Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene

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Artusi, Pellegrino 3 occorrenze

. — La buona mamma gongolante di gioia corse ad abbracciare il figliuolo e rivolta al marito: — Lascialo fare, disse, meglio un asino vivo che un dottor morto; avrà abbastanza di che occuparsi co’ suoi interessi. — In fatti d’allora in poi gl’interessi di Carlino furono un fucile e un cane da caccia, un focoso cavallo attaccato a un bel barroccino e continui assalti alle giovani contadine.

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Se non riuscisse acida abbastanza aggiungete aceto o agro di limone, e servitela col pesce lesso.

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Quando li avrete passati conditeli ed aggraziateli con un pizzico di sale, con sapa nella quantità necessaria a rendere il composto alquanto morbido, mezzo vasetto di mostarda di Savignano, grammi 40 di candito a piccoli pezzettini, un poco di zucchero, se la sapa non li avesse indolciti abbastanza, e due cucchiaini di cannella pesta.

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IL MAESTRO DI SETTICLAVIO

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Boito, Camillo 4 occorrenze

Nei primi mesi le cose procedettero abbastanza bene. Era la bella stagione: Mirate vogava la sera, studiava di giorno; il soprano co- piava con le sue proprie mani la musica che occorreva al tenore. Ma presto il remo gli principiò a pesare: diceva che quell'esercizio faticava il petto, che il respiro si faceva troppo frequente, che l'espirazione diventava corta. Il maestro Zen gli dava ragione: la gondola fu ceduta, e la svanzica non bastò più. Il padre e la madre del futuro grand'uomo, per soccorrerlo di qualche soldo, raddop- piarono il lavoro: quegli al traghetto, assumendo spesso il servizio dei compagni, questa al mastello, ove stava a lavare anche buona parte della notte. Il bucato della biancheria nuova del figliuolo, di bella tela fina cucita dalla mamma instancabile, si faceva a parte, essendo oggetto di cure speciali per la lisciva, per il sapone, pel modo delicato, quasi a dire rispettoso, di torcerla, di batteria, di sciacquarla, di tenderla. Il bianco lucente di quelle camicie con il largo goletto, con il davanti piegolinato, con i polsini che copriva- no metà delle mani, non sembrava mai abbastanza candido per toccare la pelle del nobile rampollo, dal quale la famiglia attende- va gloria e ricchezze. Egli di giorno in giorno gonfiava sempre più, e diventava nervoso. Bastava una macchietta gialla del ferro, un goletto poco inamidato, perché, bestemmiando, sbattesse a ter- ra innanzi alla madre due o tre camicie, che la poveretta, con gli occhi umidi e le labbra sorridenti, raccoglieva e tornava a lavare e a stirare. Lo stanzino, ch'egli occupava accanto alle due cameracce terrene dei genitori, non era più sufficiente alla sua voce ed alla sua persona; non rifiniva di lamentarsi che per andare in piazza di San Marco o dal maestro gli toccasse di fare un viaggio. Si trovò dunque una buona stanza nel centro, in Frezzeria, dove con i suoi gorgheggi metteva sossopra il vicinato. Da allora in poi andò tre volte la settimana dal barbiere, desinò all'osteria, mutò i compa- gni, frequentò donne galanti, si vergognò della madre e del babbo, che faceva passare per la propria stiratrice e per il proprio lustrino, e che andava di tempo in tempo a vedere con la speranza di spilla- re qualcosa. Ci voleva altro? Il rinfranco veniva dal soprano, il quale, dopo avere snocciolato parecchie centinaia di svanziche, si sentiva in- catenato al suo debitore assai più di quanto il debitore credesse di rimanere legato a lui. Già Mirate non si degnava più di andar a chiedere con questa scusa o con quella; mandava a dire all'altro che venisse, e subito. Le chiamate avevano luogo, per solito, verso le dieci della mattina, mentre il tenore era ancora a letto. "Mi occorrono quattrini". "Non ne ho". "Isacco figlio di Abramo, mi abbisognano dugento lire, altrimenti non posso saldare una cambialuccia al barbiere, il quale ha meno spirito di te, e mi caccierà dritto in prigione". "Non lo farà. Dovrebbe pagarti il vitto". "Pagherà, tanto è puntiglioso. E poi vuol dare un famosissimo esempio agli altri suoi avventori morosi, cui ha prestato al cento per cento". "Non lo farà, ti ripeto; ma se quell'usuraio sordido lo facesse, che cosa ne importerebbe a me?". "Non te ne importerebbe, cuore di vero soprano! È dunque sban- dito dal tuo animo ogni resto di pietà? Vuoi che ti canti una melo- dia in Mi minore per impietosirti? Poi, pensaci be- ne, l'umidità del carcere, la mancanza di moto, l'arrugginirsi della gola (perché non mi lascierebbero forse solfeggiare dalla mattina alla sera), gli insetti, il cattivo mangiare, e sopra tutto l'avvili- mento: in una settimana sarei bello e spacciato". E il tenore parlava con enfasi melodrammatica, mutandosi di ca- micia e mettendosi i calzini. "Anzi" replicava l'altro con lo sforzo di un sogghigno, che in quella faccia triste e macilenta diventava una contorsione pietosa "anzi la continenza forzata ti farebbe un gran bene. Usciresti di gattabuia, al pari d'un canarino, più grasso e più canoro". "Giacobbe figlio d'Isacco, sai che non mi piacciono gli scherzi, massime quando escono da una bocca tetra come la tua. Sono un buon figliuolo, ma non farmi scappare la pazienza. In fondo, chi mi spinse a chiedere danaro al factotum della città? Tu, che non volesti darmelo; ed io ne avevo urgenza per comperare musi- ca, pastiglie pettorali, eccetera, eccetera. Del rimanente non ignori che la mia vita costa una miseria. Il più è questa camera piccola e buia. A desinare e a cena sono spesso invitato, in grazia delle se- renate, dei concerti di famiglia o delle orgie musicali tra scapoli; e le donnette per me, piuttosto che una uscita, sono una entrata; la lavandaia mi serve gratis; il sarto confida nella mia prossima glo- ria, come confidi tu, mio protettore generoso". Parlava a intervalli, badando a vestirsi, finché, dopo essersi unto bene i capelli, i baffi ed il pizzo con una pomata di muschio, si ac- comodò i solini e la cravatta. Intanto l'antiquario lo seguiva con lo sguardo e lottava dentro di sé. Finalmente disse: "Insomma, anche questa volta farò un sacrifizio. Ti darò le du- gento lire". "Oltre la mesata, s'intende". "Oltre la mesata; ma, per carità, regolati nelle spese, non mi rovi- nare, se no avrai sulla coscienza la sventura d'un padre e di sei fi- gliuoli. A proposito, ieri pensavo a te". "Grazie di cuore. Vuoi dire che pensavi all'affar d'oro, che hai fatto meco". "No, proprio al tuo bene: pensavo a darti moglie". "Così subito?". "Fossi matto! Fra un anno o poco più, quando sarai entrato nel- l'arte sul serio ed avrai uno stato sicuro. Intanto si potrebbe gettare l'amo". "Intendo. Quel che ti preme è che io non pericoli in alto mare o non vada a frangermi in uno scoglio. Preferisci di farmi arenare tranquillamente, come una gondola, in secco. Poi un uomo inna- morato mangia meno, si svaga meno, spende meno. Poi la dote, perché ci deve essere una dote...". "Sicuramente". "La dote servirebbe subito a risarcirti col trecento per cento (altro che il parrucchiere!) delle tue liberali anticipazioni, senza nemme- no il disturbo di aspettare qualche anno". "Sei ingrato". "E chi è la bella?". "Ora non te lo voglio più dire". "Dimmelo, mio buono, mio adorato Giacobbe". Era, insomma, la nipotina del maestro Chisiola; la quale aveva ereditato dal babbo un capitaletto, che, fatto fruttare per molti anni e ingrossato dal nonno, poteva ascendere oramai ad una trentina di mila svanziche, senza contare che il nonno, benché rubizzo, non avrebbe tardato molto a lasciarle il resto. Il tenore dichiarò di non avere mai guardato molto attentamente quella monachetta, pure avendola veduta molte volte in chiesa e in istrada mentre accom- pagnava il vecchio, ed anche in casa di lui, ma di rado. Gli era sembrata una piccola beghina scipita; ma in conclusione, trattan- dosi di un affare lontano, non diceva né sì, né no. Avrebbe guar- dato e pensato meglio. I due si lasciarono questa volta pienamente rabboniti, sebbene in Mirate, malgrado la lettura di romanzi e poesie, cui s'era dato, e la nuova compagnia di persone abbastanza civili, rimanesse inalte- rata l'indole volgarmente sarcastica e impertinente del barcaiuolo. Ma nell'animo dell'altro era cresciuto un affetto quasi paterno e indulgente ed ansioso verso quel giovine, nel quale in principio non aveva veduto altro che l'utile vittima dell'usuraio; tanto che ora si compiaceva, in fondo, della bellezza, della forza, della spa- valderia, degli stessi vizi del suo pupillo musicale, idealizzando ogni cosa, e gli sarebbe sembrato impossibile che una fanciulla lo rifiutasse per marito ed una famiglia non si tenesse orgogliosa d'imparentarsi con lui. Trascorso poco più di un anno, Mirate entrò nella cappella di San Marco quale supplente del vecchio tenore sfiatato; ed, una setti- mana dopo, il soprano aveva già persuaso lo Zen di chiedere al maestro Chisiola per il novello cantore la mano della sua nipotina. S'è visto come il nonno rispondesse con una negativa tanto riso- luta ed asciutta, che lo Zen non ebbe più ardire d'insistere. Il ri- fiuto stupì e addolorò lo strozzino, in cui interesse e cuore cospi- ravano insieme; ma offese vivamente, nel suo amor proprio di bel giovane conquistatore e di famoso cantante, Mirate, il quale per la prima volta guardò con interessamento la modesta fanciulla, giu- rando a sé medesimo che di quel no il vecchio si sarebbe presto pentito.

Mi- rate fu giudicato con poca benevolenza: voce potente, di buon timbro, abbastanza intonata, ma fredda e grossolana; cantante im- maturo, più da chiesa che da teatro; insomma, qualità preziose, ma scuola pessima. Gli altri allievi, messi in un fascio, venivano tar- tassati spietatamente. Conclusione: gli azionisti buttavano via i lo- ro quattrini per far sciupare le belle voci o far cantare dei cani. Il giornale teatrale, La Lira se la pigliava poi col setticlavio, ac- cusando questo metodo di molti peccati: incertezza nella intona- zione, perplessità negli attacchi, pesantezza nel modulare; e nega- va assolutamente che gli scolari dello Zen sapessero leggere a prima vista. Proponeva un giudizio, pronunciato da cinque mae- stri, due eletti dallo Zen, due dalla direzione del giornale e il quinto dai primi quattro insieme. Lo Zen, fuori di sé per il dispetto di tante censure e per il timore di vedersi togliere la sua amata scuola, ma più che altro per causa delle imputazioni contro il setticlavio, abboccò subito; e scrisse al giornale una lettera, stampata immediatamente, con cui accettava la proposta, si riserbava di indicare due nomi, e si dichiarava di- sposto a soggiacere alla sentenza se, cosa impossibile, gli dovesse riescire contraria. Corse dal maestro direttore della cappella di San Marco a pregarlo di essere uno degli arbitri. Questi, uomo pru- dente, rispose: "Vi pare! Nella mia posizione, farmi dei nemici fra i maestri e fra i giornalisti! Grazie della fiducia, ma non vorrei rovinarmi". Corse dal giovine e celebre direttore d'orchestra al teatro della Fenice, che gli strinse cordialmente la mano, lo fece sedere in poltrona, gli offrì una chicchera di caffè, ma rispose: "Ben volentieri, maestro Carissimo, se non ci fosse un ostacolo. Io ignoro assolutamente che cosa sia setticlavio". "Oh, non importa, in un quarto d'ora la metto in grado di esserne professore. Il metodo splende da sé, come il sole. Quale è la tonica nella chiave di Do". "Le sono riconoscente, maestro, veramente riconoscentissimo di volermi istruire, e la pregherò anzi di farlo un'altra volta. Ma le sembra che uno possa impancarsi da arbitro in una materia che conosce a mala pena e da poche ore e per sola teoria? Bisognereb- be essere troppo sfacciati". Tali ad un dipresso furono le risposte degli altri maestri, cui lo Zen si rivolse. Il pover'uomo era già stato tre volte alla casa del maestro Chisiola; ma questi, un po' indisposto dopo la sera del concerto, non voleva assolutamente vedere nessuno. Non sapendo dove dar del capo s'avviò a gran passi verso la bottega dell'anti- quario usuraio e soprano. Le faccende dello Zen s'imbrogliavano. Ai quattrini suoi, quando ne aveva in tasca, ed a quelli degli altri che si faceva prestare, non attribuiva nessuna importanza; e stupiva nel vedere la gente affan- narsi per guadagnare e per ammassare. Il suo stipendio di primo basso nella cappella di San Marco era sequestrato da parecchi me- si; gli azionisti della sua scuola gratuita gettavano appena, in un anno, un centinaio di svanziche, e dagli allievi, anche se gli aves- sero offerto danaro, non avrebbe accettato un soldo, ma veramen- te, invece di offrire, chiedevano, ed egli, se aveva, dava, o, mentre era al verde, li conduceva al bacaro a mangiare ed a bere, finché l'oste gli faceva credenza. Qualcosa beccava cantando nelle sagre, perché la sua voce rimbombante piaceva ai preti; qualcosa spilluzzicava correggendo bozze di stampa per una tipografia, componendo sonetti per nozze, per nascite, per ricuperata salute, per prima messa, per regresso di parroco, per l'applaudito quare- simalista come per la furoreggiante Tersicore, per il negoziante, che apriva bottega di vestiti fatti, come per il bottegaio, che aveva ricevuto un carico di baccalà. Un giorno gli viene in mente di pubblicare un giornale in dialetto per mettere in sempre maggior luce il setticlavio e dire al prossimo la verità: fortuna che in meno di un mese il foglio era bello e sotterrato. Un altro giorno annunzia su tutte le cantonate della città la Storia del canto dall'anti- chità fino ad oggi raccoglie firme e quote di associati: l'opera rimane alla prima faccia della prefazione. Scriveva più sciolto in versi che in prosa, ma il meglio era la poe- sia vernacola, in cui apparivano qua e là l'ironia sferzante, la can- zonatura ridente dei migliori poeti veneziani; scriveva sempre alla bottega da caffè, in quella del sottoportico dei Dai quasi seppellita dal ponte vicino, in quella sotto i portici di Rialto, ac- canto al mercato, ove, splendendo fuori il sole, ci si vedeva appe- na, ed i sensali, i venditori, i compratori in giacchetta od in mani- che di camicia si bisticciavano insieme romorosamente, o ralle- gravano i contratti di bicchierini con indiavolato baccano. Nel bu- gigattolo, che portava il sonoro nome di Caffè della Gloria e che stava tra una bottega di straccivendolo e un botteghino del lotto, il calamaio era formato da una chicchera slabbrata priva di manico, nella quale lo Zen trovava l'ispirazione. L'antiquario soprano stava contrattando con una donna pallida, mentre lo Zen entrava ansante nella bottega. Si trattava di una Vergine col Putto in braccio, alta due palmi, tutta in avorio, su cui si scoprivano le tracce di dorature e colori, e nello zoccolo si leg- geva una epigrafe del trecento. "Anni addietro" diceva la donna sommessamente, con gli occhi lagrimosi "anni addietro avrei potuto pigliarne cinque marenghi; e non volli, perché questa Madonna era tanto cara alla mia povera mamma, e, quando la pregavo, sorrideva anche a me; come sorride ora". "Insomma, le vuole le quindici lire?". "Almeno venti me ne dia". "No" e l'antiquario si rivolse allo Zen, che s'impazientiva. La mi- sera donna uscì; ma, dopo qualche minuto, ricomparve, e, posando la statuetta lentamente sopra una tavola ingombra di ciarpami d'ogni sorta, mormorò: "Se la prenda: i bimbi m'aspettano con il pane". Intascò il denaro e fece per andarsene; ma, trattenuta da un rimor- so, tornò indietro, prese in mano la figuretta con delicatezza pau- rosa, accostando le labbra tremanti al viso soave in atto di baciar- lo. Uscita finalmente dalla bottega si asciugava le lagrime, mentre correva dal fornaio. "Oh, appunto, se non capitavi sarei venuto io a destarti" brontolò l'antiquario, guardando lo Zen; e gli domandò in tono brusco: "Non pensi a pagare?". "Ho altro per il capo io. Volevo chiederti un consiglio, perché sei uomo avveduto e so che, in fondo, mi vuoi bene. Leggi la lira?". "Capisco. Ti sei accorto di avere fatto una delle tue solite bestia- lità, accettando la proposta del giudizio musicale, e vorresti rime- diare". "No davvero. Venivo a sentire da te un parere circa i due nomi di autorevoli maestri, cui potrei indirizzarmi". "Quanti t'hanno detto di no fino ad ora?". "Facciamo il conto" e pronunciava i nomi, e numerava sulle dita: "Sette". "Puoi stare certo che per l'una ragione o per l'altra, col bel garbo o villanamente, tutti, in conclusione, ti risponderanno del pari. Smettila, smettila col tuo setticlavio". "Intanto non potresti accettare tu?". "Io? Sei matto. Ma lasciamo stare per ora queste baggianate. In- tendi di pagare sì o no? Sono stato io la bestia di mettermi innanzi col proprietario della sala ove hai tenuto il famoso concerto, col fornitore delle seggiole, con quello delle lampade, e via via: una ottantina di svanziche". "E non mi hai svergognato in faccia a tutti i nostri compagni della cappella, facendomi sequestrare lo stipendio? Paga con quello". "Mi canzoni? Lo stipendio era già sequestrato più di mezzo; sic- ché, per riavere le somme, che ti prestai da amico troppo disinte- ressato, dovrò pazientare la bellezza di quasi due anni. Siamo vec- chi, caro collega, e se non si perderà presto la vita, si perderà certo la voce. Begli affari ho fatto con te e con Mirate!". "Pensiamo dunque a un rimedio". "Hai nulla?". "Nulla. Anzi fra una settimana rischio di farmi cacciare di casa, sequestrare i pochi mobili, e portar via il pianoforte e la musica. Che cosa sarà della mia povera scuola?". "Mi avevi parlato, tempo fa, di una somma che certi tuoi cono- scenti t'avevano spedito, non so da quale cittaduzza, per la stampa di una strenna, scritta da essi, e che dovrà uscire gli ultimi giorni dell'anno. Mancano ancora cinque mesi". "Mi tempestano di lettere, aspettano ansiosamente di giorno in giorno le bozze, minacciano di venire a Venezia. Bisogna pure che io consegni il manoscritto al tipografo, e ritrovi il denaro già sfu- mato". "E il pianoforte?". "Non è mio, lo sai bene. Lo ho a nolo mensualmente". "Sì, ma se tu trovassi da venderlo, non potresti continuare a pagar la mesata, finché ti riescisse di saldare al proprietario il prezzo to- tale dello strumento? Perderesti qualcosa, ma non si può avere nulla per nulla". "E come farei senza pianoforte a insegnare il setticlavio?". "Pigliane un altro a nolo, da un altro negoziante, s'intende". "Di questi affari non capisco niente. Salvami la scuola: ti doman- do soltanto questo. Mi fido di te". "Troverò io il compratore. Ad un patto però, che il mio nome non debba essere pronunciato in nessun caso. Me lo prometti?". "Lo giuro" e lo Zen, dopo qualche altra parola, uscì con la testa alta, il passo snello, zufolando un'arietta allegra, come se avesse assicurato la scuola per l'eternità. Della lira oramai si dava po- co pensiero.

