Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbasso

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Giacomo l'idealista

663181
De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Sentendosi abbastanza sicuro sulle gambe, provò a scendere le scale, e quando fu abbasso, nella cucina, si accostò al camino, dove bolliva sommessamente un caldano, e sedette nella poltrona di legno del pà, che era stata la poltrona dei vecchi, sempre davanti a quel medesimo camino dalle panchette logorate, dagli alari consunti, dagli oscuri ripostigli, che contenevano le cose dei morti. Ogni generazione vi aveva dimenticato qualche cosa, chi una pipa, chi una scatola di fiammiferi, chi una tabacchiera, chi una moneta, chi un cartoccio di tabacco, chi un libro da messa o un rosario, o un bastone, o un falcetto; e si sa che ogni cosa lasciata indietro ha dentro di sè un poco dell'anima di chi è partito, come resta il calore della vita per breve tempo anche dopo che la vita ha cessato di battere nel corpo. Molta cenere era stata portata via e dispersa dal giorno che davanti alla pietra scolpita del camino era stata accesa la prima fiamma; e ogni cenere morta contiene un pugno delle nostre speranze! Ma nessuno de' suoi era stato avvilito e amareggiato come avevano avvilito e amareggiato il filosofo di casa, il grand'uomo, che intorno a quell'affumicato edificio di casa sua aveva creduto d'innalzare un tempio ideale ricco di pietre preziose. Non era passato un mese dal dí che aveva sognato di far sedere Celestina al suo fianco, lí davanti a quel camino, e di rinnovare con lei nella casa dei Lanzavecchia un nuovo patto; ma intanto ch'egli costruiva i sogni suoi nella cenere, c'era chi faceva di lei e dell'onore di tutti e due il piú orribile strazio. No, no, nessuno dei vecchi padri era passato per queste verghe; nessuno avrebbe saputo immaginare per sé una simile ignominia. Questi era riservata al discendente filosofo, al raffinato analizzatore della vita, perché avesse con comodo a scriverne un bel libro. Questo gli andavano ripetendo con ironico aspetto le sedie, le casse, gli utensili accostati al muro, la polverosa cicogna, che alzava il collo dimezzo ai trespoli consunti sull'armadio, questo gli suggeriva ogni altra apparenza, a cui l'occhio, l'abitudine, la memoria avvessero attaccato un po' della sua vita. Che stava egli a tener in conto questa sua miserabile esistenza senza bene, senza coraggio e senza rassegnazione? L'odio, che gli stillava dal cuore, non faceva che corrodere come un acre veleno le sue viscere, senza infondergli l'ardimento d'una vendetta o di una qualunque azione vigorosa, che giovasse alla sua dignità. Il suo posto nel mondo non poteva essere che un oscuro nascondiglio, come si riserva agli arnesi scassinati; e allora che giovava il vivere? Ancora una volta si mosse e girò intorno alla tavola, non potendo star fermo su questi aculei; ma nell'alzare gli occhi, un cupo pensiero si fermò sullo schioppo da caccia a due canne, attaccato per la bandoliera lungo il muro sulla cappa del camino. Era un vecchio schioppo di buona fabbrica bresciana d'un calibro solido e pesante, che nelle mani del pà non aveva mai sbagliato un colpo. Giacomo osservò che uno dei cani aveva la capsula, segno che c'era dentro una carica. Con un braccio appoggiato alla sponda della tavola, a cui cercava di reggere il corpo affievolito, si domandò con terrore se il caso ha i suoi suggerimenti, socchiuse gli occhi, volò con l'immaginazione a quel che poteva essere di lui al di là d'un gesto fatale. Un gran picchio di cuore gli fece sentire il rombo della schioppettata e si rimirò disteso col petto squarciato attraverso la pietra del camino. Cedendo al fiero invito, montò sopra una sedia, distaccò il fucile, alzò il cane sulla capsula girò gli occhi intorno. Proprio in quell'istante presero a suonare le campane del Sanctus della messa. - Povera donna .! - mormorò: e buttò la capsula nella cenere. La notte, ebbe un breve ritorno di febbre; tanto che il dottore gli consigliò, anche in vista della brutta stagione, di restare a letto qualche giorno di piú.

