Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Piccolo mondo antico

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Fogazzaro, Antonio 5 occorrenze

Prima di arrivare a Origa udì, giù abbasso, un rumor lieve di remi. Sapeva che la barca delle guardie passava qualche volta la notte alla riva di Val Malghera. Eran le guardie, certo. Sotto i castagni di Origa respirò. Là era coperto e camminava sull'erba, senza rumore. Scese la costa occidentale di Val Malghera e risalì dall'altra parte senza intoppi. Nell'avvicinarsi a Rooch il cuore gli martellava a furia. Rooch è come un avamposto di Oria. Ivi mette capo la stradicciuola ch'egli aveva salita tante volte con Luisa nei tepidi pomeriggi invernali, cogliendo violette e foglie d'alloro, discorrendo dell'avvenire. Si ricordò che l'ultima volta avevano avuto una piccola disputa sullo sposo desiderabile per Maria, sulle qualità che dovrebbe avere. Franco avrebbe preferito un agricoltore e Luisa un ingegnere meccanico. Rooch è una cascina posta a ridosso di pochi campicelli scaglionati sul monte che fanno una chiara piccola macchia nella boscaglia. Una stanza sopra, la stalla sotto, un portichetto davanti alla stalla, una cisterna nel portichetto; non c'è altro. Il portichetto s'affaccia sulla viottola ciottolata che passa da due a tre metri più basso. Dal ciglio del burrone di Val Malghera a Rooch ci son pochi passi. Salito sul ciglio, Franco udì qualcuno parlare sommessamente nella cascina. Sostò e, fattosi da banda, si stese bocconi sull'erba fuori del sentiero, lungo un cespuglietto di castagni. Non udì più parlare, ma udì venire un rapido passo d'uomo e stette immobile, trattenendo il respiro. L'uomo si fermò quasi accanto a lui, aspettò un poco, poi ritornò indietro adagio e disse ad alta voce, con accento forestiero: "Non c'è niente. Sarà stata una volpe". Le guardie. Seguì un lungo silenzio durante il quale non osò muoversi. Le guardie ricominciarono a discorrere ed egli si propose d'indietreggiare senza far rumore, di calarsi da capo in Val Malghera per girare dietro la cascina, in alto. Si levò adagio adagio le scarpe. Stava per muoversi quando udì le guardie, tre o quattro, uscire dalla cascina discorrendo e venire verso di lui. Ne intese una dire: "Non resta qui nessuno?", e un'altra rispondere: "È inutile". Quattro guardie gli passarono accanto una dopo l'altra senza vederlo. Non avevan sospetti perché discorrevano di cose indifferenti. Uno diceva che si può restare sott'acqua dieci minuti senz'affogare, un altro ribatteva che dopo cinque minuti bisogna morire. La quarta passò in silenzio ma, appena passata, si fermò; Franco rabbrividì udendola fregar un fiammifero. Quegli accese la pipa, tirò due o tre boccate di fumo, e poi domandò ai compagni, alquanto forte perché s'eran già dilungati, scendevan la costa di Val Malghera. "Quanti anni aveva?" Uno di coloro rispose, pure forte: "Tre anni e un mese". Allora la quarta guardia tirò altre due boccate di fumo e si rimise in cammino. Franco, che stava bocconi, all'udir "tre anni e un mese", l'età di Maria, si alzò sulle braccia stringendo l'erba convulsivamente. Il rumor dei passi si perdeva già in Val Malghera. "Dio, Dio, Dio, Dio!", diss'egli. Si rizzò ginocchioni, ripeté lentamente dentro a sé, come istupidito, la parola terribile: "aveva". Si torse le mani, gemette ancora: "Dio, Dio, Dio, Dio!". Di quel che fece in seguito non ebbe quasi coscienza. Scese a Oria con la sensazione vaga d'esser diventato sordo, con un gran tremito nel braccio che portava la bambola. Arrivò alla Madonna del Romìt, attraversò il paese e invece di scendere per la scalinata del Pomodoro continuò diritto per il sentiero che raggiunge la scorciatoia di Albogasio Superiore, discese per la stessa scaletta che aveva presa la Pasotti il giorno prima della catastrofe. Vide sulla faccia della chiesa un chiaror debole che usciva dalla finestra dell'alcova, non si fermò sotto la finestra illuminata, non chiamò, entrò nel sottoportico e spinse l'uscio. Era aperto. Entrò dal fresco della notte in un'afa pesante, in un odore strano di aceto bruciato e d'incenso. Si trascinò a stento su per le scale. Davanti a lui, sul pianerottolo a mezza scala, veniva lume dall'alto. Giunto là vide che la luce usciva dalla camera dell'alcova. Salì ancora, mise il piede sul corridoio. L'uscio della camera era spalancato; molti lumi dovevano arder là dentro. Sentì, con l'odor d'incenso, odor di fiori, fu preso da un tremito violento, non poté avanzare. Dalla parte della cucina si udiva qualcuno dormire, dalla parte dell'alcova non si udiva niente. A un tratto la voce di Luisa parlò, tenera, quieta: "Vuoi che venga anch'io, domani, dove vai tu, Maria? La vuoi la tua mamma, in terra con te?". "Luisa! Luisa!", singhiozzò Franco. Si trovarono nelle braccia l'uno dell'altro, sulla soglia della loro camera nuziale che aveva la memoria degli amori ancor viva e il dolce lor frutto, morto. "Vieni, caro, vieni vieni", diss'ella e lo trasse dentro. Nel mezzo della camera, fra quattro ceri accesi, giaceva nella bara aperta, sotto un cumulo di fiori recisi e languenti come lei, la povera Maria. Erano rose, vainiglie, gelsomini, begonie, gerani, verbene, frondi fiorite di olea fragrans , e altre frondi non fiorite, egualmente scure, egualmente lucenti: le frondi del carrubo già tanto caro a lei perché tanto caro al suo papà. Fiori e frondi erano sparsi anche sul viso. Franco s'inginocchiò singhiozzando: "Dio, Dio, Dio!", mentre Luisa prese due roselline, le pose in una manina di Maria e poi la baciò sulla fronte. "Tu puoi baciarla sui capelli", diss'ella. "Sul viso no. Il dottore non vuole." "Ma tu? Ma tu?" "Oh, per me è un'altra cosa." Egli posò invece le labbra sulle labbra gelide che trasparivano tra le foglie di carrubo e fiori di geranio. Ve le posò lievemente, come per un addio tenero, non disperato, alla veste caduta e vuota della diletta creatura sua partita per altra dimora. "Maria, Maria mia", sussurrò fra i singhiozzi, "che cosa è stato?" Egli non aveva inteso affatto che il primo discorso delle guardie sugli annegati avesse un nesso col secondo. "Non lo sai?", gli chiese la moglie senza sorpresa, pacatamente. Gliel'avevano detto com'era stato telegrafato; ma ella sapeva pure che Ismaele doveva recarsi a Lugano per incontrarvi Franco e ignorava che Ismaele, arrivata la posta dal Ceneri senza nessuno, era andato a dormire. "Povero Franco!", diss'ella baciandolo sul capo, quasi maternamente. "Non c'è mica stata malattia." Egli si rizzò in piedi, esclamò atterrito: "Come? Non c'è stata malattia?" La persona che Franco aveva udito dormire, la Leu, entrò in quel momento per far suffumigi, vide Franco, rimase sbalordita. "Va'", le disse Luisa, "posa il fuoco lì fuori, mettici quel che vuoi e poi va in cucina, dormi, povera Leu." Quella obbedì. "Non c'è stata malattia?", ripeté Franco. "Vieni", gli rispose sua moglie, "ti racconterò tutto." Lo fece sedere sulla dormeuse, a piè del letto matrimoniale. Egli la voleva accanto a sé. Ella gli fe' segno di no, di non insistere, di tacere, d'aspettare, e sedette a terra presso la sua creatura, incominciò il racconto doloroso con voce piana, eguale, indifferente, quasi, al dramma che diceva, con una voce simile a quella della sorda Pasotti, che pareva venire da un mondo lontano. Prese le mosse dall'incontro con la Bianconi in Campò e disse, sempre con la stessa calma, tutti i pensieri, tutti i sentimenti che l'avevan portata ad affrontare la nonna, disse i fatti sino al momento in cui s'era convinta che Maria non aveva più vita. Quand'ebbe finito s'inginocchiò a baciar la sua morta e le sussurrò: "Il tuo papà ha in mente che t'ho uccisa io, adesso, ma non è vero, sai, non è vero". Egli si alzò, tutto vibrante di una commozione senza nome, si chinò sopra di lei, la raccolse da terra, non renitente né abbandonantesi, con mani risolute e riguardose, se la collocò vicina sulla dormeuse, le cinse con un braccio le spalle, la strinse a sé, le parlò sui capelli, bagnandoli di poche lagrime ardenti che a quando a quando gli rompevan la voce: "Povera Luisa mia, no, non l'hai uccisa tu. Come vuoi che io pensi questa cosa? Oh, no, cara, no. Io ti benedico, invece, per tutto che hai fatto per lei da quando è nata. Io che non ho fatto niente, ti benedico, te che hai fatto tanto. Non dir più, non dir più quella cosa! La nostra Maria ..." Un violento singhiozzo gli ruppe le parole, ma subito l'uomo, con forte volere, si vinse, continuò: "Non sai cosa dice la nostra Maria in questo momento? Dice: mamma mia, papà mio, adesso siete soli, ciascuno di voi non ha che l'altro, siate uniti più che mai, donatemi a Dio perché mi ridoni a voi, perché io sia il vostro angelo e vi conduca un giorno a Lui e stiamo insieme per sempre. La senti, Luisa, che dice così?". Ella fremeva nelle sue braccia, scossa da sussulti violenti, col viso basso, resistendo a Franco che glielo voleva alzare. Finalmente gli prese in silenzio una mano e gliela baciò. Egli pure, allora, la baciò sui capelli. Poi gli sussurrò: "Rispondimi". "Tu sei buono", rispose Luisa con voce accorata e debole, "tu hai pietà di me ma non pensi quello che tu dici. Tu devi pensare che la causa della sua morte sono io, che se avessi seguito i tuoi sentimenti, le tue idee, non sarei uscita di casa, e se non uscivo di casa non succedeva niente, Maria sarebbe viva." "Lascia star questo, lascia star questo. Tu potevi credere che Maria fosse in camera o con la Veronica, tu potevi rimanere in sala con gli sposi e la disgrazia sarebbe successa ugualmente. Non pensar più a questo, Luisa. Ascolta invece quello che