Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 5 occorrenze

Parecchi urlano: "abbasso!" senza sapere chi vogliano giù. Ed ecco da capo i grandi cappelli dei carabinieri, da capo le guardie. Invano i sei si sgolano a protestare, le grida di abbasso e di morte ne coprono la voce. Un delegato fa dare gli squilli. Al terzo succede un fuggi fuggi. Fugge anche la Deputazione col tabaccaio a capo; ma, fuggendo, i sei riescono a trar con sé chi l'uno e chi l'altro dei popolani meno infuriati, con la promessa di dare in un luogo opportuno spiegazioni che non si possono gridare in piazza. Riparano in un deposito di materiali da fabbrica, cinto di un assito. Parecchi li seguono, filtrano, a uno a uno, per l'uscio dell'assito; e il tabaccaio, pensando avere nel petto cose da far crollare il mondo, parla in cospetto della piramide di Caio Cestio, che aspetta indifferente il passar dei secoli fino al silenzio, alle rovine, alla Selva. Il tabaccaio parla, con voce misurata, fra una trentina di facce attente. Dice che il Santo di Jenne non è sicuramente in prigione, che non si sa dove sia, ma che si sanno altre cose, pur troppo. E dice le altre cose. Se le avesse dette alle turbe scendendo dal tram, lo avrebbero fatto a brani. In Questura ridono del Santo e di chi gli crede. Raccontano ch'egli ha un amante, una signora molto ricca; che nella notte è stato interrogato dal Direttore generale della P. S. per ragioni non tanto belle; che quando è uscito del ministero, ha trovato l'amante che lo attendeva in carrozza ed è partito con lei. "Io non volevo credere" conchiude il tabaccaio "ma ecco! Adesso dica lui." Uno dei sei, oste a Santa Sabina, si fece a raccontare che sua moglie aveva udito nel cuore della notte una carrozza fermarsi presso l'osteria; che si era alzata e aveva veduta la carrozza, un legno signorile, con il cocchiere e il domestico in tuba; che il domestico stava allo sportello e aiutava una persona a scendere; che la persona scesa di carrozza era passata a piedi sotto la finestra andando verso Sant' Anselmo e ch'ella aveva riconosciuto il Santo di Jenne. L'oste soggiunse che non aveva creduto al riconoscimento perché non c'era luna ed era piovuto fin dopo le undici, per cui la notte doveva essere stata molto buia; che non avendo creduto neppure aveva parlato; ma che poi, all'udire il racconto della Questura, si era dovuto persuadere. E sua moglie aveva dell'altro a raccontare. Si era alzata alle sei. Fra le sette e le otto era passata una botte andando verso Sant' Anselmo. Poco dopo, la botte era ripassata. Questa volta sua moglie ci aveva veduto dentro il Santo di Jenne. Era pronta ad attestarlo con giuramento. Qui, alcuni fra gli uditori sgattaiolarono dal recinto, corsero a sussurrare le notizie nel quartiere. Ne successe che mentre il tabaccaio e l'oste e i loro amici stavano ancora nel recinto, si fece gente sulla strada di Santa Sabina e un grosso gruppo salì, seguito da due guardie, verso l'osteria. Entrarono nel cortile. L'ostessa ciarlava con un cliente, sotto il pergolato. La interrogarono ed essa rifece il racconto che aveva fatto al marito. La interrogarono ancora, volevano sapere questo e quello, tanti particolari. La donna finì con rispondere di non ricordar bene. Avrebbe portato da bere, da rinfrescare ad essi l'ugola, a sé la memoria. Che! Quelli non erano venuti per bere, glielo dissero bruscamente. Due ferrovieri, attavolati sotto il pergolato, poco discosto, si seccarono di quell'interrogatorio. Uno di essi chiamò l'ostessa, le parlò a voce alta: "Che voglion sapere? L'ho veduto io l'uomo che cercano. è partito stamattina alle otto, con una ragazza, per la linea di Pisa." La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la Verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n'andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto. "Io?" rispose colui. "Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!" "E allora?" fece l'ostessa. "Dove sarà andato?" "Vada a cercarlo in cantina" rispose il ferroviere "che il fiasco è vuoto e noi si ha sete ancora."

- Abbasso! - Lasciate quell'uomo! Badate ai ladri, per Dio! Voi pigliate i servi di Dio e lasciate i ladri! - Via! - Abbasso! - Benedetto si fece avanti, accennò, a due mani, di tacere, pregò e ripregò che se n'andassero in pace poiché nessuno gli voleva far male, egli non era arrestato, se n'andava con quel Signore di sua libera volontà. Nello stesso momento scrosciò un tuono in cielo, un impeto di acquazzone sul marciapiede. La folla balenò, si disperse rapidamente. Il delegato diede un ordine al ciclista e salì nella botte con Benedetto. Partirono verso il Tevere, fra i tuoni, i lampi e la pioggia furiosa. Benedetto domandò al delegato, molto quietamente, che si volesse da lui alla Questura. Il delegato rispose che non si trattava di Questura. Chi voleva parlare al signor Maironi era un pezzo più grosso del questore. "Non so se avrei dovuto dirlo" soggiunse "ma già glielo dirà lui." E raccontò che lo aveva cercato inutilmente a villa Mayda, disse quanto gli sarebbe seccato di non trovarlo presto. Benedetto si provò a domandargli se sapesse la cagione della chiamata. Realmente il delegato non la sapeva, ma finse un silenzio diplomatico, si rannicchiò nel suo angolo come per salvarsi dalle folate di pioggia. Un lampo mostrò a Benedetto il fiume giallastro, i neri barconi di Ripagrande; un altro il tempio di Vesta. Poi non si raccapezzò più affatto, gli parve di attraversare una sconosciuta necropoli, un dedalo di vie funeree dove ardessero lampade sepolcrali. Finalmente la carrozzella entrò con fracasso in un atrio, si fermò al piede di uno scalone scuro, fiancheggiato di colonne. Benedetto lo salì col delegato fino al secondo ripiano sul quale si aprivano due porte. Quella di sinistra era chiusa, quella di destra guardava sullo scalone per un occhio ovale lucente. Il delegato la spinse, entrò con Benedetto in un bugigattolo, in una specie di anticamera. Un usciere che dormicchiava si alzò stentatamente. Il delegato lasciò Benedetto e passò in un'altra stanza. Allora l'usciere si chinò come per raccogliere qualche cosa e disse a Benedetto porgendogli una lettera chiusa: "Guardi che Le è caduta una carta." Perché Benedetto si meravigliava, insistette: "Lei è bene quello del Testaccio? Veda che sarà Sua, faccia presto!" Faccia presto? Benedetto guardò l'uomo che si era rimesso a sedere. Quegli lo guardò alla su volta e confermò il suo consiglio con uno scatto secco del capo che significava: tu sospetti che ci sia sotto qualche cosa e realmente c'è. Benedetto guardò la busta. Vi si leggeva questo indirizzo: "Al garzone giardiniere di villa Mayda" E sotto, a caratteri più grandi: "SUBITO" La scrittura era femminile ma Benedetto non la riconobbe. Aperse e lesse: "Sappia che il Direttore generale della Pubblica Sicurezza farà il possibile per indurla a lasciare volontariamente Roma. Rifiuti. Quello che segue lo potrà leggere a Suo agio." Benedetto ripose frettolosamente la lettera. Ma poiché nessuno compariva e tutto pareva dormire intorno a lui, la cavò, riprese a leggerla. Seguiva così: "In Vaticano si è poco contenti, dopo le sue visite, del Santo Padre, il quale, fra l'altre cose, ha richiamato a sé l'affare Selva dalla Congregazione dell' Indice. Ella non può immaginare gl'intrighi che si tramano contro di Lei, le calunnie che si fanno arrivare anche ai Suoi amici, tutto per lo scopo di allontanarla da Roma, di impedire ch' Ella veda più il Pontefice. Si è ottenuto che il Governo aiuti la congiura promettendogli in compenso di non mandare ad effetto certa nomina di persona molto sgradita al Quirinale, per la sede arcivescovile di Torino. Non ceda, non abbandoni il Santo Padre e la Sua missione. La minaccia per l'affare di Jenne non è seria, sarebbe impossibile di procedere contro di Lei e lo sanno. Chi non Le può scrivere ha saputo tutto questo, lo ha fatto scrivere a me, lo farà pervenire a Lei. Noemi D' Arxel. Benedetto guardò involontariamente l'usciere, quasi dubitando ch'egli conoscesse il senso di quella lettera passata per le sue mani. Ma l'usciere dormicchiava da capo e non si scosse che al ricomparire del delegato, il quale gli ordinò di accompagnare Benedetto dal signor commendatore. Benedetto fu introdotto in una stanza spaziosa, tutta buia fuorché nell'angolo dove un Signore sui cinquant'anni stava leggendo la Tribuna nel chiarore di una lampada elettrica, vivo sul suo cranio calvo, sul giornale, sul tavolo coperto di carte. Sopra di lui, nella penombra, si intravvedeva un grande ritratto del Re. Egli non levò dal giornale il capo grave di conscio potere. Lo levò quando gli piacque e guardò con occhi noncuranti l'atomo di popolo che aveva davanti a sé. "Prenda una sedia" diss'egli, gelido. Benedetto ubbidì. "Lei è il signor Pietro Maironi?" "Sì Signore." "Mi rincresce di averla incomodata ma era necessario." Sotto le parole cortesi del signor commendatore si sentiva un fondo di durezza e di sarcasmo. "A proposito" diss'egli. "Perché non si fa chiamare col Suo nome, Lei?" Alla improvvisa domanda Benedetto non rispose immediatamente. "bene bene" ripigliò colui. "Questo adesso importa poco. Qui non siamo in Tribunale. Io penso che se si vuole fare il bene si deve farlo col proprio nome. Ma io non vado in Chiesa, ho idee diverse dalle Sue. Non importa, dico. Lei sa chi sono io? Il delegato gliel'ha detto?" "No Signore." "bene, sono un funzionario dello Stato che s'interessa un poco della sicurezza pubblica e che ha un certo potere; sì, un certo potere. Ora io voglio dimostrarle che ho interesse anche per Lei. Lei, mi dispiace il dirlo, è in una situazione critica, mio caro signor Maironi o signor Benedetto, a Sua scelta. È pervenuta all' Autorità giudiziaria un'accusa contro di Lei, veramente grave; e io vedo molto in pericolo non soltanto la Sua fama di santità ma pure la Sua libertà personale e quindi la Sua predicazione almeno per qualche anno." Una fiamma salì al viso di Benedetto, i suoi occhi scintillarono. "Lasci la santità e la fama" diss'egli. L'augusto funzionario dello Stato riprese senza scomporsi: "Lei si sente ferito. Badi, sa, che la Sua fama di santità corre altri pericoli. Altre cose si dicono di Lei che non hanno a che fare, per questo stia tranquillo, col codice penale ma che non si accordano molto colla morale cattolica; e Le assicuro che sono abbastanza credute. Dico per dire; son cose che non mi riguardano affatto. Del resto la santità non è mai reale, è sempre, più o meno, una idealizzazione che lo specchio fa della immagine. Se c'è una santità è quella dello specchio, è quella della gente che crede ai Santi. Io non ci credo. Ma veniamo al serio. Le ho dovuto dire delle cose sgradevoli, La ho anche ferita; ora medicherò. Io non sono credente ma però apprezzo il principio religioso come elemento di ordine pubblico, e questo è poi il sentimento dei miei Superiori, è il sentimento del Governo. Perciò il Governo non può aver piacere che si faccia un processo scandaloso a qualcuno che presso il popolo passa per