Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Saggi di critica d'arte

261824
Cantalamessa, Giulio 6 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
  • UNIFI
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A questo punto non posso far a meno di riferirvi, o Signori, un aneddoto che a me pare abbastanza curioso. Qualcuno di voi ricorda certamente il cav. Gaetano Giordani, ispettore di questa pinacoteca, quel vecchietto così compito e cerimonioso, che non avea ridotto la difesa dell’arte antica, da lui idoleggiata, ad un bisogno di aggredire con arroganza i moderni, anzi apprezzava gl’ingegni di adesso, animava i giovani volonterosi, e, ad ogni indizio di appetito storico nel suo interlocutore, scodellava volentieri la sua erudizione, che non era poca, e avea potuto fornir nutrimento a molti studiosi, non escluso l’illustre Milanesi, che se n’è valso in vari passi dei suoi commenti al Vasari. Ma che non può il rispetto cieco agli scrittori antichi? Ciascun di noi trovando in un quadro del Francia una data diversa da quella che il Vasari gli assegna, giudicherebbe che il Vasari ha sbagliato. Ma il Giordani non volle che il Vasari avesse torto, e obbligò il Francia ad ima postuma testimonianza falsa, facendo cancellare i quattro I che seguivano il 90. Le ossa di Giorgio di Arezzo avranno esultato nella tomba fiorentina; ma la gioia a fondamento di falso non è durevole neppure pei morti. Ora i quattro I sono ricomparsi, grattata la tinta che li aveva occultati, ma è sempre discernibile la traccia della tentata cancellatura, e ciò è bene che sia, perchè sono molto istruttivi i documenti delle aberrazioni in cui è incorsa la critica, quando unico impulso ari suoi 'passi non sia stata la spassionata ricerca della verità.

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È da credere che uno dei suoi più grandi dispiaceri sia stata la caduta della famiglia Bentivoglio, dalla quale era stato beneficato; ma era oramai il tempo in cui la desuetudine dalla vita politica e dalla libertà, il potere senza contrasto seguitare a far l'artista sotto qualunque dominio rendeano questi uomini abbastanza indifferenti al cambiar di padrone. O fosse tema dell’ira di Giulio, o desiderio di non perdere l'ufficio della zecca, o facile rassegnazione ad avvenimenti ch’ei non poteva mutare, potè persino imprimere sulla medaglia, ordinata a commemorare quel trapasso di signoria, le parole: “Bononia per Julium a tyranno liberata Certo, la distruzione dei suoi affreschi lo afflisse di più; ma nelle poche notti insonni che il travaglio di questo pensiero gli procurò, egli avrà trovato conforto in fondo alla sua anima sì pacifica, considerando che nei suoi cinquantasette anni, grazie a Dio, egli era sano e fecondo, e avrebbe fatto altre opere non meno degne di quelle che la brutalità dei vittoriosi avea disperse in polvere sotto un cumulo immane di rovine.

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Non parlo di Giacomo Boateri che lavorò pochissimo e di cui resta, unico saggio autentico, una sacra famiglia nella galleria Pitti, troppo rossa d’intonazione, ma per disegno, per garbo di atti e di volti abbastanza buona. Nulla palesa in questo artista il proposito di dipartirsi dalle massime del Francia. Forse è sua anche una Madonna col putto che nelle galleria vaticana è attribuita allo stesso Francesco Francia. Non parlo di Timoteo Viti, il più gentile e intelligente tra gli allievi del Francia, perchè abbandonò Bologna fin dal 1495, e vivendo lontano modificò la maniera sugli esempi del Perugino e di Raffaello. La graziosissima Maddalena, che di lui possiede questa pinacoteca, non fu fatta per Bologna, ma ottenuta, correndo il nostro secolo, da’ possessori d’Urbino mediante un cambio con altra opera d’arte. Poca attenzione merita Cesare Tamarozzi, disegnatore debolissimo, fiacco e meschino nelle modellazioni, e che spesso annega gl’insegnamenti del Francia o del Costa (non discuto s’ei provenga dall'uno o dall’altro) in un’insana condiscendenza alle predilezioni di Amico Aspertini. Non è importante rilevare se Giovan Maria Chiodarolo derivi dal Costa, come per indizi desunti dalle opere crede il mio amico Corrado Ricci, o dal Francia, come scrissero il Baldi, il Bumaldo, il Masini e, dopo questi, il Malvasia, la cui affermazione, essendo fondata sopra le vacchette del Francia ch’ei consultava e di cui fa menzione anche a questo proposito, non può essere respinta. I due maestri operarono a Bologna contemporaneamente, vissero, a quanto sembra, da buoni amici, ed ebbero molti caratteri comuni nell’arte; sicchè è naturale che i giovani desumessero dall’uno e dall’altro, e secondo la personale disposizione seguissero più questo che quello, non tenendosi troppo vincolati al maestro che li aveva istruiti. Checchè sia di ciò, del Chiodarolo qui convien dire qualche parola, poichè fa parte del gruppo di pittori che segue immediatamente al Francia, senza far causa comune coi raffaellisti.

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Ma la dilettazione estetica che l’affresco vi cagiona, non riesce mai ad eliminarvi del tutto il fastidio di un gettar di pieghe abbastanza vizioso e pesante. È singolare che questo difetto scompaia affatto nell’altro affresco, dirimpetto al primo, rappresentante S. Occitia clic disputa davanti all'imperatore. Ivi i panni non usurpano più della conveniente misura, e le pieghe hanno l’euritmia evidentemente derivata dal Francia. Ma è mancata in questo affresco l’originale e nitida ispirazione ond’è sì bello il primo. Ordine, chiarezza, equilibrio nel distribuir le figure: insomma obbedienza coscienziosa alle regole scolastiche; e non c’è altro da dire. Lodevole molto però è la figura della santa, gentile c modesta quanto nobile, con un senso, finissimamente rilevato, di ritrosia nell’atto esteriore, mentre è palese in quel gracile aspetto la fermezza della convinzione che 1’ha resa eloquente. In conclusione, il Chiodarolo appare a noi buon frescante, benchè queste pitture fossero fatte da lui quand’era giovanissimo. Più tardi, secondo le parole del Malvasia, egli fu assai più abile, dipingendo pel cardinale Ivrea nella palazzina della Viola, ove forse sotto gl’intonachi resta qualcosa delle opere sue e degli altri che vi operarono a gara. Mi auguro che si facciano dei tentativi per recuperare alla storia della pittura bolognese uno de’ più importanti documenti.

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Press’a poco nello stesso tempo era deriso a Firenze Pietro Perugino, tanto acclamato pochi anni innanzi, Pietro Perugino, che non ha col Francia solamente la comunanza di tal sorte, ma notevoli analogie d’ingegno e di stile, fin qui non abbastanza descritte dalla critica.

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Qui par veramente che il Bagnacavallo, più che abbarbagliato dalle esteriorità raffaellesche, sia stato agitato e incalorito dallo spirito di lui; la qual cosa poi in altri termini vuol dire che, levato il pensiero ad un’alta e indefinita intonazione artistica, egli ha potuto rendere un abbastanza largo margine alla sua libertà individuale. Questi santi sono notevoli pel carattere semplice, austero e maestoso degl'insiemi, per la convenienza dei tipi, pel getto decoroso dei panni. Sono esseri che veramente vivono al disopra di noi; si sente di aver con essi un rapporto da inferiori a superiori; appaiono come nobile trasfigurazione dell’aspetto umano. E questo suggello di superiorità è mirabilmente secondato dal disegno largo quanto puro, dal colore sapientemente discreto, dalla ricchezza stessa dei tappeti e degli arazzi sui quali l’artista ha fatto posar le figure. Un po’róse dal tempo e non immuni dalla tabe dei ritocchi, esse tuttavia sono assai lontane dal mostrarsi a noi in quell’eccellenza che fruttò all’artista, nel suo tempo giustissima ammirazione.

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Il vero re dei cucinieri

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Belloni, Georges 8 occorrenze

Non ti pentirai di avermi preso, perchè chi mi ha compilato è un Gastronomo dei più famosi, che ha cercato di unire il buono all'economia, cosa abbastanza difficile, che non riesce a tutti. Trassi i miei natali dai fornelli i più accreditati, e fui creato a poco a poco dopo aver molto esperimentato quanto t'insegno.

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Cotti che siano questi volatili, ritirateli dalla pentola, e ponetevi una. cipolla già cotta sotto la cenere e mondata, una carota ed un poco di sedano, che ritirerete egualmente appena il brodo sarà abbastanza aromatizzato; lasciate poscia finir di cuocere il manzo, digrassando il brodo quando ve n'è di bisogno, e dopo che avrete passato questo per il colatojo, separandolo dalla carne, lo riporrete al fuoco e lo farete alquanto concentrare.

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Dopo aver pulite una quantità di carote, tagliatele a pezzetti e mettetele al fuoco in casseruola con burro ed un poco di cipolla trinciata; quando siano abbastanza rosolate, bagnatele con brodo bollente, e lasciate finir di cuocere a fuoco moderato. Versate allora il contenuto della casseruola nel mortaio, pestate, poi passate per istaccio, ed otterrete una densa poltiglia, che rimetterete al fuoco sciogliendola con del buon sugo di carne, e lascerete concentrare sino a giusta consistenza.