Donna Cristina, che temeva la solitudine de' suoi pensieri, chiamava spesso di notte la ragazza nella sua camera (il conte per riguardo al suo cuore dormiva abbasso accanto allo studio), e vegliando con lei, pregando insieme colle quattro mani legate dallo stesso rosario, cogli occhi fissi nell'immagine dell'Addolorata, cercavano di prepararsi ad affrontare il terrore della loro situazione. Nell'ardore di quel tormento, che le consumava, scomparivano le differenze sociali; nel proprio dolore ciascuna sentiva l'altra, si compassionavano come sorelle e si eccitavano a vicenda con isquisite suggestioni. La raffinatezza di questa cura, mentre esauriva le forze dell'infermiera non era tale da infondere coraggio e quiete nella malata. Al contrario, i momenti di inquietudine nervosa si facevan piú frequenti, piú spesse tornavano le allucinazioni, le visioni, i terrori fatui, che facevan balzare la ragazza dal letto e trasalire la contessa nel mezzo de' suoi sogni torbidi e posticci. Durante certe notti, in cui la povera vittima non poteva chiudere occhio, toccava alla contessa scendere, tre, fin quattro volte, dal letto, attraversare il piccolo corridoio, che divideva la sua stanza da quella della ragazza, inginocchiarsi ai piedi dell'altro letto, pregare la sofferente di non piangere piú, di non farsi sentire da Enrichetta, che dormiva poco lontano, la carezzava, le sussurrava orazioni e paroline di pace, la segnava colla croce, le metteva sul petto un crocifisso o vecchie reliquie benedette, finché la stanchezza e il cloralio tornassero ad assopirla. Qualche altra volta, entrando nella stanzetta, trovava la disgraziata seduta sul letto, colle mani morte sui ginocchi, immobile come la statua della meditazione, insensibile al freddo, sorda alla voce di chi la chiamava, con tutte le facoltà concentrate e ipnotizzate in una sola idea, che si condensava nell'oscurità: che cosa doveva dire al suo Giacomo? Di mano in mano che si avvicinava il tempo di tornare a Cremona (ritorno che avveniva sempre nell'estate di San Martino), la contessa, che vedeva la necessità di prendere una deliberazione, cominciò a parlare alla ragazza di queste sue buone parenti di Buttinigo, che l'avrebbero ricevuta volentieri. "Il luogo è quasi un convento, quieto come una chiesa, fuori dagli occhi del mondo. Nella compagnia delle buone signore, due vere sante, e nella vicinanza delle monache della Noce, avrebbe trovata la forza e la pazienza di sopportare la sua disgrazia, insieme ai balsami della religione e della carità. Cosí toglieva alla gente ogni occasione di sussurro, e dava a lei più libertà di preparare l'animo di Giacomo a ricevere il terribile colpo. Del bene se ne può fare dappertutto e in ogni stato: e se il Signore teneva conto del suo grande sacrificio, doveva un giorno rimunerarla con qualche grazia particolare. Qualunque fossero i suoi bisogni e i suoi desideri, avrebbe sempre trovato in lei una madre amorosa e riconoscente". E per dimostrarle che la sua compassione non era fatta di sole parole, le regalò e le mise al collo una preziosa crocetta di lapislazzuli, che una sua amica aveva portato da Lourdes: l'obbligò ad accettare una somma di denaro per far fronte ai bisogni e per accontentare qualche capriccio. Con questo minuto lavoro di antiveggenze, di ingegnose astuzie, di raffinatezze femminili, che alla povera signora, non abituata agli artifici della simulazione, costavano notti intere di pensieri e di spasimi, le riusci di ridurre a poco a poco l'animo incolto e non indocile di Celestina, se non alla rassegnazione passiva, a considerare almeno il suo stato con meno tremito, con minore ribellione di spirito. Tutto il fascino, che una maggiore educazione di spirito, la forza della mente e gli splendori incantevoli della ricchezza possono esercitare su una natura primitiva, incapace di troppo lunghe resistenze, fu messo in opera dalla madre spaventata, colla rapida e sgomentata destrezza che c'insegna e fuggire da un pericolo incalzante; arrivò fino a far tacere, fino a respingere qualche rimorso, che il delicato senso della rettitudine naturale e della carità andava sollevando. In questa tremenda battaglia donna