ti dice Maria." "Povero Franco! Poveretto, poveretto!", disse Luisa, con un'amarezza di sottintesi paurosi, da far gelare il sangue. Franco tacque, tremando, non valendo a immaginare cosa ella pensasse, eppure temendo udirlo. Si sciolsero lentamente dalla loro stretta, Luisa per la prima. Ella riprese però la mano di suo marito, volle accostarsela da capo alle labbra. Franco trasse teneramente a sé quella di lei, tentò un'ultima parola: "Perché non mi vuoi rispondere?" "Ti farei troppo male", diss'ella, sottovoce. Egli ebbe il senso di una irreparabile rovina nell'anima di lei e tacque. Non ritirò la mano ma si sentì mancare ogni forza, invader da uno scuro, da un gelo, come se Maria, chiamata inutilmente, fosse morta una seconda volta. L'angoscia, la stanchezza, l'afa, i misti odori della camera poterono tanto sopra di esso che dovette uscire per non venir meno. Andò in loggia. Le finestre erano aperte; l'aria pura, fresca, lo rianimò. Pianse, al buio, la sua figliuola, senza ritegno, senza nemmeno quel ritegno che vien dalla luce. S'inginocchiò ad una finestra, s'incrociò le braccia sul petto, pianse, col viso al cielo, lagrime e parole a flutti, parole incomposte di strazio e di fede ardente, chiamando Dio in aiuto, Dio, Dio che lo aveva colpito. E glielo disse, a Dio, con la piena delle lagrime, che gli permettesse di piangere ma che sapeva bene perché la bambina era morta. Non aveva egli tanto pregato che il Signore la salvasse dal pericolo di perdere la fede stando con sua madre? Ah quella sera, quella ultima sera che Maria gli aveva detto "papà mio, un bacio" e tante altre tenerezze e non voleva lasciar la sua mano, come come aveva pregato! Era un terrore, una gioia, uno spasimo di ricordarlo. "Signore, Signore", diss'egli verso il cielo, "Tu tacevi e mi ascoltavi, Tu mi hai esaudito secondo le tue vie misteriose, Tu hai preso il mio tesoro con Te, ella è sicura, ella gode, ella mi aspetta, Tu ne congiungerai!" Non fu amaro il dirotto pianto in cui le parole morirono. Ma dopo, pensando ancora quest'ultima sera, gli fu amarissimo di esser partito senza dirlo a Maria, di averla ingannata. "Maria, Maria mia", supplicò piangendo, "perdonami!" Dio, come gli pareva impossibile che tutto questo fosse vero, come gli pareva di andar nell'alcova, di doverla trovar là, dormente nel suo lettino, con la testa piegata sulle spalle e le manine aperte abbandonate sulle lenzuola, con le palme in su! E invece vi era, sì, ma! ... Oh che cosa! non poteva, non poteva essere fine al pianto. Venne la Leu col lume e gli portò il caffè. L'aveva mandata la signora. Egli ebbe un movimento di tenera gratitudine per sua moglie. Dio, povera Luisa, che infelicità nera la sua! E quali spaventose apparenze di castigo per lei nel colpo che le piombava sopra in quel momento, proprio in quel momento! Lo aveva ben compreso, lei, ch'egli doveva pensar così e lo pensava davvero e aveva negato per pietà, sì, per pietà com'ella aveva inteso pure. E queste spaventose apparenze di castigo non frutterebbero dunque niente? Ella si separava da Dio più che mai, chi sa fino a qual punto. Povera, povera Luisa! Non era da pregar per Maria, Maria non ne aveva bisogno, era da pregar per Luisa, da pregar dì e notte, da sperar nelle preghiere dell'animetta cara, nascosta in Dio. Egli parlò con la Leu, abbastanza calmo, si fece raccontar da lei tutto che aveva veduto, tutto che aveva udito della cosa terribile. "La voreva propi el Signor la Soa tosetta", disse la Leu per ultimo. "Bisoeugnava vedèlla in gièsa, cont i so manitt in crôs cont el so bel faccin seri. La somejava on angiol tal e qual! Propi." Poi domandò a Franco se desiderasse tener il lume. No, preferiva star allo scuro. E il funerale, a che ora si farebbe? La Leu credeva che si farebbe alle otto. La Leu, quando cominciava a discorrere, non smetteva facilmente e forse aveva anche paura di starsene soletta in cucina: "El so papà!", diss'ella ancora prima di andarsene. "El so car papà! L'è forsi minga vott dì che son vegnüda chì a portagh di castegn a la sciora e sta cara tosetta, che la parlava inscì polito, propi come on avocàt, la fa: "Sai, Leu, presto il mio papà viene a Lugano e io vado a trovarlo". Ciào, l'è ona gran roba!" Lagrime e lagrime. Ah Iddio aveva preso la bambina per toglierla agli errori del mondo, Iddio aveva punito Luisa degli errori suoi ma non era disegnato l'orribile castigo anche per lui? Non aveva egli colpe? Oh sì, quante, quante! Ebbe la chiara visione di tutta la propria vita miseramente vuota di opere, piena di vanità, mal rispondente alle credenze che professava, tale da renderlo responsabile dell'irreligiosità di Luisa. Il mondo lo giudicava buono per le qualità di cui non aveva merito alcuno, essendo nato con esse; tanto più severo sentiva sopra di sé il giudizio di Dio che molto gli aveva dato e frutto non ne aveva colto. S'inginocchiò da capo, si umiliò sotto il castigo, nella desolata contrizione del cuore, nell'ardor di espiare, di purificarsi, di farsi degno che Iddio lo ricongiungesse con Maria. Pregò e pianse a lungo a lungo, poi uscì sulla terrazza. Il cielo imbiancava sopra la Galbiga e le montagne del lago di Como; veniva giorno. Dal nero Boglia imminente soffiavano le tramontane fredde. Da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, si levaron suoni di campane. L'idea che Maria e la nonna Teresa erano insieme, felici, salì al cuore di Franco spontanea, chiara e soave. Gli parve che il Signore gli dicesse: ti addoloro ma ti amo, aspetta, confida, saprai. Le campane suonavano da vicino e da lontano, a riva di lago e nell'alto grembo della valle, il cielo diventava più e più bianco sopra la Galbiga, verso il lago di Como, lungo l'erto profilo nero del Picco di Cressogno; e le distese dell'acqua piana prendevano laggiù in levante, fra le grandi ombre dei monti, un chiaror di perla. Le frondi della passiflora, tocche dalle tramontane, ondulavano silenziosamente sopra il capo di Franco, agitate dall'aspettazione della luce, della gloria immensa che scendeva in oriente colorando di sé nuvoli e sereno, salutata dalle campane. Vivere, vivere, operare, soffrire, adorare, ascendere! La luce voleva questo. Portarsi via i vivi tra le braccia, portarsi via i morti nel cuore, ritornare a Torino, servir l'Italia, morir per lei! Il nuovo giorno voleva questo. Italia, Italia, madre cara! Franco giunse le mani in uno slancio di desiderio. Anche Luisa udì le campane. Non avrebbe voluto udirle, non avrebbe voluto che venisse giorno mai più, che venisse l'ora di ceder Maria alla terra. Inginocchiata presso il corpicino della sua creatura le promise che ogni giorno, finché avesse vita, sarebbe venuta a parlarle, a portarle fiori, a tenerle compagnia, mattina e sera. Poi sedette, affondò nei pensieri cupi che non aveva voluto dire al marito, cresciuti e maturati in lei nel corso di ventiquattr'ore come una maligna infezione assorbita da lungo tempo, rimasta inerte per lungo tempo, colta, un dato momento, dalla corrente del sangue, divampata con fulminea violenza. Tutte le sue idee religiose, la sua fede nell'esistenza di Dio, il suo scetticismo circa la immortalità dell'anima tendevano a capovolgersi. Ella era convinta di non essere affatto in colpa della morte di Maria. Se realmente esisteva una Intelligenza, una Volontà, una Forza padrona degli uomini e delle cose, la mostruosa colpa era sua. Questa Intelligenza aveva freddamente disegnato la visita della Pasotti e il suo dono, aveva allontanato da Maria le persone che potevano custodirla in assenza della madre, l'aveva tratta senza difesa nelle sue insidie feroci, e uccisa. Questa Forza aveva fermato lei, la madre, proprio nel momento in cui stava per compiere un atto di giustizia. Stupida lei che aveva prima creduto nella Giustizia Divina! Non v'era Giustizia Divina, vi era invece l'altare alleato del Trono, il Dio austriaco, socio di tutte le ingiustizie, di tutte le prepotenze, autore del dolore e del male, uccisore degl'innocenti e protettore degl'iniqui. Ah s'egli esisteva, meglio che Maria fosse tutta lì, in quel corpo, meglio che nessuna parte di lei cadesse, sopravvissuta, nelle mani della sua Onnipotenza malvagia! Ma era possibile dubitare che quest'orribile Iddio esistesse. E se non esistesse si potrebbe desiderare che una parte dell'essere umano continuasse a vivere, non miracolosamente, ma naturalmente, oltre la tomba. Ciò era forse più facile a concepire, che la esistenza di un tiranno invisibile, di un Creatore feroce contro le proprie creature. Meglio la signoria della Natura senza Dio, meglio un padrone cieco ma non nemico, non deliberatamente cattivo. Certo non bisognava pensare più in alcun modo né inquesta vita né in una vita futura, se vi fosse, al fantasma vano, Giustizia. La fioca luce dell'alba si mesceva a' suoi pensieri come a quelli di Franco, solenne e consolante per lui, odiosa per lei. Egli, cristiano, pensava una insurrezione di collera e d'armi contro fratelli in Cristo per l'amore di un punto sopra un minimo astro dei cieli; ella pensava una ribellione immensa, una liberazione dell'Universo. Il pensiero di lei poteva parere più grande, l'intelletto di lei poteva parere più forte; ma Colui che meglio è conosciuto dalle generazioni umane quanto più ascendono nella civiltà e nella scienza; Colui che consente venire onorato da ciascuna generazione secondo il poter suo e che gradatamente trasforma ed alza gl'ideali dei popoli, servendosi per il governo della terra, nel tempo opportuno, anche degl'ideali inferiori e perituri; Colui ch'essendo la Pace e la Vita sofferse venir chiamato il Dio degli eserciti, aveva impresso il segno del Suo giudizio sul viso della donna e sul viso dell'uomo. Mentre l'alba si accendeva in aurora, la fronte di Franco venivasi irradiando di una luce interiore, gli occhi suoi ardevano, fra le lagrime, di vigor vitale: la fronte di Luisa sempre più si oscurava, le tenebre salivano in fondo a' suoi occhi spenti. Al levar del sole una barca comparve alla punta della Caravina. Era l'avvocato V. che veniva da Varenna alla chiamata di Luisa.

