Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassavano

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D'Ambra, Lucio

220384
Il Re, le Torri, gli Alfieri 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Nella penombra violetta del crepuscolo le corazzate, tutte insieme, al suono delle musiche, abbassavano le bandiere e punteggiavano il mare e il cielo con le leggere architetture d'oro delle loro illuminazioni. Io ero rimasto verso poppa, appoggiato al parapetto della bella nave, conversando in un gruppo d'ufficiali. Una mano invisibile, nell'ombra, sul terrazzino del comandante, aveva acceso sotto un paralume di tulle rosa una minuscola lampadina elettrica ch'era come ma piccola rosa fiorita per incantesimo sul tavolinetto di vimini da cui la duchessa e Sua Altezza erano appena separati. Non distinguendo più, nella penombra rischiarata in un sol punto da quel Fiore roseo, nè gli atteggiamenti dei due, nè chi parlasse, scorgevo appena due figure, una tutta bianca e l'altra tutta nera, vicine, allungate, schiacciate come due ombre profilate sopra un muro illuminato. Cessata la cerimonia dell'ammàina bandiera, la musica aveva attaccato l'ultimo valzer. Gli ufficiali andavano attorno pel ponte invitando le dame agli ultimi giri sul ritmo voluttuoso e appassionato della danza viennese. Qua e là, attorno alle tavole bianche dei buffets, gli ultimi tintinnii delle ultime coppe di sciampagna. Dovunque bandiere spiegazzate, vasi di fiori sguarniti di corolle e a terra tutto un tappeto malinconico di poveri petali già sfioriti e calpestati. A destra e a sinistra, vicino e lontano, nelle parti meno illuminate della corazzata, s'accendevano e si spegnevano le lucciole irrequiete delle sigarette dei fumatori. E, dovunque, la malinconia accorata delle feste che finiscono. Di tanto in tanto, nelle pause del valzer s'udiva il fischio stridulo dell'ufficiale di guardia che dava i segnali alle lancie che imbarcavano e portavano via gli invitati più solleciti ad andarsene. Nella distrazione della nostra gaia conversazione io avevo completamente dimenticato Sua Altezza. Ma non dovevo tardare ad essere richiamato alla mia ininterrotta attenzione di spettatore e ad imaginare quale piega stava per prendere la commedia che già seguivo con tanto interesse. I miei sguardi erano ritornati, senza volerlo, al terrazzino di poppa e alle due figurine bianca e nera profilantisi appena nell'oscurità, quando vidi d'improvviso la figurina bianca levarsi e allontanarsi bruscamente dalla figurina nera, mentre la voce della duchessa di Frondosa gridava il mio nome. Accorsi. Trovai la duchessa in piedi, appoggiata al parapetto, sorridente; e d'innanzi a lei il principe, ora anch'esso in piedi, che si torturava con una mano nervosa i baffettini nascenti. E, prima che io avessi avuto il tempo d'interrogare, la duchessa, col suo più bel sorriso pacato, con la sua voce più tranquilla, con un volto che respirava la più sicura pace, mi spiegava d'avermi chiamato perchè Sua Altezza voleva già andarsene e desiderava che io l'accompagnassi a cercare il suo aiutante di campo. In pari tempo donna Isabella tendeva la mano a Sua Altezza e disegnava col piede e il ginocchio destro la più leggiadra riverenza del tempo in cui le donne non avevano ancora sostituito alle riverenze delle Corti una ginnastica da cortile. In pari tempo Sua Altezza s'inchinava a sua volta profondamente, prendeva il mio braccio e s'allontanava con me verso il centro della nave mentre la duchessa accoglieva festosamente gli omaggi del gruppo di ufficiali che avevo or ora lasciati e che avevan dovuto aspettare, per inchinarlesi, che quella pittima di Sua Altezza se ne fosse finalmente andata. Se la duchessa di Frondosa rivelava una così sorridente serenità, Sua Altezza invece doveva essere letteralmente fuori di sè. Difatti, senza voler neppure accordarmi un minuto per cercare il suo aiutante di campo, mi trasse verso la scaletta e saltò su la prima lancia che trovò lasciando in asso quel povero sottotenente di vascello di guardia che già col suo fischietto s'era affrettato a chiamare la lancia reale. E c'era di peggio. Sua Altezza abbandonava