Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 9 occorrenze

Quando il Bianconi, collo zuccone basso, mormorava una facezia sul conto di qualcuno o di qualche cosa, il Caravaggio, che schizava l'elettricità dagli occhiali, usciva a ridere con tali scoppiettii di pollo d'India che piú di una volta i magnati piegarono il capo per vedere quel che succedeva "là abbasso". Il Bianconi diventava rosso fin sotto alla radice de’ suoi capelli infarinati, e cercava di nascondere la faccia col cartellino del menu , ch'egli leggeva per la quarta volta senza capir nulla di quel francese stampato in oro. "Almeno i piatti dovrebbero stamparli in ambrosiano!" disse al suo vicino, quando fu passata la tempesta. "Cosí non si sa nemmeno quel che si mangia: è come pranzare al buio. Sai tu, per esempio, che cosa sono i cornichons ... ?" "Cornicioni ... " disse il Caravaggio, scoppiettando come un legno secco sul fuoco. "Cornicioni in insalata. Eccellenti! Scommetto che son lumache: qualche cosa coi corni dev'essere ... ." Venne in tavola un gran piatto di marbré con decorazione di gelatina, burro e tartufi, un vero monumento da far risuscitare il martire che se l'avesse meritato sulla sua tomba. "Se invece di tante statue di bronzo e di marmo," disse l'archivista al suo vicino "si innalzassero sulle piazze di questi monumenti ... ." "E fosse permesso al popolo di tirarne via di tanto in tanto una bella fetta" continuò il Bianconi. " Cristianino! faccio il martire anch'io." Visto che a casa sua di queste polente non ne mangiava mai, si fece coraggio e tirò sul piatto un bel poligono, mentre il Caravaggio, sgambettando sotto la tavola, lo raccomandava alla speciale protezione di santa Lucia, che conserva la vista agli uomini di buona volontà, et hominibus bonae voluntatis ... "Parla latino adesso, che mi farai sciogliere la gelatina ... ." "Peh, peh, peh ... " rideva co’ suoi scoppiettii di pollo d'India il Caravaggio. "Ci vuol dell'iniziativa a questo mondo" disse il Bianconi, a cui il barolo dava quasi un'aureola di bontà. "Poteva esser qui anche quel testardo di un Pianelli" esclamò con sincero rincrescimento, quando scoprí che in mezzo alla polenta di gelatina c'erano dei fegatini di pollo. "Com'è stata questa faccenda?" "È stata ... è stata ... ." Il Bianconi lanciò un'occhiata fino all'altro lato della tavola, dove il suo capo gustava anche lui i suoi fegatini di pollo, e soggiunse: "Non parliamo di morti a tavola." "È vero," continuò l'archivista in mezzo al crescente frastuono delle ciarle e delle posate "è vero che il ... andava in casa della ... ." "Guarda, anche i pistacchi ... " disse il Bianconi, che non voleva quei discorsi. "Che lei sia andata piú volte da lui ... in via Velasca ... ." "Guarda, anche un chiodo di garofani." "Pare poi che non s'intendessero sul conto ... Bolletta non quitanzata ... peh! peh! peh! ... " "Ehi, là abbasso, è uno scandalo ... " gridò quel del catasto, che aveva già votate tre bottiglie. "Brutto maccabeo!" grugní il buon Bianconaccio col viso in brace, dando un pizzicotto alla coscia del compagno. "Va a stuzzicare l'eco, animale!" "I napolitani, i napolitani, caro commendatore," gridava il commendator Ranacchi bel rosso in faccia rivolto al barone delle Ipoteche, "i napolitani ebbero sempre una posizione privilegiata nel catasto, e si può dire che non hanno pagato mai niente." "Niente è troppo" obbiettò il commendatore Balzalotti che non voleva che un'affermazione cosí recisa a tavola offendesse il chiarissimo collega delle Ipoteche. Costui avvolto nel tovagliolo, come in una toga, spianò le trecento rughe che solcavano il testone torbido e nero, e mormorò in mezzo al frastuono qualche cosa di cui il Bianconi non poté afferrare che una "gongrua bereguazione." "Senza un buon catasto non sarà mai possibile nemmeno una congrua perequazione." "Basterebbe un'imposta reddituale." "Baie sonore! vediamo quel che ci costa già l'esazione della ricchezza mobile." "È un altro paio di maniche. La terra non si può nascondere." "Ci vorrebbe un sistema di tassazione ... ." "Ma che sistema!" "Sicuro, un sistema in ragione della presunta produttività del terreno." "Mancherebbe anche questa, oltre al flagello della concorrenza americana." "Che concorrenza d'Egitto!" "Americana e non d'Egitto." "Ah, ah! oh, oh!" Le parole s'incontravano, s'intrecciavano al di sopra dei bicchieri e delle bottiglie, scoppiando in calde risate, in cui tutte le opinioni politico-amministrative di quei bravi signori si conciliavano in una piena soddisfazione reciproca. Solo il barone delle Ipoteche pareva annuvolarsi e sprofondarsi sempre piú in mezzo al baccanale, e gonfiava certi occhi bianchi, movendo il capo ora a destra ora a sinistra come volesse dire: "adesso vi mangio tutti ... " "Signori!" sorse improvvisamente a dire il Quintina colla sua voce squillante. Si fece subito un gran silenzio. "Signori! questa non è una cerimonia ufficiale di adulazione, ma una lieta e viva testimonianza di stima e di rispetto verso un uomo, il quale ... , verso un uomo, che sua eccellenza il ministro Depretis ha voluto in questi giorni onorare di un attestato speciale, concedendogli le insegne di commendatore della Corona d'Italia. Propongo quindi un brindisi al commendatore Balzalotti." "Viva, bravo, bene!" I bicchieri si alzarono, si toccarono, si vuotarono. Il commendatore si alzò. Di nuovo un gran silenzio. S'inchinò a destra, a sinistra, passò un momento il fazzoletto sugli occhi, e dando un'occhiata al suo pellicano imbalsamato, incominciò a dire: "Se dovessi, amici e colleghi, rispondere adeguatamente alle espressioni vostre, io non potrei trovare nessuna parola che sapesse esprimere il pensier mio. Avvegnaché, come ben disse pur dianzi il mio buon amico cavalier Quintina — con quella cortesia che lo distingue e della quale sento il dovere di ringraziarlo — qui non si tratta della solita cerimonia ufficiale che al levar delle mense non lascia dietro di sé alcun ricordo. No: qui voi volete non tanto onorare in me il capo d'ufficio, che fa debolmente e come può il dover suo, quanto il vostro compagno di lavoro ... ." "Benissimo!" dissero tutti insieme con quel bisbiglio di esse , che vuol approvare senza interrompere. "Laonde io vi ringrazio non come pubblico funzionario, ma, dirò cosí, come vostro collaboratore, come vostro commilitone." "Bene!" "Sua eccellenza il Ministro non ha certo voluto premiare una persona che, per quanto zelante e volonterosa, non ha ottenuto dalla natura né doti straordinarie d'ingegno ... ." "Oh ... " protestò il pubblico. " ... né ha recato alla pubblica amministrazione servigi straordinari: ma io sono persuaso che ha voluto premiare in me — e con me anche voi — la fedeltà a quei principii d'ordine e di progresso che informano lo spirito delle nostre istituzioni liberali ... ." "Bravo!" gridarono a una voce con una salva di applausi. "Bbenne!" soggiunse dopo gli altri il barone delle Ipoteche, colla cupa sonorità d'un trombone in ritardo. Il commendatore, dolcemente acceso e sorridente, brandí il coltellino del formaggio e alzandolo in aria soggiunse: "Imperciocché, o signori, non è né la forza degli eserciti, né i baluardi delle fortezze, né le difese alpine, né le trincere ferrate dei nostri porti che potranno mantenere la pace, salvare il paese, favorire il miglioramento delle classi meno abbienti, diffondere i lumi della pubblica istruzione, ecc.; ma bensí l'unità, la concordia, l'ordine nei principii, l'ordine nelle amministrazioni locali, il disinteresse dei funzionari ... ." " Un po' anca mo' ... ." Tutti si voltarono a