I pittori non istudiano abbastanza la donna. Hanno visto per altro che i zendali, i domino bruni, le mascherine incipriate, le gentil- donne sensuali della scuola che sta per finire, figuravano la natura veneziana come i Piombi ed i Pozzi rappresentano la verità stori- ca. Non diciamo che così i Pozzi ed i Piombi, come le femmine cincischiate e leccate dei pittori vecchi - s'intende vecchi di questo secolo - sieno cose tutte bugiarde; ma le impressioni che un dab- ben uomo riceve nei sotterranei e sotto i tetti del Palazzo Ducale, toccando le gravi catene, contemplando la pietra, sulla quale il carnefice nel buio tagliava il capo dei condannati, e calpestando la soglia della porticina, da cui il corpo monco era gettato in barca per venire sepolto nel Canal dei Marrani, così fatte impressioni sono romanzesche e false, quando non vengono mitigate e rad- drizzate da una conoscenza più larga, più effettiva del vero. Di Venezia certi storici, facendosi complici dei poeti, e certi pittori, credendo di seguire, poverini! le tradizioni gloriose del passato, avevano costrutto in fantasia una città teatrale da gonfii drammi e da tetre ballate, dove i colori letterarii erano, come i colori pittori- ci, stridenti e stonati. Tra quegli artisti pesanti pareva una serena eccezione Natale Schiavoni, il quale i colmi seni e le spalle mor- bide delle sue mezze figure, che si somigliano tutte, sfumava nel vapor latteo, non senza una certa grazia pudicamente carnale. Ma i giovani d'oggi guardano invece, o vorrebbero almeno guardare dritti alla natura. C'è a Venezia due tipi femminili molto diversi: quello roseo e carnoso delle donne del Giorgione, delle Veneri di Tiziano, e l'al- tro bruno e magro, che i pittori non hanno ancora celebrato. Nel primo i capelli di un biondo rossastro, gli occhi del color del cielo o del mare, l'incarnato delle guance, il corallo delle labbra, le nevi del seno e tutte le altre qualità blande fanno della bellezza qualco- sa di placidamente materiale, dove la poesia sonnecchia. Il secon- do tipo ha il seno modesto, i capelli corvini, gli occhioni neri se- gnati sotto con due sfumature livide, le labbra strette, il naso leg- germente aquilino, e la carnagione scuretta sparsa di macchiettine verdastre. Se i denti sono candidi e regolari, cosa difficile a trova- re in Venezia, questo secondo tipo è potente. Ha in sé come una fiamma concentrata, che rende vivaci i gesti, la parola, gli sguardi, il sorriso. E ha un fondo di mestizia; e si lascia andare agli affetti con una sincerità scivolante, che toglie quasi alla passione il sapor di peccato. L'amore in Venezia nasce dalle ondette della laguna, dalle cadenze labbiali del tenero dialetto: non è più né spirituale, né sensuale: è fatale. E le donne camminano stupendamente. Forse - non lo sappiamo - l'andare grandioso e pittoresco delle popolane viene dagli scialli, che portano sulle spalle o sul capo, non puntati da spilli, ma tenuti fermi al petto con le mani, sicché i fianchi in quella fasciatura si disegnano netti; o forse viene dallo scendere i ponti, che obbliga la persona a tenersi un poco incurvata col seno innanzi e colle spalle indietro, mentre le sottane formano un bell'arco di strascico sui gradini; o forse viene dalla frequente necessità del camminare lenti nelle vie, o forse dal non portare il maledetto busto imprigio- natore del corpo, ond'è che le membra restano più libere, i movi- menti più sciolti, e le linee del torso girano più naturali su quelle delle anche. È singolare come la donna e l'uomo a Venezia paiano, tanto nel- l'aspetto quanto nell'animo, più naturali che non negli altri paesi, e pure più complessi. Sono lagrimatori e festivi, espansivi e mali- ziosi. Hanno molto dell'ingegno, qualcosa dello scetticismo ate- niese. Il sarcasmo sfiora ad ogni istante le loro labbra, ma senza livore, senza cattive intenzioni, così per indole o per giuoco; tanto che il forestiere è molto spesso impacciato nel conoscere se un Veneziano parli da senno o per burla. Il sarcasmo è una parte della loro saggezza e disgraziatamente della loro pigrizia. Si contentano di capire le cose al volo; quanto al farle è un altro paio di maniche. Per operare non bisogna dubitare; per non dubitare non bisogna vedere delle questioni tutti i lati ugualmente, e indovinarne troppo i vantaggi ed i danni. Molte sere, mentre splendevano le stelle e il vaporetto del Lido mandava il suo fischio, sentimmo cantare sulla Riva degli Schia- voni una canzone popolare, che ci sembra il ritratto di quella iro- nia veneziana, la quale si torce persino contro se stessa. In coda ad ogni quartina il ritornello serio, grave, bene armonizzato, diceva: Viva l'Italia e la libertà e a un tratto una sola voce nasale, fessa, stonata, interrompeva con un Ma secco, e ripigliava dopo una pausa: Se spera che i sassi Deventa paneti, Perché i povareti Se possa saziar. (Viva, ec... Ma!) Se spera che el caldo Principia in genaro E senza tabaro Poder caminar. (Viva, ec... Ma!) Se spera che adesso No nassa più tose, Perché le morose Se possa sposar. (Viva, ec... Ma!) Se spera, se spera Che el nostro Governo No deva in eterno Le tasse lassar. (Viva, ec... Ma!) Se spera, e sperando Ne capita l'ora De andar in malora Col nostro sperar. Coi barcaiuoli, come s'è detto per le donne, i pittori vecchi face- vano dei còsi rettorici, trasformando il gondoliere o in un rematore sentimentale, che aveva le grazie da ballerino di teatro, oppure in un pescatore Chioggiotto, che sembrava una specie di Masaniello o di can barbone. Nel vero i due tipi del barcaiuolo veneziano, quello di casada e quello di traghetto si dividono in molte varietà curiose, che noi abbiamo avuto la bella fortuna di contemplare a nostro agio durante un'adunanza della Società di Mutuo soccorso fra i servitori di barca, batellanti e traghet- tanti Credevamo di risalire i secoli, di trovarci per magia in un angolo della Sala del Gran Consiglio, e di ascoltare i discorsi dei vecchi patrizii, che parlavano anch'essi in dialetto e alla buona e brevi e succosi. Il buon senso pratico del popolo veneziano ci si rivelò intiero nelle discussioni di questi barcaiuoli, i quali, smessa per un poco l'ironia, ragionando di cose che importavano a tutti, diventavano uomini d'affari e calmi diplomatici. Vi era il Polentina cantore e chiosatore dell'Ariosto e del Tasso, con la sua barba nera brizzolata di bianco, la testa mezzo calva, la carnagione abbronzita, simile alla patina rossastra e scre- polata di un quadro antico. La sua faccia al primo aspetto ha qual- cosa di sinistro, quasi di truce, come alcuni ritratti del Tintoretto; poi, come in quei ritratti, a poco a poco dal moto delle labbra - le labbra nei ritratti del Tintoretto si muovono - e dall'umidore dello sguardo splende il raggio d'una bontà mansueta. Alle sue orecchie pendevano due anelli d'oro, dai quali pendevano alla loro volta due triangoletti pur d'oro, dondolanti a ogni gesto. C'era un vecchio di settant'anni, dritto; portava il pizzo bianco: oratore pieno di saggezza, ma di voce stentorea e di parola impe- tuosa. Raccontano che nel quarantotto pacificasse con un discorso Nicolotti e Castellani, le due fazioni di Venezia, che d'allora in poi, salvo i molti pettegolezzi e qualche scappellotto dopo le re- gate, vivono in santa pace. I volti da Carpaccio, sbarbati, col naso grosso, gli zigomi prominenti, il mento largo, si alternavano ai volti da VanDyck, pallidi, di barbetta rossigna, di occhi profondi e languidi, nel fronte meditabondi. La ruvidezza maschia e libera dei traghettanti contrastava con le livree a bottoni dorati, dei gondolieri aristocratici, ben rasi il volto. Non c'era, pur troppo! il gondoliere della Divina Comme- dia Antonio Maschio, che ha studiato il Convito il Volgare Eloquio la Vita Nuova tutto Dante, e conosce le opere sesquipedali de' suoi commentatori, e ha sul Poema una propria teoria, intorno alla quale tenne delle pubbliche conferenze e stampò dei libri; chiosatore dotto e sottile, parla in toscano con garbo: dovrebbe essere professore, membro di Accademie, cava- liere. Figlio di un biadaiuolo di Murano, in bottega andava frugan- do nella carta da far cartocci; gli piacevano più le righe corte che le lunghe e aveva letto così qualche sonetto del Petrarca e alcune ottave dell'Ariosto e del Tasso. Un dì gli caddero in mano i fogli staccati di tre canti del Purgatorio lesse e non capì nulla; corse da un vecchio prete dell'isola, che gli spiegò bene o male il grosso delle cose; vogò subito a Venezia a comperare con pochi soldi il Poema senza note. Allora il nostro barcaiuolo, inna- morandosi del mistero, esaltandosi in ciò che intendeva e ancora più in ciò che non intendeva, netto da ogni preoccupazione, s'andò creando nel cervello un concetto intiero della filosofia e della geo- grafia della Commedia ruminandolo da sé solo, finché gli venne regalato un commento, e poté un po' alla volta confrontare le proprie idee con le faticose ricerche degli eruditi. Nel sessantacinque voleva andare alle Feste dantesche di Firenze; ma non avendo il permesso della Polizia austriaca, camminò di soppiatto fino al Po, sperando di trovarvi una barca. Trova invece i gendarmi; si getta in fiume nudo, col suo fardello degli abiti sulle spalle e il volume di Dante; il fardello sprofonda, Dante sprofon- da; egli stesso, dopo sovrumani sforzi per toccare l'opposta riva, è lì lì per annegarsi; lo ripescano; lo riconsegnano agli Austriaci; è maltrattato, messo in prigione e dopo un pezzo, quando Dio volle, liberato. Il suo rammarico era questo solo, di non avere potuto as- sistere all'onoranza del suo Poeta. Oggi è alla Banca nazionale, gondoliere. Ma in quella adunanza, dove il Maschio dunque non c'era, dove- vano discutere, tra gli altri affari, la domanda di un socio fondato- re, il quale, mettendo innanzi i beneficii resi alla Società, chiedeva una gratificazione. Un bell'omone grande e grosso, col viso tondo tra il gioviale e il solenne - somigliava al maggiordomo della Cena di Paolo - chiede la parola e dice: "Far el ben e po domandar el compenso xe perder el dirito a la ri- conoscenza. Mi a quel sior ghe verzo la mia povara casa: el vegna a magnar, se el ga bisogno, e a bevar da mi; ma dei soldi de la So- cietà no sepol darghe un boro". Tutti consentirono nella opinione del buon uomo, votando coll'al- zare la mano, eccetto uno, che diceva di avere un reumatismo al braccio destro: "Ciò, parché non votistù? E se gavesse una dogia?". Allora il presidente, un signore in cappello a cilindro, molto pro- saico, pose in discussione l'indirizzo di non sappiamo quale So- cietà di operai, il quale puzzava di demagogia ed al quale bisogna- va rispondere. Un barcaiuolo si rizza, e discorre così: "Ghe xe dei intriganti che ne monta la testa a nualtri, tanto per far del ciasso e per pescar nel torbio. I fa finta de credar che brusando le fabriche i operai ghe guadagni, e rovinando i altri i se faza si- gnori. No i rovina i paroni, e eli i more de fame. Ma sti intriganti no ga altro fin che quelo de condur el popolo a la miseria, a la di- sperazion; parché alora quel revolton, che i voria far de tuto e de tufi, deventaria più facile". Mentre l'oratore pronunciava queste parole il Polentina crollava il capo, scuotendo i suoi orecchini, e aggrottava le ciglia. Noi lo credevamo un comunista arrabbiato. Domanda la parola, e grida: "El dise ben: paroni e operati xe tuti una famegia". Insomma, poveri i Veneziani, che devono abitare a Venezia! La consuetudine li ha da far quasi ciechi a tante gioie dell'intelletto e della vista, a tante disinteressate emozioni del cuore. Il loro orec- chio non bada più, è vero, alle terribili oscenità ed alle laide be- stemmie, che barcaiuoli, monelli, donne del popolo pronunciano ad ogni frase, discorrendo placidamente fra loro; non bada alle particole, di cui la gente abbastanza civile infiora così per vezzo ogni periodetto delle proprie ciarle. Ma i loro occhi non si fermano forse più a un fregio bisantino, a un intrecciamento arabo, ad una nuvola riflessa nelle onde, alla macchia rossastra di un muro in ro- vina od ai rappezzi e tacconi di un bel putto biondo, magretto e mezzo nudo, che porge sorridendo la mano per domandare uno scheo Può restar loro la voglia sotto i portici delle Procu- ratie nuove, in faccia alle Procuratie vecchie e avendo alla destra il palazzo dei Dogi, di compiacersi in quelle ciance, delle quali cin- quecent'anni addietro si lagnava messer Francesco Petrarca. Il cantore di Laura si scagliò contro "la troppa libertà del parlare, per la quale in Venezia, più che in altro luogo qualunque, gli uomini onesti dagli infami, i dotti dagli ignoranti, i forti dai vili, i buoni dai malvagi sono impunemente vituperati". Si vede che il pette- golezzo non è cosa recente su questa terra mortale. E il Petrarca aveva amato con fervore Venezia: le aveva regalato una preziosa parte de' suoi libri; s'era molto compiaciuto che nelle feste per la vittoria di Candia il Doge l'avesse fatto sedere alla sua destra in cospetto di tutto il popolo, sulla loggia che sovrasta alla porta maggiore della basilica di San Marco; aveva invitato a tornare ospite suo nel suo palazzo della Riva degli Schiavoni, messer Giovanni Boccaccio, scrivendogli: "Tu conosci per prova quanto soavi e dolci riescano le notturne passeggiate sul mare". Anche il fiero Dante fu allettato dalla vaghezza della sin- golare città. Se non restasse una sua epistola a Guido da Polenta, si direbbe ch'egli non avesse guardato in Venezia ad altro che all' arzaná, dove bolle la tenace pece da lui in tre terzine dipinto; ma, dopo aver raccontato a Guido, del quale era in quei di amba- sciatore presso i Veneziani, che in faccia al Consiglio, poiché ebbe principiato la sua orazione in latino, gli fu mandato a dire "che cercasse di alcuno interprete o che mutasse favella" ond'egli mez- zo tra stordito e sdegnato cominciò a parlare in italiano, e capiva- no poco anche di questo; dopo avere notato che non si maraviglia- va di tanta ignoranza e accennato ai "vituperosissimi costumi dei Veneziani ed al fango della loro sfrenata lascivia", chiude l'epi- stola col dire: "Mi fermerò qui pochi giorni per pascere gli occhi corporali naturalmente ingordi della novità e vaghezza di questo sito". Dante dovette parere a quegli astuti e pieghevoli senatori un ambasciatore disgraziatissimo: rigido, impaziente, altero, dispetto- so. E di tale cattiva impressione da lui prodotta sul Consiglio, s'ac- corse certo il poeta fiorentino, e il suo malumore lo fece abbonda- re nelle accuse non giuste. Si può prestare più fede ad un placido ed imparziale francese, Michele di Montaigne, che andò a Venezia nel 1580, quando vi dipingeva Paolo e il Tintoretto e vi scolpiva Alessandro Vittoria. Veronica Franco, la famosa cortigiana poetessa, gli mandò a re- galare un suo volume di Lettere Egli diede due scudi al messo; ma è gran peccato che non ne dica di più. Nelle donne non trovò "cette fameuse beauté qu'on attribue au Dames de Venise"; e pur vide "les plus nobles de celles qui en font traficque", nelle quali più che d'ogni altra cosa si maraviglia in quella sua vecchia ortografia: "d'en voir un tel nombre faisant une dépense en meu- bles et vestemans de princesses". I broccati, i damaschi, il bisso, la porpora, i pizzi, i merletti, le stoffe d'oro e d'argento, i velluti, le sete, le perle, le pietre prezio- se, ogni splendore, ogni fasto della vita mondana aveva la sua in- fluenza sull'indole dell'arte. L'amore delle tinte vivaci era antico nei Veneziani: già prima del XII secolo il loro colore favorito fu nelle vesti il turchino, tanto che i Romani dicevano Turchi- no per Veneto E l'arte bisantina e l'arte araba e l'arte moresca e l'arte tedesca e l'arte fiamminga si diedero convegno nella città delle lagune per compiere l'orgia del bello. I gastaldi delle Arti avevano un bel decretare, che nessuno potesse vendere quadri, fuorché quelli "che avranno zurado l'arte, intendendo che loro sia habitatori de Venetia et a loro sia licito vender ne le loro botteghe et non in altro luogo"; quella che il Montaigne chiama la presse des peuples etrangers vinceva coteste paurose esclusioni. Lo Shakespeare fa dire ad un mercante Veneziano, che, soffiando sul brodo della zuppa per raffreddarla, egli pensa alle sue navi, volanti in tutti i mari con le loro ali di tela. E mentre i Veneziani si spandevano così nel mondo conosciuto, gli stranieri si concentravano in Venezia. Nel 1505 il Senato fece ricostruire il Fondaco dei Tedeschi da un Girolamo tedesco. Questo eclettismo, questo sensualismo, questo splendore dell'arte veneziana e nello stesso tempo questo suo carattere eminente- mente veneziano, spiegano la sua straordinaria forza affascinatri- ce. È una ghirlanda di fiori olezzanti; è una collana di pietre pre- ziose. E una cosa lasciva e imponente.

Una vecchia, tanto curva che il suo mento giungeva appena all'altezza delle panche, passava abbastanza lesta da un altare all'altro, mettendo innanzi ad ogni passo il suo bastoncino, su cui poggiava il peso del corpo cadente. Mentre uscivo, ell'era accanto alla pila dell'acqua santa. Le diedi qualche soldo: mi rin- graziò tremolando. Il sole scendeva in quei punto dietro le montagne. Non sapendo come passare il tempo, mi posi a sedere sul parapetto del portico e guardai intorno le chine verdi; ma nell'abbassare lo sguardo, sopra un quadratello di marmo bianco, incassato nelle lastre scure del pavimento, mi parve di vedere il nome della nostra famiglia. Sentii punzecchiarmi dalla curiosità e guardai bene. Potei leggere, oltre al casato, Don Antonio e l'anno MDCCLXX; ma il resto, tra l'essere logoro dallo stropiccìo de' piedi e l'essere scritto in la- tino, non mi entrava nel cervello. Stavo così lambiccandomi da dieci minuti, quand'odo dietro di me una voce fessa e biascicante, la quale brontola, come se ripetesse una lezione imparata a memo- ria: "Sui sagrato di questa chiesa Don Antonio, maestro di virtù, fece ardere in benefica pira gli strumenti del peccato, e scacciò il De- monio muto dal cuore dei penitenti". Non capii nulla neanche nella traduzione, e, vincendo il ribrezzo che la vecchia mi metteva addosso, le chiesi s'ella poteva spiegar- mi il mistero dell'epigrafe. Mi pigliò per il braccio con la sua mano adunca, che pareva un artiglio, e mi trascinò sul piazzale, nel mezzo, tra il portico della chiesa e le gradinate della roccia, le quali scendono al paese; poi, sempre tenendosi al mio braccio, fece il segno con la punta del suo bastoncino di un largo circolo intorno a noi, e disse: "Qui, proprio qui. Era un gran fuoco. Pareva un incendio. I ra- gazzi avevano portato le fascine secche; gli uomini avevano ac- comodato le legne in una immensa catasta; le donne con le mani giunte, inginocchiate, pregavano. Poi una si alza e, togliendosi i pendenti dalle orecchie, li getta nelle fiamme; e, dopo questa, tut- te, ad una ad una, o un monile, o un braccialetto, od uno spillone, o quel che hanno di prezioso e di bello gettano nel fuoco. Le lita- nie si sollevano al cielo: lo scoppiettare e lo stridere del rogo pare un inferno. Si avanzavano gli uomini come spiritati. È notte, e le fiamme, tingendo la chiesa e le case di un rosso sanguigno, dànno ai devoti l'aspetto di demonii. Ecco che volano sul fuoco mandoli- ni, flauti, tamburini, tiorbe. Due alzano una spinetta, e giù sulle brace. Quante chitarre! Una, fra le altre, di avorio, di ebano, d'oro, di perle! Che bellezza!..". Mi sentii serrare il braccio più forte. La vecchia s'era interrotta, tremava in tutte le membra, e sulle guance grinzose e terrose sgoc- ciolava qualche lagrima. Si percuoteva il petto col pomo del ba- stoncino. Durò un pezzo a rimettersi, e poi alzò sopra di me gli occhi così stravolti, che ne ebbi paura. Certo, era matta. Continuò, facendo da sé sola dieci passi indietro e picchiando tre volte col bastoncino in terra: "Qui stava il Santo, immobile, maestoso. Guardava in alto. Qual- che volta faceva un gesto con la mano, e allora quelli che gli erano vicini gridavano: Silenzio. E tutti tacevano, e si sentiva, accompa- gnata dal romore della legna ardente, la voce di lui, che gridava: Distruggete, fratelli, disperdete gli strumenti del vizio. Quegl'in- fami oggetti sono del diavolo. Regalateli a me, ch'io li dono a Dio. Non più balli, non più suoni, non più gioielli. Via gli eccitamenti alla corruzione, le tentazioni al peccato. Vivete, pensando sola- mente alla morte ed al cielo E di quando in quando si sentiva la stessa voce, che dominava il turbinoso frastuono del popolo, ripe- tere: Distruggete, fratelli, disperdete gli strumenti del vizio. Mi sembrò che i pochi capelli bianchi della vecchia le si rizzasse- ro sul cranio. Dopo una pausa ripigliò: "Io era giovane allora, bella, sana, ricca, empia. Mi scaldavo le mani alla catasta e ridevo". Puoi pensare, nipote mio, se queste parole della strega avevano solleticato la mia voglia di sapere ogni cosa, e se io la tempestassi d'interrogazioni. Ma ella non rispondeva più niente. Pareva che fantasticasse a qualcosa di là dal mondo. Finalmente, infastidita dalla mia insistenza, mi chiese con ira: "Chi è lei che m'interroga? Che cosa importa a lei di queste storie di mezzo secolo addietro? Non può lasciarmi quieta nelle mie memorie e ne' miei rimorsi?". Cercai di placarla, e per iscusare la importunità le dissi il mio ca- sato e ch'io ero pronipote del Beato Antonio. "Nipote!" gridò, spalancando gli occhi cisposi. "Figlio del figlio d'un suo fratello". "Figlio del figlio d'un suo fratello" mormorava la vecchia fra le gengive, come se studiasse questo grado di parentela. Mi guardò nel volto con attenzione minutissima, e invasa da una crescente contentezza: "È lui" esclamò "lui stesso. Ecco il naso aquilino, il fronte alto, le labbra sottili, le folte sopracciglia, gli occhi neri. È lui, lui, pro- prio lui!". Nel sottopormi a questo esame la vecchia decrepita s'accostava al mio viso, vicino vicino, giacché il crepuscolo cominciava a im- brunire. Sentivo l'acre respiro di quel cadavere ischeletrito. "Lo stesso sguardo" continuava "e la stessa voce! È lui, proprio lui". E intanto si faceva il segno della croce, e mi baciava il lembo della cacciatora. "Avrei dato" ripigliò "tutta la poca vita che mi resta per trovare un discendente del Santo. Ora posso morire in pace. Restituirò al nipote ciò che ho rubato all'avo. Venga con me fino al mio casola- re, là sulla montagna. Non c'è tempo da perdere. Potrei morire da un momento all'altro" e s'incamminò. Già cominciava a far buio. Il cielo, che s'era tornato a coprire di nubi, diventava nero. Scendemmo dietro la chiesa un centinaio di passi; poi, entrati in una viuzza, si principiò a salire. La vecchia ansava. La strada era formata di sassi puntuti e sconnessi, con pozzanghere ad ogni tratto e qualche torrentello. Incespicavo negli sterpi. Dei tronchi d'albero disseccati sbarravano il sentiero. Udivo de' fruscii ne' cespugli: vidi la coda di un lungo serpe nero guizza- re in una buca. La vecchia andava a piccoli sbalzi, picchiando sempre con il suo bastoncino, e voltandosi indietro a guardarmi. Ad una svolta si fermò e si mise a sedere in terra. Sembrava una pallottola. "Ero dunque giovane" disse "e bella. Avevo sposato Angelo il Moro, il sicario. Egli viaggiava per le sue faccende, e quando tor- nava, dopo tre o quattro mesi, mi portava tanto oro, ch'io duravo fatica a spenderlo tutto in vesti, in balli, in orgie. Angelo mi rega- lava i gioielli rapiti alle dame. Una volta mi portò una chitarra, una maraviglia, rubata a una duchessa di Milano. Io, che mi divertivo a suonare quello strumento, ne fui beata; ma l'amante mio, che ama- vo ancora più della chitarra, me la chiese, e gliela diedi. L'infame mi tradì poco dopo". Da quel fagotto schiacciato al suolo continuava a uscire una voce rauca: "Ero alta di corpo, snella; avevo gli occhi bruni ed i capelli bion- di. Ballavo dal tramonto all'alba, nuotavo nel lago d'Idro, facevo all'amore. Una sera, sentendo che il Beato Antonio, di cui parlava- no le valli e i monti, ma che io non avevo ancora veduto, ordinava di bruciare gli strumenti da musica e gli ornamenti delle donne, volli goder lo spettacolo. Alcuni de' miei corteggiatori s'erano convertiti alla fede del Santo, altri non si attentarono ad accompa- gnarmi, uno solo venne con me travestito per non farsi conoscere. Quella sera sentivo dentro un diavolo: ero ubbriaca di peccato. A un tratto vidi il mio amante traditore accanto a me, il quale stava per gettare nel fuoco la mia chitarra. Sentii ribollirmi il sangue. Nel baccano e nella confusione, appena la chitarra fu sul rogo, io, al rischio di bruciarmi le vesti, mi scagliai sulle fiamme e la trassi fuori intatta. Qualche giorno appresso Angelo fu appiccato in Bre- scia. Mi ammalai: restai povera e sola". La megera si alzò, e continuò il cammino. Era notte scura; non vedevo dove mettessi i piedi; sdrucciolavo; tre o quattro volte fui lì lì per cadere. Il nome del Moro mi rammentava i raccapricci d'infanzia, quando il mio vecchio servo Giovanni raccontava le prodezze del famoso assassino, il quale, per esperimentare la cu- riosità d'una sua fidanzata; le aveva lasciato in deposito un paniere coperto di foglie fresche, proibendole di guardarvi dentro, e dopo un'ora torna e trova la ragazza in deliquio, perché ella aveva tro- vato nel paniere una testa d'uomo tagliata. La vecchia continuava interrottamente, fermandosi ad ogni venti passi: "Mi nacque a poco a poco nel cuore una cosa nuova, il rimorso. Entrai qualche volta in chiesa; ascoltai qualche messa. Passato un anno, tornò a Bagolino il Beato Antonio. M'acconciai per il primo sermone accanto al pulpito, e vidi il Santo pallido, smunto, salire faticosamente i gradini. Annunziò con voce fioca l'argomento della predica: Il Demonio muto La sua parola era lenta, quasi stentata, ma tanto semplice, tanto chiara, che nasceva negli ascoltatori una certa maraviglia di non avere pensato prima da sé a così naturali discorsi. "Nell'animo nostro (egli diceva) noi nascondiamo quasi sempre, spesso senza volerlo, qualche volta senza saperlo, la memoria o il desiderio di un peccato. Come non lo confessiamo al prete, così non lo confessiamo a noi stessi. E pure quel punto, quella piccola ulcera venefica un po' alla volta s'allarga, si estende e incancreni- sce via via l'anima intera. Ci credevamo giusti, ci troviamo ini- qui'". E il Santo veniva agli esempli: la moglie, che dal grato ricordo di una stretta di mano scivola alla infedeltà; il negoziante, che dalla prima menzogna sul prezzo di una merce scende al fallimento bu- giardo; il servo, che ruba prima un soldo sulla spesa, e poi, veden- do come la padrona non se n'accorge, ne ruba due, dieci, venti, e finisce col rubare nella borsa e nello scrigno; il giovinotto, che dal primo stravizio precipita all'ubbriachezza: e così per ognuno quasi degli ascoltatori c'era una parola che lo toccava dentro. "Nella più remota e angusta cameretta del cuore alloggia il De- monio muto. Egli se ne sta lì accovacciato, arrotolato, silenzioso; ma poi, quando gli pare che l'uomo sia più distratto o più fiacco, stende le membra, s'adagia, s'impadronisce di una stanza, dell'al- tra, e riesce ad occupare tutta quanta la casa della nostra coscien- za. La nostra coscienza diventa allora un inferno. Tutto sta dunque nel guardarci dentro e nel trovare il nostro mortale nemico, quan- d'egli è ancora quasi impercettibile: tutto sta nel cacciare via su- bito il piccolo Demonio muto". Ma il Santo cangiava voce. Da dolce e insinuante ch'era il princi- pio, diventava aspra, violenta, terribile. Parlava sul Demonio muto delle coscienze già infami: delle donne empie, degli uomini per- versi, che occultano un peccato obbrobrioso. Terminò tuonando, sicché la chiesa rimbombava: "Furti, assassinii, inganni, sacrilegii, lordure d'ogni specie, venite fuori dal petto di voi che m'ascoltate, entrate nelle mie orecchie; e salga il vostro rimorso e il vostro pentimento a Dio. Dio è misericordioso!". Il popolo si gettava per terra e, piangendo, gridava: "Pietà, pie- tà!". La vecchia, già stanca, sedeva nel mezzo della strada, e ormai l'oscurità era così fitta, ch'io appena distinguevo il corpiciattolo bruno. Sembrava che la voce uscisse di sotto terra. Cominciai a sentirmi de' brividi nelle membra, poiché tirava un vento fresco, il quale faceva stormire le foglie e produceva dei fischi e come degli ululati lamentevoli e strani. Neanche un lume lontano; neanche una stella. Il suono fesso delle parole della vecchia ricominciava: "Uscii dalla chiesa, convertita e spaventata. Tornai a casa corren- do. Mi prese una febbre, che per dieci giorni tenne il mio capo in orridi vaneggiamenti. Non ero guarita, quando una mattina scappai dal sito dove abitavo, distante un'ora, e, portando con me la chitar- ra, che avevo rubata al rogo del Santo, andai a Bagolino per con- fessarmi. Il Beato Antonio era già andato a Gardone, assai malato anch'esso, quasi morente. Presi una carrettella, e, sempre col mio strumento maledetto, partii. Il giorno appresso ero in Val Trompia, a Gardone. Corsi tosto alla chiesa, e la vidi tutta parata di nero, tutta a ceri ardenti. L'infinito popolo singhiozzava e pregava; i sa- cerdoti cantavano a morto. Nel mezzo, sopra un immenso catafal- co, seduto in un trono maestoso, vestito degli abiti sacri, col calice in mano, stava il Santo, più livido che mai. Era immobile. Aveva gli occhi aperti e fissi. Pareva che guardasse. Il cadavere, certo, mi malediva". La vecchia riprese a camminare assai lenta. Io le andavo dietro senza vedere più nulla. "Siamo lontani?" le domandai. Non rispose. Si continuò a salire la montagna. La vecchia era di- ventata taciturna, ma sentivo sempre il picchio del suo bastoncino sui sassi. Finalmente si giunse dinanzi ad un casolare. La vecchia spinse l'uscio ed entrò. Cercò qualcosa, e poi, battendo con l'accia- rino, fece uscire dalla pietra qualche scintilla; accese l'esca e un lumino, il quale rischiarava assai male la miserabile stanza. Un po' di strame in un angolo, una panca, una ciotola; il tetto nascosto dai ragnateli; il pavimento di mota lubrica; i muri di sassi tutti scon- nessi e cadenti. La strega, gettandosi per terra, levò le foglie muffite del suo gia- ciglio e cominciò a raschiare con le unghie il terreno. Dopo un quarto d'ora mi fece segno di accostarmele, e vidi il coperchio di una cassa; aiutai la vecchia a levarlo, ed apparve la famosa chitar- ra con le sue corde spezzate. Alla luce del lumino fumoso le perle sembravano scintillette scialbe e l'argento del piccolo Apollo bril- lava appena. La vecchia mi porse lo strumento con un sorriso che le contorceva la bocca, e disse tra sé: "Morirò più quieta". Salutai la povera donna, ed uscii dal casolare, dove il tanfo co- minciava a nausearmi. Solo, nelle tenebre più nere, con la chitarra sotto il braccio e senza rammentarmi il cammino, puoi pensare, nipote mio, se mi sentissi lieto. Mi guidarono le punte dei grossi sassi della via, martoriandomi i piedi. Dio volendo, a mezzanotte bussai alla porta dell'Albergo, dove tutti dormivano; e, andato a letto, sognai tutta notte lemuri, fantasmi, diavoli, megere e streghe. Sei mesi dopo tornai a Bagolino per le mie caccie, e volli andare a salutar la mia vecchia. Trovai con grande stento il casolare. Era deserto. Domandai notizie di essa ai contadini della montagna ed allo scaccino della chiesa. Era sparita da un pezzo, proprio come una strega. Nessuno ne ha saputo più nulla.