così la festa prima che se ne fossero allontanati suo padre e l'imperatore Goffredo: il che poteva anche essere assolutamente necessario per un uomo che una donna desiderosa di metter le cose a posto aveva garbatamente ma esplicitamente licenziato, ma non era niente affatto protocollare per un principe reale che giungeva così a filar via all'inglese, senza salutare nessuno, come fosse il più libero ed il più oscuro degli invitati. Per il momento il malumore del principe si sfogò in un silenzio ostinato. Ma, giunti a terra e saliti che fummo nella vettura di Corte che ci riaccompagnava a palazzo, Sua Altezza mi fece capire che anche io non ero affatto escluso dal suo risentimento. Aveva preso una sigaretta e tentato d'accenderla — altra negligenza di etichetta — contro il vento della sera. Ma s'era bruciato le dita e gittando via, con gesto irritato, sigaretta e fiammifero, aveva brontolato a denti stretti: «Ma anche lei poteva dirmelo, perdio, che quella duchessa era una Giovanna d'Arco!». Povero, dimenticato capitano dei Dragoni azzurri che aveva passato le sue più belle ore a insegnare storia a Sua Altezza senza che Sua Altezza riescisse a farsi, per esempio, almeno un'idea approssimativamente chiara della vergine guerriera! Per pigro abito di semplificazioni il giovane principe aveva solo ritenuto di tanti lunghi commenti che Giovanna d'Arco era vergine e però ritrosa e restia. Ciò gli bastava, poichè non aveva seguito alla Sorbona i corsi del professor Thalamas, per raffigurare in lei il tipo rappresentativo dell'austerità femminile. Mi guardai bene quindi dal ripetere schiarimenti che il capitano dei Dragoni azzurri aveva già dovuti somministrare inutimente e mi limitai a chiedere rispettosamente al principe che cosa fosse avvenuto. E il principe, com'era sua abitudine, non in avaro di spiegazioni. La conversazione sera fatta a mano a mano molto galante e la duchessa sembrava ed era semplicemente incantevole. Abituato a non incontrare mai difficoltà, Monsignore credeva che la via dell'avanzata gli fosse facile e piana anche con quella bella signora. Io l'avevo avvertito, è vero, della sua incensurabile fama. Ma Monsignore, ch'è testardo come son testardi tutti gli «enfants gatés», si era ficcato in mente che io ero, che non potevo essere che male informato. Lo provava anche il fatto, del resto, che la duchessa civettava deliziosamente e che si lasciava far la corte con la più affabile condiscendenza, tanto che a un dato punto l'odore dei fiori, la bellezza della duchessa, il fascino della notte primaverile, la voluttuosa carezza del valzer viennese avevano provocato l'ardire del principe e l'ombra che circondava la coppia l'aveva decentemente favorito. Che cos'è mai, del resto, alla stregua dei peccati mortali, prender la mano d'una bella signora e baciarla lungamente schiacciandovi un po' sopra le labbra? Senonchè la duchessa aveva ritratto la mano e aveva tranquillamente invitato il principe a rimanere al suo posto. E perchè vi rimanesse ve l'aveva prima rimesso. Ma il principe, che per le gaffes grandi e piccine non aveva mai avuto una istintiva ripugnanza, stimando che fosse il caso di scherzare ancora e tentando di riprendere la mano restia, aveva detto alla duchessa con un sorrisetto superiore e maleducato:«Via, duchessa, perchè volete essere tanto difficile?». E proprio a questo punto donna Isabella s'era bruscamente levata rispondendogli di botto chemcertamente il principe da Sua Altezza l'Infante Anna-Maria, sua zia, era stato abituato a un'assai minore severità. E quindi, dopo la botta e la risposta, la scena innocente cui anch'io ero stato chiamato a partecipare. La poca severità dell'Infante Anna-Maria verso di tutti e specialmente verso il suo regale nipote che sin dalla più tenera adolescenza, prima ancora di recarsi ad Oxford, aveva portato alla vetusta e venusta parente i suoi lion d'arancio, era notissima a tutto il regno di Fantasia ed era per, difficile per Sua Altezza considerare come un'offesa alla regale famiglia il richiamo ad una verità ch'era ormai incontrastabile per voce di popolo confermata anche dall'esperienza personale di varie centinaia