Lo zio era lassù alla finestra e gittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto. "Oh!", fece Franco, stupefatto; e prese la corsa. Lo zio aspettò sul pianerottolo della scala con una espressione di contentezza persino nel ventre pacifico. "Ciao, neh", diss'egli e gli prese le mani, gliele scosse tenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come se in quel momento significassero ringraziamenti, ma non poté difendersi dall'impeto di Franco. "Figurati", diss'egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane, "se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo! Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri!" E l'uomo stanco discese le scale dicendo che andava a ordinare il pranzo. Non v'era canapè nella stanza degli sposi. Franco trasse Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinse con un braccio le spalle, incapace di un discorso qualsiasi, non sapendo dire che "ti ringrazio, ti ringrazio", non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci, nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non gli rispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese il capo come una cosa santa, le andò sfiorando con le labbra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capì che cercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si commosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgomento, volle difendersi più contro se stessa che contro Franco. "Sai", disse, "ho il cuore tanto freddo, non volevo neanche venire, non volevo lasciar Maria né che tu avessi l'amarezza di trovarmi così. È stato causa lo zio che venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa." Dette le parole crudeli, sentì levarsi dai suoi capelli le labbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tacquero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza: "Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia mai più". In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che il pranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito, gliela strinse in silenzio, non con la stretta d'un'amante, ma pure abbastanza forte per significargli ch'era una commossa risposta. A pranzo né Luisa né Franco mangiarono. Invece lo zio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non approvava che Franco prendesse le armi. "Che soldato vuoi riuscire tu?", gli diceva. "Cosa farai senza la canfora, l'acqua sedativa e il cossa soja mi?" Franco dichiarò che aveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro, che sarebbe stato il più robusto soldato del 9o. "Sarà!", brontolò lo zio. "Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?" Luisa rispose ch'era persuasa di quanto aveva detto suo marito. "N'occor alter!", fece lo zio. "Evviva!" Egli aveva poi anche un gran concetto della potenza austriaca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco, non c'era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto un aiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli aveva udito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Maggiore: "Nous allons supprimer l'Autriche" . Certo, bisognava lasciare almeno cinquantamila cadaveri italiani e francesi tra il Ticino e l'Isonzo. "Scusi, signore", disse il cameriere che serviva. "Mi pare che il signore parlasse di entrare nel 9o reggimento!" "Sì!" "Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10o. Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro." "Faremo il possibile." Luisa ebbe un lieve brivido. Gl'inglesi che pranzavano alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco. Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passò la visione di una colonna di fanteria lanciata alla baionetta, fra la mitraglia. Dopo pranzo lo zio rimase all'albergo per il suo solito chilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso il Palazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche rara gocciolina, gli scalini che mettevano dalla riva al cortile della villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse il braccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si fermarono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contar le ore che suonavano all'orologio del Palazzo. Sei. Erano passate due ore, ne restavano altre undici; poi veniva la separazione, l'ignoto. Si incamminarono lentamente, sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e il fianco del Palazzo, a quell'angolo che guarda l'isola dei Pescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donne venivano loro incontro a braccetto, chiacchierando. Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie se si ricordava dei Rancò. Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto con altri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pascoli di Valsolda, che si attraversano per salire al Passo Stretto. Avevano avuto una disputa vivace, un'ora di broncio e di tormento. "Sì", rispose Luisa. "Mi ricordo." Sentirono ambedue nello stesso momento quanto l'ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fosse doloroso a dire. Non parlarono più fino all'angolo. Un suono di campane veniva dall'isola dei Pescatori. Franco lasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto. Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumi dell'altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle campane che parevano di una nave perduta in mare, il silenzio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova, tutto era così triste! "E ti ricordi poi?", mormorò Franco senza voltar il viso. Anche Luisa s'era appoggiata al parapetto. Tacque un poco, indi rispose sottovoce: "Sì, caro". Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n'ebbe una scossa di gioia ma si contenne. "Penso", riprese, "alla lettera che t'ho scritto subito, appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai detto il giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar a prendere il tuo scialletto che avevi posato sull'erba. Te le ricordi?" "Sì." Egli le prese una mano, se la recò alle labbra. "Ti ringrazio ancora", diss'egli, "per quelle tre parole. Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella discesa t'ho dato il braccio e che c'era chiaro di luna?" "Sì." "E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di arrivare al ponte e che tu mi hai detto: "Caro signore, tocca a Lei di sostenere me"?" Luisa non rispose, gli strinse la mano. "Non sono stato buono a nulla", diss'egli tristemente. "Non ti ho saputo sostenere." "Hai fatto tutto quello che potevi." La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben diversa da quando ell'aveva detto: il mio cuore è freddo. Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passi lenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inerte quanto prima, tradiva un'agitazione, una lotta. Franco si fermò e disse piano: "E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?" Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla e sussurrò: "No, resta". Franco non intese, domandò: "Cosa?". Non udì rispondere, piegò adagio adagio il viso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuore gli batté, gli batté forte, più forte ancora di quando aveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzò il viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscì di metter fuori queste parole: "Le dirò che hai promesso ...". "No", mormorò Luisa, accorata, "quello non lo posso, non domandarmelo, non è più possibile." "Cosa, non è possibile?" "Oh, intendi bene! Anch'io ho inteso bene cosa volevi dir tu." Ella riprese a camminare, volendo staccarsi da quel discorso. Tenne però il braccio del marito, che la fermò. "Luisa!", diss'egli, severo, quasi impetuoso. "Mi lascerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partire così?" Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello di lui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiò guardando l'acqua come a Oria, quella sera. Franco le restò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò di rispondergli. "Per me sarebbe meglio finirla nel lago", diss'ella, amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio, la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccio in aria. "Tu?", esclamò con sdegno. "Parlar così, tu che dicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo una volta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sono io il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosa ho sofferto io in questi anni? Sai neanche immaginare ..." Sentì la voce sfuggirsi un momento ma si padroneggiò e proseguì: "Sai neanche immaginare cosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza necessità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importi nulla di lacerarmi l'anima?". Ella gli si gettò fra le braccia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo di singhiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò fatica a staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa il cammino dell'albergo. "Tu! tu!", sussurrò. "E non vuoi che desideri di morire io, quando posso morir bene, per il mio paese?" Luisa gli stringeva il braccio senza parlare. Incontrarono due giovani amanti, che passando loro accanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise. Giunti agli scalini che scendono sul piazzaletto davanti a S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa si fermò un momento sul primo scalino e disse piano le tre parole di Muzzaglio: "Ti amo tanto". Franco non rispose che con una stretta del braccio. Discesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all'Albergo del Delfino. Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamazzavano si alzarono all'apparir di Franco e di Luisa, si fecero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò del momento buono per vuotare l'ultima bottiglia. "Signora", disse il primo che si presentò a Luisa. "Suo marito Le avrà già annunciato i Sette Sapienti." Successe subito un gran baccano perché Franco aveva dimenticato di dire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Torino e s'erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, promettendo una visitina d'omaggio alla signora. "El più sapiente son mi", disse alzandosi il Padovano, che aveva vuotata la bottiglia. "Vualtri fe' bordelo e non bevì; mi bevo e no fazzo bordelo." "Quello, signora", disse un bel giovane, "è, com'Ella ben intende, l'asino sapiente della compagnia." "Tasi, Fante!" "Signora!", fece il Padovano avanzandosi e salutando. "Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?", disse Luisa, sorridendo, al bel giovane. Ella fu affabile con tutti, ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro, dai baffi arricciati: "Lei dev'essere il signor Caval di spade". "No xe vero, signora", esclamò il Padovano mentre gli altri applaudivano, "che se vede la bestia?" Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartire subito, ma Franco fece portare altre due bottiglie e il chiasso divenne così enorme, malgrado la presenza di Luisa, che l'albergatore venne a pregare, per amore de' suoi inglesi, di non far tanto "rabello". Il Padovano gli snocciolò dolcemente una litania placida di vituperi padovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e se n'andò. I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche loro una giornata di libertà prima di arruolarsi. Entravano tutti, meno il Caval di spade, nello stesso reggimento. Bevvero al 9o fanteria, alla brigata Regina, a tutti i "pistapauta" nazionali nel presente e nell'avvenire e discussero sul luogo e il nome della prima battaglia che si darebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padovano furono per una "battaglia del Ticino". Il Padovano voleva una battaglia di Gorgonzola. "No sentì che nome militar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!" Era scritto nel Libro del Destino ch'egli sarebbe caduto appunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheggia di granata nella coscia, combattendo da buon soldato a due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parlavano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate, parlavano della futura Italia dicendo alquante corbellerie, ma si sentiva che non importava loro un fico secco della vita pur di farla libera, questa vecchia patria, e grande. "Ghe pàrele teste da far l'Italia?", disse il Padovano a Luisa. "Gnanca So marìo, sala. Un bon toso, ma par far l'Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia che vien fora! I nostri fioi ne farà un monumento, ma dopo vegnarà, capisela, con licenza, quelle figure porche de quei nevodi, che me par de sentirli: "Che da can", i dirà, "che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia!"" I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco di trovarsi l'indomani mattina sul primo battello. Franco li accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a vedere lo zio Piero. Egli aveva dato l'incarico all'albergatore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto sonno, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumorosamente. Posò il lume e attese Franco. Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dormiva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui prima d'andar a letto, perché il battello partiva di gran mattino, alle cinque e mezzo. L'uscio della camera era chiuso, tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in punta di piedi e di parlar sottovoce. Gli raccontò ciò che le aveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ella sperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alle dieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Magadino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su queste apprensioni per la salute dello zio; parlava, parlava, nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tener lontane con quest'ombra carezze troppo tenere. In pari tempo andava e veniva per la camera, pigliando e posando le stesse cose, un po' per nervosità, un po' con la intenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Egli pareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tracolla che non riusciva ad aprire. Finalmente l'aperse, chiamò sua moglie a sé, le diede un rotolo d'oro, cinquanta pezzi da venti lire. "Capisci" ,le disse, "che almeno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questi non sono miei, li ho avuti a prestito." Poi trasse di tasca una lettera suggellata. "E questo è il mio testamento", soggiunse. "Ho poco ma devo pur disporre anche di quel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre che hai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cui devo le mille lire. A parte del testamento ci sono due righe particolari per te. Ecco." Egli parlava con dolcezza grave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera, le mani tremavano. Gli disse "grazie", cominciò a sciogliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene che si facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e da un'altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rotta che dovendo alzarsi presto per accompagnarlo al vapore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsi vestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e si cominciò a spogliare , si levò dal collo una catenella e una crocettina d'oro ch'erano state di sua madre. "Tienle tu", diss'egli porgendole a Luisa. "È meglio. Non si sa mai, potrebbero cadere in mano ai croati." Ella inorridì, tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinse da soffocarlo. Il cameriere bussò all'uscio degli sposi verso le quattro e mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella camera dello zio ch'era svegliato. Prese congedo da lui e propose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisse lì. Ell'aveva nel viso e anche nella voce una espressione di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse, abbracciò e baciò suo marito come trasognata e come trasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse in esso un lampo del pensiero che occupava l'animo di lei? Se ciò avvenne fu nel salotto dell'albergo mentre prendeva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve che scoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisionomia, perché si fermò a contemplarla con la tazza di caffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza, un'ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manifestamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una parola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli luceva negli occhi; la bocca non osò dire niente. Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si appoggiarono al muro cui s'era appoggiata Luisa il giorno prima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l'ultima volta, si dissero addio senza lagrime, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occulto che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò: "Avanti chi parte!". Un bacio ancora: "Dio ti benedica!", disse Franco e saltò sul battello. Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delle ruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornò all'albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata in quest'idea, in questa istintiva certezza ch'era madre una seconda volta. Benché fosse appunto la cosa tanto temuta, non si può dire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsi dentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinse in lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sempre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro del Destino nulla potesse più avere di nuovo per lei, che certe intime fibre del suo cuore fossero morte. E adesso una Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: "Sappi che nel Libro del tuo Destino una pagina si chiude, un'altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita intensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto, continua e dev'essere straordinario se Io te lo annuncio". Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisa restò assorta in questa Voce. Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempo era umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non volle saperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desiderato, sino all'ora di partire per Magadino. Sapeva, per averne chiesto all'albergatore, che dalle nove in poi si poteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte, vi si avviò con Luisa. Passando da San Vittore desiderò entrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, il celebrante si voltava a dire: "Benedicat vos omnipotens Deus" . Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l'ultimo vangelo, rinunciò a veder le pitture perché c'era poca luce e uscì di chiesa dicendo con la sua giovialità solita: "Eccomi felice e contento d'essere andato a farmi benedire". Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava ad ogni passo, guardando tutto che avesse forma d'arte, tutto che fosse disposto per venir guardato. Contemplò la facciata della chiesa, la triplice gradinata della sbarco Borromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran palma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, non aveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, la sera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzo ci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, lo scalone. Come ne fu a capo uscì un raggio di sole e il custode propose di approfittarne per vedere il giardino. Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò i visitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Venne un giardiniere, un giovinetto educato che piacque molto allo zio perché gli spiegava tutto con buon garbo, e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minuti per l'albero della canfora, presso l'entrata. Luisa ci soffriva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancava moltissimo ella stessa di dover guardare tante piante, udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio, mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitudine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettuno. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocorno dei Borromei che s'impenna lassù, ma c'erano parecchi scalini a fare, l'aria era pesante ed egli esitava. Luisa approfittò di quell'esitazione per chiedere al giardiniere dove avrebbero trovato un sedile. "Qui sotto", rispose colui, "a sinistra, sulla piazza degli Strobus." Lo zio si lasciò persuadere a discendere su questa piazza degli Strobus. Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d'interrogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir da lontano, dalla parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburi e ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla riva. "Adesso si fa per giuoco", disse il giovinetto. "Mica per giuoco, ma insomma ...! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro." Il mostro era il vapore austriaco da guerra Radetzki, detto dai riverani piemontesi Radescòn. "Entra adesso nel porto di Laveno", disse il giovinetto. "Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene." Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e sedette sul primo sedile che trovò sotto gli strobus, posto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù, fra i grossi tronchi distorti degli strobus, si vedeva tremolare lo specchio delle acque bianche fino alla lista nera delle colline d'Ispra. Il cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino al cancello stemmato che guarda la verde Isola Madre, Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di Maccagno, alle nevi lontane della Spluga. Del Radetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L'albero le toglieva la vista del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. "Le bruyères blanches portano fortuna", diss'egli. Vedendo che Luisa, distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie. "Vecchio strobus", diss'egli parlando forte per farsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. "Vecchio strobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardino privato ..." Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso l'entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui. Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro venerato vecchio, l'uomo savio, l'uomo giusto, il benefattore de' suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto, sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l'appello, egli aveva risposto. I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo, l'avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato alle future battaglie dell'era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quelli onde l'uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all'ultimo momento, senza saperlo, da quell'ignoto prete dell'Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le sante parole a un più degno. FINE

Primo vi arriva di volo il venerabile cappellone del sior Zacomo scaraventato abbasso da Pedraglio con un "viva l'Italia!" mentre scivola a braccetto della guardia. A Bré Pedraglio fece correre tutto il paese sparando a festa la carabina, distribuì anesone triduo agli uomini e mezz'once alle ragazze, domandò al curato di poter appendere in chiesa il "marsinon" per grazia ricevuta, si attavolò a mangiare con la guardia, gli fece predicar dal prete il perdono dei pugni nello stomaco e gli diede lettura di una stanza del poema fratesco che finiva così: A questo punto il Padre Lanternone Disse: ho mutato ancor io opinione. Gli dimostrò che se aveva mutato un Padre Lanternone poteva mutar anche lui e lo persuase a disertare, gli fece buttar via l'uniforme e indossare il "marsinon" fra le risate e gli applausi. Il solo che non rideva era l'avvocato. "E quel povero Maironi?", diss'egli. Franco non attraversò Castello. Giunto alla cappelletta di Rovajà, saltò giù per il sentiero che mena alla fontana di Caslano, raggiunse la stradicciuola di Casarico, si mise a salir per quella e all'ultima svolta che fa sotto Castello, dove appare la chiesa di Puria sotto un anfiteatro di dirupi, si gittò a destra nella valle per un sentiero da capre, ne risalì sotto la chiesa di Loggio e giunse a Villa Maironi senz'aver incontrato nessuno. Carlo, il vecchio servitore che gli aperse, tramortì, quasi, dalla commozione e gli baciò le mani. In quel momento c'era il medico. Franco decise di attender che uscisse e intanto confidò al vecchio fedele che aveva i gendarmi alle calcagna. Il dottor Aliprandi uscì presto e Franco, sapendolo patriota, si confidò anche a lui, poiché gli occorreva mostrarsi, informarsi dello stato della nonna. L'Aliprandi era stato chiamato nella notte ed era venuto dopo la partenza del prefetto per Oria, aveva trovato dell'agitazione nervosa, una terribile paura di morire ma nessuna malattia. Adesso la marchesa pareva tranquilla. Franco si fece annunciare e fu introdotto dalla cameriera che lo guardò con ossequiosa curiosità e uscì dalla camera. Le imposte socchiuse della camera dove la marchesa giaceva a letto lasciavano entrare due sole oblique lame di luce grigia che non giungevano alla faccia supina sul guanciale. Franco, entrando, non la vide, udì solo la nota voce dormigliosa: "Sei qui, Franco?" "Sì, addio nonna", diss'egli e si chinò a darle un bacio. La maschera di cera non era scomposta; lo sguardo aveva però qualche cosa di vago e di scuro che pareva insieme desiderio e sgomento. "Muoio, sai, Franco", disse la marchesa. Franco protestò, riferì ciò che gli aveva detto il medico. La nonna lo ascoltava fissandolo avidamente, cercando di leggergli negli occhi se il medico gli avesse proprio detto così. Poi rispose: "Non fa niente. Son pronta". Dalla nuova espressione dello sguardo e della voce, Franco intese perfettamente che la nonna era pronta a vivere altri vent'anni. "Mi rincresce della tua disgrazia", diss'ella, "e ti perdono tutto." Non eran parole di perdono che Franco si aspettava da lei. Egli credeva esser venuto a portarlo il perdono, e non a riceverlo. Confortata, rassicurata, la marchesa di ogni giorno ricompariva poco a poco sotto la marchesa di un'ora. Voleva bene acquistar la pace ma come un sordido avaro tentato da qualche cupidigia, che spremendosi dolorosamente dal pugno il prezzo del suo piacere cerca trattenersene fra le unghie quanto può. In altri momenti Franco avrebbe scattato, avrebbe respinto sdegnosamente quel perdono; ora, con la dolce Maria nel cuore, non poteva essere così. Aveva però notato che la nonna si era rivolta, col suo perdono, a lui solo. Questo no, non glielo poteva permettere. "Mia moglie, lo zio di mia moglie ed io abbiamo sofferto molto", diss'egli, "prima dell'ultima sventura; e adesso abbiamo perduto tutta la nostra consolazione. Lo zio Ribera lo metto fuori di causa; davanti a lui bisogna che ci inchiniamo, tu, io, tutti; ma se mia moglie ed io abbiamo delle colpe verso di te, perdoniamoci a vicenda." Era un boccone amaro; la marchesa lo trangugiò e tacque. Benché non vedesse più la morte al suo capezzale aveva però nel cuore lo sgomento dell'Apparizione e di certe parole del prefetto che l'aveva confessata. "Farò testamento", diss'ella, "e desidero che tu sappia che tutta la roba Maironi sarà per te." Ah marchesa, marchesa! Misera, gelida creatura! Credeva ella di aver comperato la pace con questo? Qui veramente aveva sbagliato anche il prefetto perché il consiglio di far questa dichiarazione al nipote gliel'aveva dato egli, buon galantuomo ma privo di tatto, incapace di comprendere l'alto animo di Franco. A Franco l'idea che si potesse credere esser egli venuto per interesse, riuscì intollerabile. "No no", esclamò fremendo tutto e temendo del proprio sangue focoso, "no no, non mi lasciar niente! Basta che tu faccia pagare i miei interessi a Oria. La roba Maironi, nonna, lasciala all'Ospitale Maggiore. Ho paura che i miei vecchi abbiano sbagliato a tenerla!" La nonna non ebbe tempo di rispondere perché fu picchiato all'uscio. Entro il prefetto e fece che Franco pigliasse congedo per non stancare l'ammalata. "Bisogna sbrigarsi!", diss'egli, fuori. "Qui hai fatto più che il tuo dovere. Lo sanno in troppi, oramai, che sei qui e i gendarmi possono capitare da un momento all'altro. Ho combinato tutto coll'Aliprandi. L'Aliprandi suppone che per la