Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Malombra

670403
Fogazzaro, Antonio 13 occorrenze

Ne aveva abbastanza di girar per casa! Perdeva spesso la tramontana sulle scale o nei corridoi. Allora chiamava Catte, chiamava Momolo. Catte era già pratica d'ogni buco quanto un vecchio topo; ma il povero Momolo non ne poteva venire a capo e non era infrequente il caso che all'appello della contessa rispondesse quasi di sotterra la sua voce lamentevole. "Pro nto, Eccellenza; ma non so da che parte". Gli Steinegge erano andati due volte alla canonica e don Innocenzo avea fatto anche lui una visita al Palazzo. Quanto al dottore, non vi si era più veduto. Bella e allegra compagnia era quella che pranzava nel tinello. Motti, burle, grossi equivoci, galanterie bernesche, botte e risposte di taglio e di punta, sussurri maligni, risate, strilli, mugolii di mangiatori disturbati, s'urtavano, s'incrociavano, si mescolavano sotto le volte basse. Un tocco di campanello troncava netto quel tripudio di ranocchi indiavolati; poi scappava fuori daccapo una voce, un'altra, una terza, tutto il concerto. La Giovanna se ne crucciava inutilmente. Chi faceva le spese di tanto chiasso era per lo più Momolo che sapeva dir solo "andiamo, andiamo, da bravi". Da Momolo, i beffeggiatori passavano al parlare veneziano, a Venezia stessa; ma allora bisognava sentire e veder Catte, riconoscere che cinque o sei lombardi son pochi davvero per azzuffarsi a parole con una brava calèra del buon sangue veneziano. Con quattro frustate in giro li faceva stare indietro tutti, poi ne sceglieva uno e lo tempestava di motti e di frizzi, voltandogli addosso le risate della compagnia, sprecando un tes oro di spirito e concludendo, inebetita la vittima, che non c'era gusto. "Andate là" diceva qualche volta Fanny "stiamo più allegri noi che i sciori." Allora si chiudeva il torrente delle risate e si aprivano i mille rivoli del pettegolezzo. Tutta la compagnia bisbigliava. Alla Giovanna quei bisbigli non piacevano; ma Catte sosteneva che a nu, poarini, era lecito, lecitissimo ascoltare alle porte, leggere le lettere, dar ordine alle tasche ed ai cassetti dei padroni. Non vanno alla commedia i padroni? Dunque anche la povera servitù ha da potersi godere la sua matta commedia, già che in casa la danno per niente. E se non la vogliono dare, ciò, la si prende . Quello non è rubare; agli occhi e alle orecchie non ci resta attaccato niente. Se si mette la mano in un cassetto è a fin di bene e non per brutte cose, e, dopo, uno si lava nell'acqua dei padroni. La commedia in scena era questa: S. E. Nepo e il suo matrimonio. Quella gente aveva fiutato il titolo in aria per istinto. Si era ancora al prologo; un prologo occulto da cogliersi negli sguardi, negli atti, nelle parole più indifferenti, forse in qualche colloquio recondito in cui gl'interlocutori credevano non essere uditi neppure dall'aria. Catte ne aveva parlato lungamente a Fanny, rispondendo agli elogi che la cameriera civettuola faceva della bellèssa di Nepo, della bianchèssa di quelle mani da popòla e della sua gran scichèssa in generale. Catte le aveva rappresentata la cosa come un gran beneficio cui la Provvidenza, aiutata dalle Eccellenze Salvador, stava per recare a donna Marina. Ella magnificava non poco le ricchezze de' suoi padroni, i due palazzi di Venezia, di qua e di là dall'acqua, la colossale villeggiatura con i porticati lunghi come le procuratie, i reggimenti di statue, i granai capaci di sfamare tutti i topi e i pitocchi di Venezia, e la famosa aia grande come la Piazzetta. Fanny beveva queste notizie e le spandeva tra i colleghi: "Che senta, che senta! La dice così e così". Pareva che stesse per ereditar lei tutta questa roba. Gli altri facevano spallucce. Che ne importava loro? E chiedevano a Fanny s'ella credeva di andar a far la principessa. Fanny, piccata, rispondeva: "Che sciocchezze!". Principessa no, ma intanta non sarebbe più stata ad ammuffire in quel mostro d'un sito, fabbricato dal diavolo per i suoi figli. Allora le si faceva osservare che il matrimonio non era poi mica ancor a sicuro; e qui cominciavano le congetture, si avviavano delle conversazioni come questa: "Lui già è innamorato morto." "Ho visto io ieri che alzandosi da tavola lei aveva impolverata la punta d'uno stivaletto." "Ouf, mica vero." "Come, mica vero? Ce lo dico io. E poi si mangian su cogli occhi." "Invece no. Lei non ci guarda quasi mai. È lui che è sempre lì a questo modo!" "Storie!" "Già si sa che la signora Fanny non vuol credere." "Perché non voglio credere, signor Paolo?" "Non ha preso su qualche mezza oncia, Lei, dal signor conte?" "Ebbene, cosa c'è dentro?" "Qualche bacio?" "Bugie, bugiacce ! Non ha vergogna? Nessuno me ne ha fatto dei baci a me." "Eh lasciate dire, benedetta. C'è la libertà qui. Prima se lassa far dopo se lassa dir; voi non c'entrate. E poi cos'è un bacio. Tempo buttato via." "Oh che süra Catte!" "Cosa dice Momolo? Che si faccia l'affare o no?" "Cosa volete che dica? Bezzi cercan bezzi." "Ehi, guarda un po', è mica da merlo quella risposta lì. Già, l'è così la storia. Lui le fa l'asino, tanto per parere; e lei che ci vuol bene al padrone qui come al fumo negli occhi, lei se l o lascia fare tanto per cavarsela; ma l'è tutta una macchina dei vecchi. Han denari come terra e voglion fare un mucchio solo." "Tacete, ha ragione qui lui! Stamattina la contessa ha preso una rabbia, perché sono andata in sala mentre l'era sola col signor conte e poi è venuto il Sindaco e non andava mai via, mai via e mai via, che bisognava vedere! Certo la ci voleva parlare e non ha potuto, perché poi sono tornati a casa gli altri. È chiara, neh, süra Catte?" "Come questo caffè, vecia." Catte aveva poi dei colloqui intimi con Fanny nelle passeggiate vespertine che facevano insieme. Donna Catte Picoleta ma furbeta sapeva divertirsi alla commedia per conto suo e recitare per conto degli altri. Perché mai cercava ella, così acuta e sarcastica, il favore della scipita Fanny? Perché la blandiva con tutti i possibili cocolezzi? Perché la faceva sempre parlare di donna Marina? Essa la strizzava come un limone, ed ebbe presto finito di spremerne il sugo, che non era molto davvero, benché contenesse ogni sorta di cose. Le informazioni e i giudizi di Fanny, accomodati e cuciti da Catte a modo suo, erano porti a S. E. la conte ssa Fosca che li accoglieva con gravità solenne come avrebbe fatto, in argomenti di Stato, uno dei Cai antenati di suo marito. Ella seppe così che Marina era amica intima di Fanny e le confidava tutto; che godeva di una salute regolarissima e non aveva in tutta la persona un difetto, una cicatrice, che non aveva potuto soffrire il signor Silla; che portava biancheria di seta; che leggeva una quantità di libri gialli e rossi; che era mite come un'agnellina. Fanny aveva detto qualche altra cosa, una cosina gh iotta che Catte offerse alla contessa con molta arte, con uno straordinario sfoggio di segretezza, ecco: pareva a Fanny che la marchesina fosse innamoratissima di Sua Eccellenza il conte. Ma la contessa con quell'aria di dabbenaggine spensierata, sapea osservare e se ne intendeva di questi argomenti. All'udire la grande notizia alzò gli occhi in viso a Catte, la guardò un poco e disse solo: "Sei vecchia, tu?" "Gesummaria, Eccellenza!" "Anch'io, sa!"

Capisce bene che in ogni modo per allontanare Salvador ce n'è più che abbastanza. Tornando alla marchesina, mi domandò allora con un sorriso sarcastico se si conosceva il testamento. Io glielo riferii ed ella non si turbò affatto. "Se io sono esclusa" dice "questa è una ragione, per un gentiluomo come mio cugino, di non abbandonarmi." Dopo di che mi fa un discorso riguardo a Lei: debbo confessarlo. Un discorso sensatissimo. Vi sono proprio delle convenienze imperiose che dan no ragione a donna Marina, e Lei vorrà non dolersi, credo, se ho accettato di esporle il suo messaggio. Le assicuro che sono convinto di fare un'opera buona verso tutt'e due." "Ch'io parta?" disse Silla, concitato. Il commendatore tacque. "Ma cosa crede Lei, che il conte Salvador possa tornare, che voglia prendere una moglie, non foss'altro, inferma di mente e diseredata? Come si posson pigliar sul serio i discorsi di una donna in quello stato? Ma si metta una mano sul cuore e mi dica se io, che purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa notte, mi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzato, anche per causa mia, adesso che cade dalla ricchezza nella povertà perché di suo deve aver poco o nulla, adesso che è mal ata di una malattia terribile, mi dica, ripeto, se posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente fosse stato, solo perché questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice: "andate pure". Andar via, lasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Lei, commendatore, mi consiglia questa viltà?" "Piano, piano, piano" disse il commendatore piccato. "Non adoperiamo parolone e riflettiamo un po' di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore della marchesina di Malombra? Non voglio esser severo con Lei perché in affari di cuore non lo sono mai, e perché dopo una notte simile, chi può avere la testa a segno? Ma mi spieghi un poco, scusi sa, che sorta di protezione può offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco onorevole, una protezione che le allontanerà tu tte le altre. Perché la marchesina ha dei parenti che l'assisteranno se non per affezione, almeno per un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vede, non è neanche il caso, parlando chiaro, del matrimonio per riparazione; con una donna che vi respinge? Con una donna, sopra tutto, che non ha la sua ragione intera? Dunque, cosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire." Silla lottava fieramente per serbarsi freddo, per soffocare un lume indistinto di speranza che gli entrava nel cuore, e poteva turbargli, in quel frangente, il giudizio. "Sul Suo onore, signor Vezza" diss'egli "crede buono questo consiglio?" "Sul mio onore, lo credo l'unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna Marina, parlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente." "Io? Nemmeno per sogno. Se partissi, non vorrei rivederla." "Un momento. La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquio, ciò che farò con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlare, a ogni modo, con Lei." "Perché?" "Ma! Bisognerebbe domandarlo a lei. Vada, si faccia coraggio. Io ho il diritto, per la mia età, di parlarle come un padre, signor Silla. Mi spieghi questa cosa che non posso comprendere, ricordando una certa scena dell'anno passato. Ha Lei una vera affezione per donna Marina?" "Perdoni, non si tratta de' sentimenti miei, adesso." "Basta, basta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?" "No, le dica solo che mi faccia saper l'ora in cui dovrò recarmi da lei." "Sì. Per dirle la verità, il mio interesse personale sarebbe ch'Ella restasse qui ancora qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C'è da chiedere al pretore l'apposizione dei sigilli. Capirà, qui c'è tanta gente! C'è da scrivere alla Direzione dell'Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegramma, ma non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è a Oleggio. Il conte dev'essere trasportato là? Dev'essere sepolto qui? Mi han promesso che prima delle due arriv eranno gli annunzi stampati da diramare: un bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonte, il povero Cesare, e di mezza Toscana, anche. Insomma, quanto a me, se Lei restasse fino a stasera, ne avrei certo piacere." Un forte soffio di vento entrò dalla finestra aperta, gonfiò le cortine. "Oh, il vento cambia, meno male" disse il commendatore. "Anche questo tempaccio è una cosa orribile." Silla non rispose, salutò in silenzio e tornò nella propria camera, meditabondo. Cos'era adesso quest'altro enigma? Cos'era quest'altra commedia del destino? Egli ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all'altro, nello svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso passeggero, una esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane. Se il Vezza s'ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adesso, lo respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio. Restavano i rimorsi, la vergogna d'esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità con un coperto proposito di colpa, per farvisi complice di una mortale nemica del conte, mentre quest'uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso dalla infermità. Ma pure, se rimanesse libero, non vi sarebb'egli modo di rialzarsi ancora, di purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranza, gli ripeteva le parole di Edith: "Non affonderà mai, se ama come lo d ice". Non era più il Silla di prima che fantasticava così, seduto sul letto, mentre l'angelo del Guercino pregava sempre. Adesso l'idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l'avvenire: aspetterebbe di aver visto donna Marina, di averle parlato. Oh, se Dio volesse essergli pietoso, rialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religioso, la sua fede in un segreto contatto di Dio con l'anima e nella salutare potenza del dolore, rinascevano. Si cope rse il viso colle mani e si sovvenne di un'ora triste in cui, aperta la Bibbia a caso, vi aveva letto: Infirmatus est usque ad mortem, sed Deus misertus est eius. Quanta consolazione, quanta energia di vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee nella mente ed egli le combatteva, temendo illudersi, prepararsi disinganni più amari. Entrare, per punirsi, nella manifattura de' suoi parenti, dare il giorno al lavoro più ingrato, la notte agli studi, poter dire a quella person a "sono ancor degno ch'ella mi porti nell'intimo del suo cuore!" Queste immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancora, ma le scogliere dell'Alpe dei Fiori nereggiavano sul cielo bianco, nitide, spazzate dal vento del nord che copriva pure le altre cime di fragore, infuriava, volendo sereno.

Tre di essi, gli assessori supplenti e il Sindaco, si conoscevano abbastanza per non aprir bocca mai. Gli altri due, gli assessori effettivi, potevano dar dei punti, per furberia, al signor commendatore. Per scioltezza di scilinguagnolo non gli stavano troppo al disotto, posto ch'erano contadini; grassi se si vuole, ma contadini da gerla e da zappa. "Siamo poveri alfabeti di campagna" diceva uno di loro. Avevano finissimo il fiuto della canzonatura. Si parlò, naturalmente, della cartiera. Il Finotti fece una pittura, a gran tratti di scopa, delle meraviglie industriali che si sarebbero vedute, dei favolosi guadagni che avrebbe fatto il paese. I due approvavano col capo a più potere, fregandosi i ginocchi con le mani. "Com'è diventato aguzzo il mondo!" disse il più vecchio. "E noi restiamo sempre tondi" rispose l'altro. "Almeno se non ci piallano un poco." "Comune ricco, già" disse il Finotti. "Sì, quattro sterpi e un paio di viaggi d'erba, su quelle croste là in faccia, dove tutti si servono. Quando li avremo mangiati per far la strada della cartiera, allora diventeremo ricchi; ma per adesso... Allora sì. Sarà forse per quel vino che ci ha favorito, per sua grazia, il signor conte, allora mi pare che abbiamo da diventar signori bene. È un gran vino; ma sarà mica traditore? Cosa ne dice Lei, signor tedesco, che lo vedo qualche volta dalla Cecchina gobba?" "Ah! Ah!" soffiò Steinegge senza capir bene. "Ehi!" esclamò il Vezza accorgendosi dei nuvoloni neri che ingrossavano a levante. "Vuol far temporale." "Oh signor no" disse l'assessore che aveva parlato prima "per adesso no; stanotte, forse." "Come si chiamano quei sassi là in alto dove batte il sole?" "Noi li chiamiamo l'Alpe dei fiori. Da ragazzo ci sono stato anch'io lassù, a far fieno. Potevano metterci nome l'Alpe del diavolo ch'era più meglio." "C'è bene, lassù, il buco del diavolo" disse l'altro assessore. "Ah, c'è un buco del diavolo?" disse Silla "E perché lo chiamano così?" "Ma, io non saprei mica, vede. Bisogna domandare alle donne. Loro contano un sacco di storie!" "Per esempio, dicono che per quel buco si va all'inferno, che è un piacere, dritti come i, e che i beniamini del diavolo piglian tutti quella strada là. Ci fanno anche il nome a tre o quattro che ci son passati." "Ah sì?" disse il commendator Finotti. "Sentiamo." "Proprio non mi ricordo, sa..." "Gente del paese, già?" "Del paese e mica del paese. Non mi ricordo." Qui l'onorevole Sindaco uscì, in mal punto, dal suo prudente silenzio. "Pare impossibile, Pietro" diss'egli "pare impossibile che non vi ricordiate. La matta!..." "Che asino!" mormorò fra i denti il poco riverente assessore; e non disse altro. "Bravo Sindaco. A Lei! Lei deve ben sapere da che parte vanno all'inferno i Suoi sudditi, diavolo! Racconti dunque! Non sarà mica un segreto d'ufficio, spero." Il Sindaco, accortosi troppo tardi di aver posto un piede in fallo, si andava contorcendo sulla sedia. "Storie vecchie" rispose "storie vecchie. Sarà un affare di forse seicento anni fa." "Ouf, seicento! Non saranno neanche sessanta" disse un altro municipale che fino allora era stato zitto. "Bene, bene, sessanta o seicento, è sempre una storia vecchia, e qui ai signori può interessar poco." Ma il povero Sindaco, preso alle strette, non trovò modo di schermirsi; e, per non aver più quel peso sullo stomaco, lo buttò fuori a un tratto. "Ecco, questa matta era la prima moglie del povero conte vecchio, qui del Palazzo; una genovese, che ha scappucciato, pare, un tantino, e suo marito l'ha condotta qui, l'ha tenuta come in castigo, ed è stato qui anche lui finché è morta; la gente dice che il diavolo se l'è portata a casa per di là." Mentr'egli parlava, Marina si alzò, gli voltò le spalle. I suoi colleghi gli fecero gesti di rimprovero. Il Vezza disse a caso: "È la barca di Cesare quella là?" "Bei tempi!" esclamò Silla con voce sonora. Tutti, tranne Marina, lo guardarono sorpresi. "Tempi di forza morale" proseguì senza badare a quelle occhiate. "Di forza morale organica. Adesso si hanno le convulsioni, gl'impeti di passione sfrenata, e, in fondo, egoista. Se una donna tradisce, la si ammazza o la si scaccia. Vendicarsi e liberarsi: ecco lo scopo. Allora no. Allora vi era qualche gentiluomo capace di seppellirsi con la colpevole in un deserto e di dividere la espiazione senz'aver divisa la colpa, rompendo tutti i vincoli del mondo, per rispetto a un vincolo sacro, benché doloroso." Marina, senza voltarsi, sfrondò nervosamente con la destra un ramo di passiflora. "Può essere stata una vendetta atroce" disse il Finotti "un omicidio lento e legale. Che ne sa Lei?" "Non lo so; non credo che il padre del conte Cesare sia stato capace di questo. E poi, ci occupa, ci commuove la pena; ma la colpa? Chi era questa donna? Chi ci può dire?...." Donna Marina si voltò. "E Lei" diss'ella con voce rotta dalla collera "chi è, Lei? Chi ci può dire neppure il Suo vero nome? S'indovina!" Aperse con impeto l'uscio che metteva nell'ala di ponente e scomparve. Medusa non avrebbe impietrato meglio di lei quel gruppo d'uomini. Silla sentiva di dover dire qualche cosa, e non sapeva che. Gli parve di aver toccato un gran colpo di mazza sulla testa e di barcollare. Finalmente, a stento, raccapezzò un pensiero. "Signori" diss'egli "sento che mi si è gettata un'ingiuria: non so quale, non intendo!" Le parole no, ma l'accento, le braccia, gli occhi, dicevano: Se avete inteso, parlate. I commendatori e il medico protestarono silenziosamente, col gesto, di non saper nulla, gli altri stavano a bocca aperta. Steinegge prese Silla a braccetto, lo trasse via dicendogli: "Adesso conoscete, adesso conoscete." La Giunta di R... e il dottore si ritirarono subito. "Bel finale!" disse il commendator Vezza, passato il primo sbalordimento. "Hai capito tu?" "Eh altro" rispose il Finotti. "È chiaro come l'acqua." "Torbida." "Ma che? vuoi sentire? Quel giovinotto lì, piovuto al Palazzo dalle nuvole, è un peccatuccio dell'amico Cesare. Alla damigella ci ha seccato mortalmente. Capisci, vedersi portar via sotto il naso uno zio siffatto! Ci sarebbe, per salvar tutto, la solita combinazione, e questa scommetto che è l'idea di Cesare, ma!... A Parigi o a Milano o nel mondo della luna ci deve essere un ma con un cilindro etereo e dei calzoni ideali. Sarà biondo, sarà bruno, sarà quel diavolo che vuoi: c'è sicuramente. Dunque, niente combinazione; guerra! Non è chiaro?" "Non sai niente, caro mio. Che si possa arrischiare un sigaro?" Qui il commendator Vezza si divertì ad accendere il sigaro, sciupandovi silenziosamente una mezza dozzina di fiammiferi. "Sì, la Mina Pernetti Silla, bella donna, bellissima donna! è stata veramente amica di Cesare, ma una amica!..." Il commendatore gittò in alto una boccata di fumo, l'accompagnò su con l'occhio e con la mano disegnando in aria degli zeri allegorici. "Lei" proseguì "era figlia di un consigliere d'appello tirolese. Sai che Cesare fu espulso di Lombardia nel 1831? Credo che volesse liberarar l'Italia per potersi sposare poi senza scrupoli quella tirolesina bionda. Ell'avrà avuto un ventidue anni. Il papà l'avrebbe arrostita piuttosto che darla a un liberale. Lei tenne saldo, povera ragazza, a non volersi maritare, fino a ventisei anni. Suo padre, un mastino, credo che la mordesse. Un bel giorno piegò il capo e prese un figuro, un austriacante marcio che f ece denari con le imprese e poi se li mangiò tutti, andò via con i tedeschi nel 59 e dev'esser morto a Leibach, credo. La Mina e Cesare non si videro mai più, ma si scrissero sempre non d'amore, veh! neppur per sogno. Quello lì? Quello lì è un giansenista che non va a messa. Ella non gli scriveva che di suo figlio, lo consultava. È morta nel 58, e tutto questo io l'ho saputo dopo, da un'amica sua. Ora domando io se è chiaro. Domando io cos'ha da temere la marchesina di Malombra, che ragioni aveva..." "Sì, sì, sarà tutto vero, vuol dire che lei non sa le cose a questo modo. Ma poi, come mi parli di ragioni in una testolina così bella? Non vedi, perdio! che occhi? Lì dentro ci sono tutte le ragioni e tutte le follie. Averla per un'ora, una donna così bella e così insolente. Si deve impazzire di piacere." "Peuh!" disse il letterato "è troppo magra." Ma l'onorevole deputato fece di questa censura una confutazione così scientifica che non può trovar posto in un lavoro d'arte.

Mi basta difendermi, e Le assicuro, marchesina, che lo posso fare abbastanza bene. Perché vorrebbe Lei che attaccassi?" "Perché allora la finirei più presto." "Secondo." "Si provi" disse Marina. Silla chinò la testa, con intensa attenzione, sullo scacchiere. Donna Marina fece un atto d'impazienza e si alzò in piedi. "È inutile che studii tanto" diss'ella. "Le assicuro che non vincerà. Non vincerà" ripeté scompigliando con la mano e rovesciando i pezzi. "Io non ho giuocato contro di Lei altra partita che questa, e credo che non giuocherò più." "Meglio per Lei." "Oh, né meglio né peggio." "Sicuro" diss'ella con accento sarcastico. "Ella non è qui per giuocare contro di me; è qui per fare degli studi profondi con il conte Cesare, non è vero? Che studi sono?" Silla godeva di sentirla irritata; era una vittoria. "Di nessun interesse per Lei, signorina" rispose. Ella restò un momento pensierosa e poi tornò a sedere. Quali dubbi, quali pensieri di conciliazione le passavano pel capo? Recò ambedue le mani a una crocettina d'oro che le pendeva dal collo tra l'abito aperto e giocherellò con essa piegando il mento al seno, scoprendo un po' delle braccia tornite. "Molto bassi questi studi, dunque" diss'ella. "Oh, no." "Ah. Lei crede allora che sieno troppo alti per me?" "Non ho detto questo." "Vediamo; è matematica?" "No." "Metafisica?" "No." "Scienze occulte, forse? Il conte ha bene dello stregone; non trova, signor... signor... Come si chiama Lei?" "Silla." "Non trova, signor Silla?" "No, signorina." "Molto reciso, Lei." Seguì un momento di silenzio. Si udì la voce del conte mista ad altre voci di persone che scendevano per la scalinata. Silla si alzò in piedi. "Aspetti un poco" diss'ella bruscamente. "Non voglio sfingi davanti a me. Cosa scrive Lei con mio zio?" "Un libro noioso." "Capisco; ma di che tratta?" "Di scienza politica." "Ella è uomo di Stato?" "Qualche cosa di meglio: sono artista." "Di canto?" "La marchesina ha un grande spirito!" "E Lei è molto orgoglioso!" "Forse." "E con quale diritto?" Dicendo queste parole Marina sorrise di un enigmatico di cui Silla non capì il veleno. "Di rappresaglia" rispose. "Oh!" esclamò Marina. Un lampo di sdegno le passò negli occhi. L'uno e l'altro pensarono in quel momento a un predisposto legame, fosse pure d'antagonismo, di inimicizia, nel loro futuro destino. "È dunque vero" disse Marina sottovoce "che Lei giuoca un'altra partita qui al Palazzo?" "Io?" rispose Silla, sorpreso. "Non so cosa Lei voglia dire." "Oh, lo sa! Ma Lei giuoca coperto, giuoca prudente, non ha ancora mosso la Regina. Povero orgoglio il Suo! E parla di rappresaglie! Non mi conosce, Lei. Mi hanno scritto poco tempo fa che sono superba, che vorrei vivere in una stella di madreperla, e che in questo pianeta borghese, in questo sudicio astro di mala fama, non c'è posto, per me, da posare il piede. Risponderò che il posto l'ho trovato e..." "Ecco mia nipote" disse il conte entrando con alcune persone. Silla non si mosse. Guardava Marina con gli occhi sbarrati. La sua corrispondente, Cecilia, lei! "Il signor Corrado Silla, mio buon amico" soggiunse il conte "il quale ha ancora la testa negli scacchi, a quanto pare".

Si avvide dell'errore, quando trovò, dopo un tratto abbastanza lungo, che scendeva verso il lago. Pensò che al postutto non era sicuro di rinvenire la chiave del cancello, posta di solito, ma non sempre, in un buco del muro di cinta, e ricordò che ci doveva esser lì presso un'altra uscita per la qu ale passavano qualche volta i coltivatori del vigneto. La trovò infatti. Il muro di cinta era diroccato per metà e dal campo vicino un gelso spingeva i rami per la breccia. Silla fu presto dall'altra parte, a pochi passi da un approdo che serviva ai coloni del campicello lungo il lago. Un sentiero piano move da quell'approdo a raggiungere nel suo punto più basso la strada provinciale di Val... ora toccando l'orlo del lago, ora appiattandosi fra siepi e muricciuoli, ora tagliando qualche pendìo erboso, rotto da radi ulivi. Silla si sforzava invano, camminando, di pensare all'avvenire, alla vita di sacrificio e di lavoro indomito che l'aspettava. Malediva la notte piena di voci lascive e la luna voluttuosa, ormai alta nel sereno. Appoggiò la fronte ardente ad un tronco di ulivo, senza sapere che si facesse. Quel tocco ruvido e freddo lo ristorò, lo acquietò come avrebbe acquietato un metallo vibrante. Si ripose tosto in cammino perché lampeggiava. In faccia a lui nuvoloni torvi di levante si movevano finalmente, si allargavano verso le montagne, invadevano il cielo con tante cime rigonfie, fluttuanti come una marea furiosa che volesse salire fino alla luna. Gittavano lampi continui, silenziosamente, verso il lume di lei, fuggitiva. Ad un tratto Silla si ferma e tende l'orecchio. Ode il sommesso borbottar del lago ne' buchi dei muricciuoli, il lamento dell'allocco nelle selve della riva opposta, il canto dei grilli e il lieve sussurro di un soffio per le viti folte, per le frondi bigio-argentee degli ulivi. Null'altro? Sì, due remi cauti, lenti che tagliano l'acqua a lunghi intervalli. Se vicini o lontani, non s'intende bene; sul lago, a quell'ora, solo un orecchio esperto può misurare le distanze dei suoni. I remi tacciono. Ecco il sordo rumore d'una chiglia che striscia sui ciottoli della riva. Anche i grilli ascoltano. Poi, più nulla. I grilli uniscono ancora il loro canto a quello dell'allocco lontano, ai borbottamenti del lago pei buchi dei muriccioli. Silla non poteva discernere questa barca che approdava; vedeva soltanto l'acqua chiara tremolar tra le foglie. Andò avanti. Il sentiero sbucava presto sulla ghiaia d'un piccolo golfo, all'altro capo del quale grossi macigni neri si protendevano nell'acqua. Si rizzava sopra q uelli, fra caprifichi e rovi, una cappelletta; e ne sporgeva a piè della cappelletta, la sottile poppa nera d'una lancia. Doveva esservi una cala tra i macigni. Non c'erano altre lance che Saetta sul lago, e Silla lo sapeva. Ma chi era venuto con Saetta? Sospettò del Rico e si fermò per non essere scoperto. Vide un'ombra levarsi tra gli arbusti dietro la cappelletta, correr giù, scomparire. Subito dopo sprizzò di là un riso argentino. Impossibile non riconoscerlo; donna Marina! Silla, per istinto, si slanciò avanti, udì una esclamazione di terrore, vide l'ombra di prima ricomparire alla cappelletta e fuggir su tra gli arbusti, mentre donna Marina chiamava invano: "Dottore! dottore!". Silla riconobbe il medico, ma non stette a pensare neppure un momento perc hé si trovasse lì. Udì la chiglia della lancia strisciare indietro dalla riva e saltò alla cappelletta quando la prora, ormai silenziosa, era per uscire dalla cala e Marina, deposto il remo di cui s'era fatta puntello, stava assettandosi i guanti. "Si fermi!" diss'egli ritto sul ciglio del macigno. Ella diè un lieve grido e impugnò i remi. Non era possibile lasciarla partire così. A piè del macigno la ghiaia rideva a fior d'acqua. Silla saltò, afferrò la catena della lancia. Marina diede due colpi disperati di remo, ma Saetta obbedì presto al pugno di ferro che la tratteneva. "Bisogna udirmi, adesso!" disse il giovane. "Lei mi dirà prima di tutto" rispose Marina fremendo "se il nobile mestiere che ha esercitato stanotte è un Suo passatempo consueto, o se Ella è ai servigi di mio zio!" "Fra che abbietta gente ha vissuto, signorina? È questa la Sua nobiltà? Allora Le giuro che la mia vale di più; e ho ben ragione di sperare che il mio nome venga ricordato ancora con onore quando non vi sarà più memoria del Suo!" Salito sopra un sasso sporgente, scoperta la maschia fronte, Silla dominava la barchetta e la donna, palpitanti dinanzi a lui. Marina non voleva lasciarsi dominare, batteva l'acqua con un remo, rabbiosamente. "Avanti" diss'ella "alla seconda scena. Intanto Lei fa una vigliaccheria di tenermi qui per forza." Silla gittò la catena. "Vada" diss'egli "vada pure se ha cuore. Sappia solo che non recito una commedia, recito un oscuro dramma di cui la seconda scena Le è indifferente." "Ah, e la prima no?" riprese Marina lasciando cadere i remi e incrociando le braccia. "La seconda scena" proseguì Silla senza badare all'interruzione "non ha luogo qui. Stia tranquilla; da questa notte in poi non vedrà più né il dramma, né il protagonista. Se ha sospettato, nel candore, nel disinteresse dell'anima Sua, ch'io fossi più d'un amico per l'uomo di cui Ella è nipote ed erede, si rassicuri, neppure amico gli sono più forse; perché pochi momenti or sono, di nascosto, come un malfattore, ho lasciato per sempre la sua casa ospitale, dov'è spuntato, in qualche angolo freddo e ombroso, questo vile sospetto. Se lei poi ha temuto" qui la voce di Silla tremò "di qualche sinistro disegno su donna Marina di Malombra e Corrado Silla, è stato un inganno ben grande il Suo. Se il conte me ne avesse parlato, gli avrei tolta questa illusione, perché Lei è troppo al di sotto di quell'altero cuore ch'io voglio, capace di disprezzare, come le disprezzo io, la ricchezza e la fortuna. E adesso, marchesina, ho l'onore..." "Una parola!" gridò Marina avvicinandoglisi di fianco con due colpi di remi, perché una repentina brezza di levante portava via adagio adagio la lancia. "Il Suo dramma fantastico non va. Ella ha la bontà di farsi una parte eroica. Facile; ma c'è la critica, signor Silla. Dove ha scoperto Lei questa cosa ridicola che io sono una ereditiera sospettosa? Non ha mai veduto quanto mi curo di mio zio? E come osa Lei parlare di progetti sulla mia persona? Le pare che voglia turbarmi di quanto mio zio e Lei possano aver l'impudenza di pensare e di dire?" Intanto Saetta dilungava da capo per la brezza ringagliardita. Marina diede un colpo di remi e si voltò a guardar Silla. La lancia corse un istante contro il vento, contro le onde che gorgogliavan forte sotto la chiglia, e girò subito, respinta, sul fianco sinistro. La luce della luna mancava rapidamente. Fiocchi veloci di nubi, come spume, l'avevan raggiunta, oltrepassata: ora giungevano i cavalloni grossi ed ella vi affondava, non pareva più che un fanale rossastro, perduto nella tormenta, vicino a spegne rsi. "Allora?" esclamò Silla "perché?" Le altre parole si perdettero nello schiamazzo improvviso delle onde intorno a lui. Una raffica violenta gittò Saetta sul sasso dov'egli stava. "Scenda!" gridò curvandosi ad afferrar la sponda della lancia perché non vi urtasse. "Subito!" "No, spinga via, vado a casa!" Benché fossero tanto vicini da potersi toccare, riusciva loro difficile intendersi. Le onde, cresciute di botto smisuratamente, tuonavano sulla riva con un fragore assordante; il timone, la catena, i remi della lancia abballottata strepitavano. Silla vi si stese su, l'allontanò dalla riva con una disperata spinta e vi cadde dentro. "Al timone!" gridò afferrando i remi. "Al largo! Contro il vento!" Marina obbedì, gli sedette in faccia stringendo i cordoni del timone. Ormai il cielo era tutto nero, non ci si vedeva più. Si udiva il tuonar delle onde sulla riva sassosa, sui muricciuoli. Là era il pericolo. Saetta, spinta troppo vigorosamente, alzava la prua sull'onda, la spaccava cadendo a gran colpi sordi; entrava nelle più grosse come un pugnale; allora la cresta spumosa ne saltava dentro, correva sino a poppa. La prima volta, sentendo l'acqua, Marina alzò in fretta i piedi, li posò su quelli di Silla. Nello stesso punto un lampo spaventoso divampò per tutto il cielo e pel lago biancastro, per le montagne di c ui si vide ogni sasso, ogni pianta scapigliata. Marina sfolgorò davanti a Silla con i capelli al vento e gli occhi fissi nei suoi. Era già buio quando egli ne sentì nel cuore il fuoco. E quei piedini premevano i suoi: premevano più forte quando la poppa si alzava; ne sdrucciolavan quindi e vi si riappiccicavano. I due remi gli saltarono in pezzi. Cacciò fuori gli altri due ch'erano nella lancia, remò con furore, perché la notte, le voci della natura sfrenata, quel tocco bruciante, quell'inatteso sguardo gli gridavan tutti di esser vile. E i lampi gliela mostravano ogni momento, lì, palpitante, col viso e il petto piegati a lui. Non era possibile! Fece uno sforzo, si alzò in piedi e passò sull'altra panca più a prua. "Perché?" diss'ella. Anche nella voce di lei v'era una commozione, un'elettricità di tempesta. Silla tacque. Marina dovette comprendere, non ripeté la domanda. Si vide al chiarore dei lampi un denso velo bianco a levante, una furia di piova in Val... Non veniva però avanti: la rabbia del vento e delle onde diminuiva rapidamente. "Può voltare" disse Silla con voce spossata, accennando del capo "il Palazzo è là." Marina non voltò subito, parve incerta. "La Sua cameriera l'aspetta?" "Sì." "Allora torneremo alla cappelletta. Fra dieci minuti il lago è quieto: io scenderò lì." "No" diss'ella. "Fanny non mi aspetta. Dorme." Voltò Saetta e mise la prora al Palazzo. Non parlarono più né l'uno né l'altra. Quando giunsero al Palazzo faceva meno scuro e il vento era caduto affatto, ma le onde strepitavano ancora lungo i muri, tanto da non lasciar udir la barca. Anche il sangue di Silla si veniva chetando. Passarono sotto la loggia. Quella vista gli rese la sua freddezza altera. "Lei mi ha detto stamattina" diss'egli "che non La conoscevo. La conosco invece molto bene." Marina credette forse che volesse alludere alla scena avvenuta lì, e non rispose. "Guardi com'entra in darsena" diss'ella dopo un momento di silenzio. "Io lascio i cordoni." Silla entrò con precauzione. Solo passando adagio adagio per l'entrata, ella gli rispose piano: "Come può dire di conoscermi?" Ma bisognava ora badare a non urtar il battello, approdar bene, presso la scaletta. Ed era così buio! Saetta strisciò sul fondo sabbioso, si fermò. Silla uscì, tentò con la mano la parete grommosa dello scoglio in cui è scavata la darsena, trovò questa scaletta che mette al cortile e continua poi nell'ala destra del Palazzo, sino all'ultimo piano. "La scala è qui" diss'egli porgendo la mano a Marina che ripeté nel prenderla: "Come può dire di conoscermi?" E saltò, dalla prua a terra: ma, imbarazzatasi nella catena, cadde in braccio a Silla. Egli se ne sentì il petto sul viso, strinse, cieco di desiderio, la profumata persona, calda nelle vesti leggere: la strinse fino a soffocarla, le sussurrò sul seno una parola; e lasciatala scivolare a terra corse via per la scaletta, saltò nel cortile. Marina rimase immobile, con le braccia stese avanti. Non era un sogno, non c'era inganno, non c'era dubbio possibile; Silla aveva detto: "CECILIA."

Io ho abbastanza cuore, cara mamma, per comprendere che bisogna rispettare in questi momenti il dolore di una nipote affettuosa. Vorrà che si ritardi il matrimonio! Sia. Non son mica, avvocato, un ragazzo impaziente. Capisci bene cara mamma, un giovinotto...!" L'avvocato ebbe negli occhi, guardando la contessa, un lampo d'ironia e di pietà. Nepo gli si avvicinò, lo pigliò per un bottone del soprabito, gli parlò mettendogli quasi il naso sul viso: "Ella che a tanta probità congiunge tanta oculatezza e comprende così bene fino a qual punto possano andare insieme i legittimi interessi e le convenienze, Ella non vorrà certo censurarmi se io dico che un altro grave affare si impone in questo momento. Io sono disinteressato, premetto; ma... Bravo!" esclamò, ritirando la mano e il naso. "Vedo che mi capisce. L'obbligazione, capperi! Io prego Dio che conservi lo zio al nostro amore per lunghi anni, ma se succede una disgrazia! L'obbligazione a mio favore do veva essere sottoscritta ieri mattina. Sarà più in grado di sottoscriverla? Ci vuole una sorveglianza d'ogni ora. Non bisogna lasciar passare un lucido intervallo!" "Sì, ma, ohe" disse l'avvocato serio serio "patto avanti, che sia lucido questo intervallo; patto avanti, che sia molto lucido; e che ci sia il dottore; sì, perché tutto va bene, ma che non andiamo in un imbroglio." Si udì la voce di padre Tosi che parlava in loggia. "Vado a vedere dello zio" disse Nepo; e uscì. "Dopo tutto" disse la contessa "mio fio aveva ragione con quell'affare del commissario di polizia. È stato un bel tiro, sapete." "Altro se è stato un bel tiro! Parlerò io a quel signor frate, se la contessa permette." "Sì, sì, fate, parlate, tutto ciò che volete. Oh Dio, Zorzi, che monte di pasticci! Qua non si sa in che mondo si sia. Qua non si capisce niente. Qua ci si marita e non ci si marita. Qua non c'è ora di mangiare, qua non c'è ora di dormire. E tutto, in nome di Dio...! Oh che vita, oh che vita!" Entrò il cameriere a sparecchiare. Non si sbrigava mai; pareva che giocasse con le posate e il vasellame. "Andate là, andate là anche voi, Zorzi" disse la contessa. "Io vado a riposare un pochetto. Non ho chiuso occhio stanotte, non ne posso più. E tu chiamami Catte, benedetto. Zorzi" diss'ella poi che il cameriere se ne fu andato in cerca di Catte "guardate di cavarci qualche cosa a quel signor Silla." Silla non era entrato subito dal conte. S'era fatto prima raccontar dalla Giovanna i casi di quei due giorni. Povera Giovanna! Parlava con una fioca voce accorata che pareva venir da lontano, da lontano, da un mondo di dolore. Il matrimonio era stato fissato per la sera del 29. La signora donna Marina, all'ultimo momento, lo aveva fatto differire al mattino del 30. Però la sera del 29 vi erano stati ugualmente i fuochi sul lago e la musica. Il conte vi si era divertito e stava secondo il suo solito. Giorni addietro aveva sofferto di un leggero malessere, ma non ne parlava più. Di aspetto era giù, questo sì, ma da un pezzo, oh, da un gran pezzo! La Giovanna ebbe una reticenza espressiva; pare che facesse risalire, nel suo pensiero , questo crollo del conte all'epoca in cui Silla aveva lasciato il Palazzo. Insomma quella sera non c'erano novità. Il matrimonio si doveva fare alle sette del mattino. Alle cinque Giovanna aveva dovuto entrare dal conte per certe chiavi e lo aveva trovato a terra semivivo, con tutti i segni dell'apoplessia. A questo punto del suo racconto, fosse commozione o altro, s'interruppe. Ripigliò dicendo che s'eran chiamati subito il medico e il parroco; che il primo, un brav'uomo succeduto da pochi mesi al vecchio dottore, giudicando il caso gravissimo, aveva chiesto subito un consulto, e consigliato di provvedere alle cose di religione. Purtroppo non c'era né parola né intelligenza; il parroco non aveva potuto far altro che amministrare l'olio santo. Fatalmente il padre Tosi non era stato trovato nella sua residenza, e non era venuto che un paio d'ore prima di Silla. Durante la giornata il conte non aveva migliorato né peggiorato. Alla sera il medico era stato contento di trovare un po' di febbre che si era forse a nche accresciuta nella notte. La fisionomia pareva alquanto ricomposta, l'occhio era meno vitreo, e anche le labbra, ogni tanto si provavano di articolare qualche parola. La Giovanna sperava che se potesse riconoscere Silla, ne avrebbe un gran conforto. "Non può averne altri" diss'ella. "E il matrimonio?" chiese Silla. "Ah signore!" rispose la Giovanna. "Non so niente. La signora donna Marina non ha mai posto piede fuori della sua camera dal 29 di sera in poi. Pare che sia ammalata perché ieri mattina s'è fatta portare una quantità di ghiaccio. Non vuol vedere né il suo fidanzato né la signora contessa. Da lei non ci va che la sua cameriera e il ragazzo; sa, il barcaiuolo. Oh Signore, per me già desidero solo che guarisca il signor padrone e poi per tutto il resto...! Venga, venga. Chi sa come sarebbe contento se lo potes se riconoscere!" Appena si vedeva, entrando nell'afa della camera, la testa dell'infermo come una macchia oscura sul cuscino biancastro, e seduto, presso alla finestra socchiusa, il medico curante. La Giovanna si accostò al letto con Silla, si chinò su quella povera testa e sussurrò qualche parola. Il conte guardò Silla con due occhi torbidi, poi si volse lentamente a Giovanna e mosse le labbra. Ella vi accostò l'orecchio, raccolse a stento questa parola: "Beive." Per lunghi anni non gli era venuta alla bocca parola alcuna nel dialetto natìo, se non in qualche momento di sdegno; tornavano adesso nelle ombre sinistre della morte. La malattia fulminea lo aveva atterrato, spogliato in un secondo della sua forza imperiosa, della sua intelligenza rapida, della sua memoria tenace di tante cose, di tante persone: lo aveva risospinto dalla forte vecchiaia alla infanzia radendogli dalla mente tutto, fuor che le prime voci apprese ne' primi anni. La Giovanna gli diede da bere, poi tentò di richiamare la sua attenzione a Silla. "Basta" disse la voce del medico nelle tenebre. La donna uscì con Silla, accorata. Incontrarono il frate nel corridoio. "E così" diss'egli. "Niente, eh? lo sapevo bene." "E cosa ne dice?" gemette la Giovanna. "È presto, cara la mia tosa. Bisognerebbe sapere se avremo o no un secondo attacco. Certo occorre che il giuoco non si rinnovi, altrimenti me lo ammazzano di colpo. Ci hai detto nulla a questo giovinotto?" "Signor no." "Bene, senti, Giovanninetta, vorrei che mi accompagnassi a veder la casa. Dopo mi farai preparare una sedia in loggia perché possa fumare un poco. Se non fumo, tra un quarto d'ora scoppio." Mentre Giovanna e il frate giravano per la casa, Silla, appoggiato alla balaustrata della loggia, guardava il lago verde dormente al sole. Eran proprio passati tanti mesi? Le montagne, la quiete profonda lo riprendevano come cosa loro; e gli pareva non essere mai andato via, aver sognato Milano, un lungo inverno, penosi pensieri. Ma dalle pietre, dalle vecchie pietre austere prorompeva subito il vero presente, lo sgomento che una malattia mortale diffonde intorno all'uomo colpito, sopra tutto la immagine di lei, che, tenendosi nell'ombra, empiva la casa di sé. Perché si nascondeva? gli pareva ad ogni momento udirne il passo, il fruscìo delle vesti, veder avanzarsi da quella parte quella sua bellezza altera e fantastica. E si voltava a guardare la loggia vuota, stava in ascolto. Eccola, forse! No, era l'amico dei Salvador, l'avvocato Giorgio Mirovich. Passò camminando in punta di piedi, salutò Silla con un cerimonioso "servo" e s'avviò verso la camera del conte. Ne ritornò subito e chiese a Silla, parlando mezzo veneto, mezzo italiano, se avesse visto quel signor frate. Avutane risposta che era in giro per la casa con la Giovanna, soggiunse: "ha un certo linguaggio quel signor frate!" e si fermò lì a conversare. Perla d'onest'uomo, ma cortigianescamente devoto alla contessa Fosca, antica fiamma, aveva modi quando burberi, quando cerimoniosi, un parlar franco, e insieme cauto. Mirava a scoprire come Silla avesse risaputa la malattia del conte. Silla gli disse che se ne parlava da tutti nei paesi vicini e ch'erano persino corse voci di maggiore sventura. Non lasciò intendere dove precisamente avesse attinta la notizia egli stesso né di dove fosse partito quella mattina, benché non dubitasse che per mezzo del vetturale lo si avrebbe facilmente conosciuto. L'avvocato, a cui ripugnavano l e investigazioni oblique, uscì presto di argomento. Confidò a Silla la profonda avversione per quei luoghi inospiti, per le montagne dritte come muri, per quella casa della malinconia. Anch'egli, come la sua vecchia amica, non ne poteva più; non vedeva l'ora di sentirsi gridare "sià premi" e "sià stali" sotto le finestre. Finalmente il frate ritornò e Silla discese in giardino. V'era il commendator Vezza che si divertiva a gettare del pane ai cavedini. Silla lo evitò, attraversò il cortile per uscire dal cancello. Passò accanto alla porticina della darsena, guardò le barche, guardò su per la scaletta segreta che serve all'ala destra del Palazzo. Vuoto e silenzio. Oltrepassò il cancello e, fatti pochi passi sulla strada di N... si voltò. Lassù la nota finestra d'angolo era chiusa. Il sole, declinando, batteva sulle persiane, sulla grande muraglia grigia, scintillava sulla magnolia lucida del giardinetto pensile. Di vita umana non vi era indizio. Silla fece un lungo passeggio vagando per i sentieri più solitari e tornò al Palazzo dalla stessa parte. La finestra era ancora chiusa benché il sole non battesse ormai più che sui tetti. Silla rientrò in casa, con il presentimento che Marina non avrebbe dato segno di vita durante il giorno, ma che la vedrebbe nella notte.

