsolato, inesauribile, grondava dai miei occhi; uno di quei pianti che sembrano stemperare l’anima stessa, che nei sogni ci destano. Ma il mio risveglio era più tetro del sogno. E come in sogno io pensavo che qualche misteriosa potenza aveva certamente cambiato le fattezze, gli sguardi, la voce dell’uomo che fino a qualche giorno innanzi era stato mio, e come in sogno io cercavo di rivederlo attraverso quest’altro. Io figgevo il mio sguardo nel suo, lungamente, intensamente, fino ad abbacinarmi, per discoprire nel suo sguardo i lampi del Perduto; poi chiudevo gli occhi ostinatamente, inflessibilmente, imponendogli di tacere, per illudermi, per credermi ancora insieme col Perduto. Ed accadde questo: che i miei avidi tentativi, i miei funebri ardori, la mia lunga pazzia accesero l’animo non del tutto volgare del mio nuovo amante; egli credé ch’io facessi tutto ciò per lui – per lui! – e al soffio della grande passione quel fuoco divampò alto e gagliardo, ed egli trovò inaspettatamente una parola, l’accento dell’Altro… Illusione terribile!… Io m’afferravo a lui, gli prendevo il capo fra le mani, gli dettavo le parole che ancora, che sempre mi risonavano all’orecchio, e gli ingiungevo di ripeterle, ed egli le ripeteva, pensando che l’amore le suggerisse. E per un attimo io Lo ritrovavo! No, la nausea d’un tempo non mi soffocava più; no, io non potevo scacciare quest’uomo quando l’orrore invadeva l’animo mio, giacché per suo mezzo recuperavo in qualche modo colui che avevo disconosciuto; giacché la nausea, l’orrore, il pianto lungo e cocente mi rivelavano ciò ch’io avevo negato: la forza d’una passione che era la mia stessa vita! Non potevo scacciarlo; potevo soltanto e dovevo disingannarlo, dirgli a che mi serviva, perché facevo tutte queste cose – e glie lo dissi! Gli dissi che mai, mai avevo avuto un palpito, un solo pensiero per lui; lo costrinsi ad ascoltare la confessione dell’amor mio per un altro, gli dissi che cercavo quest’altro in lui; che invece di farmi obliare egli dava nuova forza alla passione mia; che ora, la prima volta, grazie a lui, grazie al mio tradimento, acquistavo la prova luminosa, sfolgorante, irrecusabile di quell’amore. E nella resurrezione della fede il mio spirito acquistava una sovrannaturale chiaroveggenza, un intuito fatidico: io sentivo che una rivelazione eguale alla mia doveva essersi fatta nell’anima del Perduto; che, lontano da me, attraverso nuove esperienze ed impreviste vicende, egli doveva piangere com’io piangevo perché sapeva che lo piangevo… Un giorno lo rividi. Corsi da lui –. Ella quasi gridò: – Chi avrebbe potuto arrestarmi? – Riprese con voce più sorda: – Gli dissi: "Sputami in viso, ma ascolta. Tu non mi credesti quando ti giuravo d’amarti. Dell’amor mio non seppi, non potei darti nessuna prova perché io stessa ne dubitai. Questa prova ora la posseggo. Pensai dimenticarti, e la tua memoria mi ha schiacciata. Ti abbandonai, e t’ho ritrovato da per tutto. Ti porto con me. Nessuno ti strappa più da questo cuore. Metti i tuoi piedi sulla mia faccia, ma lasciati dire, ora, che t’amo…". Egli… egli…– Giunse le mani, girò intorno lo sguardo come smarrita, e a poco a poco l’espressione dell’estasi si dipinse sulla sua faccia smorta. – Egli mi si fece vicino, mi guardava tacitamente. Tremava. Mi disse, così piano ch’io compresi piuttosto dal moto delle pallide labbra: "Sei tu?". Io potevo ancora parlare. Gli domandai: "Non m’aborrisci?". Ei rispose: "Ti piango…". Vedete voi queste mani? Qui caddero le sue lacrime, ed erano calde come gocce di sangue. Io non piangevo, sentivo il cuore battermi in gola. Tra le lacrime egli diceva: "Sei dunque tu? Non ho dunque sognato?