marchesa ci sia bisogno di un consulto, piglia la gondola di casa e va a Lugano per cercar un medico. I due barcaiuoli sarete Carlo e tu. Piove. Ci sono i mantelli di tela incerata col cappuccio. Mettete quelli e tu sta a poppa. Adesso ti tagliamo il pizzo; col cappuccio in testa sfido a riconoscerti. Sei sicuro. Forse non vi faranno neanche approdare alla Ricevitoria. A ogni modo non ti riconosceranno. Se c'è da parlare, parla Carlino." L'idea era buona. La gondola della marchesa era sempre guardata dagli agenti dell'Austria con grande rispetto come se portasse un uovo dell'aquila dalle due teste; anche quando ritornava da Lugano non si faceva approdare alla Ricevitoria che pro forma . La gondola uscì dalla darsena dopo le otto. Le nebbie delle alte cime erano calate sul lago e pioveva. Triste triste giorno, triste triste viaggio! Né Franco, né il domestico, né l'Aliprandi parlarono mai. Passarono San Mamette e Casarico. Ecco tra i vapori, oltre gli ulivi di Mainè, le bianche mura della dimora di Ombretta. Gli occhi di Franco si riempirono di lagrime. "No, cara", egli pensa, "no, amore, no, vita, tu non sei là dentro e sia benedetto il Signore, che mi dice di non credere questa cosa orribile!" Poche remate ancora ed ecco la casetta del tempo felice, delle ore amare, della sventura; la finestra della stanza dove Luisa si perde in un dolore tenebroso, la loggia dove passerà quind'innanzi solo le sue giornate il vecchio zio Piero, l'uomo giusto che discende silenziosamente, tribolato e stanco, verso la tomba. Franco vorrebbe pur sapere cosa è successo dopo la sua partenza, se lo zio, se Luisa hanno avuto molestie dalla Polizia. Guarda, guarda, non vede persona viva né sulla terrazza né in giardinetto né alle finestre della loggia; tutto è silenzioso, tutto è tranquillo. Cessa di remare, vorrebbe vedere qualche segno di vita. Il dottor Aliprandi apre lo sportello di poppa del felze e lo supplica di remare, di non tradirsi. In quel momento la Leu si affaccia alla ringhiera del giardinetto con un vassoio in mano, guarda la gondola, entra in loggia. Dunque lo zio Piero è in loggia, quello è il solito bicchier di latte che gli portano, nulla dev'essere successo. Franco torna a remare e il dottor Aliprandi chiude lo sportello. Passa il giardinetto, passano le case di Oria, la gondola piega all'approdo della Ricevitoria. Il Biancòn, che sta pescando alle tinche, con l'ombrello, vede la gondola, abbandona le sue lenze, e viene ad ossequiare la marchesa. Ma trova invece il dottor Aliprandi il quale lo turba tanto con le cattive notizie della dama ch'egli sente il bisogno di chiamare anche la sua Peppina e di parteciparle la cosa; e la Peppina, poveretta, recita sotto l'ombrello del suo Carlascia una piccola commedia d'intenerimento. Marito e moglie eccitano l'Aliprandi a far presto, a ritornar presto. Il bestione gli permette di filar dritto, al ritorno, da Gandria a Cressogno e il dottore si volta a Franco, dice: "Andiamo!". Franco ha assistito impassibile al colloquio, con le mani sul remo, sperando apprender qualche cosa de' suoi amici e di casa sua; ma nessuno ha fiatato di Polizia né d'arresti né di fughe come se casa Ribera fosse nella China. La gondola indietreggia lentamente dall'approdo, gira la prora verso Gandria, si allontana, sfuma oltre il confine, nella nebbia. Alla riva di Lugano il dottor Aliprandi aperse lo sportello e fece entrare Franco. Si conoscevano poco ma si abbracciarono come fratelli. "Quando verrà l'ora delle cannonate", disse l'Aliprandi, "ci sarò anch'io." Convennero di congedarsi lì e che Franco uscisse prima, solo, perché Lugano era piena di spie e il dottore doveva pure usare certi riguardi. Il dottore non aveva fretta, del resto; gli premeva più di trovar un barcaiuolo che un medico. Franco si tirò il cappuccio sugli occhi e scesea terra, andò all'albergo della Corona. Alcune ore più tardi, quando la gondola era ripartita, egli usci in cerca di valsoldesi per avere notizie, si avviò alla farmacia Fontana e incontrò sotto i portici i suoi amici che uscivano appunto dalla farmacia insieme a un vecchio. Gli saltarono al collo, piansero di commozione. Erano andati anche loro a cercar notizie. Alla farmacia si diceva che Franco fosse stato arrestato. Che gioia di trovarlo e che gioia di sentirsi terra libera sotto i piedi! Mi sia permesso di ricordare il vecchio che accompagnava Pedraglio e l'avvocato, bizzarra figura del piccolo mondo antico luganese, artista e degno che un altro artista, passandogli così vicino, gli renda onore. Egli era un tal Sartorio, pittore, poeta e suonatore di chitarra, che a quei tempi si vedeva spesso balenar qua e là per le oscure vie di Lugano con la sua bella barba bianca, con il suo cappello bianco tirato sull'occhio destro, con il suo nobile abito nero e il fiore all'occhiello. Poverissimo ma pulitissimo, cavaliere con le dame e con le pedine, pronto sempre a un'anacreontica e a una chitarrinata, adoratore della propria città, egli viveva di pane, formaggio e acqua, fiutava e rincorreva i forestieri per far loro gli onori di Lugano, era sempre pieno di queste faccende, sempre in moto fra Villa Ciani, l'Hôtel du Parc e Villa Chialiva. L'Hôtel du Parc era per lui l'ottava meraviglia del mondo. Aveva aiutato a inaugurarlo e se ne compiaceva assai, godeva particolarmente citare, col suo classico accento luganese, la strimpellata e la lirica ispirategli dalla sala da pranzo: "ca l'è poeu quand ca ga disi: Le trombe squillano Nel gran salone, Ai suoni accordisi Questa canzone. Ora egli si era spontaneamente accompagnato a Pedraglio e a V. che gli avevan narrata la loro fuga. Li aveva condotti lui alla farmacia Fontana per cercarvi notizie di Franco. "Come?", diss'egli dopo l'incontro. "È questo il Loro amico? Sfuggito anche lui agli artigli dell'aquila rapace di Asburgo? Benissimo! Benissimo! Ho fatto anni sono, per altri lombardi fuggiti qua dopo la rivoluzione di Vall'Intelvi, un'ode ca l'era minga mal. Ho descritto, neh, la loro fuga per la Val Mara, la calata a Maroggia, l'arrivo a Lugano, ca l'è poeu quand ca ga disi: O baldi figli di Lombardia, V'apre le braccia Lugano mia. È una cosetta che va benissimo anche per Loro. Adesso corro a prender la chitarra e poi gliela faccio sentire all'albergo." "Madonna!", fece Pedraglio.

, Pedraglio corse su e Franco precipitò abbasso. Sua moglie lo aspettava ferma in mezzo alla camera, guardando l'uscio. Appena lo vide entrare gli andò, grave, incontro, lo abbracciò stretto stretto, e quando egli, passati alcuni momenti, fece dolcemente atto di sciogliersi, raddoppiò la stretta, sempre in silenzio. Franco, allora, intese. Ella lo abbracciava adesso come lo aveva impetuosamente baciato prima, quando si era parlato di andar tutti alla guerra. Strinse egli pure le tempie di lei fra le mani, le baciò, le ribaciò i capelli e disse dolcemente: "Cara, pensa che gran cosa, dopo, questa Italia!". "Oh sì!", diss'ella. Alzò il viso al viso di suo marito, gli offerse le labbra. Non piangeva ma gli occhi erano un poco umidi. Vedersi guardar così, sentirsi baciar così da quella creatura briosa e fiera valeva bene alcuni anni di vita, perché mai mai ella non era stata con lui, nella tenerezza, così umile. "Allora", diss'ella, "non resteremo più in Valsolda. Tu dovrai lavorare come cittadino, non è vero?" "Sì, sì, certo!" Si misero a discorrere con gran zelo, l'una e l'altro, di quel che avrebbero fatto dopo la guerra, come per allontanar la idea di una possibilità terribile. Luisa si sciolse i capelli e andò a guardar Maria nel suo lettino. La bimba si era prima, forse, svegliata e s'era posto in bocca un ditino che poi pian piano, tornando il sonno, n'era scivolato fuori. Ora dormiva con la bocca aperta e il ditino sul mento. "Vieni, Franco", disse sua madre. Si piegarono ambedue sul lettino. Il visetto di Maria aveva una soavità di paradiso. Marito e moglie stettero a guardarla in silenzio e si rialzarono poi commossi, non ripresero il discorso interrotto. Ma quando furono a letto ed ebbero spento il lume, Luisa mormorò sulla bocca di suo marito: "Se viene quel giorno, tu vai; ma vado anch'io". E non gli permise di rispondere.

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

682202
Salgari, Emilio 6 occorrenze