LE DUE MARIANNE - I CONIUGI SPAZZOLETTI

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De Marchi, Emilio 2 occorrenze

Allora ricominciano gli affari, le cambiali, le adunanze, i telegrammi, i bilanci, non c'è più tempo di dir due parole in pace, si mangia in collera, si grida per tutte le sciocchezze, o perché la zuppa è troppo salata, o perché non è salata abbastanza, o perché fa male una scarpa, o perché s'è staccato un bottone, o perché piove, o perché fa caldo, o perché il governo mette la ricchezza mobile e tutti i mali si fanno passare per la pelle della moglie come se la moglie fosse il cuscinetto degli spilli. Per rifarsi, la sera si va alla birreria, a giocare al bigliardo, a far visita alla signora Tortorelli e la moglie a casa a sbadigliare. LUIGI: Hai finito, gioia? Tu credi che tuo marito sia un ragazzo a cui si possano dare quattro ceffoni sulla via... SIGNORA: Io credo... che... LUIGI: Guarda che son stato a Mentana ve'... Non ho avuto paura delle baionette francesi io, e non voglio aver paura delle ciarle d'una bécera insopportabile. SIGNORA: Il tuo pappagallo è più gentile. LUIGI: Se credi di farmi ballare come una trottola t'inganni... Ho diritto d'essere rispettato e come uomo e come negoziante e come marito. Son Romagnolo che non ha paura di trecento operai io; né voglio subire la prepotenza d'una... pettegola... SIGNORA: Ah... pettegola...? in Romagna dite pettegola? IL CAPO: La va de sora via... SIGNORA: Mantiene questa parola, sor Luigi Spazzoletti? LUIGI: La mantengo, la ripeto, la stampo, sora Marianna. SIGNORA: Basta. Dopo appena due anni di matrimonio è il primo diamante che il signor cav. Spazzoletti regala a sua moglie. La ringrazio. Non ho più nulla a dirle. Mi ritiro qui in sala; quando arriva il treno si compiaccia d'avvertirmene. ( entra a destra ). LUIGI passeggia nervoso, irritato : Potessi tu tacere cento anni! queste maledette donne sembran fatte a posta per guastare la pace d'un galantuomo. Oh ma la faremo finita...! non voglio morir tisico io per la lingua della sora Marianna Spazzoletti. Divisione, divisione assoluta di casa e di pane. Un uomo ha la pazienza limitata per un po', due po', tre po',... ma po... poi... ( non trova i sigari ) Non ho nemmeno un cane di sigaro, corpo d'una saetta, e mi tocca fumar la mia rabbia. Non c'è un tabaccaio qui vicino, sor capo? CAPO: Qua in fondo alla contrada c'è un botteghin. LUIGI: Ho tempo di scappare a prendere un paio di sigari? CAPO: El gh'à tuto el tempo. El treno el xè in ritardo. LUIGI: Se non respiro un po' d'aria scoppio di rabbia. CAPO: De sto buco se gode de' bei spettacoli come a un teatrin. Gh'ò pagura che questi due italiani stanotte faran de' brutti sogni... Gh'è xè chi una carrozza.

BALLANZINI: Poiché lei mi pare un uomo abbastanza sicuro del fatto suo, se el voeur accompagnare coll'ombrella el presentaroo in casa Riboldi dove la sora Paolina la podarà damm de dormì a tutti e due. L'è ona brava sciora e anche el sor Riboldi l'è on bon ometto. Ghe vendiamo le gallette tutti gli anni. Ghe rincress no a portaa el miscino? Paese che vai, dice el proverbio toscano, donna che trovi... Son minga giovina come la sua sposina, ma Narciso el dice che valgo ancora i miei cinque soldi, quand son on poco rangiata su.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 5 occorrenze

. - Sì, sì, abbastanza! Ma ci vorrebbe Montecarlo, o qualche altra cosa: se no, si resta a vegetare, e la dote di Agnesina non si mette insieme. Poi, sono sempre stretto… tanti impegni… giusto, ieri avrei dovuto restituirvi quei cinquecento franchi, che mi avete prestato sulla parola… sapete che sono stato sempre puntuale… ma non ho potuto. - Eh, per un giorno, non importa, - disse freddamente don Gennaro, la cui fisonomia si era fatta gelida, da che Cesare parlava del suo debito, e che guardava la nuvoletta di fumo, in aria, quasi per non fissare in faccia il suo compare. - Gli è che… neppure oggi posso pagarvi, - disse rapidamente Cesare Fragalà, quasi volesse buttar via la sua pena, in un colpo. - Ho dovuto sdoganare un forte carico di zucchero…e allora.. Don Gennaro, indifferente a tutte quelle parole, taceva. - Compare mio, - disse Cesare Fragalà, passando attraverso a un minuto acutissimo di spasimo, - voi dovreste completare il favore. Domani ho una piccola scadenza di cinquecento lire e non sono pronto… dovreste prestarmi voi, queste cinquecento lire e io ve ne dò mille, sabato venturo… è un gran favore.., e potete contare sulla mia puntualità… - Non posso, - disse gelidamente don Gennaro. - Perché? il denaro lo avete, - esclamò ingenuamente Cesare. - Certamente: ma non posso. - Allora, non credete alla mia solvibilità? - Tutt'altro: ma è per obbedire ad una regola. Ad amici stretti, a parenti, a persone come voi, io presto sempre cinquecento lire; spesso, quasi sempre, me le restituiscono; volentieri le presto nuovamente; ma una volta che non mi sono state restituite, non ne presto più, mai più. Così non posso perdere che cinquecento lire… - Ma io restituisco le mille… replicò l'altro, - Chi non ha potuto restituire cinquecento, è assai imbarazzato nel restituire mille; e chi ha mancato una volta alla sua parola, può mancar sempre…- sentenziò don Gennaro. - Eppure non credevo che rifiutereste a un compare tal favore, - mormorò Cesarino. - Mi mettete in un crudele imbarazzo… - Credo che faccio bene a non darvi questo denaro, - disse Parascandolo, aprendo un portafiammiferi di oro, simile a una scatoletta di fiammiferi di cartone, di Dellachà, con una figurina miniata, sopra. - Credo che vi mettiate sopra una cattiva strada; voi frequentate della gente assai curiosa.. - Avrò fatto qualche sciocchezza, lo confesso, - disse con la sua lealtà di gran fanciullone Cesare - ma è stato con buone intenzioni. D'altronde, - soggiunse quasi parlando a sé stesso, - quel Pasqualino De Feo è sempre in bisogno di qualche centinaio di lire. È un pover uomo, senz'arte ne parte. Gli spiriti lo tormentano: lo bastonano, alla notte. Ha bisogno di far dire delle messe, delle preghiere, per placarli: se no, lo traggono alla morte. Se vi ho buttato qualche centinaio di lire, ho avuto le mie ragioni. Compare, questa cosa degli spiriti, è una cosa forte! Voi avete talento e avete viaggiato, ma se sapeste tutto, vedreste ch'è una cosa forte.. - Sarà, - annuì, col capo, don Gennaro, - ma vi trascina sopra una cattiva strada. - No, no, - esclamò Cesarino, - oramai si deve venire a una decisione. O dentro, o fuori. Forse l'avremo questa settimana, cioè domani: o ci vorrà qualche altro sacrificio, la settimana ventura, e si otterrà lo scopo. Compare mio, soggiunse, ritornando al suo cruccio, - proprio, mi dovreste favorire. - Non posso, - ribattè don Gennaro. - Infine, sono un negoziante onesto e chiunque vorrebbe trattare di affari con me! - gridò don Cesarino, con un principio di sdegno. - Se è un affare, è un'altra cosa, - disse subito don Gennaro, cedendo. - Ebbene, trattiamolo come un affare, - disse, immediatamente calmato, Cesare. Allora, quietamente, don Gennaro aprì il cassetto e ne trasse fuori una cambiale in bianco, del valore di mille lire. Pigliando una bella penna di legno chiaro, delicatamente scolpita, con la pennina di oro, vi scrisse la somma in cifra e in tutte lettere, e domandò senza levare la testa: - Scadenza a un mese? - A un mese, - fece Cesare. Presentò la cambiale a Cesare. Era intestata a Domenico Mazzocchi. - Domenico Mazzocchi? - chiese Cesare, stupefatto. - È il capitalista per cui lavoro, - rispose glacialmente don Gennaro. E vedendo che dopo aver firmato, Cesare Fragalà stava per aggiungere il domicilio, lo fermò, avvertendolo: - Il domicilio della bottega. - E perché? - Cambiale di affari, commerciale: l'azione legale si esercita meglio dove risiede la ditta. Cesare Fragalà si sentì venir freddo nelle ossa. - Non ve ne sarà bisogno, - sentì la necessità di soggiungere, per rassicurare anche sé stesso. E restituì la cambiale a don Gennaro Parascandolo, che la rilesse, minutamente, due volte; poi aprì un altro cassetto e cavandone della carta monetata, contò anche due volte, trecentottanta lire che consegnò a Cesare, dicendo: - Trecentottanta. Ricontate il vostro danaro. - Trecentottanta? - interrogò l'altro, di nuovo stupefatto. - Il dodici per cento d'interesse, - spiegò don Gennaro. - All'anno? - chiese stupidamente Cesare Fragalà. - Al mese. Un silenzio. E mentre macchinalmente Cesare Fragalà contava il denaro, non osava dire a don Gennaro Parascandolo che l'interesse era stato calcolato anche sulle prime cinquecento lire, che gliele aveva prestate lui, don Gennaro, non il capitalista. Non disse nulla, però: anzi, nella confusione della sua candida anima, aggiunse, alzandosi per andarsene: - Grazie! - Che grazie! È un affare. Soltanto, pensate alla scadenza. Mazzocchi non scherza, è un brutto tipo. - Non dubitate, - disse, con un pallido sorriso, Cesare Fragalà. E dopo essersi licenziato, se ne andò, col volto smorto e con la bocca amara di chi ha masticato l'aloe. Subito, don Gennaro si rimise ai suoi conti. Ma fu solamente per pochi momenti, poiché Salvatore venne a dire che vi era di là l'avvocato Ambrogio Marzano, con un altro signore, che volevano entrare. Don Gennaro, certo, li aspettava, poiché aggrottò lievemente le sopracciglia, e una espressione gelida gli chiuse la faccia. L'avvocato Marzano, entrando, conservava sempre il suo sorrisetto dolce, di buon vecchio vivace ed appassionato: quello che parea turbato era il suo compagno, un signore sulla quarantina, grasso ma scialbo, con un par d'occhi chiari chiari che si volgevano attorno, vaganti, dolenti. I saluti furono brevi brevi. Erano quindici giorni che l'avvocato Ambrogio Marzano e il barone Lamarra tornavano a via San Giacomo, da don Gennaro, per un affare di denaro, discutendo, proponendo, accettando, rifiutando, ricominciando sempre la discussione. Sulle prime il barone Lamarra, figliuolo di uno scalpellino, che era diventato appaltatore a furia di scalpellare al sole, di risparmiare soldo sopra soldo e che aveva lasciato una ricchezza ai figliuolo, il barone Lamarra, pure cercando in prestito tremila lire, aveva conservato la sua aria vanitosa di pezzente risalito: ma come i giorni passavano e le difficoltà si avviluppavano, egli non giocherellava più che macchinalmente coi ninnoli d'oro, attaccati alla sua catena di orologio; e gli occhi azzurri, spiranti vanità, acquistavano quella espressione desolata, che don Gennaro Parascandolo studiava col suo occhio sagace e per cui, forse, la sua faccia aveva acquistato quell'aria gelida. Solo don Ambrogio Marzano sorrideva sempre, ostinato nella sua bonarietà. - Qui, il barone avrebbe una certa premura di finire l'affare di cui trattiamo da giorni, - disse il vecchietto, cercando incoraggiare il suo cliente. - Finiamola pure, - rispose don Gennaro, senza levare gli occhi. - Non avete studiata una migliore combinazione? mormorò il barone Lamarra. - No, - disse don Gennaro. I due si guardarono, esitanti: il barone fece un cenno espressivo all'avvocato, di andare avanti. - Sicché, sarebbe? - chiese Marzano. - Ecco. Il mio capitalista, Ascanio Sogliano, non ha capitali, ma può disporre, adesso, di una quarantina di dozzine di sedie di Chiavari, a sei lire l'una, a settantadue lire la dozzina, in tutto duemilasettecento e più lire. Darebbe questa mercanzia, che è di facile smercio, sopra una cambiale a tre mesi, dove fossero firmati in solido l barone e la baronessa Lamarra, col solito interesse, già anticipato, del tre per cento; tre per tre, nove, cioè novanta lire per un mese; tre per novanta, duecentosettanta lire, per tre mesi. - E il compratore per queste sedie di Chiavari, avete detto, vi sarebbe? - ribattè Marzano, conservando il suo tono ingenuo. - Già, - disse don Gennaro, sempre glaciale. - Compratore, a quanto? - dimandò il barone Lamarra, con una certa ansietà, sapendo bene la risposta, ma quasi sperandone una diversa. - Ve l'ho detto: per duemila lire. L'avvocato crollò il capo: il barone sbuffò. - È troppa perdita, è troppa perdita! - gridò. - E poi, anche la firma di mia moglie! - Barone, scusate, - osservò don Gennaro, - mi pare che sbagliate. Io vi fo un favore, trovandovi il commerciante e il compratore. Io non ci tengo a questo affare. E vi avverto che ho avuto, sulle cambiali, le firme di signore assai nobili, assai grandi. Questo per chiarire la posizione. Voi venite qua a gridare, come se foste in mano ai briganti e vi tagliassero le orecchie. Qui, orecchie non se ne tagliano. Se l'affare non vi conviene, lasciatelo andare. A me, lo ripeto, è indifferente. E in segno di massima indifferenza, accese una sigaretta Tocos, e fumando si mise a guardare il soffitto. Il barone Lamarra, la cui grassezza pareva ancora più scialba e più malaticcia, in quel conflitto tormentoso, era convulso. Un silenzio si fece. Dolcemente, l'avvocato Marzano crollava il capo, come se rimpiangesse le debolezze umane: e guardava il pomo d'argento della sua canna d'India, senza più parlare. Il barone si pose una mano nella criniera nera, che si brizzolava: poi si decise e cavando un grosso portafoglio nero, ne estrasse una carta, deponendola sul tavolino, dirimpetto a don Gennaro. - È un affare fatto, - disse, con voce strozzata. - Ecco la cambiale. Don Gennaro non ebbe che un batter di palpebre di adesione. Aprì la cambiale e la considerò lungamente, nelle cifre, nelle date, nelle firme, leggendo a voce bassa: - Maddalena Lamarra… Annibale Lamarra… sta bene, - finì ad alta voce, dando un'occhiata scrutatrice al barone Lamarra, il cui volto si era fatto livido dalla collera repressa, o per qualche altro sentimento. - Volete vedere la merce? - soggiunse, poi, correttamente. - Che me ne importa? - disse il barone sordamente, dando in una energica spallata. - Datemi i denari, che mi servono. Don Gennaro annuì col capo. Al solito, aprì il cassetto di mezzo, conservò la cambiale e richiuse: aprì il cassetto di fianco, cavò i biglietti di banca e metodicamente li contò. - Ricontatevi il vostro denaro, - disse, consegnando il pacchetto al barone, che aveva seguito con occhio, subitamente lampeggiante, l'apparizione dei biglietti di banca. Ma costui non contò: mise il pacchetto dei biglietti nel portafoglio e, senza dire una parola, si alzò subito, per andarsene. Vagamente, l'avvocato Marzano balbettò qualche parola di ringraziamento e di saluto: ma il barone Lamarra era già per le scale; il vecchietto gli corse dietro, per non lasciarselo sfuggire. Quando fu solo, nuovamente don Gennaro Parascandolo riaprì il cassetto della sua scrivania e cavandone la cambiale Lamarra, la considerò a lungo, nelle firme, pronunziandone le sillabe con un segno d'ironia: - Maddalena Lamarra… in solido… Annibale Lamarra, per sé e per l'autorizzazione coniugale. E finì con un sorriso, respingendo il cassetto. Ninetto Costa era entrato, senza farsi annunziare: e l'agente di cambio, bruno, vivace, elegantissimo, in un vestito di lanetta inglese a quadretti, col fiore all'occhiello, con la mazzetta d'ebano nelle mani e il grosso anello di acciaio al dito mignolo, per suggello, pareva l'immagine del giovinotto felice. Si sdraiò in una poltroncina, accavallò le gambe e accese una sigaretta, cantarellando. - Buona liquidazione, eh, lunedì? - chiese don Gennaro. - Cattiva, cattiva, - canticchiò Ninetto Costa. - Non mi sembri molto preoccupato: sarà dunque cattiva pei tuoi clienti, non per te, - disse Parascandolo. - È cattiva per me: ci vado da trentamila a quarantamila, - disse l'agente di cambio, battendosi un calzone con la mazzettina, con un atto che era ritenuto assai elegante. - Beh! e come paghi? -… pagherò, - concluse l'altro, con un gesto vago. - Hai avuto varie cattive liquidazioni, mi pare? - Così, così. È Lillina che mi porta via tutto, - mormorò, con un atto non perfettamente sincero di rammarico. - Lillina? Essa dice di no, - osservò don Gennaro. - Lo ha detto a te? E la più bugiarda fra le donne! Oh che bugiarda, non puoi immaginare, Gennarino! - ed esclamava ancora, con una collera un po'fittizia. - Li hai, dunque, questi gioielli? - soggiunse con un'ansietà, che non arrivava a dissimulare sotto la noncuranza. - Sì. Servono per Lillina? - Sì… cioè, non ne son certo, ella è troppo bugiarda… eppoi, ho un'altra persona in vista. - Sei un diavolo, Ninetto, - disse, ridendo, don Gennaro. Dal solito cassetto di destra, donde aveva preso il denaro le due altre volte, don Gennaro cavò un grande astuccio di pelle e lo schiuse. Sul velluto bianco scintillarono lievemente i gioielli: era un paio di solitarii per orecchini, un braccialetto a filo di brillanti, un fiore per la testa. Ninetto Costa li guardò, battendosi le labbra col pomello della mazzettina: si allontanò un minuto, per giudicarli meglio. Faceva tutto questo con una grande disinvoltura: ma una stiratura di muscoli, ogni tanto, dava una cattiva espressione al suo sorriso. - Son belli, eh? - domandò a don Gennaro. - Mi pare, - rispose l'altro, modestamente. - Tu li daresti? Tu sei uomo di gusto. - Li darei.., secondo la donna. A Lillina, no… - Non so se glieli do, non lo so, - proruppe, nuovamente, frettolosamente, Ninetto Costa. - E tu credi... soggiunse, timidamente, - tu credi che valgano ventimila lire? - Non lo credo io, lo crede don Domenico Mazzocchi che te li ha venduti: io non me ne intendo. Del resto, puoi farli apprezzare. Bada che sull'apprezzo, ti chiederanno il due per cento. E disse tutto ciò con una voce così sdegnosamente fredda, che Ninetto Costa fece due o tre volte per interromperlo, senza riescirvi. - Ma sei matto? Che apprezzo? Con te, con questo tuo amico Mazzocchi, dovrei fare tal cosa? Prendere tutto questo fastidio? Neppur per sogno. Sarebbe offendere un amico! - Ti sei segnate le scadenze? - Sì, sì, sì, a tre, a quattro, a cinque e a sei mesi, cinquemila lire per volta, col deposito di rendita di mia madre, e lettera e controlettera. Tutto va bene! Vuoi niente, dalla Borsa? Compro per te? - Non faccio affari, io, mi sono ritirato,- disse salutando e sorridendo don Gennaro Parascandolo, mentre Ninetto Costa se ne andava via, portandosi l'astuccio dei gioielli. Quando costui fu uscito, l'altro, rimasto solo, guardò l'orologio. Si faceva tardi. La strada di San Giacomo è naturalmente scura, e parea già, alle quattro, che il giorno cadesse. Stava pensando, don Gennaro, se avesse dato appuntamento ad altri, o se potea andarsene, avendo finito la sua giornata, uno di quei venerdì laboriosi, per tutti quelli che dànno denari: banche, usurai, agenzie di pegni. No, gli parea di non aver dato appuntamento a nessun altro e poteva andarsene, era certo che il suo cocchiere era arrivato con la carrozza, per portarlo a via Caracciolo. Ma ancora una volta il fedele Salvatore entrò a dire, che tre signori cercavano di entrare. - Tre? - chiese don Gennaro, pensando. - Tre… - Fa entrare, - disse l'altro, ricordandosi. Il dottor Trifari, grasso, grosso, rosso nella barba e nel volto, impacciato e sospettoso, entrò, cavandosi la tuba che portava sempre, da provinciale stabilito a Napoli; era con lui il professor Colaneri, dallo sguardo falso dietro gli occhiali d'oro, che salutò, cavandosi il cappello, con un atto ecclesiastico; ed era con loro, scarno, con una grossa dentiera sporgente, una cravatta scozzese e un'aria palese di cretinismo, un giovanotto di ventidue anni, uno studente, compaesano del dottor Trifari e scolaro del professor Colaneri. E i due, mentre si tenevano d'occhio, scambievolmente, sogguardavano ora don Gennaro, ora l'imbarazzato provinciale, che pareva non sapesse che farsi della sua dentiera, infelicissimo di non poter chiudere la bocca. La diffidenza di Trifari aveva qualche cosa di repressamente feroce, come una ferocia repressa appariva in tutta la sua persona morale e materiale: l'aspetto di Colaneri era obliquo, fine, freddo e ipocrita: in mezzo a loro, il povero studente pareva una mosca, una piccola mosca stupida, presa fra due ragni, uno crudele e l'altro perfido. Don Gennaro li guardava, con un sorriso, intuendo tutto questo. Niente che a guardare la fissità malvagia degli occhi del dottor Trifari sulla chiusa scrivania di don Gennaro, e la fissità umile ma infida dello stesso sguardo del professor Colaneri, e l'ebetismo dello studente che parea non vedesse, non udisse, o vedesse e udisse senza capire, l'esitazione di Salvatore si intendeva. Ma don Gennaro Parascandolo, che amava gli oggetti di arte, aveva preso dalla scrivania un lungo fodero di avorio scolpito, giapponese, e ne aveva cavato a metà, quasi distrattamente, un coltello dalla lama lucente e tagliente, un tagliacarte, sebbene sulla scrivania non vi fosse neppure l'ombra di un libro: poi, con un colpo secco aveva ringuainato il coltello e aveva posato il fodero sulla scrivania, ma le dita vi giuocherellavano sopra. E don Gennaro sorrideva, fumando la sua eterna sigaretta: senza però averne offerte ai suoi tre visitatori. - Dunque, cavalier Parascandolo? - interrogò il dottor Trifari, con una falsa cortesia, che mal copriva la sua rozzezza. - Dunque, di che? - rispose costui. - Ma dei denari, della cambiale? - sbuffò a dire il pletorico dottore. - Mah! è un assai mediocre affare… - osservò don Gennaro, con aria disinvolta. - Che dite? Con tre firme, la mia, quella del professor Colaneri e quella del signor Rocco Galasso, qui, dite un mediocre affare? Ma chi volete? Rothschild? - Certamente, preferirei Rothschild a tutte le firme, - osservò don Gennaro, conservando il suo sorrisetto canzonatorio. - Gli affari sono gli affari, - soggiunse, poi, con quel suo tono profondo. - E noi siamo tre galantuomini, mi pare, - squittì il professor Colaneri. - Voi siete la corona della mia testa, - disse con una cortesia esagerata don Gennaro: - ma le firme debbono essere solvibili, ecco tutto. Mi sono informato, signori miei, per conto del mio sovventore Ascanio Sogliano. Capirete, io debbo metterlo al coperto da qualunque perdita, poiché amministro il suo denaro. Ora, il nostro dottor Trifari, qua, è un eccellente giovane, diventerà un luminare della scienza, ma la sua firma non è solvibile per mille lire.., così il professore… - Queste sono infamie! - esclamò il dottor Trifari. - Non sono venuto qui per essere insultato, perdio! - Sono bricconate… - stridette l'ipocrita Colaneri. - Dove vi siete informato? - domandò, urlando, Trifari. - Nei paesi vostri, - rispose freddamente don Gennaro. - Naturale.., al paese… odii di politica.., lotte elettorali… - gridarono in coro Colaneri e Trifari soffocando di collera. - Sarà, - disse Parascandolo, - ma io non debbo saperlo, e a Sogliano non gliene importa niente. Dunque resta il mio rispettabile giovanotto, qui, Rocco Galasso: esso è solvibile. Dunque, invece di tremila lire, Sogliano ne dà mille, con le tre vostre firme, tanto per precauzione. - Impossibile! - tuonò Trifari, diventato violetto dallo sdegno. - Impossibile! - stridette Colaneri, livido. - Come volete, - finì di dire Parascandolo, alzandosi per uscire. Ma il più esterrefatto, fra i tre, era il povero Rocco Galasso, lo studente, che volgeva gli occhi inebetiti da Colaneri a Trifari, e inghiottiva con uno sforzo, come se la saliva lo soffocasse. Confusamente, senza salutare, i due uscirono dalla stanza e dal quartino, confabulando fra loro, spingendosi innanzi lo studente come una pecora matta. Placidamente don Gennaro chiamò Salvatore per farsi spazzolare il soprabito: e il servo compì la sua opera in silenzio, cercando i guanti, il cappello, mentre Parascandolo riempiva di sigarette Tocos il suo portasigarette d'argento russo. Così, ad un tratto, senz'essere annunziati, i tre fecero irruzione di nuovo nella stanza, con certe facce, Colaneri, e Trifari, dove la rabbia pareva buttata indietro a forza: e Rocco Galasso, pallido, tutto umiliato, dietro a loro, un vero cane frustato. - Facciamo l'affare, - mormorò Trifari, con un atto come se ingoiasse di traverso. - Mille, - annuì il professor Colaneri. Allora la solita scena si ripetette ancora. L'usuraio cavò una cambiale in bianco, da mille lire, dal cassetto e la porse a Rocco Galasso, che non ardì prenderla, guardando negli occhi, l'un dopo l'altro, Colaneri e Trifari. I due, come se lo mettessero alla tortura, lo fecero sedere a un angolo della scrivania e standogli ai fianchi, buttandoglisi addosso per sorvegliarlo meglio, gli dettavano la formola, parola per parola. Egli si abbassava col naso sulla carta, miope quale era e schiacciato dai due che gli pesavano sulle spalle; e non sapendo, non avendo ancora firmato nessuna cambiale, confuso, spaventato, rimaneva con la penna sospesa, esitante. L'opera fu lunga: stava per sbagliare la data della scadenza, il poveretto, quando Trifari gli fu sopra con un urlo. - A due mesi! Infine, l'opera fu finita. La fronte rialzata dello studente aveva gocce di sudore, in quel giorno ancora fresco di marzo. Don Gennaro, intanto, aveva tratto del denaro dal cassetto e lo aveva contato. - Settecentosessanta, - disse, tendendo il pacchetto a Rocco Galasso. - Contatevi il vostro denaro. Ma costui non osò prenderlo: guardò ancora i suoi tutori. Colaneri stese la mano grossa e fredda e intascò rapidamente i denari, mentre Trifari guardava, ferocemente. - Anticipato l'interesse, eh? - chiese Trifari, con un ghigno. - Anticipato. - Non potevate aggiungerlo nella cambiale? - ribattè Colaneri, mettendosi la mano in tasca, sul denaro. - No, - disse seccamente don Gennaro che si levò di nuovo. I tre uscirono, in silenzio. Colaneri scappava avanti e Trifari lo seguìa precipitosamente, dimenticandosi di Rocco Galasso che adesso non serviva più a nulla e il cui più gran tormento era che don Gennaro Parascandolo gli aveva fatto scrivere il domicilio a Tito di Basilicata: e il pensiero che suo padre avrebbe saputo, un giorno o l'altro, tale cosa, gli faceva venire le lacrime agli occhi. Malgrado poi il desiderio di uscire che aveva don Gennaro, egli dovette trattenersi ancora cinque minuti. Una vecchietta, vestita pulitamente di nero, una cameriera, era giunta, portando un bigliettino di presentazione e di raccomandazione della signora Parascandolo. Sottovoce, guardando intorno, ella aveva parlato a don Gennaro, che l'aveva ascoltata con un paterno sorriso di bonomia; gli aveva anche timidamente mostrato un oggetto chiuso in un astuccio, cavato da un involto di lana nera e poi di carta; don Gennaro non aveva neppure voluto guardarlo, e lo aveva respinto con la mano, ma senza disprezzo. Poi, dopo aver detto due o tre parole alla vecchia cameriera, facendole atto di tacere, poiché essa voleva ricominciare la sua perorazione, andò al cassetto della scrivania, lo schiuse, contò dei denari e li mise in una busta che offrì alla cameriera. Costei voleva ringraziare, ma lui, per tagliar corto, domandò: - E come sta la marchesina Bianca Maria? - Eh così!… - fece, con un sospiro, la vecchia. Dopo due minuti la victoria ortava il tranquillo e soddisfatto don Gennaro Parascandolo, alla passeggiata di via Caracciolo, dove tutti i suoi debitori passati, presenti e futuri, lo salutavano con un sorriso e con una grande scappellata, mentre egli li salutava con un sorriso e con una grande scappellata.

