Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tecnica della pittura

254114
Previati, Gaetano 15 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
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È sempre la stessa causa d’irregolare costituzione dello strato colorato che dà luogo alle vesciche piccole od ampie, onde a ragione si comprendono nell’unico difetto dell’aderenza del colore all’imprimitura o al piano sottostante, alla quale aderenza non si è provveduto abbastanza o per la qualità e proporzione dei glutini, o perchè si è operato in modo, per la condotta dello strato dei colori, che si sono venute a creare forze opposte all’aderenza stessa.

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Il Cennini, con ordinata esposizione, senza dimenticare il menomo particolare, salvo che per la vernice finale, insegna come si conducessero quei dipinti che, anche dal lato della pura esecuzione materiale, rimarranno fra le manifestazioni più sorprendenti dell’arte, finchè la cognizione dei processi tecnici sarà illuminata abbastanza per misurare a costo di quale resistenza del materiale impiegato e di quale tirocinio per dominarlo si debbano i capolavori della tempera.

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La ragione di richiedere la massima intensità nei colori da porsi sulla tavolozza si spiega abbastanza riflettendo come dai colori intensi col sussidio del bianco possa discendere un’infinita gradazione di tinte più chiare, mentre da colori chiari sia impossibile risalire a più intensi quando non si avesse che il nero per modificarne il tono.

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Il Libro dell'arte del Cennini è il solo che si abbia intorno alla manualità della pittura dopo il rinascimento delle arti, perchè gli scrittori che vennero dopo, salvo l’Armenini, che compendia abbastanza chiaramente le pratiche degli artefici del secolo XIV, sulle quali il Vasari nelproemio alle Vite, più che soffermarsi ebbe a sorvolare, intendessero alle speculazioni filosofiche anzichè ai provvedimenti più utili dell'esercizio dell’arte.

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È là dentro in questa infinitamente piccola intelaiatura di molecole e di spazi, in questo mondo nelle sue più minute particolarità ancora inaccessibile ai mezzi odierni di indagine, ma nei rapporti colle leggi che ne governano i fenomeni ottici abbastanza studiati, almeno in quei casi che su più vasta scala si possono riprodurre artificialmente, che si decide dell’aspetto di quelle masse pietrose talvolta dalla durezza granitica che nulla potevano suggerire al ricercatore ridotto a misurarne la resistenza alle azioni molteplici del tempo battendovi le nocche delle dita o pestandole con un martello.

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Le proprietà delle vernici, per essere delimitate mentre le cause alteranti i colori sono molteplici, diventano così molto spesso dannose in vario grado sullo stesso dipinto, specialmente per tutti i colori che hanno tendenza ad ingiallire per il notevole ingiallimento che esse stesse subiscono col tempo, e se tuttavia in parte sono indubbiamente utili, non sono poi applicabili a tutti i processi di pittura, anzi si limita la loro convenienza alla pittura ad olio, cosicchè in generale si può dire che mancano i mezzi per formare attorno ai dipinti quella sospensione di forze che hanno nel calorico, nella luce, nell’atmosfera, nell’affinità chimica, i rappresentanti più influenti sulla natura delle sostanze coloranti; onde la vagheggiata inalterabilità, e peggio, perpetuità dei colori, non ad altro veramente si riduce che nelle qualità intrinseche delle materie coloranti stesse, qualità delle quali si è detto abbastanza in che limite possano avervi luogo e quanto deve essere considerato ancora l’affievolimento ad esse portato dall’impiego pittorico.

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Da un impiego di sostanze mai abbastanza conosciute e dall’essersi sempre le vernici per l’uso dei pittori fabbricate alla spicciola secondo criteri personali piuttosto che dietro un tipo riconosciuto preferibile, sulle vernici adoperate per molti secoli dalle scuole italiane ed estere non si ebbero che farragini di ricette l’una più diversa dall’altra.

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Quando si giudica il vetro abbastanza caldo che non abbia da spezzarsi, si appoggi con riguardo sulla parte più moderata, che non deve essere quasi più niente che cenere calda. Si lasci un momento allo stesso posto, poi si avanzi a poco a poco, per gradi, sul fuoco più vivo, ma senza alcuna parte che fiammeggi o guizzi; si rimuova spesso la bottiglia prendendola pel manico di carta; infine gradatamente si ponga sulla fiamma viva.