questa brusca interruzione, molti risero, e cercarono chi aveva parlato. La frase poco rispettosa era sfuggita dalla bocca del Bianconi, che credeva in coscienza di sussurrarla in un orecchio al Caravaggio. Ma fosse l'allegria, fosse il vino bianco, fosse il diavolo, che ha sempre gusto di rovinare un galantuomo, uscí una voce falsa, a contrattempo, che tutti poterono sentire. Rosso, infocato in viso, colle orecchie scarlatte, il povero Bianconi si rannicchiò sulla sedia e avrebbe voluto sprofondare in cantina. L'oratore, turbato un momento, non si smarrí, ma alzando un po' la voce rincalzò: "La giustizia nei superiori, il rispetto nei subalterni, in una parola un'armonia di sentimenti in quell'unico ideale, in cima al quale siede il benessere del paese ... ." "..issimo." "Nel ringraziarvi, adunque, cari amici e colleghi, permettete che unisca agli auguri per voi e per le vostre famiglie un augurio anche a quell'illustre magistrato che regge questa provincia, il quale si è compiaciuto di mandare un suo rappresentante nella persona del mio buono e vecchio amico, il commendator Ranacchi, un vecchio avanzo delle patrie battaglie ... ." Il Ranacchi si mosse sulla sedia e fece molti gesti pieni di modestia. " ... e a quell'alta mente, a quell'integro statista, a quel veterano delle lotte parlamentari che regge con prudenza antica il timone degli affari interni: per arrivare infine ove arrivano sempre i voti di tutti gli italiani, che non sanno distinguere piú il trionfo del progresso da quello della dinastia che ne tien alta la bandiera ... ." "Viva, viva!" "Bravissimo!" "Molto bene! Proprio toccata la nota giusta." "M'è piaciuto quell'appello ai principii." "Mi congratulo, bravo!" Il commendatore ricevette tutti questi mirallegri, stringendo tutte le mani che lo assalivano, sorridendo a tutti ringraziando; poi la conversazione continuò animata fino ad ora tarda. Il povero Bianconi non aspettò il caffè per prender l'uscio. Quando mai era venuto! il pranzo gli si cambiava in tossico. Tanta prudenza, tanta cautela, tante umiliazioni per non contraddire, per non compromettere quella piccola gratificazione a Natale, e ora una frase, due parole, una sciocchezza gli faceva forse perdere il frutto di tre anni di buoni servigi. "Aspetta ora che ti aggiusti nel nuovo organico" seguitava a brontolare dentro di sé, mentre andava verso casa grondon grondoni, "non ti manderà mica in Sardegna per questo, ma se speri di maritare le tue figlie cogli avanzamenti, stai fresco. Non ti ha risparmiata la sassata, e come ha sottolineata quella frase: il rispetto dei subalterni ... Se quell'asino di Pianelli fosse venuto, forse avrei avuto un altro posto, avrei bevuto un bicchiere di meno ... ." E voltando nella porta di casa, salendo le scale, cacciandosi in letto, non cessò mai di pigliarsela con qualcuno, che non era sempre il Bianconi; anzi spesso confondeva sé stesso con quell'asino, che egli considerava quasi come la causa involontaria della sua disgrazia. Al telegramma ministeriale tenne dietro una lettera, in cui si diceva che, "avendo avuto riguardo ai precedenti incensurati dell'applicato Demetrio Pianelli, accogliendo le generose insistenze della parte offesa, S.E. il Ministro si limitava a traslocare il nominato Pianelli, senza promozione, all'ufficio del Bollo e Registro di Grosseto (Maremma toscana) a cominciare dal primo agosto prossimo venturo, col qual giorno avrebbe datata pure la decorrenza dell'assegno mensile". In parole meno solenni era un castigo di due mesi di sospensione dall'impiego, durante i quali il nominato Pianelli avrebbe dovuto vivere con qualche economia, vendere qualche superfluità, preparare il baule e riflettere sulla necessità che un regio impiegato abbia in ogni circostanza a conservare un contegno corretto e come si deve. Il Caramella, che gli portò la lettera, lasciò anche il fagotto delle sue poche robe. Non mancava nulla, né il boccaletto, né il bicchiere, né il paio di manichette di tela; mancavano soltanto le cento lire della sua mesata di maggio. "Andremo a Grosseto!" declamò Demetrio, dopo aver letto e riletto il ministeriale documento, accompagnando la lettura con molti tentennamenti del capo. "Grosseto, Maremma toscana: sarà aria buona ... Bisognerà mettere nel baule anche una buona dose di chinino. Impareremo cosí anche il bel linguaggio toscano." E crollando la testa, gli venne voglia di ridere. Sí, gli venne voglia di ridere, non capiva perché. In un altro momento, in altro stato d'animo forse avrebbe sofferto atrocemente di quella punizione: ora, gli veniva da ridere, come di una commedia. Che male, infine? morir qui, morir là, tanto per lui, adesso, era la stessa cosa. Era questa anche un'occasione per vedere un po' di mondo, al di là dei suoi prati ... Che gl'importava ora di Milano e delle sue magnificenze? Fino i suoi dintorni, fin anche quei prati verdi che formavano la sua delizia, oggi gli erano diventati antipatici. "Andiamo a Grosseto!" ripeteva tra sé, nella quieta solitudine della sua stanzetta, mentre a Sant'Antonio ribattevano le nove, le dieci, le undici, mentre tutti i suoi colleghi erano già in ufficio a lavorare, ciascuno al suo posto; ed egli invece, pacifico e beato come un signore che vive d'entrata, se ne stava a casa a fumare i piccoli mozziconi di sigaro, che andava pescando in fondo alle tasche, a far il conto di quel che avrebbe dovuto vendere per tirar là quei due mesi con ventidue lire e centesimi, e poi un altro mese a Grosseto prima della scadenza, oltre alle spese del viaggio, e a qualche debituccio arretrato ... "Andiamo a vedere Grosseto! ... " Se egli fosse stato pittore, oh! che bei quadrettini da dipingere! Meglio ancora se avesse dovuto scrivere un romanzetto. I letterati vanno alle volte a cercare argomenti inverosimili e strani nel mondo delle nuvole e non si accorgono che hanno sottomano dei casetti curiosi da far morire la gente dalle risa ... e anche da far piangere. Piangeva egli forse? mai piú. Gli passava soltanto per gli occhi una nube di malinconia. È una sciocchezza piangere perché il signor Ministro si compiace di traslocarti a Grosseto. Poteva forse per un giorno o due far dispiacere di romperla cosí bruscamente colle vecchie abitudini; il vedere il cappello attaccato al chiodo, il bastone appoggiato al muro, in un cantone, coll'aria di roba stufa di stare in casa; ma non c'erano motivi per piangere. Ci si fa l'osso anche al far niente. Non dava nemmeno torto al suo superiore. Guai se un capo d’ufficio non provvedesse energicamente a salvaguardare — come dicono — il prestigio dell'autorità! Come mai un Pianelli, di natura cosí impacciato e scontroso e cosí duro di lingua, avesse potuto cantare a quel bravo signore delle cose che non si devono mai dire a un superiore, specialmente quando sono vere, era un mistero anche per lui. Non sapeva ripensare neppure quello che gli era uscito di bocca in quel momento. S'era frenato un pezzo colle corde e colle catene: ma quando quel bravo signore osò insultare Beatrice e chiamarla pettegola, allora il cuore scattò come una molla. Non era dunque morta del tutto quella donna nel suo cuore; o non era morto del tutto il suo cuore per lei? Misteri, misteri. Se un resto d'illusione si muoveva ancora in lui, il Ministro provvedeva ora energicamente a togliergli fin l'ultima speranza. La bella storia era finita del tutto. T-o-tto ... finito. Ora aveva piú tempo di far delle belle passeggiate sui bastioni e in piazza Castello, e di stare a sentire le cicalate delle sonnambule e dei venditori di mastice. Aveva anche il tempo di leggere