Sono maggiorenne e possiedo abbastanza per mantenere me e una vecchia dama di compagnia che mi lasci sola. Quando debbo? Io non desidero andar via." Il conte la guardò attonito. Quei grand'occhi limpidi non dicevano nulla, proprio nulla. Aspettavano una risposta. "Non desiderate andar via? Desiderate dunque che me ne vada io? Eh? Quello vi farebbe comodo? Ma per Dio santo, parlate chiaro. Se non desiderate andar via, che diavolo desiderate? Perché vi comportate con me come se io fossi un carceriere? Che vi ho fatto io?" "Lei? Niente." "Chi dunque? Steinegge? Che vi ha fatto Steinegge?" "Paura." "Come, paura?" "È tanto brutto!" Il conte si rizzò sul suo seggiolone e, impugnandone con violenza i bracciuoli, porse verso sua nipote la fronte corrugata e gli occhi fiammeggianti. "Oh" diss'egli "se credete farvi gioco di me, la sbagliate: se avete voglia di scherzare, scegliete male il vostro momento. Quando ho la compiacenza di domandarvi cosa vi offende in casa mia, non bisogna mica rispondermi come una cingallegra parigina; bisogna parlare sul serio!" "A che serve se Ella ha risoluto che io parta?" "Chi ha detto questo? Io ho detto che non siamo fatti per vivere assieme e vi ho indicato una possibile occasione di mutar soggiorno e compagnia. E prima di tutto ho dichiarato che dovrete in avvenire essere civile con me e con i miei ospiti onde non costringermi a un pronto provvedimento." Marina non aveva ancora risposto, quando entrò la Giovanna, tutta commossa. "Signor padrone, quei signori sono qui!" "Diavolo" esclamò il conte alzandosi, e uscì in fretta. Marina andò a gittarsi sul seggiolone rimasto vuoto, vi si dondolò con le braccia incrociate, il capo appoggiato alla spalliera, le gambe accavalciate e la punta brillante d'uno stivalettino nero slanciata in aria come una sfida. Si udivano parecchie voci al piano terreno, o meglio una voce sola, a getto continuo, sonora, colorita, con accompagnamento di altre voci note e ignote, di risa brevi, rispettose. "Oh che viaggio" diceva quella voce "oh che paesi, oh che gente! Hai la mia borsa, Momolo? Vi racconterò, creature. Chi sei tu, bellezza? La sua cameriera? Brava, cara. E dov'è questo benedetto Cesare? Sta sulle tegole a quest'ora? Dimmi, tesoro, cos'hai nome? Fanny? Senti, Fanny, quel palo bianco là è un frate o un cuoco? Ma che ci prepari un brodo, benedetto da Dio. Nepo, sei languido, fio? Oh Dio, Cesare, che vecchio, che brutto!" Con quest'ultime parole gridate nelle palme delle mani di cui s'era coperta il viso, la contessa Fosca Salvador salutò il conte Cesare che le veniva incontro frettoloso con una faccia che voleva e non poteva essere allegra. Peggio fu quando la contessa volle fargli un bacio e lo affogò in un diluvio di chiacchiere. Egli ne perdette quasi la testa. Continuava a rispondere sì sì sì col suo vocione più grosso, stringeva la mano a Nepo e stava per fare lo stesso col vecchio domestico della contessa, malgrado i suoi grandi inchini e il suo ripetere: "Eccellenza, Eccellenza". "Ciò" gridò la contessa "sta a vedere che mi bacia Momolo. C'è di meglio se volete baciare: ma voi già siete un orso." Il conte Cesare stava sulle brage. Avrebbe volentieri mandato al diavolo tutta la compagnia. I discorsi della contessa gli mettevano rabbia. Momolo e le due donne che stavano silenziosi dietro Sua Eccellenza ebbero pure da lui uno sguardo poco benevolo. Se avesse poi veduto nel cortile, tra le macchie di fiori, la nuova macchia nera di bauli, casse e borse accatastate! "È una invasione, caro conte, una invasione" ripeteva Nepo girando per il vestibolo quasi a tentoni perché ci si vedeva poco, e frugandone ogni angolo col naso per trovar posto al suo bastone, al soprabito, al cappello. "L'ho proprio detto alla mamma ch'era un abusare..." "Sì, me l'ha detto e io gli ho risposto: Abusiamo, benedetto. Cosa sarà? Mio cugino non ha egli un cuor di Cesare? Oh se avessi mai saputo che bisognava fare questo dio di strada, vi dico in fede, non avrei abusato. Caro il mio caro pampano, non dite niente che si doveva venir stamattina? Non sapete?" "Sì, sì, mi racconterete quello" disse il conte che non ne poteva più. "Intanto venite di sopra." "Vengo, anima mia, se posso. Vi raccomando il mio Momolo e la mia Catte. Son vecchietti, povere creature, credo che saranno mezzi morti. Tiratemeli su. A proposito, Catte, dov'è quella ragazza? Non ha veduto, signor orso, che cocola le ho condotto?" Non era dunque una seconda cameriera la giovinetta vestita di nero che stava dietro la vecchia Catte? No, ell'aspettava che la prima tempesta dell'incontro si chetasse. Si fece avanti e disse al conte Cesare parlando in buon italiano, ma con un forte accento straniero: "La prego, signore, di volermi dire se il signor capitano Andrea Steinegge abita qui." "Sicuramente, signorina" rispose il conte, meravigliato. "Il mio buon amico Steinegge sta qui. Egli non usa veramente di farsi chiamare capitano, ma..." "Era capitano, signore. Capitano austriaco, agli usseri di Liechtenstein." "Oh, non ne dubito, signorina. Credo anzi che una volta il signor Steinegge mi ha raccontato quello. E Lei desidera vederlo?" La voce ferma della giovinetta parve mancare. Si udì appena un bisbiglio. "Eh?" ripete il conte con accento benevolo. "Sì, signore." "Ora è fuori, ma verrà presto. La prego di salire ad aspettarlo." "Grazie, signore. Rientrerà egli da questa parte?" "Da questa parte." "Allora se permette, resto qui." Il conte s'inchinò, ordinò di portare un lume per la signorina e si avviò di sopra con gli ospiti. La contessa Fosca gli raccontò che quella ignota signorina era discesa con loro dal treno, e aveva chiesto, com'essi, una vettura per il Palazzo; che vedendola, pover'anima, sola soletta (e alla stazione non c'era mezzo asino da farsi trascinar via) le aveva offerto di venire, se voleva, con loro, posto che in paese si fossero trovate vetture, come infatti a grande stento se ne trovarono. "Chi sia e cosa vogli a" aggiunse la contessa "non l'ho inteso. Già ha detto pochissime parole; e, volete che ve la dica? Mio fio sostiene che parlò italiano e io ho sempre creduto che parlasse tedesco. Estenuata poi! Questo sì l'ho capito. Grazie tante: un viaggio di questa sorte!" Il conte non fiatò. "Che duro, la mia anima" mormorò Sua Eccellenza tra sé. "E Marina! Dov'è questa briccona di Marina? È a cena forse? Perché dico..." In quella entrò Marina. Ella abbracciò la contessa, strinse la mano al cugino con grazia disinvolta e si lasciò dire dalla prima un mondo di dolcezze, di complimenti, sulla sua bellezza, con dei risolini pazienti, delle strette a quattro mani, dei brevi: "Cara! Che cara!". Sua Eccellenza Nepo parlava intanto con il conte Cesare. Sua Eccellenza era un giovanotto sui trent'anni, bianchissimo di carnagione, con un gran naso aquilino male appoggiato a sottili baffetti neri, con un paio di occhioni neri a fior d i testa, il tutto incorniciato da una ricciuta zazzera nera e da un collare di barba nera che pareva posticcia su quella pelle di latte e rose. Aveva le mani assai piccole e bianche. Parlando sorrideva sempre. Il suo passo breve, ondulato, i gomiti quasi sempre stretti alla vita, il parlare stridulo, frettoloso, mettevano intorno a lui un'aura femminile che feriva subito chi lo incontrava la prima volta. A Venezia lo chiamavano il conte Piavola. Non mancava però d'ingegno, né di coltura, né di ambizione. Av eva emigrato nel 1860 ed era venuto in Torino per educarsi alla politica. Colà studiava economia e diritto costituzionale, frequentava le sale dei pochi ministri che tenevano società, le Camere e le tote dei baracconi di piazza Castello. Gli era venuta l'idea di entrare in diplomazia, ma non aveva ancor preso gli esami: si teneva sicuro che, liberato il Veneto, un collegio, dove era grande proprietario, lo avrebbe inviato alla Camera. Ed ora, mentre la vena inesauribile della contessa Fosca gittava chiacchiere sul capo di Marina, egli, dal canto suo, torturava già il conte Cesare con la propria biografia, con la relazione de' suoi studi, delle sue speranze. Il conte, che sapeva poco dissimulare, stava lì ad ascoltarlo, quasi sdraiato sulla seggiola, col mento sul petto, le mani in tasca e le gambe sgangherate; e alzava il capo a ogni tanto per dargli una occhiata fra l'attonito e l'infastidito. Quando Dio volle un domestico annunciò che la cena per i signori era pronta. La contessa Fosca volle a forza il braccio di suo cugino. Nepo s'affrettò di offrire il suo a Marina, che l'accettò con un leggero cenno del capo, guardando la contessa e continuando a parlare con lei. S'era fatto un braccio aereo; non toccava quasi quello di Nepo; appena entrata nella sala da pranzo, se ne sciolse. Intanto la giovinetta vestita di nero aspettava seduta nel vestibolo. Essa non pareva udire le voci né i passi sopra il suo capo, non pareva avvedersi dei servi che andavano e venivano chiamandosi, ridendo, gittandole occhiate curiose, diffidenti. Si era tratta accanto la sua borsa da viaggio e guardava la porta. S'udì un passo di fuori, sulla ghiaia; Steinegge si affacciò alla porta. Ella levossi in piedi. Steinegge la guardò un momento, meravigliato, e passò oltre. La giovine signora fece un passo e disse a mezza voce: "Ich bitte." Il povero vecchio tedesco, colto così all'impensata, si sentì dar un tuffo nel sangue da quelle due semplici parole pronunciate con l'accento di Nassau. Non seppe dire altro che "O mein Fräulein" e le porse ambe le mani. "È Lei" rispose la giovinetta con voce tremante e sempre in tedesco "è Lei il signor capitano Andrea Steinegge di Nassau?" "Sì, sì." "Credo ch'Ell'abbia laggiù una famiglia." "Sì, sì." "Io ho notizie..." "Ha notizie? Notizie della mia bambina? Oh, signorina!" Giunse le mani come davanti a un santo. I suoi occhi brillavano, le labbra eran convulse, tutta la persona esprimeva un desiderio solo, angoscioso. Lo aveva ben detto la contessa Fosca che la povera signorina era estenuata. Diventò pallida pallida, e mormorò a Steinegge che, ansando, le aveva cinta la vita con un braccio: "Niente, un poco d'aria." Egli la portò più che non l'accompagnasse fuori, l'adagiò sopra un sedile di ferro, e, divorato da mille angoscie, immaginando dover udire da lei tutte le sciagure possibili, forse la più grande, le prese ambedue le mani, parlò con voce carezzevole, dolce, a quella ignota fanciulla del suo paese, così sola in terra straniera. Ritrovò nella memoria tenere espressioni del tempo andato, sante parole paterne, taciute per anni e anni, colorate ora di soavità religiosa dal rispettoso Lei che le accompagnava. Inte se ella, rinfrancandosi, il rispettoso Lei o intese solamente dirsi mein Kind, "fanciulla mia?". Perdette la memoria delle prime parole scambiate o la voce affettuosa le fece credere che tutto il suo segreto fosse stato detto? Gittò le braccia al collo di Steinegge e si sciolse in lacrime. Pare incredibile; Steinegge a prima giunta non capì. Egli portava sempre viva nel cuore l'immagine di sua figlia quale l'aveva lasciata bambina di otto anni, piccina piccina, con due occhi grandi e dei lunghi capelli biondi. L'atto, le lacrime della giovinetta gli dicevano "è lei", ma egli comprendeva e non comprendeva nel tempo stesso, non poteva così rapidamente immaginare una trasformazione simile. "Oh, papà!" diss'ella fra la tenerezza e il rimprovero. Allora solo il suo cuore e la sua mente s'illuminar ono insieme. Con parole rotte, incoerenti, si buttò ginocchioni a' piedi di sua figlia, le afferrò una mano, se la strinse alle labbra. Con la infinita gioia che gli faceva veramente male a tutto il petto, alla gola, sentiva pure una gratitudine umile senza confine. "Edith, cara, cara Edith, bambina mia" diss'egli con voce soffocata. "Ma è Lei proprio Edith? Ma come puoi esser tu?" È carità pel povero Steinegge non ripetere le parole assurde che gli uscirono di bocca in quei momenti deliziosi. La improvvisa gioia intorbida il pensiero, come certi liquori forti e soavi intorbidano l'acqua pura. Edith taceva, rispondeva a suo padre serrandogli la grossa mano tra le sue, nervose, appassionate. Un lume brillò sulla porta del palazzo e vi rimase fermo. "Papà" disse subito Edith "mi presenti." Steinegge si levò a malincuore. Non aveva badato a quel lume impertinente: sarebbe rimasto lì tutta la notte solo con lei e non capiva tanta fretta d'essere introdotta. Non pensò né l'anima sua leale poteva immaginare quali false, perfide parole fossero state sussurrate a sua figlia contro di lui. Edith non le aveva volute credere, ma qualche dubbio angoscioso n'era ben rimasto in lei, ella temeva, almeno, che anche lì in quella casa sconosciuta si potesse pensar male di suo padre. Essa conosceva già il mon do assai meglio di lui che ne aveva veduto tanto. Entrarono, la figlia a braccio del padre. Era la curiosa Fanny, che stava sulla soglia con una candela in mano. "Buona sera" disse Edith. Fanny, che non teneva in gran stima "lo straccione" Steinegge, arrischiava un risolino beffardo quando Edith passò davanti a lei salutandola. Il risolino le morì sulle labbra ed ella s'inchinò graziosamente senza salutare. "In qual modo" pensava "il vecchio zuruch può avere dimestichezza con una damigella così?" Aveva visto una bellezza delicata e seria, una persona elegante; aveva notato il passo, l'atto di saluto, la voce dolce e bassa, la semplicità severa dell'abito; e con la sua esperienza delle vere signore, aveva giudicato assai bene di Edith. "Fateci lume" disse Steinegge. Fanny lo guardò, meravigliata. Dove aveva egli preso tanta audacia? Di solito osava appena pregare i domestici. Davvero pareva cresciuto di un palmo e camminava impettito come un soldato che dia il braccio a una regina. Fanny obbedì. Steinegge presentò sua figlia senza la umiltà ossequiosa ch'è debito di chi presenta una parente ai propri superiori. Il conte Nepo e donna Marina si mostrarono freddissimi. Il conte Cesare fu cordiale. Si alzò in piedi, prese con sincera compiacenza la mano della giovinetta e le parlò col suo vocione benevolo della stima e dell'amicizia che aveva per suo padre. La contessa Fosca chiedeva spiegazioni all'uno e all'altro e non arrivava mai a capire. Quando ci arrivò "Oh che caso, oh che caso!" non rifiniva p iù dal fare esclamazioni di meraviglia, congratulazioni e domande di ogni genere. "Perché va a sedere così lontano, benedetta?" diss'ella a Edith. "Di contentezza non si cena, sa; e dopo cena, La ci vorrà bene più di prima al papà. Venga qua, cara da Dio, venga qua." Edith si scusò con garbo. Il conte, indovinando che padre e figlia desideravano rimaner soli, osservò che forse la viaggiatrice abbisognava sopra tutto di riposo e invitò Steinegge ad accordarsi con Giovanna per la stanza di madamigella Edith, la quale avrebbe potuto farsi recar da cena colà più tardi, se lo desiderasse. Giovanna condusse Edith in una stanza attigua a quella di suo padre. Questi camminava intanto su e giù pel corridoio, entrava e usciva dalla sua camera, parlando forte alle pareti, al pavimento e sovra tutto al soffitto, fermandosi ad ascoltare i passi e le voci delle due donne nella camera vicina, con lo sguardo torbido e il viso ansioso, come se temesse di non udire più nulla, di trovar che il vero non era più vero. Finalmente Giovanna uscì e discese le scale. Poco dopo quell'uscio si schiuse da capo e una voce disse piano: "Papà." Steinegge entrò e abbracciò sua figlia. Non potevano parlare, si guardavano. Ella sorrideva fra le lagrime silenziose; egli si mordeva il labbro inferiore, mostrava negli occhi un dolore pungente, uno spasmo in ogni muscolo del viso. Edith comprese, gli appoggiò la testa sul petto e mormorò: "Ella è contenta, papà." Il povero Steinegge tremava come una foglia, faceva sforzi incredibili per frenare la commozione. Edith si trasse dal seno un piccolo medaglione, l'aperse e lo diede al padre. Questi non lo volle guardare e glielo restituì subito dicendo "Sì, sì" battendosi una mano sul cuore. Stette muto per qualche minuto ancora, poi andò risolutamente a spegnere il lume. "Adesso racconta" diss'egli. "Perdonami se faccio così. Voglio solo udire la tua voce e figurarmi che non sono passati tanti anni. Ti rincresce?" No, non le rincresceva. La immagine che aveva serbata di suo padre nella memoria era venuta lentamente trasformandosi col tempo, s'era elevata e abbellita; proprio all'opposto del pover'uomo. Anche per Edith v'era adesso qualche cosa di straniero nell'aspetto di lui; anch'essa aveva bisogno di abituarvisi prima di potergli parlare a cuore aperto. Nelle tenebre, invece, la voce di cui tante volte, lassù a Nassau, aveva cercato di ricordare il timbro esatto, la cara voce paterna le correva dentro per tutti i nervi, le riempiva il petto, le riportava impetuosamente nel cuore i più minuti ricordi dell'infanzia. Anche a lei piaceva parlare così, all'oscuro. E raccontò quei dodici anni passati con il nonno materno, due zii e le loro famiglie. Il nonno, morto da pochi mesi, era stato assai buono per lei, ma non aveva permesso mai che in casa si pronunciasse neppure il nome del proscritto. Edith ne parlò con delicata pietà e temperanza, dissimulando, scusando, per quanto era possibile, gli odii tenaci del vecchio, imbevuto di pregiudizi che nessuno della famiglia si era mai curato di combattere. Steinegge non la interruppe mai; era ansioso di udire l'ultima parte del racconto, di sapere come Edith, che aveva lasciate senza risposta tutte le sue lettere, si fosse poi decisa di abbandonare patria e parenti per venire in traccia di lui. Quest'ultima parte fu la più difficile e amara per la narratrice. Fino alla morte del nonno essa non aveva ricevuto alcuna lettera di suo padre. Morto il nonno, ne aveva trovata per caso una direttale da Torino e aveva saputo in pari tempo che fino a due anni prima moltissime altre lettere erano arrivate per lei da vari paesi e che tut te erano state trattenute e distrutte. Qui il racconto fu interrotto da un'espansione di Steinegge contro quei maledetti bigotti ipocriti furfanti vili che son capaci di queste azioni da assassini. Tempestò sbuffando per la camera buia e non si fermò se non quando ebbe rovesciate due sedie. Allora udì un passo leggero venire a lui, si sentì una mano sulla bocca. Tutta la sua ira cadde. Egli baciò quella mano e la tolse con ambo le sue. "Hai ragione" disse "ma è orribile!" "Oh no, è basso, basso, molto più basso di noi, papà." Ella continuò narrando come quella lettera vecchia di due anni e mezzo, l'avesse quasi fatta impazzire. La sapeva a memoria. Ripeté le preghiere appassionate fatte agli zii onde ricuperare qualche altra lettera. Ma erano tutte scomparse e neppure una ne poté tornare in luce. Si spezzarono invece i fragili legami che tenevano unita Edith alla famiglia materna dopo la morte del nonno. Ella ebbe la sua parte dell'eredità, modicissima perché gli eredi erano parecchi e la famiglia, non molto ricca, aveva sempre vissuto signorilmente. Chiese di poterne disporre subito e l'ottenne a condizioni inique che ella accettò senza discutere. Partì subito per l'Italia, sola, con la sua piccola eredità, seimila talleri, e una lettera per un impiegato della Legazione di Prussia a Torino, che prestava i suoi buoni uffici anche ai cittadini del Nassau. Si recò difilata a Torino; quel signore si adoperò molto per lei e fu presto in grado di farle sapere dove avrebbe potuto tr ovare suo padre. Edith terminò con dire come si fosse accompagnata ai Salvador. Steinegge osservò allora ch'era forse suo dovere scendere nel salotto prima che gli ospiti del conte si ritirassero. Accese il lume per Edith e la pregò di attenderlo, si sarebbe sbrigato in pochi minuti. Escì in fretta e scese la scala senza badare che la lampada sospesa sul pianerottolo del primo piano era spenta e che nessuna voce si sentiva tranne quella dell'orologio. Scoccò da questo, mentre passava Steinegge, un tocco sonoro. Pareva dicesse: "Ferma!". Quegli si fermò, accese uno zolfanello. Le undici e mezzo! Lo zolfanello si spense e Steinegge rimase immobile con la mano distesa in aria. Possibile? Avrebbe creduto che fossero le nove e mezzo. Risalì la scala in punta di piedi e spinse pian piano l'uscio della camera di Edith. Ella era ritta davanti alla finestra aperta, teneva stretta alla persona con le mani giunte la spalliera d'una seggiola e curva sul petto la testa. Steinegge si fermò; gli si era stretto il respiro. Sentiva forse gelosia dell'Invisibile cui saliva allora, oltre le stelle, il pensiero di sua figlia? Non lo sapeva bene neppur lui, che sentisse. Era un freddo, un'ombra fra Edith e sé. Egli non aveva mai nella sua mente distinto Iddio dai preti, dei quali parlava sempre con disprezzo, benché fosse incapace di usare la menoma scortesia al più zotico e bigotto chierico della cristianità. Aveva spesso pensato con dolore che sua figlia sarebbe stata educata da i preti, e ora, solo per averla veduta pregare, gli pareva che lo avrebbe amato meno, si sgomentava del futuro. Edith s'avvide di lui, depose la seggiola e disse: "Avanti, papà." "Ti disturbo?" Ella si meravigliò del tono sommesso e triste della domanda e rispose con un no attonito, levando le sopracciglia come per dire: "Perché mi domandi così?". Lo volle accanto a sé, alla finestra. Era una notte senza luna, quieta. Il lago non si distingueva dalle montagne. Appena si vedeva a piedi dell'alta finestra una striscia biancastra, il viale di fronte all'arancera, lungo il lago. Tutto il resto era un'ombra che cingeva da ogni parte il cielo grigio, e dentro a quell'ombra si udiva di tratto in tratto il breve e dolce mormorar dell'acque chete, che, rotte dal guizzo d'un pesce, si dolevano e si riaddormentavano. Edith e suo padre conversarono ancora lungamente a voce bassa, per un inconscio rispetto alla silenziosa maestà della notte. Ella gli domandava mille cose della vita passata, dalla separazione in poi; faceva domande disparatissime, perché ne aveva preparato un tesoro da lunga pezza e ora le venivano sulla bocca alla rinfusa, alcune gravi come questa: se avesse mai sofferto di nostalgia, alcune puerili come quest'altra: se ricordasse il colore della tappezzeria del salottino dov'ella aveva dormito e sognato di lui per dodici anni. Al povero Steinegge si spandeva nel petto una dolcezza ricreante, un calore d'orgoglio. Raccontando ad una ad una le sue tribolazioni alla giovinetta che ne palpitava e ne piangeva, quel che aveva sofferto gli pareva niente a fronte della consolazione presente. Un suono di campane passò sul Palazzo, andò a echeggiare nelle valli, a perdersi nei fianchi selvosi dei monti. V'era l'indomani una sagra in Val... "Perché suonano, papà?" "Non lo so, cara" rispose Steinegge. "Die Pfaffen wissen es, il pretume lo sa." Appena pronunciate queste parole, sentì di aver detto male e tacque. Tacque anche Edith. Il silenzio durò qualche minuto. "Edith" disse finalmente Steinegge "sarai stanca non è vero?" "Un poco, papà." Era sempre tenera quella cara voce argentina; Steinegge si consolò. Era sempre tenera quella voce, ma vi suonava dentro stavolta una nuova corda delicatissima, mesta, appena sensibile. Poi che Steinegge si fu congedato con un bacio, Edith tornò alla finestra e parve parlare a lungo con Qualcuno al di là delle nubi. Intanto suo padre non poteva trovar posa. Tornò cinque o sei volte a picchiar all'uscio per chiederle se aveva acqua, se aveva zolfanelli, a che ora voleva essere svegliata, se le dovevano portare il caffè, se desiderava questo, se desiderava quello. Fu tentato d i coricarsi lì all'uscio, come un cane fedele; finalmente, poco prima dell'alba, andò a coricarsi bell'e vestito sul suo letto.

A suo avviso le cose procedevano in modo abbastanza soddisfacente. La gamba destra aveva riacquistati, in parte, alcuni movimenti e anche il braccio non era più completamente inerte. Nell'intelligenza e nella favella i progressi erano, per verità, meno sensibili, ma si poteva, anzi si doveva ritenere che col tempo si sarebbe ottenuto molto; se non la gu arigione completa, almeno... Colui era giunto a questa svolta promettente della sua prognosi quando si fermò alzando il mento e guardando con gli occhi socchiusi oltre alla cerchia dei suoi uditori. Fece quindi un cenno rispettoso di saluto. Tutti si voltarono; era donna Marina. Il gruppo allora si agitò e si scompose in movimenti diversi. La contessa Fosca e Nepo si avvicinarono a Marina, gli altri fecero posto; tutto questo lentamente e senza parole. Nepo guardava la sua fidanzata con due grossi occhi stupidi, sgomenti. "Buona sera" sussurrò Marina. Poiché il medico taceva, gli disse un po' più forte con la sua voce noncurante: "Prego". Ell'era vestita di nero o di azzurro carico; non si poteva distinguer bene. Appena si vedeano le linee eleganti della bella persona, i grandi occhi, il pallore uniforme del viso e del collo. Si guardò un momento alle spalle, quasi cercando una sedia. Nepo insistette perché sedesse sul canapè, ma ella scelse una poltrona proprio in faccia al medico. "Almeno" proseguì costui, incerto, magnetizzato dagli occhi grandi che lo fissavano "l'uso delle gambe... fors'anche, in parte, l'uso del braccio... dico in parte, in parte... si potranno ricuperare... e anche l'intelligenza... però, per l'intelligenza, è difficile, molto difficile." Pareva pigliar involontariamente la intonazione dagli occhi di donna Marina. Il commendatore Vezza li studiava da vicino quegli occhi, procurando di non farsi scorgere dai Salvador. Aveano un fuoco vago e febbrile, una espressione di curiosità intensa, qualche cosa di nuovo che colpì il commendatore. Qualcuno entra; il signor parroco che viene a prender notizie. Il povero don Innocenzo, miope, imbarazzato, non riconosceva nessuno, salutava a sproposito, si scusava, suggeva l'aria con le labbra, serrate come se il pavimento gli scottasse. Intanto il dottore si congedò. V'era un ghiaccio nella stanza: nessuno parlava forte. Nepo, curvo sulla spalliera delle poltrona di Marina, le chiedeva sottovoce della sua salute, si doleva di non averla mai potuta veder in quei due giorni. La contessa Fosca dall'altra parte tentennava. Si piegava verso Marina, le sussurava una frase; si ritraeva per non porsi troppo avanti fra lei e Nepo; quindi cedette alla tentazione. Il parroco prendeva le notizie del conte dall'avvocato Mirovich, in disparte. Silla non s'era mosso mai. Marina nell'entrare lo aveva guardato un momento, lo aveva confitto, quasi impietrito al suo posto. Ella si alzò. "Amerei dire una parola al signor Silla" disse. Questi, pallidissimo, s'inchinò. La contessa, Nepo, il Vezza, stupefatti, guardavano Marina, aspettando uno scoppio, una scena come quella dell'anno prima. L'avvocato interruppe la sua relazione; Don Innocenzo non capiva; gli diceva: "E dunque?" "Non qui" disse Marina. Il Vezza e il Mirovich fecero atto, un po' tardi, di ritirarsi. I Salvador non si mossero. "Restino pure" soggiunse Marina. "Ho bisogno di prendere aria. Scende in giardino, signor Silla?" Questi s'inchinò daccapo. "In giardino?" esclamò la contessa Fosca con uno scatto di malcontento. "Con questo fresco?" soggiunse poi. "Non mi pare..." "Con questo umido?" disse Nepo. "Piuttosto in loggia." "Buona sera" disse Marina. "Faccio un giro e poi rientro nelle mie camere." Nepo volle replicare qualche cosa, s'imbarazzò, balbettò poche parole. Donna Marina fece un passo verso l'uscio e guardò fisso Silla, che venne ad aprirglielo. "Buona sera" diss'ella ancora, uscendo. Nessuno le rispose. Marina discese lentamente, con piedi silenziosi di fata, in mezzo alla larga scala semioscura. Silla le teneva dietro, stretto alla gola da commozioni inesprimibili, quasi cieco. Ancora un momento e sarebbe stato solo con lei, nella notte. La porta a vetri che mette in giardino era spalancata. Il lume del vestibolo, oscillando all'aria notturna, mostrava di fuori un lembo di ghiaia rosea; presso all'uscio, sopra una sedia, lo scialle bianco di Marina. Ella lo porse a Silla, si fermò perché glielo posasse sulle spalle. Le loro mani si incontrarono; eran gelate. "Fa freddo" disse Marina, stringendosi lo scialle sul petto. Pareva un'altra voce; quasi tremante. Silla non rispose; credeva ch'ella gli sentisse il cuore a battere. Le posò un momento le mani alle braccia quasi per ravviarle lo scialle. Ella trasalì; le spalle, il seno le si sollevarono. Uscì senza dire parola, fece una cinquantina di passi nel viale e s'appoggiò alla balaustrata, guardando il lago. La notte era oscura. Poche stelle lucevano nel cielo nebbioso fra le enormi montagne nere che affondavano l'ombre nel lago. Il gorgoglio delle fontane, il canto lontano dei grilli nelle praterie, andavano e venivano col vento. Silla non vedeva che la elegante figura bianca, curva sulla balaustrata presso a lui. "Cecilia" disse piano accostandosele. Ell'appoggiava il mento alle mani congiunte. Ne stese una a Silla senza voltar la testa, e gli disse appassionatamente: "Sì, mi chiami sempre così. Si ricorda?" Egli strinse con ambedue le proprie quella mano di raso odoroso. Temeva di esser freddo, di non aver neppur sensi in quel momento. Se la recò alle labbra, ve le impresse, veementi, sul polso. "Mi dica: si ricorda?" ripeté Marina. "Oh Cecilia!" diss'egli. Le voltò la mano, vi abbassò rapidamente il viso sul palmo, se la serrò sugli occhi, parlò convulso: "Non v'è più mondo, se sapesse, per me! non vi son parenti, né amici, né passato, né avvenire: niente, niente; non v'è che Lei, mi prenda, mi prenda tutto!" Voleva esaltarsi e vi riusciva. Si trasse quel piccolo palmo sulla bocca; pensò alla propria vita amara, al mondo ingiusto, vi soffocò uno spasimo di passione che dovette entrar nel sangue di lei, attraversandolo sino al cuore. "No, no" diceva ella con voce interrotta, mancante, "adesso no." Avevan la febbre tutti e due. "Quando si è ricordato?" disse Marina. Ella era fissa nell'idea di Cecilia Varrega, che avrebbe ritrovato, nella seconda esistenza terrena, il suo primo amante. "Iersera" diss'egli credendo aver intesa la domanda. "Iersera, dalla signora De Bella, che mi parlò di lei; dopo hanno fatto una musica che mi ha rotto il cuore, me ne ha tratto fuori tante cose. Esco di là mezzo pazzo, trovo il Suo telegramma. Allora mi si è illuminato tutto, ho sentito il destino prendermi, portarmi qua. Mi lasci questa mano, questa dolcezza infinita. Lei non sa che passione è la mia. Mi par di morire a non spiegarmi e non posso parlare. Vorrei esser tratto giù per sempre, con Lei, in que st'acqua che mi chiama." Egli tirò a sé la inerte mano prigioniera, il braccio, la persona. "Domani" sussurrò Marina, resistendo "domani sera dopo le undici, sulla scaletta della darsena." Egli non voleva lasciar quella mano, vi figgeva le labbra insaziabili. "Venga" diss'ella a un tratto concitata "mi segua, discosto, non mi parli e, sulla porta, mi lasci. Lo sapevo." Silla comprese e obbedì. Fatti due passi, vide qualcuno nell'ombra. Era Catte. "Ah, è qui, marchesina. L'ho cercata dappertutto. Sua Eccellenza mi aveva dato questo scialle per Lei." Marina non degnò rispondere né tampoco guardar la cameriera: fece dalla porta un saluto freddo a Silla e sparve nel vestibolo. Silla attraversò il cortile, salì la scalinata ed escitone di fianco sedette sull'erba sotto un cipresso, vi rimase un pezzo bevendo il forte odore dell'albero, ascendendo con gli occhi per l'alta colonna nera sino alle stelle. Più tardi la contessa Fosca, chiusa con Nepo nella sua camera da letto, smaniava, singhiozzava, esclamava contro il frate che aveva raccontato quelle cose orribili, contro la dama milanese che le aveva date le prime informazioni di Marina; si domandava cosa mai vi potesse essere fra Marina e suo zio, cosa mai ella avesse detto, cosa mai avesse fatto quella notte; protestava di perder la testa, di volerne uscire, di volerne far uscire Nepo a ogni costo, di voler piantare quella benedetta casa e il suo padron e e la sua padrona, e i denari e tutto. Quando aveva finito, ricominciava. Nepo taceva sempre, ingrugnato; solamente, se sua madre alzava troppo la voce, le faceva un gesto iracondo. Ella resisteva, sulle prime; gli diceva: "E cosa fai tu col tuo tacere?" Ma Nepo s'inviperiva. Allora la povera donna diventava umile, piagnucolosa; ripeteva: "Nepo, la è matta! Nepo, la è matta!" Voleva chiamar l'avvocato, consultarlo. Nepo si oppose tanto risolutamente ch'ella credette leggergli in viso un proposito, un piano bell'e pronto. Gli domandò che intendesse fare. "Aspettare" diss'egli "non comprometter niente." "Per la donazione, caro, ho paura. Adesso la va peggio." "Aspettare" ripeté Nepo. "Bel discorso!" Egli scosse via l'occhialettto, prese sua madre per le braccia, le immerse gli occhi negli occhi e disse con voce soffocata: "Se non c'è testamento?" La contessa pensò un poco, guardandolo. "Resta tutto suo?" diss'ella. "Tutto di Marina?" Nepo si tirò indietro, allargò le braccia. "Eh!" diss'egli: e soggiunse: "Allora ci penseremo." Seguì un lungo silenzio. "Perdi un bottone, viscere" disse la contessa piano con dolcezza. Nepo si guardò il bottone che gli penzolava dall'abito, rispose nello stesso tono: "Momolo che non guarda mai. Vado a vedere del conte." "E il tiro di stasera?" disse la contessa mentre egli se ne andava. "Bello, sai!" "Per quello non ho nessun pensiero" disse Nepo. "Intanto hai sentito Catte, come li ha visti tornare a casa. Credo poi, anche a giudicare dalle parole di Marina, che né scuse né complimenti gliene abbia fatti certo. Vedrai che domattina, per non dire stanotte, l'uomo se ne va. Cosa vuoi pensare? Dopo che è partito l'altra volta a quel modo e per quella cagione! Lui lo ha detto a Mirovich come è venuto; ha detto che ha saputo in un paese qui vicino della malattia del conte. - Dunque vado." Nepo trovò in galleria Catte a chiacchierare con l'avvocato e col Vezza che fumavano. Catte, veduto il padrone, se la svignò; gli altri due non avevano notizie precise dell'ammalato, dopo la partenza del dottore. Nepo si avviò in punta di piedi a pigliarne, e coloro ripresero il loro dialogo. Parlavano degli strani casi cui assistevano: il Vezza con l'interesse d'un egoista curioso; il Mirovich con qualche pena per la devozione che portava alla contessa Fosca. Facevano mille supposizioni diverse, ricadevano sempre a dire, come la contessa Fosca, di non capirci nulla. Il Mirovich concluse: "È proprio il caso di dire come i chioggiotti: Co se ga rasonao se ga falao." Il Vezza disse qualche cosa, dopo un lungo silenzio, sulla pace profonda della notte; e il suo compagno, pensando a Venezia, a' tempi passati, mormorò la prima strofa della canzonetta che comincia: Stanote de Nina... "Bella, bella, bella! Avanti, avanti!" disse il commendatore. Nepo rientrò in loggia. "Come va?" gli chiese l'avvocato. "Peggio, peggio assai, pur troppo" rispose Nepo e passò oltre. "Che brutto affare" sospirò l'avvocato. "Ma!" Lo zampillo del cortile parlò solo per un momento dietro a loro. "Era malandato, già, in salute" disse il commendatore. "Eh, sì." "Adesso restava anche solo" tornò a dire il Vezza. "Eh, questo sì." "Quasi, quasi..." "Oh, lo credo anch'io." Parlò ancora solo la voce blanda. Il Vezza gittò il suo sigaro. "Che veleno!" diss'egli. "Dunque?" soggiunse dopo una breve pausa. "Cosa, dunque?" "La canzonetta?" "Ah, ecco - Stanote de Nina..." L'avvocato abbassò la voce, e la tramontana leggera che attraversava gli archi, sciolse, portò via le parole voluttuose. Nella sua stanza, dove un fioco lumicino posato a terra spandeva nell'aria calda e greve certo chiarore sepolcrale, il conte Cesare supino, immobile, non vedeva la Giovanna seduta presso il letto con le mani sfiduciate sulle ginocchia, e gli occhi fissi in lui. Credeva invece veder la figura di sua nipote ritta in mezzo alla camera. Era sua nipote e un'altra persona nello stesso tempo, ciò gli pareva naturale. Si moveva, parlava, guardava con due occhi pieni di delirio; come mai se quella persona era morta e sepolta da lungo tempo? Egli lo sapeva bene ch'era stata sepolta, ricordava d'averlo inteso da suo padre; ma dove, dove? Tormentosa dimenticanza! C'era pure nella sua memoria quel luogo, quel nome; ve lo sentiva muoversi, salire, salire finché ne scattò su, in lettere visibili. Credette allora cavar di sotto le lenzuola il braccio destro, stenderlo, appuntar l'indice a colei, dirle ch'ella mentiva e ch'era ben sepolta ad Oleggio, nella cappella di famiglia. Ma la donna lo minacciava ancora, lo sfidava, gli gettava un guanto; pareva Marina ed era la prima moglie di suo padre, la contessa Cecilia Varrega. Ella lo sentiva, parlava di antiche colpe, di una vendetta da compiere. Allora egli immaginava lanciarsi smanioso d'ira dal letto, e tutto si confondeva nella sua mente in una torb ida visione a cui intendeva ansando, come se sulla porta della morte gli apparisse, al di là, un pauroso dramma sovrumano. C'era un peggioramento improvviso, la paralisi minacciava il polmone. Il Palazzo non era parso mai così cupo come quella notte, malgrado i lumi che vi vegliarono fino all'alba.