di sudditi. Non tenne quindi, oltre quella sera della prima impressione, alcun rancore per quella mancanza di rispetto ad una zia cui egli doveva la rivelazione precoce della sua sola e vera vocazione; e, nei giorni e nelle settimane seguenti, ricercò e rivide la duchessa di Frondosa come se nulla fosse stato, sperando di riuscire col tempo, con la pazienza e col fascino della sua futura corona, a ridurre Giovanna d'Arco a più miti e condiscendenti consigli. Cominciò a frequentare i salotti che la duchessa frequentava, a correre in vettura, lui che amava tanto di vedere e di farsi vedere, le passeggiate eccentriche e solitarie che la duchessa prediligeva, a frequentare assiduamente il teatro di musica cui la duchessa non mancava mai, lui che in fatto di musica non poteva sopportare idee melodiche più complicate di quelle d'una canzonetta da caffè-concerto o d'una marcia da circo equestre. La duchessa leggeva molto e il principe faceva la fortuna delle librerie. La duchessa era assidua alle conferenze e il principe non ne trascurò più una. Cercava di vederla ogni mattina, ogni giorno, ogni sera. La giornata gli sembrava insopportabile se non aveva alcuna possibilità d'incontrare la duchessa. Io ero il suo lieto confidente nelle buone giornate. Scontavo il suo malumore nelle cattive. E, finalmente, si decise a mancarmi di rispetto per la prima volta e, poichè mi vide docile ai suoi capricci, non fu certo l'ultima. Eravamo a colazione a palazzo, due ore prima d'una garden-party che Sua Altezza offriva, per completare le presentazioni, alla società pulquerrimese. Facevamo colazione soli, come quasi tutti i giorni. Intuii che aveva qualche cosa di serio da dirmi poichè vedevo che non apriva bocca neppure per mangiare e che non cessava d'arricciarsi i baffetti. N'ebbi la conferma quando fummo al caffè e quando, ordinato al maggiordomo di lasciarci, cominciò a parlare. Capii sùbito che voleva qualche cosa da me e lo capii appunto perchè aveva l'aria di non volermi chiedere nulla. Parlava invece della nostra buona amicizia, della grande fortuna che aveva avuto di ritrovarmi inopinatamente a Pulquerrima e faceva l'elogio sperticato, che io ascoltavo senza arrossire come una bella donna che si guardi e, si ammiri allo specchio, della mia abilità diplomatica, del mio tatto, della mia mia astuzia, della mia esperienza mondana. E quand'ebbe esaurito gli aggettivi, ch'erano per lui un lusso forzatamente limitato, ricorse alle imagini. Io ero il pilota abilissimo della sua navicella gettata, al suo primo viaggio, in pieno alto mare. Avevo anche la suprema delicatezza di non far punto sentire la mia presenza e di tenere silenziosamente il timone in modo da lasciare a lui l'illusione d'essere già un vecchio capitano di lungo corso, sicuro del mare. Ma la sua navicella andava oramai purtroppo per una rotta che non seguiva la mia traccia ma che dipendeva unicamente dalla sua volontà. E dopo gli aggettivi e le imagini, quando si accorse che queste erano molto comode per dire quasi con facilità la cosa molto difficile che aveva da dire, le imagini si complicarono di metafore e imagini e metafore, incrociandosi e confondendosi, davano luogo ad un discorso straordinario col quale Sua Altezza, con l'aria piu serena di questo mondo, mi proponeva semplicemente di aiutarla, se non in tutti i suoi amori, almeno nei suoi amori difficili. Insomma, per far breve il discorso, si trattava nè più nè meno che di questo: la navicella dell'amore di Sua Altezza faceva rotta verso l'isola di felicità promessa dall'amore restio della duchessa di Frondosa. Per non rischiar d'incagliare in qualche secca e per non perdere inutilmente e faticosamente molte ore di navigazione occorreva sapere se in quell'isola inesplorata c'era almeno la più lontana speranza di trovare un punto d'approdo. E a chi domandarlo, per avere un dato geografico sicuro, se non alla duchessa in persona? Lei sola conosceva la sua isola. Continuava ella, infatti, a scherzare, a civettare col Principe, a giuocare col fuoco. Il faro, dunque, era acceso. Ma era mai possibile che quel faro fosse una burla tentata ai danni dei navigatori più arditi e più