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Non occorre salare, perchè il grasso dell’arista dovrebbe essere già salato abbastanza; se ciò non fosse, si potrebbe correggere il difetto dopo assaggiati i broccoli.

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Se la crema non fosse abbastanza densa, vi aggiungerete a poco a poco del semolino.

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Semai il forno non fosse caldo abbastanza lasciate aperta la bocca ed accendete una fascinetta alla destra del forno, così la fiamma farà prendere il colore alla superficie della pasta. — Questi biscottini, ammollandoli nel liquido non si spezzano facilmente.

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Bollite nell'acqua 200 grammi di mandorle dolci sbucciate, fatele asciugare nella stufa e pesatene 160 grammi; quando sono fredde pestatele nel mortaio con uovo o due interi acciò non facciano olio; ridotte come una pasta finissima, ponetele in un catino con 250 grammi di zuccaro in polvere, la raschiatura della buccia d'un quarto di limone od una presa di vaniglia in polvere; stemperate ogni cosa con 12 tuorli d'uova poco per volta, indi sbatteteli bene per 15 o 20 minuti circa con una spatola di legno; versate 6 chiara d'uova vergate a neve consistente e mischiatele un po’ per volta nella composizione, aggiungetevi 10 grammi di farina bianca e ponetela in una tortiera alta di sponda od in uno stampo, unti in ogni parte con del burro chiarificato, e polverizzati di zuccaro in polvere, versate in essi la composizione a 3 centimetri sotto l'orlo della tortiera, fatela cuocere a forno dolce, chiudete il forno e lasciatevela 40 minuti circa senza aprirlo, indi osservate se è abbastanza cotta, trovatala tale, levatela e colla punta del coltello distaccatele il contorno e rovesciatela su d'uno staccio lasciandola divenir fredda. Servitela su d'un piatto con tovagliolo polverizzato di zuccaro in polvere finissimo. Si potrebbe ghiacciarla colla ghiaccia reale o col ghiaccio del sorbetto di campagna, decorandolo in seguito col zuccaro filato dal cornetto, ecc. Potreste anche farsirla con creme pasticciere, marmellate o gelatine di frutta.

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La bottiglia, che deve ricevere il liquore filtrato, vien disposta in modo che in essa possa imboccare il collo dell'imbuto: poi non resta più che versare nel filtro il liquore, che in principio colerà abbastanza presto; ma poi, col protrarsi della operazione, accumulandosi sul filtro le polveri aromatiche che furono messe in infusione nel liquido, questo non passerà più che lentamente ed a stento. Allora bisogna sostituire un nuovo filtro.

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Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 6 occorrenze

Non piú bambina oramai, perché aveva già troppo sofferto, e non abbastanza donna perché non aveva ancora sofferto abbastanza, la sua figura pareva diventata piú grande nella malinconia, gli occhi chiari si riempivano ogni momento di pensieri, una piccola ruga guizzava spesso nell'infossatura dei sopraccigli e la meschina era sempre in sospensione, in attesa, in paura o di qualche nuova disgrazia, o di una baruffa, o di un brutto incontro. Il piangere, senza lasciarsi scorgere, il mangiare poco e male fingendo d'averne abbastanza, il dormire affannoso, e quando non dormiva, quel continuo rotolare nel letto, quel sobbalzare improvviso a un improvviso abbaiamento ... Quante volte le pareva di udire la voce di Giovedí lamentarsi sulla scala! e insieme un'altra voce d'uomo che cerca la carità, che si raccomanda! Per quanto lo zio Demetrio avesse cercato di attenuare la triste impressione del fatto, velando e negando molti particolari, pure essa non aveva piú dubbio che il suo babbo si era ucciso lassú in quell'orrido solaio, tra quelle travi nere sotto il tetto, dietro quell'uscio massiccio che il vento scoteva spesso la notte, riempiendo la casa di terrore. Nel buio essa non vedeva che quell'apertura nera spalancata davanti come una tetra voragine, piena di ragnatele e di sordidezze nefande: e guai se sfinita di forze si addormentava nella lugubre immagine di quelle travi incrocicchiate! Un grido la faceva trasalire; balzava sul letto al suo stesso grido, colla fronte in sudore, col cuore in frantumi, stava a sentire, le pareva che qualcuno passeggiasse leggermente per la stanza, girando intorno al letto, rimestando nei cantucci, inquieto, bisognoso di qualche cosa, finché una voce sommessa, o, per dir meglio, un fiato d'anima errabonda le traversava il corpicciuolo, lasciandovi i brividi della morte. Se ella avesse potuto dare tutto il suo sangue per arrestare quell'anima in pena, per far tacere quella voce che, sibilando, le parlava di cose incomprensibili nel buco delle orecchie, non avrebbe esitato un minuto. Aspettava con ansietà il giorno della sua prima comunione. Forse Dio in quel dí avrebbe avuto pietà di lei, avrebbe ascoltato i suoi voti. Se fosse stata piú grande, avrebbe voluto rinunciare subito alle cose del mondo, farsi tagliare i capelli — quella bellezza di capelli —, vestirsi di nero, andare negli ospedali, nelle missioni, dovunque insomma si può fare del bene, non per sé, ma per dare un sollievo a quell'anima vagabonda, che non trovava requie. A furia di pensarci, fu essa che persuase zio Demetrio a pagare il debito verso il Martini e a rivolgersi per questo al signor Paolino delle Cascine. Col tempo avrebbe pagato col suo lavoro quel debito. E quasi subito le parve che la povera anima fosse piú sollevata. Forse ella aveva indovinato ciò che andava da lungo tempo sussurrando e se ne consolò; a poco a poco imparò ad ascoltarla e le parve di capire un'altra volta che aveva bisogno di una messa. Cosí si abituò ad averne meno paura. Un prete le aveva detto che un atto di pentimento sincero in extremis può salvare l'anima del piú feroce assassino, e che le buone opere dei vivi sono tante leve per i poveri morti. Dunque c'era speranza che l'anima del suo papà potesse salvarsi: per lui essa offriva a Dio il bene, che avrebbe potuto fare e godere quaggiú. Una domenica, coi denari prestati dal signor Paolino, si presentò insieme allo zio all'uscio del Martini, che abitava una modesta casa in via Larga. Strada facendo, mentre si attaccava al braccio dello zio, non si scompagnò mai da quello spirito che l’immaginazione eccitata e quasi ossessa trascinava con sé dappertutto, anche in mezzo alla folla e in piena luce di mezzodí. Piú d'una volta dovette fare un gran sforzo di volontà e di raziocinio per non voltarsi a guardarlo. Demetrio, tutto chiuso e conturbato ne' suoi pensieri per il difficile passo che stava per compiere, non sentí due o tre volte il braccio di Arabella guizzare sul suo e tutta la sua personcina vibrare come un filo preso dalla corrente. Quasi non vedeva due passi innanzi, come se la soggezione e la vergogna d'incontrarsi col Martini facessero una nuvola davanti agli occhi. Pensava a quel che egli avrebbe potuto dire, senza riuscir mai a mettere insieme due mezze parole in un'idea. Solamente la coscienza in fondo pareva dire brontolando: "Si fa presto ad ammazzarsi: la vergogna e la penitenza toccano a chi resta." "C'è il signor Martini?" chiese Demetrio a una vecchietta, che venne ad aprire con in braccio una bambina di pochi mesi. Erano la madre e la figliuola del disgraziato. "Che cosa desidera?" chiese la vecchina con un fare cerimonioso, invitandoli a entrare. "Avrei del denaro da consegnargli" balbettò Demetrio. "Vengano avanti. Vado ad avvertirlo." Rimasti un momento soli in anticamera, Demetrio disse ad Arabella: "Lasciami andar innanzi solo. Aspettami qui ... ." E a quell'uomo coraggioso tremavano le gambe. Quando tornò la vecchia, Arabella stese le mani alla piccina, e con quel diritto, che ogni donna ha sui deboli, la tolse in braccio nel suo guancialetto e andò a sedersi presso la finestra per contemplarla bene negli occhi. Essa aveva molte cose a dire a quella piccina. Appoggiò il viso al visino e nascose cosí le lagrime. Demetrio intanto era passato di là. La vecchia Martini, contenta delle carezze che la ragazza dava alla sua piccina, venne a fare delle confidenze. La sua Mimi era nata sotto cattiva stella: la mamma morí nel metterla al mondo, e ora il governo mandava via il papà lontano, fino in Sardegna. Era un trasloco senza promozione, senza miglioramento di stipendio, per colpa d'un birbone che l'aveva tradito, sotto la maschera dell'amicizia ... "Ne ha passate quel povero martire in questi quattro mesi!" continuò la vecchietta intenerendosi "ne ha patite piú che Gesú in croce. Il governo ha riconosciuto la sua buona fede, la sua innocenza, sta bene; ma ci vuole un esempio, e il meno che possono fare è di mandarlo via per qualche tempo collo stesso soldo. Ma i denari perduti ha dovuto rimetterli: e ora non può condurre una vecchia e una bambina fino in alto mare. Dovrà fare due case; lasciar me colla piccina e colla balia, e andarsene solo colle sue malinconie ... Questo si guadagna a fare il galantuomo." Mentre la buona donna sfogava il suo corruccio, contando per la centesima volta una storia che non poteva levarsi dal cuore, Arabella tuffava sempre piú il viso nel guancialetto, a cui si stringeva colle braccia come se cercasse un appoggio per non cadere. Demetrio passò in un salottino, sparso di roba in disordine, dove trovò il Martini tutto occupato a riempire delle casse. I due uomini s'incontravano per la prima volta. "Ho il piacere ... ?" mormorò il padrone di casa per avviare una presentazione. Aveva ragione la sua mamma: i colpi della vita avevano dimezzato il disgraziato. Demetrio, dopo aver fissato gli occhi in un angolo in terra, come se cercasse la parola, disse parlando al muro: "Io sono ... , io sono il fratello di Cesarino Pianelli, vengo a pagarle un debito che ... ." E per finire la frase trasse il portafogli, ne levò due biglietti da cinquecento, che collocò sopra alcuni libri della scrivania, agitando la testa sotto la violenza di piccoli scatti nervosi. Il Martini, che non si aspettava quella visita, còlto all'improvviso, assalito in mezzo alle sue dolorose preoccupazioni da una folla di piú dolorose rimembranze, non seppe sul momento che cosa dire. "La cosa ... veramente ... Io non so se devo ... " balbettò. "Non possiamo pagare il danno morale, questo no: ma se lei può perdonare a quel poveretto, anche per la pace de’ suoi figliuoli, fa un'opera di carità." Un urto di passione soffocò le sue parole, che finirono in un gesto lento e supplichevole. Il Martini chinò il capo e socchiuse gli occhi. Stese la mano e strinse fortemente quella di Demetrio, parlandogli vivacemente cogli occhi negli occhi. Sapeva che anche Cesarino aveva lasciata la famiglia in gravi imbarazzi ed esitava ad accettare; ma Demetrio lo persuase a non dir di no, non tanto per la cosa in sé, quanto per la pace dei vivi e dei morti. Poi soggiunse: "C'è qui una sua figliuola che vuol essere quasi perdonata per il riposo di una pover'anima. Se permette ... ." Andò all'uscio, fe' un segno ad Arabella, che sulle prime non ebbe la forza di muoversi. Alzò il viso inondato dal guancialetto, e, sentendosi chiamare, si alzò, consegnò la bimba alla vecchietta, che la guardava con un senso di meraviglia, e dopo tre o quattro passi involti e legati, sul punto di varcare la soglia, si sentí come presa alla vita e vivamente trasportata dalla forza invisibile che l'accompagnava. Corse, quasi volò incontro a quel signore pallido vestito di nero, gli gettò le braccia al collo con affettuoso abbandono, si attaccò a lui con tutta la forza, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, sospirando: "Ci perdoni ... ." La vecchierella sull'uscio crollava il capo nella sua cuffietta bianca, col guancialetto dimenticato sulle braccia. Lo zio e la nipote, senz'altre spiegazioni, uscirono da quella casa piú consolati, e strada facendo l'una si attaccava al braccio dell'altro con un senso di piú domestica intimità. Non si dissero una parola fino a casa: ma due persone non avevano mai parlato e non s'erano mai capite tanto. Prima di andare a letto, quella stessa notte, Arabella si chiuse nella sua stanza e scrisse una lunga lettera a Paolino delle Cascine, suo benefattore. Finiva col dirgli: "Non cesserò mai di pregare il buon Dio e il mio Angelo custode, perché possano essere esauditi tutti i voti del suo cuore. Ella ha fatto una grande carità a me, a’ miei fratellini, alla mia disgraziata mamma, al mio povero papà". E mentre scriveva il nome del suo povero papà, le parve di udire un fruscío nella stanza e vide la fiamma della candela piegarsi da una parte quasi mossa da un sottile alito di vento.