… Quando io ti sospiravo, l’anima tua se ne veniva incontro a me?… Tu sai ora veramente quanto mi amavi? Nessuno di noi lo seppe, mai!… Povere creature umane, quali inganni sono i nostri!… Come fummo ciechi e sordi e ostinati nell’errore!… Ora la luce s’è fatta…". A quelle parole, alla certezza che egli mi dava, il cuore avrebbe dovuto allargarmisi dalla gioia, la fascia che mi cingeva la fronte cadere, tutto l’essere mio esultare… e invece un’ambascia muta, un terrore infinito mi piegavano, un gran freddo mi faceva rabbrividire… Egli diceva ancora: "Bisogna che l’aria ci manchi, per riconoscere che ne viviamo!… Neanch’io potei darti la prova d’un amore nel quale non avevo fede… Che stolto!… No, non accusarti: io fui colpevole al pari di te. Come te, ora soltanto sono sicuro e posso dire di amarti. Non pensar mai con rimpianto a tutto ciò ch’io ti dissi e che feci per te nei primi giorni della nostra fortuna; non rimpianger mai i giuramenti che l’ebbrezza dettava: nessuna prova d’amore vale questa che ogni giorno ti do…". E il mio terrore cresceva, lo sguardo mi s’appannava, le vene mi si vuotavano: perché se egli avesse detto che tutto era finito tra noi, io non avrei avuto di questa fine una certezza tanto disperata come udendo quelle parole. Nondimeno, dissi: "Allora, se tu mi ami ancora…". Un sorriso più triste di tutte le sue lacrime, il sorriso di chi muore mentre sente promettersi la salute e i beni della vita, passò nel suo sguardo. Egli prese le mie mani e rispose: "Noi non ci vedremo più". Mai la sua voce fu così dolce. Egli baciò queste mani e questa fronte – soltanto!…– E due lacrime, grosse e roventi come quelle da lei versate quel giorno, solcarono lentamente le sue guance. Quando la sua ambascia si calmò, ella ripeté: – Fu questa la prova dell’amor nostro, ed è questa la grande prova dell’amore operante e attuale. Ma come una legge spaventevole vuole che tutto si sconti, anch’essa s’acquista quando l’amore è perduto –.

Tu ti batti la fronte e riprendi: "Sì, ho una colpa… Non t’ho provato ancora abbastanza quanto sia forte l’amor mio… Sai bene, la parola è importante, il pensiero non si esprime mai tutto. Ma guardami in fondo all’anima: non vedi come è tutta piena di te? Io sento in questo momento che non t’ho mai amata tanto…". Ella scuote il capo, ti oppone fredde ragioni, ti addebita colpe insignificanti di cui ella stessa non è immune. Tu non le rimproveri le sue; le prendi una mano, la scuoti, la guardi negli occhi, la chiami col dolce nome antico. Ella s’irrigidisce, ti respinge, evita il tuo sguardo; allora una luce si fa nel tuo spirito: ella ama un altro. E la terra ti manca sotto i piedi. Quella creatura, quell’anima, quel corpo, sono d’un altro! È possibile? Glie lo chiedi, con voce strozzata, gemendo ed urlando, ed ella protesta freddamente, risponde che non ha conti da renderti. Il tuo orgoglio d’uomo è ferito; ti senti un grande sdegno ribollire nel cuore; non dici nulla. Ti alzi, le stringi una mano, fai per andar via. Ma sei legato con tanti e così sottilissimi fili a quelle mura, a quella persona, che senti il tuo cuore lacerarsi. Che ti dice ella? Ti dice: "Addio!". All’uscir da quella casa, con la fronte in fiamme, un martello alle tempie, la gola stretta, le labbra inaridite, ti metti quasi a correre, incapace di coordinare le tue idee, non riconoscendo nessuna delle persone che incontri per la via, occupato soltanto dell’oscuro pensiero che ormai la percorri per l’ultima volta. E una parola ti risuona all’orecchio: quell’addio terribile, la parola che si pronunzia nelle agonie, nelle separazioni senza ritorno, nelle ore fatali della vita – la parola che fiacca il tuo sdegno, che seda i tuoi istinti di ribellione, e che ti stringe il cuore, ti brucia gli occhi, ti toglie il respiro… Tu pensi: "Non la vedrò dunque mai più?