Guardate nel vostro libro la partita Andrea Steinegge fu Federico di Nassau; guardate se non ho pagato abbastanza. Voi siet e molto grande; io molto piccolo; Voi sempre giovane, io sono vecchio e stanco. Cosa volete prendermi ancora? L'amore di mia figlia Edith! Non ho altro, signor Dio. Guardate se potete lasciarmelo. Se non potete, spazzatemi via, per Dio, e finiamola". Al suono della propria voce Steinegge si commoveva e s'inteneriva sempre più. Mise un ginocchio a terra. "Vi conosco poco, signor Dio, ma la mia Edith Vi vuol bene e io posso adorarvi, se volete. Vedete, m'inginocchio; ma intendiamoci noi e lasciamo da banda i preti. Forse posso darvi qualche altra cosa. Io ho la mia salute ch'è di bronzo. Pigliate questa. Fatemi morire a poco a poco, ma non mettetevi fra Edith e me. Io non posso inginocchiarmi davanti ai preti e mentire. Sono leale, sono soldato." "Signor Dio" qui Steinegge posò a terra anche l'altro ginocchio e abbassò la voce. "Io ho paura d'aver molto peccato nella mia giovinezza. Ho amato il giuoco e le donne peggiori. Tre volte, sulle dodici che mi son battuto in duello, ho provocato io, ho ferito l'altro e avevo torto. Credo che questi siano stati tre peccati; li ho sempre avuti nel cuore. Signor Dio della mia Edith, Vi domando perdono." Non disse altro e tornò a sedere, commosso, ma contento di sé. Gli pareva d'aver fatto un gran passo. Parlando a Dio, la sua scarsa fede si era tanto accresciuta ch'egli ora ne aspettava qualche risposta. Provava almeno la soddisfazione dell'uomo povero che ha necessità di parlare a un potente di cui teme lo sdegno, e, per non essere ribattuto dai servi, lo affronta sulla via, gli dice le sue ragioni con la brusca brevità che il tempo richiede, n'è ascoltato in silenzio e pensa quel silenzio copra un princi pio di combattuta pietà. Accese un sigaro per vincere la commozione che gli stringeva la gola. Il capitano Steinegge non doveva piangere. Fumò con furia, con rabbia. Appena chetato l'animo, guardando a terra con il sigaro fra l'indice e il medio della destra, gli parve che i fili d'erba tra sasso e sasso uscissero a dir qualche cosa di solenne o di incomprensibile e che rispondesse loro il mormorar dei cespugli. Ed egli, benché tedesco, non aveva mai compreso il linguaggio della natura, non era mai stato se ntimentale! Il sigaro gli si spense in mano. Che voleva dir questo? Si scosse, si alzò in piedi e discese verso la chiesa. La gente ne usciva; prima gli uomini che si fermavano sul sagrato in capannelli, poi le donne. Steinegge ristette sul sentiero a guardare la corrente variopinta che sboccava dalla porta maggiore; aspettava il cappellino nero di Edith. La corrente si venne rallentando e diradando. Quando cessò il pericolo di urtarsi a gomiti villani, comparvero la contessa Fosca e Marina, seguite da Nepo; poi tre o quattro vecchierelle: poi più nessuno. Anche i capannelli si sciolsero, il sagrato si votò. Steinegge, inquieto , venne a dare un'occhiata in chiesa. Non v'erano più che due persone, il curato inginocchiato sul primo banco presso l'altar maggiore e, otto o dieci banchi più indietro, Edith. Steinegge si ritirò adagio adagio e sedette sul muricciolo del sagrato. Gli batteva il cuore. Qual viso gli farebbe Edith! Ella uscì subito, frettolosa e sorridente; gli disse che s'era accorta di lui senza vederlo, perché aveva già imparato a conoscere il passo suo, e gli domandò scusa d'averlo fatto attendere. Nella fretta d'uscire aveva dimenticato l'ombrellino. "Signor papà" diss'ella scherzando "Le rincrescerebbe?". Il signor papà corse in chiesa e, prima di giungere al banco dov'era stata Edith, incon trò il curato che gli veniva incontro porgendogli l'ombrellino e gli fece due o tre inchini. "È Suo?" disse il curato. "È di mia figlia." "Se volesse vedere il coro, la sagrestia... Abbiamo un Luino, un Caravaggio... dico, se crede..." "Oh grazie, grazie" disse Steinegge che all'udire Luino e Caravaggio era rimasto a bocca aperta. "Allora, se vuol dirlo alla Sua signora figlia..." Steinegge s'inchinò, uscì a fare l'ambasciata e ritornò subito con Edith. Il curato si fece loro incontro con certa cordialità impacciata, strofinandosi le mani e suggendo l'aria con le labbra strette, come chi ha messo un dito nell'acqua troppo calda. Mostrava presso a sessant'anni. Aveva fronte alta, sguardo vivace e ingenuo, il viso, la voce, il passo della sincerità. Da tutta la sua persona spirava non so quale energia temperata di timidezza. Mostrò a Steinegge e a Edith i due quadri, che portavano alla meglio i loro nomi pomposi. Il Caravaggio del coro era un Martirio di S. Lorenzo, barocco nel disegno e nei lumi, ma pieno di vita. Steinegge non capiva niente di pittura e ne fece grandi elogi. Edith tacque. Il Luino della sagrestia era una bionda testa della Vergine, luinesca senza dubbio, soave. Edith ne fu commossa. Disse al curato con la sua voce quieta, ch'era straniera e che sentiva allora per la prima volta la dolcezza dell'Italia. Come mai quella povera chiesa di campagna poteva possedere un tesoro tale? Il curato divenne rosso e rispose che veramente il quadro era stat o suo, un ricordo di famiglia; che gli era parso ispirato da Dio e degno perciò di un luogo santo; e che nella sua chiesa tanto povera e umile Maria ci stava opportunamente. Poi chiese permesso alla signorina, con accento d'ingenuo desiderio, di farle vedere la biancheria più fine e i paramenti più ricchi. Tutto era distribuito col massimo ordine nel grande cassettone della sagrestia, dai purificatori candidi e odorati di lavanda sino al piviale delle maggiori solennità appena giunto da Novara. Il curato sp iegava e ripiegava ogni cosa con garbo femminile. "Vedo bene, signore" diss'egli a Steinegge "vedo bene, che Ella vorrebbe dirmi: Ad quid perditio haec? Un vecchio prete non deve avere i gusti di una giovane signora. Che vuole? Questa povera gente ha piacere così. Intendono di onorar Dio, e Dio vede il cuore." Non disse quanto avesse aiutato il voto dei parocchiani con le proprie economie pertinaci e dure; perché egli, nato da famiglia signorile, aveva abbandonata ai molti fratelli la sua parte dell'eredità paterna. I fratelli, che lo conoscevano bene e lo amavano, gli avevan regalato, poco tempo prima della visita degli Steinegge, un bell'organo di Serassi. Al primo Dominus vobiscum della prima Messa solenne celebrata con l'organo nuovo, don Innocenzo era rimasto per due minuti fermo con le braccia aperte a bearsi dell'onda sonora e del luccicar delle canne, là sopra la porta maggiore. Ora volle mostrare agli Steinegge anche l'organo. Edith era così affabile, suo padre tanto compito, che don Innocenzo vinse presto del tutto la propria timidezza, e uscito di chiesa con essi, dimenticò il caffè che l'aspettava, per far loro mille domande curiose sulla Germania, sui luoghi, sui costumi, sulle arti, persino su Goethe, Schiller e Lessing, soli autori tedeschi di cui conoscesse il nome e avesse letto qualche opera. Pareva a lui che un tedesco dovesse conoscer tutta la Germania da capo a fondo e ogni fatto, ogni parola de' suoi compatrioti illustri d'ogni tempo. Un altro nome tedesco ricordava, Beethoven. S'informò anche di quello. Raccontò che a sedici anni aveva s entito eseguire da una signora una suonata di Beethoven che gli era parsa piena di voci sovrumane. Povero don Innocenzo! Arrossiva ancora. Gli occhietti chiari di Steinegge scintillavano di contentezza. Rispondeva a tutte le domande del curato con una foga, una parlantina vibrante d'orgoglio nazionale. Edith sorrideva talvolta in silenzio e talvolta faceva, in omaggio al vero, qualche osservazione pacata che garbava poco al curato. A lui piacevano i giudizi assoluti e le pitture esagerate di Steinegge che lo portavano violentemente in un mondo affatto nuovo, affascinante. "Lasci stare via, signorina" disse una volta quasi impazientito. "Mi las ci credere alle belle cose che dice il suo signor padre. Io sono un prete che non ha visto niente, non ha udito niente e non sa niente; mi pare però che debba aver ragione lui." Steinegge al sentirsi dir questo e chiamare signor padre, fu per abbracciarlo malgrado la tonaca nera. Intanto la piccola comitiva era giunta al cancelletto di legno che mette nell'orto della canonica. Don Innocenzo pregò i suoi compagni di entrar a prendere il caffè. Steinegge accettò subito; a lui e al prete pareva già d'esser vecchi conoscenti. Piccina, tutta bianca, a mezz'altezza fra il paesello e la chiesa, ma alquanto in disparte, la canonica di R... volta le spalle al monte e guarda, acquattata nel suo orticello fiorito, i prati che si spandono fino al fiume. L'orto, quadrato, è chiuso da un muriccio lo basso. Dalie e rosai vi fan la guardia, lungo i cordoni di bosso, agli erbaggi e ai legumi. Dietro alla casa ascende il declivio erboso, ombreggiato da meli, peschi e ulivi. Le stanzette sono pulite e chiare. Quelle della fronte hanno un paradiso di vista. Il curato la fece ammirare a' suoi ospiti con grande compiacenza, mostrò loro il suo salotto, il suo studio dove teneva parecchi cocci di tegami preistorici trovati in certi scavi presso il lago e ch'egli stimava un tesoro. La sua segreta amarezza era di non aver trovato alcun ciottolo sì tagliente da potersi onestamente chiamare arme preistorica. Steinegge pigliava grande interesse alle sue spiegazioni che avrebbero fatto sorridere un dotto, perché il povero prete entusiasta si accendeva di ogni novità che penetrasse, per mezzo di qualche libro o di qualche giornale, nella sua solitudine, e su bricioli di dottrina spezzata e guasta tirava su i soliti edifici assurdi del pensiero solitario. Edith preferiva guardare i prati macchiati dalle ombre di grossi nuvoloni, i tetti neri del paesello, quasi appiattiti fra gelsi e noci; a sinistra e più abbasso della canonica, il lembo di lago che di colà si vede, come lamina d'acciaio brunito, mordere il verde chiaro delle praterie. "Che Le pare, signorina, di questa Italia?" disse il curato. "Non lo so" rispose Edith "ne avevo in mente un'altra, più diversa dal mio paese. Ho veduto in Germania molti paesaggi italiani di pittori nostri, ma i soggetti eran presi sempre a Roma o a Venezia o a Napoli. I viaggi di Goethe o di Heine non me li hanno lasciati leggere. Mi vergogno a dirlo; la più profonda impressione me l'ha lasciata un pessimo acquerello, la prima cosa che mi colpì in una casa dove sono stata dodici anni. Rappresentava il Vesuvio e v'era scritto sotto Scene d'Italia. Era come una picco la macchia rossa sopra una grande macchia azzurra. Solo guardando ben da vicino si potevano discernere le linee della montagna, il mare e una barca piena di figure stranamente vestite. Per lunghissimo tempo non ho potuto figurarmi l'Italia né gli italiani diversi da quella pittura." "È naturale" disse don Innocenzo, che entrava avidamente in tutti gli argomenti curiosi di conversazione. "Guardi; a ragazzi d'ingegno molto acuto io non farei mai vedere negli anni più teneri immagine alcuna di Dio né di Santi, perché quelle immagini possono restar loro profondamente, ostinatamente impresse nella fantasia, a segno, in qualche caso, da rendere assai difficile, più tardi, lo sviluppo di una elevata fede religiosa. Quel vecchione barbuto appiccicato all'idea di Dio, aiuta molto, senza che se ne accorgano, il loro razionalismo nascente. V'ha chi diffida del culto dei Santi per non poterli affatto concepire come spiriti puri, operanti nell'universo; e questo in grazia delle impressioni riportate in fanciullezza dalle immagini che li rappresentano spesso brutti e mal vestiti, seduti sulle nuvole a guardar per aria. Non crede, signore?" Steinegge costretto a ragionar di Santi e non osando scusarsene, stava per dire qualche grossa corbelleria; ma Edith si affrettò a parlare. "Pure" diss'ella "se tutte le immagini fossero di Dürer o del Suo Luino! Colla impressione dei sensi resterebbe una impressione religiosa." "Non lo credo, signorina" rispose don Innocenzo sorridendo e arrossendo. Edith indovinò subito il suo pensiero. Ella riconobbe che in Germania il sentimento artistico era retaggio di pochi, ma soggiunse che lo credeva comune in Italia, benché da quando aveva passato le Alpi fossero apparsi più volte indizi del contrario. Don Innocenzo le confessò ch'egli stesso non ne aveva punto. Il suo Luino gli dava sicuramente gran piacere, ma questo gli accadeva pure davanti ad altri dipinti mediocrissimi. "Non sarà così" osservò Edith "ma se fosse così, Le mancherebbe il buon giudizio artistico e non il sentimento. Sarebbe un fuoco senza luce." Don Innocenzo non conosceva la grazia delicata dell'ingegno femminile colto. A prima giunta Edith non gli era piaciuta moltissimo; gli pareva un po' fredda nella sua affabilità. Conversando con lei mutò presto, come sogliono gli uomini della sua tempra, il primo giudizio. Adesso era ammirato di quella sua parola sempre corretta e semplice ma viva di un sentimento riposto, di un'intelligenza molto fine, molto ardita. "S'Ella venisse al Palazzo, signor curato" disse Steinegge "vedrebbe molti quadri, oh moltissimi belli quadri che ha il signor conte." "Ci vado un paio di volte l'anno e mi pare d'averla veduta anche Lei, colà! ci andrei più spesso, ma so che il signor conte non ama molto i preti..." Steinegge diventò rosso; gli dispiacque d'aver provocate queste parole. "Eh" disse don Innocenzo facendosi alla sua volta di bragia "eh, cosa importa? Non li amo neppure io i preti, sa!" "Ah" esclamò Steinegge stendendogli le braccia come se il curato gli avesse dato una notizia più lieta che credibile. "Non si scandolezzi, signorina" continuò questi. "Parlo degl'italiani. In Italia i preti" (don Innocenzo, con gli occhi accesi, co' denti stretti, faceva suonar l'erre come trombe di guerra) "non tutti, ma molti sa, e i giovani specialmente, sono una trista genìa, ignoranti, fanatici, ministri di odio..." "Si capisce che ne fu seminato" disse Edith, severa, mentre Steinegge metteva la sua gioia in gesti. "Lo hanno seminato e lo seminano" rispose don Innocenzo "e ci cresce intorno a tutti, dico intorno a tutti che portiamo quest'abito; e si perdono anime ogni giorno. Basta, basta, basta!" Guai quando il curato toccava questo tasto; la collera gli saliva alla testa, le parole gli uscivano aspre e violente oltre ogni misura. Ad irritarlo così bastava poco: un numero di qualche giornale clericale che il vicario foraneo, gesuita di tre cotte, gli mandasse facendo lo gnorri, con dei segni ammirativi a fianco degli articoli più acri; una lettera fremebonda di qualche collega bandito dalla curia a parole e perseguitato a fatti per opinioni politiche. Allora cominciava a soffiare, a bollire, a ringh iare sinché rompeva tutti i freni con queste sfuriate gagliarde e finiva come aveva cominciato, buttando fuori frasi rotte, invettive stroncate, stritolate dai denti. Si rasserenava poi subito e rideva con gli amici presenti della propria collera. "Non è mica sempre così cattivo. La vede, signorina" disse piano a Edith, in dialetto, la vecchia serva di don Innocenzo, portando via il vassoio del caffè. Edith non capì. "Dice che sono cattivo, ed è purtroppo vero. Non posso frenarmi. Spero che mi compatiranno. Si fermano qualche tempo al Palazzo?" "Non sappiamo" rispose Edith. "Non sappiamo" ripeté a caso Steinegge. "Scusino; è perché spererei di poter trovarmi con Loro qualche altra volta." Steinegge, conquistato, si confuse in complimenti. "Mio amico, io spero" diss'egli stendendo la mano. "Certo, certissimo" rispose il prete, stringendogliela forte. "Ma prima di partire vengano a vedere i miei fiori." Questi famosi fiori erano due pelottoni di gerani e di vaniglie schierati lungo il muro della casa; oltre alle dalie, rosai e ai begliuomini disseminati per l'orto. "Belli, non è vero?" disse don Innocenzo. "Bellissimi" rispose Steinegge. "Prenda una vaniglia per la Sua signorina." "Oooh!" "Prenda, via, andiamo, ch'io non le so fare, no, queste cose." "Edith, il signor parroco..." Così dicendo Steinegge, con la vaniglia in mano, si avvicinò a sua figlia, che stava un po' discosto presso il muricciuolo. Edith ringraziò sorridendo, prese la vaniglia, l'odorò, ne guardò il gambo spezzato, e sussurrò: "Questo è mite di cuore." Don Innocenzo capì. "Ha ragione" diss'egli umilmente. "Oh no" esclamò Edith, dolente d'aver dette quelle parole e d'essere stata subito intesa. "Mi dica, dove sta Milano?" "Milano... Milano..." rispose don Innocenzo schermendosi gli occhi dal sole con la mano destra. "Milano è laggiù a mezzogiorno, un po' verso ponente, dritto oltre quel gruppo di colline." "Signori" gridò la fantesca da una finestra "se vogliono andare al Palazzo, sarà meglio che facciano presto, perché vuol piovere." Piovere! Splendeva il sole, nessuno s'era accorto di minacce. Pure la vecchia Marta aveva ragione. Dalle montagne del lago venivan su certi nuvoloni più densi e più neri dei soliti che il vento meridiano vi porta in giro. "Marta!" chiamò il curato. "Un ombrello per i signori." Steinegge protestò. Marta fece al padrone un cenno che l'ingenuo uomo non intese. "Cosa c'è? Un ombrello, dico!" Marta fece un altro segno più visibile, ma in vano. "Eh? Che avete?" Marta, indispettita, lasciò la finestra brontolando contro gli uomini di talento che non capiscono niente. Poi comparve in orto con un coso verde in mano e lo porse sgarbatamente al curato, dicendogli: "A Lei! Che tolga! Bella roba da offrire! Cosa hanno a dire di noi al Palazzo?" "Cos'han da dire? Che non ne ho altri. Gran cosa! Ecco, quod habeo tibi do." Infatti don Innocenzo aveva più cuor che ombrello. Quello sconquassato arnese di tela verde non ne meritava più il nome. Marta non si tenne da dire piano a Edith: "Ne aveva uno di bello. L'ha dato via. Dà via tutto!" Gli Steinegge scesero per un viottolo che gira nei prati intorno al paese, tocca il lago e risale un poco sino a raggiungere la stradicciuola del Palazzo. Intanto Marta sfogava il suo corruccio col padrone, che rispondeva mansueto: "Ho fatto male? Bene, sì, via, tacete, avete ragione". Egli era contento della nuova amicizia e pensava che per via degli Steinegge gli si aprirebbero forse più spontaneamente le porte del Palazzo secondo il suo vivo desiderio; perché quella casa smarrita fuor del gregge gli stav a più a cuore delle altre novantanove raccolte sotto la chiesa. Il cielo rideva ancora alle spalle degli Steinegge e li minacciava in viso. Ad una volta del sentiero Edith si fermò a guardare indietro. "Vedi, papà" diss'ella sorridendo "andiamo dall'idillio nella tragedia." "Oh, no, no, non c'è tragedia: Drauss ist alles so prächtig Und es ist mir so wohl!" "Ancora ti ricordi le nostre canzoni, papà?" Egli si mise a cantare: Aennchen von Tharau hat wieder ihr Herz Auf mich gerichtet in Freud, und in Schmerz, Aennchen von Tharau, mein Reichtum, mein Gut. Du meine Seele, mein Fleish und mein Blut. Cantava con gli occhi pieni di riso e di lagrime, camminando due passi avanti a Edith per non lasciarsi vedere in viso da lei. Pareva un ragazzo ubbriacato dall'aria odorosa dei prati e dalla libertà. Edith non pensò più alla tragedia, malgrado la faccia scura dei monti e qualche grosso gocciolone che cadeva sul fogliame dei pioppi presso al lago e segnava di grandi cerchi le acque tranquille. Ella fu presa dall'allegria commossa di suo padre. La piova rara e tepida, suscitando intorno ad essi una fragranza di vegetazione, li eccitava. Chi avrebbe riconosciuto la Edith del giorno prima? Ella coglieva fiori, li gettava a suo padre, correva, cantava, come una bambina. Si fermò ad un tratto guardando il lago e cominciò una canzone triste: Am Aarensee, am Aarensee. "No, no" gridò Suo padre, e corse a lei. Ella fuggì ridendo e ripigliò più lontano: Da rauschet der vielgrüne Wald. Si compiaceva che suo padre non le permettesse quella canzone triste e si divertiva a stuzzicarlo. Inseguita da lui continuò fuggendo: "Da geht die Jungfrau". Rallentò la corsa e la voce sulle parole "Und klagt", si lasciò raggiungere prima di dire "ihr Weh" e baciò la mano che le chiudeva la bocca. "Mai, mai, papà" diss'ella poi "sin che mi tieni con te. Non sai che siamo un po' matti tutti e due? Piove!" Steinegge non se n'era accorto. Aperse a grande stento lo sgangherato ombrello verde che brontolò sotto la piova, fra il sussurro dei prati e il bisbiglio degli alberi, sullo stesso tono, presso a poco, della vecchia Marta. Pure poteva esser contento di quello che udiva sul conto del suo padrone. Steinegge singolarmente non rifiniva di lodarne l'aspetto e le parole oneste, a segno che Edith gli domandò se l'onestà fosse tanto rara in Italia. Egli protestò con un fiume d'eloquenza per togliere ogni sospetto che potesse pensar male degli italiani, ai quali professava gratitudine sincera perché, in fin dei conti, erano i soli stranieri da cui avesse ricevuto benefici. Da tutte le sue calde parole usciva questo, che egli non credeva rara l'onestà fra gl'italiani, ma fra i preti. Questa conclusione non la disse, o gli parve, nella sua ingenuità, Edith non l'avesse a capire. S'affrettò di soggiungere che sperava poter vedere presto il signor curato. "Ma, papà" disse Edith fermandosi su' due piedi e fissando i suoi begli occhi gravi in quelli di suo padre "possiamo noi restar qui?" Steinegge cadde dalle nuvole. Non aveva ancora pensato a questo. La felicità d'aver seco sua figlia oscurava nella sua mente ogni pensiero dell'avvenire. Edith, col suo delicato e acuto senso delle cose, dovette ricondurlo dalle nuvole in terra, fargli comprendere com'ella non potesse lungamente approfittare della ospitalità del conte, presa prima che offerta. Disse che le doleva essergli causa di questo e forse di altri sacrifici ancora; e rise dolcemente nel vedere a questo punto suo padre gittar l'ombrel lo ed afferrarle, stringerle le mani senza poter articolar parola. "Hai ragione, caro papà", diss'ella "temo di essere una giovane ipocrita." Allora gli raccontò che quel signore della Legazione prussiana le aveva consigliato di por dimora a Milano, dove c'era una numerosa colonia tedesca molto ricca e legata alla cittadinanza. Affiderebbero a una buona banca il tesoro dei Nibelunghi, come chiamava la sua eredità; ella darebbe lezioni di tedesco e il signor papà vivrebbe come un caro vecchio Kammerrath, col locato a pipare dopo lunghe fatiche. Piglierebbe un quartierino lontano dai rumori, alto se occorre, ma tutto aria e luce. Si farebbe cucina tedesca e il signor Kammerrath avrebbe ogni giorno a pranzo la sua birra di Vienna o di Monaco. Steinegge diventò rosso rosso e diede in un grande scoppio di riso agitando l'ombrello e gridando: "no, ah no, questo no". Edith non sapeva che suo padre era un antico dispregiatore di tutte le birre più famose della gran patria tedesca. Intese quindi male quell'esclamazione e insistette, dicendo che si darebbero ben altri sfoggi d'opulenza. Nelle domeniche della buona stagione si uscirebbe di città, si farebbero delle corse bizzarre attraverso i campi per finire in qualche solitario paesello silenzioso. Chi sa? Se gli affari prosperassero molto, il signor capitano potrebbe tre o quattro volte l'anno uscire a cavallo con la signorina sua figlia. "Tu cavalchi?" disse Steinegge stupefatto. Edith sorrise. "Sai, caro papà" diss'ella "da bambina che passione avevo per i cavalli! Quando i miei cugini imparavano a cavalcare, il povero nonno ha voluto che insegnassero anche a me. Ho imparato subito. Sa cosa mi diceva, quando mi vedeva a cavallo, il mio maestro di musica?" "Tu sai la musica?" esclamò Steinegge ancora più stupefatto. "Ma, papà, non ho mica più otto anni, sai! Mi diceva che si vedeva ben di chi ero figlia. E del mio italiano non mi parli? Sai che l'ho imparato in questi ultimi sei mesi?" Appunto di questo suo padre non s'era ancora ben persuaso; ch'ella non avesse più otto anni. E del vario sapere che veniva sorprendendo in lei si sorprendeva come d'un miracolo, si inteneriva, con quel senso di timida ammirazione che aveva provato insieme alla gioia del rivederla! Povero Steinegge! Al cancello del Palazzo si trasse da banda per lasciar passare Edith e si tolse involontariamente il cappello. "Papà!" disse Edith ridendo. "Che?" Steinegge non capiva. "Ma, il cappello?" "Ah!.... Oh... Sì!" Il pover'uomo se lo ripose in testa, proprio mentre il conte Cesare salutava Edith e le veniva incontro nel cortile col sorriso più benevolo che abbia illuminato una faccia severa.

Non trovò un perché abbastanza imperioso e scrisse sotto la dedica: "La Primavera blanda è amata da uno scrittore oscuro cui nessuno ama. Per lei, per lei sola egli potrà esser grande e forte, vincer la fortuna e l'oblio. Se n'è respinto, si lascerà cadere a fondo". Appena scritto volle troncare con un lavoro pacato quell'agitazione che lo spossava. Ricorse a un vecchio manoscritto, suo fedele compagno, che gli cresceva sotto lentamente, fra gli altri lavori, nutriti in parte con la meditazione astratta, in parte con la esperienza quotidiana degli uomini e della vita. Erano studi morali dal vero. Pareva a Silla che la letteratura moderna fosse soverchiamente scarsa di questi libri, in cui parecchi grandi scrittori del passato hanno ritratto l'uomo interno con tranquill ità scientifica e con arte squisita di stile. E gli pareva che in tale studio i fatti e le osservazioni contemporanee dovessero raffrontarsi a fatti e osservazioni antiche, onde misurare il valore morale, relativo e assoluto, della nostra generazione. Per lui il valore delle trasformazioni religiose e politiche, degli stessi progressi scientifici e materiali si risolveva nella somma, non di verità o di prosperità, ma di bene e di male morale che ne discende; perché se il bene in generale è lo scopo a cui tu tta la molteplice attività umana intende, il bene morale è la sua legge stessa, la condizione della sua potenza durevole; senza dire che per mezzo di esso, termine d'una equazione misteriosa, l'uomo si accosta alla essenza della verità e della bellezza assai più che per mezzo della scienza e dell'arte. La quale arte egli giudicava a questa stregua medesima, pure disprezzando, come puerile e falsa, la teoria dell'insegnamento morale diretto. Teneva ch'esatte cifre misuratrici del valore morale esistessero ve ramente, ma fossero impenetrabili in questa vita allo spirito umano; non pregiava come elemento di ricerca quelle delle statistiche, in cui le unità vengono aggregate arbitrariamente per certi caratteri comuni, affatto esterni e propri, per alcuni rami di statistica, più della legge che dei fatti umani; tutti più o meno disformi tra loro nell'aspetto, e di cui non si può cogliere la vera misura morale che là dove si generano, dove la statistica non sa entrare, dove la osservazione psicologica può trovare ar gomento di classificarli in modo affatto nuovo, affatto impensato, da sconvolgere molte tabelle e molte opinioni. Preferiva perciò a grossolani indizi aritmetici l'opera degli osservatori morali, attenti a cogliere negli atti, nelle parole umane i motivi interni; l'opera di pensatori acuti nel coordinare queste osservazioni praticate da molti in ogni campo della vita, nel dedurre giudizi quasi scientifici. Voleva che le osservazioni si facessero e si esponessero con la massima precisione possibile; attribui va perciò poco valore a quelle che sono nei romanzi. Ingegno non lucido, mistico di tendenze, potente per certe intuizioni fugaci piuttosto che per nerbo suo proprio e costante, egli aveva idee poco definite, poco pratiche; ardente spiritualista e perciò proclive a considerare di preferenza, nell'umanità, la origine e il fine; amava, anche in tenue materia, appoggiarsi a qualche grande principio generale. Era quindi male atto alla fredda osservazione scientifica, se pure ella è completamente possibile in ta li argomenti e se il solo vero frutto da sperarne non è la conoscenza dell'osservatore stesso. Ma egli non obbediva soltanto a un concetto filosofico; cercava pure in quel lavoro certa consolazione delle offese recategli dal mondo. Tenuto in poca stima dai suoi congiunti che l'avevano per un sognatore ozioso; negletto dagli amici che si dilungavano da lui, amico inutile, seguendo la propria fortuna o le cure domestiche; ferito da inciviltà disdegnose di critici, di letterati, di editori, si compiaceva di studiare questi tipi familiari, sine ira et studio, con equa temperanza. Era il suo conforto orgo glioso tenerli sotto la penna e perdonar loro. Stava ora lavorando a un saggio sull'ipocrisia. Inconscio seguace d'idee preconcette e assolute, voleva dimostrarvi che la menzogna e la debolezza morale sono caratteristiche di questo tempo, salvo a dedurne in seguito che discendono dalle sue tendenze positiviste, ossia dall'essersi oscurato nelle anime il principio metafisico del vero; e che le verità conquistate nell'ordine fisico, infinitesimali raggi di quel principio, non hanno né possono avere il menomo valore di sostituirlo quale generatore di salut e morale. Molto più grave gli pareva questo prosperare della menzogna in tanta libertà di parola e d'azione. Perché ne trovava infetta la vita sociale e politica, come le arti, le lettere e le industrie stesse, nelle quali discende a complice abbietta d'inganno persino la scienza. Osservava ne' suoi conoscenti il fenomeno frequentissimo dell'ipocrisia a rovescio, ossia la dissimulazione dei sentimenti più retti e più nobili, delle opinioni più ragionevoli; l'opposto linguaggio che erano usi tenere sulle per sone e le cose, secondo il numero e la qualità degli uditori. Ne induceva che se le vere opinioni umane avessero improvvisamente a scoprirsi, il mondo sbigottirebbe di trovarsi tanto diverso da quello che crede. Una sì larga infusione di falsità volontaria, corrompendo interamente le parole e le azioni umane, deve generare il falso, che è quanto dire il male, nell'organismo della società, poiché questo si modifica senza posa per le parole, per le azioni umane. Silla preferiva la sincerità, anche nell'errore , a qualunque men disonesta ipocrisia. Citava esempi in appoggio al suo assunto, e aveva ora per le mani il suo amico Steinegge. Steinegge era un esempio singolare di rettitudine morale accoppiata alle opinioni più false in ogni argomento. V'erano nei suoi errori un candore, una sincerità leale senza pari. Egli non poteva neppur credere, in fatto, alla menzogna né alla disonestà negli altri benché dicesse male, in astratto, di mezzo mondo. Parlava da scettico e sarebbe caduto in ogni trappola di briccone volgare. Il suo calor generoso si apprendeva altrui, la sua schiettezza provocava schiettezza; e le opinioni, violente e zoppe, lun gi dal nuocere, non si reggevano in piedi. Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo, ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso, vantatore, malato d'umori vaganti che lo molestano, sempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri. Steinegge era molto migliore di questo tipo. S otto il suo cerimonioso abito nero del secolo decimonono v'era un gran cuore barbaro, pieno di idee sbagliate e di sangue sano. Silla pensava a lui con la penna inerte sulla carta e lo sguardo a' fili tremoli della piova. Non poteva continuare la sua tranquilla analisi psicologica; gli pareva di offendere quell'uomo ingenuo che gli voleva tanto bene, e certo non avrebbe sospettato mai che l'amico suo gli volesse praticare una vivisezione sul cervello e sul cuore. Se lo vedeva là ritto davanti col suo onesto viso cherusco e gli occhietti scintillanti, gli udiva dire con impeto soffocato: "La meritate voi?". E lui, Silla, si alzava in piedi, gli rispondeva: "La meriterò. Sarò il suo sostegno, la sua difesa e il suo orgoglio. Non si troverà in me un atomo di falsità mai, non un pensiero ond'ella sia esclusa. Combatterò per le alte cose ch'ella ama, sotto gli occhi suoi, virilmente". Poi quella voce gli faceva delle altre domande. Egli si commosse nel pensiero di tante fredde difficoltà amare, pronte per lui da ogni parte. Immaginò un altro colloquio intimo con la propria madre. Ella gli diceva con indulgente calma tante cose savie che a lui non sarebbero mai venute in mente, lo sgomentava e lo rincorava insieme con la sua pacata scienza della vita, con l'elevato concetto del dovere e la ferma fede nella volontà umana e nella provvidenza. No, non era facile l'avvenire. Dai suoi parenti materni non poteva attendere appoggio se non lasciando gli studi per il commercio. Gli avevano già detto chiaro che non sperasse essere incoraggiato da loro a vivere ozioso, a leggicchiare e scribacchiare senza costrutto. Gli pagavano il modico assegno di cui viveva stentatamente, frutto di una somma di ragione di sua madre che essi avevano trattenuto presso di sé salvandola dal naufragio di Silla. Più di così non era da aspettarsi da costoro che avevano edificato del proprio la canonica e le scuole comunal i del paese dove filavano seta e villeggiavano. Ceder loro? Si sentiva portare in aria dallo sdegno, solo a pensarvi. Avrebbe dovuto, accasandosi, trarre denaro dal proprio ingegno. Come? I suoi libri non gli avevano ancora fruttato un soldo, e il loro successo non lasciava presagire migliore fortuna per l'avvenire. Avrebbe tradotto qualche ora al giorno, dal francese e dall'inglese, a un tanto la pagina; ma era poi sicuro di trovar lavoro? Come correva la sua fantasia! E la grigia piova tremola gli ripetev a in fondo al cortile, per le grondaie, sui tetti lucidi: "Piangi, piangi, non ti ama, non ti ama." Si alzò e uscì di casa. Più tardi egli non seppe ricordar bene che avesse fatto durante le lunghe ore trascorse da questo punto al momento in cui pose piede in casa Steinegge. Camminò trasognato, sui bastioni deserti, sotto i platani grondanti e per vie remote della città, senza riconoscerle; attraversò quartieri opposti a quello abitato dagli Steinegge. Si trattenne lungamente in un piccolo caffè tetro, dove due vecchi giuocavano al domino e la padrona, seduta accanto ad essi con un grosso gatto grigio sulle ginocchia, guardava p iovere nella via stretta. Dietro il banco un orologio scandeva col suo tic-tac minuti interminabili. Questi minuti eterni venivano sempre accelerando il passo; all'accostarsi del momento prestabilito battevano via a precipizio come il suo cuore. Giunto, per la più lunga via possibile, alla nota porta, non vi entrò né si fermò. Gli parve che il suo destino l'attendesse là dentro. Andò avanti per qualche centinaio di passi, poi, bruscamente, tornò indietro, passò la soglia disprezzandosi, paragonandosi a un fanciullo ridicolo che desidera da lontano la donna amata e la teme da presso. Si volse alla portinaia senza parlare. Ella lo conosceva e disse alzando la testa dal lavoro: "In casa". Salì le scale adagio, aggrappandosi nervosamente alla branca. Suonato il campanello si sentì chetare i nervi, si meravigliò seco stesso d'essersi lasciato tanto turbare dalla fantasia. "Oh! Oh! Caro amico! Date! Oh! questa è una grande fortuna con questo tempo tedesco. Date!" vociferò Steinegge, che gli aveva aperto e gli toglieva di mano a forza l'ombrello e il cappello. "Buon giorno, signor Silla" disse Edith quietamente. Ella era seduta presso la finestra e lavorava. Aveva alzato il viso, né roseo, né pallido, per il breve saluto e s'era volta quindi a guardar dalla finestra il "tempo tedesco". Entrava lassù dallo sterminato cielo bianco una gran luce quasi nervosa. Sul tavolo, spoglio del suo bel tappeto azzurro e nero, posavano due o tre grossi volumi, un calamaio e un manoscritto aggruppati presso la sedia da dove s'era alzato Steinegge. "Voi vedete" disse Steinegge "questo Gneist è un grande uomo, grandemente stimato in Germania. Bisogna leggere un articolo di questa Rivista Unsere Zeit. Voi sapete? Oh, ff! Ma io sono un piccolo uomo, e quando ho tradotto cinque o sei pagine, non è possibile andare avanti; è questo. Voi, Voi dovreste imparar presto il tedesco e tradurre il Self-Government per la Vostra nazione. Io lavoro per il signor conte perché io devo mangiare, ma io getto questa fatica in un pozzo, e poi io traduco in francese molto m ale. Io credo che guadagnereste molti denari perché tutti gl'italiani comprerebbero. No? Voi non credete? Voi non credete? Ooh! Questo mi meraviglia molto, caro amico. Se avessi denari, farei tradurre per speculazione a mie spese. No? Ah, no. Questo mi meraviglia molto. Sedete. Voi avete un libro?" "È un libro che mi permetto di offrire alla signorina Edith" rispose Silla, posando il volume sullo scaffaletto accanto al busto di Schiller, e guardando Edith. "Oh, molte grazie, caro amico" disse Steinegge. Edith posò le mani sul lavoro e volse il capo a Silla. "Grazie" diss'ella, tra attonita e curiosa. "Che libro è?" "Il libro di cui Le ho parlato iersera." "Iersera?" "Guardalo dunque!" disse Steinegge porgendole il volumetto con un leggero atto d'impazienza, il primo forse che gli sfuggisse parlando con sua figlia. "Ah, il suo libro Un sogno! Lo leggerò volentieri, certo. Lo leggeremo insieme, papà, per riposarti del tuo Gneist. Ti prego." Gli rese il libro, senza sfogliarlo, non senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sotto, e si ripose al lavoro. "Io sono sicuro che sarà bellissimo e che ci troveremo grande piacere" disse Steinegge, rosso rosso, per cercare di supplire alla freddezza di sua figlia. "Versi?" "No." "No? Io credeva che Voi foste poeta." "Perché?" "Scusate, mio caro." Steinegge prese con ambo le mani, ridendo, il braccio del suo interlocutore. "Per la Vostra cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione in Torino a un giovane, il quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non in prosa, non a posto. Non fate versi Voi?" "Mai." "Questo è un racconto?" "Sì." "Sarà stato molto lodato, io credo, dal pubblico e dai giornali, non è vero? Avrà fatto rumore?" "Sì, il rumore di un sasso che cade in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola persona, neppure tra le poche a cui l'offersi, che l'abbia accolto come si accoglie un forestiere raccomandato da qualche amico, un visitatore onesto, civile, senza ingegno forse, ma non senza cuore, posso dirlo, il quale vi domanda solo di essere udito quando vorrete Voi." "Come mai? Questa sarà invidia, io credo." "No, no, no. Ci sono uomini e libri sfortunati che spirano antipatia persino a' cuori più gentili." "Questo è vero, mio caro amico, questo è vero sempre." "Mi pare che un autore non lo dovrebbe credere" osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro. Silla tacque. "Perché, Edith?" chiese Steinegge. "Perché questa opinione gli deve togliere la fede, la forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle sue opere." "No" disse Silla. "Per un pezzo si dura saldi, anzi, più la fortuna ci combatte, più la si disprezza, più si lavora, più si cerca di appagare noi stessi, la nostra coscienza. Le ferite stimolano quasi, danno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fianco, e allora non c'è più che da cader bene, a fronte alta, senza chieder pietà." "Sarà vero, ma direi che bisogna diffidar molto della nostra fantasia, e badar bene di non attribuire alla fortuna quello che non le va attribuito. Non Le pare? Non è più virile di crederci poco alla fortuna?" "Oh" esclamò Steinegge "come non vuoi credere alla fortuna? Saresti tu esule, quasi povera, e sola con un vecchio poltrone se non ci fosse la fortuna?" Gli occhi di Edith scintillarono. "Papà!" diss'ella. Egli non ebbe il coraggio di confermar colla voce, ma confermò col capo, ridendo silenziosamente, quello che aveva detto. Edith si alzò e gli si avvicinò. "Scusi, signor Silla" diss'ella appassionatamente. "Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà. Puoi tu ignorare" soggiunse rivolta a quest'ultimo "che non v'ha per me felicità maggiore di vivere con te, sempre con te solo, amar te, servir te, sentirmi protetta da te, sapere che tu mi vuoi bene?" Ella disse questo in italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo padre la interrompeva con esclamazioni e gesti, batteva con le mani su Gneist e sul tavolo; ogni musc olo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava per essere vinto. Trarre l'orologio, esclamare "Oh, C... che mi aspetta", correre a pigliarsi il cappello, fare un gran gesto di saluto a Silla e infilar la porta, fu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per trattenerlo, egli era già in fondo alle scale, senza ombrello. Ella rimase sospesa un momento pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d'avviarsi alla sua sedia presso la finestra, s'indugiò a disporre meglio le lucerni ne e i fiori sul piano del caminetto. "Signorina Edith" cominciò Silla con voce alterata. Ella si voltò, gli tese la mano e disse: "Buon giorno." Silla tacque un momento, poi soggiunse: "Scusi. Le rubo un minuto di più. Volevo dirle che solo adesso, dopo molte incertezze e ripugnanze, comincio a credere alla fortuna." Edith tacque. "Può intendermi, signorina Edith?" "Signor Silla, Lei è amico di mio padre e quindi è amico mio. Io non capisco perché Lei mi faccia tali discorsi. Non conosco bene la Sua lingua, ma se Lei vuole far dire alle parole più del dovere, questo non è bene e io non voglio." Ella disse "non voglio" con altera energia, con agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto. Silla s'inchinò. "Non intendo" rispose "far dire alle parole più del dovere e non me ne rimprovero una sola. Del resto, ero venuto per dire a Suo padre che domani non posso pigliar lezione. Vorrebbe Lei avere la estrema bontà di avvertirnelo?" "Lo farò certo." "Mille grazie. Buon giorno, signorina." Egli andò e riprese il suo povero libro sullo scaffaletto. "Perché?" disse Edith. Egli sorrise scotendo la testa come per dire "che Le ne importa?" "Mio padre l'ha veduto" diss'ella, quasi timidamente, ma senza emozione. Silla posò il libro sul tavolo e, fatto un saluto profondo, a cui ella rispose appena, uscì. Edith, rimasta sola, tornò a sedere presso alla finestra e riprese sulle ginocchia il fazzoletto che stava orlando per suo padre. L'ago era caduto a terra e n'era uscito il filo. Ella volle infilarlo di nuovo. Le tremavano le mani; era impossibile venirne a capo. Allora chinò il viso come se lavorasse, e andò poco che due grosse lagrime caddero sulla tela. Si alzò, depose il fazzoletto, andò a pigliare Un sogno, aperse stando in piedi presso il tavolo e, tosto vista la dedica manoscritta, voltò senza legger e, alcune pagine. Quindi, sfogliando pagina per pagina, tornò alla dedica, vi si fermò. Per quanto tempo! Finalmente chiuse il libro con violenza, andò a metterlo sullo scaffaletto dietro il busto di Schiller. Se ne pentì, lo riprese, lo pose accanto al busto dove l'aveva messo prima suo padre. Aperse il balcone e si appoggiò alla ringhiera. Pioveva sempre e tirava vento. I ciuffi verdognoli degli alberi che rizzavano il capo tra casa e casa, lontano, si dondolavano malinconicamente. Una cortina biancastra chiudeva l'orizzonte tutto all'ingiro; dal lembo inferiore trasparivano le campagne fosche. Era un grande spettacolo di tristezza appassionata. Ma Edith non guardava né vedeva. Era venuta a cercar l'aria libera, viva, rinnovatrice di tutto, gradiva il battere delle fitte punterelline fredde. Si tolse di là dopo lungo tempo e andò a scrivere l a lettera seguente a don Innocenzo. Milano, 30 aprile 1865 Onoratissimo signore ed amico, accetteremo la cara amichevole offerta di venir qualche giorno in casa Sua. Le siamo tanto tanto grati! Mi pare che il signor conte non potrà offendersi se non andiamo al Palazzo; avrà bisogno di riposo dopo tanta confusione, tanta gente in casa per il matrimonio. E mio padre e io abbiamo pure bisogno subito di quiete e di verde. Scusi il cattivo italiano; non so come esprimere il mio concetto. Voglio dire che abbiamo bisogno di quel silenzio e riposo che si trova nei campi verdi, atto a quietare certi pens ieri non del tutto sani e farne nascere altri così freschi e semplici, così vogliosi di aria pura come le foglie degli alberi e dell'erba. È quasi certo che partiremo posdomani. Da qualche tempo mio padre non ha progredito come speravo e io sono in sospetto doloroso di me stessa. Io temo di non aver scelta la buona via e di non avere adoperato bene il grande amore di mio padre per me; mi viene nel pensiero che sarebbe forse stato meglio entrare risolutamente su quel terreno sin da principio, richiamare, pregare, esigere, e che non avrei perduto parte della mia influenza, come dubito averla perduta ora con le mie cautele forse troppo mondane, con mostrargli che sono tranquilla e con tenta come se non avessi nessuna nube nell'anima. Ho creduto, onoratissimo e caro signore, di domandare consiglio a un buon vecchio prete dal quale sono andata a Pasqua. Egli mi ha consigliato di fare speciali divozioni alla Vergine e a molti santi. Credo umilmente che questo è buono; ma io ho bisogno di sapere come fare, come parlare con mio padre tutti i momenti e non può essere poco importante se commetto errore o no. Non mi pare di poter avere aiuto superiore se non adopero anche, il meglio che posso, la mia ragione. Dio mi ha molto concesso perché mio padre ora viene in chiesa e so che sicuramente prega; ma questo è stato ottenuto assai presto, in principio. Egli ascolta molto volentieri parlare di cose religiose, come cerco io qualche volta, e pare allora disposto alla fede; ma se si tocca di quelle pratiche in cui entra necessariamente il sacerdote, io vedo quanto egli soffre di non esprimere la sua ripugnanza violenta. Forse nei primi tempi e forse ancora adesso egli vincerebbe, se io lo pregassi, questa ripugnanza: ma debbo io pregarlo? Posso io met tere alla tortura il mio spirito? Può esser mai questo il mio dovere filiale? E ne verrebbe un frutto buono, accetto a Dio? Quando penso le grandi sventure che ha sofferto mio padre e il suo lungo vivere fra uomini che non curano le cose dell'anima e penso la sua onestà di ferro, il tenerissimo amore ch'egli ha per mia madre ancora adesso e per me, la fede in Dio che gli è tornata, io sento di riverire mio padre come una persona santa, benché non pratica come io e tanta piccola gente che io conosco; e mi pa re male costringerlo ad atti che il suo cuore non desidera. Questi sono i miei intimi combattimenti. Ho bisogno, onoratissimo signore, della Sua parola viva, nella quale è un grande lume, una forza. E sovra tutto desidero che mio padre si trovi con Lei qualche tempo. Mio padre ha veramente simpatia per Lei, sentimento impossibile a conciliarsi con altri suoi. Questo è per me come un muto indice scolpito al principio di una via. Credo che vi sarebbe poca sincerità in me se Le dicessi ora che io ho bisogno del suo aiuto pure per me stessa. Lei sa come io comprendo il mio dovere verso mio padre. Sono convinta che, comprendendolo io così, così è. Io devo essere intera per mio padre, il quale non ha nessun'altra persona al mondo. Per lunghi anni egli ha vagato tutto solo sulla terra, soffrendo fatiche, ingiurie e fame, mentre io vivevo a Nassau come una damigella ricca, senza mandargli neppure un saluto. È poca cosa, per compensarlo di questo, tutto l'affetto umano ch'è nel mio cuore. Io non mi esprimo qui come vorrei; Le spiegherò meglio tutto questo a voce nella Sua casetta solinga tra i prati innocenti. Le dirò ch'io sono stata per un momento un misero cuore fragile, aperto alla sorpresa, e che il mio spirito, rialzatosi con violenza, è ancor intorbidato di dolore, di paura e anche di alcuna dolcezza, di alcuna compiacenza nel soffrire almeno una piccolissima cosa per il mio povero vecchio padre. È una confessione affatto non religiosa che io farò a Lei, onoratissimo signore, per trovarvi gradevole umiliazione e sollievo, ombre del divino che sono, io credo, anche nelle confessioni umane; e altresì per sci ogliermi dalla poesia bruciante del segreto. Mi perdoni questa lunga lettera. Mi pare, scrivendo a Lei, acquistare maggior fede e maggiore speranza. Quello che io sento e vedo della religione in Italia non è spesso secondo il mio cuore, forse perché io sono un freddo carattere tedesco; se v'è qui dentro fumo d'orgoglio, me lo dica, è la mia mala inclinazione; certo io trovo nella Sua parola un raro suono d'intimo argento, a cui tutta l'anima mia si apre. Preghi Dio per noi e ci voglia bene. E.S. Silla discese le scale con amara calma, gonfia di ironia verso se stesso, come se godesse ad ogni scalino calcare qualcuna delle stolide illusioni, delle folli fantasie portate lassù pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virile, alzando fronte e cuore contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova ripeteva "piangi", ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza volta gli falliva la speranza di un amore in cui, placato l'angoscioso grido dell'anima, sentirsi forte, sentirsi puro, sicuramente e per sempre, non vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un'ultima caduta senza rimedio nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: "Vedi come è bello? Non l'avrai". Ma avrebb'egli pianto come un bambino, come un vile? No, mai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di pensare quello che altri si sarebbe proposto; combattere, vincere Edith con lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante. Essere ama to, lui? Impossibile, lo sapeva bene. Nella via, a pochi passi dalla porta degli Steinegge incontrò un editore di seconda riga, a cui era stato presentato e raccomandato, come autore, pochi giorni prima. Colui guardò da un'altra parte, passò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questo, adesso? Si strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questo, poteva ben disprezzare quel signore che si credeva lecito d'essere incivile con gli autori di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finché avesse sangue nel cervello e nel cuore. E ne aveva ancor molto, ricco di vigorosi pensieri, di dolcezza e di collera. Egli sentiva d'avere molte cose a dire in servizio del vero, molte belle e forti pagine di cose, prima di scendere ignorato e sdegnoso, alla fine della sua giornata, nel sepolcro, con l'altera coscienza di essersi serbato equo a un Dio ingiusto. Concetto fiero e superbo che, sorto nella solitudine del suo spirito, metteva stupore in lui stesso, gl'infondeva una forza demoniaca. N'era stato tentato altre volte, ma lo aveva respinto sempre. Adesso gli cedeva, se ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle entrarvi, come soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne. Andò a sedere nella navata di mezzo, presso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni dell'abside. Silla, raumiliato a un tratto, appoggiò sul banco le braccia e sulle braccia il capo, chiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid me persequeris? Allora si fece dentro a lui un gran silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l'ombra delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello stesso interno del Duomo, quella mente colossale nel poema di granito che si effonde magnifico al sole, mente ordinata, solida e misteriosa come la mente della Divina Commedia, divenne allora del tutto muta per lui. Un senso di uggia pesante l'oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva scuotere quel man tello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passato, quando, fanciullo, veniva in Duomo con sua madre, immaginando al suono dell'organo i deserti di oriente, le palme, il mare, la vita contemplativa. Niente, niente, niente; la memoria era intorpidita, il cuore vuoto e senza eco. Qualcuno gliel'aveva percosso col fuoco, disseccato. Egli seguiva con l'occhio assopito i pochi forestieri che venivano dall'abside col cappello in mano, lenti, guardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tedio, vapori di son no salivano dal pavimento, le porte, tratto tratto, sbadigliavano. Era come una plumbea calma in fondo ad acque morte, che non sentono il passar dei secoli. Silla non ripeté la sua domanda, poiché non gli si voleva rispondere. Cercò deliberatamente nella memoria qualche profana imagine voluttuosa. Si rivide nella lancia Saetta, fra le grandi onde accorrenti, in faccia a Marina che gli piegava incontro il viso, disegnandosi sul chiarore abbagliante del lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i picco li piedi appoggiati a' suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva "finalmente!", gli prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella notte profonda... Si alzò e uscì di c hiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.

Mi par che Marta s'ingegni abbastanza, non è vero?" Edith sorrideva, suo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine. "No, no" disse Edith. "Prima, è una cosa impossibile per noi lasciar Milano, e poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un'altra casettina." "Veramente? Lei starebbe qui, per sempre, in questa solitudine?" Edith rispose con gli occhi gravi, meravigliati. Don Innocenzo ammutolì. "Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese" disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso. Don Innocenzo si schermì, arrossendo e ridendo, dall'incensata. "Anche Lei ci sarebbe, non è vero?" diss'egli. "Oh no, io sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto bene, ma mia figlia non deve, oh no!" "Perché mai, papà?" Egli rispose impetuosamente in tedesco, come faceva sempre nel bollore dell'affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz'aspettare la replica di Edith. "Non è vero" diss'egli "che questo paese non è per una giovane signorina, a meno che non fosse una Nixe?" "Una Nixe? Chi sa?" disse Edith. "Amo le acque limpide, i prati, i boschi..." "Oh sì, ma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?" Il bizzarro uomo si fermò, allargando le braccia e chiudendo gli occhi. "Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicino, il quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un dito, un solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?" Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli. "E adesso vedo... Oh, cosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadente, abbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpide, i prati, i boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco..." Steinegge aperse gli occhi, prese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed egli, lasciatala, fece quattro gran passi avanti ridendo, e si voltò a guardarla. "Non è una bella visione?" diss'egli. Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C'era in quel discorso di suo padre una occulta intenzione, un proposito deliberato? "Dunque sei stanco di me?" diss'ella. "Vuoi viver solo?" "Come solo?" esclamò don Innocenzo. "Non sente che vivrebbe con me?" "Io sono stanco, molto stanco di te" rispose Steinegge "ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagnia, qui con il signor curato, per qualche mese dell'anno. Vedi, io non scherzo più adesso, io avrei bisogno di stare molto, molto tempo qui con il signor curato." Edith guardò quest'ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartiera, faticosamente, sulla strada male assodata. "Noi vogliamo cercare una pietra filosofale" continuò Steinegge "una pietra che cangi in oro tutto quello che è brutto, scuro fuori di noi, e, molto più, dentro di noi." "E la si trova qui, questa pietra preziosa?" disse Edith, palpitando. "Io non so, io spero." "E perché non la cercherei anch'io con voi?" "Perché non ne hai bisogno, perché non vogliamo." "Ma cosa ne farai di me, papà?" "Oh, non si sa ancora." A queste punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da' suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all'orecchio: "Non vada troppo avanti." "Non posso" rispose l'altro. Il barroccio passò. Erano giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomito, scendeva per la sponda destra, lungo i grandi pioppi, fino alla cartiera. "Lei va" disse Steinegge al curato. "Noi L'aspetteremo qui." Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erboso, sino all'ombra d'un macigno enorme ch'entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pure, un poema popolare antico, di quelli che l'ingenuo cuore umano, troppo pieno di amore e di fantasie, versava. Passavano tra i margini sassosi o fioriti, saltando, ridendo, cantando, serene sino al fondo scabro. Blandivan l'erbe, mordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de' fremiti appassionati, si spand evano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall'alto il gaio stormire de' pioppi appuntati al cielo di zaffiro. "Ah" disse Steinegge. So viel der Mai auch Blumlein beut Zu Trost und Augenweide... Edith lo interruppe: "Perché, papà, mi hai detto quella cosa?" "Quale?" "Che vorresti un giorno esser diviso da me." "Oh no, non diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente." Disse quest'ultime parole sottovoce, prendendole ambedue le mani. "Sì, io penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro." Si strinse quelle mani sul cuore. Le labbra, le nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull'erba, sedette accanto a lei. "Io non posso" diss'egli, quasi parlando a se stesso. "Ho il petto pieno di questa cosa. È vero, Edith, noi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venuta, quando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perché non credevo come te. E il giorno dopo, mentre tu eri a Messa, ti ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la Messa?" Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere. "Ho parlato a Dio, l'ho pregato di non mettersi fra te e me, di non togliermi il tuo amore." Edith gli strinse convulsamente la mano, serrando le labbra, sorridendogli con gli occhi umidi. "E tu sei poi sempre stata così tenera, così buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perché sapevo di non meritar niente. Oh no, credi. Mi ha commosso, dunque, di vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felice, ma non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insieme, io pregavo, ringraziavo Dio, vicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuore, qualche cosa di freddo e di penoso, come se io fossi fuori del la porta e tu avanti a tutti, presso l'altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi..." Esitò un istante, quindi accostò la bocca all'orecchio di Edith, le sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte: "Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch'erano nel mio cuore, forse perché ero geloso di quell'uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non solo, geloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibile, sconosciuto, poteva ferirmi, togliermi un poco della tua stima, del tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con me, dimenticavo, tornavo ilare. Ieri, trovandomi ancora con don Innocenzo, stando nella su a chiesa, ho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesi, quasi senza saperlo. Ho avuto l'impressione, come di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edith, figlia mia." Ella, silenziosa, piegò il viso verso di lui, stringendogli sempre una mano fra le sue. "Sono entrato" diss'egli, a voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella mano, vi fisse le labbra. "Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di prima, ora che ho nell'anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questo, che io riposo sopra tutto quello che io vedo? Eppure è così; io non ho mai provato una sensazione di riposo simile a questa che mi viene per gli occhi nel cuore. Tu riderai se io ti dico che sento un grande amore per qualche cosa che è nella natura intorno a me. Cosa ne dici, Edith, di tutto questo?" Ella alzò il viso bagnato di lagrime. "Mi domandi, papà? Mi domandi?" Non poté dir altro. Il suo sacrificio era stato accettato da Dio, ricompensato subito. L'anima sua traboccava di questa fede mista allo sgomento, allo sdegno di non sentirsi felice. "Contenta?" disse Steinegge. Scese a intingere il fazzoletto nell'acqua e lo porse a Edith che sorrise, se ne deterse gli occhi. "Sai" diss'egli "sono contento per un'altra cosa, anche." Ella non parlò. "So del nostro amico Silla che va via dal Palazzo. Pare che non ci è stato affatto il male che si credeva." "Papà" disse Edith alzandosi "lo sa don Innocenzo quello che mi hai detto prima?" "Un poco, solo un poco." Ella guardò un momento il grosso macigno a cui era quasi appoggiata e si rizzò sulla punta de' piedi per cogliere un fiorellino che usciva da un crepaccio. Lo chiuse nel medaglione d'onice e disse quindi a suo padre: "Un ricordo di questo luogo e di questo momento. Dimmelo ancora" soggiunse teneramente "dimmi che sei felice e che questi pensieri sono proprio nati nel tuo cuore. Tornamelo a dire. papà." "Guarda dove sono!" disse una voce dalla strada. Edith non la udì, si ripose a sedere sull'erba presso a suo padre, che riconobbe la voce di don Innocenzo, ed esclamò volgendosi a lui raggiante: "Così presto?" Don Innocenzo vide, comprese, non rispose. "Signor curato" disse Edith risalita con suo padre sulla strada. "Ella ritrova un'altra Edith." Don Innocenzo si provò a far l'ingenuo, ma ci riusciva solo quando non lo faceva apposta. "Possibile?" disse, con tale accento di meraviglia da far credere che prendesse alla lettera queste parole: un'altra. Ma poi non vi ebbero più domande né spiegazioni. Edith camminava a braccio di suo padre, appoggiandogli quasi il capo alla spalla. Don Innocenzo teneva lor dietro soffiando perché il capitano aveva preso un passo di carica. Attraversarono così i prati senza parlare. Don Innocenzo non ne poteva più; si fermò trafelato. "Bella" diss'egli "quella striscia di lago, non è vero?" Forse non la vedeva neppure. Gli Steinegge si fermarono. "Povero conte Cesare" disse il padre dopo un momento di contemplazione. "A proposito, signor curato, avete inteso anche voi che il signor Silla parte questa sera dal Palazzo?" Edith si staccò da lui, si girò a guardar i prati da un'altra parte. Oh, furia amorosa di fiori protesi al sole onnipotente, erbe tripudianti, ubbriache di vento, qual ristoro esser voi, viver la vostra vita d'un giorno, sentirsi tacere la memoria, il cuore, quel tumulto faticoso di pensieri assidui a lottar insieme, a fare e disfare l'avvenire; non essere che polvere e sole, non aver nel sangue che primavera! "Andiamo, Edith" disse Steinegge. Quella cara voce la scosse, la tolse al pensiero non degno. Salendo alla canonica, Edith precedeva d'un passo a capo chino, il curato e suo padre, vedeva le loro due ombre spuntarle a fianco sulla via. Steinegge incominciò ancora a parlare del Palazzo, ed ella vide l'ombra del curato accennar con la testa; dopo di che Steinegge lasciò cadere il discorso. Quando rientrarono in casa, Marta li avvertì che il pranzo sarebbe pronto fra pochi minuti. Edith si fece dare da lei la chiave della chiesa, corse via, sorridendo a suo padre. Tutto era vivo per la campagna, tutto si moveva e parlava nel vento; tutto era morte nella vôta chiesa fredda, tranne la lampada dell'altar maggiore. Una luce debole si spandeva dagli alti finestroni laterali sugli angeli e i santi vinosi del soffitto estatici nelle loro nuvole di bambagia. Edith si inginocchiò sul primo banco, ringraziò Dio, gli offerse tutto il suo cuore, tutto, tutto, tutto; e più ripeteva il suo slancio di volontà devota, più la fredda chiesa muta e persino la fiamma austera della lampa da le dicevano: no, non lo puoi, non è tuo; tu speri che quegli ti ami ancora e torni degno di te, sino a che tu possa appoggiarti per sempre al suo petto virile, affrontare con esso e attraversar la vita. Ma ella non voleva che fosse così, e pareva ritogliere quello che aveva liberamente offerto, e si sentiva invadere il cuore da un arido disgusto di se stessa. Marta venne a chiamarla. "Signora! Oh signora! Presto ch'è in tavola! Oramai il Signore lo sa cosa ci vuole per lei." Edith sorrise.