Cristina Magnenzio sapeva d'aver in giuoco la vita e l'onore de' suoi figli; e senza aver mai letto i consigli del Machiavelli, piú che ai modi del vincere badava a vincere presto. La ragazza agli ultimi di ottobre, nella sua integra ignoranza, non sospettava ancora quel che non era piú un dubbio per l'esperienza della madre: per evitare che questa nuova coscienza le nascesse in casa, prima che l'intimo mistero si annunciasse con qualche moto, la signora si affrettò a sfruttare tutti i buoni propositi e le ultime debolezze della vittima. Celestina, rimessasi da una lunga febbre, che ne aveva scossa e indebolita la volontà, si lasciò persuadere ad abbandonare la casa della sua disgrazia, senza avvertirne Giacomo. Per rendere questa partenza piú naturale, una mattina la contessa fece attaccare assai di buon'ora, e, scesa con Celestina, lasciò detto al conte che sarebbero tornate per l'ora della colazione, dopo aver fatte certe loro divozioni alla Madonnina della Noce, dove si celebrava la festa centenaria. Partirono loro due sole con un tempo limpido e fresco, che pareva un sorriso della natura. Tutta la strada quanto fu lunga, dal Ronchetto alla Madonnina, non si dissero che poche parole e a lunghi intervalli: il tumulto dei pensieri impediva di parlare. Quando ebbero passato l'Adda sul traghetto d'Imbersago, entrambe mandarono un piccolo sospiro e si strinsero la mano. Quel fiume, che restava indietro, voleva dire per la ragazza tutta la sua bella vita perduta per sempre; per la signora invece una prima battaglia vinta. - Addio, povero Giacomo, - fece la misera, con voce rotta, ma senza piangere. - Procura di essere buona e rispettosa verso queste signore, che hanno promesso di tenerti sotto la loro protezione, e vedrai che il Signore ti ricompenserà. - Cosí cercò di consolarla la contessa con parole, in cui si sarebbe già potuto sentire un tono di minore angustia. Al trotto serrato dei due cavalli, che sentivano l'energia del riposo e la sferza dell'aria mattutina, la carrozza, dopo aver risalita la riva sinistra dell'Adda, prese a correre sulla strada provinciale di Bergamo. Celestina vide diminuire e restar indietro le note montagne, e confondersi sotto il nuovo orizzonte la linea delle sue colline, che andavano rimpicciolendosi in una malinconica distanza, mentre le campagne a destra e a sinistra della strada si facevan piane, uguali, costeggiate da piccole siepi polverose, non interrotte che dalle piante smozzicate dei gelsi. Traversarono borgate ignote, quasi ancora deserte in quell'ora mattutina, dalle quali non usciva che il suono fuggente di qualche incudine, o il rombo d'un filatoio, che si accompagnava a una mesta cantilena di lavoratrici, o l'abbaiare di un cane, che uscito da un cascinale, inseguiva un tratto la carrozza; poi di nuovo ricominciava la strada bianca e si continuava a correre per luoghi sconosciuti, che suscitavano nell'animo superstizioso della giovine il sospetto che la menassero, come si dice, a perdersi. "Addio, povero Giacomo ." ripeteva in cuor suo a lontani intervalli, concentrando in questo pietoso ritornello tuttoquello che sentiva di soffrire e non era in grado di esprimere. E come se al rotolare delle ruote, che la menavan via, si svolgesse il filo delle sue memorie lontane, le passavan negli occhi chiusi le Fornaci, la vignetta, lo zio Mauro, la zia Santina, le stesse scontrosità un po' odiose della Lisa, che non la poteva vedere, ma che avrebbe avuto pietà di lei, se fosse andata a cercarle aiuto contro questi mali, che la perseguitavano; oh, potevano menarla lontano trecento miglia e seppellire il suo corpo trenta braccia sotto la terra; il cuore non si sarebbe mai mosso da quei siti. Povero Giacomo! come avrebbe ricevuto il gran colpo? avrebbe creduto alla sua innocenza? Oh sí, ma non avrebbe voluto piú rivederla. Né lei avrebbe osato piú tornargli davanti, mai, dal momento che non poteva piú essere quella di prima. Oh gli assassini che cosa avevan fatto di lei! Soltanto a ripensare quel che avrebbe potuto essere per il suo Giacomo, il cuore che pareva morto, ridestavasi con impeto doloroso; lei sarebbe morta un'ora o l'altra per uno di questi schianti. E