Santo; un processo che potrebbe poi anche provocare dei disordini. Ma c'è di più! Noi sappiamo che Lei è persona gradita al Papa il quale La vede spesso. Ora in alto non si ha nessuna voglia di recare dispiaceri personali al Papa. Si ha dunque la buona intenzione di evitargli questo, se possibile. E sarà possibile a una condizione. Qui in Roma Lei ha dei nemici attivi, non di parte nostra, sa! non di parte liberale!, che si preparano a rovinarla interamente; nella riputazione e in tutto. Se vuole che Le apra il mio pensiero, il mio pensiero è questo: dal punto di vista cattolico hanno ragione. Io modifico un poco, per mio uso e per loro uso, il motto famoso dei Gesuiti: "aut sint ut sunt" dico io "aut non erunt." Mi riferiscono che Lei è un cattolico largo. Ciò significa semplicemente che lei non è cattolico. Tiriamo via. I Suoi nemici L'hanno denunciata al Procuratore del Re. Per Verità noi dovremmo far arrestare dai carabinieri il signor Pietro Maironi condannato in contumacia dalla Corte d' Assise di Brescia per mancato servizio di giurato; ma questa è una bazzecola. Lei si figura di avere guarito della gente a Jenne ed è accusato non solamente di esercizio illegale della medicina ma persino di aver avvelenato un paziente, niente meno! Ora noi abbiamo i mezzi di salvarla. Noi faremo in modo che la denuncia si ponga a dormire. Ma se Lei resta in Roma i Suoi nemici di Roma faranno un rumore così grande che non ci potremo fingere sordi. Bisogna che Lei se ne vada lontano; e subito! Meglio se va fuori d' Italia. Vada in Francia, dove c'è carestia di santità. O almeno ... non ci ha una casa, Lei, sul lago di Lugano? Adesso vi sono delle suore, vero? Suore e Santi stanno benissimo insieme. Vada colle suore e lasci passare la burrasca." Il commendatore parlava serio serio, lento lento, coprendo lo scherno di flemma più insolente. Benedetto si alzò in piedi, risoluto e severo. "Io stavo" rispose "presso un infermo che aveva bisogno della medicina illegale mia. Mi si poteva lasciare al mio posto. Lei e il Governo sono i peggiori miei nemici se mi offrono di fuggire la giustizia. Lei faccia il Suo dovere di mandare i carabinieri ad arrestarmi per il mancato servizio di giurato. Io proverò poi che non potei ricevere la citazione. Il signor procuratore del Re faccia il dovere Suo di procedere contro di me per la denuncia di Jenne; mi si troverà sempre a villa Mayda. Lo dica ai Suoi Superiori. Dica loro che non mi moverò da Roma, che temo un Giudice solo e ch'essi pure lo temano nel loro doppio cuore, perché Egli sarà più terribile al doppio cuore che alla violenza sincera!" Il commendatore, impreparato a quel colpo, livido di veleno impotente, prorompeva già in parole di collera quando si udì il rumor sordo di una carrozza ch'entrava nell'atrio. Levò allora lo sguardo da Benedetto, stette in ascolto. Benedetto afferrò la spalliera della sua seggiola per levarsi quell'impaccio a voltar le spalle. L'altro si scosse, riacceso negli occhi dall'ira un momento sopita; gettò il giornale che aveva sempre tenuto in mano, batté il pugno sul tavolo, esclamando: "Che fa? Non si muova!" I due uomini si fissarono per alcuni secondi in silenzio, uno con autorità maestosa, l'altro bieco. Poi questi riprese, veemente: "Debbo farla arrestare qui?" Benedetto durò a fissarlo in silenzio. Quindi rispose: "Aspetto. Faccia." Un usciere, che aveva bussato più volte inutilmente, comparve sulla soglia, s'inchinò al commendatore senza dir parola. Il commendatore disse subito "vengo" e alzatosi frettolosamente uscì con una faccia strana dove la collera spariva e spuntava l'ossequio. L'usciere rientrò immediatamente, disse a Benedetto che aspettasse. Passò un quarto d'ora. Benedetto, tutto fremente, con il cuore in tumulto e la testa in fiamme, eccitato e spossato dalla febbre, era ricaduto sulla sua seggiola, turbinandogli dentro alla rinfusa i più diversi pensieri. - Dio gli perdoni a quest'uomo! - A tutti! - Che gioia se il Pontefice non permette la condanna di Selva! - La persona che non mi può scrivere, come sa? - E adesso perché mi fanno aspettare? - Cosa vogliono ancora da me? - Oh, con questa febbre, se non avessi a esser più padrone dei miei pensieri, delle mie parole! - Che terrore! - Dio, Dio, non lo permettete! - Ma che orride viltà sono nel mondo, che vergogna di fornicazioni occulte fra questa gente della Chiesa e dello Stato che si odia, che si disprezza! Come, come lo permetti, Signore? - Nessuno viene ancora! - La febbre! - Dio, Dio, fa che io resti padrone dei miei pensieri, delle mie parole. Dio Verità, il tuo servo è in potere de' suoi nemici congiurati, fa ch'egli Ti glorifichi anche nel fuoco ardente! - Quelle due persone pensano a me, adesso. Io non devo pensare a loro! - Esse non dormono, pensano a me. - Non sono ingrato, non sono ingrato, ma non devo pensare a loro! - Penserò a te, vecchio Santo del Vaticano, che dormi e non sai! - Ah quella scaletta non la farò più, quel dolce viso pieno di Spirito Santo non lo vedrò più! - Però, Dio sia lodato, non lo avrò visto invano. - Ma cosa faccio qui? - Perché non me ne vado? - Potrò poi andare? - Questa febbre! Si alzò, cercò di legger l'ora sur un occhio tondo di orologio biancheggiante nell'ombra. Mancavano cinque minuti alle undici. Fuori, il temporale continuava. La potenza degli elementi furibondi e la potenza del tempo che spingeva la piccola sfera sul quadrante, parevano amiche a Benedetto nel loro prevalere indifferente sulla potenza umana che aveva sede dov'egli era e lo teneva in sua balìa. Ma la febbre, la crescente febbre! Ardeva di sete. Se almeno avesse potuto aprire una finestra, tendere la bocca all'acqua del cielo! Un tocco di campanello elettrico, passi affrettati nell'anticamera, finalmente. Ecco il commendatore, in soprabito e cappello. Chiude l'uscio dietro a sé, raccoglie delle carte sul suo tavolo, dice a Benedetto con piglio sprezzante: "Stia attento. Lei ha tre giorni per lasciare Roma. Ha capito?" Non cura di aspettare risposta, preme un bottone. Entrato l'usciere, gli ordina: "Accompagnate!" Giunto colla sua guida sullo scalone, Benedetto, credendosi oramai libero di scendere, le chiese un po' d'acqua. "Acqua?" rispose l'usciere. "Non posso andarne a prendere, adesso. Sua Eccellenza aspetta. Favorisca qui." Lo fece entrare, con sua meraviglia, nell'ascensore. "Anzi le Loro Eccellenze" diss'egli; e mentre l'ascensore saliva al secondo piano, venne guardando Benedetto come si guarda qualcuno cui è fatto un grande onore e che non pare meritarlo. Giunti al secondo piano, i due attraversarono una grandissima sala semioscura. Da questa sala Benedetto venne fatto passare in una stanza illuminata così riccamente ch'egli ne provò fastidio e sofferenza, ne rimase quasi acciecato. Due uomini, seduti ai due angoli di un largo canapè, ve lo attendevano in attitudine diversa; il più giovine con le mani in tasca, una gamba a cavalcioni dell'altra, il capo rovesciato sulla spalliera; il più vecchio col busto piegato in avanti e le mani occupate in un continuo blando maneggio alterno della barba grigia. Il primo aveva una guardatura sarcastica; il secondo l'aveva scrutatrice, malinconica, buona. Questi, evidentemente il più autorevole dei due, invitò Benedetto a sedere sur una poltrona di fronte a lui. "Non creda, sa, caro signor Maironi" diss'egli con voce armoniosa e sonora ma rispondente in qualche modo alla malinconia dello sguardo, "non creda che noi siamo qui due artigli potenti dello Stato. Noi siamo qui in questo momento due individui di una specie rara, due uomini politici geniali che conoscono bene il loro mestiere e che lo disprezzano meglio. Siamo due grandi idealisti che sanno mentire idealmente bene colla gente che altro non merita e sanno adorare la Verità; due democratici, ma però adoratori di quella Verità recondita che non è stata mai toccata dalle mani sudicie del vecchio Demos." Detto così, l'uomo dalla barba grigia fluente riprese a farvi scorrere su le due mani a vicenda e strinse gli occhi scintillanti di un sorriso acuto, pago delle proprie parole, cercando la sorpresa sul viso di Benedetto. "Siamo poi anche credenti" riprese. Allora l'altro personaggio alzò, senza levar il capo dalla spalliera, le mani distese e disse quasi solennemente: "Piano." "Lascia, caro amico" ripigliò il primo senza volgersi all'amico. "Siamo ambedue credenti, però in modo diverso. Io credo in Dio con tutte le mie forze che sono molte e lo avrò sempre meco. Tu credi in Dio con tutte le tue debolezze che sono poche e non lo avrai che al tuo letto di morte." Altro sorriso acuto e pago, altra pausa. L'amico scosse il capo alzando le sopracciglia come per una udita corbelleria che meritasse pietà e non risposta. "Io poi" continuò la voce sonora e armoniosa "sono anche cristiano. Non cattolico ma cristiano. Anzi, come cristiano, sono anticattolico. Il mio cuore è cristiano e il mio cervello è protestante. Io vedo con gioia nel cattolicismo i segni, non dico della decrepitezza ma della putrefazione. La carità si va disfacendo nei cuori più schiettamente cattolici in una melma oscura tutta vermi di odio. Vedo il Cattolicismo fendersi da ogni parte e vedo spuntare per le fessure la vecchia idolatria cui si è sovrapposto. Le poche energie giovani, sane, vitali, che vi si manifestano, tendono tutte a separarsene. So che Lei è appunto un cattolico radicale, ch'è amico di un uomo veramente sano e forte che si dice cattolico ma ch'è giudicato eretico, però, dai cattolici puri; e lo è certamente. Mi hanno detto che Lei è scolare di questo nobile eretico, che fa una propaganda riformatrice e che in pari tempo cerca di agire sul Pontefice. Ora un grande riformatore lo aspetto anch'io ma dev'essere un antipapa; non un antipapa nel piccolo senso storico; un antipapa nel grande senso luterano della parola. "Curiosità ci punge di sapere" come Lei creda possibile ringiovanire questo povero vecchione di Papato che noi laici precediamo non soltanto nella conquista della civiltà ma nella scienza di Dio, anche, e persino nella scienza di Cristo; che ci anfana dietro a grande distanza e ogni tanto si pianta sulla via, restio come una bestia che fiuta il macello, e poi, quando è tirato ben forte, fa un salto avanti per tornarsi a piantare fermo fino a un altro strappo di fune. Ci dica il Suo concetto di una riforma cattolica. Sentiamo." Benedetto rimase silenzioso. "Parli" riprese il nume ignoto che pareva imperare in quel luogo. "Il mio amico non è Erode né io sono Pilato. Noi potremmo forse diventare due apostoli della Sua idea." L'amico stese ancora le due mani aperte, senza levar il capo dalla spalliera, disse ancora, però pigiando più forte sulla prima sillaba: "Piano." Benedetto tacque. "Mi pare, caro mio" disse l'amico voltando il capo, senz'alzarlo, verso il collega "che questo sarà il primo fiasco della tua eloquenza. Qui il modello del nihil respondit è preso molto sul serio." Benedetto trasalì, atterrito dal richiamo al Divino Maestro, dal dubbio di parerne un imitatore superbo. Cessò in quel momento