Sono ancora tranquillo abbastanza, voglio riflettere, studiarmi finché mi è possibile. Io sento, pensando a lei, di desiderare qualche cosa di ignoto a me stesso, d'inconcepibile dal pensiero umano. Il mio desiderio è tanto puro che lo scrivere - è puro - mi costa uno sforzo, mi ripugna. Ma tuttavia vi è veramente una commozione fisica in me, specialmente nel petto. Vi è un reale movimento nel sangue o nei nervi, che corrisponde alla esaltazione del mio spirito. Sono incapace, in ques to punto, di ragionamento freddo, ma sento invincibilmente che se quello che io provo è amore, esso non è solamente spirituale. Lo penso, lo credo, sono barlumi di una vita futura più nobile che si destano in me, presentimenti d'uno squisito amore fisico, non concepibile in questa tenebra. Solo questo io so, che dev'essere immensamente più degno dello spirito, benché forse capace ancora di altre sublimi trasformazioni. Tento immaginare la unione intera, il mio sguardo nel suo, il cuore nel cuore, un fuoco d i pensieri commisti, un palpito che ad ogni momento ci divida e ci unisca. Sento altresì che queste idee esaltano la mia intelligenza e abbattono il corpo, ne troncano i desideri più vili. "Signore degli spiriti, tu me li doni questi divini fantasmi, ombre del futuro, questi ardori che mi levano dal fango verso te. Non abbandonarmi, fa ch'io sia amato. Tu lo sai, non è solo dolcezza che io cerco nell'amore; è lo sdegno d'ogni viltà, è la forza di combattere per il bene e per il vero malgrado l'indifferenza degli uomini, l'occulto nemico esterno, i tuoi silenzi paurosi. Padre, rispondi al grido dell'anima mia, fa ch'io sia amato! Vedi, tra queste sublimi speranze mi assalta l'angoscia che siano una derisione ancora e mi stringo ad esse e sospiro." "Ah no!" Gettò la penna, spiegazzò fra le dita lo scritto e lo arse alla candela. Prese poscia un libriccino di note. Rilesse queste parole tracciatevi anni prima: "È finito. Creare ancora, creare fantasmi di quanto ho desiderato invano, lasciare un ricordo, un'eco dell'anima mia profonda e partire attraverso gli abissi per qualche stella lontana da cui questa terra dura non si veda nemmeno! Dio, gli uomini, la giovinezza, la fede, l'amore, tutto mi abbandona." Vi scrisse sotto: "29 aprile 1865." "Spero."

Sua Eccellenza aveva creduto che l'Orrido fosse quello lì; interrotta da un baccano di proteste, si meravigliava delle meraviglie altrui; il luogo le pareva brutto abbastanza. E ora cosa si pretendeva da lei infelice? Che sgambettasse per due o tre ore su quel dio di sassi? Che stesse lì ad aspettar gli altri in quella sorbettiera? Nepo sbuffava, la rimproverava di non esser stata a casa. Steinegge p rotestò con enfasi, il Vezza a fior di labbra, che non avrebbero mai lasciata sola la signora. Né il Finotti né l'ingegnere dissero parola, la conclusione si fu che Sua Eccellenza avesse a recarsi con Steinegge a un'osteria che si vedeva brillare al sole a un chilometro lontano dove la strada provinciale tocca il lago. Il Rico affermava che si poteva calarvi direttamente dall'Orrido per un altro sentiero. Quando il battello si staccò dalla riva il commendator Finotti domandò qualche cosa al Rico e si voltò poi a gridare: "Coraggio, contessa! È qui vicino l'Orrido!" "Xelo colù?" chiese Sua Eccellenza agli altri, additando il commendatore. La comitiva si pose in cammino pel torrente seguendo il Rico che saltava di sasso in sasso come un ranocchio. Prime gli tenevano dietro Edith e Marina, poi veniva il Ferrieri, gran camminatore, gran valicatore di montagne. Alle sue spalle trottava Nepo, tutto sbilenco, sudando per l'angoscia di camminar frettoloso sui ciottoli aguzzi. Egli si studiava d'intenerir Marina sul fatto dei due commendatori di retroguardia che mettevano veramente pietà. "Caro cugino" disse Marina voltandosi indietro e fermandosi. "Vi prego di rappresentar qui mio zio e di tener compagnia ai suoi tre ospiti." Nepo e il Ferrieri, capìta l'antifona, rallentarono il passo e si raccolsero, mogi mogi, a' commendatori che avanzavano, il Finotti bollente e ansante, l'altro seccato e scorato. Come videro le signore dilungarsi anche dagli altri due, cadde loro la speranza di raggiungerle e sostarono a respirare un poco, fremendo contro Marina, maledicendo chi aveva messo fuori pel primo la bella idea di venire a quello sconsolato massacro di piedi. Intanto sopravvenne loro il Rico, mandato da Marina perché non avessero a smarrire la strada. Marina stessa non la conosceva, ma se l'era fatta insegnare dal ragazzo e camminava rapidamente senza parlare. Edith le teneva dietro, silenziosa e nervosa essa pure, ma per altre cagioni. Intorno a lei e più ancora dentro a lei suonava una sola parola: "Italia! Italia!". Da quando era venuta al Palazzo, se si trovava sola, se le sfuggiva un momento il pensiero di suo padre e dell'avvenire, le sfolgorava subito il cuore questa parola: "Italia!". Allora stendeva la mano per toccare qualche cosa di vero, di solido, e guardando l'orizzonte o qualche striscia bianca di strada lontana, palpitava e si perdeva in un deside rio indistinto. Adesso ell'aveva bisogno di fermarsi spesso per guardare a misura che la via saliva, lo svolgersi lento e maestoso delle montagne, in alto il verde pieno di sole che saliva fino al cielo sereno, dietro a lei, al basso, il lago che s'allargava sempre più verso ponente. "Ah" disse Marina entrando nel sole "ci siamo." Ella saltò di gioia tuffandosi nella luce e nel calore. Passava allora fra due campicelli di grano saraceno. Una nuvola di farfalle si alzò dai fiori bianchi del grano, vi aleggiò sopra per breve tempo e tornò a posarvisi. "Pare neve" disse Marina volgendosi per la prima volta, a Edith. Ma Edith era rimasta qualche passo addietro. "Vengono?" le gridò Marina. "Odo la voce di Suo cugino e del ragazzo", rispose Edith. Marina fece una piccola smorfia. "Venga con me" diss'ella. Il sentiero toccava, due passi più su, un gruppo di stalle seduto sullo spigolo del monte che si gira per andare all'Orrido. Quelle rozze stalle sedevano dentro una larga macchia di fango puzzolente, all'ombra chiara di alcuni noci tutti sforacchiati di raggi di sole. Non ci si udiva, non ci si vedeva anima vivente; tutto taceva. Qualche gerla abbandonata presso gli usci chiusi, qualche pezzo di corda accavallato al pozzale della cisterna, l'aspetto della profonda valle e un sussurro di lontane cascate invi sibili accrescevano il silenzio. Il sentiero indicato dal Rico passava tra le stalle; Marina pigliò un altro viottolo che sale dritto a una cappelletta. Ella fe' cenno a Edith di sedere e disse piano: "Aspettiamo che passino." In quella cappelletta era dipinto un Redentore coronato di spine, bruttissimo, a' piedi del quale si leggeva: Quantunque, o passegger, ti sembri un mostro, Io sono Gesù Cristo, Signor Vostro. L'erba intorno brillava ancora di rugiada e di vento puro, vivificante, che faceva lievemente stormire le foglie dei noci. Edith guardava quell'immagine pia, omaggio di gente semplice al re del del dolore, le veniva in cuore una dolcezza tenera, triste; mille pensieri le venivano in mente sulla fede del povero pittore, del povero poeta, delle donnicciuole che andando ai campi o tornandone affaticate dovevano alzare gli occhi a quegli sgorbi con maggior devozione ch'ella non avesse provato guardando Maria dipinta dal Luini. Avrebbe voluto profondarsi in questi pensieri, e non poteva; si sentiva legata da una catena dura e fredda , comprendeva confusamente di soffrire della vicinanza di uno spirito umano affatto discorde dal suo, appassionato di altre passioni, chiuso e superbo. Fra lei e il sole, Marina, ritta, scalfiva il suolo con la punta dell'ombrellino, figgendovi gli occhi e serrando le labbra; la sua ombra cadeva pesante sopra Edith, le entrava nel sangue. Intanto le voci dell'altra comitiva salivano sempre più distinte. Si udì un passo frettoloso fra i muri delle stalle e subito dopo sbucò dietro la cappelletta il viso sfavillante del Rico. Vedendo le signore si fermò di botto, aperse la bocca; ma un'occhiata fulminea di Marina gli troncò la parola. Spiccò un salto verso alcuni cespugli di more, ne colse e ridiscese di corsa. Le grosse voci dei commendatori gorgogliarono fra le stalle. Il commendator Finotti raccontava delle oscenità con la più franca energi a di linguaggio, da libertino mezzo che fruga nelle immondizie della parola per trovarvi la sua giovinezza. Si udì il Ferrieri dirgli ridendo: "Il letame t'ispira." Marina, indifferente, diede una rapida occhiata a Edith: ma Edith non poteva conoscere quella feccia di linguaggio e non batté ciglio né mutò colore. La sua compagna si strinse nelle spalle e aspettò in silenzio che le voci si spegnessero, quindi sedette presso Edith. "Le informazioni" diss'ella "riguardano una persona che Lei conoscerà a Milano." "È sicura" rispose "che conoscerò questa persona?" "Lei dovrà conoscerla." "Dovrò?" "Dovrà, dovrà. Non per far piacere a me, sa, perché succederà così. Insomma non importa. Lei conoscerà a Milano questa persona ch'è un amico di Suo padre." "Si chiama Silla?" Gli occhi di Marina lampeggiarono. "Come lo sa?" diss'ella. "Mio padre mi ha parlato di questo signore suo amico." "Che Le ha detto Suo padre?" Edith non rispose. "Ha paura?" disse Marina duramente. Edith arrossì. "Non conosco questa parola" diss'ella. Dopo un breve indugio Edith alzò il viso e guardò Marina: "Sicuramente il vero" diss'ella. "Il vero! Non parli del vero. Nessuno lo sa, il vero. Suo padre Le avrà detto che io ho insultato questo signore?" "Sì." "E ch'egli, una notte, è andato in fumo?" "Sì." "Proprio in fumo? Non le ha detto dove si trova ora? Sì che glielo ha detto; Lei non vuole ora ripeterlo a me, ma Suo padre glielo ha detto sicuramente." "Io credo" rispose Edith con un leggero accento d'alterezza offesa "io credo che i miei discorsi con mio padre le debbano essere affatto indifferenti. So che un signor Silla, di Milano, è amico di mio padre, il quale non ha forse altri conoscenti in quella città. Per questo ho pensato ch'Ella volesse alludere a lui e ho proferito il suo nome. Mi dica, ora, se crede, cosa desidera da me pel caso che io conosca a Milano questo signore." Marina stette un momento pensosa, con l'indice al mento, come se un sì e un no si dibattessero nel suo segreto; indi parve salir dalla terra una vampa nella bella persona. Ella fremé da capo a piedi, protese il petto ansante, le sue labbra si apersero, nessuno può dire quello che dissero gli occhi. Edith trasalì, attese parole imprevedute. Ma le parole non vennero. La bocca si chiuse, la persona si ricompose, la strana luce degli occhi si spense. "Niente" diss'ella. "Andiamo." Edith non si muoveva. "Venga" ripeté Marina; "Ella è troppo tedesca. Mi basta di sapere dove il signor Silla abita e cosa fa. Me lo scriva subito. Vuole?" "Signorina" disse Edith "anche in Germania si può comprendere e sentire qualche poco. Non desidero sapere i Suoi segreti, ma se posso fare un'opera buona per Lei..." "Ah, virtù! Egoismo!" disse Marina. Una vecchierella curva sotto una gran gerla di fieno sbucò tra stalla e stalla davanti a lei, si fermò e a gran fatica le alzò incontro la testa con un sorriso di bontà e di meraviglia, dicendo: "Reverissi. Son venute a fare una passeggiata?" Era un'immagine di miseria sucida, sorta dal suolo fetido e dalle vecchie stalle diroccate, scalza, con degli stinchi magri e neri di uccello da preda, con il mento appoggiato a due lisci gozzi rossicci e un guazzabuglio di cernecchi grigi sulla fronte. L'occhio era dolce e sereno. "Che vita, povera donna!" disse Edith. "Non sono mica poi tanto povera. La vede. Son mica signora, magari, ma il mio vecchio guadagna ancora qualche cosa, e io, come posso, neh, perché son già settantatré e passa, la gerla voglio portarmela qualche anno ancora. E poi il Signore ci sarà anche per noi due. Dunque, reverissi, neh, stieno bene, facciano una buona passeggiata." Ella curvò il capo sotto il carico e fece atto di riprendere tentennando il cammino fra i ciottoli, i frantumi di tegole e le immondizie. Marina trasse il suo portamonete d'avorio e glielo pose bruscamente in mano. "Ah, cara Madonna!" esclamò la vecchierella "io non lo voglio. Non lo voglio, cara Lei. Non lo voglio proprio mica. Ciao, ciao" soggiunse poi intimorita da un gesto e da un'occhiata di Marina. "Ah, signèli, è troppo. Ciao, ciao, come vuole Lei. Ah, signèli!" "Buon giorno" disse Marina, e passò avanti. Escita dal tanfo di letame e di putredine, ella si voltò; dovette leggere una parola benevola sul viso di Edith. "Io non sono virtuosa" diss'ella "io non ridomanderò questo a Dio. Io non sono amichevole verso coloro che non amo, con il nobile fine di acquistare un biglietto pel paradiso. Del resto, Lei non può fare per me che quanto Le ho detto; scrivermi dove abita, che fa il signor Silla." Edith tacque. "Teme" disse Marina "ch'io voglia farlo assassinare?" "Oh no, so bene che non lo ama" rispose Edith sorridendo. Marina si sentì afferrare il cuore da una mano fredda. Ella passava allora presso la cisterna. Buttò le braccia sul parapetto e porse il viso al fondo. Il solo suono della parola ama le riempiva l'anima. Non lo ama aveva detto Edith: ma la negazione era caduta inavvertita, non la magica parola ama. Avvenne allora di Marina come di una corda musicale inerte che chiude in sé la sua nota silenziosa, ma se una voce ignara di lei passa cantando nella stanza ove giace, e tocca tra l'altre questa nota, sull'istant e tutta la corda vibra. Ama, ama, ama! In fondo al nero tubo della cisterna brillava un picciol disco sereno rotto da una scura testa umana. Marina chiamò involontariamente a mezza voce: "Cecilia!" La voce percosse l'acqua sonora e tornò su con un rombo sinistro. Marina si rizzò e riprese il cammino senza parlare. Girarono le coscia della montagna, discesa giù a destra fino ai greti del torrente. Il fragore di cascate lontane, che si udiva dalle stalle, parve saltar loro in faccia col vento della vallata. Acque potenti non si vedevano; s'indovinavano là davanti in una gola stretta, chiusa da altri monti carichi di fosche nuvole meridiane e nell'ombra di una lunga spaccatura tortuosa che discendeva da quella gola nella valle fra una nera costa imboscata, a frane rossastre, e una massiccia cornice di campicelli, di pra telli verdi, illuminati dal sole. A fianco della gola si vedeva una chiesa bianca appollaiata sopra un sasso eminente: sotto di lei una spruzzaglia di tetti scuri, di capanne accovacciate nei prati. E praterie nitide, arrotondate, erano gli alti dorsi delle montagne a destra e a sinistra, sparsi di macchiuzze nere, di mille tintinnii che facevano una larga voce sola, oscillante, pura. Il sentiero fendeva i declivi erbosi, drappi di fiori tremanti nel vento fresco d'autunno. Marina si fermò guardando la gola in capo alla valle. "Dev'esser là" diss'ella. "Cosa?" domandò Edith. "L'Orrido. Questo rumore vien di là. Oggi l'Orrido ha un gran fascino per me." "Perché?" "Perché ci voglio entrare con mio cugino. Lei tace, non si commuove. Non pensa quale emozione trovarsi sola, in una caverna, con lui? Ha resistito Lei al fascino di mio cugino? Due occhi che vanno al cuore. E che spirito! N'è inzuppato, poverino. Non parliamo d'eleganza. È un Watteau, mio cugino. Dev'essere tutto bianco e rosa, un impasto di cold-cream, un fondant! Non le pare? Dica, non m'invidierebbe se diventassi contessa Salvador?" "Vedo che non lo diventerà" rispose Edith. "Perché? Conosco una persona che si sposò per odio." "Non per disprezzo, io credo." "Per odio e per disprezzo insieme. Son due sentimenti che si possono incontrare benissimo nel tallone acuto d'uno stivaletto. Questa persona se ne servì per fouler aux pieds con quattro colpi suo marito e parecchie altre cose odiose e spregevoli." A Edith pareva impossibile che si avesse a tenere questo linguaggio là in alto, davanti alla innocenza solenne delle montagne. Pensò alla povera mamma sepolta lontano; se vedesse la sua figlioletta in tale compagnia, se udisse tali discorsi! Ma Edith non correva pericolo. Ella non ignorava il male, viveva sicura nella propria conscia purità. Lasciò che Marina continuasse a sua posta. "Quest'amica mia si era innamorata di un altro. Si scandolezza?" Edith non rispose. "Via, non facciamo come se ci fosse qui il signor papà o il signor zio o un qualunque signore in calzoni. Quanti anni ha, Lei?" "Venti." "Dunque! Deve ben sapere quello che succede nel mondo. Taccia, mi lasci dire. Non credo a certi candori. Dunque l'amica mia aveva un amante e volle, il perché non importa, volle arrivare ad esso passando col suo stivaletto acuto sopra un marito spregevole, sopra una razza odiosa. Che male c'è? Gli uomini proibiscono questo e quello. Bravi. Ma con quale diritto? Coloro che Iddio congiunse nessuno divida. Non è così? Presso a poco. Bene, questo è bello, questo è grande. I preti sono stupidi con le loro spiega zioni. Domando se è Dio che mette cotta e stola e borbotta quattro parole per congiungere alla cieca due corpi e due anime. Dio li congiunge prima che si amino, prima che si vedano, prima che nascano; li porta, attraverso tutto, l'uno all'altro! Quelli poi che congiunge l'uomo, ossia le famiglie, un calcolo, un errore, un prete che non sa che cosa si faccia, quelli Dio li divide! Cosa dicevo? quest'amica mia sposò con odio e con disprezzo; passò così!" Slanciò avanti la persona fremebonda, e batté col piede a terra con tanta energia che parve a Edith ne dovessero saltar scintille. S'udì una voce acuta da lontano: "Signora donna Marina!" Era la voce di Rico. Egli comparve presto, correndo; quando vide la sua padrona smise di correre e gridò: "Han detto così di far piacere..." Marina gli accennò bruscamente con l'ombrellino di venire avanti. Egli tacque subito, spiccò altri due salti e giunse ansante, accigliato nella sua gravità di ambasciatore e nella paura di lasciar cadere qualche briciola del messaggio. "Han detto così di far piacere a venire un po' più in fretta, perché è tardi e c'è giù la signora contessa che aspetta." "Dove sono?" disse Marina. "Uno è qui vicino che viene incontro a Loro, e gli altri sono nel paese." Non andò molto che apparve sua Eccellenza Nepo seduto sul suo fazzoletto accanto al sentiero. Si guardava attorno con un'aria sgomentata e si faceva vento con un piccolo ventaglio giapponese. Quando sopraggiunsero le signorine precedute dal Rico, si alzò in piedi e, scordandosi per un momento di essere gentiluomo, gridò, prima di salutare, al ragazzo: "Perché non mi hai aspettato, imbecille?" "Pare che avesse ragione di non aspettare" osservò Marina freddamente. "Voi siete molto cattiva con me" rispose Nepo a mezza voce. Marina non parve gradire quel tono intimo, pieno d'allusioni, e disse asciutta asciutta: "Quanto c'è di qui all'Orrido?" "È subito qui" mormorò il Rico fra i denti. "Cielo clemente, un'eternità c'è!" gemette Nepo. "Non è stata un'idea molto felice quella di farci arrampicare fin quassù. Il commendator Vezza e il commendator Finotti sono mezzi morti. Io sono un grandissimo camminatore e mi ricordo d'esser salito a piedi, quand'ero studente, da Torreggia al convento di Rua, negli Euganei, che non è piccola bagatella; ma qui non so, è un camminare diverso: si fa meno strada e più fatica. Cosa volete che vi dica? Da noi anche i monti hanno più creanza." Approfittò d'un momento ch'Edith era uscita di strada per cogliere un ciclamino e disse a Marina non senza un dispettoso lagno nella voce e nel volto: "E la vostra risposta?" "Presto" diss'ella. "Quando?" "Venite nell'Orrido con me." Nepo non parve contento, ma non poté chiedere spiegazioni, perché Marina aveva preso il braccio di Edith e a lui appena bastava la lena di tener loro dietro. I commendatori e il Ferrieri erano seduti presso la porta dell'osteria di C... sopra una pancaccia addossata al muro, e parlavano a un vecchio calvo, scamiciato, dalla pelle color mattone, accoccolato sulla soglia dell'osteria con una lunga pertica fra le gambe ignude; era il navicellaio, il degno Caronte dell'Orrido. L'Orrido sta a poche centinaia di passi dal paese. Il fiume di C... nasce qualche chilometro più in su, si raccoglie lì tra le caverne immani in cui scendono a congiungersi due opposte montagne, corre per breve tratto in piano, all'aperto, poi trabocca sotto il paese di rapida in rapida, di cascata in cascata sino in fondo della valle, per morire ignobilmente nel lago, là dove approdò la brigata del Palazzo. Uscendo da C... si trova presto un ponticello di legno che gitta la sua ombra sopra una luce di spar se spume, di acque verdi, di ghiaiottoli candidi. Non si passa il ponticello; si piglia invece a sinistra pel letto del fiume. Colà le acque blande ridono e chiacchierano correndo via tra la gaia innocenza dei boschi con certi brividi memori di passate paure. Di scogli non appariscono che striscie oblique a fior di terra, tappezzate di scuri muschi, di fiocchi d'erba, di ciclami pomposi. Guardandolo in su dalle ghiaie si vedono a dritta e a manca disegnarsi sul cielo le due sponde come due colossali ondate di vette fronzute, due alte dighe vive, luccicanti al sole, di roveri, di faggi, di frassini, di sorbi che si rizzano gli uni dietro gli altri, si curvano in fuori per veder passare l'onde allegre, agitano le braccia distese, plaudendo. Presto si giunge a un gomito del fiume. Non più sole, non più verde, non più riso d'acque: immani fauci di pietra vi si spalancano in viso e vi fermano con il ruggito sordo che n'esce, con il freddo alito umido che annera là in fondo la gola mostruosa. Il ruggito vien su dal le viscere profonde; l'acqua passa per la bocca degli scogli, grossa, cupa, ma silenziosa. Una sdrucita barchetta è lì incatenata a un anello infisso nella rupe. Porta due persone oltre il barcaiuolo. Si risale la corrente con quella barchetta che pare non voler saperne, torce il muso ora a destra ora a sinistra e scapperebbe indietro senza la pertica di Caronte. Il fragore cresce; la luce manca. Si passa tra due rupi nere, qua rigonfie come strane vegetazioni, gemme enormi della pietra, là cave e stillanti come coppe capovolte; tutte rigate ad intervalli eguali, scolpite a gengive su gengive dal fondo alla cima. In alto, il cielo si restringe via via tra scoglio e scoglio, e scompare. La barchetta salta in una fessura buia, piena d'urla, si dibatte, urta a destra, urta a sinistra, folle di spavento, sotto gli archi echeggianti della pietra che, morsa nelle viscere dal flutto veloce, si slancia in alto, si contorce. Dal sottilissimo strappo che fende il manto boscoso di quelle rupi filtra nelle tenebre un ver dognolo albore, un lividore spettrale che macchia cadendo le sporgenze della roccia, vien meno di sasso in sasso e si perde prima di toccar l'acqua verde cupa; si direbbe un raggio di luce velata di nuvole, sull'alba. Da quell'andito si entra nella "sala del trono" rotondo tempio infernale con un macigno nel mezzo, un deforme ambone per la messa nera, ritto fra due fascie enormi di spuma che gli cingono i fianchi e gli spandono davanti in una gora larga, tutta bollimenti e spume vagabonde, levando il fracasso di due treni senza fine che divorino a paro una galleria. È da quel masso che viene alla caverna il nome di "sala del trono". Si pensa ad un re delle ombre, meditabondo su quel trono, fisi gli sguardi nelle acque pr ofonde, piene di gemiti e di guai, piene di spiriti dolenti. Per una spaccatura dietro al trono sprizza nella caverna un getto di luce chiara. Caronte staccò la barchetta dall'anello e con un urto poderoso la fe' scorrere dalla ghiaia nell'acqua. Intanto il Rico saltellava come una cutrettola pe' sassi sporgenti del torrente e otto o dieci marmocchi s'erano appollaiati dietro la comitiva a guardar fiso come uccelletti curiosi di un grosso gufo. Il Vezza che capiva pochino le bellezze naturali, e il Finotti che non le capiva affatto, ammiravano rumorosamente l'orrida magnificenza del luogo. Il Ferrieri non si curava di unirsi a' loro entusiasmi e n e parlava tranquillamente a Edith. Le diceva di sentirsi freddo più del ghiaccio davanti a simili scene, sin da quando, nella prima giovinezza, si era schiacciato e ucciso dentro al cuore un poeta, incomodo inquilino; soggiungeva però di dubitare ora, per la prima volta, che quello spregevole parassita fosse ben morto; gli pareva di sentirlo a muoversi, di sentire un calore insolito... "Avanti, signori" disse Marina. Infatti Caronte aveva terminato di disporre la navicella e accennava alle due signore di entrarvi. "Mio cugino ed io" disse Marina "saremo gli ultimi." "Allora noi due saremo i primi, signorina Edith." Così dicendo il Ferrieri avvolse alle spalle della sua bella compagna lo scialletto celeste ch'ella portava sul braccio. Edith non se ne avvide, quasi; pareva affascinata dalla bellezza nera delle rocce spalancate davanti a lei. Entrarono ambedue nella barchetta e si allontanarono. Era bello veder passare tra quelle porte infernali la barchetta, lo scialle celeste, il vecchio pittoresco ritto sulla prora colla sua lunga pertica. Presto scomparvero; prima Caronte, poi lo scialle celeste, poi la piccola poppa bruna. Dopo una decina di minuti ricomparvero la pertica ferrata, Caronte, lo scialle celeste. "Dunque? Dunque?" gridarono il Vezza e il Finotti. Nessuno rispose. Appena nello scendere a terra Edith e il Ferrieri dissero qualche fredda parola di ammirazione. Edith era triste e grave, l'ingegnere rosso fino al vertice del cranio; il barcaiuolo attendeva impassibile che si raccogliesse la seconda spedizione. Edith restò presso Marina e il Ferrieri si allontanò a capo basso, studiando i ciottoli. Il Finotti e il Vezza partirono insieme, di mala voglia. Nepo era inquieto. Non parlava, ma si moveva di continuo, guardava qua, guardava là, crollava la testa per iscuoter via l'occhialino che non aveva più; tuffò due o tre volte i piedi nell'acqua per andare di sasso in sasso in mezzo al torrente a spiar il ritorno della barchetta. Quando fu discosto, Marina disse sottovoce a Edith, accennando il Ferrieri: "Anche lui, eh, con i suoi modi di gentiluomo! Ho capito quando siete usciti di barca. Tutti eguali." "È una vergogna, una vergogna!" disse la giovinetta fremendo. "È stato molto audace?" Edith arrossì. "Chi mi manca di rispetto solo per un momento, e con il menomo atto, è molto audace" diss'ella. "Signor Ferrieri" disse Marina ad alta voce. Il Ferrieri si voltò. Voleva parere impassibile e non poteva. "Favorisca di scendere dalla contessa Fosca, che si annoierà molto. La signorina ed io scenderemo dopo, col ragazzo, probabilmente da un'altra parte." V'era nella voce vibrante di Marina il risentimento involontario della donna che coglie un uomo, anche indifferente, ai piedi di un'altra. Il Ferrieri s'inchinò e partì. "Non si usa fare quello che ho fatto io adesso" disse poi Marina a Edith. "Appena un vecchio chaperon lo farebbe. L'ho fatto per Lei, perché Ella non abbia più a trovarsi con quel calvo Lovelace che Le mette tanto ribrezzo; e perché qualche volta non m'importa di quello che si usa." "Grazie" rispose Edith. La barchetta ritornò con i commendatori. "Conte!" disse Marina. Nepo fu per rispondere "Contessa!" ma non fece che aprire le labbra ed entrò, dopo Marina, nella barchetta. "E Ferrieri?" chiese il Vezza. "Ci precede abbasso" rispose Marina. Ma ella era già a quattro passi dalla riva e le sue parole confuse al ruggito sordo del fiume non si distinguevano quasi più. Si strinse nello scialle, piegò il viso per schermirsi dal vento freddo che la spruzzava di minute goccioline d'acqua, stillanti dalle rocce. Guardava con occhi vitrei venirle incontro nell'ombra l'acqua grossa, veemente, senza una voce, senza una ruga. La barchetta si accostava all'andito tenebroso che precede la "sala del trono". La figura del vecchio ritto sulla prora pigliava, tra gli scogli lucidi e neri, un colore sempre più fosco, i colpi della pertica ferrata sparivano nel fragore assordante delle cascate interne. Non ci si vedeva quasi più. Nepo si chinò verso Marina, le prese una mano. "Ah!" diss'ella, come offesa; ma non ritrasse la mano. Nepo la strinse fra le sue, felice; non sapeva che dire; gli pareva tutto fosse detto; stringeva a più riprese quella mano fredda, inerte, come se volesse spremerne un concetto, una frase, una parola. Ebbe un'idea. Tenne con la sinistra la mano di Marina e le cinse la vita col braccio destro. Marina si strinse in sé e si slanciò avanti. "Fermo, Cristo!" urlò il barcaiuolo. Non ci si udiva, non ci si vedeva più. Il fragore uniforme metteva nella fronte e nel petto una contrazione penosa. Nepo rallentò la sua stretta. Non comprendeva quel guizzo di Marina. Parlò. Gli era come parlare con la testa tuffata nella corrente; ma egli, sbalordito, parlava egualmente. E sentì la vita di Marina ribattere indietro al suo braccio. Trasalì di piacere, allargò avidamente la mano che le cingeva il busto, come una branca di bestia immonda, fatta audace dalle tenebre; allargò le dita nella cupidigia di avvinghiare tutta la voluttuosa persona, di trapassar le vesti e profondarsi nella morbidezza viva. Marina s'era ricacciata indietro con la cieca bramosìa di stritolare quel braccio che la irritava come una sferza e s'era volta a insultar Nepo, non udita e non vista. L'acqua, il vento, le pietre stesse urlavano cento volte più forte, sempre più forte. Schiacciavano con la loro collera, con la loro angoscia colossale, la piccina collera, le spregevoli angoscie umane. Schiacciavano, buttavano via sottosopra le parole come polvere. La brutale natura prepotente voleva parlar sola. Nepo sentiva il caldo busto di Mar ina stringersi e dilatarsi ansante sotto la sua mano; gli pareva di discernere, nel frastuono, una fioca voce umana; immaginava parole d'amore e porgeva le labbra in cerca delle labbra di lei, fiutando le tenebre, aspirando un tepore profumato, pieno di vertigini. Allora un vigoroso colpo di pertica fece che la barca girasse l'ultima svolta dell'andito buio saltando in un diffuso chiarore verdognolo che pareva ascendere dall'acqua trasparente. Nepo non ebbe tempo di veder Marina in viso. Il barcaiuolo ritto sulla prora si era voltato verso di loro. Nepo lasciò prontamente Marina e finse di guardare in alto. Il vecchio barcaiuolo aveva addossato lo scafo allo scoglio puntando la sua pertica alla parete opposta, e, con il braccio libero, trinciava di gran gesti, mostra va la cavità, le gobbe mostruose della pietra. "Bellissimo!" gridò Nepo. Caronte si toccò l'orecchio e fe' con l'indice un segno negativo: indi agitò in su e in giù la mano distesa, accennando in pari tempo del capo come per promettere qualche cosa di più bello, e ricominciò a lavorar di pertica. Marina, pallida, serrate le labbra, chiusa nello scialle bianco che le stringeva le spalle, pareva un'anima peccatrice, fuggita nello sdegno alle ombre dei fiumi infernali, mezz'irritata, mezzo stupefatta. La "sala del trono" si spalancò a prora come una visione verde dorata con la sua gran cupola informe. il macigno nero nel mezzo, i tonanti fiotti di spuma e i bollimenti dell'acqua lungo le pareti gibbose; ma la barchetta, invece di entrarvi, scivolò a destra in un seno cieco di acqua tranquilla e si arenò. Una gigantesca cortina di pietra cadeva dall'alto a formar quella cala, schermandola in parte dal fragore dell'acqua. Colà, parlando forte, si poteva farsi intendere. Il barcaiolo domandò a Marina se l'O rrido le piacesse, e soggiunse, sorridendo con cert'aria di benigno compatimento, che piaceva a tutti i signori. Quanto a lui non ci trovava di buono che le trote. Diceva che in quel posto lì eran frequenti, e volle che Nepo e Marina si voltassero a guardar nell'acqua, promettendo ne avrebbero visto balenar qualcuna sul fondo. Nepo, voltandosi, venne a sfiorar la guancia di Marina. "Non mi toccate" diss'ella duramente, senza guardarlo. Egli attribuì quelle parole alla luce indiscreta e non se ne commosse che per dire con mal piglio al barcaiuolo: "Cosa ne facciamo delle tue trote, imbecille? Andiamo!" I suoi modi con gl'inferiori, da gentiluomo maleducato, gli avevano già procacciato uno schiaffo a Torino da un garzone di caffè e potevano procacciargli altrettanto e peggio da Caronte; ma costui non intese che l'ultima parola, e risospinta indietro la barca nella corrente, la fece entrare nella caverna grande, l'addossò al trono, dove l'acqua era più tranquilla, e ricominciò la sua mimica di cicerone muto. Accennò con la mano che si poteva salire sul macigno e uscir quindi per la spaccatura della rupe dal l'Orrido. Marina si gettò addietro lo scialle, balzò in piedi sul sedile della barchetta, respinse l'aiuto dell'attonito barcaiuolo e, posando i piedi sopra i risalti del masso, in due slanci gli fu sopra. Di là accennò imperiosamente a Nepo di seguirla. Nepo, ritto in barca, andava tastando il sasso, titubava e guardava di sbieco Caronte. Questi lo levò di peso e l'appoggiò allo scoglio; come a forza di raspar con mani e piedi vi si fu appiccicato, lo urtò su, con la palme, alla cima. L'acqua, entrando furiosamente, piena di luce, per la fenditura della roccia, si frangeva, a tergo del trono, in due branche spumose che lo allacciavano. Dal trono si passava oltre, si usciva all'aperto per una assicella lunga e sottile gittata sopra i sassi sporgenti dell'acqua. Tenevano quella via i pescatori di trote. Marina, seguita da Nepo, si avviò per l'assicella dopo aver accennato al barcaiuolo che l'attendesse. All'uscita dell'Orrido si apriva una scena severa che sarebbe parsa selvaggia a chi non vi fosse salito dalle caverne inferiori. Il torrente saltava giù allo scoperto per immani scaglioni, brillando al sole come una rete di fila d'argento, a grandi maglie irregolari, piene di fragore, fra due scogliere protese in atto di chiudersi una sull'altra, mezzo ignude, mezzo cenciose nei loro brandelli di bosco. Mar ina salì presso alcuni tassi rachitici che uscivano a lambir con le loro frondi nere un pietrone ritto a fianco della bocca dell'Orrido, ove il terribile fragore era grandemente affiochito. Si sdrucciolava assai per quel ripido pendìo erboso inzuppato di rugiada nella sua ombra perpetua. Non v'era sentiero, ma solo qualche forte impronta di passi nella terra rossastra. Nepo saliva a grande stento, abbrancandosi con le mani ai ciuffi d'erba. Sostò a pochi passi da Marina per pigliar fiato. "Fermatevi lì" diss'ella. "Avete più coraggio all'oscuro." "Oh, adesso poi," disse Nepo "non mi fermo certo." "Fermatevi!" Nepo si fermò, rannuvolato, inquieto. Aveva prima pensato ch'ella volesse procacciargli un colloquio fuori della vista importuna del barcaiuolo. Ora non comprendeva più. Si stizziva in cuor suo con Marina; ma gli era pur entrato da pochi minuti un sentimento o, per meglio dire, una sensazione nuova. Dalla piccola mano di velluto, dal busto caldo, ansante che aveva stretti, gli si era infiltrato nel sangue un turbamento insolito per lui, che usava dire di sentirsi uomo con le pedine, angelo con le dame. Tacquero un momento tutti e due. "Dunque lo volete?" disse Marina. "Ah" rispose Nepo allungando le braccia. Nuova pausa. "Perché lo volete?" "Che domanda, mio Dio!" "Non è vero?" diss'ella sorridendo. "Avete ragione." Lo guardò ben fiso con lo sguardo penetrante che le compariva e scompariva nella pupilla a suo talento, e disse con voce più forte: "Ma io non Vi amo!" "Oh anima mia!" disse Nepo intendendo male. E si arrampicò fino a lei. Ella fece un passo indietro, sorpresa. "Non Vi amo!" ripete. Nepo impallidì, ammutolì; poi proruppe a voce bassa, ma concitata: "Non mi amate? come, non mi amate? E cinque minuti fa in quella barca all'oscuro..." "Ah sì? V'è parso?" "Ma, mio Dio, se quella barca potesse parlare!" "Direbbe male di Voi. Vi siete ingannato; non Vi amo!" Nepo la guardava con le sopracciglia inarcate e le labbra semiaperte. "Però Vi accetto" diss'ella. Nepo mise un ah soffocato, si trasfigurò nel viso e stese le mani verso di lei. "Dunque Vi basta?" diss'ella. Nepo volle rispondere con un abbraccio, ma ella fu pronta ad appuntargli l'ombrellino al petto. "Scendete subito" disse. "Il barcaiuolo potrebbe andarsene. Io non vengo con Voi; giro l'Orrido di fuori. No, non ci vengo. Voi, venire con me? Non Vi voglio. Andate. Non siete contento adesso? Dite alla signorina Steinegge e al ragazzo che mi aspettino al ponte. Voialtri precedeteci. Non ci aspettate laggiù alla barca. Non aspettateci neppure a pranzo. Quando sarete a casa parlate pure a Vostra madre e a mio zio. Subito, prima che io ritorni. Andate." Egli non ne voleva sapere di andarsene. Implorò un bacio, non l'ebbe; anche la piccola mano di velluto, anche un lembo della veste furono negati alle sue labbra. Afferrò l'ombrellino e baciò quello, impregnato esso pure dell'odore di lei. Le acque e le frondi ne risero; ed egli se ne andò contento e malcontento insieme, agitato dalla torbida poesia de' sensi che non è del tutto abbietta e mette almeno qualche volta in ogni anima il suo fervor vitale, il suo cupo fiore di un giorno. Quando Marina arrivò al ponte, Edith era là ad attenderla con il Rico. Rifecero in silenzio la via percorsa il mattino sino ad una vecchia pietra ove era scritto, con la relativa freccia: "Ai monti". Lì presero per una stradicciuola che accennava ad un collo assai depresso tra la scogliera che è sopra C... e altri dorsi erbosi. Erano presso al collo quando Marina, che precedeva Edith, si fermò e le disse bruscamente: "Sa? Sono stata leale." Edith non comprese e non rispose. Ella non pose mente alla emozione febbrile che vibrava nella voce e luceva negli occhi di Marina. L'anima sua era tutta nello spettacolo della valle che si trasformava salendo, negli orizzonti che si allargavano tra le ondulazioni delle cime verdi ed altre cime azzurrognole, nella tremula nota continua delle campanelle vaganti per i pascoli, nelle voci acute e gravi di acque che passavano cantando sul fondo di riposti valloncelli e fra l'erba dei prati cadenti, onde saltava no talvolta sulla via per fuggire dall'altra parte. Ella camminava più lenta, contemplando il cielo così puro al di sopra delle passioni di tante montagne sfolgorate in fronte dal sole obliquo a cui tutte parevano guardare, unite in qualche grande pensiero, in qualche sublime preghiera senza parole. Sospirava e sentiva scendersi al cuore l'aria piena di questo spirito muto delle montagne. Non comprendeva come si potesse pensare ad altro, non sentiva più, come al mattino, l'influenza penosa di Marina; era li bera. Giunta sul collo del monte, disse guardando la nuova scena che le si apriva davanti: "È una poesia." Marina non aperse bocca. Edith vide, accostandosele, che ella aveva gli occhi pieni di lagrime; si fermò, sorpresa. Marina le prese il braccio con forza, e, accennato al Rico di andare avanti, uscì con lei di strada, rapidamente, camminando sul prato; ad un tratto abbracciò la sua compagna e proruppe in singhiozzi disperati. Singhiozzò, singhiozzò sull'omero sottile di Edith, stringendole convulsa le braccia, parlando con le labbra impresse nelle sue vesti, scotendo forte, a ogni tratto, la testa. Edith, co mmossa, tremava da capo a piedi, si sentiva vibrare nel petto il rombo di quella voce soffocata e non poteva coglierne alcun suono distinto; provava nel cuore una pietà grande, come se il cuore avesse intese le cose singhiozzategli sopra; provava un affannoso bisogno di trovar parole di conforto, e non sapeva. Ripeteva: "Si cheti, si calmi" ma senza frutto, che Marina scoteva allora la testa con maggior violenza. Chinò il volto e le posò la bocca sui capelli, esitò un momento, lottando con qualche occulto p ensiero, baciò finalmente quella testa altera, così umiliata, e ne provò consolazione come d'una vittoria. A poco a poco i singhiozzi si chetarono. Marina alzò lentamente il capo e si staccò da Edith. "È passato" diss'ella "grazie." "Mi parli" disse Edith affettuosamente. "Se Lei mi vedesse il cuore..." "Le ho parlato" rispose Marina. "Le ho detto tutto." Ella ebbe ancora due o tre singhiozzi convulsi, senza lagrime. Edith voleva che sedesse. "No, no" rispose "è passato." Si morse il labbro sino a sangue e si affrettò a ripetere: "È passato, è passato." Ella s'era appoggiata a un grosso macigno bianco intagliato a traforo dai ghiacci, che usciva dal prato fra cespugli di mugo, come una scapola enorme di qualche mostro fossile mai sepolto. Ci aveva posate ambedue le spalle, e volto il viso sulla spalla destra, si guardava la mano rabbiosamente attorta agl'int agli bizzarri del sasso. "Mi dica..." ripeté Edith. Marina voltò la testa e strappò il fiore azzurro da un lungo stelo che saliva presso a lei. "Che fiore è?" diss'ella bruscamente. "Pare aconito." E lo porse a Edith. Questa prese il fiore senza guardarlo, volle insistere. Marina fu ripresa da un assalto nervoso violento. Stavolta abbracciò il masso, vi soffocò i singulti. Pareva sitibonda di entrar nella pietra, di gelarvi, di irrigidirvi per sempre. E intorno a lei era tanta pace! Le campanelle delle vacche empivano del loro tremolìo i silenzi solenni della montagna, mettevano voci di vita innocente nei pascoli, nelle selvette compatte, verde-dorate di giovani faggi, in giro a rade macchie metalliche d'abbeveratoi stagnanti. Presso quel sasso gli aconiti rizzavano nel sole fuggente la loro pompa, le felci curvavano le grazie leggere del fogliame color di aprile, ciclami vanitosi gittavano i lunghi gambi ignudi de' loro fiori. Tutti circondavano Marina di pace, di dolcezza grave, sile nziosa. Si udì la voce lontana del Rico che gridava: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Voci di mandriani rispondevano: "Uuh-hup! Uuh-hup!" Parean saluti al sole che aveva levato il suo raggio dall'erba e saettava la cima del sasso bianco. Il tremolìo diffuso delle campanelle s'avvicinava da tutte le parti all'alpe di C... accovacciata in un seno erboso sotto le scogliere. Le vacche vi si avviavano a file, a drappelli, accodandosi le une alle altre sugli angusti sentieri, trottando giù dai brevi pendii, sbracandosi lente nei prati, fermandosi di tratto in tratto a levar il muso e muggire. Il Rico gridava sempre: "Uuh-hup!" Marina si scosse, si volse a Edith e le disse: "Andiamo. Adesso è passato davvero." Edith la pregò ancora di parlare, di confidarsi a lei. "Le ho detto tutto" rispose da capo Marina. "Non potrei ora ripeter quello che Le ho detto. Non lo sento più. Metta che vi fosse in me un sentimento ch'io ignoravo. Ad un tratto ha divampato, mi ha preso alla gola, al cervello, dappertutto. Ma è stata una vampa sola. Adesso è morto. Non lo sento più. Non so più nemmeno se fosse dolore o sgomento. Sa, quando si entra in una via sconosciuta viene sempre questo dubbio: "E se sbaglio? Se mi perdo?" Non dura, ma viene. Senta; se in avvenire udrà parlare di me, c ontro di me, si ricordi questa sera. Allora capirà, forse." "Spero che non udrò parlare contro di lei." "Oh!" Tornate sul sentiero, trovarono il Rico fermo ad aspettarle. Si faceva tardi, era freddo. Scesero in fretta verso Val... Marina non parlava, seguiva i suoi pensieri. Solo dopo una mezz'ora di cammino prese il braccio di Edith e le disse: "Glielo racconti." "A chi?" rispose Edith. Marina trasalì, le lasciò andare il braccio e non disse più nulla. Il sasso bianco, sgretolato dal gelo, ritto fra il mugo, le felci e gli aconiti sotto il cielo pallido della sera, sapeva forse per quali angoscie oscure un corpo e un'anima si fossero dibattuti insieme sopra i suoi fianchi duri, freddi, senza pietà. Se vi dormiva il torbido spirito, l'insensatum cor della montagna, poté sognare che un altro core, appena incatenato alla colpa e alla sventura era corso a palpitar forte, quasi a frangersi addosso a lui, in un impeto di dolore atroce scoppiatogli su da profond ità che oltrepassano la coscienza; poté sognare quanto si soffra anche fuor del suo carcere cieco, anche nel mondo sperato dei sensi, del pensiero e dell'amore. Non si udivano più le campanelle delle vacche, salivano dalle valli fiocchi di nebbia, saliva dall'Orrido, come un gran pianto, la voce del fiume, e là in alto il sasso bianco si faceva sempre più triste, sempre più cupo, tra il mugo, le felci e gli aconiti, sotto il cielo pallido della sera.