… Non sentirò il suo capo appoggiarsi al mio petto, non stringerò più la sua mano, non bacerò più la sua fronte?…". Passano giorni vuoti, monotoni, eterni. Tu ritrovi le sue lettere, i suoi ritratti; ed hai paura di toccarli, di mutarli di posto. Diventi superstizioso. Ad ogni squillo di campanello, pensi: "È lei che mi scrive, che si pente, che mi chiama…". Nulla! Tutto è finito! Tu non la vedrai più, mai più, mai più! Allora, a queste parole che tu ripeti incessantemente, disperatamente, la tua ragione vacilla. Perché mai più? Che cosa può vietare che due esseri viventi si rivedano ancora? Quali insuperabili barriere, quali distese di mare e di terre li posson dividere? Quali catene impedire che tu ti slanci verso di lei? E vuoi rivederla; a costo di tutto, bisogna che tu la riveda. Davanti a lei, la tua passione scoppia selvaggiamente. Minaccioso e supplice, cominci per dirle: "Ti ammazzerò!" e poi le mormori piano: "Io so ancora tante parole d’amore che non t’ho mai dette!…". Ella si scuote, ti blandisce, ti prega di non farle male, ti scongiura di rassegnarti, di farti una ragione, di accordarle la pace. Naturalmente, non si può sempre parlare, gridare, piangere, mordersi. E stanco, esausto, sfinito, vai via; questa volta, lo comprendi bene, per sempre. Solo, in silenzio, riprendi a piangere, la piangi come morta; ma ella non è morta per gli altri; è morta per te. Tu la scorgi, talvolta; e provi il bisogno pazzo di andare nuovamente a piangerle vicino, di toccarla, di contemplarla. Se ella fosse morta, se la terra la ricoprisse, un pacificamento avverrebbe nel tuo spirito; tu non avresti quelle tentazioni, la tua piaga non si riaprirebbe tutti gl’istanti. Tu non penseresti di tentare ancora una volta la resurrezione di quel passato il cui ricordo ti brucia come un carbone ardente – perché, rammentalo, l’idea dell’impossibile, dell’irreparabile ripugna in grado supremo all’anima nostra; per ciò la speranza è l’ultima a morire. La morte ha questo di buono: uccide la speranza. Invece, tu speri ancora, tu dici: "È forse impossibile che questo passato risorga? No: basta ch’ella voglia…". Allora pensi a tutti i suoi momenti buoni, a tutte le prove di tenerezza che ella ti diede; vorresti rammentargliele, vorresti gettarti nuovamente ai suoi piedi, fare appello alla sua pietà. Tu pensi: "Se ella dice di sì, che tripudio scoppierà nell’anima mia! Questa benda di ferro che mi fascia la testa cadrà! Che aria vivificherà il mio petto oppresso! E come impazzirò di gioia dopo essere stato sul punto d’impazzir di dolore!…". Ed ella ti risponde: "No!…". Accusa la morte, adesso!… Per la creatura morta, tu provi una infinita pietosa dolcezza, una soave malinconia rassegnata; per questa creatura viva il rancore, il livore si mescola alla tua passione e la intorbida e la corrode e ti strugge… – Tacque anch’egli, ansando un poco. Franz non aveva opposto nessuna ragione agli argomenti di lui; Ludwig se n’era rimasto sempre a guardar l’orizzonte che adesso, nella sera già calante, non si distingueva più. – Conosco – diss’egli finalmente, portandosi le mani alla fronte e passando le palme sulle sopracciglia –, conosco una fine d’amore più triste ancora di tutte coteste –. I due amici lo guardarono. – La fine d’amore più triste, più tormentosa, più tragica, è un’altra. Non è la brutale che segue alla morte, o all’abbandono, al tradimento: è la fine lenta, lunga e quotidiana, l’esaurimento continuo prodotto dall’azione