Quel piangere sfrenato, quell'atto di ribellione quasi matronale in una donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella bella Pardina — una vespa, in lega col diavolo — aveva una cosí grande confidenza: che accettava con tanta semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto cosí strano e inesplicabile anche per una testa lucida e pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione. Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non perdette tempo. Lí accanto c'era uno stipetto con qualche inezia elegante, e vi mise subito la mano. Beatrice, passato il primo impeto, capí di essere caduta in un tranello, e credette di vedere in questo gioco la mano di Palmira. Le parole del cavaliere, togliendole l'ultima illusione, l'irritarono e le diedero la forza di reagire. Ma nell'alzarsi, nel ritrarre il braccio a sé vide risplendere un non so che, un oggetto d'oro, un braccialetto ... Un gran buio invase gli occhi suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta. Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno, quell'anello massiccio; non poté. Non ci vide abbastanza, non ebbe la forza di far scattare la molla. Il suo protettore pregò, supplicò, perché non gli facesse il torto di rifiutare un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato piú di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione: non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile. Per lui era un bisogno del cuore. Nominò ancora l'avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre l'accompagnava docilmente verso l'uscio: cercò di ridere e di farla ridere ... Beatrice disse una volta di sí, senza capir bene a che cosa diceva di sí. Di tutte le belle parole del suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva l'ora che l'uscio si aprisse. Aveva bisogno d'aria, si sentiva soffocare… Il cavaliere la tenne ancora un momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta sulla bella manina ... Finalmente la povera donna si trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse volata dalle scale. L'istinto piú che la volontà la condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza vedere innanzi a sé che un bagliore, senza sentire che un gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa insidia, che vergogna!.. Come tornare davanti a’ suoi figliuoli, davanti alla sua Arabella? per chi l'avevano presa? che opinione aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a giudicarla cosí? O era una vendetta, una stupida congiura di Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio? E, inseguita da questi fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno, finché, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa di Sant'Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una cappella, vi s'inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei gradini, e raggomitolandosi in sé stessa, nascose la sua vergogna e il suo cocente dolore.