Brano Tratto da: Milano visione

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Galateo, Antonio 1 occorrenze

A Milano , scrittore, agiato abbastanza, egli era felice. *** Passai in casa di Sacchetti una delle più belle e allegre serate di mia vita. Praga, quella sera serenissimo e lieto d'aspetto come non lo vidi mai, messosi al piano si mise "a far Boito" nella sera famosa del Mefistofele Bisognava vederlo e sentirlo descrivere con quella amicizia fanatica che egli aveva pel suo Arrigo, il teatro di quella sera, i fischi della platea, gli applausi dei palchi, i contrasti, il baccano, e ritrarre lui, Arrigo, impassibile in mezzo alla sua orchestra, a gridare, a tempestare, dessero dentro negli strumenti, giù, senza misericordia perchè si era nell' inferno, e poi d'un tratto - zitto! silenzio! - a pregarli, supplicarli di fare adagio, di toccare appena le corde, di non disturbare l'arpeggio celestiale - avvertendo con un soffio di voce, che era rispettato perfino dall'uragano del pubblico un momento placato:- Piano ; pianissimo ; più piano, per Dio - siamo in Paradiso! E tutta questa descrizione accompagnava col suonarci il primo atto del Mefistofele e commentarcelo con un mondo di aneddoti. Quanti episodi ci narrò quella sera della sua amicizia col Boito! Quanti del giornale insieme fondato, in cui si fulminava col titolo di speziale quanti non comprendevano La grande arte che io penso Quella che pensi tu! Oh! le belle passeggiate lontane, fra le macchie, fatte fra lor soli, i due poeti, e il loro mondo di versi! Un giorno càpitano in un macello clandestino, in mezzo a un bosco. - Ah! canaglie! Vengono a scoprirci, a denunciarci ... Quei buoni macellai contrabbandieri sono loro addosso con le coltella. Arrigo, che era in sul bello della recitazione del suo internmezzo, continua più che mai astratto a declamarlo in faccia agli assalitori. Questi restano in asso. La conclusione fu che - se non restarono magnetizzati come le Baccanti d'Orfeo li lasciarono però, credendoli probabilmente scappati dalla Senavra. *** Quando uscimmo, Praga rimase indietro con me. - Gli chiesi perchè fosse sì allegro. - Quest'oggi, egli mi disse trasfigurato, fu il giorno più triste della mia vita. Chiedine a Sacchetti. Sacchetti mi disse che in quel giorno erasi irrevocabilmente decisa la separazione coniugale di Praga dalla sua signora. E Praga sentiva che questa volta non c'era più rimedio, e quello che è peggio, sentiva tutta la gravezza del suo torto, tutta la tristezza della sua solitudine, e la imminenza della fine. Lo vidi un mese dopo. Era col suo bimbo. - Pareva molto invecchiato. - Sai - mi disse - pare qualcuno ancora pensi a me - un editore di Firenze mi offre la pubblicazione dei miei versi, Gli ho fatte le mie condizioni. Spero che avrò così lasciato qualcosa a mio figlio. Lo salutai commosso. Egli mi fece salutare da suo figlio e mi strinse la mano. Sentivo che quel saluto era l'ultimo. Povero Praga! Pensare che, pieni il pensiero del suo suicidio morale, si andò al suo funerale sbigottiti e confusi, come a quello di un condannato! E cuore di poeta e d'artista come quello io credo che non batterà più mai fra le file di quella sciagurata scapigliatura che fece e fa tante vittime! *** Una sera dell'anno scorso in una sala superiore della Fiaschetteria Toscana oltre una cinquantina d'amici, fra cui tutta la letteratura militante, salutava Roberto Sacchetti che, chiamato a Torino a dirigere un giornale, abbandonava Milano. Stordito dalla dimostrazione commovente che gli si faceva, Sacchetti ringraziò con parole che avevano ricercato nel fondo del suo cuore la nota dominante della sua vita milanese. Egli diceva di sentirsi oramai fatto milanese; lasciando Milano lasciava la culla della sua matura, ma della sua più bella giovinezza. - Io sento - egli diceva - che con Milano è la mia gioventù che io perdo definitivamente. Io ed un altro dei più vecchi amici colà di Sacchetti, ci guardammo contrariati, intanto che Broglio recitava o leggeva un suo delizioso pasticcio, metà affetto d'amico e metà cronaca del Pungolo. Anche Sacchetti………………………………………………………………. Le parole mi si confondono……………………………………….………….. *** Ho passata la notte fra queste memorie, e quest'alba fredda che sorge è quella che tante volte salutava, febbrilmente intento ancora a finire un capitolo, il mio ottimo Roberto; è l'alba che inspirava a Praga gli ultimi versi tristissimi. *** Mi volto indietro a contemplare questo breve cammino di vita milanese percorso, e questo breve cammino mi pare lungo più che tutto il resto della mia vita. Quanti morti ho lasciato addietro! Manzoni, Rovani, Pinchetti, Tarchetti, Camerini, Praga, Sacchetti. Dio mio! Ce ne sono ancora? Sì: ci sono i morti alla spensieratezza, alla fraterna gajezza d'un giorno. Non parliamone. Seppelliamoci anzi, noi, perchè altri sottentri. Ma quali sono i nuovi venuti? Ahi! Questo è il peggio, non ci conosciamo. In mezzo alla Milano vera che mi ha assorbito, cerco ancor io la mia Milano visione, e non la trovo. Dall'estremo bastione orientale contemplo disegnarsi nel tramonto tutto il profilo gigantesco del duomo. Ricordo la montagna, che, sbucando da un labirinto di vie, mi comparve la prima volta innanzi, nel 1866. Penso all'allegra spianata della stazione, col caffè in legno, con l'altra linea del bastione dinanzi, penso all'entrata maestosa in Milano per Principe Umberto, che mi fece sognare una tale residenza, come una voluttà ineffabile. Penso al rumore che ci si sollevava intorno e all'anelito di ambizione che ci soffocava ad ogni sprazzo di luce che il genio di Milano mandava intorno a sè. Penso infine alla mesta carovana degli ingegni e delle opere che passarono, alle follie, alle risa, alle voluttà - e confondo sognando antichi anni e giorni recenti, Pindaro, Fidia, Apelle, Venere e Frine, e i miei poveri amici, taluni di essi con le loro chiome fulve e brune soffuse ancora nelle pupille moribonde, povere chiome ora pur esse vinte dalla suicida ebbrezza giovanile. Quanti, quanti caduti! E dal bastione dell'estremo oriente di Milano discendo alle vecchie ortaglie. Ivi i miei buoni amici giuocano schiammazzando alle boccie, e birrichine voci femminili fra pianta e pianta ombreggiate, notano i punti. O giovinezza! primavera! amore! Cadano sui sepolti e sulle sepolte le foglie delle rose! *** E il cieco brancolando sulla soglia Della contrada - smarrirà la strada Come uom che sogna... Tale, fra tante memorie, smarrita rimane l'anima mia. L'alba, si è accentuata: - sopravviene l'aurora. Sul piazzale della stazione, sgombro delle antiche catapecchie in legno, si fa innanzi una nuova locomotiva che traina alla Esposizione vagoni e vagoni di merci. La riga fantastica del fumo passa sulla linea dell' antico bastione. - Le case nuove si assiepano. Gli alveari di piazza del Duomo sparirono e non resta nemmeno più l'eco della poesia di Fontana. Esco all'invito del mattino, mi addentro per cento vie, incontro amici vecchi e amici nuovi, e vado, e vado ancora cercando e non trovo. - Ahimè! Frammezzo alla fastosa realtà che mi circonda, quello che io cerco, quello cui sempre anelo con la memoria e con la fantasia, - si è la mia visione, - e al martellare insistente di una ideale campana che nel suo rombo risente della merlata linea longobarda vibrante di patrio entusiasmo, mi si rifà nella immaginazione ciò che non trovo, e vagheggio, e auguro, e spero : - il convegno placido della intelligenza, il porto delle giovanili frenesìe, dome alla battaglia della vita; il fragoroso plauso e il decoroso compenso, la fratellanza nello studio e nell'arte, la generosa, la bella, la incantata e incantatrice spensieratezza giovanile, e fra, le bufere e le ombre, fra i nocchieri intenti e le ciurme travagliate, fra i naufraghi e i sepolti, - il faro ampio, inestinguibile, di luce serena, il luminoso, aereo pinnacolo bianco, fra la sterminata vaporosa pianura dai lembi dorati.

Le donne milanesi

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Neera 1 occorrenze

Le nostre donne non fanno il bucato, non tirano le corde, non allevano i bachi e i polli perchè nei nostri appartamenti la cosa riescirebbe abbastanza problematica; del resto lavorano in cucina come in sala; ammanniscono un risotto colla stessa abilità che metterebbero a imbastire una gonnella e non mi stupirei punto se messe a contatto dei bachi e dei polli ne uscissero meglio di chiunque, perchè l'intelligenza enciclopedica è il loro forte. Sono eleganti, ma il più delle volte il vestito se lo son fatto da sè. La pettinatrice è un cattivo mestiere qui, perchè la milanese si pettina colle sue mani; infine, la milanese risolve il problema che dà tanto da pensare ad alcuni uomini: una donna che sia nello stesso tempo elegante ed economa, brillante nei crocchi e utile in famiglia, ricca di spirito e di coltura senza pregiudizio del guardaroba e della dispensa. * Quell' essere leggiadro e grazioso che i poeti chiamano fanciulla e i toscani signorina, da noi a Milano si dice: popôla, e come la donna milanese è tanto diversa dalle altre donne anche la popôla non è proprio una medesima cosa colla poetica fanciulla, colla signorina convenzionale, colla tôta, colla sciêta, colla putèla dei varii dialetti settentrionali e nemmeno colla nenna delle canzoni napoletane. La popôla intanto non è sentimentale; contempla di rado le stelle ed uno de' suoi desiderii più vivi (in ragione forse della poca probabilità di vederlo realizzato) è quello di ingrassare. Per farsi un concetto della popôla bisogna andare in una sera di venerdì al teatro Filodrammatico. È questo un teatrino modesto e morale (doppiamente modesto e doppiamente morale perchè non si paga la porta). Là le popôle si schierano come in un campo chiuso dove sono sicure di cogliere tutti i trionfi ; specie se dietro le sedie, facendo il piede di grù, sta il pivel del loro cuore. Vederle! come sanno mettere in mostra, parlando, i denti, la pupilla, la pozzetta della guancia, la mano che agita il ventaglio, il braccino seminudo e il fiocchetto rosa o rosso o celeste (intonato sempre) che improvvisarono al momento. Sembrano in lusso e sono vestite di nastri ; hanno un fiore nei capelli che vi pare sbocciato allora ed ha già fatto sei mesi di campagna sul cappellino d'estate; quel fichu che i forestieri pagano quindici lire nelle botteghe della Galleria, la popôla lo ha raffazzonato lei, frugando nelle vecchie trine della mamma. E quando vi miro, o pallide popôle, nelle calde sere d'estate, errare colla mamma al fianco sotto i castani del bastione, sbirciando (via, diciamolo in confidenza) se tra un albero e l'altro spuntasse per avventura quel raro fiore del tropico che si chiama marito.... o popôle, il mio sguardo vi segue carico di simpatia e d' auguri, perché so che la vostra giornata non è stata oziosa. Se un bruno o biondo fantasma cullerà pateticamente i vostri sogni, il sacco del lavandaio vi desterà all'indomani chiamandovi all'opra, e a quell'opra voi correrete volonterose, o pallide e intrepide popôle. * Quasi sempre fuori di Milano, le signore, per darsi un' aria vaporosa e incorporea, affettano disprezzo per le volgarità della materia, quali sono il bere e il mangiare. Le milanesi, al contrario, dopo aver ballato in abito di velo, al suono dei valzer di Giorza e di Arditi, accorrono lietamente intorno al desco; e se desco non v' è, accoccolate, sedute, in piedi, in ginocchio, come capita, rosicchiano colla massima disinvoltura una coscia di pollo o uno spicchio di panettone, tutto ciò ridendo 'con grazia, senza perdere nulla nè dell'eleganza, nè del brio e nemmeno dell'equilibrio.... Confessiamo che l' ultima cosa è la più straordinaria. Facile a conversare, a stringere relazioni, versatile, espansiva, la milanese è l' anima delle riunioni; essa è sempre la prima a bandire l'etichetta contegnosa e fredda che paralizza i movimenti del cuore; tanto assennata ne' suoi impegni domestici, quando si trova colla gente vuole divertirsi ad ogni costo, vuole ridere, vuole scherzare, anche sapendo che Certa lunatica stiticheria trova magari da ridire sul suo contegno soverchiamente franco. La gola è certamente uno dei peccati delle milanesi, non se ne offendano; si vedono troppo spesso dietro i cristalli delle pasticcerie i loro cupidi occhioni; non se ne dolgano, perché infine è un peccato che non fa male a nessuno; e non se ne pentano finche lo stomaco resiste. (Ho avuto a questo proposito una raccomandazione particolare da tutti i pasticcieri residenti in Milano). * Non è permesso parlare delle milanesi senza dedicare alcune righe speciali alla madamina, questo fragile fiore che spunta solamente all'ombra del Duomo. L'origine della madamina si perde nei misteri affumicati di un retro-bottega o di una portinarìa, fra le ciabatte del mestiere paterno e gli scappellotti liberali della genitrice, ma è sempre un'origine schiettamente milanese. La campagna ci somministra le serve, le orlatrici di scarpe, le lavoranti in tabacco ; ma la madamina nasce e muore in Milano. Come il mondo antico, ella ha quattro età ben distinte : l'età dell'oro, l'età dell'argento, l'età del rame e l' età del ferro; però le incomincia in senso inverso: il ferro prima. I suoi teneri anni sono generalmente assai duri, poverina! Rosicchia croste di pane sugli scalini umidi del vicinato e la miglior fortuna che le tocca è un amaretto, quando porta il giornale alla vecchia signora del primo piano. Il suo intimo amico per allora il gatto; e il nemico giurato è il garzone del fornaio, che quando passa, alla mattina, col suo paniere in testa, le dà sempre un pizzicotto. Più tardi comincia a emanciparsi. La si vede ciondolare per le vie col classico scatolone, fermarsi a tutte le botteghe (specie le botteghe volanti dove si vende zucchero filato), fischiare tra i denti le ariette in voga, correr dietro agli organetti, alle scimmie ammaestrate, al giocoliere che tira fuori le uova da un sacco cucito. D' inverno fa una corte assidua (e spesso sfortunata) ai marroni arrosto, d'estate ai cocomeri spaccati e rosseggianti su cui zampilla perenne un fantoccino. È la sua età del rame. Non sa ancora di avere un bel paio d'occhi e un piedino grazioso; perde oggi le calze e domani la sottana; soffre i geloni e porta le scarpe di panno col pelo. Ha le mani rosse come gamberi, una ciarpa di lana intorno al collo e qualche cosa sempre in bocca : buccie di limone, noccioli di pesche, fiori di gelso, semi di mellone, una paglia, uno spillo, magari il ditale. * Fra i tredici e i quattordici anni, sparisce. La piccola portatrice di scatole abbandona le scene, si rinchiude, fa il bozzolo. È un po' malata; è troppo alta per gironzolare tutto il giorno; molte volte il vestito le è diventato corto e in attesa di poterne fare uno nuovo sta in casa a sbucciare le patate alla mamma. Durante le divagazioni mentali permesse da questa innocente occupazione, ella si accorge che le sue dita sono piccole, affusolate; pensa che la blonda e i nastri sono più dolci al tatto della scorza terrosa delle patate e scopre definitivamente la sua vocazione. Eccola a buttar via il bozzolo, eccola farfalla, eccola madamina! Vispa, spigliata, elegante, provocante, col velo nero appuntato molto indietro sui capelli ; coll' abito a cuore, cogli stivaletti di brunello a tacchi alti e punta di velluto cammina, vola, sembra che sfiori il marciapiede. È smortina, sottile, col nasino impertinente e gli occhi assassini. Porta uno scialletto di poche lire, un fiocco, un pizzo, un cenciolino qualunque, ma come sa adattarseli ! Succinta succinta, colla vita stretta, ella trova modo di mettere in mostra tutto quello che possiede e qualche volta, dicono i maligni, anche quello che non possiede. Alla mattina fra le otto e le nove le madamine passano a frotte come le rondini. Ripassano verso sera, un po' stanche, un po' abbattute, chiacchierine tuttavia e senza avere perduto nulla della solita eleganza. Tornano a casa a due, a tre, rare volte sole, e se è sola la madamina ci ha il suo bravo perchè, nascosto sotto il pastrano di un giovane di studio, ritto sulla cantonata. Si sorridono da lontano, scambiano poche parole, si danno un appuntamento. I passanti si voltano a guardarli e se sono vecchi sospirano. Età dell'oro! Dopo i trent' anni la madamina non c'è più ; o muore o si marita, e allora cessa di essere madamina. Una volta ne incontravo sempre una, bellissima, bionda, troppo bella e troppo bionda, una rarità della specie. Aveva in qualsiasi giorno e con qualsiasi tempo un vestito di lana nera e di lana blù, alternate in modo capriccioso. Abitava sola una camera verso giardino; sul davanzale della finestra la ci aveva un vaso di maggiorana e una gabbia di canarini, e quand' ella compariva nel vano di quella finestra io desideravo una cosa sola: essere pittore. C'è qualcuno che si ricorda ancora di te, povera madamina, fra coloro che ti hanno accompagnata al sepolcro ?.... Si calunniano un po' le madamine. Molte di esse sono brave ragazze, in fondo ; si maritano presto, hanno i loro figlioli che spesso allattano, diventano grasse e non portano più vestiti a cuore. È la loro età dell'argento.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

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Praga, Emilio 7 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il suo delitto è abbastanza accertato .... Io stesso andrò a far la denunzia. - No, sclamò il curato. Poi diventò smorto come un cencio lavato. Il medico mi avvertì con un'occhiata supplichevole di non insistere. Beppe era ricaduto nel suo cupo sbalordimento. Tuttedue gli furono intorno a confortarlo e a persuaderlo. Egli era tanto avvilito e tanto abbattuto che non durarono fatica a indurlo a scendere dopo il desinare col dottore a Zugliano. L'infelice baciò le sue creature senza far parola, senza spargere una lagrima e s' avviò barcollando come trasognato dietro alla mula del dottore. Lo accompagnammo sino in fondo al villaggio; poi il curato tornò indietro; io continuai la mia passeggiata.

Era il signor Bazzetta il quale certamente veniva ad accertarsi se ero già abbastanza lontano da poter sparlare di me. Non potei trattenermi dal dirgli ad alta voce: - Oh bravo! Se voleste aver la bontà di farmi un po' di lume, ve ne sarei obbligato. Io adoro la polizia .... urbana, l'unica che manchi a Sulzena. Comprese la doppia allusione ch'io volli far al suo racconto di poco prima e alla sconvenienza di quell'ultimo atto, perchè rispose: - Anch'io una volta, - ora non ci penso più. Aspettate vengo colla lucerna. Uscì poco dopo e volle rimanere a rischiararmi la strada finchè io non ebbi svoltato verso la chiesa. Mi volsi parecchie volte ed osservai che man mano svaniva sul suo musettino il sorriso di riguardosa premura con cui mi aveva augurato la buona notte. Don Luigi era arrivato da Novara. Era tanto soprappensiero quando entrai, che non si mosse. Aveva fatto l'ultimo tratto di strada a piedi con quella belletta; era stanco, infangato, - ma s'era fisso di aspettarmi. Indovinai che il buon prete aveva d'uopo di uno sfogo. Gli parlai di Aminta, supponendo che la separazione da lui fosse il motivo della sua afflizione. Mi disse che l'aveva lasciato felicissimo della sua nuova condizione. Poi ad un tratto mi domandò: - Credete, caro Emilio, che abbiamo fatto il suo bene? Risposi che non si poteva dubitarne. - Ebbene, guardate, soggiunse dondolando tristamente il capo più curvo del solito, guardate, c'è chi ne dubita. - Oh, qualche ignorante. - No, sono persone savie e prudenti, ma mal prevenute. Quel giorno a Novara era stato a visitare il Vicario, il quale, come sapesse lo scopo della sua gita, prima quasi che aprisse bocca, gli aveva parlato di Aminta soggiungendo che era costretto di esternargli il suo biasimo per avere stornato quel ragazzo dalla carriera ecclesiastica. Poi, senza lasciargli dire una parola a propria discolpa, aveva soggiunto che la cosa farebbe scandalo, molto scandalo; era vero il fatto sì o no? Non poteva negarlo; dunque non ci era altro da dire, - egli non sapeva davvero come pretendesse giustificarsi, - che nome darebbe a un capitano che facesse disertare i soldati; e pensare che lei, un sacerdote ..... brutto esempio .... pessimo esempio! .... - Ma, esclamai io, chi può averlo informato? Don Luigi si strinse nelle spalle: diamine, era facile indovinarlo. - E che avete risposto? chiesi. - Nulla; sono uscito di là che mi girava la testa. Però dicano quel che vogliono; il ragazzo sta bene dov'è e ci resterà. - Ma possono darvi dei fastidi per questo? - Non so; faranno quel che vorranno. E il buon prete si curvò in aria di rassegnazione. Quella notte stentai a prender sonno: il racconto di Mansueta, quello dello speziale, le confidenze di don Luigi mi giravano per il capo come le aste di un arcolaio; pensavo a Rosilde, al dottor De Emma; costui mi stizziva; mi pentivo di avergli accordata la mia simpatia. Anzi d'essermela lasciata scroccare. Non era egli causa di tutte le disgrazie dei miei amici? Mi pareva evidente. Sicuro era lui che aveva abusato della solitudine di Rosilde, della dappocaggine del De Boni, della credula bontà di Don Luigi. Questo era il peggio; compromettere un onest'uomo, esporlo a delle persecuzioni tormentose, implacabili. In fin dei conti facesse la penitenza chi aveva peccato! Il suo contegno riguardo ad Aminta mi indignava! Perchè ricusava egli il suo appoggio al figlio di Rosilde? Per riguardo alla moglie? Magra scusa quando altri, quando un innocente, per riparare al suo abbandono, mettono a repentaglio tutta l'esistenza. Crudele egoismo! La requisitoria era compiuta e la condanna non si faceva troppo aspettare. La mattina seguente accadde a Baccio cosa tanto straordinaria che egli, per la prima volta in trenta anni di esercizio, si lasciò precedere nel suonare il mezzodì dal sacrestano di Sumasco, noto per la sua negligenza. E c'è di peggio. Egli piombò nello studio del curato tenendo in mano, per distrazione, il raggio d'oro delle grandi solennità. Mansueta gli corse dietro, don Luigi si avanzò rapidamente ad incontrarlo, ma entrambi dimenticarono tosto la stranezza del suo contegno perchè egli balbettò: - Il sindaco la vuole in sacristia. Incredibili parole che, per l'affanno, non potè ripetere. Don Luigi era già uscito per corrispondere alla richiesta del sindaco, che il pover'uomo era ancora sbalordito ritto in mezzo alla camera. Il signor Angelo non era certo venuto con delle buone intenzioni. Il colloquio fu breve, non durò più d'un quarto d'ora, che però alla nostra ansietà sembrò interminabile. Nessuno assistè. Il linguaggio del sindaco deve essere stato violento al solito: uscito dalla sacristia, sul sagrato si volse indietro e disse: - Pensateci dunque: fra tre giorni o mi date quelle carte o preparatevi a ciò che vi ho detto. Don Luigi, pallidissimo, rispose: - Sarà quel che Dio vorrà. Non capivo la minaccia del sindaco, e il curato non mi fe' quel giorno alcuna confidenza. Si ritirò nella sua camera e non ne uscì per tutta la giornata. Mansueta, sollecita della salute del padrone, si recava sovente in punta di piedi a spiare dal buco della serratura, ed ogni volta tornava tentennando dolorosamente il capo. Don Luigi passò tutte quelle ore ginocchioni pregando. I dì seguenti il sindaco passò e ripassò più volte davanti al presbiterio coll'aria provocante di un creditore inesorabile. Le sue occhiate, volta a volta beffarde e furiose, causarono una quantità di disordini. Mansueta lasciò due volte struggersi la cena sul fuoco. Il solo appressare del noto passo la metteva in convulsione. E la non poteva sapere qual nuovo genere di tortura colui avesse potuto trovare, ma capiva che doveva essere formidabile dal contegno di Don Luigi, che da quel colloquio in poi non aveva più ricuperato la sua calma e anzi diventava sempre più inquieto e sofferente. Pertanto io cominciavo a trovarmi a disagio. Ero rimasto per riguardo a Don Luigi, e avrei voluto davvero essergli utile in quel frangente di cui mi era ignota la gravità. Ma la sua afflizione non pareva di quelle che si alleviano colle parole. Il curato si manteneva stavolta chiuso con me come con tutti; noi ci vedevamo appena all'ora solita e si capiva che malgrado tutti gli sforzi egli non riusciva a dominare la cura segreta dell'animo. Non volevo, al postutto, dargli soggezione.

Avevo visto abbastanza e capito anche troppo. Scappai di là e poi ridiscesi nel villaggio. Passando innanzi alla farmacia vidi l'amico Bazzetta al suo banco. Il desiderio di trovare almeno una delle vecchie conoscenze mi spinse da lui. Stentò a riconoscermi. Ma poi, appena fatti i convenevoli, appiccò discorso come se ci fossimo lasciati il giorno prima. Gli chiesi: - Quanto è che Don Luigi? ... - Cinque anni, e fu un gran danno per Sulzena: invece della tolleranza, della carità di quel brav'uomo ... Non s'accorse dell'ironico sorriso che a quest'elogio postumo mi contrasse le labbra. - ..... Abbiamo l'ultramontanismo spilorcio e fanatico di Don Sebastiano. E senz'altro s'avviò a narrarmi le lotte intestine di Sulzena, in cui egli solo teneva testa al presbiterio e al sindaco alleati. Io non gli credevo gran fatto; domandai di Mansueta. - Ah, la serva ... morta. - Ma domenica ventura ... - Morta quando? - L'anno passato al suo paese ... Ma domenica ventura prenderò le mie rivincitine ... le elezioni riusciranno a modo mio: sono quattro anni che lavoro per questo ... - Ve lo auguro, dissi io con un'aria annoiata e mi alzai. - Sor Emilio, disse con una certa premura, - non accetterebbe un bocconcino, un pezzettino di manzo ..... In quella si affacciarono due visi di vecchierella, due profili scarni, gialli, appiattiti. Erano la moglie e la figlia dello speziale: quei dieci anni avevano quasi cancellate le differenze. Erano due figure senza età precisa, due fossili veri ... - Il signor Bazzetta insistè per trattenermi, egli era schietto; non gli pareva vero di smerciare le sue ciarle, - ma mi seccava troppo. Debbo dire che Sulzena era ingrandita: notai qualche casa nuova, la capanna di Beppe era stata restaurata e vi notai la frasca e l'insegna turchina dell'osteria che quella sera memoranda del mio arrivo aveva cercato invano. Si capirà da quel nuovo movimento di commercio che le usanze ospitali del Presbiterio erano scomparse. Feci, solo, un po' di colazione di malavoglia: il rimorso di aver voluto profanare colla curiosità inopportuna i miei cari ricordi, mi levava l'appetito. Passai la sera a Zugliano, dove il dottor De Emma mi fe' cortese accoglienza, - e mi parlò lungamente di Don Luigi, e riparò un poco colle sue affettuose parole ai disappunti della giornata. E Aminta? L'estate scorsa ero in ferrovia: tra Milano e Pavia e non so bene a quale stazione salirono due giovani sposi. Appena il convoglio si mosse - m'ero sdraiato lungo sui cuscini, facevo le viste di dormire - lo sposo senza tanti scrupoli allacciò la vita della signora e cominciò a sussurarle certe parole ... che parevano baci. - E lei ci stava ..... Non c'è per me spettacolo più avvilente di questo. Alla prima fermata, m'alzai risoluto e feci per discendere. - Buon viaggio e buon divertimento, signori, dissi nel passar dinanzi alle due tortorelle. La signora arrossì, ma lo sposo fe' un oh lungo un miglio e s'alzò tanto rapidamente che i nostri visi si toccarono. - Tant'è, disse, e mi baciò. Ero stupito. - Non mi conosce? io lei l'ho sentito alla voce ... Aminta. - Oh Aminta! - È questa la mia sposa. - Ho visto - dissi. E ridemmo tutti e tre ..... Aminta mi disse che andava a Roma dove aveva un impiego al ministero della publica istruzione. Era sposo, era felice, era allegro. Eppure quella sua gioia tanto naturale mi faceva pena perchè mi pareva una irriverenza verso le tristi memorie che il suo incontro mi suscitava nell'animo. FINE. 1

Ne ho abbastanza delle noie della farmacia, perchè cacci le mani negli impiastri degli altri. Me le lavo io, le mani, quando esco dalla bottega ..... - Ma non mi prometteste di venir a pranzo domani? - Questo è un altro paio di maniche, e ci verrò senza dubbio, a pranzo. Anzi, dite pure a Brigida che, o manzo o vitello o pollo che sia, aspetti me per mettere al fuoco. Vi farò, caro sindaco, un piatticello .... - Allora ordinerò di uccidere un pollo. - Un'anitra varrebbe meglio. - Vada per l'anitra. - Giovincellina .... se è possibile ... ... - Faremo una scorpacciata, e poi vi dirò che razza di curato ... ... - Tacete! .... A quattrocchi si può emettere un parere; ma qui, in mezzo alla strada, sulla sua porta.. - Che porta! Non ho paura io delle cocolle. - Io sono amico di Don Luigi ..... - E di me non lo siete forse? .... - Amico di tutto il mondo; ma ..... capite, oggi pranzo qui, domani pranzo da voi e il quassio e il tamarindo per farvi digerire lo do a tutti due. - A rivederci; e ne sentirete delle belle. - Mi raccomando .... giovincellina! ..... Uno scricchiolio non lontano mi fe' volgere il capo; era il signor Bazzetta che entrava dal cancello. Vedendomi, parve turbarsi un po', e, toccato il largo cappello di feltro, fece per tornare sui proprii passi. Ma era troppo tardi; io gli rivolsi la parola: - Signor farmacista, gli dissi, permettete che, in assenza del signor curato, io vi faccia gli onori di casa. Gli amici degli amici sono amici, - voi conoscete il proverbio, - e poichè (appoggiai su queste parole) voi siete amico di Don Luigi come lo sono io .... Il farmacista mi guardava con occhio scrutatore. La sua faccia che in cantoria non mi aveva fatto nessuna impressione, ora mi appariva improntata di una intelligenza, di un acume che traspariva da tutti i pori. Due occhietti grigi, un naso aquilino, due baffetti ed un pizzo di un colore impossibile fra il biondo e il grigio evidentemente resi così mercè qualche apparato chimico, i capelli appiccicati alle tempia, volti in avanti, divisi da una dirizzatura inappuntabile. Una certa ricercatezza nel vestire: stoffa alla buona ma di una tinta, come dire? coquette, - la camicia bianchissima, stirata alla perfezione; il colletto all'inglese, e i polsini a buffetti uscenti vezzosamente di un paio d'oncie fuor delle maniche. Quand'ebbi finito, si avvicinò, mi stese la mano, ch'io strinsi e mi disse: - Un amico di città? Ma, scusi sa, come può essere, se don Luigi, da vent'anni non si è mosso dal paese? - Il tempo non è sempre indispensabile alle amicizie; voi, che siete amico di tutti, come mi pare di avervi udito dire testè, lo dovete sapere .... - Ah! il signore ha udito il discorso? ..... - Sì, signor Bazzetta, qui e in cantoria. Come il lettore vede, il piccolo mistero di cui mi aveva messo a parte la collerica eloquenza del sindaco destava in modo sommo la mia curiosità. L'aspetto da energumeno del nemico del vecchio curato, il parlar sibillino del suo convitato mi facevano intravedere il filo probabile di una congiura che la mia stima per don Luigi mi persuadeva ingiusta e malvagia e che forse il caso e la fortuna mi potevano dar di sventare. Mi fissò nuovamente, parve riflettere, poi prendendo una rosa che pendeva lì vicino e fiutandola: - Che lusso di fiori, disse sbadatamente, e, abbandonato il ramo che rimbalzò a raggiungere il cespo, continuò: - Che taccola quel sindaco; uh! quando comincia a far danzare la lingua, non smetterebbe più; è una pioggia d'ottobre; è la mia morte quell'uomo. Alla messa, in piazza, nella farmacia, dappertutto, la sente la sua voce. E dover far finta di prenderci gusto! Chè, altrimenti guai! Ha un carattere ..... basta .... le sono seccaggini; pene e tormenti, inerenti alla vita di campagna. - Pare, interruppi, che oggi avesse qualche grave affare pel capo. - Lo so io? rispose Bazzetta animandosi; lo so io? Mi colga malanno se ho capito una parola di tutto il suo discorso. Non ha veduto? Dondolavo il capo, tanto per dargli ad intendere che la ascoltavo, e più di qualche monosillabo così pro forma come si suol dire, non ho risposto nè bianco nè nero. - Gli consigliaste la prudenza, se non ho male inteso. Trattasi dunque di cosa in cui è presumibile ch'egli possa dimenticarla, la prudenza? - È un affare che s'agita da un gran pezzo. Il curato possiede un campicello; un prato, per dir meglio, ombreggiato da una gran quercia. Son pochi metri di terra che non valgono due scudi, tanto più che il curato li lascia incolti, permettendo che vi raccolgano l'erba e le ghiande gli accattoni delle montagne. Però, il perchè lo ignoro, predilige quel luogo stranamente. Ci va, benchè la salita sia molto erta, quasi tutti i giorni, al tramonto, e vi resta a leggere un libro, sempre quello, da venti anni in qua. Or son pochi mesi, essendo obligato da tempo a star a letto per una febbre ostinata, un bel giorno, dopo aver molto e molto sospirato, gli venne la fantasia di farsi vestire e trasportar da Baccio fino lassù, sotto la sua quercia. Il giorno dopo era guarito. Ebbene, il Sindaco, col pretesto che quella poca terra è necessaria per farvi passare una viuzza, secondo lui indispensabile, vuole e pretende che Don Luigi la ceda al Comune, vantando non so quali diritti. Per me, ripeto, amico di tutti e farmacista di tutto il mondo, e così messer Iddio lo volesse. - Che ne dice? - E credete che il sindaco riescirà? - Eh! se ci si mette .... ha le autorità dalla sua .... ha influenze .... acqua in bocca ..... ecco don Luigi; facciamo sembiante di nulla. Il curato infatti ci veniva incontro pel viale di mezzo, tutto sorridente, e spalancando le braccia. Avute le mie congratulazioni per la cameretta, pel giardino e per la chiesa, don Luigi si rivolse al farmacista che accendeva una lunga pipa di schiuma e: - Caro Bazzetta, gli disse amichevolmente, avete data un'occhiata in cucina? Come vedete, oggi il pranzo è proprio di gala; bisogna farsi onore. - Non dubitate, reverendo, rispose l'altro toccandosi il cappello e inchinandosi burlescamente: ho già impartite le ordinazioncine; ora tocca alla Mansueta ed a Baccio; però un'altra occhiatinina può giovare. Ci vado. Quando il farmacista fu partito, don Luigi mi stese nuovamente la mano, e stringendo con effusione la mia, mi invitò a sedere sul banco di pietra. - Mi sembrate preoccupato, disse guardandomi in faccia dopo uno scambio di parole che era durato una diecina di minuti. Ditemi, per carità, che cosa vi ha tolto la ciera contenta di ieri sera? avete dormito male? vi è nata qualche contrarietà? parlatemi come a un vecchio amico, mio caro, giacchè voi siete già tale per me ... - Preoccupato, risposi, oh! no, davvero! È questa lieta novità di spettacolo che mi distrae: ho dormito a meraviglia, ho visto dei soggetti di pittura magnifici, tutto mi sorride e mi piace, sono vostro in corpo ed anima, e vi avverto, don Luigi, che il giorno di lasciar questa casa non è molto vicino. - E se occorresse barricarla, per allontanarlo di più, son io quello che la muterei in fortezza, sclamò il curato, a cui il lettore s'accorgerà che io non avevo detta tutta intiera la verità. I miei occhi non potevano togliersi da una macchia di castagni sovrastante al giardino, sotto la quale, da cinque minuti, era venuto a sedersi il terribile sindaco, armato di un grosso volume nero nero, e seguito da un figuro che la lontananza non mi permetteva di ben definire. Nella posa di quei due uomini raggomitolati sotto quelle fronde, v'era un non so che di truce, di misterioso, che mi sgomentava. La testa del sindaco, china sul libro, seguiva affannosamente la mano dell'altro che pareva leggesse; e di tanto in tanto si alzava verso il presbiterio, ed erano allora due pugni chiusi che si appuntavano nella stessa direzione. Per quanto mi fosse doloroso il togliere don Luigi alla sua calma allegria, non potei resistere al bisogno, che mi pareva dovere, di additargli quello strano gruppo, pur tacendo delle cose udite in cantoria. - Don Luigi, gli dissi, studiano molto le vostre pecorelle. Guardate lassù quelle due: si direbbero studenti di Università alla vigilia degli esami. Il povero vecchio alzò gli occhi, guardò, ravvisò, e un tremito gli corse sulle labbra, e un pallore, non so se di collera o di paura, gli coperse la faccia. Balbettò, per rispondermi, poche parole ch'io non compresi, e si alzò. - Entriamo in casa; oggi conoscerete tutti i notabili del villaggio. E mi precedette passandosi a più riprese la mano sulla fronte. Io mi sentiva l'anima oppressa.

Appena entrammo nella camera, prima ancora ch'egli avesse aperto bocca, il signor De Boni, a cui l'inserviente aveva fatto l'ambasciata, puntellandosi con uno sforzo supremo per alzarsi; volto ad Attilio, con voce soffocata ma abbastanza intelligibile ruggì: - Fatemi giustizia: dicono che chi m'ha assassinato è il Beppe Rivella, - ma, ricordatevi, che l'ha mandato il curato. Egli m'ha imposto per diciotto anni un suo bastardo e per liberarmene l'ho minacciato di tutto rivelare ed egli .... guardate ..... m'ha fatto finire ... finire, prete assassino .... giustizia! E cadde rovescio col capo penzoloni fuori dal letto, livido, convulso. Era orribile: qualcosa di infernale. Il medico osservò che la morte non poteva tardare. Lo sciagurato aveva consunto gli estremi aneliti di vita in quell'ultima protesta di odio. Appena potei riavermi dallo stupore, mi tornarono vive alla mente le terribili sue dichiarazioni. Secondato dal dottore, dissi ad Attilio che erano menzogne, gli fei elogio del curato e lo scongiurai in nome della nostra buona amicizia di non tener conto di quella accusa. Attilio si lasciò smuovere a mezzo. - Poichè, disse, egli ha fatto quelle dichiarazioni estragiudizialmente, se egli non potrà ripeterle in formale interrogatorio, farò di esaminare il curato privatamente. Capirai che non posso prometterti di più. Lo ringraziai con una stretta di mano. Sopraggiunse il cancelliere e, non potendosi oramai far altro, Attilio col concorso del signor De Emma eresse il verbale di perizia medica. Mentre essi lavoravano in un angolo, il sindaco si dibatteva solo nel suo letto. Il suo rantolo intermittente e sempre più fioco accompagnava lugubremente le esplicazioni laconiche del medico e il formulario che Attilio dettava al cancelliere. Prima che fosse terminato spirò. Il medico si avvicinò, lo esaminò attentamente e disse: è finito. Io non ebbi il coraggio di guardarlo. Uscimmo. Attilio si recò nel palazzo comunale e procedette quivi all'esame dei testimoni. Io lo aspettai nella strada passeggiando. Quando, dopo due ore, mi raggiunse, mi disse stringendomi la mano: - Bene, bene, il tuo don Luigi pare al coperto. Concorrevano nel ferito cause sufficientissime a delinquere. Però, a scarico di coscienza, conducimi teco dal curato, senza aver l'aria di nulla, così sotto colore di far una visita. Tu mi presenti, poi mi lasci solo con lui, ed io gli farò un paio d'interrogazioni. Son certo che tutto finirà lì. Acconsentii di buon grado e gli fui guida al presbitero. Don Luigi era in chiesa che celebrava l'ufficio funebre per il defunto. Poco dopo ci venne a raggiungere nel salotto: era afflitto profondamente ma tranquillo. Fè cordiale accoglienza all'amico mio e deplorava di dover fare la sua conoscenza in un giorno come quello. Dopo alcuni minuti uscii e andai in cucina dove trovai il dottore. Misurava la camera a passi ineguali: era vivamente preoccupato e pareva assai inquieto del colloquio che in quel mentre seguiva nel salotto. Sempre fisso nell'idea ch'egli fosse la causa prima di tutto il malanno, io attribuivo la sua agitazione al rimorso. Sedetti accanto al camino e tacqui. La nostra attesa non fu lunga. Era scorso appena un quarto d'ora che Attilio comparve sull'uscio e mi disse: - Vo a cercare il cavallo, mi accompagni? Aveva una ciera tanto buia che mi sgomentò. Fuori mi prese a braccetto. - Dunque? domandai con viva ansietà. - Cose gravi, caro mio; l'accusa del sindaco sarà falsa; però sussistono i motivi con cui ha voluto spiegarla. E mi ripetè il colloquio con Don Luigi. Rimasti soli, Attilio, scusandosi con gli obblighi del proprio ufficio, gli avea rivolto questa domanda: - Qualcuno pretende che sia corsa qualche relazione fra lei e una donna legata in qualche modo col defunto De Boni. È vero? Don Luigi s'era turbato forte, e impallidendo subitamente, a capo basso, aveva risposto: - È vero. - Esiste un figlio di questa donna! Legittimo? No. Sa lei .... che De Boni gliene attribuiva la paternità? - Si. - È vero che l'aveva minacciato di far delle rivelazioni in proposito? - Sì. - E .... queste rivelazioni lei le conosce? - Sì. - Sono esatte? Don Luigi non aveva potuto rispondere altrimenti che con un cenno affermativo del capo: era tanto abbattuto che Attilio non aveva creduto di insistere. Egli mi disse: - Capirai che probabilmente sarò costretto ad assumere un suo formale interrogatorio. Ti ripeto che lo credo innocente, - ma intanto è necessario che ciò si chiarisca nella procedura. L'impreveduta confidenza mi aveva tanto sbalordito che non potei profferire parola. Seguii come trasognato il mio amico fino alla stalla dell'inserviente, dove avevano condotti i cavalli. Quivi sopraggiunse poco dopo il signor De Emma. Ci prese in disparte e disse ad Attilio: - Signor avvocato, don Luigi si è candidamente accusato e non ha pensato a difendersi. Egli le ha detto la verità ma non tutta la verità. Le sue confessioni possono far sospettare di lui; ma io le posso assicurare che il dabben uomo non ebbe mai verso il De Boni l'ombra di una colpa. La scongiuro a mani giunte di non tenerne conto: un atto di procedura fondato sovra esse non gioverebbe alla giustizia ma ucciderebbe senza riparo la riputazione e forse anco la vita di un innocente. Attilio esitava a rispondere. Il dottore soggiunse: - Il suo amico le può dire che fior di galantuomo sia don Luigi. - Però v'è contro di lui un indizio grave, - osservò Attilio. - risulterebbe che egli abbia imposto il peso di un suo figlio naturale al signor De Boni .... si può indurre che egli aveva interesse a temerne e ad evitarne le rivelazioni .... - Ma egli non ha imposto nulla, non sapeva nulla. Senta. Lei, tornando passerà da Zugliano; favorisca in casa mia; mi lusingo di riuscire a convincerla. E rivolto a me: - Venite anche voi; potrete confermare buona parte del mio racconto. - E don Luigi? - osservai riconciliato interamente col dottore. Sarà meglio lasciarlo tranquillo. Inoltre bisogna bene che ci occupiamo senza indugio del povero Beppe. Andai con lui al presbiterio a congedarmi. Don Luigi non cercò di trattenermi: prese la la mano ch'io gli porsi rispettosamente, mi tirò a sè, mi abbracciò con effusione senza far motto. Il segretario fu tanto buono da cedermi la sua cavalcatura e partimmo col dottore. Allo svolto dove la strada passa ancora sotto Sulzena prima di seguir la vallata mi volsi e diedi un'ultima volta uno sguardo di tenerezza al presbiterio che stendeva modestamente al sole cadente i suoi muri bianchi e le ultime foglie rosse del suo pergolato. Dal muricciuolo dell'orto la Mansueta mi salutava scuotendo il suo grembiale con ambe le mani. Nella confusione della partenza m'ero dimenticato di lei. Eppure dopo tanti anni ho ancora vivissima in me la sua immagine! Povera vecchia, santa donna: quanto mi sono rimproverato di non essere tornato indietro a stringer la sua mano aggrinzita dal lavoro! Allora non credevo di non averla a riveder più. Addio! con un cenno di mano si piglia commiato per tutta l'eternità! Si faceva tardi; mettemmo i cavalli al galoppo. A qualche miglia da Sulzena passammo innanzi ai carabinieri che menavano il Beppe. Lo chiamai per nome. Non intese. Camminava colle braccia ammanettate in croce sul petto, colla testa china, col fare stralunato di un uomo che ha l'animo fuori di questo mondo.