doveva questa vergogna toccare al piú santo degli uomini, al suo Giacomo, al suo angelo . Osservava con occhio inerte le cose che passavano nella via, dicendo di sí con un movimento automatico del capo tutte le volte che la contessa rinnovava una raccomandazione, mentre il pensiero sprofondavasi con un senso quasi di amara voluttà nell'immaginare quel che non poteva piú essere. - Glielo dirà proprio che sono stata sorpresa? che sono innocente? - balzò una volta a dire, afferrando con improvviso ardimento la mano della signora. - Te lo giuro - rispose questa con sincera franchezza. - E gli dica che cerchi di perdonare anche lui, - soggiunse la poverina, umiliandosi di nuovo nell'angolo della carrozza. Un brivido di commozione passò nel cuore di donna Cristina Magnenzio a quelle buone parole, che sollevavano un'anima semplice alle sublimi altezze della bontà e del perdono, mentre un'altra anima vicina era in via di godere, anzi pregustava già gli amari sapori dei male che trionfa. Socchiuse anch'essa gli occhi un istante per non vedere questa abbagliante seduzione di una virtú, che si eleva fino alla divina aristocrazia della bontà e del sacrificio, e ricompensò la carità della giovine collo stringerle a lungo la mano ardente tra le sue mani inguantate, come se volesse con quel lungo contatto comunicarle la sua tenerezza, e farle sentire con quell'atto materno tutta la forza di una promessa che non aveva parole per parlare. Col cuore immiserito, cogli occhi immobili verso le siepi, donna Cristina cercò di asciugare, con un battere frequente delle palpebre nell'aria viva, il velo di lagrime che le coprí le pupille. Un dolore crudele e duro la strozzava alla gola e al petto. Un quarto d'ora dopo, Giosuè arrestò i cavalli sopra un piazzaletto erboso ombreggiato da antichi platani, che stava davanti alla vecchia chiesa della Madonnina. Il Rebecchino venne ad aprire la portiera. - Siete qui? - chiese la contessa - chi c'è? - Donna Adelasia aspetta in chiesa. La contessa andò avanti, e aspettò Celestina sulla porta. Entrarono nella chiesetta tutta parata a festoncini bianchi, azzurri, con frangie d'oro, mentre un prete stava celebrando la messa davanti a molte donnicciole. Donna Adelasia dal suo banco riservato fece un segno, e si ritirò per lasciar loro il posto sulla predella. Celestina si trovò in mezzo alle due signore nel momento che le quattro monache del coro intonavano un'orazione flebile e lamentevole, su cui la voce grossa del prete correva col rumore d'un carro incorsa. Celestina girò gli occhi intorno e si sentí una gran voglia di gridare. Che avevano fatto di lei? che luogo era questo? che cosa dicevano queste voci lamentose? La contessa, che in questo supremo istante non cessava mai dal sorvegliarla, volle che sedesse e le passò con una soave carezza una mano sui capelli. E quando sonò il campanello dell'elevazione la signora e la cameriera, inginocchiate sulla stessa predella, accostarono la testa a pregare insieme fervorosamente. Quindi donna Cristina le disse piano: - Non voglio far pensare male a casa. Ti lascio con donna Adelasia. Verrò a trovarti presto, appena gli avrò parlato. Coraggio e fiducia nel Signore . Celestina strinse con la mano convulsa e irritata un lembo del vestito della contessa, e, fissandola con occhio spaventato, la supplicò di restare ancora. La signora aspettò ancora un istante: e quando donna Adelasia voltò il viso dalla sua parte, le fece capire che il momento doloroso era venuto. La vecchia dama circondò col braccio la vita della giovine, come se l'invitasse a ripetere una preghiera, e lasciò in tal modo alla contessa agio di sciogliere il vestito dalle dita tenaci. Il corpo di Celestina quasi si sfasciò sul banco. Donna Cristina uscí dal tiepore e dalla religiosa penombra della chiesuola nell'aria cruda e viva, fece un segno quasi marziale col guanto a Giosuè, che si accostò alla carrozza. Essa vi entrò, il Rebecchino chiuse la portiera e i cavalli partirono a corsa. L'emozione, acerba come un rimorso, le impediva di piangere, e gli occhi, quanto fu lungo il viaggio, restarono immobili in una stupefazione insensibile, coperti di un velo di lagrime cristallizzate.