Qualche raro viandante scantonava, da Toledo a via Nardones, una via abbastanza larga posta nel miglior centro della città, e intanto conservante un aspetto equivoco, quasi di strada male abitata e mal sicura: una via senza tetraggine, ma spirante la diffidenza delle chiuse finestre, dei balconi scarsamente illuminati, dei portoncini socchiusi, dove lo sguardo si perde in un buio androne. Qualche grande portone, ogni tanto, spezzava questa impressione di sospetto, col chiarore del suo gas e l'ampiezza del suo cortile: ma qualche bottega, dai poco puliti cristalli velati di una stoffa rossastra, ermeticamente chiusa, illuminata fiocamente, dietro cui si disegnavano delle bizzarre ombre piccolissime o gigantesche, gittava di nuovo un vago turbamento nell'animo di coloro che se ne tornavano alle loro case, piegati sotto il peso delle cure e della lunga fatica. A un certo punto, una donna, appena coperta da uno scialle nero, sul vestito di lanetta gialla e sulla camiciuola bianca, scantonò, da Toledo, salendo lentamente la via Nardones, tenendo le due cocche del fazzoletto che le copriva il capo, strette fra i denti e riparandosi dalla pioggia, sotto un ombrello piccolo piccolo. Ella andava con precauzione, levando i passi in modo da bagnare il meno possibile le sue scarpette di pelle lucida e mostrando le calzette rosse di cotone. Quando passò sotto un lampione dalla luce rossiccia, levò il capo e apparve il volto, oramai stanco e triste, sotto il belletto grossolano, di Maddalena, la infelice sorella di Annarella e di Carmela. Ella arrivò innanzi alla equivoca bottega dalle tendine rossastre, e si fermò davanti ai cristalli, come se tentasse di vedere una persona, un fatto che accadesse là dentro, senza osare di aprire. Ma, salvo il movimento di certe ombre nere incappellate, non si distingueva nulla: ed ella, dopo aver esitato un bel pezzo, si decise a metter la mano sulla maniglia e a schiudere uno sportello della bottega: introdusse la testa dallo spiraglio, timidamente, e chiamò: - Raffaele, Raffaele… - Ora vengo, - rispose la voce del giovanotto camorrista, di dentro, con una lieve intonazione di impazienza. Subito, ella rinchiuse: e sotto la pioggia, pazientemente, si mise ad aspettare. Qualche uomo passava e le gittava una strana occhiata, eccitato da quell'incontro, in quella bizzarra temperatura burrascosa in quell'ora della notte che si avanzava, in quella via deserta. Ma ella chinava gli occhi, quasi si vergognasse: e sogguardava l'estremità di via Nardones, per vedere chi ne spuntasse, temendo continuamente di esser sorpresa. A un tratto trasalì: due popolani si avvicinavano, risalendo la via Nardones, senza discorrere fra loro, prendendosi sulle spalle tutta la pioggia: un vecchio sciancato, trascinante la gobba e la gamba più lunga, il lustrino Michele, senza la sua cassetta dove lustrava le scarpe, e un altro, magro, pallido, con certi occhi ardenti nelle occhiaie incavate, Gaetano, il tagliatore di guanti. Nel riconoscere il marito di sua sorella Annarella, suo cognato, Maddalena fu presa da un fremito di paura; si strinse al muro, come se volesse rientrarvi, abbassò l'ombrello e pregò, mentalmente, perché Gaetano non la riconoscesse, con le labbra che non arrivavano a balbettare le parole della preghiera. Fremeva, fremeva…temendo che la bottega si aprisse in quel momento e che Gaetano riconoscesse colui che usciva di là dentro. Ma Gaetano, il tagliatore di guanti, ricevendo sul capo l'ondata della pioggia, non badava a coloro che si trovavano nella strada, fortunatamente per Maddalena: né la porta della bottega si schiuse, quando egli passava. Anzi i due popolani scomparvero, uno dopo l'altro, in un portoncino lontano una quarantina di passi, dove anche qualche altro uomo, prima di loro, era sparito. Ma sotto il suo rossetto, Maddalena si sentiva le guance gelide dalla paura e riaprì la porta della bottega, pregando, invocando, sottovoce: - Raffaele, Raffaele… - Vengo, vengo, - rispose il giovanotto, seccato, senza nemmeno accorgersi che la povera donna aspettava da tempo, sotto la pioggia, nella notte, nella via spazzata dal vento. Ella sospirò, profondamente, e gli occhi che non avevano più bisogno di bistro, tanto li sottolineava un ombra nera di stanchezza e di dolore, si riempirono di lacrime. La pioggia adesso aveva inzuppato l'ombrello di cotone verdastro e scendeva sul capo di Maddalena, le immollava i neri capelli lucidi e le rigava la faccia e il collo, un'acqua tiepida, come se fosse di lagrime. Ma ella non sentiva neppure quello scorrere della pioggia, fatta insensibile, e non vide le altre tre o quattro persone, che sbucando da Toledo, risalendo verso l'altitudine di via Nardones, scomparvero nel portoncino, dove si erano cacciati Michele il lustrino e Gaetano il tagliatore di guanti. Di dentro la bottega, le ombre si agitarono, mentre un fragore di voci che discutevano, si levava, ed ella tese l'orecchio, ansiosamente, sentendo che Raffaele bestemmiava e minacciava. Ah! non potette resistere al tumulto delle voci irose e schiuse nuovamente la porta, gridando, supplicando: - Raffaele, Raffaele! Ancora altre parole colleriche scoppiarono, dall'una parte e dall'altra, fra coloro che bevevano e giuocavano in quel losco caffettuccio. E Raffaele, messosi in capo il cappello con un pugno, uscì dalla bottega, come respinto da chi vi si trovava: trovandosi avanti quella figura umile di Maddalena, tutta bagnata, col rossetto stinto sulle guance, con la faccia stravolta dalla disperazione, egli bestemmiò come un sacrilego, e le diede uno spintone brutale. - Andiamocene, andiamocene, - disse lei, senza badare a quell'atto e a quelle parole di bestemmia. Il camorrista la mandò a farsi uccidere, furiosamente. Ma pioveva e egli non aveva ombrello, il giacchettino corto lo riparava assai male, e si mise sotto l'ombrello, bestemmiando fra i denti, ancora. - Abbi pazienza, abbi pazienza, - diceva lei, allungando il passo sul selciato, per stare sempre vicino a lui, abbassando l'ombrello dalla sua parte, per non farlo troppo bagnare. - Ma non lo sai, che al bigliardo non ci devi venire? - le disse il giovanotto, con una collera repressa. - Io mi secco di far la figura del ragazzo, che lo vengono a prendere, alla scuola. Mi secco! - Abbi pazienza, non ho potuto resistere, - mormorò lei, bevendo le lacrime che le scendevano sulle guance e che non poteva asciugare. - Io ti lascio, quanto è vero il nome di Gesù, ti lascio! Hai il difetto di tua sorella, tu: stracciata che mi faceva schifo, mi veniva a cercare, dovunque, per farmi burlare dai miei amici. L'ho lasciata per questo, capisci? - Povera sorella mia, - mormorò lei, lamentandosi. - Tu non sei stracciata, tu: ma mi fai scorno lo stesso, capisci? - Capisco. - Se no, ti lascio come ho lasciato Carmela: sono un giovanotto d'onore, hai capito? - Ho capito. - E non ci venir più. - Non ci verrò più. Continuavano ancora questo dialogo, egli furioso della perdita al giuoco dello zecchinetto, della rissa coi compagni e della mancanza di denaro, ella, contrita, sentendo che quei maltrattamenti erano la giusta punizione del tradimento fatto a sua sorella: tanto che, mentre egli mordeva, nell'angolo delle labbra, il suo mozzicone spento e seguitava a malmenarla, rinfacciandole la sua infelice esistenza, vilipendendola con ogni ingiuria, ella andava accanto a lui, pallida, poiché tutto il rossetto si era dileguato sotto la pioggia, con la camiciuola intrisa di acqua che le si attaccava alle spalle e i capelli che le s'incollavano sulla fronte, andava, abbassando maternamente l'ombrello dalla sua parte, sopportando l'insulto, ebbra di dolore e di pentimento, ripetendo macchinalmente: - È poco, è poco… Lassù, tutti quelli che erano entrati nel portoncino a mano destra di via Nardones, erano saliti per una scaletta di un piano solo, dirimpetto alla scala principale, un po' più grande: erano entrati in un quartierino di due stanzette che si affittavano per uso di studio, ome diceva il padrone di casa, visto che non vi era cucina. Ma le due stanzette erano così basse di soffitto e così scarsamente illuminate da due finestrelle, erano così freddi i pavimenti dai mattoni rossastri, così sporche le carte da parati e così unta la vernice delle porte e delle finestre, che nessun meschinissimo notaio, o avvocato povero, o medico senza clienti, o commerciante di loschi affari, vi restava più di un mese. Il ciabattino che serviva da portiere e gli abitanti che passavano dalla scala grande, erano dunque abituati a veder salire e scendere continuamente visi nuovi, giovani e vecchi, uscieri e mezzani d'affari, una sfilata di persone dalle facce scialbe e dagli equivoci sguardi. Chi si occupava delle persone colà abitanti? Nessuno, neppure il portiere che non aveva stipendio dagli inquilini del quartierino, e che non si curava, quindi, dei cambiamenti di affittuario. Sulla scala principale abitavano persone affaccendate, affittacamere, maestri di calligrafia, un dentista di terz'ordine, una levatrice e altra gente curiosa, bizzarra, che saliva e scendeva, presa dai suoi interessi, dai suoi affari, dalla sua decente miseria, o dalla sua inutile corruzione: gente che badava poco al vicinato, tanto che lo studio empre in preda a un nuovo inquilino, o deserto di abitanti si potea dire isolato. Il cartello si loca i stava, sul portone, tutto l'anno: tanto non era possibile trovare un affittuario ad anno, e ogni mese si era alle stesse. Quando il quartierino era affittato, allora la chiave, all'imbrunire, la portava via l'inquilino: quando era vacante, il ciabattino la teneva sul suo banchetto, e, assentandosi, la consegnava alla carbonaia dirimpetto. La scaletta del quartierino era qua e là, sbocconcellata: lubrica e pericolosa per chi non avesse buone gambe e buoni occhi. Adesso, in quell'agosto, da un paio di mesi, la casetta era stata presa in affitto da un signore giovane, decentemente vestito, come un provinciale quasi elegante, grasso, grosso, con un collo taurino, e una faccia dove il rosso del pelo si mescolava al rosso della carnagione, dandogli una fisonomia scoppiante di sangue. Così lo studio i iapriva ogni tanto nella settimana, per qualche ora, e due o tre persone vi venivano, talvolta di più. Scomparse nella scaletta, non si udiva più nulla, nulla appariva dietro gli sporchi vetri delle finestre: solo, dopo qualche ora, quelle persone ricomparivano, ad una ad una, alcune rosse in viso come se avessero lungamente gridato, altre pallide come se le divorasse una collera repressa. Sparivano, ognuna per la sua strada, talvolta senza che le vedesse neppure il portinaio. Ma in una sera della settimana, sempre la stessa, convenivano nello studio ette od otto uomini: una lampada a petrolio, sudicia, coperta da un paralume di carta verde, che poteva costare tre soldi, illuminava la stanzetta nuda e sporca: i soli mobili erano un tavolino greggio e otto o dieci sedie scompagnate. In quella sera il conciliabolo durava sino oltre la mezzanotte e spesso, sui vetri, si disegnava bizzarramente qualche ombra gesticolante, che qualche volta si appoggiava agli sportelli, guardando macchinalmente nella tetra oscurità del cortiletto, quasi vi vedesse le apparizioni del proprio spirito agitato; il ciabattino, stanco della sua dura giornata gittava una occhiata indifferente alle finestre del quartierino, le vedeva ancora illuminate e crollando le spalle se ne andava a dormire in uno stambugio, una specie di sottoscala. Il cortiletto restava al buio, il portone era socchiuso: ancora qualcuno andava e veniva, con precauzione, dalla cosidetta scala grande, qualche misterioso cliente notturno del dentista, qualche cliente frettoloso che veniva a chiamare la levatrice: e costoro schiudevano senza far rumore la porta, per andarsene. Era dopo la mezzanotte che gli ospiti del dottor Trifari se ne andavano dall'ammezzato, tutti insieme, silenziosi, accalcandosi uno dopo l'altro, per uscir via più presto. L'ultimo si tirava dietro la porta del quartierino, con un rumore di legno vecchio crocchiante. Le due stanzette, che componevano lo studio, icadevano nella loro solitudine, e per la città si perdevano coloro che avevano colà palpitato, nell'ansietà del loro sogno. Ma in quella triste serata, il povero ciabattino, febbricitante, sentendo nelle ossa il brivido della terzana e l'umidità dell'aria temporalesca, era andato a letto dall'imbrunire, lasciando aperto il portone, ravvolgendosi nella sdrucita coperta e nel cappotto lacero, che portava durante la giornata. Così, nello stordimento della febbre che gli era sopraggiunta e che gli metteva un macigno sul petto, egli intese lo scalpiccìo di coloro che salivano e scendevano, dalla scala grande e da quella dell'ammezzato, e due o tre volte gli parve che delle voci si levassero, dallo studio, ove oveuna delle finestre era aperta, mentre il vento sciroccale che portava la pioggia, ingolfandovisi, faceva vacillare la fiammella della lampada a petrolio. Sul pavimento dissestato del cortiletto, continuava a cadere la pioggia, coprendo qualunque altro rumore: a un certo punto, la finestra fu chiusa e non si udì più nulla. Poi, più tardi furon chiuse anche le imposte e tutto ricadde nell'ombra profonda. Pure, colà dentro erano raccolti degli uomini. E primo a giungere era stato Trifari, il padron di casa del quartierino: aveva acceso il lume ed era penetrato nella seconda stanza, ad accomodare certe cose, andando e venendo, col cappello un po' indietro sulla fronte: malgrado lo scirocco, per la prima volta, sulla faccia rossastra era scomparso il colore: e sulla fronte qualche gocciolina di sudore appariva. Ogni tanto si fermava, quasi si pentisse di quello che andava facendo o che andava pensando: ma si rianimava da quel momento di abbattimento, subito. E quando lo stridulo campanello dello studio innì la prima volta, il dottor Trifari ebbe un sussulto e stette incerto, quasi non osando di aprire. Pure, andò: e schiudendo solo a metà il battente, con precauzione, lasciò passare Colaneri che aveva una faccia assai torbida e tutte le spalle bagnate, poiché il piccolo e gramo ombrello gli riparava solo il capo. Scambiarono la buona sera, a voce bassa. L'ex-prete, dagli sguardi guardinghi dietro gli occhiali, si asciugava con un fazzoletto di dubbia bianchezza le mani bagnate, le mani grasse e floscie e biancastre, che sono speciali ai sacerdoti. Non si parlavano. Una medesima, complessa angoscia li opprimeva, tanto che la consueta verbosità meridionale ne era domata; e tutto l'eccitamento del passato, vinto da una serie di delusioni, pareva si fosse risoluto in un esaurimento di tutte le forze. A un tratto, levando il capo, Colaneri domandò: - Verrà? - Sì, - soffiò fra le labbra, il dottore. - Non ha sospetti? - Nessun sospetto. Una raffica di vento s'ingolfò nella stanza e fu per smorzare il lume, fu allora che Trifari andò a chiudere i vetri. - Tutto quello che facciamo, è necessario, - soggiunse il professor Colaneri, ripetendo ad alta voce la scusa, che andava ripetendo, da qualche giorno, alla sua coscienza. - È impossibile andare più innanzi, - osservò, con voce tetra, il dottore, mentre, per darsi un'aria di disinvoltura che non aveva, accendeva un sigaro, lungamente, lasciando spegnere i fiammiferi. - Il rapporto che hanno fatto contro di me al Ministero è terribile. - disse Colaneri, sottovoce, con gli occhi bassi. - Ho una quantità di nemici, giovanotti che ho riprovato agli esami, capisci. Mi hanno denunziato al preside del liceo, dicendogli che ho venduto il tema dell'esame a dieci studenti: hanno messo anche i nomi… - Come hanno potuto saper questo? - chiese il medico, lentamente. - Chissà! Ho tanti nemici… il preside ha fatto un orribile rapporto, io sono minacciato. - Di destituzione? - Non solo… di processo… - Eh, via! - Tanti nemici, Trifari, tanti! La minaccia è grave: come potrò provare la mia innocenza? - Li hai poi venduti, questi temi?… - borbottò cinicamente il dottore, buttando via il suo sigaro. - La paga è così meschina, Trifari ! E gli esami sono tutta una impostura! - Se ti fanno un processo, è male… - Sono perduto, se mi processano. Bisogna aver la fortuna in mano, questa volta, per forza, capisci? È necessario: se no, sono rovinato. Non mi resta che tirarmi un colpo di rivoltella, se mi processano. Dobbiamo vincere, Trifari! - Vinceremo, - affermò l'altro. - Io ho una quantità di guai, al mio paese e qui. Mio padre ha venduto tutto; mio fratello invece di tornare a casa. dopo aver fatto il soldato, per la miseria, si è arruolato come carabiniere; mia sorella non si marita più, non ha più un soldo, è ridotta a cucire i vestiti delle contadine ricche… Avevamo poco, io ho mangiato tutto… una quantità di debiti, di obbligazioni… Il padre di quello studente che firmò la cambiale a don Gennaro Parascandolo, vuole darmi querela per truffa… dobbiamo vincere, Colaneri, non possiamo più vivere una settimana senza vincere… io sono più rovinato di te… Suonarono pian piano. - È lui, forse! - domandò Colaneri, con un leggiero tremito nella voce. - No, no, - rispose Trifari. - Viene più tardi, quando ci saremo tutti… - Chi lo porta? - Cavalcanti. - Egli non ha sospetti, dunque? - No, niente. - E lo spirito, nulla gli dice? - Pare che lo spirito non si possa opporre alla fatalità, perché nulla gli dice. - Fatalità! fatalità! Suonarono nuovamente. Trifari andò ad aprire. Era l'avvocato Marzano, il vecchietto arzillo, bonario, sorridente. Ma una improvvisa decrepitezza parea che lo avesse assalito: il pallore del volto si era fatto giallastro, i mustacchi pepe e sale erano tutti bianchi e pioventi radi sulle labbra. Il sorriso era scomparso, come se per sempre, e all'approssimarsi della morte, fosse sparito dalla sua anima il criterio buono dell'esistenza. Entrando, sospirò. Era tutto bagnato; il soprabito luccicava di goccioline d'acqua, dovunque, e le scarne mani tremavano. Si sedette, silenzioso: tenne il cappello sul capo, abbassato sulle orecchie, e la bocca solamente conservava l'antica consuetudine di muoversi continuamente, masticando cifre. Adesso aveva appoggiato al bastone il mento aguzzo, dove una barba incolta cresceva, e si assorbiva nei suoi pensieri, senza neppur udire quello che dicevano fra loro Trifari e Colaneri. A un tratto, anche lui, avendo lo stesso pensiero dominante, domandò: - Verrà? - Verrà, sicuramente. - risposero insieme, gli altri due. - Non se lo immagina? - Non s'immagina niente. - Questi assistiti, vedono assai, o non vedono nulla. - Meglio così, - mormorarono gli altri due. Il dottor Trifari, udendo bussare alla porta, andò prima nella seconda stanza a prendere tre o quattro altre sedie e le collocò intorno al grezzo tavolino. Entrarono Ninetto Costa e don Crescenzo, il tenitore di Banco lotto, al vico del Nunzio. L'agente di cambio aveva perduto tutta la sua eleganza. Era vestito alla meglio, con un abito da mattino, su cui un troppo chiaro soprabitino aveva larghe chiazze di acqua: sulla cravatta di raso nera, era confitto uno spillo di strass. con l'eleganza era anche sparito il suo bel sorriso di uomo felice, che gli scopriva i denti bianchi. L'agente di cambio andava, a stento, di liquidazione in liquidazione, senz'arrischiarsi più, non osando più giuocare, avendo perduta tutta la sua audacia; e arrivando solamente a tenere a bada i suoi creditori, che gli avevan ancora fede, così, perché il suo nome era conosciuto in Borsa, perché suo padre era stato un modello d'integrità e perché egli stesso era stato così fortunato, che tutti ancora credevano alla sua fortuna; ma il disgraziato sapeva che era giunta l'ora della crisi, che non avrebbe potuto neppure pagare gli interessi dei suoi debiti, e che il nome di Ninetto Costa sarebbe stato quello di un fallito, fra poco. Oh, aveva smesso tutto, casa sontuosa, equipaggi, amanti di lusso, viaggi, pranzi e vestiti inglesi di Poole, ma tutto questo sacrificio non bastava, non bastava, poiché il cancro che gli rodeva il seno, il cancro che rodeva tutti, non era stato estirpato, poiché egli continuava disperatamente a giuocare al lotto, preso oramai totalmente, anima e corpo, chiudendo gli occhi in quella tempesta, per non veder venir l'onda che lo avrebbe sommerso. Accanto a lui, don Crescenzo, dalla bella faccia serena, dalla barba castana ben pettinata, aveva anche lui le tracce di una decadenza iniziale. A furia di stare a contatto coi febbricitanti, come chi tocca le mani troppo calde, qualche cosa gli si era attaccato: e innanzi alle disperate insistenze dei giuocatori, egli era arrivato a far credito ai giuocatori. In qual modo resistere alle supplichevoli domande di Ninetto Costa, alle pretese che nascondevano una vaga minaccia di Trifari e Colaneri, alle nobili promesse del marchese Cavalcanti, a quelle diverse forme di preghiere? Sul principio faceva loro credito dal venerdì al martedì mattina, giorno in cui preparava il versamento allo Stato, ed essi rinnovando ogni settimana il miracolo, arrivavano a restituirgli quello che gli dovevano, perché egli potesse essere puntuale, il mercoledì; ma alla lunga, esaurite le risorse, qualcuno di costoro cominciò a pagare una parte, o a non pagare niente: egli cominciò a rimetterci del suo, per non farsi sequestrare dallo Stato la cauzione. I giuocatori non osavano ricomparire che quando avevano di nuovo denaro, scontavano una parte del debito e il resto lo giuocavano: uno era addirittura sparito, il barone Lamarra, il figliuolo dello scalpellino, che era divenuto appaltatore e riccone. Gli doveva più di duemila lire, a don Crescenzo, il barone Lamarra, e quando costui lo ebbe aspettato, per due o tre settimane, andò a rincorrerlo a casa. Trovò la moglie, in uno stato di furore; il barone Lamarra aveva falsificato la firma di lei, sopra una quantità di cambiali, e ora le toccava pagare, se non voleva diventare la moglie di un falsario, doveva pagare, purtroppo, ma aveva già fatto domanda di separazione: il barone Lamarra se n'era fuggito a Isernia, donde non dava segno di vita. Don Crescenzo fu cacciato via, in malo modo. Duemila e più lire perdute! Giurò di non far più credito a nessuno: e malgrado che ogni tanto pagassero qualche somma, i suoi debitori, restavano sempre sette od ottomila lire arrischiate, con poca speranza di riaverle: ottomila lire, giusto la somma dei suoi risparmi di vari anni. D'altronde, non li poteva tormentare troppo, i suoi debitori; non avevano, oramai, che certe risorse disperate che saltavano fuori solamente innanzi all'ardente e scellerata volontà di giuocare. Ed era adesso lui che s'interessava vivamente al loro giuoco, che desiderava le loro vincite, per poter rientrare nelle sue economie, per riacquistare quel denaro messo così imprudentemente al servizio di quei viziosi, sorvegliando i giuocatori, perché non andassero a giuocare altrove, inquieto, ammalato, anche lui, oramai, al contatto di tanti infermi. Per questo, il misterioso disegno che si doveva compiere quella sera, gli era noto: non gli si poteva nascondere più nulla, tutti gli dovevano del denaro. E malgrado che una segreta amicizia, diremo quasi una complicità, lo unisse a don Pasqualino, l' assistito egli taceva sul misterioso disegno e il silenzio pareva un'approvazione. Erano già in cinque, nella stanzetta, seduti intorno alla tavola, in pose diverse di raccoglimento, anzi di preoccupazione: non parlavano, alcuni col capo abbassato, segnando ghirigori con le unghie sul greggio piano del tavolino, altri guardando il fumoso soffitto, dove la lampada a petrolio gittava un piccolo cerchio di luce. - A Roma si è pagato settecentomila lire - disse don Crescenzo, per ispezzare quel penoso silenzio. - Beati loro, beati loro! - gridarono due o tre, con un impeto d'invidia ai fortunati vincitori di Roma. - Se ciò che facciamo, riesce, - mormorò tetramente Colaneri, i cui occhiali avevano un triste scintillìo, - il governo paga a Napoli tre o quattro milioni. - Dobbiamo riuscire, - ribattè Ninetto Costa. - L'urna sarà comandata questa volta, - disse misticamente il vecchietto Marzano. Bussarono nuovamente, pian piano, come se una timidezza indebolisse la mano che bussava. Trifari disparve, ad aprire, dopo aver domandato, attraverso la porta, chi era, insospettito subitaneamente. Gli fu risposto amici riconobbe la voce. E i due popolani, Gaetano il tagliatore di guanti, Michele il lustrino, entrarono: si cavarono il berretto, augurando la buonasera: restarono sulla soglia della stanzetta, non osando sedere, innanzi a quei galantuomini. uori, infuriava lo scirocco e la pioggia: e una grondaia carica d'acqua traboccava nel cortiletto, con un forte scroscio. Adesso, sotto le impannate della finestra, dalla fessura, entrava un rivolo di acqua continuamente, bagnava il poggiuolo della finestra e colava a rivoletti sul terreno: gli ombrelli chiusi, ma sgangherati, appoggiati ai muri, negli angoli, colavano acqua sul pavimento impolverato, e, sotto le scarpe bagnate, si formava una poltiglia di fango: gli uomini seduti non si muovevano, in un immobilità grave, in un silenzio lugubre, quasi che stessero lì a vegliare un morto, colti dalla stanchezza, dall'oppressione, dai loro funebri pensieri. I due popolani, in piedi, uno scarno, scialbo, con le spalle curve di chi fa il mestiere di tagliatore, coi capelli già radi alla fronte e alle tempie, l'altro sciancato, gobbo, bistorto come un cavaturaccioli, vecchio e pur vivace nella faccia rugosa e arguta, i due popolani tacevano anche essi, aspettando. Solo Ninetto Costa, per darsi un qualunque aspetto di disinvoltura, aveva cavato un vecchio taccuino, residuo della sua antica eleganza, e vi scriveva delle cifre, con un piccolo lapis, bagnandone in bocca la matita. Ma erano cifre fantastiche: e la mano gli tremava un pochino: gli amici dicevano che erano gli eccessi dell'esistenza, che la facevano tremare. Così passarono una quindicina di minuti, minuti lunghi, lenti, gravi sulle anime di tutti coloro che aspettavano, per mettere a esecuzione il loro segreto progetto. - Che tempaccio! - disse Ninetto Costa, passando una mano sulla fronte. - Si è aperto il cielo - osservò don Crescenzo, sbadigliando nervosamente. - Dottore, che ora fate? - domandò il vecchio avvocato Marzano, con una vocetta tremolante di decrepitezza. - Sono le dieci meno cinque, - disse il dottore, cavando un brutto orologio di nichelio, di quelli che non si potevano impegnare, e che era raccomandato a un sordido laccetto nero. - Per che ora è l'appuntamento? - chiese Colaneri, fingendo l'indifferenza. - Sarebbe alle dieci, ma chi sa! - rispose il medico, abbassando la voce, imprimendo a quello che diceva, tutta la sua incertezza e tutto il suo dubbio. - Chissà! - disse Ninetto Costa, profondamente. E un lungo sospiro gli sollevò il petto, quasi non potesse resistere al peso che l'opprimeva. - Siete ammalato? - gli chiese Colaneri. - Vorrei esser morto, - borbottò l'agente di cambio, desolatamente. Qualcuno crollò il capo, sospirando: qualcuno annuì con l'espressione della faccia, e la dolorosa parola si allargò nella stanzetta umida e sudicia, sotto la lampada che fumicava, fra il rumore scrosciante del temporale. Poi, per un poco, la bufera estiva si venne calmando e si udirono le stille più rade battere sui cristalli della finestra, poi, di nuovo, un gran silenzio. E attraverso il muro, senza sapere donde venisse, come una voce lenta, ammonitrice, un grave orologio suonò le dieci ore, con rintocchi melanconici. I colpi erano spaziati e gittarono un dato di spavento, fra quella gente riunita là, a complottare non so quale truce proponimento. - Lo spirito! - disse don Crescenzo, tentando di scherzare. - Non scherziamo, - ammonì duramente Trifari, - qui si tratta di cose serie! - Nessuno vuole scherzare, - riprese Ninetto Costa, - tutti sappiamo quello che facciamo. - Qui non ci sono Giuda, non è vero? - disse il medico guardando intorno, tutti quanti. Vi fu un mormorìo di protesta; ma debole. No, nessuno di essi era un Giuda, né per loro vi era un Cristo, ma tutti sentivano, vagamente, così, nel fondo della loro febbre, che venivano a commettere un tradimento. - Non è Giuda nessuno, - gridò il medico, impetuoso. - Giuro a Dio che se vi è, farà la mala morte!