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Travasata la colla in un tino, per un grossolano filtro fatto di graticci sparsi di paglia, si lascia riposare alquanto ed ancora calda si versa in grandi scatole di legno bagnato dove si lascia congelare abbastanza per poterla tagliare in pezzi rettangolari che si pongono a seccare su reti di filo. Secchi i pezzi si lucidano strofinandoli con pannilini.

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Naturalmente prevalse il buon senso di non fare questione di parole ma di sostanza — quantunque si potesse dimostrare, che anche la parola restauro non sia abbastanza lata per coprire le conseguenze ultime del rifacimento pittorico — e in ogni modo per i caratteri veri che il ritocco inevitabilmente viene ad assumere vi siano i termini precisi che lo identificano, onde il malinteso che può venire dalla imprecisa significazione di questa voce effettivamente non accade che per gli intenzionati di abusarne.

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Il non trovarsi che raramente nelle case, nei palazzi, nelle chiese opportunità di luci che permettano a colpo d’occhio di penetrare in ogni minima parte dei dipinti che vi si contengono, nè il possesso di opere di pittura implicando la necessità dell’intelligenza dell’arte spiega già abbastanza come in una grande quantità di casi il lavoro di restauro pittorico non si potesse apprezzare nella sua essenza e nella sua tecnica materiale. D’altronde senza spingere la convinzione che sull’intelligenza dell’arte prevalse sempre il gusto superficiale del decorativo sino ad asserire che da questo venne l’uso delle raccolte d’opere d’arte, perchè dei ninnoli, dei mobili e delle stoffe non sarebbero bastati a completare la decorazione di qualsiasi luogo che si vuole rendere d’aspetto lussuoso, nulla reggendo al confronto della ricchezza dei dipinti nelle fastose cornici e dei marmi e dei bronzi, è però evidente che l’urto fra brandelli di tele e scrostature di colore e macchie e opacità di vecchie vernici deve riescire più intollerabile dove è maggiore profusione di stoffe smaglianti, di mobigli, di ornamenti d’ogni sorta, nuovi ed intatti. Così i guasti delle pitture assursero viemmeglio a tristezza di sconci da togliersi in ogni modo dallo sguardo fra tante perfette produzioni della mano e dell’ingegno.

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Ed effettivamente le pratiche suggerite dai maestri del restauro ritardano l’alterarsi dei colori, un tempo abbastanza lungo per la accontentatura del cliente e dell’operatore. Può anche passare inavvertito per sè un ritocco a mai sempre, specialmente nel rifacimento di certe intere parti, se la natura del dipinto permise di perderne ogni traccia di contorno nello stesso modo che si vedono in molti quadri non ritoccati cresciute o scolorate delle teste, delle mani, dei panneggi che originariamente furono diversi, ma l’azione del tempo non perciò si potrà dire arrestata, nè perciò si potrà mai affermare di essere pervenuti al possesso di un procedimento che assicuri l’immutabilità delle tinte, mentre già l’esecrazione sempre più diffusa colla quale viene colpito il ritocco, è la prova più valida del suo fatale apparire sotto l’azione del tempo. Vale la pena anzi, poichè l’argomento ne porge spontaneamente il destro, di alcune riflessioni sulla facilità colla quale si ammette che i colori possano offrire la tanto rara dote d’essere inalterabili.