Sibili acuti, stridii prolungati, scrosci formidabili, ora secchi e brevi, ora interminabili, uscivano da quelle masse, che l'uragano trasportava sulle sue possenti ali, e tutti quei fragori si perdevano in alto e abbasso, formando un cupo rimbombo. Talvolta, quando quei tuoni tacevano, s'udiva sotto le nubi un lontano muggito: era l'oceano che prendeva parte a quella terribile gara degli elementi scatenati. L'aerostato che si manteneva a 3600 metri, divorava lo spazio con fantastica rapidità, in balìa delle correnti aeree, quantunque sembrasse immobile o quasi. La corrente che prima lo spingeva verso l'est si era spezzata, forse a causa dell'incontro con un'altra che aveva diversa direzione, e deviava sovente, ora piegando verso il sud, ora riprendendo la direzione precedente. I due immensi fusi subivano di tratto delle scosse, e quando il vento cambiava, s'inclinavano verso prua, imprimendo alla navicella delle brusche oscillazioni. Nessuno osava dormire. La paura che l'aerostato s'abbassasse, per causa del condensamento dell'idrogeno o d'un strappo, e che entrasse fra quelli nubi tempestose e sature di elettricità, li teneva svegli. Infine Simone, malgrado quei tuoni, si assopì fra due casse. Ma il suo sonno era agitato: di quando in quando trabalzava, agitava pazzamente le braccia, apriva i grandi occhi e dalle sue labbra uscivano delle grida rauche che tradivano sempre un profondo terrore. Quel disgraziato, se non era pazzo, poco ci mancava: il suo cervello doveva aver riportato un perturbamento pericoloso, dopo l'incontro del polipo gigante. Alle due del mattino, l'aerostato si trovò quasi improvvisamente sopra l'oceano. Le masse di vapore colà cessavano e pareva che sfuggissero per il sud, forse spinte da un'altra corrente aerea. Per alcuni minuti si vide quell'immenso accatastamento di nubi ondeggiare fra cielo e mare, fra il balenare dei lampi, poi scomparve sul fosco orizzonte. I fragori cessarono rapidamente, si udì ancora come un lontano rullìo, poi i muggiti dell'oceano soffocarono la voce dell'elettricità. Giù, in fondo, si vedeva confusamente l'Atlantico, che i pallidi raggi dell'astro notturno illuminavano. Appariva come un immenso velo d'una tinta indefinibile, fra l'azzurro cupo e il marrone, sbattuto, agitato da poderosi colpi di vento. A intervalli si scorgevano degli spazi, delle linee biancastre che si muovevano rapidamente e che subito scomparivano. Doveva essere la spuma che incoronava enormi ondate. O'Donnell, che osservava tutto, additò all'ingegnere una nave che fuggiva verso il sud, con la velatura ridotta. La si vedeva salire faticosamente gli enormi cavalloni, sprofondare negli avvallamenti, rimontare, poi discendere e quasi scomparire fra la spuma. Per alcuni istanti si scorsero i suoi fanali di posizione, che brillavano come due punti luminosi, uno rosso e l'altro verde, poi più nulla. L'aerostato, spinto dal vento, che aveva ora un impulso di ottanta chilometri all'ora, s'allontanava, lasciando indietro tutto. Nessuna nave, nessun incrociatore, dotato delle più potenti macchine poteva gareggiare con esso. Alle tre l'irlandese, che si ostinava a rimanere sveglio quantunque ogni pericolo fosse ormai cessato, essendo il cielo purissimo, sgombro d'ogni nube, segnalò un vivo chiarore che appariva sull'oceano, verso il nord-est. "Un'isola forse?" chiese all'ingegnere, che aveva afferrato un cannocchiale. "Una terra qui? E impossibile, O'Donnell" rispose Kelly. "Le Azzorre non sono sulla nostra rotta?" "No: sono più al nord, e poi sono ancora assai lontane." "Possono essere le Canarie, Mister Kelly?" "Nemmeno, O'Donnell. Sono più lontane delle Azzorre." "Possono essere quelle del Capo Verde." "Malgrado la nostra rapida corsa, devono distare ancora di qualche migliaio e più di miglia; e poi credo che l'uragano ci abbia spinti verso il sud." "Ma qual cosa supponete che sia dunque?" "La distanza è troppa e l'oscurità fitta, per discernere qualche cosa; ma io temo che sia un incendio." "Un incendio!? Dove?" "Forse di una nave." "Per San Patrick! Una nave brucia in mezzo all'uragano! Una nave che brucia in mezzo all'uragano! Quale terribile situazione per l'equipaggio!" "Potrebbe pur essere qualche vulcano, O'Donnell." "Un vulcano in mezzo all'Atlantico! Che cosa dite, Mister Kelly?" "E perché no, amico mio?" "Se dite che siamo lontani da tutte le isole, dove volete che posi questo vulcano? Sulle onde forse?" "Sul fondo dell'oceano." "Ma, che io sappia, nessun vulcano fu segnalato in mezzo all'Atlantico." "Ebbene, che importa? Non può essere sorto da un momento all'altro, forse in questa notte? Credete voi che il fondo dell'Atlantico sia tranquillo? No, O'Donnell: s'agita sovente la sotto la spinta dei fuochi interni, subisce talora delle modificazioni, s'alza o s'abbassa, e nel 1811 formò perfino un'isola vulcanica nei pressi delle Azzorre, al largo di San Michele." "Un'isola!" "Sì, quella chiamata Sabrina, che si elevò sull'oceano per trecento metri, ma che poi fu demolita dai flutti. Un'altra pure ne emerse in quei paraggi dopo una abbondante eruzione di vapori, di fumo e di fuoco, durante un terremoto; ma subito scomparve." "Vi sono quindi delle isole vulcaniche in quest'oceano?" "Forse che le Azzorre, le Canarie, Ascensione, S. Elena e Tristan da Cunha non sono di origine vulcanica?" "Anche le Bermude?" "No, O'Donnell: quelle sono state formate dai coralli." "Se, come mi dite, il fondo dell'Atlantico subisce delle modificazioni e s'agita, si può prestare fede agli antichi scrittori circa la scomparsa dell'Atlantide." "E perché no?" "Ma credete che sia realmente esistito quel continente? E, prima di tutto, che cos'era quest'Atlantide di cui ho udito vagamente parlare?" "Un'isola immensa, grande, secondo gli antichi, come la Libia e l'Asia minore riunite, e che si estendeva al di qua delle Colonne d'Ercole, ossia dello Stretto di Gibilterra, e che altre isole minori congiungevano ad un continente. Tutti gli scrittori antichi ne fanno parola, e ciò fa supporre che sia realmente esistita o che esista tutt'ora." "Che esista? Dove mai, Mister Kelly?" "Ve lo dirò poi. Omero nella sua Odissea l'accenna; Esiodo nella sua Teogonia, Euripide nei suoi drammi, Solone nella grande epopea da lui ideata, Platone, Strabone e anche Plinio ne parlarono. Sembra che gli Atlantidi giungessero nel Mediterraneo, spinti dal desiderio di altre conquiste e che cercassero di sottoporre al loro dominio la Grecia; ma sarebbero stati respinti dai primitivi Ateniesi. Avrebbero però invaso parte del Mediterraneo, l'Egitto, l'Africa settentrionale e le coste della Tirrenia, ossia dell'attuale Italia e alcune parti dell'opposto continente. Si dice che in quella grande occasione regnasse una potente schiatta di re e che numerose tribù la occupassero. In una certa epoca, però, dopo violenti terremoti e diluvi, l'isola sarebbe stata inghiottita con tutti i suoi abitanti. Anche i cartaginesi fanno menzione di un'isola deliziosa: anzi avevano deciso di andare ad occuparla, nel caso che un disastro avesse distrutto la loro repubblica." "Ma in quale modo venne inghiottita?" "Si sono date diverse spiegazioni. Alcuni credono a causa di un tremendo terremoto; altri, fra i quali Bory de Saint-Vincent e Mantelle, due eminenti scienziati, credono che sia stata subissata dall'irrompere nell'oceano delle acque di un grande lago salato dell'Africa, forse quello del Sahara, che sembrerebbe il letto d'un antico mare." "Io però la penso diversamente, O'Donnell; e credo che l'Atlantide esista ancora. Sarà o sembrerà una enormità, ma io ritengo che gli antichi fossero, in fatto di cognizioni geografiche, ben più innanzi degli europei del 1400 e anche del 1500. Si dice che quell'isola si estendeva al di là delle Colonne d'Ercole e che numerose altre isole più piccole la univano ad un continente. Ebbene, gettate uno sguardo sulla carta del nostro globo. Che cosa vedete all'occidente dell'Europa?" "L'America" disse O'Donnell. che prestava grande attenzione alle parole dell'ingegnere. "E dopo, l'America? "Ma possibile!" "Aspettate: che cosa vedete?" "Le innumerevoli isole dell'Oceano Pacifico?" "E poi?" "Il grande continente asiatico-europeo!" esclamò O'Donnell. "Io dunque concludo che l'Atlantide degli antichi era l'attuale America, che le isole che la univano all'opposto continente sono quelle dell'Oceano Pacifico e che quell'opposto continente è quello asiatico-europeo, il solo che gli antichi greci potevano conoscere." "Dunque gli antichi conoscevano la rotondità del globo." "Sì, O'Donnell: io ne sono convinto e affermo che essi conoscevano la nostra Terra meglio che gli europei del 1400." "Ma quei terremoti e quei diluvi, quelle terre subissate?" "Quei terremoti, quel grande cataclisma può essere avvenuto, può avere inghiottito qualche isola, come può, invece, aver fatto sorgere le Azzorre e le Canarie, che sono, come ho già detto, d'origine vulcanica. Chissà? Forse gli antichi navigatori, spaventati da quel cataclisma, non ardirono più avventurarsi sull'Atlantico, e l'America rientrò nel buio e fu dimenticata fino all'epoca in cui Colombo e Caboto e via via gli altri grandi navigatori la fecero ancora conoscere alle popolazioni europee."

"Abbasso Mac-Canthy! Signor aeronauta, abbiate compassione di noi che moriamo di fame! Non abbandonateci in nome di Dio!" "Vi prometto di soccorrervi, ma lasciate andare le funi, o guasterete il mio pallone." "No, non ci sfuggirete, signore urlarono i naufraghi, con accento minaccioso." "Ve lo prometto, parola di yankee." "Siete un compatriota? ... Viva l'America!" L'alba si avvicinava rapidamente, facendo impallidire gli astri. Fra pochi minuti il sole doveva spuntare e versare i suoi ardenti raggi sull'oceano. La zattera, poiché era proprio quella che il mozzo aveva abbandonata sei giorni prima, era ormai visibile. Era un ammasso informe di legnami, di travi, di pennoni, di pezzi di fasciame, di tavole legate con cordami e catene, e sormontato da un troncone d'alberetto, da cui pendeva una vela stracciata. Undici uomini montavano quella zattera, undici miserabili, coi volti bestiali, le membra ischeletrite dai lunghi digiuni, con le barbe arruffate e coperti di stracci Alcuni impugnavano delle scuri e due tenevano dei fucili; pareva che minacciassero il pallone, decisi a rovinarlo con una scarica, piuttosto di lasciarlo andare. A prua di quello strano galleggiante, gli aeronauti scorsero, non senza un fremito d'orrore, gli avanzi di due scheletri umani gettati dietro a due barili sfondati. Non ci voleva molto a comprendere che quegli sciagurati, rosi dalla fame, si erano pasciuti delle carni di quelle due vittime. "Orrore!" esclamò O'Donnell. "Questa è una seconda edizione del naufragio della Medusa ... " "La fame non discute, O'Donnell" disse l'ingegnere. "Orsù, cerchiamo di soccorrerli nel limite delle nostre forze." "Ci lasceranno liberi poi?" "Taglieremo le funi." "E le nostre àncore?" "Piuttosto di farmi trascinare sulla zattera, preferisco sacrificarle." "Temo