un giornale e di occuparsi di politica, come un uomo che vive di rendita, colla differenza che per vivere e tirar là tutto il tempo stabilito dal signor Ministro bisognava vendere qualche cosa. E cominciò dall'orologio. Era un vecchio orologio d'argento, di quelli che diconsi a cipolla, grande come uno scaldaletto, ma d'una solidità e precisione che gli orologini moderni, intisichiti anche loro come i padroni, non conoscono piú. Pà Vincenzo l'aveva ereditato dal padre suo, che l'aveva ricevuto in pagamento da un delegato austriaco, il quale alla sua volta ... , insomma era un magnifico orologio tedesco, che dopo aver segnate molte ore belle e brutte ai vecchi di casa, continuava a segnare al nuovo e ultimo padrone un tempo inutile. Dopo aver tentato due volte di venderlo come orologio, spaventato del poco o nulla che gli offrivano nelle botteghe, provò a spacciarlo come oggetto antico e fu piú fortunato. Un rigattiere che sta di casa in San Vito al Pasquirolo, che forse era sulla traccia d'un oggetto simile, dopo un lungo tirare si rassegnò a dare trentacinque lire, una somma favolosa in confronto di ciò che gli offrivano gli altri, ma lo acquistò come roba fuori d'uso, non come orologio. Demetrio nel venir via provò un senso di rincrescimento e di dolore, che finí, a furia di pensarci, in un altro senso piú profondo e misterioso di mortificazione. Si paragonò al suo vecchio orologio di Vienna e si accorse che anche lui era un oggetto fuori d'uso, colla differenza — sempre qualche differenza! — che per trentacinque lire nessuno l'avrebbe voluto. La grossa cipolla riempiva di solito un taschino del panciotto, premendo sulle costole a sinistra, facendo un grosso e un duro che il corpo era abituato a sentire, come una parte di sé stesso. Ora quel taschino vuoto e floscio che pendeva giú, dava un senso di freddo e di mancante, come se coll'orologio avesse levata una costola; e piú volte nei movimenti di distrazione le due mani andarono a frugare sull'orlo della tasca, irritate di non trovar subito la chiavetta di ottone, che sporgeva attaccata a due cordicelle di seta. Piú melanconico di notte. Nelle ore di veglia — e adesso gli capitava spesso di non poter dormire — era solito sentire il tic tac del vecchio amico, che vegliava con lui nell'alta e oscura solitudine sopra i tetti e che gli teneva una cara compagnia. Non è il caso di dire che in quel tic tac, ingrossato dalla cassa armonica del tavolino, egli sentisse la voce dei vecchi che avevano scaldato l'orologio col calore del loro corpo e che avevano da un pezzo finito di battere il loro tempo: questo potrebbe essere della poesia e del romanticismo. Ma è certo che egli vegliava volentieri colla sua "vecchia cipolla", e nell'accordo dei palpiti tornava a rivivere, guardando nel buio, molte pagine della sua vita passata, risuscitando immagini lontane, che davano quasi il senso d'una vita vissuta in un altro mondo. Anche questo: t-o-to ... finito! Eppure in fondo a questa catastrofe, benché si sentisse quasi schiacciato dalle sue stesse rovine, — va a spiegare anche questi misteri ... — non gli dispiaceva d'aver cantato, almeno una volta, una bella verità a un potente. Gli era cara, dolce, consolante l'idea d'aver osato alzare la voce —lui solo in mezzo ad una bega di ipocriti e di maliziosi — per difendere l'onestà di una povera donna. — Egli solo aveva avuto il coraggio di rispondere alle perfide malvagità del Quintina, alle offese del commendatore, parlando chiaro, chiamando gobbo il gobbo, vile il vile, sollevando di peso, quasi sulle sue braccia l'onestà di Beatrice al di sopra del fango. Cesarino non era uscito dalla sua fossa ad aiutarlo; e nemmeno il signor Paolino delle Cascine s'era fatto vivo in quel momento. Di quell'opera buona e di coscienza il merito spettava a lui solo; nulla di piú giusto quindi che ne godesse egli solo l'intima e gelosa consolazione. A questa coscienza si appoggiava come a un bastone, e se ne faceva quasi uno scudo. No, non avrebbe cambiata la sua coscienza orgogliosa con quella del suo superiore e de' suoi adulatori. Paolino, piú fortunato di lui al di fuori, di dentro non era né capace, né degno di certe convinzioni. Egli sí; c'è il suo tornaconto anche a soffrire per la giustizia. Con questa orgogliosa sicurezza di sé, qualche giorno dopo la burrasca, come se nulla fosse accaduto, andò passino passino in Carrobio, montò le note scale, suonò il campanello. Sentí un passo piú greve del solito, la chiave girò nella toppa, e i due cugini si trovarono in faccia l'uno all'altro. "O Demetrio!" esclamò Paolino, aprendo le braccia e stringendo poi la testa del cugino nelle mani grandi come foglie di zucca. "Beato chi ti può vedere, Paolino!" "Vuoi dire che merito d'essere bastonato? Hai ragione. Tu sei stato molto malato e non mi son lasciato mai vedere. Ma se sapessi quante cose in questa testa ... ." "Sappiamo tutto." Demetrio, mentre deponeva il cappello e il bastone, diede ascolto al cuore e si rallegrò di sentirlo quieto e rassegnato. Il passo piú difficile è quello della soglia, dice il proverbio: ed egli l'aveva fatto "C'è Beatrice?" "È di là. È venuta in questo momento la sua sarta." "E i ragazzi?" "Son presso la signora Grissini. Aspettano Ferruccio che oggi s'è vestito da prete." "Son venuto a disturbarvi?" "Birbante, tu fai delle maligne supposizioni." Paolino prese il buon cugino sotto il braccio e lo trascinò nel salotto, dov'era ancora stesa la tovaglia. "Qui si pranza." "Abbiamo finito. Sono scappato a Milano per combinare la faccenda del domicilio legale. È necessario che Beatrice, per non perder tempo, si stabilisca subito in campagna. Abbiamo scelto Chiaravalle." "Lei dunque ci ruba la signora Beatrice" disse Demetrio con un tono di recitativo d'opera. Ascoltò di nuovo il suo cuore: e gli parve di non sentirlo piú, come l'orologio. "Questo andare e venire è noioso per tutti. La voce del matrimonio è corsa, e i vicini vogliono dire ciascuno la sua. Un po' di campagna farà bene anche ai ragazzi." "Va bene, va bene." Sedettero davanti alla tavola dov'erano rimasti gli avanzi del pranzo. Non era piú il piatto di carne bollita o di pesce stantío, o il pezzo di vecchio formaggio che un certo Demetrio soleva portare a casa nella cesta, lesinando sul quattrino: ma si vedevano molte bottiglie in tavola, dei piatti non troppo puliti, dei cartocci di dolci, e un mezzo panettone. L'abbondanza cacciata dall'uscio era tornata dalla finestra. "E dunque, sei proprio contento, Paolino?" "Se io sono contento?" ripeté il cugino, come se tornasse indietro per prendere la corsa. "Bevi, Demetrio." "Non bevo, grazie." "Un gocciolino ... ." "Mi farebbe male." "È un vino bianco dolce che faccio io." "Un'altra volta ... " insisté Demetrio, voltando di sotto in su il bicchiere, per non voler assaggiare il vino dell'altrui felicità. "Verrai un giorno alle Cascine. Sento anch'io che sono un mostro d'ingratitudine. Tu mi dimandi se io sono contento ... , capisco: è un rimprovero." "Che rimprovero!" "È un rimprovero giusto e meritato, perché io avrei dovuto darti subito questa notizia, scriverti una parola, farmi vivo una volta. Ma se ti dicessi che ho perduto la testa?" "Capisco ... del resto ... ." "Dopo che ho sofferto tutte le pene del purgatorio — come ti ho contato — dopo che senza Beatrice mi pareva che sarei morto asfissiato, quel giorno che la Carolina tornò a casa colla fausta notizia che tutto era combinato, che essa aveva detto di sí, che era contenta, eccetera, eccetera, crederesti che io son rimasto freddo e indifferente come questa bottiglia?" Paolino prese