… - Non giurate, non giurate, - disse il vecchio Marzano. impaurito. Bussarono alla porta. Tutti si guardarono in faccia, improvvisamente fatti pallidi e trepidanti, messi al cospetto della loro colpa. E come se dietro alla porta vi fosse un grave pericolo, nessuno si mosse ad aprire. - Ci sarà? - osò dire Colaneri, senza levar gli occhi. - Forse… - mormorò Costa, che girava convulsamente il taccuino fra le mani. E subito, tutti quanti disperarono che fuori la porta vi fosse l' assistito. a stessa ombra di feroce delusione stravolse i loro visi, che s'indurirono, nella crudeltà del malvagio che vede sfuggire la sua preda. E l'istinto di ferocia che dorme in fondo a tutti i cuori umani, sospinto dalla lunga passione mal soddisfatta, sviluppatosi in quella forma di delirio in cui li metteva il vizio, urgeva in tutti, nei giovani e nei vecchi, nei signori e nei popolani. Le facce erano chiuse e dure, impietrite nella ferocia, e fu con un atto energico che il dottor Trifari si avviò ad aprire. Per rassicurare l'assemblea, di là, che l' assistito ra venuto, lo salutò subito, ad alta voce, lui e il marchese Cavalcanti. - Buona sera, buona sera, marchese, - don Pasqualino, tutti vi aspettavano. E si mise da parte, per lasciarli entrare. Di là, respiravano con una gioia truce: non vi era più pericolo che l' l'assistito oro sfuggisse. E colui che parlava con gli spiriti ogni giorno e ogni notte, colui che aveva comunicazioni speciali di grazia con le anime errabonde, colui che doveva sapere tutte le verità, entrò quietamente nella stanzetta, dove erano i congregati, senza nulla supporre. Gittò, al solito, una obliqua occhiata intorno, ma le facce dei cabalisti non gli dissero niente di nuovo: avevano quel pallore, quello stravolgimento, quel febbrile turbamento consueto del venerdì sera, non altro. Solo il marchese Cavalcanti, accompagnandolo, due o tre volte era stato scosso da un brivido e quasi pareva avesse voluto tornare indietro. Ma il marchese era così nervoso, da tempo! Balbettava, parlando: e la sua nobile figura era oramai degradata dalle ignobili tracce della passione, mal vestito, disordinato, con le scarpe sporche e il solino sfilacciato, con la faccia dalla barba mal rasa, faceva ribrezzo e pietà. Era così nervoso, da che non trovava più denaro, da che la sua figliuola si era fidanzata col dottor Amati! L' assistito on ne poteva avere più denaro e lo fuggiva, vedendolo soltanto nelle riunioni dei venerdì sera, via Nardones: ma in quella settimana le relazioni erano ricominciate, il marchese cercava dovunque l' assistito, nella giornata gli aveva dato cinquanta lire, prendendo convegno, per la sera, alle dieci. Anzi, si era ostinato ansiosamente per questo convegno: e l' assistito 'aveva attribuito all'ardore dei giuocatori delusi per avere i numeri, il contegno del marchese, durante la strada, era stato dubbio: pure, don Pasqualino, abituato alle bizzarrie dei giuocatori, non vi aveva badato. E andò a sedersi al suo posto di ogni settimana, presso la tavola, mettendosi una mano sugli occhi, per ripararsi contro la fiammella della lampada a petrolio. Intorno era il silenzio in cui ogni tanto un sospiro si udiva: e guardando tutte quelle facce pallide, mute, ardenti, l' assistito bbe un primo, vaghissimo sospetto. E cercò di fare il suo solito lavoro fantastico d'ingarbugliamento: - Piove, ma il sole uscirà a mezzanotte. - Chiacchiere - gridò Trifari, scoppiando in una ironica risata. Gli altri, attorno, mormorarono, ghignando. Oramai, non ci credevano più, alle parole misteriose di don Pasqualino. E questa sfiducia risultò così chiaramente, che l' assistito i trasse indietro, come se volesse schermirsi da un attacco. Ma tentò di nuovo, credendo di poter profittare, come sempre, della immaginazione bollente di quei cabalisti, facendo stridere le corde capaci di dar suono: - Piove, il sole uscirà a mezzanotte: ma chi porta lo scapolare della Madonna, non si bagna. - Don Pasqualino, voi scherzate, - disse sarcasticamente il tagliatore di guanti. L' assistito li vibrò una occhiata collerica. - Senza che mi guardiate come se voleste mangiarmi, don Pasqualino: col permesso di questi bravi signori, voi volete burlarvi di noi…e noi non siamo gente da farci burlare. - Marchese, fate tacere questo stupido, - mormorò l' assistito, on un cenno di disprezzo. - Non tanto stupido, don Pasqualino, - disse Cavalcanti, reprimendo a stento la sua commozione. - Che volete dire, marchese? - chiese vivacemente con Pasqualino, levandosi da sedere e facendo per andarsene. Ma Trifari che non si era mai mosso dalle spalle dell' assistito, enza parlare, gli mise una mano sul braccio e lo costrinse a sedersi di nuovo. L' assistito iegò un minuto il capo sul petto, a meditare, e guardò obliquamente la porta. - Restate seduto, don Pasqualino, - disse lentamente Cavalcanti. - qui dobbiamo parlare a lungo. Una lieve espressione di angoscia passò sul volto di colui che evocava gli spiriti: e ancora una volta, guardando gli astanti, egli non vide che fisonomie dure, ansiose, indomabili nel desiderio del guadagno. Capiva, adesso, confusamente. - Gaetano, il tagliatore di guanti, non è uno stupido, quando dice che voi vi burlate di noi. Quello che ci state facendo, da tre anni a questa parte, pare una burla. Sono tre anni, capite, che voi ci andate ripetendo le cose più strampalate, con la scusa che ve le dice lo spirito: tre anni che ci fate giuocare l'osso del collo, con queste vostre strampalerie, e ognuno di noi, non solo non ha mai guadagnato niente, ma ha buttato la sua fortuna, dietro le vostre chiacchiere, ed è pieno di guai, alcuni dei quali irreparabili. Coscienza ne avete, don Pasqualino? Voi ci avete rovinati! - Rovinati, rovinati! - gridò un coro di voci straziate. Spesso, il parlatore con gli spiriti, aveva udito queste lamentazioni massime negli ultimi tempi: ma la fiducia era ricomparsa subito, negli animi dei suoi affiliati. Adesso, lo intendeva, non ci credevano più. Pure, nascondendo la sua paura, tentò di discutere. - Non è colpa mia, la fede vi manca. - Frottole! - gridò il vecchio, esasperato, mentre gli altri tumultuavano contro l' assistito, he ripeteva loro l'eterna ragione della delusione. - Frottole! Come, manca la fede a noi, che abbiamo creduto in voi, come si crede in Gesù Cristo? Manca la fede, quando, per premiarvi delle troppe parole che ci avete dette, vi abbiamo pagato profumatamente? Avete incassato migliaia di lire, in questi tre anni, non lo negate! Non abbiamo fede, noi che abbiamo fatto dire tridui, messe, orazioni, rosari, noi che ci siamo inginocchiati, ci siamo battuti il petto, chiedendo al Signore la grazia? Non abbiamo fede, quando la dobbiamo avere per forza, per forza, capite, altrimenti lo sperpero, lo sciupio del denaro, l'infelicità nostra e quella delle nostre famiglie, sarebbero altrettanti delitti?! Non abbiamo fede, quando voi siete stato il nostro dio, per tre anni, e ci avete ingannati, e non vi abbiamo detto niente e abbiamo seguitato a credere in voi, che ci avete tolto tutto, tutto? - Tutto ci avete tolto! - urlò l'assemblea. - Voi mi offendere, basta così, - disse risolutamente l' assistito, evandosi. - Io me ne vado, buona sera. - Voi non uscirete di qui! - urlò il marchese Cavalcanti, giunto al colmo del furore. - È vero che non uscirà di qui? - domandò all'assemblea dei cabalisti. - No, no, no! - urlò ferocemente la congrega di quei pazzi feroci. L' assistito veva compreso. Un mortale lividore gli covrì le guance pallide e scarne: lo sguardo smarrito errò intorno, a una ricerca disperata di fuga. Ma i truci cabalisti si erano levati e gli si erano stretti addosso in un breve cerchio: alcuni di loro erano pallidissimi, quasi reprimessero una forte emozione, altri erano rossi di collera. E negli occhi di tutti, l' assistito esse la medesima, implacabile crudeltà. - Io voglio andarmene, - disse lui, sottovoce, con quel tono roco, che dava tanta misteriosa attrazione alla sua voce. - Nessuno di noi vi vorrebbe trattenere, don Pasqualino, - rispose con ossequiosa ironia il marchese Cavalcanti, se non avessimo bisogno di voi. Se non ci date i numeri, di qua non uscite, - finì gridando, preso da un impeto di furore. - I numeri, i numeri, - fischiò la voce sottile di Colaneri. - Se no, non si esce! - strillò Ninetto Costa. - O i numeri, o qua dentro! - tuonò il dottore Trifari. - Sono finite le burlette, dateci i numeri, - disse, digrignando i denti, Gaetano, il tagliatore di guanti. - Don Pasqualino, persuadetevi che questi signori non vi lasciano andar via, se non date loro i numeri. Persuadetevi!… - osservò saviamente don Crescenzo, che volea fingere di essere disinteressato nella questione. - La settimana ventura… ve li prometto… ora non li ho…ve lo giuro sulla Madonna! - balbettò l' assistito, olgendo gli occhi al cielo, desolatamente. - Che settimana ventura! - urlarono tutti. - Deve esser stasera, o domattina, presto! - Non li ho, non li ho, - balbettò lui, nuovamente, crollando il capo. - Ce li dovete dare, a forza, - ruggì il marchese. - Non ne possiamo più. O vinciamo questa settimana, o siamo perduti, don Pasqualino. Abbastanza abbiamo atteso: vi abbiamo creduto troppo, ci avete trattati indegnamente. Lo spirito ve li dice i numeri veri voi li sapete; li avete saputi sempre; ma ci avete sempre burlati, raccontandoci delle sciocchezze. Non possiamo aspettare la settimana ventura: fino allora possiamo morire, o veder morire qualcuno o andar in galera. Questa sera o domattina: i numeri veri, apite? apite?- I veri, i veri! - fischiò Colaneri. - Non ci dite stupidaggini, non è più tempo! - gridò Ninetto Costa, al massimo della indignazione. Eppure, malgrado che si sentisse vinto e preso, in balia alla irragionevole passione di cui egli stesso aveva acceso le fiamme, l' assistito oleva combattere ancora. - Lo spirito non dà numeri per forza, - dichiarò lentamente. - Lo avete offeso, non mi parlerà più. - Bugie, bugie! - ribattè il marchese. - Centomila volte, ci avete detto che lo spirito vi obbedisce, che voi fate di lui quello che vi pare, che voi ne ottenere tutto: centomila volte, ci avete detto che l'urna dei novanta numeri è comandata. ite la verità, è meglio, ve lo assicuro, è meglio. Siete a un mal passo, don Pasqualino: lo spirito vi deve aiutare. La nostra pazienza è esaurita, sono esauriti i nostri denari e anche quelli degli altri: lo spirito vi deve are arei numeri. Allora egli tacque un poco, come se si concentrasse, e gli occhi gli si stravolsero, mostrando il bianco della cornea. Tutti lo guardavano, ma freddamente, abituati a questi suoi stralunamenti. - Fra breve fioriranno le camelie, - egli disse, a un tratto, tremando tutto. Ma nessuno dei cabalisti si commosse, a questa enunciazione mistica dei numeri. Il dottor Trifari, che portava sempre la chiave dei sogni n tasca, non cavò neppure lo sdrucito libro, per vedere camelie fiorite, che numero corrispondessero. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina, - ripetette, tremando sempre più, l' assistito. essuno si mosse. - Fra breve fioriranno le camelie, alla Marina e sulla montagna, - replicò per la terza volta, tremando di ansietà, guardando in faccia i suoi persecutori. Una sghignazzata d'incredulità gli rispose. - Ma che volete da me? - gridò lui, con un singhiozzo di spavento. - I numeri veri, - disse freddamente Cavalcanti, - queste cose che ci dite, non le crediamo: cioè, per uno scrupolo, noi giuocheremo i numeri che rispondono alla montagna, alla Marina e alle camelie fiorite. Ma altri debbono essere i numeri veri: così aspettandoli, noi giuocheremo questi tre, ma vi terremo chiuso qua dentro. - Sino a quando? - chiese lui, precipitosamente. - Sino a quando i vostri numeri saranno usciti, - ribattè il marchese duramente. - Oh Dio!… - disse l' assistito, ian piano, come un soffio. - Capite, don Pasqualino, questi signori vogliono avere una garanzia e vi vogliono tenere in pegno, - spiegò don Crescenzo, il tenitore del Banco del lotto, volendo legittimare il sequestro. - E a voi che fa? Che fatica vi costa dire la verità? Se li avete tenuti in asso, finora, è il tempo di parlare sul serio, don Pasqualino: questi signori hanno ragione, e lo so io, di essere esasperati. Parlate, don Pasqualino, mandateci via contenti. Voi rimarrete qui fino a domani, alle cinque: e appena fatta l'estrazione, vi verremo a prendere, in carrozza, per una scampagnata. Su, su, fate quel che dovete fare. - Non posso - disse l' assistito, prendo le braccia. - Non mentire, voi potete e non volete; gli spiriti vi obbediscono, - disse Colaneri, scattando, in un impeto di furore. - Diteli questa sera, è meglio, è meglio per voi, - mormorò Gaetano, il tagliatore di guanti, con un malvagio tono di voce. - Levatevi questa preoccupazione, - consigliò fraternamente Ninetto Costa. - La verità, la verità, - balbettò il vecchio avvocato Marzano. - Non posso, - disse ancora l' assistito, guardando le finestre e le porte. Allora i cabalisti, a un cenno del marchese Cavalcanti, si riunirono nel vano della finestra: presso l' assistito, estò soltanto Trifari, dalla feroce faccia minacciosa, che gli aveva posta la mano grassa, corta, coperta di pelame rossiccio, sulla spalla. I cabalisti confabularono fra loro, a lungo: discutevano, in cerchio, tutte le teste riunite, parlandosi nel volto. Poi, decisi, ritornarono. - Questi signori dicono che sono fermi nella loro intenzione, anzi nel loro diritto di avere i numeri, dopo i tanti sacrificii che hanno fatti, - parlò, freddamente, il marchese Cavalcanti, - e che quindi don Pasqualino resterà qui, chiuso, sino a che non si sarà deciso di far paghi i nostri giusti desiderii. Di qui non si può andar via: d'altronde, il dottor Trifari, che non ha paura di niente, resterà in compagnia di don Pasqualino. Fare del chiasso sarebbe inutile, tanto i vicini non udrebbero; e se per caso don Pasqualino volesse ricorrere alle autorità per farsi ragione, noi teniamo pronta una querela di truffa, con testimoni e documenti, da mandare in carcere venti assistiti. meglio, dunque, chinare la testa, per questa volta, e cercare di scamparsi, dando i numeri veri. oi siamo fermi. Fino a che non avremo guadagnato, don Pasqualino non esce il dottor Trifari si sacrificherà a tenergli compagnia. In quell'altra stanza, vi è da dormire per due, e da mangiare per vari giorni. Fra questa notte e domani, uno di noi, per turno, verrà, ogni quattro ore, a vedere se don Pasqualino si è deciso. Speriamo che si decida presto. - Voi volete farmi morire, - disse l' assistito, on un'angelica rassegnazione. - Voi potete liberarvi, se volete. Vi auguriamo la buona nottata, - conchiuse, implacabile, il marchese Cavalcanti. E i sette sciagurati cabalisti passarono davanti all' assistito, ugurandogli sardonicamente la buona notte. L' assistito tava in piedi, presso la tavola, con una mano lievemente appoggiata sul piano del legno, con una espressione di stanchezza e di pena sulla faccia, guardando ora questo, ora quello dei cabalisti, come se li interrogasse, se alcun di loro fosse più pietoso. Ma le delusioni dolorose avevano indurito i cuori di quegli uomini: e l'esaltamento del loro spirito impediva loro d'intendere che commettevano una colpa. Passavano innanzi all' all'assistito, alutandolo, dicendogli una frase fredda a mo' di consolazione, senza veder la penosa espressione del suo volto, la supplica dei suoi occhi. - Buona notte, don Pasqualino: Dio v'illumini, - disse il vecchio avvocato Marzano, crollando il capo. - Chiediamo troppo a Dio, - rispose l' assistito, on una grande malinconia nella voce. - Buona notte: dormite tranquillo, - augurò ironicamente il tagliatore di guanti in cui tutto parea fosse diventato tagliente, la parola, la voce, la figura. - Così vi auguro, - rispose enigmaticamente l' assistito, bbassando le palpebre, a smorzare il lampo crudele di vendetta che gli era balenato negli occhi. - Buona notte, buona notte, don Pasqualino - mormorò Ninetto Costa, con un po' di rammarico, tanto la sua frivola natura si opponeva a quel dramma. - A rivederci presto. - E già! - mormorò l'uomo degli spiriti, con un lieve sogghigno. - Buona notte, - osò dire il lustrino Michele, che si era ficcato complice in quella congiura di signori, e che parea nobilitato da tanta compagnia. - buona notte e mantenetevi forte… L' assistito on gli rispose neppure, non si degnò neppure di abbassare lo sguardo sopra lo sciancato, appartenente a quel vile popolo cui anche egli apparteneva, e da cui non arrivava mai a cavar denaro. - Pasqualino, li volete dare, questi numeri certi? - domandò Colaneri, passandogli innanzi, sempre accanito. - Non li posso dare, così, violentato… - Voi scherzate, noi siamo tutti amici vostri, - squittì il professore. - Fate come credete, buona notte. - Buona notte: la Madonna vi accompagni, - mormorò l' assistito, iamente, aumentando l'intensità mistica della sua voce. - Caro don Pasqualino, via, un buon movimento, prima che andiamo via, - disse con una improvvisa bonomia il marchese Cavalcanti, - dateci i numeri certi e la vostra prigionia dura sino a domani, alle cinque. - Non so niente, - disse l' assistito, ardeggiando uno sguardo di odio sul marchese, poiché era stato il nobile signore a condurlo in quel mal passo. Essi si riunirono sotto la porta, per partire, per lasciarlo solo col dottor Trifari che andava e veniva dalla stanza accanto, pacificamente e freddamente, con quella gelida volontà che mettono i malfattori nati, nella esecuzione dei loro misfatti. L' assistito ino allora, salvo qualche ombra che gli era passata sul viso, lasciandovi la sua traccia di fastidio, di dolore, salvo un'umile espressione di preghiera che era nel suo sguardo, aveva dato segno di molto coraggio: ma quando vide che essi partivano, quando comprese che sarebbe rimasto solo, col dottor Trifari, per lunghe ore, per giorni, per settimane, forse, tutta la sua forza d'animo cadde, la viltà dell'uomo imprigionato sorse, ed egli, stendendo le braccia gridò: - Non ve ne andate, non ve ne andate! A quel grido straziato, gli uomini complici di quel carceramento si fermarono: e le loro facce di giustizieri violenti, furono coperte da un improvviso pallore. Fu quello il solo momento di tutta la tetra serata, in cui essi pensarono che dannavano a una pena atroce, una creatura umana, un cristiano, un uomo come loro, fu il solo momento in cui videro tutta l'entità di quello che commettevano, nella sua portata legale e morale. Ma il demone del giuoco aveva messo sede nella loro anima, impossessandosene completamente: e tutti quanti insieme, tornando indietro, circuirono l' assistito, omandandogli ancora i numeri, i numeri certi i veri numeri che egli conosceva e che fino allora non aveva voluto loro dare. E allora, soffocato dall'emozione, comprendendo di aver rivolta contro sé l'arma di cui sino allora li aveva feriti, colui che li aveva a poco a poco sommersi sotto le onde di un naufragio lento, colui che aveva preso il loro denaro e le loro anime, innanzi a quella insistente malnata ferocia che niente più poteva placare, innanzi a quel vero Spirito del Male, con cui, realmente, egli si era messo in comunicazione, l' assistito, igliaccamente, provò una immensa paura e si mise a singhiozzare come un fanciullo. Gli altri, interdetti, sconvolti, lo guardavano: ma più forte, più forte era il Demonio, di tutte le loro volontà riunite insieme. L'ora suprema della loro esistenza era giunta, pel vecchio e pel giovane, pel signore e per il plebeo, l'ora tragica in cui niuna cosa arriva a dissuadervi dalla tragedia. Udendo piangere come un bimbo quell'uomo che si asciugava le lagrime con un lurido e lacero fazzoletto, nessuno di loro provò pietà: tutti sentirono più ardente, più acre il desiderio di avere i numeri del lotto, per salvarsi dalle ruine che minacciavano le loro teste. Lo lasciarono che piangeva, vilmente, come uno sciocco pauroso: e a uno a uno, senza far rumore, uscirono lentamente da quella casa, che era diventata una prigione. Egli, pur continuando a singultare, tese l'orecchio: udì richiudere la porta, lugubremente, con quel rumore che si ripercuote nell'anima. Trifari, dietro la porta, andava mettendo catenacci e lucchetti, serrandosi dentro il carcere con il nuovo carcerato, senz'aver paura, né di lui come uomo, né degli spiriti che egli avrebbe potuto evocare. La faccia dal pelame rossastro, quando appariva nel giro luminoso della lampada a petrolio, aveva qualche cosa di animalesco, come crudeltà e come ostinazione nella crudeltà. E rientrando, il dottore aveva respirato di sollievo: si era guardato intorno, quasi che la partenza di tutti quei cabalisti, amici suoi, che lo avevano delegato a far da carceriere, gli fosse piaciuta. Adesso, ancora andava e veniva dalla stanza accanto, portando e riportando non so quali cose; poi rientrò, essendosi cambiato di vestito, avendo indossata una vecchia giacchetta, in cambio del soprabito. L' assistito eguiva con l'occhio tutte le mosse del suo carceriere, come tutti i prigionieri che studiano l'unica loro compagnia, con tutta la profondità dell'osservazione. A un certo punto avevano scambiato una occhiata fredda, dura, da carcerato ad aguzzino. - Volete fumare? - aveva chiesto il dottore, da un cantuccio della stanza. - Non fumo, - aveva risposto, cupo, l' assistito Non sedete? - aveva chiesto all' assistito, ottovoce. ottovoce.- Grazie, - aveva risposto costui, lasciandosi cadere sopra una seggiola. - Volete dormire? - No, grazie. Il dottore sedette allora anche lui, accanto alla tavola, mettendosi una mano sugli occhi, quasi a ripararsi dal lume. Silenzio profondo notturno. Fuori, anche la pioggia era cessata. Dentro, la lunga e tetra veglia cominciava.