L'ANNO 3000

677901
Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Abbasso il psicoscopio ... Paolo rimase imperterrito, e il Presidente suonò più volte il campanello, invocando silenzio e pace. Intanto la sala si era vuotata più che mezza, e il segretario potè ripigliare la sua relazione: L'Accademia ha creduto a voti unanimi di conferire il primo premio al signor Fortunati, perchè se le due altre scoperte ci allargano le frontiere del conoscibile, il psicoscopio ci promette un'era nuova di moralità e di sincerità fra gli uomini. Quando noi tutti sapremo, che chiunque può leggere nel nostro cervello, faremo sì che pensieri e opere non si contraddicano, e noi saremo buoni nel pensiero, come cerchiamo di esserlo nelle opere. È a sperare che col psicoscopio la menzogna sarà bandita dal mondo o almeno sarà un fenomeno rarissimo, che si andrà perdendo del tutto; come tutte le funzioni e gli organi, che non hanno più uno scopo necessario o utile. E lasciamo da parte tutti i vantaggi, che potrà arrecarci il nuovo strumento nella diagnosi delle malattie mentali, nell'educazione, nella psicologia. La scienza del pensiero entrerà ben presto in un nuovo mondo, e di certo è assai più utile all'uomo il conoscere se stesso, che il centro della terra o gli abitanti degli altri pianeti. Dacchè l'uomo è comparso sulla terra, egli ha fatto immensi progressi nelle scienze, nelle arti, nelle lettere; in tutto ciò che riguarda la vita del pensiero; ma nella moralità il progresso è ancora molto addietro, e non è punto in armonia con quello della mente. Il psicoscopio ci promette di realizzare questo sogno di tutti i secoli, quello cioè che il progresso morale sia parallelo a quello intellettuale, e siccome tutti crediamo, che il primo per la felicità degli uomini sia molto più importante dell'altro, ecco perchè l'Accademia ha creduto di dover assegnare il primo premio al signor Paolo Fortunati, che ha inventato il psicoscopio. Tutti quelli che erano rimasti nella sala, perchè non avevano paura che il terribile strumento ottico leggesse attraverso il loro cranio alcuni pensieri malvagi, si alzarono in piedi, applaudendo fragorosamente il fortunato vincitore del premio cosmico, e che anche nel suo nome portava quasi il vaticinio della sua gloria ... L'unica persona che non si alzò, era la più felice e la più commossa. Era Maria, che si nascondeva il volto nel fazzoletto per celare le lagrime di una gioia infinita, che la innondava tutta quanta dal capo ai piedi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo intanto era sceso dal banco della presidenza, era ritornato al suo posto, e là le lagrime di due felici si univano insieme, confondendosi nell'estasi di un'ebbrezza sola. Tutti i presenti guardavano commossi quel gruppo dei due felici, persuasi che l'abbraccio di quella donna in quel momento, in quel luogo, era il premio più alto e primo della scoperta immortale di Paolo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . *** Pochi giorni dopo Paolo e Maria, dopo aver avuto l'alto consenso del Tribunale sanitario di Andropoli, per unirsi nel matrimonio fecondo; ne ricevevano nel Tempio della Speranza il sacramento solenne, e da amanti, che lo erano già da varii anni, diventavano marito e moglie; avendo acquistato per consenso della scienza il più alto dei diritti, una volta concesso a tutti nei tempi barbari; quello cioè di trasmettere la vita alle generazioni future. 1 Il Panglosso è un teatro riserbato agli uomini molto colti e dove si danno rappresentazioni nelle lingue morte, dal greco all'italiano, dal latino e dal sanscrito all'inglese, al turco, al chinese. 2 Il Teatro dei buffoni di Andropoli ha lo scopo di far ridere ad ogni costo, onde rallegrare gli ipocondriaci, gli annoiati e tutti i depressi. 3 Il Teatro del pianto non dà che rappresentazioni melanconiche, ma non mai strazianti, per mettere una nota triste e pur desiderata nella vita dei troppo felici.