Si rannicchiò in una cameretta, la più a buon mercato che potè trovare nel labirinto di Londra; contò il poco peculio rimastogli dal naufragio della sua fortuna, e, fatto il calcolo che ne aveva ancora abbastanza per non temere, per un anno almeno, la fame, riunì in un pacco le molte lettere di raccomandazione che gli amici della sua famiglia gli avevano procurato in gran numero e le pose in fondo al baule. Voleva tentare, almeno tentare, di poter dire un giorno di dover tutto a sè stesso. L'orgoglio a volte, è la più nobile e la più feconda delle virtù. L'anno in cui era stato avvolto nel movimento rivoluzionario, doveva essere quello della sua laurea in medicina; in esso aveva visto invece aprirsi al padre la tomba, a sè la prigione e l'esiglio. Ora bisognava riprendere i corsi; ma l'infortunio che lo aveva così spietatamente trafitto d'un tratto nel suo cuore di figlio e di patriota, aveva ripercosso i suoi colpi nel cervello dello studente. Le lagrime versate, le bestemmie espresse, le diuturne lotte dello spirito in quegli eterni interrogatorii di cui parla Silvio Pellico con tanta amarezza, tutto ciò aveva portato nelle sue idee una confusione che confinava quasi colla dimenticanza. Ma ciò non sconfortava il giovane De Emma: la calma, la solitudine, la prepotente idea del dovere, avrebbero ben presto rimesso a sesto ogni cosa. Una nuova barriera, e questa più alta assai, gli si presentò davanti come appena ebbe frequentate le aule della Università e avuto modo di scambiar parola con condiscepoli e professori. Spirito avanzato quanti altri mai, e dell'avanzare innamoratissimo, non si sbigottì ma fremette quando s'accorse che, se volea degnamente percorrere la carriera intrapresa e percorrerla nella via del progresso, gli era forza tornar indietro fino a metà del cammino percorso ed ivi, dimenticata la strada rifatta piena d'ombra e di polvere, incamminarsi per opposti sentieri, fino a quel giorno appena intraveduti, e che adesso gli apparivano sfolgoranti di luce e di verità. Mentre in Italia la medicina, per opera specialmente del grande Morgagni, cominciava ma appena ad abbandonar l'antico spirito di sistema per un illuminato eclettismo, e ove pochi ingegni preclari si sprofondavano nello studio dell'anatomia patologica, e da pochissimi o da nessuno determinavasi ancora la sede delle malattie nè descrivevansi le alterazioni che producono, ed erano trascurate quand'anche non derise le ricerche microscopiche e l'analisi dei liquidi, - in Inghilterra, le dottrine di Mesmer, spuntate al tramonto dell'ultimo secolo, già preoccupavano tutti gli spiriti più elevati e già avevano aperti nuovi orizzonti al pensiero; Hanhemann contava ogni giorno più numerosi i suoi satelliti; e le scoperte e le indagini di Jenner, di Corvisart, di Avenbrugger, di Loenner e di Pinnel, il redentore degli alienati, avevano rivoltata come un guanto la scienza. È questa l'imagine abbastanza comune, ma giusta, che si affacciò al giovane studente di medicina, davanti all'inesorabile evidenza dei fatti. Si ingolfò dunque nelle nuove dottrine, benedicendo quasi a quel tempo di miserie perdute, che provvidenzialmente lo aveva scosso nelle false o men rette convinzioni acquistate con tanta perseveranza in Italia. Chiamò la fatica a duello, e fece e si mantenne la promessa di lavorare dieciotto ore sulle ventiquattro. Diminuì il budget delle spese quotidiane, diggià abbastanza mingherlino nell'antecedente preventivo, si fece trappista e cenobita, e rinfrancandosi nel pensiero della patria lontana e nell'esempio nobilissimo del padre, trovò la vigoria e la pertinacia per condurre per quasi un anno una vita che, senza quel ricordo e quello stimolo forse avrebbe spezzato anche una natura più robusta della robustissima sua. Ma i libri in Inghilterra, e quelli in ispecie di cui egli doveva riempire la sua cameretta costavano, a que' tempi, un enorme denaro; non contento di quelle della clinica egli voleva fare esperienze per conto proprio, e queste costavano ancor più dei libri. Ogni nuova riduzione di spesa sarebbe stata l'inedia! Allora ... allora chinò la testa un momento, ma per rialzarla più fiera e più convinta di prima. Scelse fra le lettere di raccomandazione, deposte in fondo al baule, dieci mesi prima con tanta balda illusione, quelle in cui non era precisamente indicato il genere di occupazione che egli si era prefisso ricoverandosi a Londra, e per un mattino di novembre dei più nebbiosi e freddi, uscì per andarsene in cerca di lezioni di lingue e di letteratura. Conosceva, oltre la sua, perfettamente il francese, il tedesco e l'inglese, era coi classici famigliarissimo, e la innata attrazione per tutto che è nuovo ed ardito lo aveva fino dall'adolescenza portato quasi all'adorazione degli autori romantici, allora sconosciuti ai più, da molti rinnegati, compresi o portati alle stelle da pochissimi giovani ingegni, per ciò appunto bersagliati a loro volta e presi a celia. Aggiungete a queste impareggiabili doti acquisite, quelle di cui gli era stata prodiga la natura: un'alta statura, un portamento che rivelava l'aristocrazia della razza, gli occhi splendidissimi, la chioma corvina, una mano bianca e affilata; tutto un insieme di linee armoniose e robuste nel tempo stesso. An italian gentleman susurravano intorno a lui, appena vedendolo passare. Perchè a queste notevoli raccomandazioni non voleva egli aggiungere quella che pochi o nessuno fra gli innumeri aspiranti al posto di maestro di lingua, ecc. ecc., che correvano, corrono e correranno le vie di Londra, avrebbero potuto dividere con lui? Perchè con tanta cura tentava di nascondere il neo-laureato in medicina dietro il postulante pedagogo? Per un sentimento in cui non so se entrasse in dose maggiore l'orgoglio oppure l'egoismo. Entrando nell'onorato ma modesto sentiero in cui lo spingeva il bisogno, egli sentiva di abbassarsi, non in faccia agli altri ma in faccia a sè stesso; non voleva abbassar con sè l'altissimo ideale, la scienza; per Lei, per l'amor suo, pel suo culto ogni maggior sacrificio; ma ambiva di farle la carità delle sue veglie senza ch'Ella sapesse che cosa costassero al suo sacerdote. Come aveva diviso in due parti il proprio tempo, così aveva diviso in due parti sè stesso. Rientrando dopo le sue lezioni per riaprire i dotti volumi, egli spogliavasi per così dire la pelle del maestro e ridiventava il pensatore; se sotto quella pelle alcuno sguardo indiscreto avesse potuto scoprire quest'ultimo, egli se ne sarebbe sentito abbandonato completamente; gli pareva che l'Idolo lo avrebbe guardato con faccia meno benevola, gli pareva che lo avrebbe profanato. La fortuna gli arrise. Non era scorso un anno e la sua fama di professore aveva già fatto il giro delle sale più aristocratiche di Londra, sicchè egli aveva ormai abbandonato l'uggioso e gretto insegnamento delle lingue per non dar che lezioni di lettere e di estetica, lezioni che gli venivano largamente retribuite e che, introducendolo, intermediarii l'ingegno e la coltura, nelle più cospicue famiglie, dovevano trovar preparata al medico futuro una vasta e invidiabile clientela. Gli agi non lo tolsero alla sua vita di privazioni; anzi affilarono, per così dire, l'aculeo che lo spingeva allo studio, talchè in due anni egli fece ciò a cui altri non sarebbe riuscito di fare, in doppio spazio di tempo. Pochi mesi mancavano al giorno in cui sarebbe stato in possesso di tutte le patenti volute dalla legge per professare la scienza salutare, quando un avvenimento sopraggiunse che doveva decidere di tutta la sua vita. Una delle famiglie con cui per mezzo delle lezioni egli era entrato in più intimi rapporti, - rapporti direi quasi di dimestichezza se dimestichezza fosse possibile fra inglesi e stranieri, - era la famiglia di Riccardo Hutley, antico capitano della Grande Compagnia. Arricchitosi di molto nelle Indie, il vecchio viaggiatore terminava in una quiete ben meritata la laboriosissima vita, in uno dei più begli appartamenti della City, educando principescamente insieme colla sua signora, l'unica figlia, miss Jenny, una fanciulla di dieciotto anni, un miracolo di virtù e di bellezza. Oltre le ore dedicate alla lettura e ai commenti dei nostri poeti a fianco di miss Jenny, erano molte quelle che il giovane De Emma passava nelle sale da pranzo e di conversazione e in quella del bigliardo, invitato con sempre maggiore frequenza dal capitano che aveva preso stranamente ad amarlo. Il vecchio scorridore dell'Oceano prendeva un gusto da non dire udendo il professore leggere le terzine di Dante; mai, egli andava dicendo a chi voleva o a chi non voleva sentire, mai egli aveva meglio provato l'influenza dei versi ... e notate che non capiva una sillaba di italiano! Bizzarria britanna! Frequentando così assiduamente quella famiglia, obbediva egli ad un sentimento di cordialità, di gratitudine? Tutti i colleghi che conoscevano quel giovane sempre pensieroso, sempre accigliato, il quale, - finite le ore dello studio non divideva cogli altri le lietissime dell'andarsene a zonzo, - che adocchiava, dalle vetrine dei librai, - le nuove edizioni, - nella attitudine di Adamo davanti al frutto proibito. - Tutti quei giovani inglesi lo guardarono, lo contemplarono, e finirono per ammirarlo. L'idolo è custodito: ecco perchè i passi di De Emma furono seguiti da altri passi. Quella frequenza contraria alle parche abitudini del giovane italiano, nella casa del vecchio capitano fece dire, dopo poco tempo, ad un primo. - È innamorato di miss Jenny! - È il suo amante, - ripetè il secondo. - Quel vecchio babbeo! ... osservò il terzo. E così di seguito. Che c'era di vero in tutto ciò? Eccolo detto in poche parole: De Emma non era l'amante di Jenny, il padre di Jenny non era un babbeo; ma il primo interlocutore aveva ragione. - De Emma era innamorato. E il padre di Jenny se ne accorgeva. Innamorato senza volerlo, quasi senza saperlo; come si è innamorati per la prima volta; innamorato non tanto della creatura come della poesia che ella espandeva; assorto in questa come in una visione; infelicissimo quasi sempre e più che mille volte felice in un giorno. Venne l'ora in cui constatò la propria malattia, e se ne atterrì come mai forse non si era atterrito al capezzale di nessun infermo. Due soli rimedii potevano salvarlo: uno d'ambrosia, l'altro di tossico; al primo non poteva, non doveva nemmeno pensarci; quanto al secondo, c'erano novantacinque probabilità su cento che invece di guarirlo lo avrebbe ucciso. De Emma scelse quest'ultimo. Il giorno stesso in cui si era convinto della dolce e crudele verità, egli ricevette un invito come al solito dettato nei termini della più squisita gentilezza, in cui lo si invitava in campagna ad Hutley House, per l'indomani; era sottoscritto «Jenny». Il povero giovane rispose immediatamente di non poter aderire all'invito attestando occupazioni che gli avrebbero reso necessario per assai tempo il soggiorno alla capitale. È vero che lacerò per ben tre volte il biglietto prima di poterlo scrivere in modo che la sua disperazione non trasparisse dalla sconnessione delle frasi e dei caratteri. Quel giorno errò come un pazzo per le strade e pei parchi preceduto da un fantasima di fanciulla dagli occhi azzurri e dai lunghi, disciolti capelli biondi, che ora pareva sorridergli con ingenua famigliarità, quasi facendogli coraggio a seguirla, ora sembrava comporre a corrucciata espressione l'angelica faccia, come chi vorrebbe rimproverare e non osa, e tiene il broncio di fuori e di dentro ha il rovello. Quella notte la visione sedette davanti a lui, insonne e febbricitante, nè lo abbandonò che coll'alba, quando l'orologio della torre lo richiamò dalle plaghe della inesorabile fantasia ai solchi della crudele realtà. Ma i libri su cui si gettò come si precipita sulla fontana il pellegrino assetato non erano più quelli del giorno prima: che insipida presa, che gelata selva di formule, che arida landa di dubbii, di supposizioni, di errori! Come mai tutto ciò aveva potuto, per tanto tempo, formare la sua delizia, il suo orgoglio, l'esistenza sua tutta intiera? Egli si vide allora spalancato un abisso in cui si sentiva irresistibilmente trascinato; come un ragno a cui la verga di uno spensierato fanciullo abbia infrante tutte le fila cui era sospesa la pensile dimora. Fu dapprima uno sgomento inenarrabile, una perturbazione spasmodica, se così è lecito esprimersi, di tutte le fibre dell'animo suo; uno stupore, una meraviglia, di sè, degli altri, di tutto, come sarebbe quella di un uomo che addormentatosi tranquillamente nel proprio letto, si risvegliasse d'improvviso sull'ultima vetta dell'Imalaia, o all'estremo confine delle sabbie del Sahara. Questi dolori sogliono condurre per mano la pazzia a destra, a manca l'abbrutimento: la rassegnazione sta in mezzo talvolta ..... ma è una rassegnazione forse meno invidiabile dell'abbrutimento e della pazzia. Guardata faccia a faccia la via del dovere, l'angusta via del dovere come la chiama il poeta, quella che lo separava per sempre da Jenny, il giovane De Emma non trovò il coraggio di batterla che esagerandone le scabrosità, moltiplicandone le spine, tenendo a bella posta aperte e sanguinolenti le piaghe che gli rallentavano il cammino. Il suo dolore a poco a poco andava trasformandosi in voluttà. Come il viaggiatore del deserto, sorpreso dalla notte, poichè ha acceso un gran fuoco onde tener lontane le bestie feroci, per paura di addormentarsi si abbrucia un dito, e come appena lo spasimo è cessato, lo riabbruccia, e così continua finchè l'alba tropicale non spunti in suo aiuto; così il signor De Emma cercava la propria salvezza, e, povero illuso, credeva trovarla, martirizzandosi nella fiamma fatale di quell'amore; nè si accorgeva che in tal modo, lungi dall'allontanarli si riscaldava e rinvigoriva ogni sorta di mostri nel cuore. Ragionava, sillogizzava sulla sua passione; ciò che è terribile. Si arrestava, avvolto in certi pensieri che, se altri avesse potuto leggergli dentro all'involucro cerebrale avrebbero fatto dubitare della sua ragione. Continuava, ma macchinalmente, gli studi di medicina; il resto del tempo impiegava (oh dov'era l'uomo serio d'una volta!) rileggendo e meditando le istorie innumeri degli amori e degli amanti infelici. Con esse cominciò ad insinuarsegli nell'animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell'Ortis si era versato in tutta la letteratura dell'epoca. La sirena del suicidio venne a cantargli nell'animo le sue terribili ed affascinanti canzoni. Accade in questi rabbuiamenti del senso morale come nell'orgie: il ritornello vi trascina. E il giovine De Emma si trovò una brutta notte a ripeterlo colla passiva incoscienza dell'uomo soggiogato da una fissazione sopra il parapetto del Tamigi. Pioveva una belletta negra, figlia dei nembi e della caligine delle officine. L'acqua del fiume correva densa, scura, con dei vaghi riflessi plumbei. Scena atta veramente a disgustare del mondo. Egli diceva fra sè, con tutta calma, che non c'era ragione di rimanervi. Ma s'ingannava: per sua buona sorte, la ragione ci fu e tale da riconciliarlo perfettamente con la vita. A sua destra, lontano una cinquantina di passi, le finestre illuminate di una palazzina gettavano sulla superficie liscia, oleosa del Tamigi i suoi riflessi simili a pezzi di tela sudicia. Subitamente gli colpì l'occhio di sbieco qualcosa di bianco che scendeva tuffarsi là dentro. E, fra lo scroscio sordo e pigro dell'onda e il rombo cupo delle macchine che rantolavano la loro veglia, distinse un tonfo leggiero. Non ci avrebbe posto mente (aveva ben altro per il capo) se non ne fosse seguito una specie di tumulto nella casa vicina. Si gridava aiuto, accorreva gente con delle lanterne, si staccavano delle barche. Si mosse istintivamente e discese anch'egli alla riva. Sul fiume era cominciata la ricerca; tre barche in crocchio scendevano la corrente e, in mezzo ad esse, qualcuno gettavasi a nuoto e tuffavasi: a brevi intervalli, quando veniva a galla, i barcaiuoli gli gettavano dei monosillabi di consiglio, di avvertimento. - Si trattava certo di qualcuno caduto nel fiume. De Emma, in mezzo alla folla raccolta sulla sponda, guardava, aspettava con grande ansietà: avrebbe voluto essere dalla partita di salvataggio. Cosa strana; il sentimento della vita spento dal tedio della propria esistenza, rinasceva in lui dalla compassione per quell'infelice. Finalmente una esclamazione venne dal fiume ad annunziare il successo dell'impresa. Una barca si staccò innanzi alle altre e si avvicinò rapidamente alla riva. Recava il corpo inanimato di una donna. I barcaiuoli la portarono in una casupola vicina. e chiusero i battenti dell'uscio in faccia alla curiosità invadente della folla. Dopo qualche minuto, un finestrello s'aperse; una voce gridò: - Un medico! ... - Eccolo, rispose De Emma, che era rimasto là in mezzo. L'uscio si riaperse e fu introdotto nella camera. La donna distesa sopra un mucchio di reti non s'era punto riavuta. Egli si assicurò che il cuore le batteva fievolmente. Era giovane e bellissima: indossava una splendida veste di raso bianco e aveva un stupendo monile di brillanti al collo. Quella brava gente aveva esaurito senza frutto tutti i soliti mezzi empirici per richiamarla alla vita. De Emma si curvò e, posate le proprie labbra sulle sue, con quanta forza aveva nei polmoni inspirò a più riprese nel petto della giovane. Dopo un quarto d'ora un debol soffio indicò che le funzioni respiratorie si rianimavano. Due o tre curiosi erano riusciti a penetrare in casa col dottore; mentre egli era curvo intento all'operazione sporgevano il capo sopra le sue spalle per vedere. Uno di essi, un vetturale della vicina stazione, sclamo: - Tò la ballerina della palazzina verde. Qualcun altro confermò le sue parole. De Emma domandò: - Sta qui vicino? - A due passi. Il luogo non era adatto alle cure necessarie nella crisi che stava per dichiararsi. Per suo ordine i barcaiuoli la presero e la trasportarono in casa sua. Colà nessuno s'era accorto della sua assenza; un servitore che dormiva in anticamera si alzò in soprassalto e, tutto sbalordito, li guidò nella camera della signora. Attraversando l'appartamento la triste comitiva si imbattè nel finale di un banchetto d'uomini. Nella sala da pranzo dormicchiavano distesi nella posa di volgari ubbriaconi lords e gentlemens dei più noti del gran mondo. I meno cotti, all'inatteso spettacolo, pensando si trattasse di una burletta di quella matta di Rosilde, che quella sera li aveva invitati, come diceva il biglietto «all'ultima cena» levarono alte risa e batterono le mani; e afferrato un candeliere fecero scorta recitando le preci dei defunti. Figuratevi come rimanessero quando si accorsero che la cosa era pur troppo seria. Due, che giocavano in un salotto attiguo, assorti nella loro partita non intesero e non videro nulla: nel silenzioso stupore di quel momento si sentivano distintamente le loro irose osservazioni. Un reporter di un giornale del mattino scarabocchiava in un boudoir il suo cenno descrittivo. Fu il solo ad afferrar subito il vero: ma, avvezzo per professione a non meravigliarsi di nulla, seguì colla matita sulle labbra il convoglio, ne osservò i particolari, assunse a bassa voce minute osservazioni e tornò tranquillamente a terminare l'articolo, felice di potere nella chiusa impreveduta di esso regalare ai suoi lettori una ghiotta primizia. Il dottore riuscì non senza stento a congedare tutta quella marmaglia in giubba nera e non permise di rimanere che al barcaiuolo che avea pescata la giovinetta. Dopo un'ora di sforzi Rosilde cominciò davvero a riaversi. Aprì gli occhi, e al ritrovarsi nella sua camera, fe' una smorfia di disgusto. Volle sapere come c'era tornata e bisognò contentarla. Quando il signor De Emma ebbe terminata la sua breve relazione, lei si tolse dal collo il monile di brillanti e porgendolo al barcaiuolo: - Prendi, spetta a te; io l'avevo portato per chi avesse ripescato il mio cadavere. Tu mi hai servita un po' troppo sollecitamente, - ma non importa, la colpa è dello stupido mio destino. - Quanto a voi, disse poi al dottore, non vi date troppo fastidio, il miglior servizio è lasciarmi finir presto. De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo. Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito. Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l'inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate. Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d'averla vinta scoprì d'aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l'aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile. Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole: - Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll'indice sul suo seno ansimante per l'asma, eh! che ne dite, patria? - Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione. - Davvero? ebbene proviamo. Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita. Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore. Tutti gli amici vennero a trovarla; molte notabilità vollero esserle presentate: ella fu per due mesi grandemente alla moda. Malgrado il divieto del medico, per due ore il giorno si teneva nella stanza di lei una sceltissima conversazione. Un po' la nuova speranza, un po' la cura del De Emma cominciavano a trionfare del male. La giovinetta rifioriva. Quelli che sapevano della sua malattia dichiarata incurabile da due celebrità mediche del paese ne facevano le meraviglie. Quando essi la complimentavano della sua guarigione, essa rispondeva: - Non so nulla io, è tutto merito del mio genio taciturno. Voleva dire il De Emma. Nessuno l'aveva mai veduto. Qualche volta egli veniva mentre c'era gente; e la Rosilde s'alzava per ricevere il «genio»; di solito rientrando congedava seria seria la compagnia. Si cominciò a scherzare del misterioso personaggio: poi ad esserne curiosi. Il baronetto Mac Snagley aveva un fratello che soffriva di cuore: pregò Rosilde di presentargli il suo medico. De Emma ebbe la sorte di guarire il giovinetto Arturo Snagley, idolo della famiglia. La sua riputazione si estese nella alta società di Londra. Parecchie altre cure felici finirono per metterlo in voga. La sua non era soltanto fortuna. Per il primo aveva indovinato, allora al tempo delle cliniche dirette e operative, l'importanza dell'igiene nella cura delle lente alterazioni organiche: non violentava il male, aiutava indirettamente la natura a correggerlo, a sopprimerlo. La novità del suo metodo, la gradevole facilità di eseguirlo aggiungevano attrattiva alla sua assistenza. Quando venne la primavera Rosilde per suo consiglio affittò un grazioso villino dalle parti di Brighton. L'aria aperta, la quiete della vita campestre compierono la sua guarigione. De Emma le rare volte che fu colà a visitarla si confermò nella certezza di avere rimosso definitivamente ogni minaccia del male. Gli istinti della sua prima giovinezza avevano ripreso il dominio della sua vita, Ella ritornava la gaia fanciulla di Castelletto. Aveva stretto relazione con la moglie del ministro e l'accompagnava nelle sue visite di beneficenza per le capanne dei contadini. Qualche volta ne invidiava ad alta voce gli uffici. I suoi sentimenti di donna e di campagnuola vi avrebbero trovato intera soddisfazione. Ella e De Emma si dovevano scambievolmente la vita. In lui i tristi fantasimi del suicidio eransi dissipati dinnanzi all'amore rinato della scienza e alla fiducia in sè stesso, - a ciò venne dopo qualche mese ad aggiungersi un alleato anche più poderoso. Una mattina di estate, all'ora in cui il dottore era solito ricevere in casa, il servo introdusse un signore nel quale il dottore ravvisò non senza meraviglia il signor Hutley, il padre di Jenny. Costui gli tenne questo strano discorso: - Voi siete un orgoglioso: avete lasciata la mia casa dove tutti vi volevano bene; ora io vengo umilmente a pregarvi di ritornare. Zitto, non ricusate, vi scongiuro; mia figlia è malata; voi siete medico, guaritela. Nessuno seppe mai bene come terminasse questo colloquio; pare che i due si trovassero nelle braccia l'un dell'altro. La stessa scena dovette ripetersi la sera in casa del signor Hutley e c'era presente una giovanetta un po' pallida che singhiozzava di gioia. Il dottore De Emma sposò poco dopo la sua Jenny; e partì con essa per un viaggio sul continente. Ma, come dicono i contadini, il Signore non vuole nessuno contento. Furono richiamati tosto a Londra dalla triste notizia che Hutley era stato colpito da una apoplessia. Gli sposi tornarono appena in tempo di ricevere la sua benedizione. Dopo la morte del padre, Jenny fu colta da una così profonda malinconia che il marito pensò a levarla dai luoghi che le rammentavano troppo vivamente la disgrazia. E Jenny accettò con viva riconoscenza la proposta di venire in Italia. Il dottore aveva ereditato in Lomellina da un lontano parente una vistosa tenuta: e poichè egli poco ambizioso, tutto assorto negli studi scientifici poco ci teneva alla sua clientela risolvettero di fissare la loro dimora a Zugliano, dove avevano passati i momenti più lieti del loro viaggio di nozze. Frattanto De Emma aveva, se non dimenticata, almeno perduta di vista la Rosilde. Solo aveva risaputo ch'ell'era tornata verso il fine dell'estate a Londra ed era risalita sul palcoscenico. Egli si proponeva di recarsi a salutarla prima di lasciar l'Inghilterra ma preoccupato dei preparativi della partenza rimandava di giorno in giorno la visita. Una mattina, era pressapoco l'anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l'invito dì passare da lei. La poveretta era ricaduta malata: l'aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore. Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell'inverno. Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata. Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente. La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l'Inferma. Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai. Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza. Ella non aveva più parenti all'infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto? Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch'egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla. La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall'inferma e tanto fece e tanto disse che l'indusse a seguirli in Italia. Per qualche mese le cose andarono a meraviglia, l'accordo delle due giovani pareva perfetto; quando Rosilde parlava di partire i signori De Emma le davano sulla voce, ed ella messi da parte i pensieri dell'avvenire accettava con gioia la generosa ospitalità. Ma, dicono i montanari, due galli in un pollaio, due donne in una casa non fanno il paio. Il sereno non tardò ad intorbidarsi. Colla salute rinverdiva la mirabile bellezza di Rosilde; la sua fisionomia vivace, espressiva, gareggiava vittoriosamente colla figura forse un po' tranquilla di Jenny. Tutti ne parlavano in Zugliano e nei dintorni; facevano dei confronti, aggiungevano delle supposizioni che appunto per il loro carattere di maldicenza trovavano larga e pronta accoglienza. Qualche ciarla cominciò a salire fino all'orecchio della signora De Emma. Ella cominciò a dubitare, poi a sospettare. Il sospetto è un miraggio che ha l'aria di una rivelazione. Tutte le cose pigliano attraverso a quello un'apparenza menzognera che, per disgrazia, è più verosimile del vero, s'incontrano in una logica più stretta perchè più artifiziale della realtà. La effusione tutta italiana con cui Rosilde manifestava al dottore la propria riconoscenza, parve a Jenny, più contegnosa, l'espressione di un sentimento più caldo e meno lodevole. Essa vide in lei non già una rivale, ma una minaccia al suo avvenire, alla tranquillità della casa; e la sua amicizia per Rosilde al soffio gelato della gelosia inaridì. Tuttavia non trascese in volgari ostilità: dissimulò nobilmente il suo sospetto, il suo timore, tutto, fuorchè una cosa, la sua freddezza. Ma questa bastò a Rosilde per indovinare tutto il resto. La triste scoverta la fe' pensare ai suoi casi, alla precaria sua condizione, all'incerto avvenire, ma sovr'ogni altra cosa all'umiliazione di essere a carico de' suoi ospiti. A tutta prima ella, come poi confessò al dottore, ebbe un accesso di odio per colei che coi suoi sospetti veniva a turbar la sua quiete: ma si persuase poi che la signora De Emma aveva ragione. Rosilde era innocente: aveva invidiata la felicità della casa in cui era stata raccolta ma l'aveva rispettata: non mai il suo cuore erasi aperto a delittuosi desideri. Voleva bene al dottore come ad un amico, ad un fratello maggiore com'egli si mostrava con lei: i loro caratteri entrambi risoluti, franchi, fieri non eran fatti per amarsi diversamente. L'amicizia si contenta spesso della somiglianza, l'amore esige quasi sempre l'antitesi dei caratteri; cerca l'armonia nelle differenze. Per invaghire un'indole così vivace e quasi virile come quella di Rosilde ci voleva un animo più tenero, più pieghevole, direi quasi più femmineo Ella deliberò di lasciare senz'indugio la casa De Emma e annunzio a tavola il suo divisamento senza preamboli, senza mezze confidenze, senza misteriose titubanze a tutti due i suoi ospiti insieme: disse che Mansueta l'aveva invitata a passare qualche tempo con lei e che intendeva recarsi a Sulzena l'indomani, - così senz'altro. Poi, con singolare tristezza, sorridendo, mutò discorso risparmiando al dottore l'imprudente ingenuità di farle delle preghiore e alla signora l'impaccio di nascondere la sua soddisfazione. Con lei si mostrò gentilissima, serena, volendo dissipare in lei persino l'ombra del dubbio. Questa fu la sua vendetta. Jenny ne fu commossa, Nel congedarla il giorno dopo non potè esimersi dal dirle: - tornerete? Rosilde le rispose: - A salutarvi. Molto probabilmente io lascierò di nuovo l'Italia. E le strinse la mano perfettamente tranquilla. Il dottore s'era accorto all'ultimo delle inquietudini della moglie e, contentissimo di essere liberato da una posizione molesta, si guardò bene dal rattizzarla con delle imprudenze. Riconoscente di tutto cuore a Rosilde della sua discrezione, finchè ella rimase a Sulzena, non cercò una volta sola di vederla. La ritrovò una sera per caso in quelle circostanze strane descrittemi dallo speziale. La povera giovine sorpresa nel proprio segreto gli contò allora la sua vita degli ultimi mesi, un romanzo di trista e funesta dolcezza. L'infelice s'era lusingata di tradurre in pratica il suo sogno di Brighton. La quiete del Presbitero l'aveva sedotta, ammaliata il carattere timido, pensieroso e malinconico di Don Luigi, allora giovane di aspetto e di forze malgrado i suoi quarant'anni sonati. Per certe donne l'amore non è che una forma più squisita della compassione: danno il loro cuore per un sentimento affine a quello per cui si farebbero suore di carità. Rosilde era di questi caratteri che pensano sempre agli altri e mai a sè stessi, che si guardano ansiosi intorno per trovare se c'è persona da soccorrere, da consolare e si feriscono spesso a morte per risanare il primo capitato da una scalfittura. La triste solitudine di quest'uomo così buono, così degno d'affetto la commosse. Ella non dava per sè stessa una grande importanza alle passioni amorose, ma come la madama Warens di Rousseau, e come la maggior parte delle donne, credeva che gli uomini non potessero farne senza, e veramente gli uomini che ella aveva incontrati, il mondo corrotto in cui aveva vissuto non potevano darle una più retta opinione. Perciò le pareva di scorgere nella vita di don Luigi un vuoto doloroso. Ella, così pronta a sacrificarsi senza chiedere ricambio, non capiva che si potesse fare di un'idea, di un sentimento soprannaturale l'interesse massimo della vita. Gli è che il suo cuore arrivava molto più in alto della sua mente incolta. Quando ella, nascosta dietro le stecche delle persiane o fra i cespugli del giardino, vedeva don Luigi appoggiarsi meditabondo al muricciuolo dell'orto, e là rimanere immobile per dell'ore colla fronte corrugata, gli occhi fissi alle cascatelle del torrente: poi levarsi repentinamente e passeggiare e poi fermarsi di botto e riprendere a camminare a passi ineguali, - ella s'immaginava che fossero le torture di un'indole passionata costretta a ripiegarsi dentro di sè. Ella non aveva torto interamente. La gioventù, ingagliardita dal lungo ritegno, tentava allora l'ultima e più formidabile ribellione contro le rigidezze del povero prete, mascherando i suoi assalti con quel misticismo, - potente e fuorviata sensualità delle indoli caste, - il quale penetra l'umana natura nelle sue più intime fibre, e la colpisce nell'arcano principio onde si congiunge l'elemento morale colla materia. Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all'improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, - e riesce spesso a sopraffarla. Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani. Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, - eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia. Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo. Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall'una all'altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni. Egli non tardava a scorgerla. Non l'evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll'agilità di una farfalla dall'uno all'altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde. Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l'altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione. Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l'alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei. Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse. Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, - questi ossessi dell'idea e dell'immagine, - dovrebbero trovare sempre sull'aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell'uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell'evangelo. Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi. Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, - e sempre ne attribuiva il merito al padrone: - don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest'altro. Ell'erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d'uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano: - Che dite mai, che dite mai .... un piacere, un dovere .... Rosilde ebbe la soave, intima certezza che la sua presenza colà non era molesta, e non finì il discorsetto preparato e incominciato. Don Luigi aveva soggiunto: - Che volete, siete capitata in un eremo, e in un brutto mese; ma ora viene la bella stagione e vi ci troverete molto meglio: non manca in questa solitudine una certa selvaggia bellezza: vedrete dei luoghi di una singolare amenità. La giovinetta accolse queste parole con un sorriso di gratitudine, come la più cortese maniera d'invitarla a rimanere. Ma forse il sentimento che le inspirava era ancora più nobile. Ho dovuto convincermi per esperienza che don Luigi non pensava mai alla partenza dei suoi ospiti. La loro domanda di congedo era sempre per lui una sorpresa che, secondo i casi, combatteva con una viva e affettuosa resistenza, o, come nel caso mio, subiva come una triste necessità. Ella rimase dunque. Ispirata dalla calda sua riconoscenza, dalla indipendenza del suo carattere e della sua educazione bizzarra, si convinse che non solo era di troppo, ma poteva recare qualche conforto a quella malinconica vita di anacoreta, Ed aveva istintivamente abbracciato, prima che compresa la sua missione: - umile e sublime missione! Il suo mestiere l'aveva avvezza a riguardare sè stessa come un giocattolo: come uno svago, - ed ora, dopo aver rallegrato colle sue danze le noie di tanti oziosi e buoni a nulla, le pareva di nobilitarsi col fare omaggio di sè stessa a un uomo di merito e di cuore, ad uno che l'aveva ospitata, che le aveva usato riguardo senza esservi spinto nè dalla concupiscenza nè dalla vanità. Però fu con viva gioia ch'ella si accorse d'essergli cara. Ciò bastava al suo orgoglio e non aveva la pretesa nè di dare, nè di ottenerne amore. Era troppo modesta per questo. Certo ella non scandagliava troppo in fondo i proprii sentimenti, non notomizzava con analisi soverchiamente rigorosa l'effetto che produceva nel suo cuore lo sguardo affettuosamente grave di don Luigi, il suo viso allora giovanile e incorniciato da ricche ciocche ricciute di capelli nerissimi. Ella ci teneva a non farsi illusioni, - e forse questa sua modesta smania di realtà era la più grande, la più generosa delle illusioni. Però ella non la smentì mai neppure con sè stessa; se i desideri, i timidi suggerimenti del suo cuore si levarono alla fine contro di essa per dissiparla, - ella seppe vincerli, frenarli, farli tacere. Ella non pensò mai a calcolar sull'avvenire di lui e del presente non prese mai che le ore di riposo: e quando si avvide che ella poteva influire sul suo destino, nuocergli, ebbe il coraggio di .... Ma non precipitiamo gli avvenimenti. Rosilde e don Luigi si vedevano dunque regolarmente tutte le mattine. A quell'ora, dopo la messa prima, si faceva nel Presbiterio e nel villaggio una gran pace. Il campanile dopo aver confidato agli echi della montagna i suoi squilli di benedizione taceva. Baccio, svestito, coll'abito di sacrestia, il sacro carattere delle sue funzioni, usciva in campagna con tutta la sua famiglia. Mansueta attendeva al governo del suo pollaio: governo assoluto, personale, faccenda di colossale importanza. Essi rimanevano soli in mezzo alla vasta e gioconda quiete mattinale. Era giunta la primavera. L'aria olezzava di primolette e di viole. Nei campicelli scaglionati sui clivi, una verzura pallida annunziava colla lirica verginale delle sue tinte delicate l'epopea splendida delle spighe d'oro. In tanta gloria di cielo, in tanta serenità di paesaggio, i loro colloqui erano tutti tranquilli e lieti. Quantunque Rosilde avesse per don Luigi un grande rispetto, l'umiltà vera di lui, la sua repugnanza per ogni apparato. per ogni posa anche la più legittima della sua dignità, davano alla conversazione un tono perfetto di uguaglianza. Schivo di tutte le affettazioni, egli non la chiamava mai figliola e, neppure sorella, diceva senz'altro Rosilde. Egli, come io stesso ne feci la prova molti anni di poi, era anzi istintivamente disposto a riconoscere una certa superiorità nella gente che avesse vissuto nella città. L'attrattiva del mondo era allora anche più possente sulla fantasia dell'anacoreta. Riguardava con uno sgomento d'ammirazione quella debole giovinetta che aveva da sola attraversata quella vita che gli ascetici suoi maestri gli avevano paurosamente descritta come un vortice divoratore. Era una delizia inenarrabile il sentirla parlare dei suoi viaggi e Rosilde, vedendo che ciò lo divertiva, gliene parlava sovente. Poco alla volta il racconto della sua vita teatrale venne a frammischiarsi ai discorsi placidi dei primi giorni, e ad interromperli sovente. Don Luigi, affascinato, si dimenticava; si avvezzava senza volerlo, senza accorgersene, a carezzare col pensiero, sulla fronte bianca, sulle treccie bionde, sulle labbra rosee della bella narratrice, le malie, gl'incanti ch'ella gli suscitava colle sue parole dinanzi alla mente. Se qualche volta, sopraffatto dalle immagini lusinghiere, chiudeva gli occhi, riaprendoli trovava dinanzi a sè il sorriso sereno, soave di Rosilde. E, infine, sorrideva egli stesso, - e, in quel momento di debolezza, egli era vinto; il suo cuore, colto alla sprovveduta, cedeva al fascino di quella bontà e di quella bellezza. Nè l'uno nè l'altro aveva pronunziato mai la parola fatale; eppure l'idillio era incominciato: - e la passione per un sentiero sparso di fiori, molle di muschi trascinava la loro innocenza nei suoi abissi profondi. Oh se i loro cuori avessero conosciuto le cose per il loro vero nome: se l'amore non si fosse celato per lei sotto le sembianze della devozione, e per lui sotto quelle più candide dell'amicizia, nulla sarebbe accaduto. Se don Luigi avesse dovuto lottare, o anche solo formulare un'aspirazione, un desiderio ... egli avrebbe arretrato impaurito; la sua volontà allarmata avrebbe vinto. Ma nulla di tutto questo. Ella offriva. egli non aveva che a chinarsi per accettare.

Conosceva abbastanza il mondo per temere i pericoli. Rispondeva: - non bisogna mutare un piacere in professione. «Dio lo benedica per le sue buone intenzioni e magari ce lo avesse lasciato più a lungo! «Ma dovevano capitare tutte a noi. «Ogni anno crescevano le nostre avversità. «Le malattie della mamma si facevano sempre più gravi, e finalmente la resero paralitica di tutte e due le gambe. «Ella era in questo stato da parecchi anni, quando il Signore volle inviarci la prova più terribile. «Una notte di inverno, - una notte che pareva la fine del mondo, - il vento faceva traballare la nostra casuccia dalle fondamenta. Il papà, come spesso accadeva, era fuori; io non potevo dormire, ero inquieta più delle altre volte. Tutto ad un tratto in un momento che il vento era queto intendemmo due schioppettate dall'altra riva del fiume. Diedi un balzo sul letto; Rosilde che dormiva con me mi si avviticchiò alla vita: tutte due avevamo un gran batticuore. Anche la mamma si svegliò e disse: Libera nos Domine. Pareva ce l'avessero detto, che quei colpi erano diretti contro di noi! «La mattina dopo, il fiume correva grosso e torbido e noi due ritte sulla via tenendoci per mano piangevamo dirottamente senza chiederci il perchè. Il babbo non era tornato. «Verso mezzodì due pescatori ci ricondussero la nostra barca. L'avevano trovata fitta capovolta in un banco di sabbia. «La disgrazia oramai era certa. «Diffatti seppimo quella stessa sera che avevamo perduto il nostro povero padre. Sorpreso dai doganieri austriaci mentre stava scaricando del tabacco, aveva tentato di fuggire ed era riuscito a prendere il largo. Ma essi gli avevano fatto fuoco addosso e pur troppo le due fucilate da noi intese non avevano fallito il segno ... «Mio caro signore, pensi un po' alla miseria in cui ci trovammo. Oramai erano più i giorni di fame che quegli altri. Io facevo qualcosa, quel poco che potevo; aggiustavo reti, lavoravo in campagna, filavo, tutto ciò che mi si offriva, - ma ci voleva altro! La povera mamma gemeva dì e notte che era uno strazio a sentirla, - e non poterla soccorrere! ... «Come abbiamo potuto tirare innanzi non lo so: se non siamo morti tutti e tre quell'anno gli è che non era la nostra ora. «L'estate seguente venne il marchese a Castelletto, chiese di noi e passò a trovarci. «Egli parlò di nuovo della scuola di ballo per la Rosilde: disse che non bisognava farle perdere uno splendido avvenire; che ella poteva diventare la nostra Provvidenza, che intanto egli avrebbe pensato a lei ed anche alla mamma. Insomma tanto fece, tanto promise che noi non si sapeva cosa rispondere. «Tuttavia la mamma esitava a dir di sì. «Rosilde allora saltò su a dire che voleva andare, e ci fe' stupire colla fermezza della sua risoluzione. Aveva poco più di dieci anni. « - Brava, esclamò il marchese tu hai più senno di tutti. Se tua mamma si ostina a dir di no, peggio per lei. «Egli ci fece poi ripetere le sue offerte e le sue esortazioni dal sindaco e da altri signori del luogo tantochè la mamma si decise alla fine un po' per le ragioni che coloro le dicevano, e un po' per quelle che la miseria le suggeriva, di arrendersi. «Rosilde andò quello stesso anno a Milano. Il buon marchese fu di parola, si adoperò per lei e cominciò a mandare una piccola pensione mensile. «Passarono così cinque anni. «Rosilde veniva l'estate a passare con noi qualche settimana. «Ella si faceva grande e bella, - ma scommetterei che non era contenta. Appena arrivava a casa, smetteva i suoi abiti signorili per vestire più dimessamente alla nostra foggia: parlava poco e sempre malvolentieri della sua vita di Milano e si sarebbe detto che volesse dimenticarla e farla dimenticare. Poi ci pativa tanto a lasciarci. Non si lagnava, simulava indifferenza, - ma di notte piangeva e io trovavo l'indomani il guanciale bagnato dalle sue lagrime. «Ella non era nata per quel mestiere. «Un'altra, che fosse stata di quella razza, al suo posto si sarebbe leccate le dieci dita. «Il marchese le voleva bene come ad una figliuola; la faceva tenere come in uno scatolino. dentro alla bambagia: avesse desiderato delle cose, egli non le raccomandava che di chiederle. Preveniva tutti i suoi capricci, anche quelli che non aveva. «Ma dopo cinque anni mancò improvvisamente. Dopo la sua morte mia sorella venne a casa e ci si disse che aveva risolto di cominciare la sua carriera libera, e che aveva già trovato una scrittura per un teatro di Venezia. «Quella volta ci lasciò con minor rincrescimento, e baciando la mamma le disse: allegra, che d'ora innanzi non vivrai più di elemosina, ma di quello che guadagnerò io. «Ma la mamma, dopo tanti anni di agonia miracolosa, chiuse gli occhi poco dopo, e Rosilde non ebbe la consolazione di poterla soccorrere in nulla. «La povera fanciulla se ne accorò talmente che cadde malata e, come seppi poi, corse pericolo di morte. «Io, rimasta sola, entrai al servizio d'una famiglia in Arona. «Rosilde appena lo seppe venne a cercarmi e volle a tutti i patti che andassi a stare con lei. «Quest'atto di amorevolezza mi fu caro in quei tristi momenti. «Avevo quindici anni più di lei ed ero tutta contenta di farle da madre. «Mi menò a Venezia, e, dopo qualche settimana a Trieste, dove le avevano fatta una scrittura molto grossa. «Dapprincipio tutto andava come un arcolaio. Si viveva insieme, si stava bene, ci si consolava a vicenda, e si parlava de' nostri poveri morti. «Ma pur troppo la nostra quiete non durò a lungo. «La professione di Rosilde non è fatta per star tranquilla. «Appena ella fu conosciuta, diventò di tutto il mondo meno che mia. «Dapprincipio l'accompagnavo al teatro, l'aiutavo a vestirsi. «Ma cominciò una processione di signori che venivano a farle complimenti e parlavano Dio sa come, - in presenza mia, non mi guardavano neanco come una serva, peggio come un cagnolino. «La buona Rosilde ci pativa più di me e si dava una gran pena di avvertirli e di dire a tutti: questa è mia sorella e di farmi rispettare. Ma ogni volta s'era da capo. Io mi sentivo sempre più spostata in mezzo a quella confusione di insolenti, di facchini, di screanzati, di corde, di tele, di stracci, di lumi, di urli, di diavolerie d'ogni specie. «Sicchè fu Rosilde stessa a consigliarmi di rimanere in casa. Ed io acconsentii di buon grado. «Ma anche là cominciavano a venire seccatori a tutte le ore della notte e del giorno. «Non potei trattenermi dal fare qualche osservazione a mia sorella; ed ella mi rispose con rincrescimento che non poteva metterli alla porta, e che s'usava così e che era una necessità del suo mestiere. « - Ebbene, mi arrischiai a dire, pianta lì il mestiere e vieni via. « - Eppoi? mi rispose; oramai non potrei adattarmi a fare delle privazioni e non so far altro che ballare. Questa è la mia vita, benchè non sia molto bella. «Quanto a bella non l'era davvero; far della notte il giorno, mangiar quando gli altri dormono, andar a letto quando gli altri s'alzano: e sempre la casa piena di gente, un andirivieni continuo, - oh che vitaccia, che vitaccia! «Dopo due mesi già non ne poteva più. Ero afflitta, irritata; mi arrabbiavo, piangevo sempre. Mi pareva di essere in un ospedale di matti, e qualche volta peggio, all'inferno addirittura. Quell'abbondanza mi era uggiosa, ero disgustata di tutto, desideravo con tutto il cuore la povertà, le nostre afflizioni, la nostra casetta in cui almeno si poteva gemere in pace, pregar Dio, mentre là ..... «Ero sempre imbronciata con tutti e anche con la povera Rosilde, che, ne sono sicuro, si sarebbe fatta in pezzi per contentarmi. Ed io ero spesso cattiva con lei, la strapazzavo. «Finalmente presi l'unica risoluzione che mi fosse concessa: tornare al mio paese. «Mia sorella non oppose la menoma resistenza, non tentò neppure un minuto di distogliermi. «Non già che non le rincrescesse, ma s'era accorta di quel che pativo e, come sempre, ella non pensò a sè stessa. «Mi disse soltanto: va bene, fa come vuoi, - ma con una voce che mi straziò il cuore. Povera ragazza!. «Gli ultimi tre giorni che rimasi con lei non volle sentir parlare di teatro, si diede per indisposta, si chiuse in casa con me, mi colmò di tenerezze, di premure; ricordò colle lagrime agli occhi, col più vivo rammarico la nostra vita d'una volta a Castelletto. E non disse mai una parola per trattenermi. Anzi l'ultimo dì sopraffatta dalla commozione e dal dispiacere di lasciarla, essendomi mostrata disposta a smettere il mio progetto mi buttò le braccia al collo, posò la faccia sulla mia spalla e mi disse singhiozzando: « - No, va, va, mia buona Mansueta. «L'indomani mattina prima della mia partenza mi voleva dar tutto il denaro che teneva, parecchie centinaia di lire. «Ma io non presi che quanto mi occorreva per il viaggio. «Non insistè: però mi accorsi che questo mio rifiuto le faceva pena più di tutto il resto. « - Tu non vuoi accettar nulla da me, sclamò. «E mi diè un'occhiata che mi penetrò fin nell'anima. «Avesse ella indovinato il mio pensiero? Lo devo dire, quel suo denaro mi pareva guadagnato a scapito della salute eterna. «Mi accompagnò sino al battello. Oh come volentieri l'avrei menata via con me! «E dopo come mi sono pentita di averla abbandonata così! «Quando fui al paese, che avevo tanto desiderato, tutto mi parve triste, insoffribile non pensavo che a lei, non potevo consolarmi della sua lontananza. Mi chiedevo ad ogni momento: cosa fa adesso? - e mi pareva che avrei dovuto essere al suo fianco per proteggerla, per assisterla ..... «La donna che mi aveva ospitato biasimava continuamente quel che avevo fatto. Ed io cominciava sul serio a desiderare di ritornare un dì o l'altro con Rosilde. «Ma in quel turno ella mi annunziò che partiva per Londra. «Alcuni giorni dopo una vecchia signora di Arona mi collocò presso Don Luigi, suo nipote, il quale da poco erasi qui fissato. «Fu una vera fortuna per me: non potevo augurarmi un posto migliore. In confronto di quanto avevo provato mi pareva un paradiso. «Solo mi angustiava il pensiero di Rosilde. «Da principio ella mi scriveva spesso delle lunghe lettere, in cui parlava di me e del nostro paese. «Di sè, della sua condizione, - mai una parola. «Seppi da uno di Zugliano che tornava dall'Inghilterra che ella aveva là incontrato, che tutti parlavano bene di lei ..... «Ma le sue lettere erano piene di malinconie. «Poi tutto ad un tratto cessarono. «Per molti mesi non ebbi più notizie di lei. Le feci scrivere da Don Luigi parecchie volte, non ebbi risposta. «Una sera, erano quasi tre anni che ci eravamo lasciate a Trieste, l'inserviente comunale mi venne a dire che mi recassi appena avessi potuto a Zugliano in casa di certo dottor de Emma, giunto colà in quei giorni, dove c'era una signora la quale desiderava parlarmi. «Ci andai l'indomani stesso: trovai presto la casa del signor de Emma di cui tutti facevano un gran parlare. E quale non fu la mia sorpresa appena entrato di trovarmi fra le braccia della mia Rosilde che piangeva, rideva e mi baciava tutt'insieme. «Ma, Vergine benedetta, com'era ridotta! Scarna, patita! bianca come una statua. «Mi disse che aveva fatto una gran malattia, che ora stava meglio e che i signori De Emma avevano voluto condurla con loro perchè potesse ristabilirsi. «Il dottor De Emma, lei lo conosce, aveva sposato un'inglese pochi mesi prima, Li conobbi tutte due, furono cortesi con me e m'invitarono a recarmi spesso da loro a trovar la sorella. «Ci andava tutte le settimane il giorno del mercato. «Rosilde era sempre infermiccia, anzi in capo a qualche mese mi parve che peggiorasse. Avrei giurato che avesse dei dispiaceri. Notai che la signora De Emma aveva cambiato con lei; era garbata, ma fredda e come diffidente. Anche il dottore era molto più riservato di prima. «Da Rosilde non si poteva cavar nulla, Soltanto si mostrava più impaziente di guarire, e di riacquistare le forze. Le quali pur troppo non venivano. «Mi diceva: « - Bisogna che mi aggiusti. «Ma non spiegava le sue intenzioni, quel che volesse fare, forse non lo sapeva nemmanco lei. Non parlava mai del suo mestiere. «Passò così l'inverno. «Una sera tardi, del mese d'aprile, io stavo poco bene ed ero già in letto: Don Luigi era fuori. Sento bussare alla porta di strada. Mi vesto, corro ad aprire. E trovo Rosilde in uno stato da far pietà che appena poteva reggersi in piedi. Aveva trovato uno del paese e s'era fatta accompagnar da lui. «Mi dice: « - Ti conterò poi; intanto dammi, se puoi, ricovero per questa notte. « - Ma che t'è accaduto? domando. « - Nulla! « - Che t'han fatto? « - Nulla, sono stanca. «La misi in letto: e ci rimase una settimana con una febbre spaventevole. «Dopo migliorò, e potè alzarsi. Era anche abbastanza serena di mente. «Ma non volle mai dire il perchè avesse lasciato così precipitosamente la casa De Emma. Tuttociò ch'io seppi da lei fu ch'ella non voleva essere di peso a quei signori, di cui però parlava di rado ma sempre con grande rispetto. «Una cosa mi fe' meraviglia. I signori De Emma non mandavano mai a chiedere di lei. Seppi però che il dottore s'informava indirettamente da gente del paese della sua salute. «Io però avevo subito capito che la causa di tutto era la signora e che il dottore era costretto a usar dei riguardi per non farle dispiacere. «Col progredire della buona stagione mia sorella si riebbe perfettamente. «Scomparvero affatto anche quelle infermità che aveva portato dall'Inghilterra. Ridiventò forte, bella come da molti anni non l'aveva più veduta. «Fiorivano le rose nell'orto e rifiorivano anche le sue guancie. «Povera ragazza, non aveva ancora vent'anni: era ben giusto che paresse giovane! «Nei momenti di buon umore era tutto il babbo; allegra, vispa, una vera faina. «Scorrazzava come lei ora per la montagna. «Soltanto qualche volta mi diceva: « - Oh se potessi restar sempre qui con te. «Io non sapevo risponderle, perchè malgrado le buone intenzioni del padrone, capivo che Rosilde non poteva dimorare a lungo in questa casa. «Il pensiero di dovermi separare nuovamente da lei mi accorava: si viveva così bene insieme: non potevo rassegnarmi a vederla riprender quel suo diabolico mestiere. «Ella non ne parlava mai: pure cosa avrebbe dovuto fare? la serva come me, essa allevata in tanta delicatezza? «Mulinavo dì e notte per aggiustarla in qualche modo. Ma, fra me e me, a lei non dicevo mai nulla. «E per circa tre mesi ella non pareva accorgersi dei miei fastidi, e non si dava punto pensiero dell'avvenire, proprio come nostro padre buon'anima. «Cantava tutto il dì come un passero, era una consolazione a sentirla, tanto che delle volte mi attaccava il suo buon umore e vergognandomi de' miei dubbi, dicevo fra me: « - La Provvidenza penserà lei alla povera Rosilde. «Non so perchè cambiò tutto ad un tratto. «Una mattina entro nella sua stanza e la trovo seduta sulla sponda del letto, col viso tutto sconvolto, pallida come un cadavere che piangeva dirottamente. «Gli feci mille domande, non mi disse altro se non che non si sentiva bene. «Poi, dopo il primo momento, si ricompose e fe' di tutto per dissipare le mie inquietudini. Mi assicurò che l'era passato, che stava bene, ma vedevo che non era vero. Per quanto si sforzasse, non riusciva a celarmi una grande tristezza che la opprimeva. «Per quattro giorni io la vidi abbuiarsi sempre più, - e al quinto scomparve senza dir nulla. «Eravamo alla metà d'agosto, al dì dell'Assunta. «Non venne al vespro in chiesa dove aveva promesso di raggiungermi. «Entrando in casa non la trovai più e m'accorsi ch'ella aveva portato con sè alcune delle sue vesti. «Ne chiesi ai vicini se nessuno l'aveva veduta: ma dopo molte ricerche notai che la porticina dell'orto era aperta: Rosilde era senza dubbio discesa nella valle per di là. «La cercammo dappertutto: andai io fino a Castelletto. Non potei venir in chiaro di nulla, «Don Luigi ne fu afflitto quanto me. «Non potemmo saper nulla più fino al marzo successivo, una domenica che capitò qui il signor De Emma a pregarmi di seguirlo fino ad un cascinale presso Zugliano. dove Rosilde era a letto malata gravemente. «Il dottor era un antico amico di Don Luigi e, dopo la partenza di Rosilde, veniva sovente a trovarlo. «Le avevo parlato tante volte di mia sorella, ma egli non mi aveva mai detto di sapere dove fosse. «Eppure io sono convinta che conosceva da parecchio tempo la sua dimora. E dev'essere stato lei a pregarlo di avvertirci. «La poveretta si vergognava di una disgrazia che l'era accaduta. «Andai col dottore e giunsi con lui a una catapecchia miserabile in mezzo alla campagna dove trovai la mia sventurata sorella disfatta in modo da far compassione alle pietre. «Aveva avuto un figlio il giorno prima, - ed era così mal ridotta dalla sua antica infermità al cuore, che l'era tornata con maggior forza, e dagli strapazzi d'ogni maniera sofferti che, come mi avvertì una vecchia che l'assisteva, correva serio pericolo. «Quando la povera cristiana mi vide vicino al suo letto mi buttò le braccia al collo e pianse per quasi un'ora di seguito. «Appena potè parlare, mi contò la sua triste storia, «Seppi allora che tutto il male veniva dal signor De Boni. «Questo poco di buono l'aveva incontrata a Zugliano, dove allora egli andava spesso a trovare suo padre. L'aveva inutilmente perseguitata in tutti i modi. «Le sue molestie avevano continuato anche quando ella era venuta a star qui con me; ed ella era per un pezzo riuscita a tenerlo al dovere. «Ma alla fine quel demonio era venuto a capo dei suoi infernali disegni e da sette mesi la torturava. Non so per quale malefizio colui aveva potuto imporsi alla volontà di mia sorella. «Mi narrò queste cose singhiozzando per il dolore e per la vergogna, e finì col supplicarmi di compatirla. «Si figuri un po': non potei far altro che piangere con lei. «Mi sedetti al suo capezzale, e per tre giorni e tre notti non staccai gli occhi da quel suo volto distrutto, pregando il Signore di non togliermela così presto. «Egli non ha voluto esaudirmi. «Io la vidi consumarsi come una candela. «La terza notte si riscosse da un grave letargo in cui era caduta, mi prese la mano con forza, mi chiese di Don Luigi e mi manifestò il desiderio di vederlo. «Il mio padrone era stato diverse volte a chieder notizie: ma il dottore non aveva mai permesso che egli entrasse nella camera di Rosilde. «Ella mi pregò allora con tanta insistenza che non ardii ricusarle questo suo forse ultimo desiderio e appena giorno salii di corsa fin quassù e indussi il curato a venire con me dalla morente. «Appressandosi alla cascina dove giaceva Rosilde intendemmo il suono di voci concitate. «Nella camera di Rosilde c'era il signor De Boni, ed entrando lo udii che diceva: « - Tu non vuoi darmele, ebbene le prenderò da me. «E aggiungeva due o tre bestemmie spaventevoli. «Pareva un furioso scappato dall'ospedale: metteva tutto sossopra, rovistando entro i mobili come per cercarvi qualcosa che molto gli premesse di avere. «E Rosilde invano cercava di distoglierlo dal suo violento proposito, e gridava e lo scongiurava ..... «La Provvidenza ci aveva mandati in buon punto. «Al nostro arrivo Rosilde sorrise di gioia e arrovesciò il capo stanco sul guanciale ch'io credevo spirasse. «Ma ella ritornò in sè; e stese la mano a Don Luigi mormorando: grazie! siete venuto, siete buono! «Poi dopo qualche momento si volse a me e indicandomi il signor Angelo che si rodeva in un cantuccio d'essere stato sorpreso in così bestiale furore, mi disse con un filo di voce interrotto dal rantolo: « - Costui voleva togliermi delle carte che mi preme di mettere al sicuro. Prendi, sorella, eccoti la chiave di un cassetto che troverai in fondo all'armadio; aprilo e levane un involto che esso contiene. «Obbedii. «Rosilde soggiunse: « - Conservale con cura, esse sono la fortuna della mia creaturina. Suo padre, là il signor Angelo, sarebbe capace di rinnegarlo ed è bene che tu possa provargli all'occasione i suoi doveri. Bada Mansueta di non lasciartele uscire di mano. «Il signor De Boni mi guardava in guisa che pareva volesse mettere in pezzi me e le carte che tenevo in mano. «Se non ci fosse stato presente Don Luigi credo non l'avrei passata troppo liscia. «Ma colui è uomo che pensa sempre troppo bene ai casi suoi e sa sempre frenare il suo furore quando questo può essergli dannoso. «Vedendo che non c'era da farla franca, diè una crollata di spalle ed uscì sagramentando da far traballare la casa. «Con questa bella grazia egli piantò là quella povera martire che moriva per causa sua. «Essa non lo trattenne. «Quando fu uscito si rasserenò; trasse un lungo sospiro. E sorrise di nuovo. «Ci fe' segno di sedere vicino al letto: ci prese le mani e ci guardava con grande tenerezza. Non poteva parlare. Era alla fine de' suoi patimenti. «Di lì a poco sopraggiunse il dottore che fu spiacevolmente sorpreso di trovare colà don Luigi: «Ma Rosilde chinò leggermente la testa e sussurrò a fior di labbra: - son io ..... «Poi nessuno parlò più. «L'agonia era cominciata .....» Mentre Mansueta raccontava io aveva tenuto macchinalmente gli occhi fissi sul ritratto di Rosilde; e, man mano che la triste storia progrediva, quel volto bianco pareva animarsi sotto il mio sguardo: il sangue rifluiva nelle venuzze azzurre della fronte, le tempia pulsavano sotto l'impeto della passione, le pupille inquiete gittavano un'occhiata paurosa dietro le spalle, la vita esile affievolita abbrividiva; le labbra lasciavano fuggire un grido, un sospiro ... Egli è che non v'ha nulla di più vero, di più logico che il dolore, e non v'ha cemento d'anime più possente ed efficace di quello. Perciò l'arte chiede ad esso così soventi le sue ispirazioni, perciò gli deve le sue più forti creazioni. Se mi avessero narrata una vita venturosa, di gioie, di successi, quella creatura sarebbe rimasta un'estranea, una bella ignota. Invece mi si era detto: ella ha patito, ha pianto, - ebbene eravamo conoscenze vecchie. Un uomo felice diventa decrepito centenario; è dimenticato prima che morto. Un altro disgraziato muore giovane: il suo ricordo sopravvive spesso dei secoli. Chi pensa a Matusalem, chi non ha pianto Abele? Dicevano i Greci: - chi muore giovane è caro agli Dei. Certo egli è carissimo agli uomini. Quella giovane donna era scomparsa da vent'anni. Ebbene la sua figura spiccava ancora vivissima sullo sfondo del piccolo mondo ch'ella aveva attraversato: tutte le figure del dramma misterioso che andavo svolgendo da due mesi erano rischiarate dallo strascico luminoso di quegli occhi malinconici. Senza volerlo, fin dal primo giorno della mia dimora al Presbiterio, fin da quel primo colloquio con Aminta nel giardino, io cercavo lei attraverso i meandri delle vicende confidatemi. Finalmente la sua immagine m'era apparsa e mi s'imprimeva nella mente e mi riempiva l'animo di una lugubre, di una penosa amarezza. Quel giorno cercai tutti i modi di distrarmi: e non potevano a tal uopo giovarmi i discorsi di Mansueta. Scrissi prima di sera un mucchio considerevole di lettere; scrissi a della gente che sicuramente non ha mai potuto indovinare il vero motivo di quel mio insolito zelo epistolare. Poi dopo cena fui felice d'aver qualcosa da ingannare la solitudine. Uscii per ispedire la mia corrispondenza. Aveva smesso di piovere, ma saliva dalla valle un alito denso, tepido di umidità. Una rossiccia aureola cingeva la punta accesa del mio sigaro. Il procaccio della posta era già a letto, e per quanto picchiassi non venni a capo di svegliarlo. Stavo per tornare indietro quando la voce del signor Bazzetta si fe' sentire dall'uscio socchiuso della vicina farmacia. - Se avete lettere datele a me; le mie donne le consegneranno a Menico domattina prima che egli parta per Zugliano. Accettai ringraziando e cercai le lettere per consegnarle. Ma lo speziale sclamò: - Per bacco favorisca dentro, al caldo, oh diamine! E uscito fuori, mi prese il braccio e mi tirò nella bottega, anzi nel piccolo camerino dov'ero stato la prima volta. Mi fe' sedere e volle assolutamente che io assaggiassi ancora di quel tal suo vinettino. Uscì e tornò colle bottiglie e si diede a giocar di cavaturaccioli, prima che io avessi avuto tempo di aprir bocca sempre ripetendo ufficiosamente fra i denti: - Cospetto, cospetto, due ditini, due ditini. Versò, poi disse: - Già voi non sapete cosa fare del mio vino e delle mie storie. Non risposi, egli continuò: - Eppure avrei creduto, doveste essere curioso di conoscere la storia di certi nostri amici. Suppongo ch'essi non v'avranno detto nulla. La storia dell'abatino è interessante ..... - So, so ... interruppi infastidito. - Che sapete? mi chiese con un sorriso d'incredulità. - Eh! sclamai, che grande secreto! - Dite quel che sapete; ho paura che occorrano delle rettifiche. - Diamine chi non sa che il signor De Boni è ... - È che cosa? - Il padre ... - ..... putativo, aggiunse subito lo speziale col tono più dolce della sua vocina insinuante. Fè una smorfia, ammiccò cogli occhi e ripetè sempre più piano; - Putativo ... pu ... ta ... ti ... vo. Eh!! L'ultima esclamazione voleva dire: - vedete che questo speziale può ancora insegnarvi qualcosa, signor presuntuoso? - Come? - Per sapere il come bisogna riprendere quella tal storiellina proprio al punto dove l'abbiamo interrotta due mesi sono. È lunghettina. Vi avviso, volete sentirla? per me eccomi qua, - un bicchierino, - fumate vi prego, volete un fiammifero? ecco. «Dicevamo che il signor De Emma aveva con sè due giovani donne: - una, sua moglie, - l'altra, italiana, vezzosissima, i cui rapporti colla famiglia rimanevano ignoti ... allora ... poi trapelò ... Il timore di sentirmi ripetere ciò che avevo inteso di Mansueta mi spinse a tentennare il capo con impazienza, - Sapete che era una ballerina, ricondotta in Italia dal dottore per guarirla dicono di una piccola malattia ... sì ... che rimase in sua casa alcuni mesi per ... anche questo? ... ma i motivi per cui ella lasciò i suoi ospiti li conoscete, no? Fu per la gelosia invincibile della signora ... la quale non aveva poi tutti i torti d'inquietarsi. «Ma diciamo le cose per ordine. Il signor Angelo conobbe dunque la signorina per le cure che questa prestava a suo padre, se ne invaghì, ma per allora le sue maniere buone non incontrarono grazie agli occhi della Tersicore ... i quali pur erano assorti altrove ..... «Alcuni mesi dopo, in seguito a una burrasca violenta, la signorina Rosilde abbandonò la casa De Emma e si rifugiò qui presso sua sorella Mansueta. «Anche qui il signor Angelo l'incontrò qualche volta per istrada, e, naturalmente ostinato come è, egli insistè per ottenere il favore della silfide ... che però era già staggito. Il povero De Boni arrivava sempre fuori tempo; ed anche allora dovette forbirsene i baffi». M'ero studiato di mostrarmi indifferente al racconto e di ascoltarlo con quell'aria di profonda indifferenza che non accetta e non rifiuta. Ma egli era riuscito a cattivarsi la mia attenzione. E a questo punto non potei trattenermi dal chiedere: - E il preferito chi era? - Chi era? rispose con un ghigno malizioso guardando al soffitto coll'apatia simulata di una pretesa superiorità: - chi era? qui sta il punto. Dichiaro che nel signor Bazzetta c'era la stoffa di romanziere. Conosceva e praticava per istinto tutti gli artifizi della narrazione. Egli proseguì: - Una sera ero di guardia nella farmacia a Zugliano e discorrevo col dottor De Emma; capita una vecchierella a spedire una ricetta rilasciata da una empirica, notissima in quei dintorni, per le sue cure d'ogni specie. La cosa era tutt'altro che regolare, ma allora non si andava tanto per il sottile e la medichessa aveva clientela troppo numerosa per poterle impunemente mancare di riguardo. Per espressa volontà del nostro principale noi si spedivano con qualche cautela le sue ordinazioni. «Questa volta però mi parve che le dosi fossero eccessive e guardando meglio lo sgorbio della maliarda mi accorsi che le cifre erano state alterate. «Sospettai tosto di un qualche disegno delittuoso. Quei medicinali potevano servire a certo effetto, che il codice penale, tenero del biblico moltiplicamini più che della galanteria, ha avuto la crudeltà di proibire. «Entrai nel salotto e mostrai senza dir nulla la cartolina al dottor De Emma: egli trasalì e mi avvidi che divideva il mio parere. Dissi: « - La mando a spasso ..... «E mi avviai per eseguire il proposito. «Il dottore mi trattenne. « - Datele un qualcosa d'innocuo: bisogna andar a fondo di questa faccenda; forse arriveremo in tempo di evitar una grossa disgrazia. «Obbedii, e quando tornai nel salotto non ci trovai più il dottore. Era uscito per la porticina del cortile. «Pensai ch'egli avesse tenuto dietro alla vecchierella, e mi domandai se anch'io non farei bene di imitarlo. «Capirete, nella nostra professione, un po' di polizia non nuoce. «Lasciai la serva del principale a guardar la farmacia e via di corsa. «Non durai fatica a raggiungerli. «C'era una luna splendida; la donniciuola trotterellava a stento contro il muro rischiarato: il dottore la seguiva nell'ombra dall'altra parte della strada. «Io dietro a loro, a una quindicina di passi. «Attraversammo la città quant'è larga: la vecchia infilò il ponte della Gora, entrò nel sobborgo, svoltò in una viottola, a destra, che sbuca nei prati del castello, poi rasentò la lunga fila di catapecchie dove abitano lavandaie e finalmente si arrestò davanti a una piccola e lurida casupola a un solo piano. «La facciata volta a settentrione rimaneva nell'ombra meno un piccolo finestrello all'altezza di un uomo, dai vetri quasi tutti fessi e rattoppati di carta bianca ma illuminata internamente. «La vecchierella bussò leggermente all'uscio che fu subito aperto e si rinchiuse dietro a lei. «Il dottore s'era fermato ed anch'io. «Egli esitò qualche minuto poi lo vidi attraversare la strada ed accostarsi alla casa, si pose sotto la finestra e stette in ascolto. «Dopo un quarto d'ora si riscosse come avesse preso una ardita risoluzione, si appressò alla porta, e picchiò colle nocche delle dita. «Questa volta indugiarono nell'aprire. «Finalmente il finestrello si rabbuiò e quasi subito nel vano dell'uscio socchiuso apparve la vecchierella da noi seguita che teneva un lume in mano. «Il dottore scambiò con lei alcune parole che non intesi. «La donna parve perplessa, lo guardava intimidita. «Ma, dopo qualche minuto, si tirò in disparte e lasciò passare il dottore. «La porta fu di nuovo chiusa a giro di chiave. «Allora venne la mia volta di appressarmi al finestrello: già ero venuto per qualche cosa ..... - Il signor Bazzetta mi guardò come per assicurarsi che io non avevo obbiezioni da fare contro l'assoluta convenienza del suo contegno, pronto, se mai, a confutarlo con un'intera batteria di argomenti. Io non battei palpebra. Egli proseguì: « - Mi trovavo dalla stessa parte della casa nell'ombra. Avanzai piano pianino rasente il muro e venni ad appostarmi. «La posizione era sicurissima. Impossibile addirittura l'essere sorpreso. Rimpetto, il muro liscio ed alto della canonica di S. Eustachio. Dalla parte dond'eravamo venuti la strada correva diritta per un lunghissimo tratto senza risvolte e senza traverse: per dippiù era selciato a pietre tanto grosse ed ineguali che si sarebbe inteso un passo lontano un mezzo miglio. In fondo c'erano degli orti a quell'ora deserti. Non potevo essere veduto che dalla casa che stavo osservando. Ma pienamente tranquillo per tutto il rimanente io ero libero di concentrare sovr'essa tutta la mia attenzione. Al minimo segno era presto fatto: due passi più in là svoltavo la cantonata e mi perdevo fra la siepi di sambuco dell'ortaglie. «Il lume era ritornato nella camera, ne vedevo il suo rossiccio riflesso nella strada. Tesi l'orecchio. Il dottore era entrato in quella camera che doveva essere la cucina del povero appartamento. La finestra stava socchiusa per la grande caldura. S'era in agosto poco dopo la metà: una frasca del ferragosto erigeva ancora il suo ispido pennacchio di pino sopra una costruzione poco lontano. «Distinguevo la voce del dottore, sebbene capissi poco quel che diceva. Parlava in tuono di garbato rimprovero, interrompendosi frequentemente. Nell'intervallo udivo un singhiozzo sommesso, poi una sottile, una delicata vocina da donna. Era certo l'incognita dei miei sospetti. « Ebbi ... come si fa a non avere la tentazione di guardar dentro? una di quelle tentazioni a cui non si resiste. Una sola occhiata basterebbe. Mi appiatto contro il muro, mi rizzo sulla punta degli stivaletti, mi aggrappo al davanzale di pietra e caccio la mia fronte fra due vasi, uno di basilico, e l'altro di reseda, profumi di tutta quella miserabile strada. «E guardo e vedo la signorina Rosilde che aveva visto spesso quando abitava dai De Emma ..... «Un baleno e compresi tutta la premura del dottore, il suo sgomento. «Cercavo il bandolo di un segreto, ne scoprivo due, anzi tre ... almeno mi parve. Il dottore teneva una mano di lei nelle proprie: ella accasciata, col viso basso, chino sulla spalla sinistra, tutto inzuppato di lagrime, - una addolorata .... vergine prima del ... dopo del ... ecc., come dice il catechismo. Non pensava a ritirar le sue mani. «Il signor De Emma non la sgridava più; sembrava commosso, dovette farle coraggio. «Eh? che ne dite?» Io non avevo nulla da dire. « - E ritenete queste tre circostanze, riprese lo speziale; ritenete che allora il signor De Boni dimorava ancora a Zugliano col padre, e che la signorina era stata quattro mesi qui, e, come seppi dopo, non era ritornata in città che da un paio di giorni, e finalmente che la loro relazione cominciò dopo quella sera. E pensare che poi gli han dato il bastone bello e fiorito. Bel san Giuseppe davvero! senza neanche la formalità dello Spirito Santo, ah! ah!» Come rideva lo speziale; come si mostrava maligno! - Però ho poi mangiato quella tal foglia! ma tardi, tardi assai .... Ma vi annoio?» Accennai di no nel modo meno aperto che io potessi. - Ma sentite, ora viene il meglio della storiella. Il signor De Boni .... to' eccolo». L'uscio della farmacia sbattè con rumore. Il sindaco entrò nel salottino e, nel vedermi, non potè dissimulare il suo malcontento. Ma io non tardai a levargli la soggezione. Mi alzai e presi congedo dal Bazzetta.