Il lusso non era mai abbastanza: casa Litta addirittura. E quando un impiegato non ha che il suo magro ventisette del mese, creda a me, cioè, lo sa benissimo che è, dirò cosí, come la botte delle Danaidi. Feste, teatri, scampagnate, perle, vestito di raso, diamanti. Ohè! Ci si rovinano i principi, specialmente quando si vuole star sull'orgoglio e non far parlare la gente. Con tutto ciò la gente non ci crede lo stesso, e quando non trova la somma in una maniera, rifà i conti in un'altra, in partita doppia d'entrata ed uscita ... ." Il cavaliere, che durante questa predichetta aveva continuato a spazzolare colla manica la sua bella calotta di velluto, giunto al malizioso epilogo, socchiuse gli occhi piccini e mise in vista i magnifici avorî della sua dentiera Winderling. Demetrio, che udiva per la prima volta e da una persona cotanto autorevole, amica del suo bene, ciò che formava probabilmente da cinque o sei anni la cronaca del Carrobio, rimase incantato, a bocca aperta, come il villano innanzi a quei quadri detti dissolventi, che sfumano l'uno nell'altro. "Il buon cuore è una bella cosa, ma alle volte il cuore è buono per i merli. È una settimana che io vedo venire innanzi e indietro gente d'ogni colore e d'ogni faccia. Che cosa ha speso a quest'ora? e quanto gli resta ancora da pagare? e quando avrà pagato tutti i debiti vecchi, chi pagherà i nuovi? perché, non si lusinghi che sua cognata possa rassegnarsi a una vita di sacrifizio e di lavoro. Non so nemmeno se sappia cucire insieme un paio di calze ... Dietro di lei c'è questo vecchio gufo, come credo aver capito, che è capace di minacciare un processo, lo spoglieranno della camicia, diranno che ha tradita la vedova e gli orfani derelitti e in fine si farà canzonare dalla gente." Demetrio, come imparasse per la prima volta i principî d'una scienza nuova e meravigliosa, stava a sentire, con tanto d'occhi aperti, come impiombato coi piedi sul pavimento. "Canzonare è una parola, per non dir peggio. Perché," qui il cavaliere abbassò un tantino la voce e fece un passetto verso il subalterno "perché, se non si offende, mi capisce, la gente è cattiva, si sa, e potrebbe supporre che lei pensa alle spese chi sa con quali intenzioni, o che — che so io? — che lei ci abbia quasi il suo interesse ... ." Le orecchie di Demetrio, a queste parole, diventarono rosse come il fuoco; e la fiamma, che scese tra pelle e pelle fin sulle guance giallognole, andò a spegnersi sulla linea del naso. Un piccolo tremito invase tutta la persona, e le mani si apersero nell'aria quasi automaticamente, senza che il povero ignorante sapesse lí per lí rispondere una parola, nemmeno un grazie, per degli avvertimenti che lo arrestavano sull'orlo di un abisso. Tutto aveva pensato, tranne a questo caso, che la gente potesse supporre quello che forse supponeva già e che era nei suoi diritti di supporre. Sicuro che era cosí! il lusso, la tranquillità, l'ironia con cui l’aveva accolto sua cognata dovevano avergli aperto gli occhi, se egli non fosse stato una vecchia talpa cieca, ignorante di tutte le cabale del mondo, un bestione, sciocco e paziente come un cammello, e come un cammello sempre rassegnato di portare la casa degli altri sulla gobba. Tanto per giustificarsi un poco davanti al suo superiore e benefattore, dopo aver masticato un pezzo le parole, provò a dire: "E quei poveri figliuoli?" "Ecco," soggiunse il morbido consigliere "ai figliuoli forse è il caso di pensarci un poco; ma è inutile ingannare con false carità dei poveretti, a cui non si ha da poter lasciare che gli occhi per piangere. I figliuoletti vorrei metterli in qualche orfanotrofio, in qualche istituto di beneficenza. Non è questo che manca a Milano, e io stesso per quanto posso esser utile, se crede ... conosco il presidente degli orfanotrofi e luoghi pii annessi." "Lei, lei è troppo ... " balbettò Demetrio, agitando la mano stesa nell'aria. "In quanto poi alla bella vedovina — scusi, Pianelli, se mi permetto di parlarle col cuore in mano, da padre — in quanto a lei, vorrei lavarmene a tempo le mani, in due acque, se non basta una, e lasciarla, dirò cosí, al suo angelo custode ... , le parlo da amico, da padre, e, se crede, anche da suo superiore ... ." Gli occhi di Demetrio si trovarono pieni di lagrime prima ancora ch'egli sapesse perché piangesse. La voce paterna del suo capo, la ragionevolezza de' suoi consigli, lo stato d'irritazione in cui l'aveva lasciato quell'altro vecchio pazzo e, in mezzo a tutto ciò, piú forte di tutto ciò, un improvviso sentimento della sua materiale e rustica ignoranza, finirono coll'avvilirlo. In che modo aveva sempre vissuto fino adesso, per non accorgersi di ciò che era scritto sulle cantonate di Milano? Un sentimento di pietosa confidenza lo condusse a fare innanzi al cavaliere tutta la confessione de' suoi imbarazzi. Tenne gelosamente nascosto il motivo che aveva spinto Cesarino a finirla colla vita; ma fece capire ch'egli non poteva rifiutarsi di pagare qualche grosso debito d'onore, per salvare, se non altro, il nome di quei poveri figliuoli, che infine si chiamavano Pianelli ... Avrebbe fatto tesoro dei preziosi consigli: e, se gli permetteva di approfittare qualche volta della generosa protezione, sarebbe venuto forse ad importunarlo ... "Ma venga quando vuole: se posso levare una spina da un piede, non sto a farmi pregare ... per bacco!" Beatrice, costretta di nuovo a provvedere a tante incombenze, alle quali prima soleva pensare suo marito o la Cherubina, si sentiva imbarazzata nella sua incapacità e nella sua gran vestaglia a nastri azzurri. Non sapeva dove mettere le mani, né come muoverle, e, dato fondo alle ultime venti lire rimaste, per disordine, in un cassettino dei pettini, si trovò improvvisamente senza un soldo. Il sor Isidoro, passando da Milano, andò a trovarla; consumò i resti del pranzo del giorno prima, vuotò l'ultima bottiglia di barolo rimasta in dispensa, e se ne andò dopo aver fatto giurare a sua figlia che non avrebbe piú ricevuto in casa quel mascalzone che rispondeva al nome di Demetrio, un asino calzato e ritto in piedi, che aveva osato dire che un Isidoro Chiesa era un gran buon uomo. Demetrio non c'era bisogno di cacciarlo via. Ci pensò lui a non lasciarsi vedere. Dopo il suo colloquio con Beatrice, dopo la scenata col Chiesa, dopo la predica amorosa del capo ufficio, bisognava essere un gran babbuino per lasciarsi tirare ancora in Carrobio. Dopo tre o quattro giorni i ragazzi, non abituati a far senza di certe formalità, cominciarono a gridare, a picchiare, a piangere. Arabella, smorta come un lino, taceva, si muoveva per la casa, comprimeva un certo che sulla bocca dello stomaco, e, di tanto in tanto, andava sul balcone a dare un'occhiata per il lungo di tutta via Torino, se mai vedesse, in mezzo al viavai immenso di tanta gente e di tante carrozze, un uomo che somigliasse un poco allo zio Demetrio. Beatrice fece chiamare Ferruccio un paio di volte, un bel ragazzo svelto, che faceva il tipografo nella stamperia dell' Osservatore Cattolico . Arabella gli aveva promesso una grammatica francese e il bel ricciolone correva come una freccia, quando sentiva la sua voce in cima alle scale. Ma dal momento che non c'erano piú quattrini in mano, il fornaio, il lattivendolo, il pizzicagnolo non davano piú nulla ai signori Pianelli. Demetrio aveva dato delle belle parole a tutti; ma i signori bottegai non ne volevano piú di belle parole. Ferruccio tornò con la cesta vuota. Beatrice si fece restituire da Arabella un piccolo cinque franchi d'oro, che il babbo le aveva regalato per il suo compleanno: e, bene o male, si tirò innanzi un altro paio di giorni. Ma la povera donna si sentí abbandonata, e le venne da piangere. Uscí, vestita come poté, con l'idea di andare a parlare al Direttore delle Poste, e lasciò in casa Arabella sola a custodire i ragazzi. Il commendatore era andato a Roma. Sulla scala s'incontrò col signor Martini, che finse di non conoscerla. Timida ed imbarazzata, non osò cercare del Buffoletti o di qualche altro amico di suo marito. Passò invece dalla via del Mangano, dove abitava l'Elisa sarta, e salí fino al terzo piano per ordinarle i vestiti di lutto. Poi, un pensiero le suggerí di andare in cerca della Pardi e di chiederle un prestito di qualche centinaio di lire; ma l'Elisa sarta aveva riferite le ultime parole dette dalla Pardina sul conto della sora Pianelli, e tra le due vecchie amiche di Cernobbio c'era oggi dell'aria cattiva. Passò il giovedí e tutto il venerdí senza che venisse anima viva. Pioveva. L'aria e le case avevano di lassú un aspetto grigio e triste sotto l'acquerugiola silenziosa, che stillava senza forza sui muri, impregnando il cielo di vapori stagnanti. Arabella contava le ore sui battiti del suo cuore e correva per la ventesima volta a guardare dal balcone nella strada. Passavano carri, tram, carrozze, carriole a mano, con quel frastuono pieno e grosso di una città che vive bene, mangia bene, digerisce bene. Passò un fiume di gente, uomini, donne, soldati, preti, ragazzi, in tutti i sensi: passò un funerale colla musica in testa ... , passò un carro pieno di masserizie ... Un cavallo spinto a corsa scivolò e cadde sulle zampe davanti. Accorse molta gente, fu tirato in piedi, partí zoppicando, la gente si diradò, la grossa fiumana riprese il suo corso solito, ma lo zio Demetrio non si lasciava vedere. Una volta sola il cuore della bambina si risvegliò a un battito di speranza e fu nel vedere Giovann dell'Orghen , un poveraccio, che lo zio Demetrio aveva mandato una volta a casa con un biglietto. Sperò che venisse ancora da parte sua: ma Giovann dell'Orghen voltò e scomparve dietro San Giorgio. Si ritrasse dal balcone tutta fredda e stillante acqua e stava per chiamare ancora Ferruccio, quando una forte scampanellata ridestò improvvisamente un grido di speranza e di gioia nei poveri bambini, che stavano per addormentarsi nella gelida malinconia di quella giornata piovosa e senza minestra. Era il maestro di pianoforte. Il Bonfanti dalla strada aveva veduto Arabella sul balcone ed era venuto su, prima per fare una visita di condoglianza e poi per sapere quando la scolara avrebbe ripigliate le lezioni. Egli era in credito d'una ventina di biglietti e non osava dire: pagatemi; ma sperava che, lasciandosi vedere, fosse un mezzo per non essere dimenticato del tutto. Le altre volte il povero Cesarino, che era un fanatico di Verdi, pregava il maestro dopo la lezione di rimanere a mangiare la minestra. Il Bonfanti non credeva d'avvilirsi restando, e pagava poi generosamente col sonare e col cantare a memoria mezzo il Trovatore e mezza la Traviata. Era anche questa un'occasione di mettere le mani sul piano, perché, dal giorno che il povero maestro era andato all'ospedale col vaiuolo, aveva dovuto vendere anche quel poco cembalo e le tirava verdi, il pover'uomo, verdi come il sambuco. Da tre mesi l'organo di San Sisto era in riparazione: e si può dire che egli vivesse sulle Benedizioni di San Lorenzo. "Se la signorina non si sente di prender lezione, vado io di là, se permettono ... ." E colla confidenza del vecchio amico di casa, il maestro passò nel salottino e cominciò ad arpeggiare sulla tastiera tanto per far venire l'ora solita che il riso andava in tavola. Egli sperava, coll'ingenuità dell'artista, che la signora Beatrice avrebbe continuato le buone tradizioni del suo povero marito, anche in considerazione di quella ventina di biglietti che non erano mai stati pagati. Solo che, nelle battute d'aspetto e nei brevi intervalli tra un arpeggio e l'altro, gli pareva d'intendere un gran silenzio, non solo in cucina, ma in tutta la casa, mentre le altre volte c'era quel dolce tintinnío di posate. Non sapendo come spiegare questo insolito ritardo, il maestro provò a cantare, colla sua voce stanca di vecchio baritono, l'a-solo del re Filippo. Dormirò sol nel manto mio regal ... "Scusi, maestro, c'è la mamma che si sente male ... " venne a dire Arabella. "Oh, se avessi saputo ... Che cosa ha?" "Un po' d'emicrania." "È il tempo. Allora ci rivediamo martedí?" "Glielo saprò dire, non so ... " balbettò Arabella arrossendo. "Ad ogni modo, non esca per ora dagli arpeggi. Adagio, conti a voce alta, e giú bene i polpastrelli." Arabella cogli occhi gonfi di pianto disse di sí col capo. "Me la saluti, la signora mammina." Il Bonfanti, discepolo della classica scuola del Pollini, era ancora di quei vecchi maestri che sanno distinguere l'arte dalla ginnastica e dall'acrobatismo, e rideva di chi vanta la forza e la precisione come il non plus ultra d'un bravo pianista. "Che mi fa la forza e la precisione?" diceva. "Anche una locomotiva ha della forza e della precisione; ma una locomotiva non sarà mai una grande pianista." L'interpretare una pagina di musica, il saperla colorire è questione di sentimento, e il sentimento non si esprime se non colla delicatezza del tocco; e il tocco non si acquista che col metodo e colla pazienza. Tutta l'arte è nei polpastrelli! In virtú di questo metodo, teneva i suoi allievi sei mesi e anche un anno sulle cinque note, che il Thalberg (il celebre Thalberg ch'egli aveva conosciuto a Monza nella villa del viceré Raineri) aveva definito discorrendo con lui le senk vertú teolegal de la musik . Dopo le cinque note bisognava aver pazienza e diligenza sulle scale. Dopo tre anni di studi, il Bonfanti, si vantava che i suoi allievi non sapevano ancora suonare niente, nemmeno una mazurchetta, mentre i maestri guastamestieri, per secondare l'ambizione delle scolare e delle mammine, fanno suonare il pezzo concertato quando l'allievo non sa ancora mettere giú i polpastrelli. In questa maniera egli procurava di tenere alta la bandiera della buona scuola e delle tradizioni classiche, anche a dispetto dei tempi, che adagio adagio lo lasciavano morire di fame. Discese le scale, si fermò un momento sulla porta a strologare il tempo, e mormorò: "Potevo almeno farmi dare un ombrello." E andò a fare quattro passi.