ostinati e che veramente poi, dietro quel faro, come la duchessa pretendeva, non ci fosse alcun porto? Questo, io dovevo tentar di sapere, poichè purtroppo le carte galanti dei più esperti marinai di Pulquerrima erano mute al riguardo. E saperlo era facile. Bastava parlare alla duchessa Isabella della lunga e disperata navigazione di Sua Altezza, di quella sua povera navicella sentimentale sbattuta dalle onde che volta a volta l'avvicinavano e l'allontanavano dall'isola irraggiungibile e misteriosa. Si trattava, insomma, di far sapere all'austera signora dell'isola che la povera navicella non navigava così a casaccio per puro capriccio, ma che il suo povero capitano aveva veramente e definitivamente perduto la bussola e che in tal caso era elementare dovere di umanità e di pietà aprire al fragile legno le braccia tranquille d'un dolce porto ospitale. Non esito a confessarlo. Non so quale specie di sadismo morale mi traeva ad ascoltare quasi con voluttà da Sua Altezza quest'inconcepibile discorso di cui non avrei tollerato da nessun altro neppure la prima sillaba. Questa condiscendenza tacita della prima volta doveva essermi fatale in seguito. Tuttavia, per quella prima volta, riuscii a declinare il poco onorevole incarico. Continuando le metafore di Sua Altezza, che comodamente permettevano a entrambi di non arrossire, dichiarai che la mia esplorazione era forse impossibile, ma che era, ad ogni modo, sopratutto superflua. Affermai recisamente che l'isola non aveva porti nè grandi nè piccini, che l'isola era stata sempre disabitata e che la luce che Sua Altezza scambiava per quella d'un faro era invece quella d'una dolce capanna sotto la quale la duchessa e suo marito filavano un amore perfetto degno dei più leggendarii amanti. Non c'era quindi altro da fare che macchina indietro. Per approdare c'erano cento isole abitabilissime attorno a quell'isola inospitale, isole con porti garentiti e provati, con visibilissimi fari accesi che veramente invitavano i navigatori, isole che costituivano tutto l'arcipelago del salotti di Pulquerrima e tra le quali non c'era, per navigare, altro imbarazzo che della scelta. Sua Altezza, bontà sua, non insistè. Mi chiese solamente, lasciando le metafore, se veramente credevo la duchessa di Frondosa così onesta e risposi che la reputavo veramente onestissima. Monsignore volle anche degnarsi di farmi osservare che in tal caso disperato egli avrebbe finito per innamorarsene sul serio. Ed io non potei che stringermi nelle spalle, senza rispondere. Non se ne parlò più. Venne l'estate. Passarono giorni, settimane e mesi. Sua Altezza continuava intanto a muoversi come voleva su lo scacchiere galante di Pulquerrima, ma io comprendevo che tutte le pedine cui dava caccia fortunata, che tutte le torri che faceva cadere con un sospiro e qualche volta anche con uno sbadiglio non erano altro per lui che tentativi per distrarsi dalla sua idea fissa, che pretesti per sfogare su le torri che precipitavano le esuberanze d'ogni genere che la torre incrollabile provocava in quel cuore e in quel sangue di ventitrè anni. Intanto Sua Altezza continuava a vedere ogni giorno la duchessa di Frondosa, la quale, dal canto suo, continuava a giuocare con lui di parole con quella sua bella serenità che non si turbava mai. Educata dalla prima aspra lezione, Sua Altezza non tentava più il passaggio troppo rischioso dalle parole molto vaghe ai gesti abbastanza precisi. E, una sera, tornando da un pranzo dai Frondosa al quale avevamo assistito insieme, Sua Altezza mi confessò che non solo il fascino della duchessa Isabella lo attirava in quella casa, ma che anche il duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo. Non aveva mai visto, mi diceva, uomo più compìto, gentiluomo più perfetto, diplomatico più illuminato e padron di casa che gli fosse paragonabile. Contava di farne oramai un suo amico, un suo strettissimo amico, senza nulla togliere per altro all'affetto di lunga data ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era più d'altronde da discutere. Dopo la moglie, il marito.... Era, decisamente, l'amore.

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