- Non abbastanza, - disse ella, levando gli occhi al cielo. - Perché pregate molto? - Bisogna… - Voi non fate peccati… - mormorò il miscredente, tentando di scherzare. - Non si sa - disse lei, gravemente. - E bisogna pregare per tutti quelli che non pregano. E così dicendo, lo guardò fuggevolmente. Egli chinò il capo. - Passate troppe ore al freddo, in chiesa. Ciò vi nuocerà, signorina. - Non credo: e poi, che importa? - Non dite questo, - interruppe lui, subito. - Poche cose mi possono far male, - soggiunse lei, con una intonazione che egli intese e che non volle approfondire. - Andiamo, andiamo a vedere il carnevale dalla signora Fragalà, al primo piano, che ha invitato anche me, - e si levò, con un atto energico, a portarla via. - Restiamo qui, - ribattè Bianca dolcemente - qui vi è pace almeno. Non vi pare che sia buona anche questa calma, questo silenzio? - È vero, è vero, - confessò Amati, sedendosi di nuovo, soggiogato. - Mio padre è uscito coi suoi amici, - continuò lei, quietamente - per vedere il carnevale. Nel palazzo tutti sono fuori ai balconi, che dànno a Toledo, o fuori di casa: e qui, lo vedete, non giunge alcun rumore. Si guardarono così, puramente. Quella strana ora di deliquio in cui egli l'aveva salvata e in cui ella aveva inteso di esser salvata da lui, aveva stabilito fra loro come una vita anteriore. Quello che ella sentiva era un umile bisogno di protezione, di assistenza, di consiglio: quello che lui sentiva, era un tenerissimo sentimento di pietà. E non potette frenare una domanda che gli ronzava nell'anima. - E vero che volete farvi monaca? - egli chiese, con voce un po' soffocata. - Vorrei, - diss'ella, semplicemente. - Perché? - Per questo, - soggiunse, con la gran risposta dei cuori femminili. - Perché dovreste farvi monaca? Nessuna si fa più monaca. Perché dovreste voi farvi? - Perché se vi è una sola persona al mondo che dovrebbe entrare in convento, io son quella; perché io non ho né desiderii, né speranze, né nulla innanzi a me; e perché quando si è così, vedete, attraverso questo vuoto, questo deserto, questa desolazione, prima della morte, bisogna mettere almeno la preghiera. - Non dite questo, - supplicò lui, come se per la prima volta il soffio della fatalità avesse alitato sulla sua energia, distruggendola.