Il dialetto milanese

682110
Rajna, Pio 1 occorrenze

E appunto perchè regioni più abitate da popolani, il Cherubini ci designerà come una specie di Montagna Pistoiese o di Firenze, le Porte Ticinese e Comasina, il Verzee e la più parte dei Terraggi La fama della Porta Ticinese è abbastanza antica. Già il Tanzi, nel piangere la morte del Larghi, dice che …………se el scriveva in Milanes L'era propi on poetta original, Sgiss, sbottasciaa, e de Porta Zines. Il Maggi invece glorifica il Borgh di Occh No l'è todesch forlocch, Ma l'è bon milanes del Borgh di Occh. Ma più solida era la fama di due località centralissime: Poslaghetto e Bottonuto. Così, per esempio, nel Maggi stesso, Meneghino, che dovendosi fingere Pantalone parla un veneziano di nuovo genere, merita d'esser detto, lui, un venezian del Bottonuu e il suo parlare un venezian del Poslaghett E il Tanzi medesimo, poetando Sora i Zerimoni esclama, infiammato d'entusiasmo: Viva el nost Poslaghett e el Bottonuu! Paro che la gloria della lingua sia emigrata adesso dal centro alla periferia; e c'è il suo bravo perchè. Al centro tuttavia cerca di ricondurla la sera il Teatro milanese. Il quale, non contento di tenere acceso in città il fuoco sacro, vestale assidua se forse non sempre incontaminata, da un certo tempo s'è fatto altresì missionario, e porta il vangelo alle genti. Ma qui mi trovo addosso un mugolo di cappe nere, che mi sostengono come qualmente il miglior milanese non si parli al Verziere, non a Porta Ticinese, non al Teatro del Corso Vittorio Emanuele, bensì alla Corte d'assisie e alla Pretüra da certuni di loro che il volgo di corta intelligenza crede parlar italiano. Non hanno tutti i torti: convengano peraltro che cotesto milanese schiettissimo con velatura toscana, non è proprio un privilegio degli avvocati. Io so che lo si sente anche al Consiglio Comunale, nei meeting nelle adunanze degli azionisti d'ogni genere e specie, luoghi tutti dove non c'è caso di certo che un avvocato apra mai la bocca! Scherzi a parte, il milanese italianizzato di quei nostri concittadini, che, « quando loro sono via di Milano, tutti li prendono per fiorentini, » può essere uno strumento utile per chi si propone di rilevare le peculiarità del dialetto, e particolarmente della pronunzia. Sul fondo italiano quelle peculiarità spiccano e si rendono evidenti, presso a poco come appaiono in una pianura allagata le vette degli alberi più alti, rimaste sole fuor d'acqua. Non di tutti peraltro; chè certuni, abbattuti dall'impeto della corrente, giacciono sul fondo. Non s'abbia paura ch'io voglia metter qui lo schema fonetico e grammaticale del dialetto milanese; appena incominciassi a parlare di sorde e di sonore, troverei sordo tutto il mio uditorio, dato che n'abbia uno. Mi limiterò dunque a indicare, servendomi del linguaggio comune, le caratteristiche più persistenti e appariscenti. E badiamo : fin dove posso, le caratteristiche che distinguono il milanese in mezzo alle parlate affini ; non le molte a cui partecipa la sua numerosa parentela. Noto avanti tutto la doppia z, e in parecchi casi anche la scempia, ridotte a rasentare il suono della s. Si faccia pronunziare a un buon ambrosiano bellezza, mazza, spazza, el maester Pastizza, zia, e così via. Conscii di questa loro tendenza, i milanesi cercano a volte di correggerla; e c'è chi va tant'oltre nel santo zelo del bene, da pronunziare Pruzzia e da meravigliarsi che non tutti sappiano evitare quel grossolano sproposito, che è il dir Prussia Il cambiamento di l in r, soprattutto tra vocali, resta sempre un fenomeno abituale, sebbene, per influenza letteraria, vada ogni giorno scemando di estensione. Certo un tempo nessuno avrebbe mai detto altrimenti che viorin, gorà, a quel modo che tutti ancora pronunziano varì. Ma se l'r perde del terreno conquistato, lo perde pollice per pollice, difendendolo da valoroso. La lotta dura da secoli colla peggio dell'r, senza che questa abbia mai dato luogo nel suo animo allo scoraggiamento. Miran per esempio, si poteva già dire un posto abbandonato fin dai primi del seicento; chè il Prissian Milanes osserva: « Quaichun dìsenn Miran, se ben el è più da massè; che nun disem Milan » Una caratteristica assai più importante, dalla quale dipende in molta parte l'intonazione del dialetto, è il suono della n scempia in certe posizioni. e specialmente della n in fine di parola e preceduta da vocale accentata. L' n si fonde allora colle vocali antecedenti, e costituisce con esse delle vocali nasalizzate, come in francese. Il Prissian la paragona al suono che « fa el cordon che bat el bombas: fron fron » Una nasalizzazione analoga, sebbene meno completa, s' ha anche nell'interno dei vocaboli, quando ad n seguano certe altre consonanti. Ma accanto a questa n mezza morta come la chiama lo stesso Prissian il dialetto milanese ne ha un' altra viva vivissima. L' n segua ancora alla vocale accentata; ma sia poi anche seguita da un' altra vocale : essa suonerà allora in modo, che l'alfabeto italiano non ci permette di ben rappresentare nè con un' n sola, nè con due, sebbene in mancanza di meglio, si sia pur costretti ad adottare o l'uno o l'altro partito. Il femminile di bon non è nè bona nè bonna letti all'italiana. L' n di questi casi è vibrata come la doppia toscana, ma più breve e compatta; chè, invece di ripartire le sue articolazioni tra la vocale antecedente e la seguente, le appoggia per intero alla seguente, quasi fosse scritto bo-nna E nella stessa posizione suonano analogamente per ragioni analoghe anche altre consonanti: inse-mma, gne-ecca, e-cco (eco), euro-ppa, poe-tta In fatto di vocali, il milanese ne possiede due ignote al toscano: l'ö quell'ü così caro a molti (si può dire a tutti, fino a pochi decennii fa) da non volersene staccare, qualunque linguaggio essi parlino. Ma quello esercitato su questi due suoni è un condominio diviso con tanta gente che nel caso nostro è anche troppo l'averlo menzionato. Metto poi subito in disparte le vocali atone, che presenterebbero fatti molteplici, ma alquanto sbrigliati e d'importanza minuta, e mi contento di chiamare al redde rationem le toniche ; toniche, s' intende, perchè portan l'accento, non perché abbiano affinità nessuna col Fernet dei Fratelli Branca. La prima cosa che balza agli occhi, o piuttosto agli orecchi, è il molto affetto ai suoni larghi; gli o e gli e aperti abbondano nel milanese. Sono aperti ordinariamente gli o seguiti da n vibrata, da gn, da m, da tt: Marchionn, personna; besogn, vergogna; nomm, Romma; rott, sott, nagotta. Cito solo esempi - eccetto il primo, che è una storpiatura locale di Melchiorre - dove, e il toscano, e anche il più dei dialetti affini al milanese, contrappongono all'o aperto un o chiuso, discendente legittimo di un o lungo latino, o addirittura di un u. Stretto si mantiene nondimeno l'o di insomma, bott botte e non so che altro. In altre condizioni i progenitori decidono della sorte dei tardi nipoti; aperti quindi pocch, socca, foss, or, confort, sporg chiusi mocch, mozzo, mocc mozzicone di sigaro, bocca, ross, occor, descors Un o aperto notevole per la sua peculiarità si ha in giò, giù. Viceversa, sono da avvertire, sebbene non punto peculiari a Milano, gli o stretti delle prime persone singolari foo, stoo, voo, ah'hoo seguito quest'ultimo dal gran codazzo dei futuri; inoltre poo, coo capo. Nelle stesse condizioni dell'o è pur largo l'e; ma questo in molte altre ancora. È largo in generale, ancorchè provenga da un e lungo o da un i, quand' è seguito da consonante più o meno doppia, da gn, e da gruppi di consonanti di cui la prima sia s : scenna, menta, ingegn, colmegna, medemm, insemma, mansuett, mett, giughett, pess, istessa, bellezza, fregg, oreggia, todesch, cresta. L' e è largo del pari nelle terminazioni degl'infiniti della seconda coniugazione : avè, vedè, piasè, ecc. È stretto invece, tralasciando altri casi, quando ha dopo di sè una n scempia, non solo se questa è isolata e sale tutta per il naso, ma anche se la obbligano a prendere un po' più la strada della bocca altre consonanti che le tengan dietro: ben, presenza, dent, vend, scendera ecc. Intrecciamo allo stesso modo un m, e l'e suonerà chiuso anche allora: temp, november, e così via. Perchè l'ö non abbia a dolersi d' una dimenticanza assoluta, lo noterò aperto in poeu, a differenza di più altri dialetti lombardi. Oltre alla larghezza e strettezza del suono, è da considerar bene nelle vocali accentate la quantità. Sicuro: i nostri ragazzi, che nelle scuole strillan tanto contro la maledizione latina delle brevi e delle lunghe, non pensano che nel milanese s' avrebbero a rigore, almeno tre categorie : brevi, lunghe e medie. In fondo, è questa la particolarità che il Cherubini vuol significare, quando distingue un suono vibrato, uno rimesso ed uno stemperato. Del fatto avevano peraltro mostrato d' accorgersi anche prima gli scrittori, adottando il sistema di segnare certe vocali coll'accento grave, di mettere ad altre il circonflesso, e di scriverne molte duplicate. Dei tre gradi possono dar esempio fà, ciallad, veritaa; pè, , spêd, pee, goss, occôr, poo; finna, rid, vorii; brutt, rûd, luu; foeura, foeugh, fioeu plurale). Ridotte a due sole le classi, comprendendo nella categoria delle lunghe anche le medie, che in sostanza le appartengono, si può dire che, di norma, sono brevi le vocali seguite da una doppia o da certi gruppi di consonanti, lunghe quelle seguite da una consonante semplice o da certi altri gruppi. Si noti, per esempio, la lunga di sporg, incorg, confort Quanto alle vocali in fin di parola, parte sono brevi, parte lunghe, a seconda dell'origine. Per il suono, l'a lungo volta la sua faccia dalla parte dell'o sulla bocca di chi parla sbottasciaa; tanto più, quanto maggiore la lunghezza. Nelle scritture del secolo passato a quest' a corrisponde il segno ae. Ora, ravvicinando a ciò il fatto, che realmente cotali a suonano e in certi dialetti rustici, se ne argomenta con apparenza di verità, da alcuni, per esempio, dal Cherubini, che nel secolo passato la medesima pronunzia fosse pure in città; da altri che gli scrittori della città affettassero l'uso del contado. Mi permetto di dissentire da entrambe le opinioni. La seconda conterrebbe forse molto di vero riferita al secolo XVII, all'età classica di Beltramm de Gagian e della sua degna consorte Beltraminna Ma una volta che Meneghin Tandoeuggia ambrosiano puro sangue, milanes de Milan ebbe dato il bando al suo predecessore, il dialetto della letteratura fu universalmente quello della città; del Bottonuto e del Poslaghetto in particolare, come s' è visto. E del resto l'affettazione contadinesca non era per nulla generale nemmeno nell'età antecedente; altro è, si badi, la letteratura milanese, altro quella, tutta artifiziale e punto popolare, dell'Accademia di Val di Bregno e della Badia dei Facchini del Lago Maggiore. Fatto sta che già il Prissian primo varo trattatista del nostro dialetto, vuol propriamente seguire e insegnare l'uso cittadino. E siamo al l606. Quanto all'ipotesi che supporrebbe avvenuto nella pronunzia un cambiamento radicale, la credo da rifiutare assolutamente per ragioni linguistiche e storiche. Ravvolgo le prime nella maestà del silenzio; e mi contento di notare rispetto alle altre, che cotesto ae è rappresentato da un semplice a nella scrittura del seicento e del cinquecento. Gli è ben vero che il Prissian distingue per l'a due pronunzie diverse : la larga e la stretta. Ma la larga è per lui quella di sarà, sarà e serrare, di sara, sala e chiudi, ossia la breve. La stretta è quella « che i Latin antigament ghe diseven l'a longa, es la scriveven dobla inscì: amaabam. » L' ae non è dunque, a mio vedere, che un semplice segno grafico, poco felicemente scelto, e forse non abbastanza felicemente surrogato dai due a, suggeriti appunto dall'uso antico latino, o piuttosto dal passo del Prissian Certo peraltro il bisogno di una mutazione c'era; come c'era per l'ö, che in grazia di un falso concetto della sua natura, si scriveva ancora nel secolo scorso con ou. Ma anche qui fu un rimedio poco felice quello di accumulare tre lettere per un suono solo, introducendo quell'incomodissimo oeu. Ohimè! dove vado? Quo, Musa, tendis ? Nei regni della noia, vorrei dire .... se non ci avessi condotto i lettori già da troppo tempo! Vediamo almeno di essere spicci di qui innanzi; dirò delle flessioni solo le cose veramente caratteristiche. Le più spettano al dominio dei nomi. Va notata anzitutto la formazione del plurale dei femminili in a non accentato, che sia preceduto da consonante o da consonanti. Si perde la vocale che c'era in origine all'uscita, e le consonanti restano allo scoperto : finezza, scoeura, porta, mamma, donna, balarinna, fanno finezz, scoeur, port, mamm, donn, balarinn. Come si vede, l'n mantiene la vibratezza che ha al singolare; anzi, mantiene anche quella che al singolare ha perduto in molti diminutivi; sicchè, per esempio, mammin da mammina — non ispento, del resto, neppur esso — fa mamminn. Tosa è anomalo : fa tosann. A proposito di diminutivi, sono ancor più osservabili i plurali in itt, la più parte per nomi maschili, e unicamente per questi in origine. Parecchi si trovano avere adesso il singolare in in; per esempio, basitt, piscinitt, dencitt ma in realtà sono ancor essi plurali di un singolare in ett, perdutosi per istrada, e non perduto da tutti. Così omitt conserva il suo bravo omett e cereghitt può sempre vantare, accanto a cereghin, il cereghett pizzamochett e il Cereghett, « Covoe Dominus. » Questa rispondenza, ett singolare, itt plurale, è lo strascico di una legge ben più generale, che era un tempo in vigore in gran parte della valle del Po. Per essa l'e accentata dei nomi maschili, al plurale diventava sempre i (l. V. i Saggi Ladini dell'Ascoli nel t. I dell'Arch. Glottologico; passim.. La legge a poco a poco ha perduto la sua forza, non altrimenti da ciò che accade a quelle dei codici; e anche coloro che le si conservarono docili fino a tempi vicini, hanno cominciato ad alzare la cresta. Certo ben pochi direbbero adesso col Porta cavij, basij, scinivij e pochi anche usij, registrato come vivo dal Cherubini. Si conserva paricc, plurale di un singolare che il dialetto non ha; e sembra voler passare alle età future come singolarissimo esempio di fedeltà il pronome quist. Un arcaismo di questo genere, che tutti abbiamo continuamente in bocca senza accorgercene, è, credo, il Bij della Contrada Bij giacchè il casato della famiglia che dette nome alla via era probabilmente tutt'uno con quello, pur comunissimo, di Belli. Bigli deve essere un'italianizzazione altrettanto dotta come sarebbe remissegli, pivegli oppure l'Osteria dei tre Baccelli Nel verbo, noto di passaggio hin, sono, anomalo sì, ma non punto quanto lo fa parere senza sua colpa quell'h peggio che ostrogota; inoltre rammento la flessione, spesso violata, del condizionale: ev, isset, av; issem, esser, issen E alla sintassi manderò di lontano un semplice saluto, rammentando la negazione no, posposta al verbo: Se po no, se po no! ... Sulle differenze tra questo no che si pospone, e il minga che si prepone, potrei dir molte cose, conchiudendone poche; caso rarissimo ! Ma scusi, mi sento dire. Non s' accorge di fare come quando, in una certa società numerosa, il signor X discorre un' ora filata sul suo argomento favorito della concia dei cuoi? O non sarebbe meglio parlar di qualcosa dove ognuno potesse dire la sua? Dica per esempio, se le par bello o brutto il milanese; ne determini, se tiene ai paroloni, il valore estetico! Ecco un punto, su cui tutti hanno idee proprie. Le hanno e le hanno avute. Un' idea l'aveva anche Dante, che si permette di strappare, come erba cattiva, insieme col bergamasco, anche il milanese, e ricorda con una tal quale compiacenza una poesia, che già allora correva in dileggio di questi dialetti: Intel' ora del vesper, Ziò fu del mes d' ociover .... E allo stesso modo non si vergognò di pensare Luigi Pulci, che il 22 di settembre del l473 ebbe la sfacciataggine di mandare da Milano a Lorenzo de' Medici due sonetti obbrobriosi (1. S' hanno singolarmente straziati a pag. 86- 87 delle edizioni dei sonetti del Pulci e del Franco. Io li ho trascritti direttamente dall'autografo, che è alla Nazionale di Firenze, e posso così darne la lezione genuina.), di cui non si laverebbe la colpa con tutta l'acqua del Seveso, del Lambro, dell'Olona. Nell'uno sono gli abitanti che più specialmente si prendon di mira; e solo una terzina deride il parlare: E' dicon le carote i gniffi, i gnarri, Et l' uve spicciolate pinceruoli, Da far, non che arrabiare (1. Prima il Pulci aveva scritto, se non erro, impazzare.) i cani, i carri. Ma l'altro è pressochè tutto un' ingiuria al dialetto: Ambrosia, vistu ma il più bel ghiotton, Quel fiorentin ch' è in chà messer Pizzello ? El non manza ravizze : mò zervello, Ch' el si butta per zerto un gran poltron. Non li san le ravizze mica bon. El son tutte materie! El dise chello Zanzator che Fiorenza è mò più bello, Che si vorrava darli un mostazzon! El passa ! Ha, fiorentin, va scià chillò! El guarda, in fe de dè ! Ma tasi ti, Che 'l non z' à ancor vezzuti il chò di bò ! Et chi credessi un certo odor che è qui Quasi rosea piantata in Jerichò Fussi, io noi crezzo; ch' io lo so ben mi! Ma egli è ben ver così, Ch' e milanesi spendon pochi soldi, Et mangian cardinali et manigoldi ; Et ferrù coldi coldi ! Tanto ch' io serbo all'ultimo il sonetto, Ch' io mangerei forse io del pan buffetto. In fondo al sonetto il Pulci mette questa postilla per Lorenzo : « Nota che cardinali è una cierta vivanda di più cose in guazzetto : manigoldi le bietole : le ferruche son succiole. Ma tu se' milanese vecchio. » Da queste ultime parole risulta che Lorenzo de' Medici sapeva il milanese; ciò vale a consolarci un poco delle insolenze di messer Luigi, il quale poi, per giusto castigo del cielo, volendo dileggiare il dialetto nostro, è riuscito a fare dei versi molto debolucci. La parodia poteva essere, non solo più corretta, ma anche più spiritosa. Ecco venir terzo il Bandello: « II parlare milanese ha una certa pronuncia, cche mirabilmente gli orecchi degli stranieri offende .... » (Parte I, nov. 9). Misericordia! E nessuno si leverà a difesa ? — Milano tutta, come un sol uomo. Lasciam parlare il Prissian : « Par la proùma (1. Si legga proeuma V. quel che s' è detto a pag. 40.) al besogna savè cche el nost lenguag al è el più pur, el più bel, e il miò che se possa trovà. » E anche poco prima aveva detto: « Parlo dela parnonzia del parlà Milanes, ch' alè el più bel che sia al mond ; e si avess temp, e' vel farev vedè ; salv la lengua fiorentena, ch' al' è nassù dala nosta, ma che lor ai l' an lechà inscì on pochin, com' es fa ona sposa. » Qui, per verità, si fa una restrizione alquanto pericolosa, che darebbe forse motivo sufficiente di chiamare il Prisciano stesso davanti al tribunale della Santa Inquisizione. Egli puzza un po' dell'eresia di quel traditore di padre Branda, che un secolo e mezzo più tardi ritornava di Toscana così innamorato o infatuato del parlare di colà, da gettar fango in viso al linguaggio materno in un certo dialogo fatto recitare in pubblico dai suoi scolari. Ed ecco accendersi una guerra terribile, nella quale la prima lancia contro il Branda fu rotta dal Parini, oscuro abate tuttavia. Le ingiurie - usiam parole proporzionate alla grandezza dei fatti - riempirono l'aria; l'inchiostro scorse a ruscelli; e ben cinquanta opuscoli a stampa, vomitati dalle bocche da fuoco delle due fazioni, rimasero sul campo, a testimonio della gran lotta. Chi li vuol vedere, vada all'Ambrosiana, e chieda della Brandana Troverà cose abbastanza divertevoli. Tacque finalmente la guerra; ma le cause e i sentimenti che l'avevano suscitata non vennero meno negli animi, e si perpetuarono anche nei posteri. E così più di mezzo secolo dopo si riaccendeva, se non la guerra, un duello, quando un articolo del Giordani nella Biblioteca italiana faceva montare al Porta la mosca al naso, e lo spingeva a mitragliare l'oltraggiatore dei dialetti colla scarica dei dodici sonetti famosi all'abaa Giavan Ma lasciando gli scherzi e le simpatie: o chi aveva ragione in coceste lotte? - La ragione e il torto non si dividono mai in maniera così netta, che tutto il torto sia da una parte, tutta la ragione dall'altra, dice il Manzoni. E il Manzoni appunto, milanese e affezionatissimo al milanese, così dotto nel suo dialetto da aver pochi pari, assegnava di sicuro una parte di ragione, nel secolo passato al Branda, nel presente al Giordani. I fatti lo dimostrano; giacchè egli fu per suo conto un sostenitore e propugnatore ardentissimo ed efficacissimo di idee molto analoghe alle loro. Qui peraltro corriam rischio d' impigliarci nella quistione della lingua, molto più complessa di quella che s' aveva per le mani. Rientrando nel nostro guscio, diciam pure aperto che nel giudizio sulla bellezza e bruttezza dei dialetti in generale e di un dialetto in ispecie, l'abitudine, ossia il pregiudizio entra per quattro quinti. A molti letterati tutti i dialetti paiono brutti, compreso il loro proprio; alla generalità, e particolarmente al volgo, paiono brutti tutti, a eccezione del loro. Quindi il continuo darsi la baia da paese a paese per ragion del parlare. Da ciò alcuni spassionati conchiudono, che dunque tutti i dialetti sono brutti e belli ad un modo. Non assento : per quanto il mi piace e non mi piace renda malagevole il giudizio, c'è bene anche un grado assoluto e variabilissimo di bellezza e bruttezza. Il difficile sta a poterlo determinare. Non pretenderò già io di esser da tanto; a ogni modo alcune cose le devo dire. Per quel cche spetta ai suoni, il milanese avrebbe una ricchezza invidiabile; ma non ne cava forse tutto il partito che potrebbe, giacchè certi elementi prevalgono un po' troppo, con danno della varietà; e non di quella soltanto. Ricorrono troppo abbondanti le vocali a lungo strascico, nasalizzate e non nasalizzate, che danno al parlare un carattere lento. Nei verbi riesce adesso d'impaccio l'accumularsi dei pronomi, promosso da cause per così dire rettoriche, più che da una vera necessità e dal logorio delle forme; chè, quanto a forme, il milanese è forse tra i dialetti cittadini dell'Italia settentrionale uno dei meno impoveriti dal tempo. Di derivazioni il dialetto milanese è copioso, tanto per i sostantivi che per gli aggettivi. E quanto al dizionario, non s' ha proprio motivo di portare invidia a chicchessia. Se dai caratteri per così dire fisici, si volge l'attenzione ai morali, oh, come ha ragione il Tanzi di esclamare: Gh'emm ona lengua averta, avert el coeur! ll milanese è realmente il linguaggio di un popolo dal cuore aperto, bonario, inclinato alla benevolenza verso ognuno, amante della buona tavola e in generale di tutti i piaceri del senso, lieto, proclive alla sguaiataggine più che alla vera arguzia, ricco di un buon senso alla mano. Un linguaggio fine il milanese non si potrebbe dire : efficace, è di sicuro. Il popolo che lo parla ci si riflette dentro tutto quanto, colle sue virtù e colle sue debolezze: di gran lunga più numerose le prime - si permetta di dirlo ad uno non nato all'ombra del Duomo - che le seconde. Questi caratteri interni si mantengono inalterati, nonostante la variazione delle fattezze esteriori. Giacchè, come s' è accennato in più casi, il dialetto si trasforma, e sempre s'è venuto trasformando in tutto quanto il corso della sua vita. Ben si sa: la trasformazione è condizione essenziale dell'esistenza. Una delle mutazioni di maggior rilievo avvenuta in tempi vicini a noi, riguarda il passato remoto, cominciato a cadere in disuso verso la metà del secolo scorso, rappresentato da pochi superstiti al principio del nostro, e quindi sceso nella tomba fino all'ultimo suo rampollo. Vens, diss, voeuss, spongè ecc. ecc., farebbero adesso inarcare le ciglia al più ambrosiano tra gli ambrosiani. Non si riguardi questa sparizione come un sintomo pericoloso per la vita del dialetto; lo stesso fenomeno sta succedendo, mentre parliamo, nel francese, senza che ciò faccia nascere nessuna inquietudine per la sua preziosa salute. Piuttosto danno da pensare i mutamenti non pochi che si producono nei suoni. Per esempio la z, che aveva preso molte volte il posto del c e del g dinanzi ad e e ad i, è ricacciata di nuovo dal ritorno vittorioso dei fuorusciti. Nessuno dice più zent, nessuno Porta Zines pochi zerusegh, suzzed, suzzess Qui, tanto e tanto, s' ha il trionfo d'un vecchio diritto lungamente conculcato; ma è effetto di prepotenza se molte terminazioni ben legittime in cc sono bandite, o almeno confinate tra la gente bassa; dicc, scricc, facc non si sentono più; non frequentemente lecc, succ e c'è chi spinge lo zelo fino a dire per tecc una parola che non mi permetterò qui di pronunziare. Presi un per uno cotali mutamenti non significherebbero nulla; ma invece destano l'allarme, se si considerano uniti insieme e si riferiscono alla loro causa unica ed universale, che è un graduale ravvicinamento alla lingua letteraria o al toscano. Non ci sarebbe da dolersene, se il ravvicinamento potesse metter capo all'identificazione; ma facciam conto che ciò sia per accadere ad una distanza infinita, là dove s'incontrano, al dire dei matematici, e si danno con un bacio il « ben arrivato, » anche due parallele. E la lingua letteraria non si contenta di pervertire la fonetica del dialetto; ne perverte ancor peggio il vocabolario. Essa v' introduce così alla sordina un numero infinito di vocaboli, ciascuno dei quali circuisce una voce indigena, le somministra un lento veleno, e non ha pace finchè non la vede morta e non ne raccoglie l'eredità. E dire che i tribunali non hanno pene per cotesti misfatti! O non pare evidente che le lingue abbiano diritto ad essere rispettate al pari delle persone? Io non capisco perchè, mentre è severamente vietato di corrompere il toscano col mescolarvi voci, forme e pronunzie dialettali, abbia poi ad esser lecito di corrompere il dialetto con mescolanze toscane. Dunque l'uguaglianza di tutti dinanzi alla legge è proprio un' irrisione? Si parli italiano o milanese secondo che pare e piace: ma l'italiano italianamente, e anche il milanese milanesemente! È inutile: se s'ha a cuore la salvezza del dialetto bisogna, mentre non è ancor troppo tardi, pensare a un provvedimento. E il provvedimento lo propongo io medesimo, dando prova con ciò di un eroismo, che solo gli amici miei possono valutare. Esso dovrebbe consistere in una multa per ogni delitto di lesa meneghità. In altre città il prodotto della multa potrebbe servire a ristorare le finanze municipali; qui da noi invece, dove, grazie a Dio e ai nostri amministratori le finanze sono in complesso abbastanza prospere, converrebbe convertirlo in premi per coloro che parlan più corretto. Ed ecco che, cercando piombo, ci si troverebbe aver rinvenuto dell'oro; giacche, incamminatici per provvedere all'incolumità del dialetto, ci si vedrebbe arrivati inaspettatamente alla soluzione della questione sociale. Che, siccome in generale gli abbienti parlano scorretto, e relativamente corretto i non abbienti, si riuscirebbe ad un capovolgimento nella distribuzione delle ricchezze; i ricchi diventerebbero poveri, e i poveri ricchi ; che è l'unica soluzione del gran problema atta a contentare davvero, non dico chi predica le riforme stando comodamente in alto, ma chi le chiede dal basso.