O s'era già seccato abbastanza di quel Circolo o non voleva incontrarsi con Cesarino Pianelli. Ma anche senza di lui la festa non fu meno chiassosa e brillante. Il vino di Barolo e qualche bottiglia di Sciampagna aiutarono a far dimenticare i pensieri cattivi che ciascuno non aveva potuto lasciar fuori dell'uscio: ma Cesarino se li trovò sul cuscino del letto al suo primo svegliarsi il giorno dopo. Si ricordò del Martini, del suocero, dei denari che non aveva piú e saltò dal letto coll'intenzione di correre subito a Melegnano: ma rifletté che per l'assenza del cassiere egli non avrebbe potuto per quel giorno allontanarsi dall'ufficio. Non volendo perdere un tempo che andava facendosi sempre piú prezioso, col capo ancor pieno di sonno, uscí di casa e mandò al signor Isidoro Chiesa di Melegnano questo telegramma: "Mi occorrono subito mille lire. Portale tu. Grave disgrazia. BEATRICE." Poi si recò all'ufficio e vi stette fin verso le dieci. Ma parendogli d'essere sulle spine, pregò il Miglioretti di prendere un momento il suo posto, corse a casa a vedere se il suocero era arrivato o se aveva mandato un telegramma. Non trovò nulla. Restò a casa a mangiare un boccone, mentre Beatrice cominciava a sciogliersi dal suo sonno profondo di donna stanca. Poi tornò di nuovo alla Posta verso mezzodí. Non era ancora in fondo della via del Pesce, quando vide sul portone della Posta il Martini. Vederlo e trasalire fu una cosa sola. I polsi del capo picchiarono cosí forte, che vollero rompere il cranio. Ebbe appena il tempo di ricomporsi, e di prendere un'aria di premurosa compassione. "Come mai? Non è partito?" mormorò. Il Martini stese la mano all'amico, diede una languida stretta, voltò via la faccia e si portò due volte il fazzoletto agli occhi, mormorando, o, per dir giusto, movendo le labbra a una parola senza suono che voleva dire: È morta! "È morta?" domandò con vivo rincrescimento il Pianelli, abbassando la testa. "Stamattina alle quattro ... " balbettò colle labbra tremanti il Martini. "Son tornato per chiedere al commendatore tre giorni di licenza e aspettavo anche lei per regolare la consegna. Voglio portarla a Milano ... ." L'emozione soffocò le parole in gola al pover'uomo, che faceva di tutto per non farsi vedere a piangere dalla gente. Il Pianelli sentí alla sua volta farsi il cuore piccino. In quel momento avrebbe dato mezzo del suo sangue per evitare una consegna, da cui doveva risultare un ammanco di mille lire. Gli faceva orrore non meno il suo pericolo che l'idea di dare a un povero diavolo già cosí tribolato un colpo di quella sorte. "La trovo in ufficio verso le tre?" "Sí, ci sono ... " rispose il Pianelli. "Ecco il commendatore." Vedendo venire il direttore, il Martini gli andò incontro, mentre il Pianelli, correndo via, cercò di sfuggire a quel penoso dialogo. Entrò in ufficio con passo confuso e legato. Gettò il cappello su una sedia, il bastone sul tavolo, e si fregò la fronte colle mani, tre o quattro volte, come se togliesse delle ragnatele dagli occhi. Era mezzodí. Il Martini sarebbe venuto alle tre. In tre ore egli non poteva inventarle le mille lire, a meno di credere che il suocero si lasciasse commuovere all'ultimo momento: a meno di credere che Gesú gliele mandasse per compassione de' suoi figli. Per Dio! (queste imprecazioni scattavano come tante scintille dall'anima sua spaventata). Per Dio! se gli avessero lasciato ventiquattro ore di tempo! Pensò di tornare ancora in cerca del Pardi; ma dove trovarlo? e poi, no, da quell'asino che si lasciava guidare dalla moglie ... Degli altri suoi amici o non si fidava, o non voleva inchinarsi a nessuno, o erano povera gente, che stentavano a sbarcare essi stessi il lunario col misero stipendio. Nella cassa in cui egli cominciò a rovistare, c'erano molti conti correnti e molti mandati di pagamento già firmati dal Martini col visto del commendatore, tra i quali uno a favore del capomastro Inganni, in conto di alcune riparazioni per ingrandimento e adattamento dei locali d'ufficio, per la somma complessiva di duemila lire precisa. La formola del mandato era stata scritta dal Pianelli alcuni giorni prima colla cifra in tutte lettere "due mila" e nel margine i quattro numeri "2000" d'una linea magra e lunga com'era la scritturina nervosa del cassiere aggiunto. Non si trattava di voler falsificare un documento, né di rubare un quattrino a nessuno; ma solamente di evitare a sé una miserabile figura, e al Martini un colpo mortale, di guadagnare tempo, di non precipitare in due in un abisso senza luce e senza fondo. Eravamo al quindici del mese. Prima della fine non si sarebbe fatta la verifica dei mandati e lo scandaglio di cassa. Bastava per il momento che il Martini credesse in buona fede a un mandato di lire tremila già pagato al capomastro Inganni e partisse coll'animo quieto, lasciando a lui Pianelli il tempo necessario per rimettere il denaro e per rifare il mandato ... Con una goccia di acqua clorata sulla punta d'una penna nuova si potevano sostituire facilmente due piccolissimi tratti e cambiare colla stessa mano il due in tre, il 2 in 3 ... Non l'avrebbe mai fatto, nemmeno per salvare la vita dei suoi figliuoli, se si fosse trattato di mettersi del denaro non suo in tasca: non voleva che guadagnare ventiquattro ore di tempo, e salvare con un ripiego momentaneo la vita e l'onore di due famiglie. Il mandato era lí, che gli occhi lo divoravano. La penna vi passò sopra asciutta una volta, due volte, quasi per provare. Due zampe di mosca potevano evitare un terribile scandalo, forse risparmiare un delitto. Il non farlo era quasi una crudeltà verso quei poveri innocenti. Il mandato Inganni l'aveva pagato lui, e il Martini certo non aveva né tempo, né voglia di stare a riscontrare ad una ad una tutte le parcelle parziali e di verificare la somma. Egli non voleva fare per ora che uno stato di cassa per poter ripartire e star via tre o quattro giorni coll'animo piú sollevato. Quando avesse ritrovato e rimesso il denaro in cassa, il Pianelli era uomo capace di confessare tutto all'amico e d'implorarne il perdono. Ogni piú onesto uomo può trovarsi per dodici ore in una suprema necessità, e l'onestà di quarant'anni di vita non la si distrugge mica in ventiquattro ore, con due sgorbietti di penna. Ciò che salva l'uomo è l'intenzione. Uno ha il senso dell'onestà, un altro non l'ha. Il primo verrà sempre a galla per quanti sforzi tu faccia per affondarlo: il secondo precipiterà sempre come un sasso nell'acqua. Cesarino si sentiva uomo integro nella sua coscienza, e, se un caso maledetto l'aveva tratto a sporcarsi le mani di fango, bisognava dargli il tempo di lavarsele. Quel fango ripugnava anche a lui, in nome di Dio santo!.. Non c'è nessun gusto a fare il ladro. Queste considerazioni andavano assediandolo, stringendolo in mezzo, pungendolo con mille punte, alle quali sentiva di non saper piú resistere. Si asciugò ancora una volta la testa bagnata di un sudore freddo. Poi, intinta la penna nella boccetta del cloro, passò leggermente colla punta di metallo sulla coda del numero fatale, aggiustò coll'inchiostro il numero e la lettera ... e vi gettò subito molta sabbia sopra, colla furia spaventata dell'omicida, che cerca di nascondere le tracce del sangue… "Dio, Dio ... " balbettò, alzandosi, colle membra rotte e indolenzite, come se avesse voltata la grossa pietra di un sepolcro. Anche il far male è una grossa fatica per chi non c'è avvezzo. Tornò presso la cassa, rimise tutti i mandati a posto, stracciò il suo biglietto di visita in cento pezzetti, che buttò nel cestino, ma poi si abbassò a raccoglierli tutti, se li cacciò in tasca, chiuse bene ... e uscí sulla ringhiera a respirare dell'aria. Il Martini aveva detto alle tre, ma entrò in ufficio alle due, con passo rotto e frettoloso. Il Pianelli, che aveva già preparato un prospetto di cassa, gli andò incontro di nuovo con aria di compassione dicendo: "O bravo ... ." L'amico, pallido come un morto, non seppe nascondere una forte agitazione che imbarazzava il suo contegno e i suoi movimenti. Aveva lasciato all'alba il letto della sua povera morta, dopo una notte passata in ginocchio ad assistere agli strazi di una lunga e dolorosa agonia. La sua povera Emilia non voleva morire a venticinque anni! Si era attaccata colle braccia lunghe e stecchite al collo del suo Arturo e non finiva mai di chiamare fra i singhiozzi della morte la sua piccola Teresa. Sono notti spaventose che ti portano via la vita: un pezzo di noi se ne va con chi muore. Era partito subito la mattina, lasciando la sua morta in mano ad alcuni parenti e si preparava ora a tornare per riportarne a Milano il corpo. Il commendatore, uomo di cuore e discreto, non fece difficoltà, anzi gli diede licenza per una settimana, ma, tiratolo un momento in disparte, gli disse sottovoce: "Però ha fatto regolare consegna al Pianelli?" "Ieri non ho avuto tempo. Son tornato anche per questo." "Male! Non vorrei che avesse dei dispiaceri. Ho sentito delle voci ... Basta, non perda tempo, e non si esponga a certi pericoli ... Se vuole che mandi il Miglioretti ... ." "Grazie, vedrò ... ." Il Martini uscí dall'ufficio del commendatore col cuore un po' inquieto. Carattere delicato e scrupoloso, quel semplice rimprovero gli bruciava sul cuore come un carbone acceso, e, se un gran dolore piú crudele non avesse occupata e riempita di sé tutta la sua esistenza, sarebbe bastato questo dubbio per amareggiargli la vita. Il Pianelli, fingendo che alcuno lo chiamasse allo sportello, andò a sedersi al suo posto, prese la penna e si pose a copiare una tabella. Copiò, copiò forse dieci minuti una lunga fila di numeri, materialmente, in forza di quell'abilità automatica che acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da sé e quasi ragionare da sé anche quando il cervello è assente. Il Martini aprí la cassa grande, di cui aveva lasciato la chiave, e chiuso in un freddo silenzio, che si poteva interpretare come lo stato d'animo d'un uomo che ha il cuore irrigidito, mosse e rimosse molte carte e molti valori. Poi passò alla cassa piccola, che aveva lasciato nelle mani dell'aggiunto. Il Pianelli si mosse, quasi per uno scatto interno, e disse: "Veda se tutto è in ordine." "Non c'è dubbio ... " balbettò freddamente il Martini. Il Pianelli tornò al suo posto e riprese a scrivere, a scrivere. Ma gli occhi vedevano rosso. Il Martini seguitava a rovistare, a muovere carte, a riscontrare, sempre chiuso nel suo cupo, insopportabile silenzio. Pareva un uomo incontentabile, o non mai abbastanza soddisfatto. L'altro scriveva sempre i suoi numeri infiniti color sangue, col cuore duro come un sassolino, sempre in attesa d'un giro di chiave che chiudesse per sempre al buio il documento della sua miseria. Quell'insistenza eccezionale, in un uomo che aveva mostrato il giorno prima di fidarsi cosí pienamente di un amico, gli diceva già che anche la buona fede del compagno era stata preventivamente scossa da una voce misteriosa, insidiosa, da quella stessa voce, che da due giorni andava seminando il discredito e la diffidenza. Passò ancora un quarto d'ora, che al Pianelli parve un secolo. Finalmente il Martini, con una voce velata che si sentiva preparata con suprema fatica, domandò: "Si ricorda, Pianelli, quanto abbiamo pagato al capomastro Inganni?" "Io credo tremila ... " esclamò il Pianelli, saltando in piedi e correndo con una premurosa sollecitudine verso il compagno. "Mi risulterebbero meno ... ." "C'è il mandato, veda ... ." "Lo vedo ... " disse il Martini con un filo di voce, abbassando gli occhi e cercando di frenare il tremito da cui furono prese le sue mani. "Perché?" chiese il Pianelli con voce stridula, quasi di sfida. "Nulla, scusi ... , avrò sbagliato io." Il Pianelli voltò dall'altra parte la faccia. Poi disse: "Vedremo alla fine del mese ... ." "Scusi ... " tornò a dire il Martini, mentre andava facendo dei piccoli conti sull'angolo di un cartone disteso sul banco. "Non le pare?" tornò a chiedere il Pianelli, nascondendo in parte la faccia colle mani nell'atto che egli fece per accendere un sigaro. Il Martini gettò la penna con un movimento disperato. Riprese il mandato, lo agitò tra le dita, e fatta una mezza girata per la stanza, curvo nelle spalle sotto il peso della disgrazia e del tradimento, si fermò al tavolo del Pianelli, lasciò cadere il mandato, vi pose un dito, vi picchiò sopra tre volte coll'unghia, senza poter parlare, collo spavento dipinto nel suo viso d'uomo morente. Cesarino finse di non capire. Voltò e scosse due volte il capo, coll'aria di chi domanda una spiegazione, ma le orecchie parevano due pezze rosse e la pelle fina e lucida del viso si stirò sugli zigomi irritati. La bocca gli si riempí di saliva amara. Il Martini, con uno sforzo estremo, appoggiandosi colla mano a una sedia, poté soltanto soggiungere: "Pianelli, per carità, anche lei è padre di famiglia ... ." "Che cosa?" osò ancora una volta chiedere col suo cipiglio di ragazzetto insolente lord Cosmetico. "Abbia pietà, Pianelli. Sono un povero uomo anch'io ... ." "Che cosa?" "Perdoni ... " balbettò ancora una volta il Martini. "So bene che io sono il solo mallevadore della cassa: ma speravo di avere in lei un amico ... ." "Martini, per carità ... " scoppiò tutto a un tratto a dire Cesarino, che non poté piú resistere al doloroso invito dell'amicizia. "Per carità ... , per i miei figliuoli ... , per la sua bambina ... , per la sua povera Emilia, non mi tradisca. È vero, fu il bisogno, l'insidia de' miei nemici. Fra due ore avrà il denaro ... " "Aspetto fino a stasera. Il commendatore mi ha già rimproverato d'aver abbandonato la cassa senza una regolare consegna. Ho promesso per questa sera di rendergli i conti." "Fino a stasera almeno." "Se il commendatore non vorrà, non insisterò ... ." "Stasera prima delle otto ... " "A casa mia?" "Dove crede ... , vado subito a Melegnano in cerca di mio suocero. Non mi comprometta." "Non sono io che la comprometto, per amor di Dio ... ." "Ho dei nemici che mi vogliono male. Abbia pazienza ... , non mi faccia fare una cattiva figura." "Vede che io soffro non meno di lei. Vengo da un letto di morte e mi fa trovare un tradimento ... ." "Lei ha ragione; sono un miserabile ... Ma non mi tradisca. Se non trovo il denaro per questa sera, le rilascerò una dichiarazione ... e mi ammazzerò." "Cerchi di salvare il suo onore ... " disse ancora il Martini, mentre il Pianelli, preso in furia il soprabito e il cappello, usciva rapidamente dall'ufficio.