Questo fu il vero disastro, irreparabile: poiché le lunghe schiere di provinciali che arrivavano dalle Calabrie, dalla Basilicata, dagli Abruzzi e dal Molise per fare i bagni di mare, e riempiono gli alberghi e le trattorie di second'ordine, e si ficcano in quattro in una carrozzella dove due stanno abbastanza male, quei provinciali che costituiscono la gran rendita estiva di Napoli, paurosi del cattivo tempo, sempre contando di partire la settimana prossima, finirono per non muoversi dai loro paesi. Quelli che erano giunti nella prima settimana di luglio e contavano di restare sino alla fine di agosto, dopo aver potuto prendere un bagno sopra cinque, affrontando il mare in collera, intimiditi e scoraggiati, avevano finito per andarsene, a Campobasso, ad Avellino, a Benevento, a Potenza, con molto dolore delle fanciulle e dei giovanotti. Una stagione perduta! All'albergo dei Fiori, n piazza Fiorentini, all'albergo Campidoglio, n piazza Municipio, all'albergo Centrale Fontana Medina, vi era il deserto; in quanto all'albergo dell' Allegria in piazza della Carità, il grandissimo ritrovo della provincia, era un lutto. Ai temporali si alternavano le giornate caldissime, estenuanti, una vera temperatura africana: e gli stabilimenti di bagni, De Crescenzo, Cannavacciuolo, Sciattone, Manetta, Pappalardo, avevano cinque giorni di vuoto, e uno di troppa gente: i proprietarii crollavano il capo, mentre le bagnine, scalze, con una camicia e una gonna., un cappello di paglia sul capo, brune, magre, dai denti neri, dalla voce roca, correvano dietro, sull'arena brunastra, alle lenzuola di un biancore dubbio, che il vento soffocava e minacciava di lanciare al mare. Quella pioggia, quella pioggia! Le trattorie del centro di Napoli languivano; ma quella che mette i suoi tavolini all'aria aperta sulla banchina di Santa Lucia, ma le trattorie che vanno da Mergellina a Posillipo, il Bersaglio, a Schiava, l Figlio di Pietro, o Scoglio di Frisio, he fondano la loro fragile esistenza sul bel tempo, nell'estate e nell'inverno, quelle, sì, che soffrivano col capocuoco che sbadigliava in cucina, e coi pochi camerieri rimasti che sbadigliavano, sonnecchiando, nella temperatura afosa, che il temporale non arrivava a vincere, e solo le mosche dal volo basso ronzavano, ronzavano, sui tavolini inutilmente apparecchiati. Uno sciopero generale: e un coro di lamenti, di imprecazioni che si sollevava, a ogni nuovo scoppio di acquazzone. Finanche le serate alla Villa, intorno alla cassa armonica, dove la banda municipale suona le sue vecchie polke e le sue variazioni sulla Forza del destino, di antichissima data, dove basta aver due soldi da pagar la sedia, per godersi uno spettacolo grazioso di folla borghese seduta o in giro, due soldi per stare al fresco e per udire l'ingenuo concerto, finanche quelle serate così semplici, così economiche, così popolari, erano guastate. Fra le ragazze borghesi, per cui la Villa è un'occasione di mostrare i loro modesti vestitini bianchi, in casa cuciti e in casa stirati, un'occasione per vedere l'innamorato, anche da lontano, sotto una fiammella vacillante di gas, e di fare un altro passo sulla via, talvolta molto lunga, che conduce al matrimonio, fra queste ragazze era tutto un pianto segreto: e l'affittuario delle sedie si aggirava nei viali deserti, umidi, pieni di lumache, vedendo se nessuno veniva ad affrontare il cattivo tempo: o, disperato, si raccoglieva in un angolo del caffè Vacca, a discorrere dei suoi guai con uno dei camerieri. Che stagione! La figliuola e il figlio di don Domenico Mayer, che negli altri anni andavano ogni sera alla Villa, a piedi, nell'andare e nel tornare, facendo tre o quattro chilometri, spendendo quattro soldi, solo per sedersi, quest'anno crepavano di caldo e di noia nel loro quartino del palazzo Rossi. Ma il padre anche, era così torvo! E la madre era anche più malaticcia e piagnolosa del solito. Mala stagione! Mala stagione per le tre sorelle, disperse in tre punti di Napoli, Carmela la sigaraia, Annarella la serva e Maddalena la giovane che viveva nel peccato. Anzi tutto era loro morta la madre, nel basso he la povera vecchia abitava insieme con Carmela; e malgrado che avesse avuto la cassa dei poveri dalla sezione Pendino e fosse stata buttata nella fossa comune, nel gran carnaio dei miseri, a Poggioreale, pure Carmela aveva dovuto spendere settanta o ottanta lire senza neanche aver la consolazione di sapere che sua madre era stata seppellita in una tomba separata. Per qualche tempo, Carmela aveva pagato una piccola rata settimanale a una Congregazione pia, per poter avere, alla sua morte o a quella di uno dei suoi, l'accompagnamento, la carrozza e la fossa separata; ma i debiti, la miseria, il giuoco, fatto per disperazione, le avevano impedito di continuare a pagare le rate e aveva tutto perduto. Era rimasta senza la madre, in quel basso mido e buio, indebitata fino agli occhi e senz'aver dodici lire per farsi un vestito di teletta nera, niente: portava un vestito di percalla, chiaro, con un fazzoletto nero al collo: e anche le vicine la criticavano per questa mancanza di cuore! Il suo eterno fidanzato, Raffaele, salito adesso a più alti gradi della gerarchia camorristica, per aver preso parte a due famosi duelli o dichiaramenti, er essere notato come pregiudicato nel libro della Questura, massime dopo la morte della vecchia madre di Carmela si era mostrato sempre più sdegnoso, sfuggiva la presenza di Carmela, e quando costei lo perseguitava alle porte delle osterie, nelle taverne suburbane, egli la brutalizzava, tanto più che ella era diventata misera in canna, e non gli poteva dare ogni tanto le cinque lire, le due lire che egli le chiedeva superbamente e che ella umilmente gli dava. Un sottile sospetto cresceva nell'animo della fanciulla e fra la morte della madre, la soverchiante povertà, e il sospettato tradimento di Raffaele, o Farfariello, lla smarriva la testa, mancava spesso alla Fabbrica del Tabacco, perdeva la giornata, o lavorava così distrattamente, così male, che la multavano: al sabato raccoglieva pochissimo e spesso, nella settimana, si sdigiunava con due soldi di pane secco, bagnato nell'acqua dei maccheroni, che le regalava una vicina meno povera di lei. Ah era troppo, era troppo, per una persona che desiderava soltanto la felicità altrui, e che intanto aveva visto morire dagli stenti la madre, abbandonata, poi, alla fossa comune dei poveri, ove le ossa si confondono e che intanto vedeva il fidanzato andar degradandosi per tutti gli scalini del vizio, sino al carcere, sino al delitto, forse; e che intanto vedeva le sorelle languire nella privazione di ogni bene morale e fisico! Adesso con la madre che si era adagiata nel riposo eterno, - come la invidiava Carmela, in certi momenti! - e con Raffaele che si allontanava sempre più da lei, ella, sentendosi il cuore freddo come lo stomaco, andava a cercare più spesso le sorelle. Aveva pensato di andar ad abitare con sua sorella Annarella, per fare economia e per non stare così sola: ma Annarella viveva in un basso el vico Rosariello di Portamedina, lei, il marito, due figli già grandicelli, un basso he aveva per pavimento del terriccio battuto e da anni le pareti non erano state imbiancate: il marito e la moglie dormivano sopra un letto composto di due trampoli di ferro, di tre tavole scricchiolanti appoggiate per lungo sui trampoli, e di un grosso materasso di foglie secche di granturco, il paglione, he ha una apertura nel mezzo, dove si ficca la mano, quando si rifà il letto, e vi si agitano le foglie ammassate. La ragazza dormiva accanto alla madre, nel grande letto coniugale; e al maschio gli si faceva un lettino, ogni sera, sopra due sedie sgangherate. Una miseria intensa, atroce, aveva colpito gradatamente la famiglia del tagliatore di guanti. Costui, non solo giuocava al lotto tutta la sua settimana, ma il venerdì sera e il sabato mattina bastonava la moglie, inferocito quando costei non aveva due lire, una lira, mezza lira da dargli. Ora i due figliuoli, poveretti, cominciavano a guadagnar qualche cosa, la bimba che lavorava da una sarta, il fanciullo che faceva il mozzo di stalla; e quando non aveva potuto ottenere nulla da sua moglie, Gaetano andava dalla sarta, dove la sua ragazza era a settimana e la chiamava giù, e tanto insisteva, mentendo, adoperando le dolci frasi o gli schiaffi, occorrendo, che arrivava a cavar sempre qualche soldo dalla ragazzina, la quale se lo faceva anticipare dalla sarta, sulla settimana. Col figliuolo, che aveva già dodici anni, il padre era più cattivo: il piccolo mozzo gli rifiutava spesso i denari, rinfacciandogli il suo vizio e la miseria in cui lasciava sua madre: il padre faceva piovere i ceffoni, il ragazzo, soffocato dalle lagrime, gridava, bestemmiava, si dibatteva, accorreva gente a sentir dare del briccone, dell'assassino, da un fanciullo a suo padre. Una volta, che il padre gli aveva dato un pugno sul naso, facendolo schiumare di sangue, il ragazzo, furioso, gli morsicò la mano. Al sabato sera, quando tornavano a casa, i ragazzi portavano le tracce delle busse paterne e trovavano la madre che aveva dimenticate quelle toccate da lei, e piangeva sulle teste dei poveri figliuoli, domandando loro: - Quanto ti ha portato via? - Quattordici soldi, - rispondeva Teresina, malinconicamente. - Mi ha levato mezza lira, - diceva Carmine, rabbioso. - Oh Gesù, oh Gesù, - esclamava la madre, piangendo. Ma quello che non le poteva uscire dalla mente, era il suo bambinetto di due anni e mezzo, che era morto per cattivo latte, per cattivo nutrimento, per aver languito in quel negro basso, ove l'umido gocciolava in està e in inverno. Se si nominava Peppiniello, per caso, ella impallidiva, e nulla, nulla poteva levarle dalla mente che il vizio del marito avesse ucciso il piccolo figlio. Aveva conservato pietosamente la grande cesta ondulante, che fa da culla ai bimbi poveri napoletani, lo sportone; a aveva venduto prima il cuscino, poi il piccolo materasso di foglie di granturco; e un giorno di gran fame, non sapendo come procurarsi qualche soldo, aveva venduto anche lo sportone. Ma la separazione era stata così straziante, che la madre, seduta sullo scalino della porta, senza curarsi di chi passava pel vico Rosariello, aveva pianto per un'ora col capo nel grembiule: - Tu lo sai, Peppiniè… tu lo sai… - mormorava, come se chiedesse perdono al piccolo morto, di aver venduto la sua culla. Poi l'estate era giunta, così temporalesca, e aveva peggiorato la posizione della famiglia di Annarella. Dei due mezzi servizii che faceva, ella ne aveva perso uno, dieci lire: erano degli affittacamere e poiché avevano delle camere sfitte, avevano licenziata la serva. La ragazza, Teresina, aveva veduto diminuire la sua settimana, poiché la sarta non aveva lavoro, e non volendo addirittura mandar via quella ragazzina, per carità le faceva fare i servizi di casa. Il cocchiere, presso il quale Carmine era mozzo di stalla, partiva con la famiglia del padrone, per quattro mesi, per la campagna e avrebbe portato via il piccolo mozzo. Ma il padre, Gaetano, sapendo che dal figliuolo qualche soldo lo ricavava sempre, magari bastonandolo di santa ragione, non permetteva che andasse via, voleva che cercasse un altro servizio, in Napoli: e Carmine strillava, piangeva, imprecava, minacciando di partire di nascosto: - Me ne vado, mammà, me ne vado di nascosto e papà non vede più un centesimo mio, sapete! Ve li mando a voi, mammà, i denari, dentro una lettera, e papà non deve aver niente!… - Figlio mio, che t'ho a dire? - si lamentava la madre, a cui stringeva il cuore anche quella partenza. Ma la tortura maggiore di Carmela, di Annarella e anche di Gaetano, il tagliatore di guanti, erano i debiti che avevano con donna Concetta, la strozzina. Anche costei aveva sofferto i danni della mala stagione, poiché i suoi debitori non pagavano, pressoché tutti, e non avevano, oramai, neppure i soldi dell'interesse settimanale. Ella non prestava più un soldo a nessuno, inasprita, truce, provando anche lei le strette della miseria altrui; chiudendosi, alla notte, in casa con le sbarre di ferro contro le porte, poiché aveva in casa i titoli di rendita e i libretti della cassa di risparmio: ma ciò la metteva in uno stato di continuo furore. Girava tutto il giorno, da una strada all'altra, da un basso un quinto piano, da un'officina a una bottega, correndo dietro al proprio denaro, affannata perché andava sempre a piedi, in preda a una collera che le continue delusioni eccitavano, cominciando a chiedere almeno quei soldi dell'interesse, freddamente insistendo e finendo per fare una scena, urlando, cercando il sangue suo, ome ella chiamava appassionatamente il suo denaro. Ma quelli che più la esasperavano, erano Gaetano, Carmela, Annarella: l'avevano messa in mezzo, fra tutti tre, di un duecento lire, e non poteva avere neppure il primo centesimo, delle dieci lire di interesse settimanale. Oh quei tre, quei tre! Ella andava allo stabilimento Bossi, a Foria, dove Gaetano tagliava i guanti e faceva chiamar fuori l'operaio: costui, talvolta, avvertito da un compagno, faceva dire che non era andato alla fabbrica, in quel giorno. Ma ella si ostinava, diffidente, incredula, passeggiando innanzi alla porta; ed egli finiva per discendere, con un mozzicone spento e nerastro fra le labbra. La scena cominciava a bassa voce, breve, energica, violenta: talvolta, ghignando, poiché il vizio del lotto gli aveva fatto perdere ogni pudore. Gaetano le ripeteva il motto dei napoletani mali pagatori: avendo, potendo, pagando; non avendo, non potendo, non pagando. a ella si metteva a gridare, diceva che sarebbe andata da Carlo Bossi, a lagnarsi: diceva che sarebbe andata dal giudice, e Gaetano, un po' furioso già, ma dominandosi, le rispondeva che ella ci avrebbe guadagnato di farlo scacciare dalla fabbrica e allora, sì, che non avrebbe avuto più un soldo! Il giudice? E che gli poteva fare il giudice? La prigione per debiti non esiste più; il carcere della Concordia ra stato abolito, da quei signori che non potevano pagare i loro grossi debiti. E allora ella era presa dal furore, diventava una strega, tutto il vicinato usciva sulle porte e sui balconi: egli l'ascoltava, pallido, mordendo il mozzicone nero. Un giorno la minacciò, sottovoce, di squartarla. Mormorando vaghe parole di minaccia, stringendosi rabbiosamente nello scialle, donna Concetta si allontanava, con quell'ondulante andare delle popolane ricche e indolenti, col capo un po'inclinato sopra una spalla, e la faccia ancora un po' stravolta dalla scena avuta. E giacché si trovava a Foria, giacché la giornata delle sigaraie finiva alle quattro, ella si andava ad appostare in piazza SS. Apostoli, alla porta della Fabbrica, aspettando che uscisse la sigaraia, per chiederle il suo danaro. Non era sola, ad aspettare: poiché si riunivano a quella porta altre donne, che avevano prestato il denaro o la roba a quelle operaie, con un forte interesse: e fra loro, conoscendosi, riconoscendosi, sentendosi solidali nelle leggi dell'usura, era tutto un lamento, un lungo lamento, sulla inesattezza, sulla morosità delle loro debitrici, era un dichiararsi rovinate dalla mala stagione e dalla mala volontà; e le parole il sangue mio, il sangue nostro itornavano itornavanocontinuamente, come grido di dolore che parlasse del denaro perduto. Non era permesso mandare a chiamare, sopra, nessuna operaia: ma le usuraie attendevano, come i venditori di commestibili, come i fruttivendoli, le operaie, all'uscita: le povere donne che venivano dalla Fabbrica con le facce pallide dalle esalazioni cattive della foglia e le mani macchiate sino ai polsi, comperavano qualche cosa per portare a casa, per dar da mangiare, dopo la giornata di lavoro, alla loro famiglia. Le usuraie si mescolavano ai venditori di erbaggi, di pastinache in aceto, di frittelle, e pazientemente aspettavano, tirandosi la scialle sulle spalle, con quel moto familiare. Alla fine le donne, dopo che erano state frugate, una a una, da una soprintendente al lavoro, per vedere se avessero rubato delle foglie di tabacco, uscivano: alcune sgattaiolavano, altre si fermavano a comperare i broccoli di rape, o le patate, o due soldi di frittelle: e le più smorte, certo, erano quelle che ritrovavano, fuori, le creditrici: la più smorta, fra tutte, e non per la puzza del tabacco, ma per la vergogna, era Carmela. Cercava di portarsi donna Concetta verso via Vertecoeli o verso i Gradini dei Santi Apostoli, per non fare udire i discorsi di costei alle sue compagne: ma donna Concetta rallentava il passo e alzava la voce. Voleva il suo denaro, il sangue suo, ra una vergogna non darglielo: voleva almeno l'interesse: gli occhi della sigaraia s'empivano di lacrime a quelle ingiurie e avendo qualche soldo in saccoccia, le era impossibile resistere, lo consegnava a donna Concetta; ma era tanto poco, sempre, che quel sacrifizio in cui lei dava via il suo cibo della giornata, non le valeva che nuove ingiurie, che ella ascoltava a capo basso, perseguitata da donna Concetta per via Arcivescovato, per via Gerolomini: l'usuraia, a un certo punto, si accorgeva che la ragazza non aveva più denaro e che era inutile tormentarla. Ma Carmela, anche quando donna Concetta si era allontanata, conservava il brivido di vergogna che le davano quella voce aspra, quelle parole offensive; e stanca, abbattuta, senza un centesimo in tasca, dopo una giornata di lavoro, ella tornava a invidiate sua madre che era morta. Certo anche lei aveva quel vizio del giuoco, ma era a fin di bene, per dar denaro a tutti, per far felici tutti, se guadagnava; si faceva cavar le lire da Raffaello, o'Farfariello: a che per questi peccati veniali dovesse esser così duramente punita, le rodeva l'animo. Ah in certe giornate, in certe giornate, come volentieri si sarebbe buttata nella cisterna del grande palazzo, dove era la Fabbrica, per non udire niente, per non sentire niente più. Ma donna Concetta, non dissetata da quella goccia di acqua, che erano i pochi soldi di Carmela, risalendo a casa sua, prima di entrare nel portoncino, ogni sera, si affacciava al basso el vico Rosariello dove abitava Annarella; costei stava seduta presso il letto, spesso all'oscuro, non avendo da comperar l'olio, dicendo il rosario con sua figlia Teresina: donna Concetta si segnava e aspettava che il rosario fosse finito, per chiedere i suoi quattrini, inutilmente, come accadeva ogni giorno: Annarella non sapeva fare altro, che rispondere con qualche sospiro, con qualche lamento: e quando donna Concetta dava in escandescenze, ella si metteva a piangere. Teresina interveniva, parlando all'una e all'altra donna: - Non piangete, mammà, fatemi questa finezza… E all'usuraia: - Non lo vedete, donna Concettella, che mammà non ha denaro? - Figlia mia, figlia mia… - singhiozzava Annarella, a cui tutte le disgrazie della sua esistenza venivano a soffocare le parole. La strozzina non si lasciava commuovere. Era tanto abituata alle false lacrime di coloro che volevano truffare il suo denaro, che non credeva più a nessun dolore, ed era solamente quando aveva esaurito tutto il suo vocabolario d'ingiurie, che si decideva ad andarsene, lentamente, con quel suo passo pieno di mollezza, borbottando ancora che si sarebbe fatta giustizia con le sue mani, contro i ladri del sangue suo. a madre e la figliuola restavano sole, al buio, in quel caldo afoso e umidiccio del basso, e rispondendo a un suo pensiero interiore la povera serva esclamava: - Anima di Peppiniello, fammela tu questa grazia! Quando poi Carmela e Annarella si trovavano insieme per la via, o nel basso el vicolo Rosariello, era un lungo sfogo di dolori, era un racconto alternato, dove scoppiavano tutte le amarezze fisiche e morali della loro triste esistenza. Quella bonafficiata, he mala sorte, che sorte infame, non mai dare un quattrino di vincita e invece prender loro tutto, tutto, anche il tozzo di pane che serve a non morire d'inedia! E ogni tanto, attraverso tutta la narrazione della loro miseria e della loro solitudine, veniva il discorso su quella terza infelice che era loro sorella, Maddalena. Che faceva? Come sopportava la sua vita di peccato? Due volte Carmela era andata a trovarla nel larghetto, dopo le scalette di Santa Barbara, ma una volta era fuori, e l'altra volta l'aveva trovata così fredda, così mutata, come colpita da un rammarico profondo, che Carmela, presa dall'emozione, era scappata via, subito subito. Una volta Annarella aveva incontrata Maddalena per via, vestita di azzurro e giallo, col solito nastro rosso al collo; e le aveva chiesto perché non portasse il lutto della madre. - Non sono degna, - aveva risposto Maddalena, abbassando gli occhi e allontanandosi col suo passo molle, sui tacchi alti delle scarpette di lustrino. E in tutto questo, Carmela sentiva, oltre i guai noti, oltre la sequela delle miserie e delle umiliazioni, qualche cosa di segreto che le sfuggiva, come una disgrazia ignota che le si aggravasse sul capo, come la fatalità suprema che cominciasse a circuirla, non lasciandole via di uscita. Che era? Non sapeva bene, non si rendeva conto: ma era forse la profonda indifferenza di Raffaele e la brutalità con cui la trattava; era forse il contegno truce del cognato Gaetano, il tagliatore di guanti; era forse l'aspetto strano della sorella Maddalena, di cui ella non osava andar a prendere notizia. E fra loro due, da tempo, un gran progetto si andava maturando, per trovar rimedio ai loro guai. In tutto il popolo napoletano vi sono donne che hanno fama di grandi maghe, di fattucchiare merite, ai cui filtri, ai cui esorcismi, alle cui fatture ulla resiste; alcune, anzi, hanno una clientela larga, assai più di quella che può averla un medico, e quasi ogni quartiere si vanta della sua maga, capace de' più bizzarri miracoli, sempre però coll'aiuto di Dio e della Madonna. Ma la riputazione della gran fattucchiara hiarastella che abitava lassù, lassù, al vicolo Centograde, presso il corso Vittorio Emanuele era immensa: non vi era bottega, o basso, strada, o piazza, o crocicchio, dove non si conoscessero e non si raccontassero i prodigi di Chiarastella. Si dicea, dappertutto, che per avere la fattura i Chiarastella, bisognava chiederle cose a cui non fosse contraria la volontà di Dio: ma che nessuno, avendo obbedito a questa regola, era uscito malcontento dalla casetta delle Centograde. Niuno osava mettere in dubbio il potere magico di Chiarastella, fra il gran popolo napoletano: e se, nelle botteghe dei pizzicagnoli e dei pastaiuoli, dove le comari giovani e vecchie chiacchierano così volentieri o innanzi ai trespoli e alle canestre delle venditrici di ortaggi, dove le donnette contrattano per tre quarti d'ora un fascio di boraggine; o sulle porte dei bassi ove si discorre così a lungo e così animatamente, se qualcuna ignorante udendo i miracoli della fattucchiara elle Centograde, levava le sopracciglia per sorpresa, per incredulità, venti voci affannose, commosse, entusiaste le raccontavano i grandi fatti operati da Chiarastella. Qua un marito traditore, ricondotto alla giovane sposa; là un giovanotto che moriva di etisia, guarito, quando i medici lo avevano licenziato; altrove una sarta che aveva perduta tutta la clientela e che l'aveva veduta ricomparire, a poco a poco, per influenza della maga; altrove una ragazza insensibile che induceva, con la sua freddezza, l'innamorato alla mala vita e al delitto; e sopratutto la legatura della favella; uella, quella era la gran fattura di Chiarastella! Tutti coloro che avevano una lite, un processo, dove potevano esser sopraffatti dall'avversario o dalla giustizia, dove poteano rimettere i denari, o l'onore, o la libertà, o la vita, ricorrevano disperatamente alla magia di Chiarastella: costei, udito il fatto, se lo giudicava morale, conforme alla volontà di Dio, si prestava a legar la favella dell'avvocato avversario. Consisteva in una cordicina fatturata con tre nodi, quante sono le persone della Trinità, che bisognava trovar modo di metter addosso all'avvocato, in una tasca, nella fodera del vestito, la mattina dell'udienza decisiva: e con l'aiuto delle preghiere, l'avvocato avversario non avrebbe potuto dire essuno dei suoi argomenti, sebbene li avesse in mente, li pensasse: la sua favella era legata, la lite, per lui, era perduta, la fattura aveva raggiunto il suo scopo. Si citavano esempi in cui gli innocenti, gli oppressi, quelli contro cui si esercitava la grande ingiustizia umana, erano stati così salvati da Chiarastella. Ed era da tempo che Carmela e Annarella avevano pensato di ricorrere a Chiarastella; Carmela per ridestare all'amore il cuore di quel Raffaele che non era mai stato suo, e adesso meno che mai; Annarella per indurre Gaetano, suo marito, a non giuocare più al lotto. Carmela, per tentare, ci era già stata, lassù, tre volte, alle Centograde: e per avere la fattura da Chiarastella ci volevano cinque lire per ciascuna, e certi piccoli ingredienti da comperare. Dopo, se le due fatture riuscivano, secondo la volontà di Dio, le due sorelle avrebbero fatto un grosso regalo alla maga. Chiarastella non prometteva mai certamente nulla: ella parlava sempre misticamente e in una forma di dubbio: ella aveva dei profondi silenzi, a certe domande; e pareva che non si curasse del denaro, si contentava solo di poco, per vivere, contando sulla riconoscenza di quelle cui la fattura riesciva, per averne un dono più importante. Dopo… ma intanto dieci lire ci volevano, al minimo, se no, non se ne faceva nulla, e per quante privazioni subissero, in quell'estate così cattiva, giammai le due sorelle avrebbero potuto metter da parte, tutte insieme, dieci lire. Ma i giorni passavano, e le loro miserie morali urgevano quanto le materiali; non trovavano altro rimedio, oramai: e sebbene a malincuore, Carmela si decise a vendere il vecchio cassettone dal piano di marmo, il mobile più importante della sua stanzetta, il cassettone che aveva comprato sua madre, quando era sposa. Ne trovò, a stento, dodici lire: tutti vendevano in quell'estate maledetta, non vi era più un cane che volesse comperare due soldi di roba! La poca biancheria ella la mise in una canestra chiusa, sotto il suo letto, e quei grami vestiti li sospese a una cordicella, attaccata a due chiodi, lungo il muro umido. Ma aveva dodici lire! Fu in una domenica della fine di agosto, dopo aver udito la messa nella chiesa dei Sette Dolori, che le due sorelle si avviarono per il vicolo delle Centograde. Carmela aveva chiusa la casa e ne portava la chiave in tasca; Annarella vi aveva lasciata sua figlia Teresina, che si aggiustava una vesticciuola lacera, dopo esser restata sino a mezzogiorno al lavoro, dalla sarta. Erano otto giorni che Carmela, vagando per Napoli nelle sue ore di libertà, non arrivava a trovare Raffaele: e Gaetano, il marito di Annarella, in quella notte dal sabato alla domenica, non era rientrato a casa. Nella chiesa dei Sette Dolori, inginocchiate innanzi alla panca di legno bruno, dove si mettono i poveri, perché non si paga, esse avevano assai pregato, durante la messa, e ora ascendevano faticosamente gli scalini dell'erta scala che conduce da via Sette Dolori al Corso Vittorio Emanuele, non parlando, comprese in un raccoglimento di vaga speranza e di vaga paura. Chiarastella, la fattucchiara, bitava propriamente in un vicoletto cieco, silenzioso, ma luminoso, a destra della vasta scala che mette in comunicazione la grande arteria della collina, con le piccole vene della Pignasecca, della Carità, di Montesanto. Una gran pace era in quel vicoletto cieco, ma lo scirocco umido di quell'estate aveva bagnato, di un lieve strato di fanghiglia, i ciottoli rotondi del selciato: tanto che vi si camminava con precauzione, per non scivolare, e senza fare alcun rumore. - Ci aspetta? - dimandò a fior di labbro Annarella, che ansimava per le scale fatte. - Sì, - disse anche sottovoce Carmela, entrando nel portoncino. Salirono al primo piano: sullo stretto pianerottolo, vi erano due porte che si prospettavano. Una era chiusa ermeticamente, anzi vi era stato messo il catenaccio, donde pendeva un grosso lucchetto, anche di ferro; pareva che gli abitanti ne fossero partiti, dopo una sventura, serrando per sempre il tetro soggiorno. La porta a sinistra era socchiusa: ma le sorelle, udendo un singhiozzare sommesso, di là, non osarono entrare senza bussare: fu rabbrividendo che Carmela tirò una zampetta bruna di scimmia, attaccata a una catena di ferro a grossi anelli, donde pendeva internamente il campanello: la zampetta nera imbalsamata faceva orrore, era pelosa di sopra, rosea di dentro, sembrava la mano di un bimbo moretto, ammazzato, di cui là si trovasse un brano. Tinnì il campanello, stridulamente e lungamente, quasi non volesse mai tacere: una serva vecchia, decrepita, curva, con un naso aguzzo che pareva si volesse ficcare nella bocca rincagnata, le cui labbra coprivano le gengive senza denti, apparve: e trattenne, con un cenno dell'antico capo, le due donne, nella strettissima anticamera, priva assolutamente di mobili, un po'umida per terra. Il singhiozzare, di là, continuava, dietro un'altra porta chiusa, quasi soffocato: poi si appressò, la porta si schiuse e una ragazza del popolo, una sartina, la bionda Antonietta, attraversò l'anticamera, con lo scialletto che le cadeva dalle spalle, e il volto nascosto nel fazzoletto dove piangeva. Una sua compagna, più piccola, Nannina, le teneva un braccio attorno alla cintura quasi volesse sostenerla, e le andava ripetendo, per consolarla: - Non importa, non importa… Ma quella singhiozzava più forte: la serva decrepita schiuse la porta d'entrata e mise fuori le due ragazze, quasi spingendole: poi disparve, di là, senza dire una parola a Carmela e ad Annarella. Costoro, già turbate dal sentimento che le spingeva a invocare la potenza della fattura, erano state commosse da quel passaggio di quelle fanciulle, una inconsolabile, l'altra invano consolatrice: e appoggiate alla finestrella dell'anticameretta, aspettavano, con gli occhi bassi, con le mani incrociate sul grembiule che tenevano fermi i capi dello scialle, senza dire una parola. Un grande silenzio, intorno, nell'afa umidiccia estiva, in quel lungo pomeriggio domenicale. E Annarella, più dolce, più afflitta e insieme meno appassionata, avendo già curvate le spalle alla fatalità del suo destino, sentendo una sfiducia crescente in qualunque mezzo di salvazione, sapendo che Gaetano non sarebbe mai ricondotto da nessuna preghiera, da nessuna fattura, non provava altro, attraverso la sua malinconia, che una impressione sempre più distinta di spavento. Invece Carmela, dall'animo ardente di amore che nessuna forza arrivava a domare, sentiva l'esaltazione della passione accenderle le fiamme, nell'anima: non temeva, no, avrebbe affrontato qualunque spettacolo, qualunque pericolo per aver a sé, nuovamente, il cuore di Raffaele. Ma la decrepita serva dal corpo piegato ad arco, che pareva si volesse ricongiungere con la terra, era comparsa di nuovo nell'anticameretta e aveva fatto segno a Carmela di entrare. Senza far rumore le due sorelle sparirono nell'altra stanza, la cui porta si chiuse dietro a loro. - Ecco mia sorella, - mormorò Carmela, scostandosi per presentare Annarella che le si trovava alle spalle. Chiarastella fece un cenno col capo, per salutare. La fattucchiara ra una donna di media statura, piuttosto piccola che grande, molto magra, con certe mani brune, lunghe e sottili, la cui pelle attaccata alle ossa si era fatta lucida: il corpo aveva movimenti automatici, quasi che una volontà ne irrigidisse ogni muscolo: la testa era piccola e il volto corto, coi pomelli forti e rossi, con le mascelle salienti: la carnagione era di un pallor livido e caldo, il naso all'insù, breve. Ma l'interessante, nel volto nevrotico della fattucchiara, rano un par d'occhi dallo sguardo mobilissimo, la cui tinta variava dal bigio al verdastro, ma dove si vedeva sempre un punto luminoso, una scintilla: uno sguardo che riassumeva in sé tutta la vitalità della persona. Sembrava che avesse quaranta e più anni, Chiarastella, i cui capelli si conservavano nerissimi e la cui fronte era tagliata da una sola ruga, profonda; ma quando lo sguardo le si accendeva, come una irradiazione di giovinezza si faceva sul suo volto e sulla sua persona. Portava un vestito di lana nera, assai semplice, nel taglio delle vesti che portano le popolane, tal quale: solo era guarnito di bottoni di seta bianca e un nastro di seta bianca le pendeva dalla cintura, in un fiocco e due lunghi capi, sul fianco. Il bianco e il nero sono i colori del voto alla Madonna Addolorata. Un grosso, ritorto corno di corallo rosso le pendeva dal collo, attaccato a un cordoncino sottile di seta nera: e nei suoi gesti a scatto la fattucchiara occava occavacon le dita, ogni tanto, questo corno. Stava seduta, accanto a una larga tavola di noce, su cui era posata una scatola di ferro, di acuto lavoro artistico, una scatola di lavoro antico, chiusa: accanto ad essa un grosso gatto nero, raccolte le zampe sotto la pancia, dormiva. E intorno, nella piccola stanza, non vi era che un divanetto di percalla, dal disegno scolorito, e cinque o sei sedie, niente altro. Sul muro un crocifisso di legno nero, su cui un Cristo di avorio scolpito, un altro oggetto di arte. Ella taceva, con gli occhi abbassati: e le due sorelle sentivano l'approssimamento, l'invasione di un gran mistero. - Abbiamo portato le dieci lire, - disse timidamente Carmela, cavandole dalla cocca del fazzoletto e posandole sulla tavola, accanto alla mano di Chiarastella. La fattucchiara on batté palpebra: solo il gatto nero levò il capo, mostrando i begli occhi gialli come l'ambra. - Avete intesa la messa? - chiese Chiarastella, senza voltarsi. - Sì, - mormorarono le due sorelle. Ella aveva una voce bassa e roca; una di quelle voci muliebri che paiono sempre cariche di una intensa emozione, e che producono una vibrazione nel cervello, nell'animo di chi ascolta. - Dite tre Avemarie, re Pater noster, re Gloria patri, d alta voce. In piedi, innanzi ad essa, le due sorelle dicevano le sacre parole delle orazioni: ella stessa le diceva, con la sua vibrante voce, con le mani congiunte a preghiera, nel grembo, sul grembiale di lana nera. Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