la bottiglia, la collocò con un colpo in mezzo alla tavola, indicandola col dito. I due cugini rimasero un momento immobili a contemplarla. "Misteri del cuore umano!" esclamò Demetrio, usando una frase di un suo vecchio ragionamento. "E cosí fu per due o tre giorni. Uscivo di casa la mattina, andavo in campagna, per istinto, come un cieco, che ha gli occhi aperti e non ci vede, scorgevo gli uomini alla lontana, ma non capivo quel che mi dicevano. Tratto tratto mi arrestavo di botto per chiedermi se ero io che dovevo sposare Beatrice — alle Cascine la chiamavano la bella vedovina. — Non poteva essere che un sogno anche questo come ne avevo fatti altre volte, che poi sfumavano al cantare del gallo? Per accertarmi che non era un sogno, toccavo colla mano i sassi, le piante, mi davo dei pizzicotti, facevo fin dei salti al sole per vedere se con me si moveva anche l'ombra del mio corpo ... ." "Ah! ah! ah!" proruppe Demetrio con una risata larga, aperta, esagerata apposta per spaventare qualche cosa che si moveva in lui. "Bevi, Demetrio ... ." "No, caro ... , e poi?" "E poi cominciai a capire qualche cosa. La Carolina anche in questa faccenda mi aiutò come si aiuta un bambino da latte. Se avessi dovuto muovermi e fare da me, morivo vergine e martire, caro Demetrio." Paolino vuotò il bicchiere del suo vin bianco dolce. "La Carolina mi condusse a Milano una volta per la presentazione, — tu eri malato con una gran febbre quel giorno — mi insegnò quel che dovevo dire, precisamente come si fa alla dottrina cristiana: "Chi vi ha creato e messo al mondo?" scelse lei dall'orefice il primo regalo, e mi tirò su per queste scale come si tira — scusa il paragone — un vitello per le orecchie ... ." "Ah! ah!" tornò a ridere Demetrio. "E poi?" "Una volta seduto vicino alla sposa mi pareva di essere un campanile in suo confronto: io non sentivo che sonar campane nelle orecchie. Parlò sempre la Carolina, che ha tutte le chiavi delle guardarobe e anche quella del mio cuore. Per me, se mi facevano un salasso, giuro che non mi veniva una goccia di sangue. A poco a poco la lingua si snodò. Due giorni dopo venne lei alle Cascine ... ." "Ah sí?" "A casa mia sono piú a posto. L'ho condotta a vedere gli asparagi, i meloni novelli, il molino, il torchio dell'olio e cosí ho potuto salvare l'onore delle armi. Un'altra volta son venuto solo a Milano — tu cominciavi a star meglio — e a furia di mescolare le carte il gioco s'impara. Ah, Demetrio!.." soggiunse lasciando cadere un gran colpo di mano sulle spalle del cugino "quando verrà quel giorno, tu vedrai Paolino volare come una farfalla. Giugno, luglio, agosto: s'è fissato per il matrimonio il 24, giorno di san Bartolomeo." Paolino, colto da una improvvisa tenerezza, alzò gli occhi al soffitto, e non li abbassò finché fu sicuro di essere un uomo e non un ragazzo piagnulone. Demetrio, rannicchiato in sé stesso, quasi rimpicciolito nelle spalle, — fatte sottili dalla malattia — andava grattando coll'unghia dell'indice il tessuto della tovaglia. Passò un momento di silenzio, nel quale scoppiò come un fuoco di festa una risata di donna allegra. L'uscio della stanza si aprí e Beatrice, con indosso un magnifico vestito di seta color ulivo, appuntato con spilli, corse di qua a prendere le forbici, chiedendo scusa alla bella compagnia; entrò e scomparve come una visione nel morbido fruscío del lungo strascico fosforescente. Paolino abbassò gli occhi. Demetrio sollevò i suoi. Quei quattro occhi s'incontrarono, si fissarono, si parlarono. Quelli di Paolino parevano dire: "Hai visto? ho ragione di perdere la testa?" Gli occhi di Demetrio avevano invece un'espressione acuta di invidia e di gelosia. La bocca gli si riempí di un fiotto di saliva amara, che si sforzò di inghiottire. Si spaventò come se gli venisse addosso il mal caduco. Abbassò in fretta gli occhi, che sentí asciutti e quasi bruciati nell'orbita, e gli parve di vedere una chiazza sanguigna scorrere come una macchia di vino sul bianco della tovaglia. Paolino non era tal uomo da accorgersi di questi piccoli fenomeni psicologici, e tutto pieno de' suoi pensieri non aveva posto per i pensieri degli altri. Il caso aiutò l'uno e l'altro a levarsi da quel silenzioso imbarazzo. I due maschietti entrarono in furia ad annunciare che Ferruccio, vestito da pretino, veniva su per le scale. I voti del Berretta erano compiuti, e il piccolo ricciolone, tosato come una pecorella e vestito di roba larga e regalata, veniva a farsi vedere, a salutare i vicini prima di entrare in seminario. Il Berretta, piú felice egli del papa, andava mostrando quel suo figliuolo in nicchio e in veste talare a tutti gli inquilini, che, a seconda degli umori, gliene dicevano di belle e di brutte. La signora Grissini, tutta commossa, Arabella, Mario, Naldo, un po' mortificati, Beatrice, l'Elisa sarta, Demetrio stesso in curiosità, e, in fondo, mezzo nascosto dall'uscio, anche Paolino, uscirono a vedere questo nuovo chiamato da Dio, che col ciuffo tagliato, coi capelli rasi dietro le orecchie, veniva su coperto da un enorme e peloso cappello a tre punte, non suo, col passo impacciato nelle pieghe della veste, colla bocca aperta, colle mani ancor nere d'inchiostro di stampa, che non sapeva dove collocare. Il Berretta, nel suo solito panciotto di fustagno sparso di filaccie, esprimeva la sua paterna contentezza, ridendo in faccia a tutti e alzando ora una mano ora l'altra, come una marionetta. Arabella per un po' fu presa anche lei dalla curiosità e non tolse gli occhi da quel gran cappello: ma assalita a un tratto da una strana commozione, si attaccò al braccio dello zio Demetrio. Ferruccio, il bel ricciolone che essa aveva istruito nel catechismo, il suo piccolo cavalier servente, quando fu in cima alla scala si levò il cappellaccio e si atteggiò in una posizione stanca e umiliata di brutto martire in vergogna. Pareva un uccello spennacchiato. Quella sua testa rasa, quasi ignuda, da cui uscivano le orecchie come due manichi d'una marmitta, quell'annientamento morale e fisico di un bel ragazzo, trasse dal petto della fanciulla un tale scoppio d'ilarità, che per vergogna essa nascose il volto nel panciotto dello zio Demetrio. Questi la trasse in un cantuccio dell'anticamera, e stava per dirle che non bisognava ridere: ma quando le sollevò la testa, vide che invece erano singhiozzi, e che la faccia era un torrente di lagrime. "Ah poverina!" balbettò lo zio Demetrio. "Cominci male anche tu ... ." La curiosità della gente fu in quel momento sviata da un altro grande personaggio, che montava le scale, con un catafalco in testa. I ragazzi, guardando tra i ferri del pianerottolo, non potevano discernere chi fosse e che cosa fosse. "Chi è?" "Che roba è?" "È Giovann dell'Orghen ." "Che cosa porta sul capo?" "Guarda ... che diavoleria ... !" Demetrio si avvicinò a Beatrice e le disse con una voce di umiltà e di preghiera: "L'altro giorno mi avete manifestato il desiderio che fosse vostra: l'ho fatta aggiustare alla meglio, e non potendo regalarvi altro per la circostanza ... ." Giovann dell'Orghen veniva su col passo pesante del sordo, portando sulle spalle e sul capo come un'enorme cuffia la vecchia poltrona di vacchetta a grosse borchie, l'ultima memoria della mamma, salvata dal naufragio di ca' Pianelli. Il piú felice uomo del mondo rideva sotto quel catafalco, come un santo nello splendore della beatitudine. L'Elisa dovette fuggire in camera a buttarsi colla bocca sul cuscino per non farsi sentire. E fece ridere anche la signora Pianelli sulla magnifica idea di regalare a una sposa una poltrona di arcivescovo.