Come se di impicci e di strozzamenti non ne avesse avuti abbastanza in tutta la sua vita! Come se, per non averne piú, egli non avesse giurato di morir solo e vivere intanto nel suo guscio, in una soffitta sopra le tegole, lontano dagli uomini e dalle donne. La carrozza funebre svoltò un'altra volta e uscí da Porta Vittoria. Dopo le ultime case del sobborgo, laggiú, presso il vecchio forte militare, la strada si fece piú molle e fangosa. Da lontano, dietro gli alberi umidi e grondanti di pioggia, venivano sopra gli umidi sbuffi d'un vento gelato i tocchi d'una campana, forse da Calvairate. Il luogo non è mai bello per sé con quelle siepi mozze, con quella lunga cinta di camposanto che si accompagna alla strada, con quell'acqua morta che inverdisce nei fossi. C'era di piú l'ora bigia e triste e la giornataccia che andava oscurandosi nella nebbia della bassa pianura. Di tristezza traboccò anche il cuore di Demetrio, che, dopo due giorni di scosse e di irritazione, nel punto che tiravano Cesarino dal carro, sentí al disotto dei vecchi rancori irrugginiti agitarsi un sentimento molle e fraterno di carità e di compassione. Povero figliuolo, povero martire ... , cosí giovane ... , andava ripetendo una voce in fondo al cuore, al disotto di quel gran mucchio di reminiscenze dolorose e cattive che pesavano sulla coscienza come un sacco di chiodi pungenti. Due lagrime dure spuntarono nell'angolo degli occhi, stagnarono nella pupilla e gonfiarono la testa di vapori. I becchini, toltasi la bianca cassa di larice sulle spalle, si avviarono attraverso ai cumuli di terra per un campo melmoso sotto la pioggerella. Demetrio li seguí. Stette a vedere la cassa scomparire nella buca, sentí la terra molle cadere sul legno. Data una robusta scossa ai pensieri che gli tiravano il capo sul petto, disse con un sospiro: Amen . Ritornò in città ch'era già buio, senza mai accorgersi che dietro di lui, col muso basso, camminava un cane. Traversò strade, stradette, piazze e vicoletti col suo passo pesante di bifolco, crollando di tanto in tanto la testa come un cavallo stanco di portare il basto. Giunse in San Clemente, e, nell'androne buio della porta, sentí una voce che lo chiamava per nome. "Che cosa c'è ancora?" esclamò con un fare di uomo seccato. "Sono dell'Ospedale. Ho portato i vestiti e le scarpe del defunto. Se il signore volesse favorire la sua buona grazia ... " Demetrio masticò tre o quattro parole senza senso, si tirò verso la porta, e, al lume del lampione a gas, guardò nel borsellino. " L'hoo propi miss in la cassa come on bombon " continuò la voce dell'uomo che parlava nel buio. Bisognò dare una lira anche a costui.