Vita letteraria

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Sacchetti, Roberto 1 occorrenze

Ci sono delle case editrici anche nelle vie belle e grandi e sono anzi le più famose, ma il giovine autore inedito, non è ancora abbastanza franco per arrischiarsi senza arrossire a sostenere un giudizio in uno studio bene illuminato e frequentato dai principi delle lettere. Fa la ronda davanti alle porticine fracide di vetustà, agli anditi ciechi e lubrici di pattume, ai cortiletti equivoci dove la letteratura, come la bellezza, si può offrire e mercanteggiare tra gente che non si conosce senza molesto pudore. E finalmente dopo lunghe e tormentose esitanze, un giorno ben caliginoso trova l'ardire di metter piede nello stambugio temuto. Il Minosse, sollevando gli occhiali dalle bozze di un qualche medico di sè stesso che ristampa alla macchia, dà una sbirciata punto incoraggiante all'autore novellino, ascolta tra un ordine al proto e un rabbuffo al garzone dormiglioso, le sue proposte e piglia tempo a rispondere. Il manoscritto, tesoro così gelosamente custodito, scompare in un cassetto profondo, sarà dimenticato fra le cartacce condannate o ne uscirà intatto per finire tra le fiamme nel camino dell'autore disilluso. È la sorte, sovente meritata, di tutti i primi lavori. Ma che importa? Il gran passo è fatto ; non c'è quanto vedere l'idolo da vicino per guarire della superstizione. La fiducia rinasce da quel primo disinganno: lo scrittore che brucia il suo scartafaccio ne farà certo e presto un secondo, sono gli impotenti che lo confermano, e con un po' di pazienza e di modestia, se si deciderà a barattare alcuno de' suoi talenti massicci in moneta spicciola, se alle meditazioni dei grandi lavori, vorrà interporre qualche scrittarello d'attualità, troverà modo di risolvere tre o quattro delle sette incognite rappresentanti i sette desinari della settimana. I giornali politici sono, come le parrocchie, certi giorni una cameruccia di soccorso a pianterreno, e i corrieri di ciancie, le rassegne d' ogni genere, le novelle anonime o pseudonime per abbondanza vi trovano ospitalità cortese ed anche generosa. Se non temessi di scandalizzare le pudibonde fantasie dei giovinetti che dalla remota provincia si sollevano all'adorazione della gloria letteraria, direi che di sotto allo strettoio del lavoro utile e obbligatorio scaturisce più copiosa la vena dell'ispirazione. Le difficoltà della forma combattute e vinte ogni giorno affilano ed aguzzano la penna. Anche Salvatore Farina e Paolo Ferrari scrissero rassegne drammatiche settimanali per degli anni parecchi e ciò non fece il minimo torto alla elevatezza dei loro lavori più spontanei e più schiettamente artistici. Emilio Praga, idealista inconscio, ma incorreggibile, che diceva « la lirica è la sola arte vera perchè inutile, » non sdegnava,nei giorni di sconforto e di bisogno, il mestiere letterario; macchinava di far vivere la sua poesia purissima a spese del giornale e del teatro, « trastulli ed intelligenze inferiori. » Progettista sfrenato ed impenitente scoccava de' tiri scellerati alla supposta buaggine del pubblico e quando credeva aver trovato l'idea di qualche nuova, fenomenale mistificazione strizzava l'occhio maliziosamente e con una perfidia estremamente ingenua sclamava: « Ah mio buon pubblico, tu hai a portare l'arte mia, come la mula porta l'arcivescovo; ora ti metterò io la cavezza! » Il guaio era che lui s' invaghiva di quelle sue burle, ci profondeva il sangue vivo del cuore, le ricchezze del suo grande talento ed era lui stesso la prima, l' unica vittima delle sue infernali ciurmerie. Il pubblico recalcitrava e fischiava invariabilmente i suoi drammi. Credereste che lui ne soffrisse. Ma che! artista sempre, abbandonava lui primo la causa dell'autore! mentre la burrasca imperversava in teatro e gli attori rientravano barcollanti, sbalorditi dagli urli e cacciati dai proiettili lanciati dalla platea, Praga si contorceva dalle risa, e pigliava uno spasso infinito dal comico della propria disgrazia; non serbava rancore al pubblico anzi gli acquistava stima per lo spirito che aveva dimostrato accoppando il suo aborto. Fallito il tiro, ne mulinava un altro. Una volta fece, in collaborazione con Arrigo Boito, una commedia, intitolata, credo, Le madri galanti e fu recitata al Carignano di Torino da una compagnia la cui prima donna era analfabeta e bisognava metterle in gola la parte. I due poeti confidavano tanto nel successo che avevano portato con sè, per la rappresentazione, le loro famiglie. Subito al primo atto scoppiò il finimondo. Arrigo Boito, bravo fino alla temerità s'era avanzato tra le quinte più sulla scena, e là, le mani nelle tasche dei calzoni, una sigaretta sfatta tra le labbra sottili, gli occhi aguzzi luccicanti dietro gli occhiali, ritto, impassibile sfidava l'uragano. Praga venne a prenderlo per il braccio dicendo: « Vieni, Arrigo, prima che ci accoppino » e discesero al vicino caffè del Cambio e cenarono allegramente mentre a due passi si faceva della commedia l'estremo scempio. Però mi ricordo che Praga conservava una particolare tenerezza per questa commedia e non diceva, come dell'altre sue, « era una famosa porcata, » ci aveva messo mano il suo Arrigo, per il quale ebbe sempre una devozione fraterna e un'ammirazione senza limiti. Gli amici, ai quali raccontava i particolari buffi dei propri rovesci, sanno che non perdonò mai al pubblico della Scala la condanna del Mefistofele e dopo sei anni il suo sdegno per quel sacrilegio aumentava ancora. Non sapeva rider bene che di sé stesso. Emilio Praga scrisse parecchi libretti per musica, e in questi soventi lo aiutò il Boito, perché il poeta delle Penombre capace di passare una notte intorno al congegno di una strofa, non poteva assolutamente far cosa che richiedesse l'attività continuata e regolare di qualche settimana. Respinto dal teatro si rivolgeva al giornale: aveva nella stampa degli amici dispostissimi a pubblicare qualunque cosa sua, perchè gli volevano bene e perchè il suo nome era pur sempre un valore. Si metteva con ardore a imbastir novelle e racconti per appendice ; era sicuro del fatto suo, avrebbe guadagnato tesori, ci contava, e ne disponeva: offriva generalmente a' suoi più intimi a Boito, a Fontana, a Torelli di collaborare con lui ; un giorno ch' io ero in angustie mi propose candidamente di fare insieme un romanzo per lettera come fosse una miniera da scavare. Lui scrisse la prima lettera; io passai la notte a far la seconda, se la pose in tasca e non se ne parlò più. Il mestiere non era cosa per lui; l' arte ci s'infiltrava a sua insaputa, ci metteva, come dissi, troppo del suo, gli costava più fatica delle sue liriche migliori, e tirati i conti questa pretesa letteratura alimentare non serviva che ad alimentare le sue illusioni. In quindici anni menò a fine, credo, due novelle pubblicate dal Pungolo nel 1867 cominciò nell' appendice della Platea un romanzo, le Memorie del Presbiterio Alla settima appendice il romanzo fe' una sosta: il giornale morì e Praga vendette il romanzo incominciato al Pungolo Per nove anni di seguito ad ogni Natale egli portava al Fortis lo scartafaccio e ne riceveva una cinquantina di lire, poi passato il primo dell' anno lo ritirava per finirlo, l'allungava d' un paio d' appendici e lo lasciava lì. Veniva una cosa ineguale, stravagante, stiracchiata dalle idee più lontane e diverse, ma ricca d'immagini, di pagine splendidissime; l'intreccio gli si arruffava sotto mano sempre più: e lui si compiaceva di smarrirsi in quel labirinto di poesia. Quando era in angustie si risolveva ad un tratto d' uscirne. Avesse campato cent'anni non ne sarebbe mai venuto a capo. Voleva ch' io lo aiutassi a sbrigarsene alla peggio: poi lo diede a Ferdinando Fontana, e questi, quando il nostro povero amico morì nel novembre del 1875, restituì lo scartafaccio sempre monco al Pungolo Anche I. Ugo Tarchetti collocava i suoi romanzi nelle appendici del Pungolo ed era riuscito ad averne trecento lire caduno. Se la tisi e il tifo non lo avessero ucciso a ventinove anni, ora glieli pagherebbero tre volte tanto. L'uno e l'altro ebbero indole schiettamente ed esclusivamente poetica, furono i temperamenti più refrattari agli inviti della realtà. Pure incontrarono sovente le buone occasioni ; perchè Milano è un mercato letterario dove, seguendo le leggi della domanda e dell'offerta, si può procacciarsi colla penna una discreta posizione; lo scrivere non è qui, come altrove, una mania solitaria, ma una professione riconosciuta e quasi regolare. E se il compenso non è tanto, ciò dipende dalla poca estensione della coltura in Italia, dalla scarsità del pubblico che legge e dalla nessuna espansione della nostra lingua all'estero. Ma sarebbe ingiusto l'ostinarsi in un pessimismo senza fondamento, mentre le condizioni dei letterati vanno rapidamente migliorando. A Milano hanno conquistata una decorosa agiatezza Salvatore Farina, Giuseppe Ghislanzoni e altri parecchi; a Milano mandano i loro scritti Ruggero Bonghi, De Amicis, Bersezio, Carducci, Guerrini, Verga, Capuana, quasi tutti i veri scrittori italiani, e sono bene accolti e discretamente retribuiti. * Risolta la quistione dei mezzi di sussistenza, lo scrittore trova qui ogni maniera d'incoraggiamenti e di conforti. E prima la notorietà facile e pronta. Giovanni Verga aveva pubblicato a Torino, a Napoli, a Firenze parecchi racconti senza che il suo nome fosse uscito dalla cerchia de' suoi amici; nel 1873 venne qui, diede al Treves i manoscritti dell' Eva e della Storia d'una capinera e pochi giorni dopo le due maggiori case editrici milanesi si disputarono i suoi romanzi. Luigi Capuana, scrisse per degli anni stupende rassegne settimanali nella Nazione di Firenze, quando Firenze era la capitale, e fuori nessuno lo conosceva: soltanto la sua grande sincerità gli aveva attirato le inimicizie e i sarcasmi solitari di qualche autore impermalito; ebbene ora scrive nel Corriere della Sera e tutti i giovani colti sanno che il Capuana è il più dotto, il più pensatore, il più coraggioso e sincero critico letterario che abbia l'Italia. Milano è finora la sola città nostra dove ci sia un vero pubblico la classe colta coi novantamila italiani delle diverse regioni vi formano un tutto omogeneo, armonico, che vibra e risponde tutto insieme, ad un tratto alla stessa commozione, alla stessa provocazione. Basta un titolo felice, un tratto di spirito, una parola opportuna, un aneddoto piccante, un'arguzia, magari una sciocchezza un po' gustosa per indicarvi all'attenzione di tutti ; uno è subito conosciuto per quel che merita e si può spendere per il suo valore. Certo queste notorietà durano quel che possono durare; vi sono delle glorie d'un anno e delle riputazioni d'un giorno: il pubblico spazza e butta i cocci che gli hanno dato tutto il diletto che contenevano; però è un gran bene quello di non dover lottare e languire nell' indifferenza, di non dover profondere un tesoro di vergini forze nei tentativi sterili, ignorati; il poter misurarsi col giudizio del pubblico, il potente interrogare dà agli spiriti timidi, agli intelletti schivi una giusta misura della propria capacità li rinfranca, li preserva dalle divagazioni solitarie, dagli smarrimenti che avviliscono. La facile notorietà non può far male che ai vanesi, i quali, perchè un bel giorno si sono spinti a galla, credono di poterci rimanere. Milano crea delle riputazioni effimere, ma non dimentica le meditate. Il nome di Manzoni non ha perduto raggio della sua apoteosi; tutti gli anni al 23 di maggio una folla riverente visita la palazzina in via del Morone. Il nome di Carlo Cattaneo conserva tutta la sua autorità; quello del Rovani è pronunziato in tutte le discussioni artistiche : i giovani ricordano con tenerezza Praga e Tarchetti. Al Cimitero monumentale, ne' giardini rialzati c'è una colonnetta mozza con l'epigrafe: Qui giace un poeta e il poeta che giace là è l'autore della Fosca Un brav' uomo di custode mi diceva l'anno passato: Chi insci gh ven semper gent, di giovin, di donn e ghoo vist de quii bei dolor!... Milano, profondamente ignara di quanto accade fuori del dazio, conosce bene tutti i suoi e predilige in particolar modo gli artisti : questa bohême di principi del pensiero, che hanno l' aria di amare l'incognito, ha una grande ansietà, anzi un bisogno assoluto e continuo della pubblica attenzione. Praga, più ingenuo e più sincero di tutti i suoi confratelli diceva: « Io bacerei chi mi loda; » la lode è la vera rugiada dell' ingegno. Qui lo scrittore trova non solamente degli stimoli e dei compensi ai travagli dell'ingegno ma anche dei sollievi continui per la vita d'ogni giorno; una schietta bonarietà, una sincera illimitata indulgenza per le sue ineguaglianze di condotta, per le sue inevitabili incoerenze per le sue necessarie stravaganze di artista. E, quando egli lascia questa città, s'accorge, per la dolorosa esperienza del contrario, come gli fosse necessaria questa amorosa, questa benedetta tolleranza lombarda, e quanto conferisse alla feconda operosità del suo spirito. In nessun altro luogo come qui si combina l'attenzione con la tolleranza; il rispetto con l' indulgenza. Oggi voi fate un marrone, un' imprudenza, e tutti vi gridano la croce addosso: stringetevi nelle spalle, lasciate passar l' uragano ; l' indomani nessuno vi rinfaccia più l'errore della vigilia, qualcuno lo rammenta scherzando, i più lo dimenticano; fate qualcosa di buono e tutti daccapo a ricantare le vostre lodi, tutti premurosi a ridonarvi la considerazione di prima, a risarcirvi dello strapazzo inflittovi momentaneamente. Eppoi nessuna rigidezza aristocratica, nessuna sciocca burbanza borghese: qui tutte le persone educate si conoscono, formano una società sola dove gli artisti non solo sono ammessi ma godono di particolari immunità e si perdona loro volentieri qualche infrazione alle leggi della moda e delle convenienze. Tutti, uomini politici e uomini di affari, nobili e borghesi, avvocati, banchieri, impiegati ricercano la compagnia degli artisti, degli scrittori, dei giornalisti, s' interessano alle loro passioni, si riscaldano alle loro discussioni, vengono ogni sera a pigliare una scintilla alla fiamma sempre viva dei loro ideali, a interrompere la monotonia delle proprie faccende con la cronaca delle loro eccentricità, a ritemprarsi nella loro giovialità schietta e rumorosa. Basta che due di loro si trovino alcune sere di seguito al caffè, alla birreria, alla fiaschetteria perchè tosto si formi intorno ad essi un crocchio composto de' più svariati elementi. In qualche altra città, dove pure la vita artistica prospera e cresce da parecchi anni, gli artisti fanno società a parte. La società che s'intitola da sè stessa la buona società, si degna bensì di ricorrere al loro spirito per interrompere la noia sempiterna delle proprie futilità; ma solo di tanto in tanto, in giorni determinati, giorni di saturnali nei quali ci si permette una certa mescolanza, e in luoghi neutri di dove si esce senza impegni ulteriori : ed anche lì gli artisti si chiamano per precauzione col titolo cavalleresco, ne hanno oramai tutti qualcuno, si antepone al loro nome illustre, la volgarità di un cavaliere, commendatore magari avvocato ed essi hanno la bontà di prestarsi a questa mascherata umiliante, di accettare un formalismo perfettamente grottesco. A Milano non si commette la ridicolaggine di chiamare il conte Maffei, il cavaliere Boito, il cavaliere Ponchielli, il cavaliere Verga. Si dice Boito, Verga .... e si crede di dir molto. Conversazioni esclusivamente letterarie, come a Firenze, non ce ne sono: ma la letteratura non è esclusa mai. Nelle sale della Krammer, in quella società squisitamente mondana s'incontravano Guerzoni, Giovanni Visconti Venosta, Verga, Navarro della Miraglia, la signora Torelli-Viollier più nota col pseudonimo di marchesa Colombi, la signora Speraz (Bruno Sperani) ed altri. Alle domeniche di Cesare Cantù in via dei Morigi ci vanno medici, avvocati, professori d'ogni scienza, il nipote Celso, ufficiale dei bersaglieri ci porta qualche volta dei compagni d'arme, ci vanno delle giovinette, delle mammine, e delle nonne venerande, e tutti si trovano bene nella compagnia degli accademici più laureati. Nel celebre crocchio della contessa Maffei tutte le arti hanno oramai delle tradizioni, perchè da quasi mezzo secolo quei due salottini modesti e ricchi di preziosi ricordi hanno ospitato tutte le notorietà italiane e tutti gli stranieri distinti che sono venuti a Milano. Nel 1835 c'è stato il Balzac; egli ha dedicato alla contessa Clara Maffei uno dei suoi più squisiti lavori La fausse maîtresse e le ha mandato poi le bozze corrette di un altro suo racconto; era, dice lui stesso, il regalo che serbava per i suoi intimi. In que' due salottini sono passate d'allora in poi le generazioni d'illustri che ci hanno lasciato qualche scintilla del loro genio, qualche fine parola, qualche arguzia profonda, qualche aneddoto piccante. La loro memoria è colà viva e famigliare la signora li rammenta con un dolce e tranquillo rammarico come fossero parenti perduti da molti anni. Però questo cumulo di passato non opprime il presente: la conversazione non vi è punto invecchiata, si rinnova sempre e comprende e rispetta e favorisce le idee nuove. Uomini diversissimi per animo, intelletto, occupazioni, divisi nel terreno dell'arte, della scienza, delle convinzioni, degli interessi, s' incontrano in casa della contessa e diventano garbati fra loro, quasi cordiali. Molti non si parlarono mai altrove che fra quelle pareti; fuori di là non si conoscono più. Il ricevimento degli ospiti distinti avviene senza preparativi, senza cerimoniale, senza le solite freddure plebee, colle quali anche in molte case per bene si disgustano gli amici più cari per far la corte al personaggio. Non si offende la modestia nè l'amor proprio di nessuno; ci vanno dei giovani, dei ricchi signori, di quelli che vivono del proprio lavoro, e sono tutti ricevuti allo stesso modo ; nemmeno si annunzia ; entrate e la signora vi porge la mano con una bontà sempre uguale per tutti e vi presenta a quelli che non conoscete. Certe sere trovate la marchesa Visconti, e la Tessero, le nipoti di Manzoni e qualche povera musicista venuta a Milano per tentare un concerto. La presentazione in casa Maffei non implica alcun formalismo, alcun vincolo; la contessa riceve ogni giorno dalle due alle cinque e poi dalle otto alla mezzanotte invariabilmente tutto l' anno salvo tre mesi di estate : ci andate quando volete ; non si è tenuti nè a visite periodiche, nè ad assiduità impossibili. Molti, distolti dalle occupazioni non ci vanno che un paio di volte l' anno: ma l'ultima sera dell'anno tutti i suoi conoscenti ci vanno non fosse che un minuto per augurare alla contessa tutte le prosperità che si merita e a quel suo crocchio gentile un altro mezzo secolo di vita. Colla morte del Tarchetti, del Rovani e di Emilio Praga che in diverso modo e con diversissimi intenti rappresentarono la lotta contro l' indifferenza e il pregiudizio, si sciolsero i tre crocchi che si raccoglievano intorno a loro. Iginio Ugo Tarchetti morì nel 1869. Giuseppe Rovani l'ho visto una volta sola al caffè Gnocchi, nel gennaio del 1874 pochi giorni innanzi che si mettesse in letto dell'ultima malattia: disfatto, appena l'ombra, mi dissero, di quel ch'era stato; pure quel viso accigliato e accidioso aveva ancora uno strano fascino di simpatia e quell'occhio ottenebrato de' baleni che non dimenticherò mai. Alla fine di quel mese in una triste giornata invernale che veniva un' acquetta gelida e penetrante l' accompagnammo accompagnammo al Cimitero Monumentale. C'era anche il Praga, il quale mi ricordo fece una scenata che poteva aver conseguenze, perché un tale recitando l'elogio sulla bara del defunto voleva con l'esempio d' Orazio scusarne « le classiche voluttà dell' intemperanza » e lui, infuriato, si mise a gridare : te voeut fenilla, o asen! Per fortuna il discorso era finito davvero, portavano il feretro nel Famedio, tutti si movevano e l'oratore non intese l'apostrofe. Emilio non ammetteva che si dicesse di uno che aveva il vizio di bere, neppure per iscusarlo. Il povero Praga allora in un periodo di serenità, l' ultimo che abbia avuto, voleva persuadermi e certo era riuscito a credere egli stesso d'essere un uomo ordinato, sobrio, d'abitudini regolari e casalinghe. Teneva la cattedra d'estetica drammatica al Conservatorio di musica - misera cattedra che gli fruttava novanta lire al mese! - e in quel tempo passavamo insieme quasi l' intera giornata; ma lui ad ogni momento, a proposito d' ogni appuntamento ch'io gli chiedevo: « Aspetta che pensi se non è giorno di lezione. » Aveva scritto - e scriveva - un dramma in versi intitolato Altri tempi cinque atti lunghi lunghi, e carezzava amorosamente lo scartafaccio voluminoso. Lo leggeva volentieri a tutti, la sera in quel suo salotto decorato all'antica con mobili Louis XV al lume tremolante d'un candeletto e come la fiammella anche la sua voce aristocratica dolcemente blesa aveva delle incertezze fantastiche, affiochiva di quando in quando, s'addormentava in un mormorio che dava una malinconia profonda e nessuno ardiva interrompere. La sua bella mano si smarriva allora in un gesto vago, come l' ala spossata di una rondine che ripiega il volo: poi ad un tratto egli la portava vivamente alla fronte, se la passava sul viso e, con una facezia meneghina, rompeva l'incanto. Si trattava di un soggetto spagnolo quanto mai, un intrigo di uno studente, di Salamanca intende, con la figlia d' un conte, superbo come un ragno, fiancheggiata della indispensabile duena e il dramma aveva lieto fine. In mezzo a questo polveroso arsenale di logora scenografia, l'autore che a poco a poco s' era innamorato dell'opera sua aveva messo qua e là della vera e splendida poesia; la bizzarra e briosa ispirazione ispirazione rinchiusa in quella bottega di rigattiere, fioriva i davanzali di rose fresche ed odorose. C'era poi una buona vena di comico due personaggi figli prediletti di quel suo umorismo dolce e malinconico, un vecchio zio mezzo scemo o, come il Praga avvertiva, spiritíco; poi un Pilade gobbo, maniaco di classicismo e ubriacone convinto, il quale ne faceva di cotte e crude e quando l'autore s'accorgeva dai nostri occhi che i tiri birboni e le stramberie del suo originale passavano il segno s'affrettava a soggiungere: Te set l'è goeub Con quest'immagine di disunità fisica ch'egli coloriva incurvando le spalle, ribatteva e preveniva tutte le nostre obbiezioni. Venuta la bella stagione trovò un'ortaglia vicino a Monforte, dietro il palazzo Cicogna e là, dopo pranzo, si passava qualche ora allegramente a giocare alle boccie o a fare una partita di chiacchiere in compagnia d'artisti, bravi giovani sempre cordiali e sempre di buon umore. A due passi dalla Prefettura, a dieci dal Corso Vittorio Emanuele, pareva d'essere in fondo a una campagna remota. Alcuni vecchi alberi bellissimi che forse una volta appartenevano al parco del palazzo vicino avevano, là dimenticati, disteso i loro rami da tutte le parti e per questo piacevano all'autore dei Paesaggi che trovava in quella libertà di fronde una certa somiglianza con la immaginosa abbondanza del suo stile. C'era a completare la scena campestre una rustica osteria, ma aveva una usanza deplorevolmente urbana; faceva credito agli avventori e rincarava il conto ai morosi. Praga cominciò coll' andarci anche alla mattina e finì col passarci le intere giornate; voleva rimettersi a dipingere, riprendere il filo da lunghi anni interrotto degli studi pittorici nei quali aveva esordito con lavori che sono pregevoli ancora, e si lusingava di far scontare ai pennelli la improduttività dei suoi versi. "Avrei dovuto far unicamente il pittore, diceva, questa almeno è arte che frutta da mantenere una famiglia. " Ed inutile è soggiungere che non ne fece nulla. In quell'ortaglia si fecero le più care festicciole ch'io abbia mai goduto. Quando venivano amici di fuori li menavamo là a desinare; mi ricordo di una volta che vennero da Torino il Giacosa, il Molineri, il Faldella ed erano con noi il Boito, il Torelli Viollier, Ferdinando Fontana, che fece in fin di tavola questa terribile dichiarazione: « Sono socialista e ne ho il diritto: è l'unica protesta della monade umana contro il dualismo sociale. » Praga era felice perchè Molineri, Giacosa e Torelli sapevano a mente le sue Penombre e Torelli per canzonarlo si mise a recitare i versi Brianza con la monotona e frettolosa cantilena dello scolare che sa la lezione. Povero amico, noi ci accorgevamo che il suo ingegno s'andava spegnendo e non viveva più che nei ricordi. Verso il fine delI' estate, andò in villa dalla Dandolo e ne tornò in uno stato deplorevole già preso dal male che poi lo finì. Mi mandò a chiamare, andai a casa sua in via della Cerva e trovai presso al letto il Cavallotti, col quale era da un pezzo un po' freddo. Il Praga gli leggeva il suo dramma: quando ebbe finito il Cavallotti se n'andò dicendogli qualche amichevole parola e lui poi sclamò tutto commosso: L'è un bon fioeu Lo accompagnammo dopo alcuni giorni a quella stessa Casa di salute dove l'anno prima era morto il Rovani. Tuttavia si riebbe ancora, in primavera esso prese casa fuori Porta Vittoria e ci sfuggiva; al principio dell'inverno, nel novembre 1875 morì ed è sepolto nel piccolo cimitero di Porta Magenta. * Il Teatro Milanese, fondato da alcuni dilettanti che si proponevano modestamente d'imitare a Milano l'esempio del torinese Toselli, e trasformato poi da Carlo Righetti in una regolare compagnia di autori ed attori col titolo solenne di Accademia, era, a dispetto del titolo, un ritrovo di matta e spiritosa scapigliatura. Il Righetti che ha trovato questa felicissima versione italiana della bohême e ci ha dato nel suo noto romanzo scene gustose della nostra vita letteraria, dovrebbe raccontare le vicende, almeno quelle che si possono dire, di quel crocchio del quale fu magna pars egli stesso. Uscito il Righetti, smessi gli intenti, o se volete le illusioni letterarie, il Teatro Milanese è, come locale il ritrovo della galanteria prezzolata, grossa e minuta, come repertorio il piedistallo d'un grande artista e quando questi ne scenderà, perderà ogni importanza. Bisogna però notare che per esso il Duroni scrisse qualche buona commedia e il Fontana vi fece le sue prime armi con la famosa Statoa del sur Incioda. * Ora i superstiti della scapigliatura milanese si raccolgono nel piccolo Caffè del Teatro Manzoni, dove convengono dei repubblicani e dei socialisti tranquilli e bonari come Napoleone Perelli e capita qualche volta, quando è a Milano, anche Ulisse Barbieri sempre in guanti chiari e sempre disperato d'aver ne' suoi drammi fatta strage di tutte le individualità storiche e mitologiche, non escluso il Padre Eterno. Ma il tipo del genere è Fulvio Fulgonio, predestinato fin dal battesimo alla letteratura dei libretti d'opera, ottima pasta d'uomo, indulgente con tutti, anche con la fortuna che lo maltratta da oltre quarant'anni, chè è sempre al verde e tien nota scrupolosa de' suoi debiti. Qualche anno fa aveva un conto piuttosto inveterato col caffettiere, e questi una sera gli fè negare il solito caffè : allora lui s'appressò al banco e avuta spiegazione e conferma dell'ordine disumano con tutta serietà gli disse : « Mi dia dunque venti centesimi perchè possa andarlo a prendere in un altro posto. » Alcune settimane dopo negoziò una buona transazione per un amico ricco che gli regalò, in premio, 2500 lire : lui pagò tutti i suoi creditori e la sera venne in caffè vestito di novo, colla borsa leggera e il cuore più leggero ancora. Ha un figlio in collegio e un suo parente paga per mantenervelo una pensione di ottocento franchi: Fulvio Fulgonio riscuote lui il semestre e lo spedisce regolarmente: non toccherebbe quei danari fosse digiuno da due giorni. Al suo stoicismo sereno fa contrapposto la malinconia curiosa di Cesare Tronconi l' autore di Passione maledetta e delle Madri per ridere perpetuamente in collera contro i critici che maltrattano i suoi romanzi e più contro quelli che non ne parlano. Fulgonio sorride, Tronconi sospira: l'uno fa il suo mestiere alla giornata, senza darsi fastidio del poi, l'altro è in pensiero del poi e se ne amareggia il presente. Nè questo è il solo contrasto di quel piccolo mondo : tutti fanno l' opposizione alle idee, ai sistemi, alle autorità riconosciute; opposizione di massima senz'altro impegno. Del resto tante idee quanti cervelli, e vogliono tutti dire la sua e ne nascono delle dispute che ogni sera ricominciano e non fluiscono mai. Però basta un'ondata di sentimenti per trascinarli tutti. La sera del 9 gennaio 1878 un repubblicano intransigente prese là dentro la difesa di Vittorio Emanuele contro un giornalista radicale e la compagnia gli battè le mani. Però le discussioni, per quanto vivaci, non trascendono in attacchi, non lasciano mai dietro a sé ombra di rancore; e questo è merito della bonarietà milanese. Anche la la massima tolleranza e cortesia: ci va Samuele Ghiron il moderatissimo Violino di spalla del Fanfulla a far pesca di barzellette e di aneddoti e tutti gli vogliono bene. Aforista, apologista, evangelista della compagnia è Felice Cameroni il Pessimista del Sole giornale commerciale, che, in grazia sua, ha accoppiato le rassegne drammatiche e le bibliografie ai listini di borsa e ai bollettini de' mercati senza l'intromissione della politica, acquistando una particolare competenza in materie così diverse da quelle che formano si può dire il suo vero ed unico intento. Tutte le sere verso l'otto il Cameroni è al suo posto, dentro il caffè d'inverno, e fuori l'estate colla faccia volta al pilastro dove sta il cartello del teatro : d'inverno prende un capiler, d'estate una marena invariabilmente. Perchè non conobbi mai uomo più metodico ed esatto di questo apostolo della rivoluzione verista in letteratura e della ribellione sociale in politica. Vorrebbe sovvertire il mondo ma non sarebbe capace di mancare alla garbatezza più scrupolosa; impiegato modello alla Cassa di Risparmio non froda l'orario d'un minuto: le sere di prima recita paga il supplente. E si assicura che questo partigiano della filosofia sensista più desolante, questo apologista degli scrittori che negano la famiglia è un figliuolo modello. Ve ne darò una prova ma non gliel'andate a dire chè gli farebbe dispiacere, non osava leggere a tavola per rispetto a sua madre : e fu lei a pregarlo di fare il suo comodo. Morto il Manzoni la società che si radunava tutte le sere da lui nella famosa casetta di via del Morone si sciolse. I suoi componenti non si vedono quasi più. Giulio Carcano, salvo qualche rara apparizione in Consiglio comunale, fa vita da sè, con la famiglia e alcuni vecchi e fidati amici. Il Cantù riceve, com'ho detto, tutte le domeniche in casa sua: frequenta qualche poco il teatro. Alle prime rappresentazioni lo si vede al Manzoni nel palchettone di seconda fila sopra l' ingresso della platea, e non perde sillaba della recita: quella testolina scarna, eretta, vivace, coi lineamenti fini, marcati, con quella ricca zazzera che appena comincia a incanutire, non è la testa d'un settantenne: ha l'espressione, l'energia fugace, la volontà, la fermezza d'una virilità forte che si direbbe, immortale. Certe volte, quando sulla scena il dramma di qualcuno dei nostri autori più in voga tira innanzi alla meglio, un sorriso arguto brilla nei suoi occhietti azzurri e increspa le sue labbra sottili. Allora, a guardarlo, mi piglia uno strano sgomento: mi pare che egli debba, giudice severo e implacabile, sopravvivere alla nostra generazione e che abbia il còmpito di sotterrarla e giudicarla come ha fatto delle due precedenti. Singolare destino il suo: egli non fu mai bene del suo tempo e la sua vita laboriosa è rimasta sempre in una solitudine morale che avrebbe fiaccato qualunque fibra pieno possente della sua. Per i letterati suoi coetanei, spiriti tranquilli, indulgenti, più studiosi che operosi era troppo giovane ed irrequieto: è era troppo rigido ed austero per i giovani. M' immagino che Cesare Cantù soffra, come altri illustri scrittori, la malinconia di credersi trascurato. Ma la nuova generazione, che, forse egli suppone sconoscente e irriverente, ha tutto il rispetto per lui, venera in lui l'artefice della più vasta opera storica del tempo nostro e non domanderebbe di meglio che poterlo conoscere più davvicino. * Il professore Giovanni Rizzi tiene un crocchio che è anche una scuola perchè composto quasi esclusivamente di allievi e di allieve. Fra queste, due signorine la Sormani e l'Albini, sono, la prima con due commedie, la seconda con alcune novelle, entrate onorevolmente nella vita letteraria. * Però i letterati seguono anch'essi la corrente positiva del tempo: si vedono meno tra loro e vivono un po' più cogli altri. Gli interessi, le faccende e la politica, a Milano specialmente, li separa più che un tempo li unisse la comunanza di studi e di aspirazioni. Il Cavallotti vive quasi esclusivamente co' suoi amici della Democratica. Paolo Ferrari dedica le sue giornate all'Accademia e al Consiglio comunale, le sue sere al bigliardo della Società, patriottica e le sue notti ai lavori drammatici: nessuno sa meglio di lui metter d'accordo nella vita il serio ed il comico, la barzelletta e l' assioma professorale. Al tempo preistorico, mitologico della tenebrosa Consorteria delle F (Fortis, Ferrari, Filippi, Faccio, Fano) il Ferrari era l' ordinatore di beffe graziose e solenni, n' ha fatte tante e così originali che ce ne sarebbe da fare un intero novelliere: ora, non si permette più d' insanire che semel in anno in martelliani al Risotto annuale della Patriottica. * Filippi si trova dappertutto, di giorno al Caffè delle Colonne, al Biffi, al Cova; la sera in tutti i teatri, dalla Scala al Milanese e al Santa Radegonda, entra col suo enorme cappello in testa, v'infligge un aneddoto che deve essere sempre nuovo, ed è detto con tanto garbo che lo si sente volentieri anche per la decina volta; se nel palco c' è un posto buono lo piglia senza farselo dire, ma non è indiscreto; fatta la sua comparsa, spacciato il suo frizzo, s' alza e se ne va senza salutare, se gli stendete la mano ve la stringe sbadato, se allungate un piede ve lo pesta, non vi chiede scusa e tira via sempre collo stesso passo posato e maestoso, collo stesso faccione sereno e sorridente di cuor contento. Perciò i giovani che non lo conoscono, lo credono superbo: a torto, perchè egli è molto più fiero della bellezza molto discutibile delle sue mani che non del suo talento incontestabile. Non ha goccia di fiele: è una buona pasta, e, non ostante la prima apparenza, alla mano con tutti; se fa bene una cosa, se ne compiace per il primo, se la fa notare, e la dimentica; se piglia un granchio, lo confessa, non si sgomenta nè ride, e lo dimentica. Vi rende servigio se può, piglia il suo bene dove lo trova, se lo gode, non invidia quello degli altri. Quando in quando scompare, e qualche giorno dopo compaiono sulla Perseveranza sue corrispondenze da Parigi, da Monaco, da Londra, magari da Madrid o dal Cairo; poi ritorna sempre fresco e tranquillo: egli ha girato così mezzo mondo senza scomporsi, senza affaccendarsi ; il suo cappellone lucido non ha un pelo arruffato, il suo gesto, il suo viso non serbano traccia di stanchezza o di fatica. Non manca ad alcuna festa, ad alcuna allegria: non ha fretta mai ed arriva a tutto e sempre in tempo. Egli è certo l' uomo più felice ch'io conosca, perchè è contento di sè e si contenta degli altri. Buontempone e girellone com'è, dove piglia il tempo di scrivere un articolo o due al giorno e delle appendici di quasi cinquecento linee l'una? Ma chi lo sa? Forse il segreto della sua attività, sensitiva, intellettiva, produttiva a moto continuo sta in questo : non si perde nel fantasticare che, dice bene il Goethe, fiacca l'energia della mente. Il lavoro non gli costa nulla; l'ho visto io dopo una giornata di strapazzo, che avevamo girato molte ore in una città di provincia, con una pioggia torrenziale, e c'eravamo rifugiati in un caffeino pieno di fango e di confusione, pigliare la penna e scrivere difilato quindici cartelle faceziando, facendoci pregustare i frizzi che andava trovando man mano. I suoi articoli hanno, a differenza di tanti altri più raffinati, un gran merito di sincerità e sono spacciati colla naturalezza che dimostrano. Che età ha il Filippi? L' età di chi non vuole invecchiare. Da giovane pareva, dicono persone per la loro età degne di fede, mostrare mostrare più anni di quel che avesse ; ma s'è fermato presto e da un gran pezzo. * Se, tra mezzogiorno e la una, vedete un brougham alla porta del Caffè Cova, è certo che aspetta Leone Fortis, che lo fa aspettare delle volte un buon paio d' ore. Se glielo rammentaste risponderebbe che non può tener carrozza propria. Ed è una vera ingiustizia, perché egli è nato per fare il gran signore. A quell' ora o mangia in silenzioso raccoglimento la sua bistecca quotidiana innaffiata con dei sorsellini del non meno quotidiano bordò, o fa il chilo, una gamba sull' altra, la mano sinistra sul polpaccio o magari sullo stivale, la destra che fa di quando in quando un gesto largo e ricade, la persona abbandonata , il ventre arrotondato, la testa rovesciata sulla spalliera in atto di noia suprema. È un atleta in riposo. Parla di rado e a pause, durante le quali, alza il labbro inferiore e si beve i baffi. Così pure sta la sera nel suo palco al Manzoni. Come tutti gli uomini d'indole dominatrice non è mai solo: è corteggiato come si conviene alla sua potenza. Molti che gli dicono dietro le spalle ira di Dio sono con lui manierosi e gentilissimi; lui non s'illude menomamente sulla sincerità di queste garbatezza, ma, sovrano indulgente, si contenta del loro omaggio ufficioso e lascia correre. Certe volte, quando qualcuno che ce l'ha con lui, affetta di non vederlo, gli pianta gli occhi addosso ed è ben difficile che non riesca a farsi salutare. Non ho mai visto alcuno passargli vicino proprio indifferente. Così stracco, tediato, uggito - queste sono le tre gradazioni della sua accidia apparente - sembra non si interessi a nulla, si secchi dell'universo mondo - eppure non gli sfugge parola del discorso e del gesto degli interlocutori ; spesso non vuol vedere - ma vede e osserva istintivamente e dopo anni ed anni vi riproduce il personaggio o la scena più impercettibile con un' esattezza prodigiosa. Se l'argomento è vivo e interessante davvero, v'accorgerete dall'articolo che scriverà l'indonmani che egli lo ha afferrato nelle mezze tinte più fine e delicate. È un lavoratore a scatti; sonnecchia un poco, ma quando si sveglia è d'una attività formidabile, scrive due, tre, quattro articoli di seguito con quella sua mano lenta, sdegnosa, risoluta, s'abbandona ma dice esattamente quel che vuole o come vuole, e trova degli accorgimenti, delle sottigliezze, che affascinano gli avversari e fanno qualche volta disperare gli amici politici. Nei giorni di lotta fa tutto il giornale lui e non c'è nè spazio, nè orario che peni: se non bastano quindici colonne si fa il supplemento e se il giornale non esce alle quattro escirà alle cinque, alle sei, alle sette - gli abbonati di provincia non lo ricevono, ma sta pur certo che in città lo leggono tutti e ciò gli basta: il suo regno è Milano, egli vi ha inaugurato la sovranità della stampa, la tiene e non dà segni di voler abdicare. Ci sono a Milano dei giornali solitamente più dotti e più precisi o più piacevoli; ma al tempo delle elezioni, o di una qualche viva quistione amministrativa o economica, o teatrale, o artistica, che stuzzichi particolarmente il sentimento, l' interesse, o anche solo la curiosità del pubblico - il Pungolo è ancora com' era quindici o vent' anni addietro, il leader della situazione. È articolista, polemista, critico tutto a modo suo e sempre impareggiabile. L'Illustrazione italiana era un foglio noto per i suoi disegni unicamente; dacchè il Fortis vi scrive quello sue famose Conversazioni è diventato anche un periodico letterario. Leone Fortis, Leo fortis come lo chiamava il Bianchi Giovini, un tempo suo avversario, è un nome felicissimo, tanto felice che par trovato apposta per lui: esprime tutto l' uomo. Infatti egli è buono, indulgente, tollerante, ha degli abbandoni d'una bonomia commovente, ma guai a stuzzicarlo, guai poi a cascargli sotto. Però perdona e, se non dimentica, trascura. Egli vuol bene a 'suoi amici, nessuno sa rendere un servigio con maggior garbo di lui e non lo rinfaccia. Quelli che non gli voglion bene lo temono o perchè ne hanno paura o perchè ne hanno bisogno. È entrato da quindici anni nel partito moderato non come recluta ma come capitano, anzi come potenza alleata; ha le sue schiere e ne dispone dispone, ha i suoi ufficiali e li impone. Alla Costituzionale benché s' inquietino della sua indisciplina e lo tengano quasi come uno eresiarca, gli fanno volentieri delle concessioni, perché sarebbe malagevole combattere senza di lui, e sarebbe causa disperata combattere contro di lui. In mezzo al parapiglia politico è rimasto l' artista del Cuore ed Arte ama le forme e un po' la scena, va tutte le sere al teatro, non scrive più drammi, drammatizza la vita per suo conto, e così la gusta in grazia della forma che lui gli sa dare. Detesta il realismo - se diventasse realista si annoierebbe troppo. * Al Cova nello stanzino in fondo si trovano la sera alcuni scrittori e ispiratori della Perseveranza il direttore Landriani, la modestia personificata, che si nasconde, scompare nell'opera sua tanto che molti lettori del suo giornale ignorano il suo nome e la sua esistenza; l' avvocato Zambaldi, gentilissima persona, moderato estremo, scrittore mordacissimo; Camillo Boito, il dotto critico artistico, architetto, novelliere, scrittore possente, a cui la Costituzionale ruba molte ore che l'arte saprebbe rendere più utili. La politica li unisce troppo tra loro e li divide troppo dagli altri. * Al Cova, verso le quattro ci va anche Arrigo Boito e vi si trattiene una mezz'ora. Fuori di lì non lo si vede in nessun posto eccetto che a casa sua in via Principe Amedeo n. 1 dove del resto non è facile penetrare : i suoi amici picchiano in un certo modo convenuto alla finestra del suo stanzino che è a terreno verso strada. Perchè Arrigo Boito, con tutta la riputazione di pigrizia che s' è fatto, lavora indefessamente tutti i giorni dalle nove alle quattro ; chi passa sotto la sua finestra è quasi sicuro di sentire la voce flebile del suo pianoforte che gli ripete le armonie di Bach e ne riceve le gelose confidenze delle sue ispirazioni. Non già che abbia il lavoro stentato, tutt'altro, prova ne sia che l' anno passato ha scritto in poche settimane il libretto del Jago per il Verdi, ma è incontentabile dell'opera sua e il Nerone fu rifatto già tre o quattro volte da capo a fondo. Se parlate con lui lo trovate pieno di condiscendenza: non fa nè teorie nè dissertazioni, nè sproloqui d'arte; approva tutto quel che gli dite con dei frequenti: benissimo, perfettamente, sicuro, pronunziati con quel suo accento originale, marcato, sensibilmente enfatico, e forse pensa ad altro. Non discute che con sè stesso; si direbbe che, stanco della lotta quotidiana colle due mura che lo inebbriano e lo tiranneggiano, non voglia fare uno sforzo inutile per contraddirvi. La sua camera stretta e profonda, incomoda, con delle raffinatezze impercettibili, ha una scrivania su cui trovate una Bibbia, una raccolta di pentasdruccioli, i volumi di Bach e di Marcello e un diavolino di Cartesio, rappresenta bene le due faccie di quel suo prodigioso talento: la severità e la bizzarria. * Uno degli intimi suoi è Luigi Gualdo, il romanziere gran signore, che non pensa a ricavar guadagni dal suo lavoro per l'invidiabile ragione che ha da vivere del suo, ma che senza alcun scopo di lucro, lavora non per vanità, per un vero bisogno d'artista. Per Milano lo si vede di rado anche lui, qualche volta l' inverno verso le quattro quando fa bel tempo esce a fare un giro sul Corso tutto solo, le mani nelle tasche, astratto, pensoso, e per questo e per la sua singolare maniera di vestire, ha l'aria d'un forestiere. Vive solitamente rinchiuso, la sera fa delle visite. D'estate va sul lago, ogni anno passa alcuni mesi a Parigi e scrive da qualche anno in francese, per non commettere - dice lui - de' francesismi. * Lo scrittore più mondano dopo il Filippi è senza dubbio Giovanni Verga, che abita qui a intervalli, vi conosce e frequenta la società più aristocratica ma solamente quella. La prima volta che lo vidi fu in casa Maffei una domenica sera che le due salette erano piene di signore tra cui sei o sette giovani e molto belle, e queste lo circondavano in modo ch'io non mi potei appressare a lui. Lui stava lì contegnoso in silenzio in mezzo al vivace cicalio, e sorrideva di quel suo sorriso serio, a fior di labbra che fa malinconia. Per questo suo fare riservato misterioso che dimostra patimenti profondi non meno che per la eleganza squisita del suo sentimento artistico dicono che abbia delle avventure. Non gliene state a chiedere a lui ; è così poco vanesio che non ve ne direbbe nulla, anzi vi riderebbe discretamente sul viso. Però anche a Milano, nella più allegra e socievole città d'Italia, gli scrittori non fanno più la vita scioperata d'una volta. Gli è che la letteratura è diventata un lavoro e che lavoro aspro indiavolato! Non basta più scrivere qualche centinaio di versi e nemmeno un volume, per guadagnarsi un vitalizio di considerazione. Il pubblico è più vasto, legge di più, ma dimentica più facilmente. Anche a Milano s' è smesso il vizio di girellare tutto il giorno da un caffè all' altro e prima delle quattro sarebbe difficile trovare nella galleria altri che i soliti cantanti a spasso. Ci sono degli scrittori tuffati da mane a sera e tutto l'anno nell'opera propria, e ci dicono che il tempo passa troppo presto. Esempio: Luigi Archinti, il brioso e competentissimo critico artistico del Corriere della Sera non va in nessuna società, nessuno sa che vita faccia: o piuttosto si sa benissimo, lavora indefessamente: la scrittrice che tutta Italia conosce col pseudonimo di Neera e di cui ben pochi sanno il nome vero è una modesta madre di famiglia, molto seria benchè di carattere vivace e giovanissima, vive unicamente per la famiglia, lavora per la famiglia e come: tre o quattro romanzi all'anno, articoli per il Fanfulla, per il Corriere del mattino per la Gazzetta Letteraria per sei o sette giornali minori, e si lamenta che gli editori non gliene stampino quanto si sentirebbe di farne. * Uno che non s'incontra mai a ciondolarsi o ad ammazzar il tempo è Salvatore Farina. Si può quasi dire che non sta a Milano. Evita assolutamente le società letterarie: l'anno passato aveva preso gusto al giuoco del bigliardo e per soddisfarlo senza avere il rischio d' imbattersi con de' confratelli si associò a un certo circolo commerciale ed agricolo tutto di fittaioli, di bottegai in ritiro e mercanti di grano : ci andò per tre o quattro mesi tutte le sere un'oretta a far la sua partita beatissimo del suo supposto incognito. Ma una sera ch' era nata una discussione intorno a certa frase di giornale, dove si vanno a ficcare i critici! uno della compagnia si appressò a lui e lo interpellò: ch' el disa on po' lu che l'è on scritor an lu?... Inutile aggiungere che d' allora in poi non l' hanno più visto. È innamorato della propria casa e spende tutte le sue cure, tutti i cari momenti d' ozio per farla bella, comoda, confortevole e godersela in santa pace. Sarebbe felice se ci fossero dei felici a questo mondo: Salvatore Farina ha come tutti gli uomini soddisfatti del bene che hanno, il timore di perderlo; soffre di iponcondrie periodiche ora per il polmone, per gli occhi, per il ventricolo e che so io. Quando lo pigliano coteste malinconie consulta medici di cui non eseguisce le prescrizioni, butta via le loro ricette, si sottopone a delle cure eroiche di sua invenzione e naturalmente guarisce sempre. La famiglia non è soltanto il suo ideale letterario, è l'obiettivo, il sentimento dominante di tutta la sua vita. Se siete tristi, se avete la famiglia lontana, se gli svaghi soliti non vi soddisfano, se le solite conoscenze sono in disaccordo col sentimento dell'animo vostro e Milano vi sembra una rumorosa solitudine, in questi momenti di sconforto e di accidia andate da lui e troverete la una vera famiglia, quasi un profumo di casa vostra, una buona e amorevole intimità, la migliore intimità, quella che non esclude i riguardi e implica la reciproca stima. Salvatore vi darà del lei, non mancherà di usarvi tutte le garbatezze ma per di più si interesserà alle cose vostre, potrete contargli i vostri fastidi, le vostre pene come a un fratello e a un amico d'infanzia. E lui s' interessa veramente a quel che gli direte e vi parlerà senza finte compassioni, senza tenerezze convenzionali, allegramente con franca e delicata giovialità, magari vi condurrà a scherzare del vostro sconforto; fatto sta che uscirete col cuore più leggero e quasi quasi non vi rammenterete le vostre pene. È uomo di spirito ma altrettanto buono: sarebbe difficile ingannarlo, conosce bene, da subito, le persone, ma per temperamento ha bisogno di crederle oneste e sincere. Ha poi la benevolenza memore ed operosa ; se gli confidate un bisogno, dopo qualche settimana quando credete se ne sia dimenticato e forse non ci pensate più, trovate alla porta un suo biglietto. Egli s'è ricordato di voi ed ha cercato e trovato il modo di rendervi il servigio che vi bisogna e che forse non gli avrete neppure domandato. In casa Farina il sabato sera, si riuniscono alcuni amici, tutte conoscenze della famiglia; ci va Eugenio Torelli Viollier, direttore del Corriere della Sera con la sua signora, la marchesa Colombi Giovanni De Castro, i due Ghiron e qualche altro. Non si parla nè di politica, nè di letteratura. Si fanno dei discorsi casalinghi, si parla di cucina, del tempo, dei figliuoli. Torelli ha sempre in tasca qualche nuovo rompicapo, egli è, lo si sa, appassionato degli indovinelli e delle mistificazioni innocenti, ciò che non gli impedisce d'essere un brillantissimo scrittore, un giornalista serio, dotto, studioso, coscienzioso come ce n'ha pochi; si dicono delle barzellette decenti, si gioca una partita a campana e martello, si fanno magari quattro salti e si concerta qualche desinaretto per le grandi solennità. * Ma non tutti hanno il temperamento, gli agi, i conforti necessari per vivere continuamente da sè; e Milano ha questo di buono che mentre potete star nascosto dei mesi e sottrarvi completamente alle molestie, agli oziosi, ai seccatori, se ad un tratto vi piglia, come piglia a molti lavoratori solitari, il bisogno assoluto e repentino di veder gente, voi potete a qualunque ora, dalle quattro della sera alle quattro del mattino trovare buona e gaia e confaciente compagnia. E, ne converrete, una facilità preziosa e che non si ha dappertutto. Il forestiere, chi è rimasto lontano molto tempo è sicuro di trovar qualche amico, qualche compagno che lo rimette al punto della vita milanese. Gualdo, Verga, capitano così al Biffi dopo mesi e anni di assenza e non manca mai chi alle tre del mattino li accompagni fin sull'uscio di casa loro. Al Biffi per tre o quattro anni è durato un crocchio dei più gioviali e dei più svariati; ci veniva, come ho detto, un po' di tutto; impiegati, avvocati, professori dell'Accademia, superstiti redattori del giornale la Vita Nuova giovani letterati, che sono usciti dalla vita letteraria, che non hanno ancora trovato il sentiero buono d'entrarne, il romanziere e critico Virgilio Colombo, DeMarchi poeta e scrittore valente e troppo modesto, Giovanni Pozza grande inventore di romanzi e di novelle bellissime, già tanto belle in embrione che è un vero peccato scriverle. Ma l'anima, o per meglio dire il pontefice di questo sinedrio era Luigi Capuana; difatti c'è in lui il misticismo, l'eloquenza, l'unzione del teurgo e del filosofo: conosce tutto, legge tutto; e se lo mettete sul discorso sa parlar di tutto e bene e profondamente. È perpetuamente innamorato, ma quando un intrigo gli va per le lunghe e gli riesce difficile - lui ha bell' e pronta una catastrofe di suo genio e ne fa .... una novella. Però tutte quelle sue novelle famose sono tutte cominciate in terra e terminate nelle nuvole; noi, per burla, lo chiamavamo il vecchio dacchè ha capelli pochi e canuti e baffi candidissimi in flagrante contraddizione non solo coi suoi quarant' anni ma col viso florido e giovanile. Qualche maligno aggiungeva che portava bene i suoi annetti, difatti a prima giunta ha l'aspetto di un vecchietto ben conservato. Poi lo si presentava come il nostro papà e lui pigliava la canzonatura con spirito. Ora la bella compagnia è un po' sbandata, ma se ne formano continuamente delle nuove, allo stesso posto, e al Gnocchi e alla fiaschetteria Toscana: e Samuele Ghiron ha la sera il suo da fare per girare dall' uno all'altro per cercare aneddoti, e spacciare quelli che ha raccolto. * Scontenti di Milano non ne conosco che uno: Dario Papa, l'irrequieto e valoroso dp del Corriere. È uno spirito ansioso di operosità febbrile, di progressi fulminei e colossali, desidera un mondo nuovo e sogna continuamente di andare in America. E ci anderà un giorno e forse troverà che somiglia ancora troppo a questo suo mondo vecchio, ma buono, e tornerà a desiderare e a ritrovare la sua Milano che ha saputo apprezzarlo e lo stima per quel che vale e gli darà certo l'avvenire che si merita. Fatto sta che quando siete stato un anno a Milano vi ci affezionate e la grande città vi ha adottato per sempre: lontano, voi avete sempre istintivamente dei confronti in suo favore, penserete ad essa come al paese veramente vostro perchè scelto da voi e se ci ritornate vi accoglierà come uno de' suoi figliuoli. ROBERTO SACCHETTI. Il 31 gennaio scorso, Roberto Sacchetti mi spediva da Roma questa monografia sulla Vita letteraria a Milano e mi dimostrava desiderio di vederne le bozze di stampa. Povero amico! Io riceveva le bozze da Firenze proprio il giorno in cui il telegrafo recava la triste notizia della sua morte che tanto addolorò quanti l'avevano conosciuto ed avevano avuto campo di pregiarne l'animo mite, l'aperto intelletto e le tante virtù. G. OTTINO.

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