di sentire il suo male, la febbre, la sete, la gravezza del capo. "Oh no" esclamò "adesso io rispondo! Lei dice che non è Pilato. Il vero è invece che io sono l'ultimo dei servi di Cristo perché gli sono stato infedele e che Lei mi ripete proprio la domanda di Pilato: - Quid est veritas? Ora Lei non è disposto a ricevere la Verità, come non vi era disposto Pilato." "Oh!" esclamò il suo interlocutore. "E perché?" L'amico rise rumorosamente. "Perché" rispose Benedetto "chi opera tenebre, le tenebre lo avvolgono e la luce non gli può arrivare. Lei opera tenebre. È facile di comprenderlo, Lei è il signor ministro dell' Interno, La conosco di fama. Lei non è nato per operare tenebre, vi è stata molta luce in certe opere Sue, vi è molta luce nella Sua anima, molta luce di Verità e di bontà; ma in questo momento Lei opera tenebre. Io sono questa notte qui perché Lei ha pattuito un mercato non confessabile. Lei dice di adorare la Verità, domanda a un fratello se possiede la Verità e tace che lo ha già venduto!" Mentre Benedetto parlava, l'amico del ministro, Eccellenza egli pure ma in sottordine, alzò finalmente il capo dalla spalliera del canapè. Parve che incominciasse soltanto allora a stimar degno di attenzione l'uomo e quello che diceva. Parve anche divertirsi della lezione toccata al principale del quale ammirava l'ingegno grandissimo ma derideva in cuor suo le velleità idealistiche. Il principale rimase, sulle prime, sbalordito; poi scattò in piedi, gridando come un ossesso: "Siete un mentitore! Siete un insolente! Non meritate la mia bontà! Non vi ho venduto, non valete niente, vi regalerò! Andate! Andate via!" Cercò il bottone del campanello elettrico e non trovandolo nella cecità della collera, gridò: "Usciere! Usciere!" Il sottosegretario di Stato, avvezzo a queste scenate ch'eran poi sempre fuochi di paglia perché il ministro aveva un cuore d'oro, se la rideva, in principio sotto i baffi. Ma quando lo udì chiamar l'usciere a quel modo, conoscendo bene le indiscrezioni degli uscieri e pensando i pettegolezzi pericolosi che potevano nascere di questo incidente, il ridicolo che ne sarebbe schizzato anche sopra di lui, trattenne risolutamente il ministro imponendogli, quasi, di chetarsi, e disse brusco a Benedetto: "Lei se ne vada." Il ministro si diede a camminare per la sala, muto, a capo basso, a passi frettolosi e brevi, male vincendo in sé il bambino che avrebbe voluto battere i piedi sul posto. Benedetto non ubbidì. Ritto e severo, radiante invisibili raggi di uno spirito dominatore, che tennero a distanza il sottosegretario di Stato, egli costrinse l'altro con questo potere magnetico a voltarsi verso di lui, a fermarsi, a guardarlo in faccia. "Signor ministro" diss'egli "io sto per uscire non solo da questo palazzo ma credo anche, fra non molto, da questo mondo. Non La rivedrò più, mi ascolti un'ultima volta. Ella non è ora disposto alla Verità, però la Verità è alle Sue porte, e verrà l'ora, e non è lontana perché la Sua Vita discende, che si farà notte sopra di Lei, sopra i Suoi poteri, i Suoi onori, le Sue ambizioni. Allora Ella udrà la Verità chiamare nella notte. Potrà rispondere - parti - e non la incontrerà più mai. Potrà rispondere - entra - e la vedrà comparire velata, spirante dolcezza dal velo. Ella non sa ora come risponderà, né io lo so, né alcuno al mondo. Si prepari colle opere buone a risponder bene. Qualunque sieno gli errori Suoi, vi è religiosità nel Suo spirito. Iddio Le ha dato molto potere nel mondo; lo adoperi per il bene. Lei ch'è nato cattolico dice di essere protestante. Forse Lei non conosce abbastanza il Cattolicismo per comprendere che il Protestantesimo si sfascia sopra il Cristo morto e che il Cattolicismo evolve per virtù del Cristo vivente. Ma io parlo adesso all'uomo di Stato, non certo per domandargli di proteggere la Chiesa cattolica che sarebbe una sventura, ma per dirgli che se lo Stato non ha ad essere né cattolico né protestante, non gli è però lecito d'ignorare Iddio e voi osate negarlo in più di una scuola vostra, di quelle che chiamate alte, in nome della libertà della scienza che voi confondete colla libertà del pensiero e della parola perché il pensiero e la parola sono liberi di negare Iddio ma la negazione di Dio non ha né può avere carattere di scienza e voi solo la scienza dovete insegnare. Voi conoscete bene la piccola politica che vi fa transigere in segreto con la vostra coscienza per avere celatamente un favore dal Vaticano, nel quale non credete; ma voi conoscete male la grande politica di mantenere l'autorità di Chi è il principio eterno di ogni giustizia. Voi lavorate a distruggerla ben peggio che con i professori atei; in fondo i professori atei hanno un piccolo potere; voi uomini politici che dite spesso di credere in Dio, voi ne distruggete l'autorità molto più che quei professori, con i mali esempî del vostro ateismo pratico. Voi che vi figurate di credere nel Dio di Cristo, siete in realtà profeti e sacerdoti degli dei falsi. Voi li servite come li servivano i principi idolatri ebrei, nei luoghi alti, in cospetto del popolo. Voi servite nei luoghi alti gli dei di tutte le cupidigie terrestri." "Bravo!" interruppe il ministro, conosciuto per la sua morigeratezza, per le virtù famigliari, per la noncuranza del danaro. "Mi divertite!" E soggiunse, vôlto all'amico: "Proprio non valeva la pena." "M'intenda bene!" riprese Benedetto. "Sì, anche Lei è uno di questi sacerdoti. Parlo io forse di gaudenti comuni? Parlo di Lei e di altri come Lei che si credono gente onesta perché non cacciano le mani nel danaro dello Stato, che si credono gente morale perché non si danno ai piaceri dei sensi. Vi dirò due cose. Intanto, voi adorate piaceri più perversi. Voi fate di voi stessi i vostri falsi dei, voi adorate il piacere di contemplarvi nel vostro potere, nei vostri onori, nell'ammirazione della gente. Ai vostri dei voi sacrificate colpevolmente molte vittime umane e la integrità del vostro stesso carattere. Fra voi vi è il patto che ciascuno rispetti il falso Dio del collega e ne aiuti il culto. I più puri di voi sono colpevoli almeno di questa complicità. Voi torcete lo sguardo da torbide congiure d'interessi vili, da non confessabili intrighi di sêtte che strisciano nell'ombra e li lasciate passare in silenzio. Voi vi credete incorrotti e corrompete! Voi distribuite regolarmente denaro pubblico a gente che vi vende la parola e l'onestà della coscienza. Voi disprezzate e nutrite questa infamia sotto di voi. È più empio comperare voti e lodi che venderne! I più corrotti siete voi! Secondo peccato, voi considerate il mentire una necessità della vostra condizione, voi mentite come bere acqua, mentite al popolo, mentite al Parlamento, mentite al Principe, mentite agli avversarî, mentite agli amici. Lo so, qualcuno di voi personalmente non pratica l'abituale mentire, solamente lo tollera nei colleghi, molti di voi prendono con ripugnanza quest'abito nell'entrare dove si governa, come entrando in una miniera si prende talvolta una veste sudicia che difende la nostra; e all'uscire lo depongono con gioia. Ma costoro che sono i migliori, si diranno essi buoni e fedeli servi della Verità? Voi credete in Dio e forse al vostro letto di morte pensate di avere maggiormente offeso Iddio come uomini politici con azioni di violenza contro la Chiesa nel nome dello Stato. No, non saranno state queste le vostre maggiori offese. Se vengono in Parlamento e dal Parlamento al Governo uomini che professino come filosofi di non conoscere Dio ma che insorgano nel nome della Verità contro quest'arbitraria tirannia della Menzogna, meglio serviranno Dio e saranno più grati a Dio di voi che credete in esso come in un idolo e non come nello Spirito di Verità, di voi che osate parlare di putrefazioni del Cattolicismo, puzzolenti di falsità come siete. Sì, puzzolenti! Voi fate tanto impura l'aria delle altezze, a rovescio di quello che sarebbe naturale, da rendere ben difficile di respirarla. Voi avete un cuore religioso, signor ministro; non rispondetemi che in questo palazzo non si può servire Iddio ..." "Sa Lei ..." esclamò con ira il ministro incrociando le braccia sul petto. Il sottosegretario di Stato stese graziosamente una mano verso di lui per arrestarne la parola sdegnosa. "Piano piano piano" diss'egli. "Permetti? Perché mi ci diverto." Il sottosegretario di Stato, piccolo, rotondetto, rispettoso della propria sottosegretarietà, simile a un uovo in possesso cosciente di un sacro pulcino, ben minore uomo del ministro e ben diverso da lui, non aveva affatto le curiosità intellettuali del Superiore e non era venuto che per compiacere al Superiore. Il Superiore, luminosa intelligenza, soleva fermare il proprio lume ora sull'una ora sull'altra delle persone che gli giravano attorno e crederli allora lucenti per loro virtù come forse penserà il sole degli astri che gli fanno la corte. Il sottosegretario di Stato rifletteva luce al ministro e il ministro rifletteva ammirazione al sottosegretario di Stato. Il ministro lo aveva desiderato a quel colloquio non comprendendo affatto che il piccolo Mercurio del suo sistema planetario, avendo risoluto da giovine di sciogliersi dal soprannaturale che gl'impediva i movimenti più spontanei della sua natura egoistica, si era preso per il soprannaturale dell'odio che gl'infermi concepiscono talvolta per la persona della quale sanno che ha fatto delle infermità loro un pronostico triste. Come questi infelici vogliono persuadersi che il profeta non merita fede e più la sua profezia si viene avverando, più s'irritano, più si struggono di abbattere quell'autorità minacciosa; così colui, più sentiva declinargli il vigor giovanile e perder credito i dogmi materialistici e folgorargli nel cuore di quando in quando certe apprensioni lancinanti di una Verità formidabile che poi venivano lentamente meno, più s'inveleniva nell'odio coperto d'ironica noncuranza. "Senta un po', caro Lei" diss'egli a Benedetto dopo essersi fatto largo nella conversazione con quella parola e quel gesto. "Lei parla molto di dei falsi e di dei veri. Io non so se il Suo sia falso o vero. Sarà vero ma è certamente irragionevole. Un Dio che ha creato il mondo come gli è piaciuto, in modo che deve andare come va, e poi viene a dirci che dobbiamo farlo andare in un modo diverso, eh senta, via! non è un Dio ragionevole! Lei si è permesso di vuotare un sacco di contumelie, un sacco di accuse agli uomini politici, che sono calunnie, specialmente se le vuole applicare a quel Signore lì e a me; ma io Le concedo che la politica, per forza, non è mestiere da Santi. Chi ha fatto il mondo non ha voluto che lo sia! Se la sbrighi con lui. Ebbene, bisogna pure che qualcuno lo faccia, quel mestiere lì. Adesso lo facciamo noi che se non siamo Santi, almeno Lei vede quanto pazientemente trattiamo con i Santi. E senta." Il sottosegretario guardò l'orologio. "Si fa tardi" diss'egli "e nelle vie di Roma, a ora tarda, la santità corre qualche pericolo. È meglio che Lei se ne vada." Stese la mano al campanello