Aveva sofferto già abbastanza la mortificazione del pitoccare l'elemosina per sentirsi ancora la forza di affrontare lo scandalo di un processo per truffa e falso. Era già stracco, annoiato, nauseato della vita e della gente. Si accostò al parapetto, fissò l'occhio nel biancheggiamento turbolento dell'acqua, che rimbalza e scaturisce dalla chiavica e manda tra le due portaccie del sostegno l'ululato d'una bestia feroce. A questo rumore si mescolava il friggío dell'acqua, che traboccava dalle grondaie e ribolliva sul lastrico. Tutt'insieme quell'acqua faceva uno scroscio ampio, assordante, che toglieva i sensi e la ragione. Egli e l'acqua erano già una cosa sola. Non aveva piú un filo asciutto indosso. I panni gli si raggrinzivano sulle carni, le scarpette macerate zampillavano fontanelle, il cappello era una spugna. Si sentiva gonfia d'acqua la testa e l'anima. Tratto da un impeto cieco di disperazione, discese a corsa la stradetta alzaia, che passa sotto il ponte e rasenta il pelo dell'acqua. Qui non c'è che un passo, chi voglia farla finita colla vita. La gente voleva la sua morte: la voleva anche lui. Ma quando fu sotto, al buio, un pensiero, che fin qui aveva cercato di non lasciarsi vedere, e che se ne stava rintanato nella parte piú oscura del cuore, ributtato le cento volte da una passione piú avara e piú dispettosa, come se a un tratto ricuperasse una giovanile energia, urtò, rovesciò ogni altra considerazione e uscí con tutto il suo disperato entusiasmo a fermare un pover'uomo dall'ultimo passo. E quei poveri figliuoli? E la sua cara Arabella? Questa veniva quasi piú avanti degli altri bambini nella sua chiara biondezza, nella sua bellezza alta e sottile. Egli era uscito per andare a una festa da ballo senza quasi guardarli in faccia quei figliuoli e non poteva morire senza vederli ancora una volta. Non poteva morire cosí come un gatto senza provvedere in qualche maniera, non al proprio onore (questo era perduto per sempre), ma all'onore, alla protezione di quei poveri figliuoli. La sua morte doveva almeno esser utile a qualcuno. Quattro ore sonarono nel fitto dell'oscurità, ore gravi, cupe, solenni come quattro parole piene di minaccia, che fecero sul capo dell'infelice l'effetto di spietate martellate. Il Pianelli capí che era l'ora di tornare a casa e, tra il chiaro e il fosco de' suoi pensieri in disordine, ritornò sul ponte, e, col passo frettoloso di chi ha paura di perdere un treno, risalí di nuovo tutto il Corso, ritraversò piazza del Duomo, alzò gli occhi alle finestre illuminate del Club, dove si ballava ancora: scese per via Torino, passò davanti San Giorgio, senza vedere, senza udire i pochi matti che strillavano e barcollavano vestiti da maschera: passò imperterrito quasi sui piedi di due questurini accovacciati nel rientro di una porta, e venne fino in Carrobio, non so se cacciato o se tirato da un ultimo pensiero, soltanto in questo vivo, morto indurito nel resto della sensazione, fatta ancora piú rigida dai sudori dell'ebbrezza alcoolica, che gli si congelavano indosso. Trasse dal taschino la chiavetta inglese, aprí il portello, entrò nell'andito della casa sua, rintracciò nel buio la solita strada, la solita scala, che prese a salire energicamente col corpo piú sveglio, ritrovando nelle svolte dei pianerottoli le idee abituali di tutte le sere. Abitava al terzo piano un quartierino quasi nuovo, che aveva due balconi verso strada. Per una scaletta di legno si saliva, oltre il suo pianerottolo, a un terrazzino aperto sul tetto per il medesimo uscio del solaio. Su quel terrazzino Cesarino Pianelli aveva un poco di botanica. L'uscio del solaio, di legno massiccio, come al solito era rimasto aperto e Cesarino se la prese ancora mentalmente contro il guattero dell'osteria, un animale che non aveva le mani per chiudere, quando andava lassú a prendere il carbone. L'uscione, sbatacchiato dalla forza del vento che entrava per l'abbaino, mandava di tratto in tratto dei cupi rimbombi nella torre della scala. Cesarino alzò gli occhi e vide in mezzo a due nere travi una pezza piú chiara di cielo. Introdusse dolcemente la chiave nella toppa e sospinse il battente. Giovedí, un brutto cane volpino, che egli aveva raccolto per via la notte d'un giovedí santo, si mosse nel suo giaciglio, posto in un angolo dell'anticamera, mandò un guaiolo; ma, riconosciuto il padrone, si accoccolò di nuovo a dormire. Camminando sulla punta dei piedi, si avvicinò all'uscio della stanza da letto: e ascoltò. Beatrice era tornata e dormiva da una mezz'ora, profondamente, cullata dall'eco delle danze. Tornò indietro, sempre sulla punta dei piedi, entrò nello stanzino che serviva da studio, che aveva la finestra sopra un cortiletto di passaggio tra la bottega del lattivendolo e l'osteria. Accese una candela, buttò in terra il gibus pesante d'acqua e si strappò di dosso il soprabito e l'abito nero a falde. Con una salvietta si asciugò un poco i calzoni, le mani, il collo e indossò un gabbano che trovò sul letto. Stracco e mezzo malato si abbandonò sopra una poltrona e stette lí tutto intormentito, tutto d'un pezzo. La casa e la città tacevano ancora in quell'ora cieca che precede il giorno: e l'unico rumore era lo sbattacchiare villano dell'uscione del solaio, che agitava un suo arpione di ferro pendente. Fissò gli occhi nella fiamma bianca della candela posta sulla sponda della scrivania, dalla quale si irradiava un cerchietto di luminose stelluccie. Portò le mani agli occhi. Erano lagrime. Tristo, maledetto destino che per qualche migliaio di lire un uomo dovesse perdere la vita! E quest'uomo aveva esposto tre volte il petto alle fucilate, ed era stato a Roma nel settanta. Cesare Pianelli aveva due medaglie commemorative e un congedo militare onorevolissimo. Ebbene, a quest'uomo non si davano nemmeno tre giorni per ordinare le idee, per accomodare un debito. Sonarono le quattro e tre quarti a una graziosa pendolina di nichel posta sul caminetto. Nella stanza vicina, non divisa dallo studietto che da un semplice assito aperto in alto, dormivano i suoi figliuoletti minori, Mario di circa sei anni e Naldo di quattro anni e mezzo, due bei bambini, che avevano gli occhi del babbo e la carnagione bianca della mamma. Arabella, di dodici anni e mezzo, dormiva in una cameretta piú lontana. Cesarino amava immensamente i suoi figliuoli, e sebbene li vedesse attraverso lo specchio falso delle sue grandi idee e della sua ambizione, l'affetto suo non era per questo meno vivo e sincero. Arabella specialmente era il suo cuore, perché ragazza, perché la prima, perché bellissima. Questa bambina d'un biondo chiaro, con magnifici occhi neri pieni di riflessi, cresceva a precipizio con una personcina aristocratica, mobile, nervosa come la natura del babbo, ma d'animo dolcissimo come la mamma. Che cosa sarebbe stato di questi ragazzi fra ventiquattro ore? Come avrebbe potuto un povero padre sopportare lo sguardo pieno di lacrime di quella bambina intelligente? E che cosa avrebbe dato loro da mangiare il povero padre? E chi avrebbe sposata la figlia di un uomo processato per falso e uscito di prigione? E chi avrebbe dato pane ed educazione a' suoi maschietti? Il mondo è cattivo. Il mondo è cane, peggio dei cani. L'uscione del solaio agitato dal vento seguitava a sbattacchiare innanzi, indietro. Parevano insulti quei colpi! Cesarino si profondò ancora un poco nelle sue meditazioni, e trovò che proprio uno solo era il rimedio ai suoi mali. Andò alla scrivania e scrisse di seguito: " Illustrissimo signor commendatore , "Il sottoscritto, dopo quasi venti anni di onorati servigi resi alla patria, si trova nella dolorosa circostanza di non poter restituire entro ventiquattro ore la somma di lire mille. Poiché non si è creduto necessario di concedergli un lasso maggiore di tempo, provvede egli stesso al suo castigo. "Valga questa mia dichiarazione quale giustificazione pel signor ragionier Martini e valga il mio sacrificio a espiare un delitto che non era nelle mie intenzioni di commettere. Spero che non si farà processo ad un morto e si vorrà almeno salvare l'onore de' miei figli. "In quanto ai danni ho incaricato mio fratello Demetrio di regolare la partita collo stesso signor ragionier Martini. "Con osservanza CESARE PIANELLI." Prese quindi un altro