del tempo, dal fatale svanire d’ogni cosa umana. Il giorno che voi avete confessato l’amor vostro, che ne avete ottenuto il ricambio, vi siete detto: "È per sempre! per sempre!". Voi credete a questa parola! pensate che se qualcosa d’indipendente dal vostro volere non accadrà, l’amor vostro durerà eternamente. Ed è, dapprima, il tripudio più puro fra le proteste più pazze. Un sentimento di meraviglia occupa il vostro spirito: pensate alla creatura che vedeste un giorno da lontano; alla quale parlaste col rispetto più timido, per la quale sentiste nascere il desiderio più disperato – e questa creatura adesso è vostra, vi appartiene tutta! Voi quasi nol credete; se la vedete, talvolta passar da lontano, il dubbio rinasce nel vostro spirito. Nel cuor vostro, una gratitudine immensa, una devozione sconfinata raddoppia l’amore. Tutti i giorni, voi le scrivete, le mandate qualcosa del vostro pensiero, del vostro cuore. Ella impara a memoria le vostre lettere, ve ne ripete dei passaggi, ve ne domanda delle altre. Voi ricominciate, ancora, sempre; ma, senza accorgervene, le antiche espressioni vi ritornano sotto la penna e, a poco a poco, finite col ripetervi. Sono le parole che vi mancano? Che importa! Voi pensate che da tutti i vostri atti, da tutta la vostra vita, ella dev’essere assicurata della saldezza del vostro affetto. Ella non pensa così; si lagna del vostro raffreddamento, fa consistere il bene in certe cose che per voi non hanno significato. State in guardia: voi cominciate a scorgere i difetti nell’idolo. E, se chiudete gli occhi per non vederli, altri invece se ne rivelano. Allora voi vi fate una ragione; tutte le creature umane non hanno forse i loro?… Sapete che cosa vuol dire questo? Vuol dire che dal periodo epico e leggendario, voi già passate al periodo critico. Voi vi ammirate per la vostra penetrazione, per la vostra ragionevolezza. Il vostro egoismo vi mantiene pertanto in una illusione; vi dimostra che voi, dal canto vostro, non avete difetti di sorta; ella non può, non deve trovarne in voi. Un bel giorno, una sua parola, l’accento col quale ella la pronunzia, vi aprono gli occhi; ella ha scoperto i vostri difetti secreti, le vostre debolezze intime, quel che c’è in voi di manchevole, di men bello. Allora il vostro amor proprio s’impunta. E vi chiudete in un offeso riserbo, o vi vendicate dicendole apertamente i suoi torti. Adesso ciascun di voi giudica l’altro, senza riguardi, per quel che vale. Un istinto d’avversione si sveglia dentro di voi; ma i legami che vi stringono a quell’essere sono tanto forti che non si spezzano. E sapete a che cosa somiglia allora la vostra situazione? Rassomiglia a quella di due forzati avvinti da una stessa catena, ciascuno dei quali è costretto a non fare un passo che l’altro non faccia… Quando voi pensate all’illusione dei primi giorni, vi chiedete: "Come mai s’è dissipata?". E non sapete rispondere; il disinganno s’è venuto operando lentamente, inavvertitamente. Presto s’accresce ancora, presto voi vi domandate una altra cosa, la cosa opposta: "Come ho fatto ad illudermi?". Tanto profondo è l’abisso scavatosi!