soggiunse il Quintina, compiendo un giro della stanza con le mani nelle tasche dei calzoni, ch'egli tirava sui fianchi, mandando fuori abbasso due scarpette da signorina. "Non siamo venuti per sporcar d'inchiostro la coscienza di nessuno; che bell'originale!" Demetrio gettò sul pettegolo un'occhiata di ghiaccio, mosse due dita in aria come se stesse per dire qualche cosa e tornò ad infilare la chiavetta nel buco. "Non si tratta di una grande somma!" provò a dire l'archivista, un giovanotto piccolo, smorto, con poche setole di barba e con due occhiali fini e lucenti sugli occhi. "Se non puoi pagare adesso, metti almeno la firma, tanto che si possa dire che ci siamo tutti ... " suggerí con benevolenza il buon Bianconi, che nella sua bonarietà soffriva di vedere un amico cosí fuori di strada. "Non è per non pagare ... Che diavolo! io sono ricco ... Guarda, Bianconi. Ho appena riscossa la mesata ... la vedi qui?" E Demetrio stese la mano irritata da un fremito mal compresso d'ira, con dentro le sue centoventidue lire e centesimi, gualcite come un pezzo di fodera. "Sappiamo che ella è ricco ... " cantarellò il gobbetto, facendo sonare le dita nell'aria. "Sí ... caro il mio signor ... " Demetrio finí la frase con un'altra occhiata lunga e insolente. Poi si mosse d'un tratto come se lo assalisse un'idea luminosa: "A lei, che ride e che canta, guardi: posso regalarle al signor cavaliere ... ." "commendatore, commendatore ... " corresse burlescamente l'altro. "Posso regalare al signor commendatore cento lire ... guardi!" e con un colpo di mano andò a mettere il biglietto da cento sulla scrivania del suo superiore. "Ed anche qualche cosa ancora gli posso regalare" soggiunse, cavando di tasca un involtino, ripiegato in una carta e legato con un nastrino rosso, che collocò sul biglietto. "Ma su quella lista il mio nome non lo metto: e mo' è con ... contento, sor ... " e in luogo del nome sostituí una smorfia della faccia, che gli fece raggrinzare tutta la pelle del naso. "Con ... contentissimo ... " strillò il gobbetto, agitando le gambe. Demetrio aveva preso con sé il famoso braccialetto coll'intenzione di consegnarlo al portinaio della casa dei bagni in via Velasca, come aveva consigliato Beatrice, e come se il regaluccio lo rimandasse lei, senz'altro, senza rinvangare il passato e far scene e scandali, di cui oggi si sentiva ancora meno il bisogno. Ma fuorviato dai discorsi, stuzzicato dall'ironia punzecchiante del Quintina e dalle insistenze banali del Bianconi, piú per un capriccio di resistenza che non per un partito preso, fu tratto a commettere uno sproposito, che forse non era nel suo programma e nemmeno secondo i dettami di quell'arte di saper vivere ch'egli voleva adottare per sistema. "So bene che al signor Pianelli non mancano i fondi" seguitò a dire il Quintina, socchiudendo con malizia gli occhi e mettendo fuori la voce in una cantilena canzonatoria. "Lei è un uomo spiritoso," rispose Demetrio con un senso di schifo "ma io potrei dimostrarle che pensa e che dice delle cose stupide." "Ma che storie? ma che vuol dimostrare? ma mi faccia il santo piacere di non fare il matto." "Se non firmo, è perché ho le mie ragioni." "Ma se le tenga ... ." "E le mie ragioni, caro il mio caro signor spiritoso, son pronto anche a stamparle." "E lei le stampi ... " rimbeccava senza perder fiato l'ometto piccino, che saltava come un uccello in una gabbia. "E il mio pane è guadagnato colle mani pulite, sa ... " e mostrava i due palmi "pulite piú delle sue, che se le lava tutte le mattine col sapone inglese." "Adesso sei fuori di te, Pianelli" s'arrischiò a dire il Bianconi, agitando con una certa furia le mani, mentre il Caravaggio, preso in mezzo, moveva la testa ora a destra ora a sinistra, come un gatto che guarda un pendolo, o anche un uomo che non capisce niente. "Lasciatelo cantare, è matto; gli è andata la rugiada alla testa. Starei fresco, se volessi perdere il mio tempo con un professore di lingua ... ." Demetrio sentí la punta della freccia a fior di pelle, si contrasse come un legno nel fuoco, e dopo un gran garbuglio di consonanti, da cui la sua lingua ingrossata dall'ira stentò a districarsi, disegnò col pollice una certa curva, come se abbozzasse un gobbetto nell'aria, e mormorò: "Io non ho certe fortune ... ." L'altro divenne livido, i suoi occhi si velarono e si rimpiccolirono, la bocca umida di saliva si atteggiò a un sorriso mordace, in cui l'ometto maligno cercò di nascondere, come dentro a una maschera, il cupo risentimento dell'animo offeso.Da quella smorfia lunga e indurita tra le pieghe della pelle uscí una voce piú falsa del solito, che doveva sembrar nuova anche al suo padrone: "Senta, sor Pianelli, i miei non si sono ancora appiccati ai travicelli dei solai, e io, firmando qui le mie sette lire, non ho paura di far mangiare a un benefattore i suoi denari." "Ah! aspetta ... brutto assassino ... ." Demetrio stese la mano, afferrò un grosso calamaio di peltro e fece l'atto di buttarlo in viso al mostro maldicente; ma il Bianconi gli fermò con una mano il braccio, ponendogli l'altra sullo stomaco, intanto che il Quintina rideva sugli acuti d'un riso fatuo e insolente, facendo il verso d'una gallina che canta. In quella entrò il commendator Balzalotti e tutti ammutolirono, restando ciascuno al suo posto, fermo nella sua posizione, come le statue di terra cotta che si ammirano al sacro Monte di Varese. "Che cosa c'è?" chiese il commendatore Filippo Balzalotti colla sua voce flemmatica di buon padre di famiglia, arrestandosi un poco sulla soglia, lindo nel suo abito nero, col panciotto bianco di piqué , lucido, pulito come uno sposino, con una espressione di bontà e di indulgenza sparsa come una spalmata di vernice sulla superficie della sua faccia di canonico. "Politica, della brutta politica, commendatore" si affrettò a dire il Quintina, che non era uomo da perdere troppo facilmente le staffe. Il Bianconi, a cui tremavano le polpe delle gambe, per aiutare a porre un cerotto si fece un coraggio da leone e disse: "Come impiegato anziano ho l'onore, commendatore, di far parte di un comitato d'onore incaricato d'invitarla a un modesto banchetto in onore della ... del ... ." "Della ben meritata onorificenza di cui sua Eccellenza il Ministroi volle onorare la signoria vostra" continuò l'archivista tutto d'un fiato, come se sonasse una trombetta. "Oh! oh!" esclamò tutto confuso il commendatore, "che cosa vien loro in mente? un banchetto a me? non sono un ministroi." "A questo penseremo in seguito" fu pronto a dire il Quintina, a cui stava bene la lingua in bocca. "Intanto è un vivo bisogno del nostro cuore di manifestarle la compiacenza della quale siamo compresi tutti quanti per una delle poche distinzioni, che si possono dire veramente meritate." "Questo sí, è vero, proprio ... " aggiunsero gli altri due. Demetrio, dopo aver soffiato nella chiavetta per liberarla dai fondi di carta, era tornato a rosicchiare intorno alla serratura, curvo, quasi nascosto dietro la scrivania. Il commendatore che lo aveva adocchiato subito, capí ch'egli non faceva parte della commissione. "Loro hanno una grande bontà e una grande indulgenza per me. Ammettiamo dunque che il ministroi abbia voluto ricompensare non i meriti reali, ma la buona volontà e la devozione a quelle idee liberali di ordine e di progresso, che hanno sempre informata la mia vita." "Benissimo ... " esclamarono con tre voci diverse i tre ambasciatori. Tenne dietro una battuta d'aspetto, durante la quale Demetrio, innocentemente, soffiò nella chiavetta, traendone quasi un piccolo fischio; e tornò a rosicchiare come un topo che fa il buco per passare. "Li prego dunque di farsi interpreti presso i loro egregi colleghi dei sentimenti della mia gratitudine, e dicano pure che, poiché gli anni mi dànno questo diritto, preferirò sempre essere il loro padre piuttosto che il loro superiore." "Questi sentimenti onorano l'illustre uomo piú di qualunque commenda" concluse di nuovo il Quintina. "Dunque se non le dispiace, commendatore, sabato alle sei avremo l'onore di venire a prenderla colla carrozza a casa sua." "Non si disturbino: se mi dicono il luogo della riunione ... ." "Non permetteremo mai." "Bene, come vogliono. Cercherò di fare onore alla bella compagnia e al cuoco." Risero tutti e quattro piú forte del bisogno, quasi per fare il coro finale, mentre il bravo uomo stringeva la mano all'uno, all'altro e all'altro. Demetrio, mentre gli altri se ne andavano, riuscí con un energico ma…ledet…tissimo! ad aprire il cassetto indurito dove aveva chiuse le sue manichette, la fodera del cappello, un boccaletto di vetro, un bicchiere, qualche altra cosuccia sua, e sí preparò a far fagotto. Il commendatore finse di non accorgersi di lui. Dal contegno del Pianelli non poteva capire s'egli era informato o no della delicata faccenda e non osava rompere il silenzio per non guastar l'aria. Demetrio, dal canto suo, era quasi sul pentirsi d'essersi lasciato trasportare un po' troppo; ma non poteva piú far sparire il biglietto e l'involtino senza dare nell'occhio o senza provocare una questione, che adesso gli era diventata indifferente. E intanto questi due uomini, fingendo di non accorgersi l'uno dell'altro, stavano lí