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Quale si sia però l’opinione concepita sulle ricerche moderne e sulle qualità che potè avere l’encausto praticato dagli antichi, non rimane meno certo che l’uso della cera ebbe largo impiego nella pittura, documentato abbastanza dagli scrittori che ne videro i saggi (1), e come Vitruvio e Plinio, ne conobbero la tecnica, forse tanto comune da non dubitare che se ne perdessero le tradizioni e tramandarle ai posteri, con tutte quelle particolarità che specialmente in Plinio sono così frequenti nella sua celebre storia naturale e per soggetti di assai minore importanza. Salvo che, come altri ritengono, tutto l’encausto o bruciamento non si riducesse al fatto che allo scaldare la cera che serviva di vernice ultima alla comune pittura a tempera, a colla od all’uovo, supposto confermato dalla descrizione di Vitruvio del metodo per far comparire lo splendore del minio sulle pareti, non essendo possibile alcun dubbio sul senso di queste parole: «quando il parete sarà pulito e secco, allora dia col pennello di cera punica liquefatta al foco, temperata con alquanto olio, dappoi posti i carboni in un vaso di ferro, farà sudare quella cera scaldandola col parete, e farà sì che si stenda ugualmente, dappoi con una candela et con un lenzuolo netto la freghi al modo che si nettano le nude statue di marmo, e questa operazione grecamente si chiama Causis. Così la coperta della cera punica non permette che lo splendore della Luna nè i raggi del Sole toccando levino via il colore da quelle politure» (2).

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Ma nell’usarli a fresco tengasi a mente, come si è detto, il muro non brama altro colore che il naturale, che nasce dalla terra, che sono terre di più sorta di colori delle quali io credo che ne sia per ogni banda d’Italia abbastanza per essere conosciute — queste si macinano sottilmente con acqua pura eccettuandosi gli smalti con altri simili azzurri».

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Ma l’intonaco non sarà mai abbastanza studiato dal pittore per farsi un’idea giusta del cambiamento che avverrà nei colori nel passaggio dal bagnato all’asciutto e per l’addestramento dell’occhio a cogliere il momento d’abbandonare il colore a corpo e sostituire la velatura, in che consiste veramente la pratica del frescante e il pregio, dal lato tecnico, del buon fresco.

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Piccolo trattato di tecnica pittorica

261114
De Chirico, Giorgio 8 occorrenze
  • 1928
  • Fondazione Giorgio e Isa De Chirico
  • Milano
  • trattato di pittura
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Quando la colla è bene asciutta si rifaccia bollire, sempre a fuoco lento, una miscela di bianco di Spagna (detto biancone nelle mesticherie), colla gelatina e acqua a parti eguali e dopo che si è ottenuto, mescolando lentamente, una sostanza omogenea e abbastanza densa si spennelli la tela più volte e in ogni senso come si è già fatto con la colla. Si stia bene attenti durante quest’operazione che dei corpi estranei non si trovino nella miscela e si spennelli questa sulla tela con cura e attenzione come se si dovesse dipingere un fondo bene unito. Fatto ciò si lasci di nuovo asciugare sempre orizzontalmente beninteso. Quando il gesso è asciutto si lisci bene la tela con della carta smerigliata fine, indi si dia di nuovo una mano di colla come la prima volta e si lasci asciugare. Dopo che la tela è asciutta per la terza volta si possono togliere i sobbagioli messi dietro tra la tela e il telaio.

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Per dargli quelle qualità di cui ho parlato prima si faccia la seguente operazione: si prenda una boccetta dal collo abbastanza largo; si rompa un uovo a metà e passando il torlo da una metà all’altra come fanno i cuochi ed i pasticceri si divida completamente il torlo dall’albume o chiaro d’uovo; buttato via il chiaro si metta sulla bocca della boccetta la metà del guscio in cui si trova il torlo poi, con un chiodo lungo, si pratichi un foro in fondo al guscio in modo che il torlo possa scolare così nella boccetta; questo è un sistema pratico e semplice per introdurre perfettamente un torlo d’uovo in una boccetta; altrimenti aiutandosi con piccoli imbuti di carta gran parte del torlo resta attaccata all’imbuto, il torlo d’uovo essendo una sostanza assai vischiosa e attaccaticcia. Dopo questa operazione si versa nella boccetta due cucchiaini da caffè d’olio di papavero scolorito, un cucchiaino di essenza di trementina o di petrolio, un cucchiaino di aceto bianco, mezzo di glicerina e uno d’acqua. Si turi bene la boccetta e si agiti con forza per ottenere un’emulsione perfetta. Quest’emulsione si allungherà con dell’acqua nella proporzione di un terzo d’emulsione per due terzi d’acqua, e con un pennello largo e morbido si spennellerà bene la tela tenuta sempre orizzontale. Si lascerà asciugare e si darà una seconda mano di emulsione. Quando questo secondo strato è bene asciutto così che passandovi la mano sopra non vi resti dell’olio, la tela è pronta per dipingerci sopra.