elettrico per chiamare l'usciere. "Signor ministro!" esclamò Benedetto con tal vigore di accento che il sottosegretario rimase immobile a braccio steso come colto da un colpo di gelo. "Lei teme per lo Stato, per la monarchia, per la libertà, i socialisti e gli anarchici; tema molto più i Suoi colleghi schernitori di Dio, perché i socialisti e gli anarchici sono febbre, gli schernitori di Dio sono cancrena! - Quanto a Lei" soggiunse vôlto al sottosegretario "Lei deride Uno che tace. Tema il suo silenzio!" Senza che né l'uno né l'altro dei due potenti dicesse una parola, facesse un gesto, Benedetto uscì della sala. Egli discese lo scalone vibrando tutto nel contraccolpo delle parole che gli erano scoppiate dal cuore e nel fuoco febbrile del sangue. Le gambe gli tremavano, gli mancavano sotto. Fu costretto due o tre volte di afferrarsi al parapetto e di sostare. Giunto all'ultima colonna, vi premette la fronte pulsante, cercando frescura. Se ne staccò subito, sentì ripugnanza della stessa pietra di quel palazzo come se fosse infetta di tradimento, complice del commercio vile che vi si era fatto, atrocemente vile, fra ministri di Cristo e ministri della Patria. Sedette sul penultimo gradino, non potendone più, senza guardare ai fanali accesi della carrozza che aspettava lì a due passi, senza dubbio la carrozza del ministro; non curando esser veduto. Respirò un poco, lo sdegno gli si venne quietando un poco, quietando in dolore, in desiderio di piangere sulle tristi cecità del mondo. E cominciò anche a sentirsi solo, amaramente solo. Unica lei, la donna del suo passato errore, aveva vegliato, aveva scoperto, aveva agito. Solo per lei gli era stato dato di far fronte al ministro sapendo quale linguaggio fosse da tenergli. Gli altri amici suoi, gli amici devoti alle sue idee religiose, avevano dormito e dormivano. Gli piacque l'acre pensiero che non si curassero più di lui. Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell'uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell'anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace. Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un'altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro. "No" diss'egli. Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé , coll'ordine di consegnarla al Signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il Signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l'ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po' d'acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione: "La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest'ora, non ne troverebbe." Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un'oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l'ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé . Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell' Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé , il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l'idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l'idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch'egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l'abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d'inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell'accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo. La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un'idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il Signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma "il Signore" volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant' Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l'ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis , giunse infine al cancello di villa Mayda. Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz'altro l'ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi. "Sarà per questa sola notte" diss'egli. Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell'entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l'annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà: "Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?" Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva. Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta! Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano: IN PACE. Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall'affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto. Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l'altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl'intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: "Allora, vederci, mai più?" Sorride nell'anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

Più abbasso c'è un san Francesco dipinto dal cavalier Manente. Lo vedranno dopo. Se vogliono passare ..." Noemi disse piano a Jeanne "cos'hai?" e avendo l'altra risposto con voce più tranquilla "niente" le passò avanti, entrò nella cappella, ascoltando le spiegazioni del monaco. Allora la figura nera si staccò dalla parete. Jeanne la vide salire lenta nell'ombra sotto le arcate ogivali. Toccato il ripiano superiore, la figura sparve a destra e subito ricomparve in un braccio di scala attraversato dall'obliquo sfondo della scena, luminoso nel raggio di una finestra invisibile. La figura saliva lenta, quasi faticosamente. Prima di sparire dietro il fianco enorme di un'arcata, piegò il capo a guardare in basso. Jeanne la riconobbe. Sull'attimo, quasi obbedendo a una fulminea volontà impostasi a lei, quasi portata dal turbine del suo destino, pallida, risoluta, senza sapere cos'avrebbe detto, cos'avrebbe fatto, ella prese l'ascesa. Attraversato il ripiano superiore, nel metter piede sulla scala chiara, traboccò a terra, vi giacque un momento; sì che Noemi, uscita della cappella, non la vide, la credette discesa in cerca del ritratto di san Francesco. Si rialzò, riprese la via, povera creatura di passione, richiamata invano dalle immagini di celeste pace, irrigidite sulle mura sacre. Tutto era davanti a lei silenzio e vuoto. Ell'andava per vie ignote a lei, veloce, sicura, come nella chiaroveggenza dell'ipnosi. Passava per buie stretture, per chiarori larghi, senza esitar mai, senza guardare né a destra né a sinistra, chiusi e acuiti tutti i sensi nell'udito, seguendo attimi di sussurri lontani, il dolersi lieve di un uscio, il vento di un altro, lo sfiorar di un abito a uno stipite. Così dai due spinti battenti dell'ultima porta ella emerse rapida in faccia a lui. Anch'egli l'aveva riconosciuta sulla Scala Santa, all'ultimo momento. Si tenne quasi certo di non essere stato riconosciuto alla sua volta; cercò tuttavia di togliersi dal solito cammino dei visitatori. Quando udì giungere a quella recondita sala un fruscìo rapido di vesti femminili, comprese, aspettò, a fronte della porta. Ella lo vide e impietrò sull'atto fra i battenti aperti, fissi gli occhi negli occhi di lui, che non avevano più lo sguardo di Piero Maironi. Era trasfigurato. La persona, forse per le vesti nere, pareva più sottile. Il viso pallido, scarno, spirava dalla fronte, fatta più alta, una dignità, una gravità, una dolcezza triste, che Jeanne non gli aveva conosciute mai. E gli occhi erano del tutto altri occhi, avevano un inesprimibile divino, tanta umiltà e tanto impero, l'impero di un amore trascendente, originario non del suo cuore ma di una mistica fonte ad esso interna, di un amore oltrepassante il cuore di lei, ricercantele più addentro una recondita regione dell'anima, ignota a lei stessa. Ella giunse lenta lenta le mani e piegò i ginocchi a terra. Benedetto si recò alle labbra l'indice della sinistra e tese l'altro alla parete fronteggiante il balcone aperto sui carpineti del Francolano e sul fragore del fiume profondo. Nel mezzo della parete nereggiava, grande, la parola SILENTIUM. Per secoli, da quando la parola era stata scritta, mai voce umana si era udita là dentro. Jeanne non guardò, non vide. A lei bastò quell'indice alle labbra di Piero per serrar le sue. Ma non bastò per costringerle il pianto in gola. Guardava guardava lui con le labbra strette e le sdrucciolavano grosse sul viso lagrime silenziose. Immobile, pendenti le braccia lungo la persona, Benedetto chinò un poco il capo e chiuse gli occhi, assorto nello spirito. La grande, nera parola imperatoria, grave di ombre e di morte, trionfava sulle due anime umane, ruggendo contro a lei dal balcone lucente le anime belluine dell' Aniene e del vento. A un tratto, pochi secondi dopo che gli occhi di Benedetto si erano chiusi allo sguardo di lei, ella balenò e si spezzò, dalle spalle alle ginocchia, in un singhiozzo amaro di tutta l'amara sua sorte. Egli aperse allora gli occhi, la guardò dolcemente, ed ella ribevve avida il suo sguardo, ebbe ancora due singhiozzi, quasi di dolorosa gratitudine. E perché l'amato si recò nuovamente l'indice alla bocca, gli accennò del capo di sì, di sì, che avrebbe taciuto, che si sarebbe chetata. Obbedendo sempre al suo gesto, al suo sguardo, si alzò in piedi, si fece da banda, lo lasciò passare per i battenti aperti, lo seguì umile, con la sua speranza morta nel petto, con tanti dolci fantasmi morti nella mente, con il suo amore fatto tremore e venerazione. Lo seguì fino alla cappella che chiamano la Chiesa superiore. Colà, di fronte alle tre piccole ogive che chiudono interne ombre dove si disegna un altare e una croce di argento brilla su parvenze fosche di pitture antiche, Jeanne s'inginocchiò, com'egli accennolle, sull'inginocchiatoio appoggiato al fianco destro della grande arcata che gira sulla volta acuta, mentr'egli s'inginocchiava su quello appoggiato al fianco sinistro. Sul timpano dell'arcata un pittore del secolo XIV ha dipinto il poema del massimo Dolore. Da un'alta finestra di sinistra scendeva la luce alla Dolorosa; Benedetto era nell'ombra. La voce di lui mormorò appena udibilmente: "Senza fede ancora?" Sommesso come aveva parlato egli e senza volgere il capo, ella rispose: "Sì." Egli tacque un momento e poi riprese con la stessa voce: "La desidera? Potrebbe operare come se credesse in Dio?" "Se non è necessario di mentire, sì." "Promette di vivere per i miseri e per gli afflitti, come se ciascuno di essi fosse una parte dell'anima da Lei amata?" Jeanne non rispose. Era troppo veggente e troppo leale per affermare che lo poteva. "Promette di farlo" riprese Benedetto "se io prometto di chiamarla presso di me in un'ora fissa dell'avvenire?" Ella non sapeva quale ora solenne, non lontana, egli pensasse, parlando così. Rispose palpitante: "Sì sì." "In quell'ora La chiamerò" disse la voce nell'ombra. "Però non cerchi mai rivedermi prima." Jeanne si strinse le mani sugli occhi, rispose un "no" soffocato. Le pareva di turbinare negli angosciosi sogni di una febbre mortale. Piero non parlava più. Passarono due, tre minuti. Ella si levò le mani dagli occhi lagrimosi, li fissò sulla croce che brillava là in faccia, oltre gli archetti ogivali, sulle fosche parvenze di pitture antiche. Mormorò: "Sa che don Giuseppe Flores è morto?" Silenzio. Jeanne volse il capo. Nessuno era più nella Chiesa.