Pure, l'altro, ancora una volta, insistette, vagamente, quasi per disimpegno verso sé stesso, parendogli di non aver fatto abbastanza per aver quei denari. Ma l'agente di cambio gli diede un'occhiata così dolorosa, che egli non disse altro. - Addio, don Crescenzo… scusate… - Addio, don Ninetto… non vi dimenticate di me, a Roma… - Non dubitate, - disse l'altro, con una debole e strana voce. Si toccarono la mano, senza stringersela: due mani fredde e deboli. Macchinalmente Ninetto Costa accompagnò il tenitore di Banco lotto, sino alla porta, in silenzio: si guardarono un minuto, senza parlare. Poi la porta si richiuse con un suono così bizzarro, così definitivo, he il tenitore di Banco lotto, nelle scale, scendendo lentamente, trasalì. Ebbe quasi un impulso di tornare indietro: gli ritornava in mente che Costa gli aveva detto di non avere un soldo e poi quella valigia così floscia, dove non era nulla dentro! Ma il pensiero dei suoi guai lo distrasse dalla pietà e dal sospetto di maggiore sventura. Adesso, sempre a piedi, per risparmiare anche i denari di una carrozza, si mise a correre per la via di Toledo, come sospinto da un pungolo alle reni, per andare in via San Sebastiano, dove abitava il vecchio avvocato Marzano, un altro suo debitore: anche quello, visto i suoi affari professionali, se non aveva denari da pagar subito, ne poteva trovare in piazza; alla fine doveva ottocento lire a don Crescenzo, gliele avrebbe date, don Crescenzo gli si sarebbe messo appresso, sino alla sera. Conosceva bene la sua casa, una povera casa, invero, poiché l'avvocato Marzano giuocava tutto, tutto quello che guadagnava, mantenendo finanche, per sessanta lire al mese, un ciabattino, un cabalista che scriveva i numeri col carboncino, sulla carta. Don Crescenzo salì gli scalini a quattro a quattro, correndo, perché una voce gli diceva, in cuore, che da Marzano avrebbe trovato il denaro: aveva un buon presentimento. Pure, quando mise la mano all'anello di ferro, che pendeva dalla cordicella unta e bisunta, un improvviso terrore lo colse, la paura di non riescire, l'orribile paura che ne paralizzava le forze, la paura degli sventurati, che arrischiano il mezzo da cui dipende la loro vita o la loro morte. Un passo strascicato si fece udire e una voce stridula, domandò: - Chi è? - Amici, amici, - balbettò in fretta il tenitore di Banco lotto. La porta si schiuse con diffidenza e il viso ignobile del ciabattino si mostrò, tutto macchiato di rossa salsedine: e gli occhi cisposi e rossastri del beone fissarono don Crescenzo. - Volete l'avvocato? - domandò, asciugandosi le mani bagnate a un lercio grembiule. - Sissignore. - Non può dar retta. - Ha affari? - È malato. - Malato?? Cosa da niente? - Ha avuto nu tocco in salute vostra. - Gesù! - gridò don Crescenzo, buttando in terra il suo cappello, disperatamente. - E stata la bonafficiata già, si è sempre privato, non faceva una vita buona, mangiava poco, beveva acqua… capite… - Oh Dio, oh Dio… - mormorava don Crescenzo, lamentandosi. - È volontà di Dio… - mormorò il ciabattino, cavando un pezzettino di carta tutto sporco, e prendendone una presa di tabacco giallastro. - Volontà di Dio, che ci volete fare! Non vi disperate, fino all'ultimo vi è speranza. - Lo so io, perché mi dispero! - gridò don Crescenzo. - Dovrei piangere io, - soggiunse il beone, - che gli avevo procurato una fortuna, che mi aspettavo da lui la pace per i miei vecchi giorni, e intanto, per bestialità sua, egli è alla morte e mi abbandona nella miseria, capite! - Ma come è stato, come è stato? - chiese don Crescenzo, mettendosi le mani nei capelli. - Aspettate un poco, ora vengo. E andò di là. Don Crescenzo si guardò attorno, sbalordito dal dolore. La misera stanza non aveva altri mobili che certi vecchi scaffali d'avvocato, pieni zeppi di carte polverose, un tavolino, con due sedie la cui paglia era tutta macchiata. Sul tavolino vi era un bicchiere, con un paio di dita di vino bluastro, il grosso vino pesante di Sicilia. Per terra non si era spazzato da tempo: le mura eran piene di ragnateli: i vetri delle finestre erano coperti dalla polvere e un puzzo di sporco, di stantio, di muffito, afferrava alla gola. Ed era questa la casa dell'avvocato, di colui che era stato uno dei più grandi avvocati del suo tempo e che aveva guadagnato migliaia e migliaia di lire, nella sua professione! Don Crescenzo sentì stringersi il cuore in una morsa di sangue e le mani gli si gelarono: veniva qui, in questa dimora di povertà, di onta, di morte, a cercare le sue ottocento lire per salvarsi? Oh che follia, che follia era la sua! Non era forse meglio fuggire, giacché ritrovava dovunque le stesse tracce di disonore e di miseria, dovunque? Ma il ciabattino ritornava: - Che fa? - chiese sottovoce don Crescenzo. - Sta assopito. - Dorme? - No, è la malattia. - Che gli hanno dato? - Gli hanno cavato sangue: poi ha una vescica di ghiaccio sulla testa e un'altra sul petto. - Parla? - Non si capisce quello che dice. - Ha perduto il movimento? - Solo per il lato destro. - Che dice il medico? - Che deve dire? È cosa di morte. - E torna, il medico? - Chi lo sa? Non vi è da pagare. Ho trovato sette lire e un orologio di nichel, che non si può impegnare. Ho speso già tre lire di ghiaccio: quando le sette lire saranno finite, ci fermiamo. - Ma come è stato, come è stato? - chiese ancora, disperatamente, don Crescenzo. - Mah! Tante cose sono state. Ha avuto certi dispiaceri, sapete, l'uomo sempre uomo e… aveva bisogno di denaro… ha cercato di averne, in tutti i modi… - E che ha fatto? - chiese l'altro, sgomento. - La mala gente dice che ha falsificato la carta bollata, lavandola, sapete, quella già scritta e mettendola in corso, di nuovo. Ma non deve esser vero! Mi lascia nella pezzenteria, è stato ingrato con me, ma non deve esser vero… non ci potrò credere mai. Pare che la mala gente sia arrivata sino al presidente del Consiglio dell'Ordine, che lo ha chiamato… pare che ci sono state brutte parole… infine, dispiaceri. - Oh povero, povero! - esclamò a voce bassa don Crescenzo. - Questa chiamata del presidente è stata per lui una cosa mortale… che vi pare, un galantuomo sentirsi insultare, è cosa insopportabile… voleva partire, l'avvocato Marzano, andarsene in qualche paese, dove vi è più educazione. - Partire, alla sua età? Con sette lire in tasca? - Io lo avrei accompagnato, - mormorò modestamente il ciabattino beone. - Per il bene che gli volevo, mi acconciavo ad andarmene: e in quanto ai denari… ecco la vera ragione del tocco! Come sarebbe? - Voi sapete, don Crescenzo, che i miei lavori di matematica, con l'aiuto di Dio, hanno fatto sempre guadagnare denaro all'avvocato. - Sì, sì, ogni tre o quattro mesi, un ambo… soggiunse scetticamente don Crescenzo. - V'ingannate, si può dire che io l'ho beneficato, e quelle misere sessanta lire che mi dava, al mese, perché io non battessi più sulle suole delle scarpe e facessi la cabala, erano neppure la centesima parte di quello che guadagnava, al mese! Ora mi abbandona, l'ingrato, così!… basta, per dirvi, ieri, io gli avevo dato, simbolicamente, certi numeri che dovevano uscire necessariamente e sono usciti, capite! - E ha guadagnato? - Niente: non li ha capiti, ne ha giuocato degli altri, la mente non lo aiutava più. Quando lo ha saputo… gli è venuto l'insulto… in salute vostra. - Ma gli avete veramente detto quelli che erano i numeri buoni? - Innanzi a Dio: ma non li ha capiti. - E perché non li avete giuocati voi? - Sapete bene che noi on possiamo giuocare… - Ah già, è vero. Tacquero. Il ciabattino portò alle labbra il bicchiere e bevve un sorso di vino. - Vorrei vederlo, - chiese don Crescenzo, improvvisamente. Entrarono nella stanzetta da letto, povera e sporca, come lo studietto. L'avvocato Marzano giaceva sopra un misero lettuccio di ferro, sollevato sui cuscini, le cui fodere erano di una bianchezza assai dubbia: sulla canuta testa posava la vescica di ghiaccio: un'altra ne posava sul petto, denudato, scheletrito, e il corpo scarno, piccolo, era coperto da una coltre brunastra, di quelle che si mettono sul dorso dei cavalli. Sul tavolino da notte vi era un bicchiere d'acqua, dove nuotava un pezzo di ghiaccio: la mano destra del morente, era avvolta dai nastri neri del salasso. E tutta quella parte destra, dalla faccia sino al piede, era colpita d'immobilità, già morta: mentre la mano sinistra tremava sempre, e tutto il lato sinistro del volto si torceva, ogni tanto, convulsamente. Un confuso balbettìo usciva dalle labbra dell'avvocato: e tutta la espressione dolce e bonaria era sparita, lasciando su quel vecchio volto, già mezzo appartenente alla morte, le tracce di una passione che era giunta sino alla vergogna. - Avvocato, avvocato? - chiamò don Crescenzo, piegandosi sul lettuccio. L'infermo fissò gli occhi velati da un'ombra singolare sulla faccia del tenitore di Banco lotto; ma né l'espressione se ne mutò, né il balbettìo cessò. - Non vi riconosce, - mormorò il ciabattino, pigliando tabacco. Don Crescenzo uscì subito dalla stanza, sentendosi aggravare sull'anima l'incubo. - Siete amico, volete lasciargli qualche cosa? - chiese il ciabattino. - Ho quattro lire, morirà come un cane! Allora tutto il represso dolore di don Crescenzo scoppiò. - Mi doveva ottocento lire, e sono rovinato, se non le ho per mercoledì! Egli muore, ma io campo e sono assassinato! Egli muore, ma i miei figli dormiranno, fra un mese, sui gradini di una chiesa! Egli se ne muore almeno, ma noi tutti camperemo di disperazione, capite! - Scusate, - disse il ciabattino, sgomento. - Assassinato, assassinato! - singhiozzava l'altro. - Tacete, può sentirvi; che ci volete fare? E bevve l'ultimo sorso di vino bluastro, che aveva lasciato in fondo al bicchiere. Don Crescenzo fuggì. Ora, a intervalli, sentiva che gli si smarriva la testa e aveva bisogno, per raccapezzarsi di pensare sempre alla parola mercoledì. ure, istintivamente, con quella direzione automatica degli infelici che vanno al loro destino, risalendo per Port'Alba si diresse al vicolo Bagnara, dove abitava il professor Colaneri; anche Colaneri gli doveva denaro e gliene prometteva di settimana in settimana, sempre rimandandolo a mani vuote, o consegnandogli delle piccolissime somme. L'ex-prete abitava a un quarto piano del vicolo Bagnara, in una casa dove lui, una povera infelice di stiratrice che gli aveva dato retta e con cui viveva coniugalmente, quattro figliuoli malaticci dalle grosse teste e dalle gambe storte, vivevano in due stanze, litigando, gridando, battendosi e piangendo tutto il giorno. Egli aveva nascosto alla stiratrice di essere stato prete; e la disgraziata, credendo di diventare una signora, gli aveva dato retta; e da sei anni viveva in uno stato di servaggio, fra le gravidanze, la indecente miseria, il lavoro da serva che ella faceva, tutto il grossolano lavoro, e quella torma di figli brutti, piagnolosi e continuamente affamati, su cui ella si vendicava, schiaffeggiandoli, degli schiaffi di cui le era prodigo suo marito. Una casa infernale, dove il padre portava tutte le torbide preoccupazioni del giuoco e dei mezzi ignobili, talvolta colpevoli, con cui si procurava denaro per giuocare: due volte don Crescenzo vi era stato, ma aveva assistito a tali scene nauseanti che era scappato via, cacciato quasi dalle male parole della stiratrice e dai pianti dei quattro demoni. Ma ora, che importava? Colaneri gli doveva settecento e più lire: di un debito di novecento non aveva pagato, in tre o quattro mesi, che duecento lire, anche meno; Colaneri, perdio, non era fallito come Ninetto Costa o apoplettico come l'avvocato Marzano, Colaneri doveva pagare. - Vi è il professore? - Sissignore, - rispose una vecchia donna, che funzionava da portinaia. Allora salì rapidamente e alla porta gli venne ad aprire la stiratrice, spettinata, con un grembiale di cucina tutto unto sulla vestuccia di lanetta, le guance incavate, il petto smunto e un dente mancante sul davanti, per cui farfugliava un poco: - Vorrei vedere Colaneri. - Non ci è, - disse subito lei, lasciando l'altro sempre fuori la porta. - Vi è, vi è, - disse don Crescenzo, irritato. - Tanto, è inutile che si neghi, io lo aspetto per le scale: deve uscire! - Allora, entrate, - ella disse, di mala voglia. E mentre il tenitore di Banco lotto entrava, subito un moccioso idrocefalo di ragazzo prese un ceffone. E mentre egli aspettava nella stanza che serviva da salotto, da studio, da stanza da pranzo, di là, cioè in cucina, nella stanza da letto e financo nel pianerottolo, scoppiarono le grida della famiglia che litigava. Solo in un intervallo di silenzio, comparve il professore, indossando una vecchia giacchetta tutta macchiata: raggiustandosi, con un moto ecclesiastico, gli occhiali sul naso. - Vengo per denaro, - disse brutalmente don Crescenzo. - Non ne ho, - rispose duramente il debitore. - Non me ne importa, me ne darai. - Non ne ho. - Trovane: voglio le mie settecento lire, oggi o domani, hai capito? - Non ne ho. - Impegnati lo stipendio, fa un debito. - Non ho più stipendio. - Come? Non sei più professore? - No: mi sono dimesso. - Dimesso? - Per forza: mi avevano accusato di vendere i temi degli esami agli scolari. - E non era vero, naturalmente! - Già: ma il complotto per perdermi era bene organizzato. Il preside m'ha consigliato di dimettermi. - Sicché sei sul lastrico? - Sul lastrico. Allora soltanto don Crescenzo si accorse che il viso del professore era pallido e stravolto. Ma questa terza delusione lo esasperava. - Non so che farci: tu mi devi dare le settecento lire. - Hai cinque lire da prestarmi? - Non raccontar frottole, io voglio il mio denaro. Lo voglio per domani, al più tardi, capisci? - Crescenzo, tu metti in croce un uomo già crocifisso. - Belle chiacchiere! Io non posso andare a San Francesco per conto vostro: siete tanti assassini! Vado da Ninetto Costa per denaro e lo trovo che è fallito, che parte per Roma…a far che, non si sa… se è poi vero, che vada a Roma… e niente denaro… Vado da Marzano e lo trovo moribondo… qui tu mi dici che sei sul lastrico… e denaro niente! - Tutte rovine, tutte!… - mormorò l'ex-prete- Ma voi mi volete far morire, mi volete? Ma quando avete avuto bisogno del credito, io ve l'ho fatto, vi ho guarentiti, mi sono compromesso per voi… e adesso volete far morire con me la mia famiglia? Ma tu anche hai figli, devi pensare a dar loro da pranzo, per domani e per moltissimi altri giorni, devi far qualche cosa tu: ebbene pensa a me, pensa ai miei bambini, pensa che siamo cristiani anche noi! - Sai che debbo fare io, domani, per dar pane alle mie creature? - Che so io? So che glielo darai, so che i figli miei non debbono restare digiuni, quando i tuoi mangiano… - Ebbene, senti, io non sono più prete, sono stato scomunicato, sono fuori della Chiesa: lì, quindi, non troverei aiuto; avevo il posto di professore, buono, sicuro, ma l'ho perduto, perché avevo troppo bisogno di denaro; non chiedermi delle confessioni dolorose; non lo riavrò, mai, il mio posto, né un altro potrò mai averne, oramai sono persona sospetta. - Ma che me li racconti questi guai? Li so, li so, e non serviranno ad accomodare i fatti miei. - Ascolta ancora. Io non ho più nessun scampo: e siccome ho messo al mondo degli infelici, mi sento il dovere di dar loro il pane, almeno il pane. Ho giuocato al lotto quello che essi avevano di certo, d'immancabile… ma sono pazzie! Quindi la grande decisione è presa: tutto per tutto! - Che cosa? - domandò don Crescenzo, sorpreso. - Domani accetto le offerte fattemi dalla Società evangelica e divento prete protestante. - Oh Dio! - disse il tenitore di Banco lotto, al colmo della meraviglia. - Già, - disse l'altro, come se inghiottisse a stento. - E… lasci la religione nostra? - La lascio…per la fame. - E… a quell'altra, ci credi? - No: non ci credo. - E come fai a predicare? - Farò… mi abituerò… - Devi rinnegare, eh? - Sì: rinnegare. - Una gran funzione? - Grande. Parlavano sottovoce: la cinica figura di Colaneri si era scomposta, come se non reggesse a quell'idea dell'abiura. Anche don Crescenzo, nella sua stupefazione, aveva dimenticato i suoi guai. - Rinneghi, rinneghi… - andava dicendo. - Rinnego. - Già, avevi tolto l'abito di prete. - Rinnegare, è un'altra cosa, - disse, tetro, Colaneri. - Assai ti dispiace? - Assai. - E che ne hai? - Duecento lire al mese, in un paese dove mi destineranno. - Appena da mangiar pane! - A ogni ragazzo mio che diventerà protestante, daranno una sommetta; potrò sposare la madre. - Ma lasciare la religione di Cristo! - esclamò don Crescenzo, con quell'orrore del protestantesimo, che è in tutte le umili coscienze napoletane. - Che vuoi, è la fame! - mormorò disperatamente il professor Colaneri. Pareva dunque mutato profondamente, anche nel morale: la sua passione del giuoco gli era oramai apparsa in tutta la sua fatalità: vedeva quello che aveva commesso, contro sé stesso, contro il suo talento; e un invincibile ribrezzo lo teneva contro quella apostasia. Aveva fatto il male, era disceso sino alla colpa, brutalmente, corrompendosi in quell'ambiente deleterio: ma ora che si trovava innanzi al castigo, ora tremava, avendo perduta ogni franchezza, tremava di dover rinnegare la sua fede, il suo Dio, per una pagnotta di pane. Don Crescenzo lo guardava e taceva, stupito. Lo aveva sempre ritenuto per un birbone, capace di tutto: e se gli aveva fatto credito, era perché supponeva di potergli sequestrare lo stipendio. Ma ora, in questo giorno supremo, lo vedeva avvilito, turbato sino nell'intimo dell'anima, mosso da una paura arcana della Divinità, che aveva già tradita, che aveva già offesa, che nuovamente egli insultava con la sua apostasia. E don Crescenzo, sebbene ristretto di mente, comprendeva tutto lo strazio di quella coscienza, combattuta adesso nell'ultimo suo baluardo, giunta a quel punto dove la pazienza umana finisce, dove si vivono le ore più dure, più divoratrici dell'esistenza. Così, non osava più dirgli nulla dei suoi denari. Balbettò: - E tua moglie, che dice? - Vorrebbe opporsi… ma i figli, i figli! - E i poveri figli innocenti… anche quelli debbono perdere l'anima? - Sono innocenti… il Signore vede, sarà giusto. E d'altronde, perché mi ha messo con le spalle al muro? Per ogni figliuolo che entra nella chiesa protestante mi dànno una sommetta… - Quando sarà, questo?… - chiese, dopo una esitazione, don Crescenzo. - Fra un mese: ci vuole un mese d'istruzione, per i poveri innocenti. - Troppo tardi, - mormorò l'altro che pensava sempre al suo denaro. - Ti darò un acconto, allora… - disse vagamente l'ex-prete- Troppo tardi: sono perduto. - Che castigo! che castigo! - disse sottovoce l'apostata, celando il volto fra le mani. - Me ne vado, - mormorò don Crescenzo, prostrato oramai, in uno stato di accasciamento profondo. - Abbi pazienza… - Che pazienza: è un castigo, hai detto bene, un gran castigo. Me ne vado, addio. - Addio. Non si guardarono, non scambiarono più nessuna parola, sentendosi ognuno preso, domato dalla terribilità del castigo, senza più alcuna collera, senza rancore, in quell'abbattimento di ogni superbia e di ogni vanità, che dà il castigo divino. Quando fu nelle scale, don Crescenzo fu preso da tale debolezza che dovette sedersi sopra un gradino, restando lì; stupefatto, non vedendo, non sentendo, in quel sopore morale che sopraggiunge ai dolorosi eccitamenti. Quanto tempo restò lì? Furono, alla fine, i passi di qualcuno che saliva e che lo sfiorò, passando, che lo fecero sussultare: e col sussulto, tutta la sua atroce pena gli si ripresentò, insopportabile. Si buttò per le scale, a precipizio, e correndo attraverso le vie, come un trasognato, spinto come un'arme diritta e inflessibile, arrivò alla strada Guantai, al piccolo albergo di provinciali, Villa Borghese, ove alloggiava da un quattro mesi il dottor Trifari con suo padre e sua madre, arrivati dalla provincia. I due umili contadini erano giunti, dalla giovinezza all'età avanzata, a raccogliere qualche soldo, a comprare qualche appezzamento di terreno, lavorando diciotto ore al giorno, mangiando pane scuro e raffermo, mangiando la minestra di bieta cotta nell'acqua senza sale, dormendo in uno stanzone, dove era solo il letto e un cassone, sopra uno stramazzo di paglia: e tutto questo per poter avere il figliuolo dottore, comunicando a lui tutta la vanità contadinesca, dandogli lo sfrenato desiderio di diventar un signore, un gran signore, superiore a tutti i signori del suo paese, dandogli così, senza saperlo, quella implacabile passione del giuoco che doveva, secondo lui, farlo improvvisamente diventar ricco, ricchissimo, in modo da schiacciar tutti con la sua potenza e col suo lusso. Ma in breve giro di anni tutti i suoi affari professionali eran finiti, poiché egli li sdegnava, li abbandonava: ed era cominciata tutta una esistenza di debiti vergognosi, di espedienti, di raggiri, in cui egli aveva cominciato per raggirare i suoi genitori e aveva finito per tessere le reti degli intrighi e degli imbrogli. Padre e madre, tetri, nel silenzio dell'animo contadinesco che non conosce espansioni, avevano venduto, man mano, tutto, seguitando a sacrificarsi per questo figliuolo che era il loro idolo, che essi adoravano come fatto di una pasta migliore della loro: e si erano infine così ridotti, erano così puniti nel loro orgoglio che aspettavano nella loro vecchia casa che il figlio mandasse loro da Napoli venti, dieci lire, ogni tanto, per mangiare. Ed egli lo faceva, legato a quel suoi vecchi da un amore feroce, fatto d'istinto filiale e di riconoscenza, tremando di vergogna e di dolore ogni volta che costoro lo avvertivano, rassegnatamente, che malgrado la tarda età, sarebbero tornati a lavorare nei campi, a guadagnar la loro giornata, per non essergli di carico: e anche i suoi soccorsi erano scarseggiati, la passione del giuoco lo aveva talmente acciecato che non sapeva neanche togliere dieci lire dalle giuocate, per spedirle ai due disgraziati contadini: e il colpo di grazia, infine, era stato quando egli aveva scritto loro, imperativamente, che vendessero l'ultima casa che loro apparteneva, la vecchia casa, coi pochi mobili e gli utensili di cucina, che tenessero il denaro e venissero a Napoli a stare con lui, avrebbero speso meno e sarebbero stati più felici: un colpo orribile, tanto li sgomentava la parola Napoli. Pure, con uno strazio taciturno, conservando la loro fierezza, fingendo di andare a fare i signori, presso il loro figliuolo signore, a Napoli, avevano obbedito, avevano litigato lungamente sul prezzo della povera vecchia casa e di quei quattro mobili antichi che avevano dal tempo del loro matrimonio; e infine, serbando preziosamente quelle poche centinaia di lire in un sacchetto di tela, viaggiando in terza classe, erano capitati a Napoli sbalorditi, non tristi, ma immersi in quella taciturnità che è la sola manifestazione della tetraggine contadinesca. E avevano vissuto in quell'alberghetto quattro mesi, in due stanze scure perché a primo piano, col figlio che rientrava a ore tardissime, talvolta quando essi si levavano, senza far nulla, senza parlare, chiusi nella stanza, guardando con occhi malinconici e meravigliati, da dietro i vetri, tutto il singolar mondo napoletano che si agita nella stretta e popolosa via dei Guantai Nuovi, rimanendo ore e ore in quella contemplazione dove s'istupidivano, incapaci però di muover lamento, diffidenti di tutto, del letto con le molle, dello specchio dalla luce falsa e verdastra, di quei pranzi miserabili serviti loro nella stanza, a cui non erano abituati e che parevano loro un lusso inaudito, di quei servi che si burlavano dei due contadini, di quella lavandaia che riportava tutte bucate le loro grossolane camicie e che li caricava d'ingiurie, alla napoletana, quando facevano una osservazione. Ogni tanto, superando quell'istintiva ritrosia di discorsi, avevano detto al figliuolo di levarli da quell'albergo, di prendere una casetta, dove la madre avrebbe cucinato, avrebbe fatto i servizii: ma lui aveva dimostrato che ci volevan troppi più denari così, che lo avrebbero fatto più tardi, quando avesse avuto una buona fortuna, che aspettava di giorno in giorno. E intanto, il loro peculio diminuiva: ogni volta che scioglievano, in fine di settimana, la borsetta di tela, avevano una stretta al cuore: spesso, quando cavavano quei denari, essi vedevano gli occhi del figliuolo illuminarsi, come per subitaneo sentimento di desiderio; ma non li aveva mai cercati, si vedeva che faceva uno sforzo a non cercarli. Ogni giorno egli diventava più torbido, più furioso: non mangiava più coi suoi genitori, passava le notti senza rientrare nell'albergo, tanto che pur nello spirito ottuso di quei contadini era entrata l'idea di una grande sventura che li minacciasse. La madre, per ore e ore, sgranava il suo rosario, perché il Signore avesse pietà dei loro vecchi giorni, mentre il padre, più astuto, più esperto, pensava che forse qualche femmina maliarda rendesse così infelice il suo figliuolo. Ma nulla gli dicevano: anche quel lusso in cui vivevano, lusso per essi, malgrado che lo pagassero coi proprii quattrini, sembrava loro una concessione del figliuolo, una grazia che egli faceva ai suoi genitori: e insieme a lui, senza intendere, senza sapere, si mettevano a sperare questa fortuna, che doveva capitare da un giorno all'altro, che li avrebbe fatti signori. Le labbra violette e secche della vecchia contadina si muovevano incessantemente, dicendo orazioni nella piccola, meschina, buia stanza dell'alberghetto dei Guantai Nuovi, mentre il vecchio contadino usciva ogni giorno, passando sempre per la stessa strada, andando cioè in Piazza Municipio e di là sul Molo, a guardare il mare nerastro e i bastimenti del porto mercantile e le navi da guerra del porto militare, affascinato, colpito, nella grande città, solo dal mare, non andando altrove, non sapendo nulla del resto della città, pauroso forse del chiasso delle carrozze, dei ladri, ritornando lentamente sui suoi passi, guardandosi intorno con sospetto. Giammai erano usciti col figliuolo, giammai: posto che eran così vestiti, essi avevan sempre detto di no, quando debolmente li aveva invitati a uscire con lui, intendendo, malgrado la loro grossolanità, che non gli piaceva di mostrarsi con loro; egli era così bello, così signore, col soprabito, col cappello a cilindro. Ma una sera, egli rientrò più agitato del solito. Rapidamente, con una certa durezza nella voce, come egli non aveva mai usato con loro, il dottor Trifari aveva detto ai suoi genitori che per il suo affare, per il suo grande affare, per diventar ricchi, insomma, gli servivano quelle ultime poche centinaia di lire che essi ancora tenevano in serbo: che gli facessero questo ultimo grande sacrificio ed egli avrebbe reso a loro tutto, centuplicato. Parlava presto, con gli occhi abbassati, come se prevedesse e non volesse vedere l'orribile occhiata fredda e desolata che scambiarono i due contadini, colpiti al cuore, gelidi. Stavano muti, il padre e la madre, guardando a terra: e allora lui, presto, affannosamente, cercando di raddolcire la sua aspra voce, li pregò, li pregò se gli volevano bene, che gli dessero quel denaro, se non lo volean veder morto. Ed essi, taciturni, s'incoraggiavano con un'occhiata: con le senili mani tremanti il padre sciolse il sacchetto di tela e ne cavò i denari, contandoli lentamente, con cura, ricominciando ad ogni cento lire, seguendo il denaro con un occhio torbido e con un moto convulsivo del labbro inferiore. Erano quattrocentoventi lire, tutta la fortuna di loro tre. Di pallido, il dottore si era fatto rosso rosso e pareva che gli occhi gli si fossero riempiti di lacrime: senza che quei due lo avessero potuto impedire, egli si era abbassato e aveva baciata la vecchia mano al padre e alla madre, la vecchia mano scura, rugosa e callosa, che aveva tanto lavorato. Nessun'altra parola era stata scambiata fra loro: egli era sparito. La sera non era rientrato nell'alberghetto; ma oramai a queste assenze non badavano più. Pure, il giorno seguente non era rientrato a pranzo, il che accadeva per la prima volta: avevano aspettato sino a sera, egli non era venuto e la contadina sgranava il rosario, ricominciando sempre: avevano finito per pranzare con un pezzo di pane e due arance, che si trovavano nella stanza. Il dottor Trifari non rientrò neppure la seconda notte e fu verso il meriggio del secondo giorno che arrivò una lettera diretta al signor Giovanni Trifari, albergo di Villa Borghese: na lettera impostata con un francobollo di un soldo, alla posta interna. Ah, essi eran contadini, con la fantasia ottusa e il cuore semplice, essi non immaginavano, non pensavano che assai scarsamente, eran gente corta e silenziosa: ma quando quella lettera fu loro portata e quando riconobbero l'assai nota e assai amata calligrafia del figliuolo, si misero a tremare, ambedue, come se una improvvisa, indomabile paralisi li avesse colti. Due o tre volte, con gli occhiali grossolani tremolanti sul naso, con la voce trepida della vecchiaia e dell'emozione, con la lentezza di chi sa legger male e deve frenare le lacrime, il vecchio contadino aveva riletta la lettera con cui il figliuolo, prima di partire per l'America, li salutava, teneramente, filialmente: sentendo quella lettura, imprimendosi bene nella mente quelle terribili e dolci parole del figliuolo, la vecchia contadina baciava i grani del suo rosario e gemeva sottovoce. Due volte un servitore dell'albergo era entrato, con la sua aria scettica di persona abituata a tutte le traversie della vita: e aveva chiesto loro se volevano mangiare, ma quelli, dimentichi, sordi, acciecati, non avevano neppure risposto. Quando, verso le sei, entrò don Crescenzo, dopo aver bussato inutilmente, li trovò quasi al buio, seduti vicino al balconcino, in un gran silenzio. - Vi è il dottore? Nessuno dei due rispose, come se il sopore della morte li avesse presi. - Volevo dire se vi è il dottore? - Nossignore, - disse il vecchio padre. - È uscito? - Sì. - Da quanto tempo? - È molto tempo, - mormorò il vecchio contadino e alla sua voce rispose un gemito di sua moglie. - E quando torna? - gridò don Crescenzo, agitatissimo, preso da un impeto di furore. - Non si sa, non si sa, - disse il vecchio, scrollando il capo. - Voi siete il padre, voi lo dovete sapere! - Non me l'ha detto… - Ma dove è andato, dove è andato, quell'infame? - In America, a Bonaria. Gesù! - disse solo don Crescenzo, cadendo di peso sopra una sedia. Tacquero. La madre stringeva devotamente il rosario. Ma ambedue parevano così stanchi, che don Crescenzo fu preso da una disperazione, trovando dovunque disgrazie diverse e maggiori della sua. Pure, si aggrappava alle festuche: e anzi tutto voleva sapere, voleva sapere tutto, con quell'acre voluttà di chi vuole assaporare tutta l'amarezza della sua sventura. Anche costui era fuggito, dunque, anche costui gli sfuggiva, anche questi denari erano perduti, perduti per sempre. - Ma chi gli ha dato i denari per andar via? - gridò, esasperato. - Siete amico suo, voi? - Sì, sì, sì! - Veramente? - Veramente, vi dico. - Ecco la lettera, tenete: così saprete tutto. Allora lui, alla poca luce del giorno che cadeva, lesse la lunga epistola del disgraziato che, roso dai debiti, roso dalla sua passione, senza saper dove dare la testa, scriveva ai suoi genitori, licenziandosi da loro, per cercar fortuna in America. Delle quattrocento lire se ne era prese un trecentocinquanta per pagarsi un posto di terza classe sopra un piroscafo, aggiungendovi qualche lira per vivere i due o tre giorni primi a Buenos-Ayres. Confessava tutto: tutta la rovina sua e della sua famiglia, maledicendo il giuoco, la fortuna e sé stesso, imprecando alla mala sorte e alla sua mala coscienza. Rimandava poche lire ai due poveri vecchi, pregandoli a ritornare in paese, a provvedersi come potevano, fino a che egli avesse potuto mandar loro qualche cosa, da Buenos-Ayres; tornassero al paese, egli non li avrebbe dimenticati, - e i denari appunto bastavano per due posti di terza classe, sino al paesello, non vi sarebbe neanche restato nulla per mangiare; - egli pregava, in ginocchio, che gli perdonassero, che non lo maledicessero, che non aveva avuto la forza di uccidersi, per loro, ma gli perdonassero, che se li lasciava così, non gli dessero, per il suo miserabile viaggio, senza bagaglio, senza denari, buttato in un dormitorio comune e soffocante di nave, anche il triste viatico di una maledizione. La lettera era piena di tenerezza e di furore: e le ingiurie ai ricchi, ai signori, al Governo, si alternavano con le preghiere di perdono, con le umili scuse. Due volte don Crescenzo lesse quella lettera straziante, scritta da un' anima inferocita contro di sé e contro gli uomini, che si vedeva ferita nella sola tenerezza della sua vita. La piegò macchinalmente e guardò i due vecchi: gli sembrò che avessero cento anni, cadenti di decrepitezza e di lavoro, curvati dall'età e dal dolore. - E che fate, adesso? - egli domandò, sottovoce, dopo un certo tempo. - Andiamo al paese, - mormorò il vecchio. - Domani, ce ne andiamo, col primo treno. - Sì, sì, ce ne andiamo, - gemette la povera contadina, senza levare il capo. - E che fate, là? - soggiunse lui, volendo approfondire tutto quel dolore. - Andiamo a giornata, - disse il vecchio, semplicemente. Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

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