che quest'incontro ci porti sfortuna, Mister Kelly." L'ingegnere non rispose. Esaminò rapidamente la sua dispensa, scelse parecchie scatole di carne conservata, ammucchiò in una cassa qualche decina di chilogrammi di biscotti, vi unì dello zucchero e delle scatole di tonno. "Caliamo questi viveri" disse. "Mettendosi a razione, quegli uomini possono vivere qualche giorno e guadagnare le Canarie, che non sono lontane." "Ma non abbiamo funi per calare questa cassa" disse O'Donnell. "La faremo scorrere lungo una fune di un'ancora. Aiutatemi, amici." I naufraghi, comprendendo che il soccorso stava per giungere, avevano cessato le loro grida minacciose, ma non abbandonarono i due coni, che avevano tratti presso la zattera per impedire la fuga dell'aerostato. Coi visi in aria, gli occhi fissi, non perdevano di vista una mossa degli aeronauti. L'ingegnere e O'Donnell, legata la cassa attorno alla fune dell'ancora poppiera, la lasciarono andare gridando: "Attenti alle teste!" La cassa filò lungo la fune e piombò sopra il cono. I naufraghi vi si precipitarono sopra urtandosi e respingendosi per essere i primi a metter le mani su quei viveri, la tirarono a bordo e con pochi colpi di scure la sfondarono. Ad un tratto un urlo di furore scoppiò fra quei disgraziati. "E l'acqua! ... Noi vogliamo dell'acqua!" urlarono, tenendo le mani raggrinzite verso gli aeronauti. "Ne abbiamo appena per noi" disse l'ingegnere. "Dateci la vostra acqua, canaglie!" tuonò Mac-Canthy. "Ti schiaccio nel cranio una palla, brigante!" urlò O'Donnell. "La canaglia sarai tu!" "A me amici!" gridò il marinaio. "Tiriamoli giù!" "Sì, giù, giù, o dateci la vostra acqua!" urlarono i marinai furiosi. L'ingegnere raccolse il winchester e lo armò risolutamente, mentre O'Donnell impugnava una scure, pronto a tagliare le funi. "Il primo che tocca le àncore lo uccido come un cane!" tuonò Mister Kelly con tono minaccioso. I naufraghi, lungi dal calmarsi a quella minaccia, inferocirono maggiormente: si precipitarono sulle funi e diedero una tale strappata, da abbassare l'aerostato di parecchi metri. "Tagliate, O'Donnell!" gridò l'ingegnere. L'irlandese con due colpi di scure assestati sui bordi della navicella, sui quali poggiavano le due funi, liberò l'aerostato, il quale fece un balzo in aria. Vedendo fuggire e precipitare le funi, i naufraghi emisero urla feroci. I due uomini armati alzarono le armi e fecero fuoco. Una palla passò fischiando rasente il bordo poppiero della navicella e si perdette altrove; l'altra non fu udita. O'Donnell, furibondo, armò una carabina, e la puntò contro la zattera, ma l'ingegnere lo trattenne. "È inutile" disse. "Lasciateli: la fame e la sete non ragionano." "Sono canaglie, Mister Kelly, che non conoscono la riconoscenza. Avrei cacciato ben volentieri una palla nel corpo a quel brutale Mac-Canthy." "È lui che voleva mangiarmi" disse il mozzo. "Ma spero che sarà lui il mangiato, Walter" disse O'Donnell. Il Washington intanto s'innalzava rapidamente, alleggerito com'era di quei duecento e più metri di funi e di coni. I naufraghi nondimeno continuavano le loro minacce e tiravano coi loro fucili, quantunque l'aerostato fosse ormai fuori portata. La loro rabbia parve che non avesse più limiti, dopo che si erano accorti della presenza di Walter, e si udiva la rauca voce di Mac-Canthy che urlava: "Scendi, cane di un mozzo!" Vedendo il Washington dirigersi verso il sud, quegli uomini, che parevano diventati pazzi, si precipitarono sulla vela, che in un istante fu bracciata sul filo del vento, poi s'armarono di tavole e di pennoni, mettendosi ad arrancare con furore: però dovettero ben presto convincersi dell'inutilità dei loro sforzi. La distanza cresceva rapidamente, di secondo in secondo: le loro grida divennero fioche, poi non si udirono più; la zattera rimpicciolì a poco a poco e finalmente fu perduta di vista. "Che l'oceano v'inghiotta, canaglie!" esclamò O'Donnell che era ancora esasperato. "Bel modo di ricompensarci dei viveri che abbiamo loro gettato." "Le privazioni li hanno resi feroci, O'Donnell disse l'ingegnere. "Nel loro caso noi, forse, ci saremmo condotti egualmente." "Che il diavolo se li porti! Ecco delle àncore perdute, che forse rimpiangeremo." "Questo é vero, O'Donnell, poiché ormai noi non possiamo più fermarci. Siamo in balìa dei venti." "Perdita grave e ... " Si era arrestato col viso in aria, fiutando l'atmosfera. Ad un tratto impallidì ed emise una sorda imprecazione. "Mister Kelly" disse con voce alterata "sentite odore di gas." "Sì, sì" disse l'ingegnere. "Che una valvola si sia aperta o che ... ?" "Una valvola? ... È impossibile. O'Donnell. Qualcuno ha guastato i nostri palloni." "Una palla di quelle canaglie, forse?" Kelly, che non era meno agitato dell'irlandese, salì sull'asta che sosteneva la scialuppa, e ascoltò con profondo raccoglimento. In alto, udì dei leggeri scoppiettii. "Infami!" esclamò. "E io li ho soccorsi!" Ridiscese in preda ad una sorda collera: se la zattera si fosse trovata ancora sotto il pallone, non avrebbe forse più trattenuto O'Donnell, che voleva rispondere alle palle di quei miserabili con la grossa carabina. "Ebbene?" chiese l'irlandese con ansietà. "L'idrogeno fugge" rispose l'ingegnere. "Ci hanno traversato un pallone quei naufraghi?" "Sì e forse tutti e due." "Sono ferite gravi?" "Sì, O'Donnell, perché fra poco quei fori s'ingrandiranno, e noi cadremo sull'oceano." "Se provassimo a turarli? Non v'è qualche mezzo?" "Sì, cucirli, ma chi salirà fino ai fusi?" "Io, Mister Kelly." "No, Mister O'Donnell" disse il giovane Walter, "è affar mio." "Non avrai paura delle vertigini, ragazzo mio?" chiese l'ingegnere . "Sono un mozzo, Mister Kelly." "Ma ci troviamo ad una spaventevole altezza, Walter: a 3300 metri." "Non avrò paura" rispose il ragazzo con voce ferma. "Ma può scivolarti una mano o un piede e tu potresti piombare nell'oceano" disse O'Donnell. "Lascia che vada io." "Voi siete troppo pesante, O'Donnell" disse l'ingegnere "e potete squilibrare il fuso. Preferisco che salga Walter, che non pesa molto." "Grazie, Mister Kelly" rispose il ragazzo. L'ingegnere frugò in una delle casse ed estrasse del filo di seta, degli aghi e una scatoletta contenente una vernice assai densa e molto attaccaticcia, che mandava un acuto odore di resina. Consegnò quei diversi oggetti al mozzo, dicendogli: "Non perdete tempo, mio bravo ragazzo. Ogni minuto che passa è un metro cubo di gas che sfugge." Walter intascò gli oggetti, si levò le scarpe per non guastare la seta dei palloni e per essere più sicuro dei piedi, poi si aggrappò alle funi e s'arrampicò coraggiosamente sull'asta sostenente la scialuppa. "Hai paura?" gli chiesero O'Donnell e l'ingegnere. "Se ti coglie un principio di vertigine, scendi." "Il vuoto non mi spaventa" rispose il ragazzo con voce ferma. S'aggrappò alla rete e s'innalzò sopra quello spaventevole abisso aperto sotto i suoi piedi. Di maglia in maglia raggiunse il margine inferiore del fuso di tribordo e si issò sul suo fianco, cercando i buchi aperti dalla palla. Il fuso, sotto quel peso aggrappato al suo fianco, si spostò, inclinandosi verso l'esterno, ma essendo solidamente legato all'altro non si rovesciò. "Ci sei?" chiese l'ingegnere, che non scorgeva più il mozzo. "Sì, Mister Kelly" rispose Walter. "È un buco o uno strappo?" "E uno strappo lungo sei centimetri; e ne vedo uno più lungo sull'altro fuso." "Puoi turare le ferite?" "Lo spero, Mister Kelly." Il mozzo si mise subito all'opera. Le palle, invece di aver attraversato i fusi aprendo due fori, come dapprima l'ingegnere aveva sospettato, li aveva sfiorati di fianco, producendo però due strappi considerevoli, attraverso i quali il gas fuggiva con grande impeto, scoppiettando. Si potevano turare ma, prima che l'operazione fosse terminata, una parte considerevole di idrogeno doveva fuggire, compromettendo grandemente la stabilità del Washington il quale cominciava ad abbassarsi rapidamente, inclinandosi sul tribordo. Walter, legatesi un fazzoletto sulla bocca e sul naso per non venire asfissiato dal gas che irrompeva attraverso l'apertura, si mise rapidamente al lavoro, mentre l'ingegnere e O'Donnell preparavano i cilindri contenenti l'idrogeno compresso per iniettarlo nelle manichette dei fusi. Malgrado il mozzo cucisse rapidamente, il Washington si piegava sempre più e s'abbassava rapidamente, anzi precipitava. In cinque minuti era calato di 1500 metri e non si arrestava ancora. L'ingegnere che vedeva avvicinarsi l'oceano con grande rapidità, aprì il primo cilindro e lanciò nel fuso riparato i primi quaranta litri di idrogeno. Il Washington si raddrizzò e la sua discesa si arrestò, anzi si mise a salire, dapprima lentamente, poi con una certa rapidità, finché raggiunse i 3200 metri. Il mozzo aveva terminato la cucitura. La coprì con parecchie pennellate di vernice, si assicurò che non vi fossero altre aperture, poi ridiscese, passò altro fuso e ripeté l'operazione sulla seconda ferita, che era più grave dell'altra. Pareva fosse stata fatta con un proiettile tagliente. "Hai finito?" gli chiese l'ingegnere. "Sì, Mister Kelly." "Grazie, mio bravo ragazzo. Rinforziamo anche il secondo fuso." "Resisteranno le cuciture?" cinese O'Donnell. "Non ho la pretesa che non lascino sfuggire il gas" disse l'ingegnere, "ma infine la perdita sarà minore e, forse, potremo sostenerci in aria qualche giorno ancora. "E poi? ... il vento ci spinge sempre al sud, Mister Kelly e la costa è lontana." L'ingegnere non rispose, ma emise un profondo sospiro.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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