foglio e scrisse in alto: " A mio fratello Demetrio ." E piú sotto: "Prego mio fratello a voler regolare col signor ragionier Martini un conto di lire 1000 (mille), di cui mi dichiaro suo debitore, e nello stesso tempo di voler provvedere perché siano protetti i diritti dei miei figliuoli, tanto per riguardo alla mia pensione, quanto per la intera esazione della dote di mia moglie, di cui è qui allegata una promessa scritta di mio suocero, il signor Isidoro Chiesa di Melegnano. Si procuri che i miei figli non sappiano mai come morí il padre loro." E senz'altro firmò, suggellò le lettere, scrisse gli indirizzi e sollevò la testa come se si svegliasse da un gran sogno. Naldo mormorava in sogno delle parole ridenti. Il cuore irritato e superbo del padre fu scosso da quella voce tenera e balbettante, che si svolgeva dalla vaga delizia d'un bel sogno. Il povero uomo strinse la testa fra i pugni. Bagnò ancora una volta la penna e cominciò a scrivere: "Cara Beatrice ... " Ma un fiume di lagrime gli tolse la vista della carta. Soltanto a scrivere il nome di questa donna, tutte le forze dell'anima si risvegliarono in un impeto sdegnoso di coraggio, in una quasi feroce esigenza di vita. Egli non osava dire a sé stesso che forse soltanto per questa donna era venuto insensibilmente all'orlo del precipizio: non osava accusare sua moglie, renderla complice delle sue disgrazie. Ciò che egli aveva fatto per lei, i regali, il lusso, lo splendore della vita, non era stato chiesto dalla povera donna: ma Cesarino l'aveva dato spontaneamente, come tributo dovuto alla bellezza e alla bontà di sua moglie, di cui egli era ciecamente innamorato e ciecamente geloso ... All'idea che i morti non possono vedere le cose di qua, e che Beatrice, vivendo, poteva essere il tesoro di un altro uomo, Cesarino rabbrividí, buttò via la penna, si picchiò la fronte con pugni duri e stretti. Quali tentazioni gli passavano nel sangue? Non aveva mai creduto a certi delitti se non come conseguenza di delirii frenetici e di pazze allucinazioni: ma ora si sentiva pigliato egli stesso da una forza invisibile che tentava di trascinarlo di là, nella stanza vicina, accanto al letto della bella donna addormentata, ancora sua, tutta sua ... Capiva già come si possa afferrare un coltello e uccidere, uccidersi ... Balzò in piedi inorridito. Tremava in tutto il corpo di febbre fredda, mentre la fronte pareva una fornace. Non piangeva piú. Si guardò una volta nello specchio ed ebbe paura di sé. La testa pareva già calcinata, le labbra indurite, gli zigomi tesi, la fisionomia coperta dei lineamenti della morte, i capelli irti, tesi, irritati, l'occhio vitreo di uomo pazzo ... Era già pazzo forse? questa poteva essere ancora una mezza salute. A un pazzo si perdonano molte cose, che non si perdonano ad un morto, e un pazzo può ancora risuscitare. Ma ragionava ancora troppo per essere matto. La macchina logica del suo cervello funzionava ancora troppo regolarmente e gli dimostrava che pel ladro e pel falsario non c'è che il codice penale ... Un impeto di nausea urtò a questa ripetuta idea lo stomaco, la vertigine lo colse, trasudò copiosamente per tutto il corpo, e sentí quasi un rovesciamento di tutti i visceri. Anche questo male passò presto: non poteva né impazzire, né morire, mio Dio! Bisognava ch'egli si distruggesse proprio colle sue mani. Soffiò sul lume e rimase al buio, raccolto, colla testa tra le mani, quasi a pregustare il gran buio eterno in cui stava per gettarsi. Quando si scosse da quella profonda contemplazione, vide che un primo albore del giorno biancheggiava già sui vetri. Si alzò, aprí la finestra che dava sul cortiletto, guardò giú nella fonda oscurità delle pareti ancora umide e sgocciolanti di pioggia. Il vento fresco e leggero dell'alba rompeva qua e là la nuvolaglia del cielo e cominciava ad asciugare i tegoli. La luna usciva ancora a tempo per spargere sui tetti bagnati un raggio della sua luce tremula e falsa, una luce che faceva male al capo. Cesarino sentí la nausea della vita e misurò ancora una volta coll'occhio la terribile profondità in cui stava per gettarsi capofitto. Ma in quel punto uscí e si mosse nel cortile un lume. Alcune voci si mescolavano al tonfo sonoro del secchio del lattivendolo. Non era piú a tempo a gettarsi dalla finestra. Sentí che sonavano la diana alla caserma di San Francesco, a cui rispose piú lontana, forse dal castello, la diana della cavalleria. Queste due squille vive nel gran silenzio dell'ora sollevarono un nuvolo di idee e di memorie del tempo felice ch'egli aveva servito nei lancieri, quando, per esempio, cacciando la testa fuori della tenda si vedeva all'orizzonte dietro i pioppi del Ticino la striscia argentea dell'alba. Al di sopra dei tetti per la vastità dell'aria si moveva e arrivava anche il rumore sordo dei carri, che, sul fare dell'alba, portano alla città le verzure, la legna, il fieno; e veniva insieme anche qualche tocco d'Avemaria di una parrocchia rurale, lontana lontana, insieme ai fischi della stazione di Porta Genova. Cesarino fu quasi respinto indietro da quei suoni di vita: chiuse in fretta la finestra. Dopo aver cacciata la testa nel bugigattolo dove dormivano i figliuoli, dopo aver respirato l'odore caldo della loro vita di cui lo stanzino era pieno, volle dare un bacio alla sua Arabella. Passò nell'altra stanzetta, leggermente, per non svegliare la bambina. Non piangeva, non pensava, non soffriva nemmeno piú: ma erano lampi e bagliori di idee in mezzo alla nera oscurità di una ragione che un senso indomato di orgoglio trascinava alla disperazione. La stessa disperazione però pigliava già forma di sacrificio. Non è santo olocausto la morte di un padre che si uccide per salvare l'onore dei figli? Arabella dormiva soavemente nel suo letto composto e bianco. I capelli di lino scendevano sopra le piccole spalle che brillavano nella poca luce dell'alba. Il seno piccolo e commosso forse da un sogno palpitava della vita che si sogna a dodici anni. Le labbra semiaperte mandavano fuori un alito puro, misto al profumo delle carni intiepidite nelle coltri. Quel mondo cattivo e senza carità, che voleva oggi cacciare in prigione il padre, avrebbe fra non molti anni sospinto colle stesse mani la figliuola al vizio e alla vergogna, giovandosi della sua fragilità morale. O che cosa può essere (pensa il mondo) la figlia di un ladro e di un falsario morto in prigione? L'uscione del solaio sbatacchiò due colpi che fecero tremare la casa. "Vengo." Si chinò sulla testolina della figliuola, lasciò che cadessero le ultime lagrime sopra i suoi capelli, l'adorò un ultimo istante, e risoluto, sempre con passo leggero, andò in cucina, presso la cassa della legna. C'era un cassetto, frugò, rimestò un pezzo colle mani, scelse qualche cosa, che osservò attraverso alla luce nascente della finestra, e passò davanti all'uscio di Beatrice. Ascoltò. Essa dormiva col fiato pesante. Davanti a quell'uscio, mentre stava col pugno stretto, sentí come un coltello in mezzo al cuore. Non c'era piú tempo da perdere. In anticamera Giovedí si mosse un poco e si lamentò. "Dormi, povera bestia!" L'uscio che dava sul pianerottolo era rimasto aperto. Lo riaccostò senza far rumore e corse a precipizio su per la scaletta del solaio. Arabella sognava d'essere nella chiesuola delle monache, occupata a ornare di fiori una statuetta della madonna. Da qualche tempo essa si preparava alla prima Comunione e il suo cuore era pieno di visioni: quando fu svegliata bruscamente da un forte abbaiare. Alzò un poco la testa, in preda ad uno strano spavento; portò la mano al cuore, dove sentiva uno schiacciamento come un chiodo premuto, girò gli occhi intorno. I vetri cominciavano ad imbianchire nella luce mattutina. Le campane di San Sisto sonavano l'Avemaria. Lasciò cadere ancora la testa, stanca del bel sonno della fanciullezza, e si addormentò un'altra volta. Il cane, colle quattro gambe tese rigidamente sugli scalini e col corpo quasi indurito dall'emozione seguitò un pezzo a urlare nell'ombra contro l'uscione aperto del solaio. Ficcava gli occhi nel buio della soffitta, ma non osava fare un passo né avanti, né indietro, come se, tranne la voce, la povera bestia fosse istecchita nelle sue costole.

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