sospesi, come ai due estremi di un'altalena in bilico, dove uno non può cadere, se non fa cadere anche l'altro, e nessuno dei due può andarsene finché la trave resta in bilico. È da queste posizioni incomode, piú che da istinti malvagi, che gli uomini sono tratti qualche volta a farsi del male. Il commendatore, attaccato il cilindro al chiodo, stava tirando la punta ai guanti, mentre dava, in piedi, una prima occhiata superficiale alle soprascritte delle lettere e al fascio degli affari. L'occhio andò naturalmente a cadere anche sul biglietto da cento e sull'involtino. Non capí a tutta prima, prese in mano il misterioso peso, stracciò coll'unghia un lembo della carta, vide un che di lucido, ruppe ancora di piú l'involucro, capí, arrossí come una ragazza còlta dalla mamma con un libro disonesto in mano, infuriò dentro di sé, un tremito nervoso lo prese, smosse, per far qualche cosa, della carta, mentre una parola furibonda, attraversando tutta quella fiammata di vergogna e di sdegno, gli venne due volte sulla punta della lingua: "Tanghero!" avrebbe voluto gridare contro quell'imbecille gaglioffo, che pretendeva di dargli una lezione in ufficio. Ma la bella dentiera di Winderling non lasciò uscire che un suono smorzato come l'onda morta di un tamburo. Demetrio, collocato il cassetto in terra, andava voltando e rivoltando le robe sue, come se facesse un'insalata di stracci. Sentiva quasi al disopra della testa passare lo sdegno di una cosí grande dignità ferita proprio nella sua poltrona, e, per quanto rassegnato a prendere le cose come il ciel le manda, non era ancora cosí maestro nell'arte del saper vivere, perché un resto dell'antica soggezione non gli facesse fastidio e balenío agli occhi. Quando gli parve di aver finito, raccolto il suo fagottello, si avviò, come se non ci fosse nessuno nella stanza, verso la porta d'uscita, diretto al suo nuovo ufficio. Il commendatore, in piedi, dietro la scrivania, lo lasciò andare un poco, incerto anche lui di fingere di non esserci e quindi bevere il fiasco nella sua paglia, o se non era il caso invece di toccare il tempo a questo tanghero dalle orecchie rosicchiate, che si permetteva di dargli una lezione in ufficio. Tra i due estremi scelse un terzo termine, secondo la vecchia tattica dell'uomo oculato; cioè, quando vide che l'altro stava per uscire: "Neh, Pianelli" disse con una voce d'uomo sostenuto sí, ma non in furia, "senta una parola." Demetrio si voltò e venne con tre passi lenti, in preda anch’esso a un tremito convulso, verso la scrivania del suo superiore, e interrogò con una faccia di uomo che ha il sole negli occhi. "È lei che mi ha raccomandato un ragazzo per l'orfanotrofio?" "Difatti, una volta ... " balbettò. "È figlio di un suo fratello, eh?" Demetrio disse di sí col capo, e inghiotti una goccia di saliva. "La ringrazio tanto: mi ha fatto fare una bella figura nel Consiglio. Di che male è morto il padre di questo ragazzo?" Demetrio, come se gli saltasse in corpo un razzo, fece un altro passo, quasi un salto, collocò la roba su una sedia e domandò: "Perché?" "Dimando a lei di che male è morto il padre di questo ragazzo, perché doveva informarmi: era dover suo, e non permettere che una persona rispettabile andasse a raccomandare a persone rispettabili il figlio di uno che si è impiccato per debiti. Che cosa crede? che gli orfanotrofi siano fatti pei figli dei ladri e dei falsari?" Demetrio, non piú cosí ingenuo come una volta, capí benissimo che il signor commendatore esagerava di proposito un fatto inconcludente per darsi della forza, per nascondersi in una nuvola temporalesca di sdegno, per vendicarsi insomma del vivo, picchiando sopra un morto. Volle giustificarsi, però senza andare in furia, e disse: "Scusi, lei sapeva benissimo, anzi meglio e prima di me com'erano andate queste cose, e, se si ricorda, mi ha dato in questo preciso posto anche dei preziosi consigli. Se c'è qualcuno che deve lamentarsi, scusi, cavaliere, dovrei essere io, nel caso, perché ... , perché ... chi ha fatta la piú brutta figura in questa faccenda, chi è stato il piú minchione sono io ... ." "Che mi sta a contare ... " interruppe con un brusco movimento delle mani il commendatore. "No, scusi, lei si lamenta che le ho mancato di riguardo" tornò a dire Demetrio sospinto a poco a poco da una fiumana di cattivi umori, che non sentivano piú la forza degli argini "e io mi permetto di chiedere a lei e al suo buon amico di Novara chi si è fatto piú giuoco della semplicità, della debolezza ... e dei bisogni di una povera gente che, appunto perché povera e debole, poteva meritare del ... della compassione." Sospinto, trascinato, travolto dalla reazione della sua virtú, Demetrio trovò d'aver dette piú parole che non avesse in mente di dire, ma le pronunciò senza declamazione, quasi sottovoce, con un tono e un gesto che conservavano ancora, alla lontana, un'apparenza di rispetto. "Guardi come parla ... " comandò con un alto sussiego il commendatore, e indicando la porta col dito, aggiunse: "Mi vada fuori dei piedi." "Andavo bene: è lei che mi ha chiamato indietro per il gusto d'insultare un povero orfanello. Siccome non ha potuto oltraggiare l'onore di una donna onesta, crede di vendicarsene ... ." Demetrio alzò le mani colle dieci dita aperte. "Esca, dico ... " l'altro gridò, quanto è permesso di gridare a un superiore, facendosi smorto e agitandosi tutto nel piccolo spazio tra il muro e la scrivania. Demetrio, sempre sospinto da una violenza che non sapeva piú imbrigliare, fatto un altro passo avanti, seguitò: "Crede di vendicarsene col gettare l'infamia sul capo de' suoi figliuoli." "Per Dio ... " tornò a dire il commendatore, agitando le carte con un moto convulso: ma non voleva d’altra parte col gridar troppo esagerare lo scandalo, far correre gente, compromettersi in faccia ai subalterni. "Faccia il piacere" tornò a dire con un tono piú dimesso, "se ha delle ragioni, non è questo il luogo." "L'offesa ch'ella ha fatto a quella donna è cosí vile ... " soggiunse Demetrio appuntandogli in faccia un dito. "Di che cosa mi parla?" interruppe il commendatore agitando sotto il naso del Pianelli il foglio della Perseveranza , stropicciato come un fazzoletto, quasi avesse voluto pulir l'aria e far scomparire quelle brutte parole. "Che provocazione è questa? esca, le torno a dire. Che mi viene a contare a me, di quella sua pettegola?" Demetrio lasciò cadere una mano con un colpetto secco sulla spalla del commendatore e gli disse: "Badi a non offenderla di piú, per il suo bene ... ." "Che, che, che ... è una minaccia?" balbettò il commendatore, facendo gli occhi grossi e spauriti, tirandosi piú che poté sul muro. "Badi," e il Pianelli lo fissò coll'occhio cattivo "io non ho mai date lezioni sull'arte di saper vivere, ma posso insegnare a lei e a qualcuno piú bravo di lei come si rispetta una povera donna." "Ehi, di là ... , Bianconi; bravo, venga qui." Il Bianconi, che stava dietro l'uscio ad ascoltare con un gran dolore ai ginocchi, quando capí che il Pianelli perdeva la testa del tutto, entrò, lo prese sotto il braccio, lo tirò indietro: "Andiamo, non dir piú asinerie ... Tu ti senti male ... ." "C'è della gente che dice che io faccio dei guadagni, che ho dei segreti protettori" gridò con una voce falsa e lacerata il Pianelli, che non era piú in grado di misurare la portata e l'estensione delle parole. "Questi sono i miei guadagni. Ma dovessi anche mangiare i chiodi delle scarpe, avrò sempre il diritto di insegnare a lei, e a chiunque piú bravo di lei, il rispetto che si deve a una donna onesta." "Lo meni fuori a respirare dell'aria, Bianconi. È matto; ha bevuto." "Taci dunque ... finiscila" predicava il Bianconi. "A lei e a chiunque piú bravo di lei" tornò a ripetere il povero diavolo dalla soglia dell'uscio, attirando l'attenzione dei portieri e degli impiegati piú vicini. Non era Demetrio Pianelli che strillava, ma qualche cosa o qualcheduno dentro di lui, che aveva bisogno di uscire come il diavolo dal corpo di un ossesso. Era l'uomo morto, che risuscitava colla corona di spine di tutti i patimenti, di tutti gli stranguglioni inghiottiti, di tutte le amarezze, di tutte le vergogne, di tutti i tedî sofferti in una lotta superiore alle sue forze cogli uomini, colle donne, coi vivi, coi morti, e (piú terribile di tutto) con sé stesso. L'uomo morto usciva, come evocato ancora una volta dal nome di quella donna che altri osava insultare in sua presenza: usciva da un apparente letargo di cinismo a protestare, e a vendicarsi un momento per ricadere forse per sempre nel buio della sua fossa, che non si sarebbe schiusa mai piú. Se ne accorse egli stesso quando, tirato dal Bianconi, attraversò l'anticamera in mezzo a un gruppo di persone, che lo guardavano con curiosità e che gli parvero ombre. Si fermò un momento sulla scala, si svegliò, sto per dire, dal suo sogno, e cominciò soltanto allora a capire quello che il povero Bianconi andava ripetendo: "Che ti salta in mente? sei matto? la ti gira? che diavoleria ... A un capo d’ufficio, a chi ti dà il pane ... E che te ne importa a te delle donne? lasciale nel loro brodo le donne ... Hai torto, hai fatto male: già, si vede che non sei guarito: dovevi stare a letto ancora qualche giorno ... Va