Teresa

678495
Neera 4 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Se passava un organetto, intanto ch'ella cuciva giù abbasso, sul gradino di legno accanto alla finestra, quel suono improvviso la scuoteva tutta, ricordandole emozioni deliziose. Nei caldi pomeriggi di luglio, durante la passeggiata sull'argine, e, piú tardi, in piazza dove i giovani del paese facevano l'olio ella intuiva il segreto di quegli andirivieni, delle fermate, delle parole tronche, dei segni misteriosi. C'era Luzzi, Boccabadati, il tenente dei carabinieri, il farmacista; qualche volta Orlandi, due o tre altri, e in mezzo a tutti, Teresina cercava avidamente, inutilmente. A novembre, nell'occasione della fiera, si aperse il teatro, con una compagnia di canto discreta. Si dava il Rigoletto Carlino che vi era andato una volta, in loggione, dove si pagavano ottanta centesimi, cantarellava i pezzi principali dell'opera. Sua sorella lo stava ascoltando, per ricantarli a bassa voce, senza dimenticare le parole. La dichiarazione d'amore del duca a Maddalena le piaceva, ma piú ancora e soprattutto le piaceva l'aria di Gilda, Tutte le feste al tempio Voleva che Carlino le spiegasse chi era Rigoletto, e chi il giovane che sua figlia incontrava al tempio. Carlino dava qualche particolare, brusco, grossolano; descriveva la faccia terribile di Sparafucile e la gobba ridicola del buffone. - Ma Gilda, Gilda? Faceva spallucce. - Gilda miagola come una gatta; e poi le donne, sai, io non le guardo. Teresina che non si lusingava affatto di poter andare a teatro, provò una gioia come da gran tempo non provava, il giorno in cui la pretora venne a dire alla mamma: - Ho una chiave di palco per questa sera; ci vado io e mia cognata. Mi lascia venire anche Teresina? La signora Soave, per delicatezza, osservò che sarebbero state troppo pigiate, tre donne in un palco. La pretora insistette; ma occorreva persuadere il signor Caccia, perché senza il suo consenso non si faceva nulla. Tra gli argomenti della pretora c'era questo: che Teresina era ormai una giovane fatta e, se volevano maritarla, bisognava pure che si facesse vedere. Il signor Caccia, brontolando, acconsentì. Sorsero ancora alcune piccole difficoltà riguardo all'acconciatura. La signora Soave disse che Teresina non aveva un abito adatto; ma anche qui la moglie del pretore tagliò il nodo, assicurando che una ragazza, quando è pettinata bene, con un paio di guanti freschi e con un fiore, può andare dappertutto. Finché la questione pendeva, Teresina stava come sulle spine; ma quando alla fine ogni intoppo fu levato, ed ebbe la certezza del divertimento che l'aspettava, lasciò libero campo alla gioia. Abbracciò sua madre, abbracciò la pretora; fece le scale tre o quattro volte, di corsa, senza alcun bisogno; andò alla finestra, aperse cassetti, incominciò un lavoro, lo smise. - Quella ragazza si monta la testa, - sentenziò il signor Caccia - guai a incominciare. - Ma è la sua età, Prospero, siamo stati giovani anche noi! La signora Soave guardò partire sua figlia, intenerita come quando era partita per Marcaria, seguendola coll'occhio umido, pieno di tenerezza e di speranza. La pretora, che era una donna molto disinvolta, raccomandò a Teresa un contegno spigliato; e la fanciulla, memore di aver già fatta la sua prima comparsa in società, la assicurò che non era piú novizia. Si sentiva infatti una certa baldanza sicura. Ma fu tutt'altra cosa quando, affacciatasi al palchetto, vide in giro una triplice fila di lumi, e giù abbasso tutte quelle teste, e su in alto tante altre teste ancora. Le sembrava che tutti la guardassero. - Ebbene, Teresina, somigli a una statua. Di' su qualche cosa. La cognata osservò che era meglio lasciarla rinvenire a poco a poco, finché si fosse avvezza all'ambiente. Allora le due signore presero a discorrere tra loro, nel fondo del palco. Teresina, davanti, appoggiata al parapetto, guardava la folla, riconoscendo qua e là volti noti. Ecco in seconda fila le tre sorelle Portalupi, vestite di color canerino, con tre ventagli canerini. Nel palco accanto il sottoprefetto, elegantissimo, distinto, con un paio di polsini che luccicavano come fossero di porcellana, colla sua bella barba da meridionale, divisa in mezzo, e gli occhi miopi impertinenti, che osservavano dappresso le signore. Tutta la famiglia Arese, le donne in abito di velluto, coi