e gridò abbasso: "Noemi! est-ce vous?" La voce limpida di Noemi rispose: "Oui, c'est nous!" Si udì un'altra voce femminile dirle forte: "Che bambina! Dovevi tacere!" Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a chiocciola. "Lei sapeva, professore Dane?" fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle, era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d' Arxel volevano fare una sorpresa, gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva, in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente, il dubbio che fosse lui l'amante scomparso di quella signora, la necessità di evitare un incontro che poteva essere terribile per l'una e per l'altro. Del colloquio fra sua moglie e il Padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di scendere. Quelle Signore si erano certo servite della carrozza che veniva a prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò, dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto. "Se Lei non vuole imbarazzarsi con Signore" diss'egli "venga subito con me che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto." Il Padre parve contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno salutare. "È anche tardi" diss'egli "Ho detto all' Abate, chiedendogli il permesso, che sarei ritornato alle nove e mezzo." Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall'altro capo con Maria e Noemi. Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch'è un'appendice della villa, voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l'atto di sua moglie, prontamente sussurrò al Padre: "Scenda diritto, subito!" Ma non valse. Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando: "Dove andate?" e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l'ortolano che lo attendeva nell'angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s'incontra col monte. Chiamò "Benedetto!" e si volse a Selva. "Se Lei volesse mostrargli il campicello?" Giovanni rispose: "A quest'ora?" mentre sua moglie diceva piano a Noemi: "C'è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino." Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero. "Perché?" disse. "Sono terribili?" E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l'intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla Vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: "che fai?" vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall'ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa. Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era sfuggito all'incontro. Selva, scioltosi dall'abbraccio di Noemi, stese la mano a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di Leynì, il Padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più dove l'aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando alle loro spalle, s'incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi: "Maria!" Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna, nell'angolo lasciato cinque minuti prima dall'ortolano di Santa Scolastica, ripeteva con voce debole: "niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso entriamo."Noemi, tutta palpitante, raccontò che l'amica si era sentita mancare a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di trarla fino a quel fascio di legna. "Andiamo, andiamo" ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò, sorretta dalle altre due, fino all'uscio della villa, sedette sullo scalino, aspettando un po' d'acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

Ma in quel momento qualcuno, ch'è sceso più abbasso in cerca del Santo, grida da lontano: il Santo viene! il Santo viene! Allora la caverna rigurgita gente sulla china, un fracasso di voci e di passi trabocca in giù, in un attimo tutto è vuoto intorno ai Selva e a tre o quattro studenti, fermi sotto l'entrata della capanna. Delle donne di Jenne parte è ritornata nel forno al lavoro, parte sta a guardare sulla porta. Maria scambia qualche parola con queste. Tutta forestiera quella gente ch'è scesa? Eh sì, non tutta ma quasi. Gente di Vallepietra, la più parte. Sarebbe meglio che da Vallepietra ci venisse l'acqua. E che vogliono? Portarsi via il Santo da Jenne? Sì, dicevano anche questo, parlavano di far gran cose. E voi? Noi si sa che lui non vole andare. E poi ... Le compagne gridano qualche cosa dal di dentro, la donna si volta, succede un litigio, i due Selva e gli studenti entrano a vedere la guarita miracolosamente. Noemi rimane fuori. È impaziente di vedere Benedetto, palpita, non ne comprende il perché, si chiama stupida nel suo cuore; ma non si muove. Due tonache benedettine venivano per i campicelli del basso, da lontano. Sopra la seconda lampeggiava tratto tratto un ferro di falce. Udito piombar dall'alto lo scroscio delle voci e dei passi, Benedetto disse al suo compagno con un sorriso: "Padre mio." Don Clemente, appena arrivato a Jenne, aveva raggiunto Benedetto sul praticello che stava falciando, gli aveva recato il messaggio doloroso e promesso, dopo un lungo colloquio, di tenere a chi lo chiamava Santo certo discorso che Benedetto desiderò. Udì anche lui lo scroscio della folla che scendeva, le grida "il Santo! il Santo!" e quando Benedetto gli ebbe detto sorridendo: "Padre mio!" impallidì, fece un gesto di acquiescenza e passò avanti. Benedetto depose la falce, uscì un poco del sentiero, sedette dietro un masso e un gran melo fiorito, che lo nascondevano ai sopravvegnenti. Don Clemente li affrontò solo. Al primo vederlo coloro si arrestarono. Più voci dissero: "non è lui!" e altre voci: "lui è dietro!" e altre ancora dalla retroguardia: "passate avanti!" La colonna si mosse. Allora don Clemente levò la mano e disse: "Ascoltate." L'uomo che non sapeva parlare a due persone sconosciute senza coprirsi di rossore, adesso era pallidissimo. La voce dolcemente velata si udì appena ma si vide il gesto. Il bellissimo viso sereno, l'alta persona, imposero riverenza. "Voi cercate Benedetto" diss'egli. "Voi lo chiamate Santo. Questo è un grandissimo dolore che voi gli date. Egli ha pur detto a tutti dal primo giorno del suo arrivo a Jenne di essere un gran peccatore ridotto a penitenza per la infinita bontà di Dio. Ma egli vuole che io vi confermi questo. Lo confermo, è la Verità. È stato un gran peccatore. Domani potrebbe cadere ancora. Se vi credesse un solo momento quando voi lo chiamate Santo, Iddio si allontanerebbe da lui. Non lo chiamate più Santo e soprattutto, poi, non gli domandate più miracoli." "Padre" lo interruppe con voce solenne, facendosi avanti e allargando le braccia, un vecchio alto, magro, sdentato, dal profilo d'aquila. "Padre, noi non domandiamo il miracolo, il miracolo è fatto, la donna, come ha toccato la dimora dell'uomo è guarita, e noi Le diciamo che l'uomo è Santo e se a Jenne vi è gente che dice altre cose è gente degna di bruciare nel fondo dell'inferno. Padre, noi Le baciamo le mani ma diciamo questo." "C'è un ammalato, ancora! C'è un ammalato, ancora!" gridarono dieci, venti voci. "Venga il Santo!" Dal gruppo degli studenti, alla retroguardia, si gridò: "avanti il Santo! Il Santo parli!" "O che modo è questo?" fece il vecchio volgendosi addietro con dispetto, da spodestato oratore del popolo. "Che modo è questo?" Un subisso di voci sdegnose coperse la sua, gridando gli studenti sempre più forte: "Venga il Santo! Parli il Santo! Via il prete! Via!" Le donne si voltarono minacciose: "Via voi, via!" E in alto, dalle stamberghe appollaiate sulla rovina, sbucarono i pennacchi dei carabinieri. Allora Benedetto si alzò, uscì allo scoperto. Appena fu veduto, un gran clamore di gioia lo accolse. I Selva si fecero sulla porta della caverna a guardare in giù, Noemi scese di corsa. Benedetto si trovò attorniato in un lampo da gente che gli baciava la tonaca benedicendo. Molti, ginocchioni, piangevano. Noemi, ch'era discesa sola dietro gli studenti, si slanciò avanti, vide finalmente l'uomo. Jeanne le ne aveva mostrate più fotografie, dicendo però che di nessuna era soddisfatta pienamente. Nella fisonomia simpatica di Piero Maironi Noemi aveva letto un'ombra interna di tristezza; quella di Benedetto luceva di straordinaria Vita. Da due giorni egli si era fatto radere capelli e barba per aver udito una donna sussurrare: "è bello come Gesù." La espressione dell'anima dominatrice gli si era accentuata nel naso più prominente per la maggiore magrezza, nelle grandi occhiaie scure. Gli occhi avevano un fascino inesprimibile. Spiravano tristezza anche adesso ma una tristezza dolce, piena di vigore e di pace, di devozione mistica. Attorniato, sotto la bianca nuvoletta del melo fiorente, dalla turba prostrata, circonfuso di sole e di mobili ombre, pareva una visione di pittore antico. Noemi impietrò, stretta alla gola da un groppo di pianto. Presso a lei parecchie donne piangevano, solo per averlo veduto, penetrate da una suggestione vicendevole. Una di esse, ammalata, stanca, si era seduta sull'orlo del sentiero, non poteva vedere il Santo, piangeva di commozione senza saperne il perché. Sopraggiunsero dei ritardatarii, un vecchio e tre donne di Vallepietra. Subito le tre donne, scambiando don Clemente per Benedetto, si misero a singhiozzare e a gridare: "com'è bello, com'è bello!" Intanto, sotto la bianca nuvoletta del melo fiorito, Benedetto riuscì con parole di dolore, di supplica, di rampogna, a respingere l'assalto della turba adoratrice, a farla rialzare in piedi. Un grido partì dal gruppo degli studenti: "parli!" In quello stesso momento, lassù in alto, le campane di Jenne annunciarono solenni il mezzogiorno al villaggio, alle solitudine, al monte Leo, al monte Sant' Antonio, al monte Altuino, alle nubi veleggianti verso ponente. Benedetto si pose l'indice alla bocca, le campane parlarono sole. Guardò don Clemente come per un tacito invito. Don Clemente si scoperse e cominciò a dire l' Angelus Domini . Benedetto, in piedi, a mani giunte, lo disse con lui e fino a che le campane suonarono tenne gli occhi fissi sul giovane che gli aveva gridato di parlare: gli occhi pieni di tristezza, di dolcezza mistica. Quello sguardo ineffabile, il suono delle campane solenni, il tremar dell'erba, l'ondular lieve dei rami fioriti al vento, il rapimento di tante facce lagrimose volte a una sola si componevano insieme per Noemi in una parola unica che la esaltava senza rivelarsi, come tormenta l'anima nel desiderio di sé la parola occulta sotto una tragica processione di accordi musicali. Le campane tacquero e Benedetto disse dolcemente a chi gli stava di fronte: "Chi siete voi e cosa è accaduto che vi ha fatto venire a me come se io fossi quello che non sono?" Gli fu risposto da più voci a un tempo, gli fu detto del miracolo e com'egli fosse desiderato nel villaggio degli uni e nel villaggio degli altri. "Voi esaltate me" diss'egli "perché siete ciechi. Se questa giovine è guarita non io l'ho guarita ma la sua fede. Questa forza della fede che l'ha fatta alzarsi e camminare è nel mondo di Dio, dappertutto e sempre, come la forza dello spavento che fa tremare e cadere. È una forza nell'anima come le forze che sono nell'acqua e nel fuoco. Dunque se la giovine è guarita è perché Dio ha disposto nel suo mondo questa gran forza; datene lode a Dio e non a me. Ma poi udite. Voi offendete Dio se la Sua potenza e bontà vi paiono più grandi nei miracoli. Esse sono dappertutto e sempre infinite. È difficile di capire come la fede risani, ma è impossibile di capire come questi fiori vivano. Il Signore non sarebbe mica meno potente né meno buono se questa giovane non fosse guarita. Pregate di guarire sì, ma pregate più ancora di comprendere questa grande cosa che vi ho detto ora, pregate di poter adorare la volontà del Signore quando vi dà la morte come quando vi dà la Vita. Vi sono nel mondo degli uomini che credono di non credere in Dio e quando le malattie e la morte entrano nelle loro case, dicono: è la legge, è la natura, è l'ordine dell' Universo, noi pieghiamo il capo, noi accettiamo senza mormorare, noi proseguiamo il cammino del nostro dovere. Guardate che questi uomini non passino avanti a voi nel regno dei cieli. E pensate anche quali miracoli domandate. Voi venite per esser guariti dalle malattie del corpo, voi volete che io venga nei vostri villaggi per questo. Abbiate fede e guarirete senza di me. Ricordatevi però che potreste usare anche meglio la vostra fede secondo la volontà di Dio. Siete voi tutti e interamente sani dell'anima vostra? No, voi non lo siete; e che vi servirà di aver l'otre sana se il vino è guasto? Voi amate voi stessi e le vostre famiglie più della Verità, più della giustizia, più della legge Divina. Voi avete presente sempre quello ch'è dovuto a voi e ai vostri e ben di rado quello ch'è dovuto agli altri. Voi credete di salvarvi colla moltitudine delle preghiere. E nemmeno sapete pregare. Voi pregate allo stesso modo i Santi che sono i servi e Iddio ch'è il Padrone; quando non fate peggio! Voi non pensate che al Padrone non importano le molte parole, ch'Egli preferisce essere servito fedelmente in silenzio col pensiero sempre alla Sua volontà. E non intendete i vostri mali, siete come il moribondo che dice: "sto bene." Forse alcuno di voi pensa in questo momento: se non intendo il male che faccio, il Signore non mi condannerà. Ma il Signore non giudica come i giudici del mondo. L'uomo che ha preso un veleno senza saperlo deve cadere come colui che lo ha voluto prendere. L'uomo che non ha la veste bianca non può entrare nella cena del Signore anche se non sapeva che la veste non era necessaria. Colui che ama se stesso sopra ogni cosa, sappia o non sappia il suo peccato, non passa per la porta del regno dei cieli, allo stesso modo che