a casa, Pianelli, lascia passare la scalmana, rifletti: cercherò di fare le tue scuse, dirò che sei malato, che è stato un equivoco, che hai creduto una cosa e invece era un'altra. Anzi dovresti scrivere subito una bella lettera al cavaliere, voglio dire al commendatore ... ." Mentre il buon Bianconi cercava di salvare un amico dal precipizio, il commendatore, vedendo che la cosa minacciava di propalarsi nei corridoi e negli uffici (dove c'è sempre il bell'umore che ha gusto di ridere alle spalle dei superiori) si rivolse ad alcuni impiegati accorsi a vedere, e ridendo come meglio poteva al disopra della sua rabbia e della sua paura, disse loro: "È niente, grazie, vadano pure. Ha creduto che gli si volesse fare un torto, perché ho chiamato il Bianconi al suo posto: è un originale, un misantropo, ha la mania della persecuzione. Che asino! Aveva anche bevuto. Scusi, Caravaggio, apra un poco la finestra. C'è un puzzo d'acquavite, non sentono? Tu, Caramella, portami una tazza d'acqua. E io piú asino di lui a dargli ascolto. Se gli passa coll'aria fresca, bene, se no ... se no…" "Mi sono accorto anch'io poco fa che non era compos sui " disse il Quintina che in questa commedia godeva piú che a teatro. Amico della Pardi, aveva saputo da lei come e qualmente il cavalier Balzalotti non rifiutasse i suoi consigli e i suoi benefici alla bella cognata del brutto cognato, come Beatrice andasse a trovarlo in casa all'ora della dottrina cristiana e come per questa via il Pianelli avesse avuta una promozione nell'organico ... Il piccolo gaudente andava ora a fantasticare quel che poteva essere accaduto nel retroscena, per far nascere in pieno ufficio uno scandalo di quella sorta; non vedeva chiaro, ma intanto godeva in prevenzione dell'affanno con cui il vecchio gattone cercava di coprire le sue, diremo cosí, tenere fragilità. "Altro che compos sui !" esclamò il commendatore "non poteva quasi stare in piedi. Se torna, non lo si lasci entrare: non ne voglio di ubbriachi in ufficio. Farò un buon rapporto ... Tornino al lavoro: grazie, vadano pure… Chi sa che anche questo non aiuti ad aguzzare l'appetito per sabato ... " "Eh! eh! eh!" rise col suo verso di gallina il furbo gobbetto, che, uscito di lí, fece un giro per gli uffici a contare l'allegra storiella. Ricordò i sorbetti che il cavalier Balzalotti soleva pagare alla bella pigotta le sere di carnevale, tra una polka e l'altra, mentre Cesarino Pianelli si divertiva a falsificare i conti di cassa. Ma il piú comico era l'amico di Novara, questo misterioso personaggio, che doveva confortare di biscottini la solitudine della povera vedovella ... mentre l'orso della Bassa sarebbe stato fuori a far la guardia ... , eh! eh! — Erano discorsi a spizzico, a scatti, con molti vuoti in mezzo, dentro i quali la fantasia di ciascuno poteva introdurre tanto un granello di pepe, come uno spicchio d'aglio, discorsi che il gobbetto metteva in rilievo nell'aria con tutti i segni cabalistici della sua mano nervosa e rachitica, rannicchiandosi nello scrigno, stirando le gambe nei calzoni, grattandosi la barbetta sul collo, mandando dal ventre rotondo e grasso un nitrito di cavallo ... he! he! — che andava a finire in un cocodé di gallina che fa l'uovo. Il giorno dopo, un venerdí, un telegramma del Ministero sospendeva il signor Demetrio Pianelli dall'impiego fino a nuovo ordine. Al telegramma doveva seguire una lettera ministeriale. Ed il giorno dopo, il sabato, ebbe luogo al Giardino d'Italia il pranzo che gli impiegati offrivano al commendatore.

"C'è abbasso un signore che desidera parlare a lei, sora Beatrice." "Un signore? non vi ha detto il suo nome?" "No, o forse non ho capito." "Non lo conoscete?" "Non mi è faccia nuova: pare un po' esaltato. Gli deve essere accaduta una disgrazia…" "Ditegli che veniamo subito abbasso ... " soggiunse Beatrice con un tremito nella voce. S'era ridotta quasi ad aver paura dell'aria e andò a immaginare che fosse qualche altra disgrazia. Quand'ebbero finito di vestirsi, madre e figlia discesero quelle benedette scale, forse per l'ultima volta. Arabella pareva una candela. Sotto il portico, a’ piedi dei gradini, passeggiava un signore grasso, che, al veder la signora Pianelli, le andò incontro colla furia d'un uomo disperato. Beatrice riconobbe in lui il signor Melchisedecco Pardi, il marito della bella Palmira, e capí dalla sua faccia smorta e stravolta che aveva poco dormito anche lui. Anche lui, come Demetrio Pianelli, come Paolino delle Cascine, era un'anima in pena per grazia di una donna, perché questi benedetti uomini, grandi e grossi, che sembrano a vederli i padroni del mondo, basta toccarli con un dito sul cuore e si smontano come le macchinette. I coniugi Pardi stavano una mattina facendo colazione, quando la donna di servizio consegnò alla signora una lettera arrivata allora allora dalla posta. Le lettere, lo ricordiamo, da qualche tempo in qua erano diventate gli spauracchi del signor Melchisedecco, il quale, sebbene, dopo la scena che abbiamo visto, non avesse piú motivo di lagnarsi di sua moglie, pure non poté nascondere un certo cipiglio, intanto che Palmira dava un'occhiata alla soprascritta. Ma questa volta fu un cipiglio inutile. Palmira, spinta la lettera verso di lui, cosí come era arrivata in tavola, gli disse: "Leggi tu." Secco, un po' mortificato d'essersi lasciato cogliere in diffidenza e in gelosia, crollò il testone, alzò le spalle e mormorò, mentre ripuliva il piatto con una mollica di pane: "Che bisogno?" "No, leggi. Dici sempre che io sono la donna dei misteri ... ." "Che cosa ho detto?" "Non è necessario parlare. Apri, guarda dunque." "Se è per capriccio tuo ... ." Il buon Pardone confuso e quasi commosso per questo straordinario attestato di confidenza, aprí la lettera, che veniva da Milano, mentre cogli occhi buoni carezzava quella sua cara traditora. "È la signora Pianelli che ti scrive" disse, dopo aver scorsa superficialmente la lettera. "Oh!" fece Palmira senza alzare gli occhi dal piatto con un tono di freddezza glaciale. "Che cosa vuole la signora delle Cascine?" "T'invita al suo matrimonio per giovedí mattina." "Che onore!" declamò Palmira, corrugando la fronte in uno sforzo come di concentrazione, che ella procurò di nascondere con un altro sforzo dei muscoli, mentre cercava di schiacciare nei palmi una noce contro un'altra. "Se accetti, dice che manderà la carrozza a prenderti mercoledí sera, perché tu possa assistere alle presentazioni e a un piccolo trattenimento ... ." "Anche la carrozza! vuol proprio farmi morire d'invidia! Conosci tu il suo Paolino?" "Non ho questo bene." "Una pertica con in cima un gran pomo d'Adamo." Palmira rise ella per la prima d'una ilarità sfrenata ed eccessiva, sforzandosi di coprire un altro movimento del cuore e seguitò: "Per sposare di questi lampioni non vale la spesa di andare fuori del dazio. Di lampioni è pieno Milano." Secco rise lui di gusto questa volta alla pittura del sor Paolino, e in cuor suo si consolò d'essere qualche cosa di piú d'un lampione. Lo spirito mordace e pittoresco di Palmira aveva sempre avuto il merito di piacere al buon fabbricante di nastri, sorto anche lui dal popolo, a cui piacciono i paragoni semplici e coloriti. Confrontando in mente la bella e pacifica signora Pianelli, che egli aveva conosciuto a Cernobbio e alle feste del Circolo Monsù Travet , nella sua beata e pacifica compostezza, colla sua faccia rotonda di bambocciona, a quest'altra donnina magra e spiritosa, che rosicchiava davanti a lui un amaretto con una delicata nervosità, il buon Pardone non poté a meno di fare anche lui il suo paragone. "Non basta" pensò "che una donna sia bella e prosperosa come una gallina. La bellezza va e viene e, in quanto a peso, vale di piú un cannone. Ciò che dà vita e illuminazione a una donna è lo spirito. Una donna senza spirito" seguitò nella sua pigra fantasia di buon ambrosiano, "è come un caffè buono, ma freddo." Secco non sarebbe stato capace di mettere in carta queste idee, ma le espresse cogli occhi, con cui avvolse teneramente la sua cara traditora, soffiando il ridere dalle ganasce gonfie, mentre ripensava al paragone della pertica con in cima un pomo d'Adamo. "Che ne dici, dunque? debbo accettare?" "Direi di sí. Se t'invita è segno che ha gusto d'avere anche te." "Non ne ho nessuna voglia" soggiunse Palmira, continuando a schiacciar noci, senza far altro che tormentare la pelle delicata delle sue manine da contessa. Ma forse aveva bisogno di quel tormento fisico per schiacciarvi dentro un pensiero piú duro e piú aspro. "Se non c'è motivo, non bisogna mai disgustare la gente" raccomandò il buon negoziante, rompendo con un colpo solo delle sue mani grassoccie e forti due belle noci, che mise in venti frantumi sul piatto di Palmira. "Non ho nemmeno un vestito adatto" seguitò a dire Palmira, come se si compiacesse di porre degli ostacoli ai propri passi. "Per questo siamo in un Milano ... ." In questi discorsi la colazione finí. Secco si alzò, accese una grossa pipa di ciliegio e andò in fabbrica, in mezzo al movimento de' suoi duecento telai, che mandavano un chiasso di cento pettegole. Quando l'uscio fu chiuso sull'onda sonora che entrò a invadere il salotto, Palmira afferrò con furia la