brillanti; gli uomini gravi, compassati, con un po' di noia dipinta sul volto. La moglie del sindaco, in abito nero, lo stesso che metteva per andare a messa; venuta per compiacenza, senza intender nulla, sperando che lo spettacolo finisca presto. In un palchetto di prima fila, don Giovanni, solo, sdraiato su due sedie, sbadigliando. - Chi è quel signore? - domanda la cognata, che è nuova al paese. La pretora risponde un tono piú basso: - È Boccabadati, il gallo della Checca. - Non ne ha l'apparenza. - Sicuro, qui! Le conosce tutte. Dicono che venga per il contralto, quella che fa da Maddalena. - È ricco? - Abbastanza; ma le donne non glie ne lasciano molti -. Abbassò la voce un altro tono. - Vedi quella figura alta, pallida, là in platea? - Con un velino in testa? e una rosa rossa? - Appunto. È la modista di piazza. Qualche - anno fa egli l'ha ... - pausa - e dovette sborsare una bella somma. - Sì? - Per il figlio. Teresina ascoltava, ritta, immobile. Non poteva vedere la modista, che le stava a tergo, ma aveva davanti don Giovanni nella sua sibaritica indifferenza, grasso, florido; già invaso dal torpore che aspetta, sulla quarantina, gli uomini che hanno goduto largamente la vita. Quella gran pace, dopo ciò che aveva udito, la turbava; era segretamente irritata da un mistero che le sfuggiva continuamente. Un momento ancora, e la sua attenzione era tutta quanta assorbita dallo spettacolo. Non batteva ciglia, non fiatava; appena un personaggio apriva la bocca, ell'era tutt'orecchi, appena uno si muoveva, i suoi occhi lo seguivano attentamente. Calato il sipario, si voltò di botto verso la pretora. - E Gilda? - Gilda verrà or ora, al secondo atto. - Mi pare cattivo quel buffone. - No, non è cattivo; vedrai in seguito. - E il duca? - Ah! il duca ... vedrai, vedrai. Gilda apparve, vestita di bianco, bruttina, ma abbastanza giovane, e con un'aria modesta che piacque subito a Teresa. Cantò bene, con sentimento in luogo di voce, infiorando d'una malinconia soavissima il racconto de' suoi amori collo studente. Teresina era rapita in estasi; il bello dell'arte si rivelava al suo cuore, già aperto all'amore. Ella seguì con ansia angosciosa lo svolgersi dell'azione drammatica; si spaventò al ratto di Gilda, pianse con Rigoletto, ebbe sdegno e disprezzo per i cortigiani, e attese, palpitante, il ritorno di Gilda sulla scena. Qui tornò a stendersi un velo nella sua mente. Fu tentata di chiedere, perché Gilda si mostrasse tanto disperata per trovarsi in casa del duca; un vago istinto le suggerì che la sua domanda era ridicola, e tacque, meditando. Arse d'ira contro il duca, nella scena del bosco. Maddalena le parve una sguaiataccia, incapace di poter destare amore. Ma la tragica fine di Gilda, intanto che lo scettico passa nel fondo canterellando la sua canzone, quella fine la colpì profondamente. Dovette ritirarsi, nell'ombra, a nascondervi le sue lagrime. - Che fai, bambina, è possibile tanta ingenuità? Non è un fatto vero, sai? Gilda, a momenti, andrà a cena, pienamente d'accordo col suo amante. Così la moglie del pretore tentava di acchetare Teresina, senza riuscirvi, perché la sua commozione aveva un'origine occulta. La passione intensa di quel dramma d'amore trovava una corrispondenza segreta ed intima nell'anima della fanciulla, a cui l'amore si era rivelato con una sofferenza. Le potenti creazioni di Rigoletto e del duca, la soave figura di Gilda erano piú che personaggi; erano sentimenti, erano passioni incarnate e la grandiosità terribile ed umana di tutto quel lavoro si ripercoteva in ogni sua fibra. Sotto i colpi di quella forte commozione, la natura spirituale della fanciulla si temprava, nobilitandosi, afferrando i contorni di un ideale sicuro. Ella fuse, nel suo pensiero, il proprio amore coll'amore di Gilda. I ricordi, che già principiavano a sbiadire, perdettero l'impronta personale, mescendosi a una quantità d'altre impressioni e ad aspirazioni nuove. Da quella sera non pensò piú, direttamente, al giovane che le aveva suscitato il primo palpito. Pensò all'amore, vago, misterioso, sterminato: a tutto un mondo tumultuante, non ancora interamente rivelato, ma che le si svolgeva a gradi, con bagliori improvvisi, con rapide ferite, con intuizioni meravigliose, poggiando fra la canzone beffarda del duca e il rantolo di Gilda morente ...

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