… Tutto questo vi fa paura, perché quel complesso di moti diversi ed opposti che si chiama l’amore è ancora in voi. Ecco: voi chiudete gli occhi, abolite la percezione del mondo circostante, guardate in fondo alla vostra memoria. Il ricordo dei giorni sereni vi brilla: perché non potreste riafferrarli? La donna che voi amate non è morta, non v’ha abbandonato, è sempre vicina a voi; ma sapete che avviene? Ella non è più la stessa che conosceste un giorno. L’assiduità con la quale l’avete contemplata, esaminata, studiata, ha finito per alterare le linee del suo viso, della sua persona; per farvi scoprire in lei degli aspetti, delle attitudini, delle espressioni, che prima non avevate visti. Voi vi sforzate di ritrovarla come al tempo in cui nacque l’amore; per questo, la rimettete nella stessa luce in cui prima v’apparve, ed esumate tutti i vostri ricordi, e vi riportate continuamente col pensiero al passato. Ogni sforzo è inutile: no, non è più lei… Le sue carezze d’ora non sanno più come le prime, le sue parole d’ora non hanno il suono delle antiche. Voi comprendete che uno stesso fenomeno accade in lei, ma nessuno di voi ha il coraggio di dirlo. Ella vi domanda di ripeterle le parole innamorate che le prodigaste; voi le ripetete, e un’ironia amara vi torce le labbra. Lontano da lei, vi proponete di dirle tutto, sinceramente, di non rappresentare più oltre una commedia; trovate le parole, cominciate una lettera, ma non avete la forza di compiere il vostro proposito. Se qualche momento di tenerezza ritorna, dovreste esultare, non è vero? Invece, il vostro scontento s’accresce; vi accusate di fiacchezza, di imbecillità; avreste voglia di percuotervi, di insultarvi… – L’ultima luce agonizzava, un chiarore verdastro si diffondeva sotto le nuvole pesanti, illividiva i volti dei tre uomini al cui sguardo la desolata campagna e il mare flagellato formavano come un paesaggio appartenente a un altro mondo, più vuoto, più freddo, più lugubre. – Chi non ha conosciuto questo – riprendeva Ludwig –, non sa nulla delle agonie sentimentali, della vanità degli affidamenti, dei giuramenti umani. Per sempre!… Non è una potenza ineluttabile, non è una volontà estranea alla vostra che distrugge questa promessa; è il vostro stesso cuore; siete voi che ridete di voi! La fine più brusca, la rottura più repentina non hanno nulla di tanto lacrimevole quanto questa agonia. La pietà si mescola allo sdegno ed al sarcasmo; in certi momenti, dimenticate il vostro scontento, pensando al dolore che si rovescerà su voi due quando le parole irrevocabili saranno pronunziate… E prolungate l’inganno, e soffrite, e fate soffrire; finché, un giorno, quando meno ve l’aspettate, a proposito di nulla, tutto finisce… Sapete allora quello che accade? – Nessuno rispose. L’oscurità invadeva la stanza; nessuno pensava a fare accendere un lume. – Accade, al morale, qualcosa di simile a quel che avviene al fisico, quando una parte del vostro corpo, mortificata, distrutta, è portata via dal ferro del chirurgo. Sapete quel che si legge nei libri: l’infermo, spasimante, s’acqueta sotto l’azione torpente dell’etere. Dapprima, un senso di liberazione, un’aura esilarante gli rinfrescano il cervello. Egli ride, si sente diventato più leggiero, quasi trasportato su per l’etere, per quell’altro etere, l’imponderabile. Poi s’accascia, s’addorme, non sente più nulla. Quando riapre gli occhi alla luce, tutto è finito; il suo piede sfracellato, il suo braccio incancrenito non sono più attaccati al suo corpo. Egli guarda il posto vuoto; ma che cosa è il nuovo portento che adesso si compie? Egli sente che il suo piede, che il suo braccio portati via aderiscono ancora a lui; le sue sensazioni vi si localizzano ancora; egli avverte come un formicolìo, crede di poterli muovere, adoperare… Così accade nell’anima. Quando la passione mortificata ne è stata staccata, quando il ragionamento vi dice che non potrà più tornare, il vostro sentimento si proietta ancora in essa e, più di ogni altro modo reale, di ogni altro affetto presente, l’anima avverte la presenza dell’amore perduto… – La notte era fonda e la voce moriva.

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