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Per assicurarsi se un dipinto è abbastanza asciutto per ricevere almeno una vernice provvisoria, non basta toccarlo e vedere se il colore attacca alla mano, è meglio mandarci su il fiato in più punti; se la pittura si appanna vuol dire che è abbastanza asciutta per sopportare almeno una vernice provvisoria.

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Il giallo di cromo, che è un prodotto dell’ossido di cromo, sopporta male il contatto degli altri colori; isolato si conserva abbastanza bene specie nelle pitture ben verniciate. Il giallo di Napoli è un colore alquanto pericoloso; i pittori francesi del periodo romantico, specie Delacroix, ne fecero un grande uso; osservando i loro quadri si possono oggi constatare gli effetti nocivi di questo colore, del resto assai bello e suggestivo. È un colore che contiene dell’arsenico e per questo decompone i bianchi (d’argento) e i rossi; usato con il bianco di zinco è meno pericoloso; se la pittura non è accuratamente verniciata finisce a pigliare col tempo una tinta verdastra assai spiacevole. Macinandolo bisogna usare delle spatole d’osso ed evitare di metterlo a contatto con qualsiasi metallo. Il giallo minerale è un colore da scartarsi; altera gli altri colori e usato solo anche sotto la protezione della vernice scurisce rapidamente.

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Supponiamo ad esempio che un pittore leggendo la ricetta soprascritta la rifaccia esattamente e non ottenga i risultati sperati; non per questo deve scoraggiarsi e abbandonarla, ma piuttosto vedere se con qualche aggiunta o qualche sottrazione possa confarsi meglio al suo modo di dipingere; se, putacaso, trova che non sia abbastanza elastica può aggiungere un po’ di glicerina; se il colore non scivola bene può, anziché un cucchiaino di trementina, versarne uno d’olio di lino o d’olio di papavero. Per conto mio non mi è mai capitato di ottenere un risultato pienamente soddisfacente rifacendo esattamente una ricetta trovata in un trattato di pittura. Così pure si può modificare in più o meno la proporzione della gomma di ciliegio, della vernice, ecc., senza paura di gravi inconvenienti. Solo con la glicerina bisogna andare molto cauti perché in quantità troppo grande scurisce i colori; così pure non bisogna mai sopprimere né diminuire le quantità dell’aceto, indispensabile alla conservazione delle molecole dell’uovo.

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Si può anche procedere con metodo; impastando prima e velando poi sull’impasto asciutto; si ottiene così una materia abbastanza eguale e preziosa che ricorda appunto la pittura degli antichi e gli effetti della tempera grassa. Si può anche lavorare direttamente sulla tela preparata a gesso o ad olio e senza mescolare i colori con alcun diluente.

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Per velare, la miscela che finora mi ha dato i migliori risultati è sempre quella dell’olio di papavero e di trementina a parti eguali; attacca benissimo, specie se si riprende per finirlo un lavoro ove ci sia già un impasto abbastanza denso; se l’impasto è sottile, o se si dipinge direttamente sulla tela, è meglio aggiungere qualche goccia di siccativo di Courtrai.

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Diluire e rendere molto liquido, quasi come dell’acquarello, il colore con cui si vogliono fare i peli poi, pigliando un pennello di martora di forma ovoidale, lo si schiaccia sulla tavolozza intingendolo nella tinta; bisogna poggiarlo perpendicolarmente alla tavolozza posata sopra uno sgabello in modo che i crini del pennello formino assieme al manico un angolo retto; sollevandolo poi i crini si richiudono un po’ rimanendo però sempre abbastanza scartati perché passati leggermente sulla tela traccino linee sottilissime e parallele che altrimenti, per abili che si sia, non si otterrebbero mai. Lavorando così bisogna lasciare libero il gioco del polso e tenere il pennello leggermente con tre dita dalla cima del manico.

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