il dito della sposa, se è ripiegato sopra sé stesso, non entra nell'anello offerto dallo sposo. Conoscete le infermità dell'anima vostra e pregate con fede di esserne sanati. Vi dico in nome di Cristo che lo sarete. La guarigione del vostro corpo è buona per voi, per la famiglia vostra, per gli animali e le piante che avete in cura; ma la guarigione dell'anima vostra, credete questa cosa benché non la comprendete! la guarigione dell'anima vostra è buona per tutte le povere anime dei viventi sbattuti fra il bene e il male, è buona per tutte le povere anime dei morti che si purificano con fatica e dolore, come la vittoria di un soldato è buona per tutti della sua nazione. È anche buona per gli Angeli, che sentono tanta gioia, ha detto Gesù, per la guarigione di un'anima, e la gioia fa crescere la loro potenza, e la loro potenza, credete voi che sia per le tenebre o per la luce, per la morte o per la Vita? Domandate con fede, prima la guarigione dell'anima e poi la guarigione del corpo!" Dal ripido pendìo gli si porgeva una fitta di visi; avidi i più alti cui soltanto giungeva il suono della voce, e rigati di pianto; parte attoniti i più vicini, parte entusiasti, parte dubbiosi. Anche a Noemi colavano lagrime lungo le guancie smorte. Gli studenti avevano smesso l'aria beffarda. Quando Benedetto tacque, uno di loro avanzò risoluto e serio, per parlare. In quel mentre il vecchio esclamò: "E voi ci guarite l'anima!" Altre voci ripeterono ansiose: "E voi ci guarite l'anima! E voi ci guarite l'anima!" In un baleno, tutta l'avanguardia, presa dal contagio, traboccò in ginocchio tendendo le braccia supplici: "E voi ci guarite l'anima! E voi ci guarite l'anima!" Benedetto si gettò avanti con le mani nei capelli, esclamando: "Che fate ancora? Che fate ancora?" Un grido suonò dall'alto: "la miracolata!" La giovinetta che, posata sul giaciglio di Benedetto, si era sentita risanare, scendeva al braccio di una sorella maggiore, cercando Benedetto. Questi non badò al grido, al balenar della gente lassù, che si divideva per lasciar passare le due donne. Non valendo a far rialzare la gente, cadde ginocchioni egli pure. Allora coloro che gli stavano intorno si rialzarono, e giungendo ad essi il fremito commosso e le voci: "La miracolata! La miracolata!" fecero rialzare lui che pareva non avere udito. "La miracolata!" gli diceva ciascuno, "la miracolata!" cercando sul suo viso la compiacenza del miracolo con occhi che gridavano: "viene per voi, l'avete guarita voi!" come s'egli poco prima non avesse detto nulla. La giovinetta scendeva, smorta e giallognola come la petrosa via battuta dal sole, triste nel visetto gentile inclinato al braccio della sorella. E la sorella pure era triste. La turba si divise davanti a loro e Benedetto si fece da parte, riparò dietro don Clemente con un involontario moto che parve deliberato. Tutti trepidavano e sorridevano come nell'attesa di un altro miracolo. Le due donne non s'ingannarono, passarono davanti a don Clemente senza neppur guardarlo, si volsero a Benedetto e la maggiore gli disse, sicura: "Uomo Santo di Dio, tu hai guarito questa, guarisci l'altro!" Benedetto rispose quasi sotto voce, tutto fremente: "Io non sono un uomo Santo, io non ho guarito questa, per quest'altro che dite io potrò solamente pregare." Udito che l'altro era loro fratello, che stava nella sua capanna, sul suo letto e che soffriva molto, disse a don Clemente: "Andiamo ad assisterlo." E si mosse con il suo Maestro. Dietro a loro si ricompose rumoreggiando il fiotto diviso della gente. Benedetto si voltò a proibire che lo seguissero, a comandare che le donne si prendessero invece cura di quella giovinetta, la quale non doveva risalir l'erta a piedi sotto la sferza del sole ardente. Comandò che la portassero all'osteria, la facessero porre a letto, la ristorassero con cibo e vino. Quelli che lo seguivano si fermarono, gli altri fecero ala lasciarlo passare. Lo studente che prima aveva chiesto di parlare, lo accostò rispettosamente, gli domandò se più tardi egli e alcuni amici suoi avrebbero potuto trattenersi un poco, soli, con esso. "Oh sì!" rispose Benedetto con un virile, caldo impeto di assenso. Noemi ch'era lì presso, si fece coraggio. "Devo chiederle cinque minuti anch'io" diss'ella in francese, arrossendo; e subito le balenò di aver dato così a capire che lo conosceva persona colta, si fece tutta una vampa e ripeté la sua preghiera in italiano. Don Clemente premette un poco, quasi senza volerlo, il braccio a Benedetto, che rispose garbato ma un po' asciutto: "Vuol far del bene? Si occupi di quella povera ragazza." E passò oltre. Entrò nella sua stamberga, solo con Don Clemente. Nessuno lo aveva seguito. Una vecchia, la madre dell'ammalato, vedutolo entrare, gli si gettò piangendo ai piedi con le parole di sua figlia: "Siete voi l'uomo Santo? Siete voi? Una me ne avete guarita, guaritemi anche l'altro!" Sulle prime Benedetto, entrando dal sole in quel buio, non discerneva niente. Poi vide steso sul letto l'uomo che respirava male, gemeva, piangeva, imprecava ai Santi, alle femmine, al paese di Jenne, al suo maledetto destino. Inginocchiata accanto a lui, Maria Selva gli tergeva con un fazzoletto il sudore della fronte. Nessun altro era nella caverna. Presso alla porta luminosa la grande croce scolpita per isghembo sulla parete giallastra di roccia diceva in quel momento una oscura parola solenne. "Sperate in Dio" rispose Benedetto alla vecchia, dolcemente. E si accostò al letto, si piegò sull'infermo, gli prese il polso. La vecchia cessò di singhiozzare, l'infermo d'imprecare e di gemere. Si udì il ronzio delle mosche nel focolare chiaro. "Avete chiamato il medico?" mormorò Benedetto. La vecchia riprese a singhiozzare: "Guaritelo voi, guaritelo voi, in nome di Gesù e Maria!" L'infermo riprese a gemere. Maria Selva disse sotto voce a Benedetto: "Il medico è a Subiaco. Il signor Selva, che Lei forse conosce, è andato alla farmacia. Io sono sua moglie." In quel punto rientrò Giovanni, ansante, afflitto. La farmacia era chiusa, il farmacista assente. L'arciprete gli aveva dato del marsala. Dei signori venuti da Roma con gran provvigioni gli avevano dato del cognac e del caffè. Benedetto chiamo a sé con un cenno don Clemente, gli disse all'orecchio che facesse venire l'arciprete; quell'uomo stava morendo. Avrebbe potuto andar egli a chiamarlo ma gli pareva duro per la povera madre di allontanarsi. Don Clemente uscì senza far motto. A pochi passi dalla casupola, la compagnia elegante venuta da Roma per curiosità del Santo di Jenne, tre Signore e quattro signori, guidata da quel Signore di Jenne che s'era incontrato con i Selva sulla costa, si stava consultando. Veduto il benedettino, si parlarono sottovoce rapidamente e uno di loro, un giovinotto elegantissimo, incastratasi nell'occhio la caramella, avanzò verso don Clemente che era guardato dalle Signore con ammirazione, con rammarico che il Santo, come avevano udito dalla loro guida, non fosse lui. Anche costoro desideravano un colloquio con Benedetto. Lo desideravano specialmente le Signore. Il giovinotto soggiunse con un sorriso beffardo che quanto a sé non se ne credeva degno. Don Clemente gli rispose breve breve che per ora era impossibile di parlare a Benedetto; e tirò via. Colui riferì alle Signore che il Santo stava nel tabernacolo chiuso a chiave. Intanto Benedetto, supplicandolo sempre la madre desolata che non usasse medicine, che facesse il miracolo, confortava il giacente con qualche sorso dei cordiali portati da Giovanni Selva e più con parole, con lievi carezze, con la promessa di altre parole di salute che altri gli avrebbe portato. E la voce pia, tenera, grave, operò un miracolo di pace. L'infermo respirava male assai, gemeva ancora, ma non imprecava più. La madre, folle di speranza, mormorava a mani giunte, lagrimando: "Il miracolo, il miracolo, il miracolo." "Caro" diceva Benedetto "sei in mano di Dio e la senti terribile. Abbandònati, la sentirai soave. Ti poserà da capo nel mare di questa Vita, ti poserà nel cielo, ti poserà dove vorrà lei, abbandònati, non ci pensare. Quand'eri bambino la tua mamma ti portava, tu non domandavi né il come né il quando né il perché, tu eri nelle sue braccia, tu eri nel suo amore, tu non domandavi altro. Così anche ora, caro. Io che ti parlo ho fatto tanto male nella mia Vita, forse un poco ne hai fatto anche tu, forse te ne ricordi. Piangi piangi così abbandonato sul seno del Padre che ti chiama, che ti vuole perdonare, che vuol dimenticare tutto. Ora verrà il sacerdote e tu glielo dirai, il male che forse hai fatto, così come ricordi, senza angoscia. E poi, sai chi verrà da te nel mistero? Sai che amore, caro, sai che pietà, sai che gioia, sai che Vita?" Lottando con le ombre della morte, figgendo in Benedetto gli occhi vitrei, lucenti di un desiderio intenso e del terrore di non poterlo esprimere, il povero giovine che aveva inteso male il discorso di Benedetto, credendo di doversi confessare a lui, cominciò a dire i suoi peccati. La madre che durante il discorso di Benedetto, buttatasi ginocchioni alla parete di roccia vi teneva le labbra sulla croce aspettando il compimento del miracolo, scattò, al suono strano di quella voce, in piedi, balzò al letto, comprese, gittò un grido disperato con le mani al cielo, mentre Benedetto, atterrito, esclamava: "no, caro, non a me, non a me!" Ma l'infermo non intese, gli cinse con un braccio il collo, lo raccolse a sé, continuò la sua confessione ambasciata, ripetendo Benedetto: "Dio mio! Dio mio!" nello sforzo di non udire, né avendo cuore di strapparsi dal morente. Non udì infatti né udire era facile, tanto rade, rotte e torbide venivano le parole. E non si vedeva arrivare l'arciprete, e don Clemente non ritornava! Passi e voci sommesse si udirono bene al di fuori, qualche testa curiosa comparve all'uscio, ma nessuno entrò. Le parole del morente si perdettero in un garbuglio di suoni fiochi, egli tacque. "C'è gente fuori?" chiese Benedetto. "Qualcuno vada dall'arciprete, dica di far presto." Giovanni e Maria stavano attorno alla madre che, fuori di sé, trabalzava dal dolore alla collera. Dopo aver creduto al miracolo, non voleva credere che il suo figliuolo si fosse ridotto naturalmente a quegli estremi, ora singhiozzava per lui, ora imprecava alle medicine che gli aveva date Benedetto, per quanto i Selva le dicessero che non erano state medicine. Maria se l'era abbracciata e per confortarla e per trattenerla. Accennò a Giovanni che andasse lui dall'arciprete e Giovanni corse via. Gli occhi lucenti del moribondo supplicarono. Benedetto gli disse: "Figlio mio, desideri Cristo?" Il poveretto accennò di sì col capo e con un gemito inesprimibile. Benedetto lo baciò, lo ribaciò teneramente. "Cristo mi dice che i tuoi peccati ti sono rimessi e che tu parta in pace." Gli occhi lucenti sfavillarono di gioia. Benedetto chiamò la madre che dalle aperte braccia di Maria si precipitò sul figlio suo. Ecco entrare don Clemente trafelato, con Giovanni e l'arciprete. Don Clemente aveva trovato in canonica un ecclesiastico non conosciuto da lui, alle prese coll'arciprete. A sentir costui, una turba fanatica voleva portare in Sant' Andrea la pretesa miracolata per un ringraziamento a Dio. Era dovere dell'arciprete impedire un tale scandalo. La guarigione della ragazza se non era impostura non era nemmanco realtà. Il preteso taumaturgo poi aveva predicato un sacco di eresie sui miracoli e sulla salute eterna, aveva parlato della fede come di una virtù naturale, aveva criticato Gesù che guariva gl'infermi. Adesso stava fabbricando un altro miracolo con un altro disgraziato. Bisognava finirla. Finirla? pensava il povero arciprete che sentiva già odore di Sant' Uffizio. Era presto detto "finirla". Ma come, finirla? La visita di don Clemente, che sopravvenne a questo punto del discorso, lo fece respirare. Adesso, pensò, mi aiuterà lui. Invece le cose volsero al peggio. Udito il triste messaggio di don Clemente, quel prete esclamò: "Vede? Ecco i miracoli come finiscono! Ma Lei non deve entrare col Santo Viatico nella casa di quell'eretico s'egli prima non esce e non esce per non tornarci più!" Don Clemente avvampò nel viso. "Non è un eretico!" diss'egli. "È un uomo di Dio!" "Lo dice Lei!" esclamò il prete. "E Lei" proseguì volto all'arciprete "Lei ci pensi! Faccia come vuole, del resto; io non c'entro. A rivederla." Fatto un inchino a don Clemente, senza parole, scivolò fuori della camera. "E adesso? E adesso?" gemette il povero arciprete recandosi le mani alle tempie. "Quello è un uomo terribile ma io non voglio mancare verso Domeneddio. Dimmi tu, dimmi tu!" Aveva un Santo timore di Dio, sì, l'arciprete, ma non era neppure senza un timore fra Santo e umano di don Clemente, della coscienza severa che lo avrebbe giudicato. A don Clemente lampeggiò, nella stretta del momento, il partito da prendere. "Disponi per il Viatico" diss'egli "e vieni subito con me a confessare quel povero giovane. Benedetto farà vedere se è un eretico o se è un uomo di Dio." La fantesca venne ad avvertire che un Signore pregava il signor arciprete di far presto, presto, perché quell'ammalato moriva. Don Clemente, trafelato, entrò nella stamberga con Giovanni e l'arciprete. Chiamò Benedetto a sé, presso l'uscio e gli parlò sotto voce. L'ammalato rantolava. Benedetto ascoltò, a capo chino, le parole dolorose che gli chiedevano un atto di umiliazione santa, s'inginocchiò senza rispondere davanti alla croce scolpita da lui nella roccia, la baciò avidamente nell'incontro delle braccia tragiche e riaspirare in sé dal solco della pietra il segno del sacrificio, il suo amore, il suo bene, la sua forza, la sua