lettera rimasta aperta sulla tavola, la scorse in furia con uno sguardo freddo e lucente, mordendosi le labbra sottili, avvicinò le prime e le ultime parole di ogni riga, traendone un senso che era sfuggito al suo segretario; si contorse quasi su se stessa come una foglia secca, e mormorò qualche cosa, che andò a morire negli abissi imperscrutabili della sua coscienza di donna vana e capricciosa. Si alzò, accese una sigaretta e, tolto dal caminetto un giornale di mode, andò a rannicchiarsi in una poltroncina posta sotto la finestra che dà sul Naviglio, cogli occhi apparentemente fissi alle belle signore del figurino, ma in realtà perduti in una contemplazione lontana molto piú bella e affascinante. Dalla fabbrica arrivava ancora fino a lei, per quanto smorzato, il continuo tric-trac, che assordava, intontiva le orecchie e l'anima, e sul quale tesseva anch'essa le sue giornate tutte d'un colore, trascinandosi dietro la vita lunga ed uguale come un nastro ordinario, senza una emozione, tediata, piena, gonfia della sua stessa fortuna di agiata borghese, sempre in lotta o colla tenera bontà di suo marito, o colle tentazioni de' suoi pensieri. Era piú felice forse quando lavorava di là, in fabbrica, e che poteva almeno sfogare l'umore, tirando uno zoccolo nella schiena a qualcuno. Per quanto non invidiasse né il temperamento, né il "lasciatemi stare" di Beatrice, per quanto non credesse alle sue massime di donna pacifica, doveva però confessare, con un piccolo risentimento d'invidia, che quella bambocciona era piú fortunata di lei. Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri. Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine. Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare: "I miei complimenti; portami i confetti." La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi. "Caro lei, lo faccio arrestare" saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. "Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte." "Allora sí, povera signora Palmira ... " disse il compagno che vinceva col fortunato mortale. Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde. "Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore." "Tre assi ... " accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio. Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò: "Tre assassini!" e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente lí di fuori ... ." Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala. La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni , la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta. Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis . Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole: "Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione." E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero: "Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri." Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.." E piú sotto: "Per sua norma, Altamura ... ." Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla. L'egregio cavalier Lanzetti — oggi sono cavalieri anche gl’impresari e i suggeritori — avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo. "Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere ... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana ... ." Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al letto ... Palmira non era quasi mai uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli, per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola ... Stava ancora concludendo il suo ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con violenza, intascando sbadatamente la chiave. Non era il caso di credere che prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con ... qualcuno. Impossibile. Come poteva sapere questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata la carrozza a prendere Palmira il mercoledí? Ad ogni modo bisognava sempre supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di coltelli nel cuore ai Trovatori . Che diavolo gli passava mai per il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa chiave? Non si ricordava già piú. Stette a guardarla con grossi sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò, frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche Altamura fosse stato invitato alle Cascine ... Ma se Altamura non era a Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America, non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo è una tana di tradimenti, che non c'è piú né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la pelle. In queste riflessioni spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio. Portò l'orologio all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse dormiva insieme alla sposa ... Coll'orologio in mano, cogli occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo. Non era ancora deciso se uscir di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su per i muri al passare della candela. A mezzo della corsía, che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e, premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante, piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita, saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa. L'alba trovò il signor Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento, avrebbe creduto d'essere molto malato. Tuttavia la luce chiara e onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre, sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini, dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte. Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti, cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania la raccolta della Gazzetta dei Teatri , ch'egli leggeva attentamente dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale mimico-lirico- danzante del paese, e ritrovò facilmente una notizia, già segnata con matita rossa, che diceva: "Il celebre Altamura accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell' Opera di Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali. Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di pesetas ." "Anch'io" mormorò il Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata della bugia che farò scontare al cento per cento al signor Lanzetti." Intascò il giornale, accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa. Non erano ancora sonate le sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio, già vivo e agitato come deve essere il cuore di una città grande piena di affari e di interessi, che non ha troppo tempo per dormire. Sapeva che i Pianelli abitavano in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia all'altra, nel medesimo tramvai. I piedi, che non sempre ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo portarono diritto. "Abitano qui i signori Pianelli?" chiese al portinaio. "Abitavano" rispose il Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello. "Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor Cesarino, saprà bene che ... ." "La signora è in campagna?" "Oggi è a Milano. È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli esami." "Ieri, va bene: ed è partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere gli spropositi di fatto che diceva il sarto. "No, no, è a Milano" confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba." "Che c'entra? deve sposarsi stamattina." "Ah ... io non so." "Insomma, c'è o non c'è?" "Chi?" domandò il Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in faccia a questo signore grasso, che pareva in collera. "Avete detto che la signora Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso. "Sí, diavolo! le ho portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia." "Fate il piacere di andar su e ditele ... " il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito." "Vado in un momento." Secco si lasciò cadere coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie, nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio. Il Berretta tornò a dire che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe venuta dabbasso tra cinque minuti. Il Pardi non rispose, e dopo aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato coll'amabile sposina. Il portinaio venne a contare delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la mano ... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco imbottito di stoppa. Di fuori il Carrobio mandava i suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti, accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio ... che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno. Nella corte strideva a brevi intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante; risonavano voci di donne, piagnistei di bambini ... Tutti questi particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la forza d'entrarvi. Se avessero gridato al fuoco, se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano, come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte? "È qui" disse finalmente il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi cinque soldi. Il Pardi si alzò di scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

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