Vita; e, rialzatosi, uscì di là per sempre. Il sole scompariva in un turbinoso fumo di nuvoli montanti a settentrione, dietro il villaggio. I luoghi che avevano poco prima brulicato di gente erano un livido deserto. Dalle svolte dei viottoli ghiaiosi, dietro gli usci socchiusi, dai canti dei casolari, donne spiavano. All'apparire di Benedetto si ritrassero tutte. Egli sentì che Jenne sapeva l'agonia dell'uomo venuto a lui per salute, che l'ora della potestà era venuta per i suoi avversari. Don Clemente, il Maestro, l'amico, gli aveva prima chiesto di deporre il suo abito e ora di uscire della sua casa, di uscire da Jenne. Con dolore e amore, ma glielo aveva chiesto. Fra l'amarezza e il digiuno, poiché non aveva potuto prendere la sua refezione meridiana di pane e fave, si sentì quasi venir meno, gli si oscurò la vista. Sedette sulla soglia ruinosa di una porticina chiusa, all'entrata della viuzza della Corte. Un lungo rombo di tuono suonò sul suo capo. Poco a poco, nel riposo, si riebbe. Pensò all'uomo che moriva nel desiderio di Cristo e un'onda di dolcezza gli tornò nell'anima. Sentì rimorso di aver dimenticato per alcuni istanti quel gran dono del Signore, di avere disamata la croce appena bevutone Vita e gioia. Si nascose il viso fra le mani e pianse silenziosamente. Un rumor lieve, in alto, d'imposte che si aprono; qualche cosa di molle gli batte sul capo. Si toglie trasalendo le mani dagli occhi; ai suoi piedi è una rosellina selvatica. Rabbrividì. Da parecchi giorni, o la sera rientrando nella sua spelonca o uscendone la mattina, ogni giorno aveva trovato fiori sulla soglia. Non li aveva tolti mai. Li poneva da banda, sopra un sasso, perché non fossero calpestati; non altro. Neppure aveva mai cercato di sapere qual mano li recasse. Certo la rosellina selvatica era caduta dalla stessa mano. Non alzò il capo e comprese che pur non raccogliendo la rosellina né accennando a raccoglierla, gli bisognava partire. Cercò levarsi, le gambe non lo reggevano ancora bene, tardò un momento a rimettersi in cammino. Il tuono rumoreggiava da capo, più forte, continuo. Una porticina si aperse, se ne porse una giovine vestita di nero, bionda, bianca come la cera, piena gli occhi azzurrini di sbigottimento e di lagrime. Benedetto non poté a meno di volgere il capo a lei. Riconobbe la maestra del Comune, che aveva veduto un momento in casa dell'arciprete, e già proseguiva senza salutarla quando ella gli gettò un gemito: "mi ascolti!" e, fatto un passo indietro nell'andito, cadde sulle ginocchia, gli stese le mani imploranti, ripiegando il capo sul petto. Benedetto si fermò. Esitò un momento e poi disse, con gravità severa: "Che vuole da me?" Si era fatto quasi buio. I lampi abbagliavano, il fragore del tuono empiva la misera viuzza, impediva ai due di udirsi. Benedetto si accostò all'uscio. "Mi hanno detto" rispose la giovine senz'alzare il viso e sostando agli scoppi del tuono "che Lei forse dovrà partire da Jenne. Una Sua parola mi ha dato la Vita, la Sua partenza mi farà morire ancora. Mi ripeta quella parola, la dica per me, solo per me!" "Quale parola?" "Lei stava col signor arciprete, io ero nella stanza vicina colla fantesca e l'uscio aperto. Lei diceva che un uomo può negare Dio senza essere veramente ateo e senza meritare la morte eterna, quando nega quel Dio che gli è proposto in una forma ripugnante al suo intelletto ma poi ama la Verità, ama il bene, ama gli uomini, pratica questi amori." Benedetto tacque. Lo aveva detto, sì, ma parlando a un prete e non sapendo di venire udito da persone forse non atte a comprenderlo. Ella sospettò la cagione di quel silenzio. "Non si tratta di me" disse. "Io credo, sono cattolica. È per mio Padre che ha vissuto così ed è morto così e ... se sapesse! ... hanno persuaso anche mia madre ch'egli non ha potuto salvarsi!" Mentr'ella parlava, rade gocce, grosse, cominciarono a battere, fra i lampi e i tuoni, sulla via, macchiarono la polvere di grandi macchie, scrosciarono col vento, sferzando i muri; ma né Benedetto riparò dentro l'uscio né lei gliene fece invito, e questa fu da parte di lei la confessione sola del sentimento profondo che si copriva di misticismo e di pietà filiale. "Mi dica, mi dica" implorò, alzando finalmente il viso "che mio Padre è salvo, che lo ritroverò in Paradiso!" Benedetto rispose: "Preghi." "Dio! Solo questo?" "Si prega forse per il perdono di chi non può essere perdonato? Preghi." "Oh, grazie! Lei è sofferente?" Queste ultime parole furono sussurrate così piano che Benedetto non poté udirle. Fece un gesto di addio e si allontanò fra le ondate di pioggia che flagellavano e urtavano via per il fango la morta rosellina selvatica. Forse da una finestra, forse dalla porta dell'osteria, Noemi, che vi stava con la ragazza di Arcinazzo, lo vide passare. Si fece dare un ombrello dall'oste e lo seguì sfidando la violenza del vento e della pioggia. Lo seguì, soffrendo di vederlo a capo scoperto e senza ombrello, pensando che se non fosse stato un Santo, lo si sarebbe detto un pazzo. Uscita sulla piazza della Chiesa, vide socchiudersi un uscio a mano diritta, un prete lungo e magro guardare dall'interno. Credette che il prete avrebbe invitato Benedetto a entrare, ma invece il prete, quando Benedetto gli fu vicino, chiuse l'uscio rumorosamente, con grande sdegno di lei. Benedetto entrò in Sant' Andrea ed ella pure vi entrò. Quegli andò a inginocchiarsi davanti all'altar maggiore, ella si tenne presso la porta. Il sagrestano, che sonnecchiava seduto sui gradini di un altare, uditi i loro passi, si alzò, mosse verso Benedetto. Ma egli era del partito dei preti romani e, riconosciuto l'eretico, ritornò indietro, domandò alla signorina forestiera se potesse dirgli niente di quel giovine ammalato di Arcinazzo ch'era stato portato in Chiesa la mattina, quando il sagrestano ci aveva veduta anche lei. E soggiunse che ne domandava perché aveva l'ordine di aspettare l'arciprete che sarebbe venuto per portargli il Viatico. Noemi sapeva che l'uomo di Arcinazzo era moribondo ma non più di così. "Ho capito" disse il sagrestano, forte, con intenzione. "Non vorrà saperne di Cristo. Questi sono i belli miracoli! Sia Benedetto Iddio per i tuoni e i fulmini che altrimenti ci portavan qui la ragazza!" E ritornò a sedere, a sonnecchiare sul suo gradino. Noemi non sapeva levare gli occhi da Benedetto. Non era un proprio e vero fascino né il sentimento appassionato della giovine maestra. Lo vide vacillare, poggiar le mani ai gradini e poi voltarsi, stentatamente, a sedere, né si domandò se soffrisse. Guardava lui ma più assorta in sé che in lui, assorta in un mutamento progressivo del proprio interno che la veniva facendo diversa, non riconoscibile a se stessa, in un senso ancora confuso e cieco di una Verità immensa che le si venisse comunicando per vie misteriose, che le torcesse con sofferenza intime fibre del cuore. I ragionamenti religiosi di suo cognato potevano averle turbata la mente; il cuore non glielo avevano toccato mai. E ora perché? Come? Cos'aveva detto, infine, quell'uomo macilento? Oh ma lo sguardo, ma la voce, ma ... Che altro? Qualche altra cosa, impossibile a comprendere. Un presentimento, forse. Quale? Ma! Chi sa? Un presentimento di qualche futuro legame fra quell'uomo e lei. Lo aveva seguito, era entrata in Chiesa per non perdere l'occasione di parlargli e adesso ne aveva quasi paura. Parlargli di Jeanne, poi anche. Jeanne, lo aveva ella compreso? Come mai aveva potuto Jeanne, amandolo, resistere alla corrente di pensiero superiore ch'era in lui, che forse a quel tempo sarà stata latente ma che una Jeanne doveva pur sentire? Cos'aveva ella amato? L'uomo inferiore? Se gli parlasse, non gli parlerebbe solamente di Jeanne, gli parlerebbe di religione, pure. Gli domanderebbe quale fosse la sua, proprio. E poi, s'egli le rispondesse una cosa sciocca, una cosa volgare? Per questo aveva quasi paura di parlargli. Una folata di pioggia batté dalle invetriate rotte di una finestra sul pavimento. Noemi pensò che mai più non avrebbe dimenticato quell'ora, quella grande Chiesa vuota, quell'oscuro cielo, quel colpo di pioggia entrato come un colpo di pianto, il naufrago del mondo assorto sui gradini dell'altare maggiore, Dio sa in quali sublimi pensieri, e neppure il sagrestano suo nemico, postosi a dormire sui gradini di un altro altare con la famigliarità noncurante di un collega di Domeneddio. Passò molto tempo, forse un'ora, forse più. La Chiesa si venne rischiarando, parve che smettesse di piovere. Suonarono le quattro. Entrò in Chiesa don Clemente e dietro a lui entrarono Maria e Giovanni, contenti di trovar Noemi, della quale non sapevano che fosse avvenuto. Si mosse anche il sagrestano che conosceva il Padre. "Dunque? Il Viatico?" Il Viatico? L'uomo, pur troppo, era morto. Al Viatico si era pensato troppo tardi. Il Padre domandò di Benedetto e Noemi glielo indicò. Parlarono del colloquio che Noemi desiderava. Don Clemente arrossì, esitò, ma poi non seppe come rifiutarsi a chiederlo e raggiunse Benedetto. Mentre i due discorrevano insieme, Giovanni e Maria ragguagliarono Noemi di quel ch'era accaduto. Entrato l'arciprete, l'infermo non aveva parlato più. Non era stato possibile di confessarlo. Intanto era scoppiato il temporale con tale veemenza, tali torrenti strepitavano intorno alla capanna che l'arciprete non aveva potuto uscirne per andar a prendere l'olio Santo. Si credeva che l'ammalato durasse qualche ora; invece, alle tre, era morto. Don Clemente e l'arciprete erano usciti appena lo avevano permesso i torrenti. Giovanni e Maria erano rimasti colla madre, che pareva impazzita, fino all'arrivo della sorella maggiore del morto. Allora erano partiti, anche per venire in cerca di Noemi. Non l'avevano trovata all'osteria, si erano diretti alla Chiesa. Avevano incontrato sulla piazza il Padre che usciva da una casa civile. Non sapevano che ci fosse andato a fare. Maria parlò con entusiasmo di Benedetto, de' suoi conforti spirituali al moribondo. Era sdegnatissima, come suo marito, della guerra fattagli da gente che adesso aveva buon giuoco a voltargli contro tutto il paese. Biasimavano la debolezza dell'arciprete e non erano contenti neppure di don Clemente. Don Clemente non avrebbe dovuto prestarsi alla cacciata del suo discepolo! Perché gli aveva detto lui di andarsene, quando era venuto l'arciprete. Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell' Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire! Intanto Benedetto e il Padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in disparte; il Padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un Signore del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in Chiesa fra pochi minuti. Il Signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il Signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall'arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio. Quando, nella camera dov'erano preparate le vesti laicali, il discepolo, svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto lo chiamò dolcemente. - Padre mio diss'egli. "Mi guardi." Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando pace. Il Padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola. "L'ho fatto per te" mormorò alfine don Clemente. "Ti ho portato io il messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo tuo abito vile più che nella tonaca." Benedetto lo interruppe. "No no" diss'egli "non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l'abito benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con quell'abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: "sono veramente prediletto da Dio!" E adesso ... "Oh ma ...!" esclamò il Padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: "non è detto che tu non lo riprenda, l'abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!" e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il Padre si affrettò a parlare d'altro, scusò l'arciprete ch'era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l' Autorità. "Io gli perdono" disse Benedetto "e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s'intende che operando contro il bene o astenendosi da operare contro il male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s'intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il bene, non astenendosi mai da operare contro il male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il bene o a favore del male, deponendo ai loro piedi la propria Vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!" A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente. "Maestro mio" diss'egli raddolcendosi nel viso "io lascio il tetto, il pane e l'abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò Vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là predicava in Chiesa! Io non predicherò in Chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all'uomo che operava nel nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?" "Per l'uomo del Vangelo sta bene, caro" rispose don Clemente "ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada." Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra. "Del resto, Padre mio" riprese Benedetto "lo creda, io non sono bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch'Ella deve sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con l'arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l'anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, Padre mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L'arciprete deve avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch'egli non li aveva letti ma sapeva ch'erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e dell'amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell'anima Sua!" Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un'altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando: "Anch'io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall'anima tua." Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l'abito deposto dal discepolo. Raccolto che l'ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l'ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell'interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni. Benedetto sorrise. "Oh, questo no!" diss'egli. "Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe farmi portare un po' di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare." Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in Chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un'altra persona. Quel moto era stato involontario. L'altra persona era lontana. "Non ci rivedremo" diss'egli "perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica." Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto "forse questo, forse altro" con un accento così pregno di sottintesi, che don Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò: "Pensi a Roma?" Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello dov'era la povera tonaca concessa e ritolta, se l'accostò, non senza un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente. Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola evangelica? Era l'attesa di un'ora lucente nell'avvenire? Rese il fardello al Maestro. "Addio" diss'egli. Don Clemente uscì a precipizio. La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia, l'altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente Vita esterna, delle stille che gocciavano dai tetti, dell'aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie né pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell'alta Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi genitori avessero vissuto trenta, vent'anni di più! Almeno uno di essi! Si vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria: a Franco in Dio la sua Luisa e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza. "No no no" mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose: "Non ci vuole ascoltare?" Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente perché avesse spogliato l'abito clericale. Benedetto non rispose. "Non lo vuol dire?" fece colui. "Non importa, senta. Noi siamo studenti dell' Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo." Uno dei compagni tirò l'oratore per la falda dell'abito. "Sta zitto!" disse il primo. "Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che stanno giuocando all'osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s'era possibile; insomma per stare allegri." I compagni lo interruppero, protestando. "Ma sì!" ribatté lui. "Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s'è udito il discorsino ch' Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse, questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina, questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe Verità religiose c'interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista." I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato. "Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m'interessa più del Cristianesimo!" Qui successe un battibecco fra i tre per quest'uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l'opinione di un cattolico intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande a fargli. Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta disordinata di quesiti. Sarebb'egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell'infallibilità del Papa e del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente? Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proi­bito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell'ispirazione? Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore. "Un medico" diss'egli finalmente "aveva fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull'arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così." Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì: "Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: - Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l'ho letto in viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara." Il giovine dal polso prigioniero non poté a meno di batter le ciglia. "Non parlo per Lei" disse Benedetto. "Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: - Venite voi a me per avere Vita e salute? Io vi darò l'una e l'altra. Non ve­nite per questo? Io non ho tempo per voi. - Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e disse: - Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva." I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese: "Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di Verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla." "Non vorrei" disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto "che per vedere questa Sua lampada di Verità si dovessero chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch' Ella non voglia spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma." "Mi dia il Suo nome" disse Benedetto. Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso. "Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso." Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto. "Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?" Benedetto tacque. L'altro insistette: "Non vuoi rispondere neppure a questo?" Benedetto sorrise. "Non expedit" diss'egli. Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora: Non fu dal vel del cuor giammai disciolto e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto. "Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno mistica di suo marito. Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti. "Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po' di effettivo bene operato in un'anima. "Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!" Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta. "La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro." Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono. Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne. "Signorina" diss'egli. Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto, tanto meglio." Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile. "Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo. "No" esclamò ansioso. "Non so niente!" Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente: "Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore? Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò: "Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande." Benedetto si scoperse il viso. "Dolore e non dolore" diss'egli. Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta. Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse. "Non ho ancora finito" diss'ella. E soggiunse subito: "Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante ... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 4 occorrenze

Quegli evviva irritarono sotto l'impressione delle parole pronunziate dal loro candidato, risposero con gridi di: Abbasso il gesuita! Abbasso lo sfruttatore! Abbasso l'incettatore! Abbasso il libertino! Don Calogero Moltedo e molti altri si affacciarono udendo quelle grida e risposero con parole offensive per l'Orlando. Allora il farmacista Sarno, che era fra quelli che gridavano di più, apostrofò il dottore: Se avete coraggio, uscite! Era una sfida e fu raccolta da molti. In un momento la sala dell' adunanza si vuotò, e gli elettori di Roberto erano giù in piazza, in atteggiamento minaccioso, prima che il Frangipani si fosse accorto di che si trattava. Quando lo seppe, perché gli fu detto dai pochi rimasti intorno a lui, corse alla finestra, ma la zuffa si era già impegnata e volavano pugni e sassi, e i pochi carabinieri, volendosi intromettere, erano sballottati di qua e di là dagli urti di quelle due masse che si attaccavano e si respingevano con furia. Roberto pallido e calmo si fece largo fra i suoi e con la voce potente gridò: Basta! Basta! Egli dominava tutti con l'alta persona e fu ubbidito. In quel momento comparve il Bonaiuto alla testa di una squadra di ragazzi, carichi dei discorsi dell' Orlando, offrendoli a tutti. Alcuni partigiani di Roberto li stracciarono con rabbia, altri prendeva il foglio stampato e si metteva a leggerlo. La presenza di Roberto impedì che il conflitto ricominciasse, poiché nessuno degli avversarj osava ripetere in faccia a lui i gridi che aveva pronunziati poco prima. Si può dire che tutto Castelvetrano fosse su quella piazza, diviso in due campi. Roberto, vedendo così numerosi i suoi partigiani, ebbe un lieve sussulto. Ormai era nella lotta e voleva vincere, però non voleva che si ripetesse la scena di poco prima, che poteva degenerare in battaglia, e indusse i suoi ad andare a casa. Essi ubbidirono, facendogli una nuova dimostrazione di simpatia e a poco a poco la piazza si votava. Alcuni minuti più tardi Roberto traversava il paese in carrozza e non incontrava altro che gruppi di amici e di nemici che leggevano il discorso dell'Orlando. Il Lo Carmine ne aveva una copia in tasca, ma esitava a metterla fuori. Allorché la carrozza fu a una certa distanza dalla città, Roberto gliela chiese e la lesse senza turbarsi. Calunnie che non faranno presa, - disse rendendo il foglio all'amico, - infante cui non merita rispondere; esse non mi strapperanno un voto. L'altro lesse pure, ma si turbò. Era più assuefatto alla vita politica, aveva maggior pratica delle elezioni e conosceva meglio la sospettosa indole del popolo; quella allusione al palazzo di Citerà lo afflisse immensamente. Roberto non conosceva i precedenti attacchi della Trinacria, diretti contro Velleda, non sapeva degli spasimi della povera signora, non aveva letto la biografia di lei, pubblicata quella mattina istessa, nella quale sotto un diluvio di elogi per l'opera letteraria di quell'ingegno eletto, si fingeva di commiserare la sorte toccata alla donna alla moglie, svelando tutte le piaghe della sua vita col pretesto di accennare alle cagioni che l'avevano tolta al mondo delle lettere. Non c'era una parola di cui non fosse stato prima calcolato l'effetto sul lettore ; e siccome il Lo Carmine supponeva, con ragione; che quasi tutti quelli cui era capitato in mano il discorso dell'Orlando avessero pure percorso l'articolo su Velleda, era sicuro che l'allusione agli amori di Roberto non sfuggisse ad alcuno e che il nome di Velleda venisse coperto di motteggi e di onta. In quelle ore passate in carrozza e in casa Moltedo, egli aveva pensato sempre a lei, a lei che doveva soffrire mille strazj e mille torture. Restate a colazione da me, - avevagll detto Roberto quando la carrozza era entrata nel giardino, e mentre il Frangipani saliva in camera sua, il Lo Carmine penetrava nella sala da pranzo già apparecchiata. dove incontrò il Varvaro. Dio mio! - esclamò il direttore appena lo vide; che cosa abbiamo fatto con questa, elezione! Avete letto anche voi? - domandò lo scienziato alludendo all'articolo della Trinacria. Altro che letto! La signora Velleda è stata colpita da una febbre! Da più ore è sul letto e trema senza che si riesca a riscaldarla. Avete chiamato il dottore? No, non avevo la carrozza, che è tornata adesso. Sono un poco medico io stesso e le ho fatto dare il chinino, il cognac e applicare senapismi; ma essa non migliora; Maria non vuole uscir di camera e la chiama incessantemente, Costanza l'assiste. Il Lo Carmine dette allora al Varvaro il discorso dell'Orlando e gli narrò la scena avvenuta in piazza. A che cosa giungeremo? - domandò il direttore sgomentato. - In questi quindici giorni si dibatterà anche il processo contro Alessio al tribunale: avremo altri attacchi dall'OrIando, altre scene ... . Purché non si veda scemare il numero dei partigiani del signor Roberto! - rispose Io scienziato. - Questo discorso mira a ciò. Per ora sono fedeli, - osservò il Varvaro, - ma sono così mobili! Pochi giorni fa gli operai adoravano la signora Velleda come si adora la Madonna; ora rifiutano il pranzo perché è lei che ha istituito le cucine, e la insultano. Il Varvaro tacque, udendo i passi di Roberto sulle scale. Egli scendeva insieme con Maria e aveva scritto sul volto il dolore che lo torturava. Perché mi avete nascosto tante cose? - domandò al Varvaro e al Lo Carmine severamente. - Eicevo ora, insieme con la biografia della signora, due numeri dello stesso giornale che io dovevo aver letti da più giorni! Oggi hanno avuto l'accortezza d'inviarmeli in busta chiusa, se no li ignorerei ancora; chi lotta deve essere informato di tutto. La signora, - rispose il Varvaro per iscusarsi, voleva che le fosse risparmiata questa pena e noi le abbiamo ubbidito. Roberto non parlò quasi mai durante la colazione, ma si vedeva che egli ruminava un pensiero. Prima di alzarsi disse: Sentite, Varvaro: io vi affido una missione delicata o spero la compirete. Andate a Palermo; il treno passa alle tre e minuti da Castelvetrano e giungerete in tempo; a Palermo vi recherete alla dirczione del giornale e sappiate intendete, sappiate farvi dire chi è l'autore dell'articolo. Intanto da Castelvetrano spedite il dottore: la signora Velleda sta male. Il Varvaro andò a preparar le valigie, e il buon Lo Carmine, pentito di essere stato lui la causa involontaria di tanti dolori, rimase a divertire Maria, mentre Roberto risaliva in camera della malata, che era tuttavia scossa dal tremito della febbre.

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