Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 1 occorrenze

L'organetto aveva gettato la prima battuta in una nota di falsetto stridula come di una punta sul vetro, che si era perduta nel fracasso; dalle finestre aperte improvvisi buffi di vento abbassavano le fiamme dei lumi a petrolio producendo bizzarri effetti di ombra sopra quella massa grigia, compatta ed oscillante, cui le donne allineate alla parete facevano come una cornice anche più scura. Tratto tratto a un grido di ragazzetto nascosto fra le gambe degli altri, a un urto imprevisto trasalivano. Viù impaziente di primeggiare apostrofò Perpignano: - Ridammi il mio soldo, se non sai far stare la gente a posto. - Ti cogliesse un accidente! come vuoi fare? - Musica, musica! vedrai che si scostano. Infatti egli per il primo urtò in Santone spingendoselo innanzi, e tutte le coppie spostandosi in una specie di curva riuscirono a fare il vuoto nel mezzo. La monferrina, intonata con una veemenza di fanfara sugli acuti più stridenti dell'organetto, si allentava ogni tanto nella scarica di quattro passi di polka per riprendere daccapo sopra un ritmo di una monotonia accorante, senza che alcuno se ne impressionasse. Invece si notavano già le bizzarrie del ballo: quelli che non pigliavano mai il tempo e galoppavano pettoruti, o curvi, o dinoccolati, con un braccio intorno alla cintura della donna nella goffaggine pesante di una carezza, che talvolta tentavano di compiere accostandole di più il volto, mentre ella si ritraeva con ripugnanza; altre coppie più strette, che si parlavano all'orecchio brancicandosi; parole ed atti lubrici scattavano come scintille fra il polverio, senza che nessuno di quei volti esprimesse una gioia. Tutti sembravano faticare, colle carni in sudore e la bocca semi aperta. Le donne, meno grevi degli uomini, si lasciavano trascinare guizzando talora negli scambietti della polka con subita agilità. - A me! - gridò Viù cacciandosi fra Santone e Berta per portargliela via; e difatti vi riuscì col tagliare il circolo insinuandovisi poco più lungi fra le altre due coppie, mentre Santone rimasto nel mezzo fra lo scoppio di una risata generale si sentiva improvvisamente preso alle spalle. Era Cocca, la ballerina di Viù, che per non restare sola lo aveva abbracciato sospingendolo nuovamente al galoppo. - Ih, ih! frusta, Cocca - si gridava da ogni parte: - tira di fianco come un cavallo da bilanciere. Allo stesso momento Viù e Berta, nel passargli dinanzi colla leggerezza di due uccelli, sfiancavano daccapo per piroettare nel mezzo. La piccola Berta sembrava scodinzolare dentro le sottane scartando rapidamente il piede e torcendosi sui fianchi con una mossa, che faceva quasi sempre dare un urlo alla massa. Viù invece era sgarbato, ma la disgustosa brutalità della sua faccia in quelle contorsioni del ballo si animava di una lascivia esilarante. A testa bassa, col comignolo della gobba, che gli saliva quasi sopra un orecchio, fingeva ad ogni istante di precipitarsi contro il ventre della ballerina, e le donne ne ridevano più degli uomini. - Che duri, che duri! - vociavano le coppie tornate al passo per ripigliare il fiato. - Vuoi venire a bere? - domandò Santone alla Cocca. - No. Ma ad un gesto di Perpignano il galoppo ricominciò così frenetico che tutti ne indovinarono la fine; allora si alzarono proteste, gridii, pestando più violentemente i piedi fra lo scherno di quelli che non ballavano e si compiacevano di vedere i ballerini mezzo frodati del loro soldo. - Che duri, per Dio! - È finita, gobbo... - Bella Mora, avanti! - La Cocca squittì colla sua voce di volpe: - Santone, tira gli ultimi. - Vengo io - le saltò innanzi Ghino, mentre l'altro preso dalla vertigine di quel circolo troppo stretto girava sopra sè stesso come un bue colpito da una mazzata fra le corna, ma si rimise quasi subito e, riafferrando la Cocca di volo, all'ultima battuta, la sostenne per aria con una mano. - A bere, a bere! - urlarono quasi tutti aggruppandosi intorno a Santone, che si era messo violentemente la Cocca sotto un braccio: Viù li seguiva con Berta, Ghino con la bella Mora. Si misero a tavola nel camerino con dinanzi un piattello di paste e dei bicchierini di vermouth per le donne, gli uomini presero del vino caldo, ma anche lì c'era ressa. La gente non arrivava a potersi sedere, trasudata, senza un pensiero delle correnti di aria che s'infilavano su per le scale, non domandava insistentemente che da bere. - Se muta vento, Mora, farai la brina su tutto il pelo. - E tu? - Dammi una mano che ti faccia sentire fin dove son bagnato. La Mora alzò le spalle voltandosi a guardare negli occhi Ghino, che le pizzicava una coscia sotto la tavola. - Non è lì! - ghignò con un impudore sprezzante. L'altro rimase interdetto. Santone invece non sapendo cosa dire aveva già vuotati due bicchieri di vin caldo, e badava ad offrire delle paste battendo leggermente col labbro del piattello nel seno delle ragazze perché ne prendessero; nel camerino così pieno era un continuo via vai, molti si affacciavano all'uscio per scambiare una parola o guardavano solo curiosamente senza entrare, mentre la Veronica, sorella del padrone, si affannava indarno per servire tutti. Viù aveva indettato Berta. - Perché, Santone, non vuoi che Santina venga anche lei a ballare? - Non voglio - replicò l'altro duramente senza accorgersi dei sorrisi che la sua risposta provocava. - E se fosse venuta! Io almeno non l'ho vista: bel male che ci sarebbe... Adesso sarà a casa. E la voce di Berta aveva uno squillo tagliente, poiché aveva già saputo tutto prima di Toto, e lo aveva detto a Viù. - Anch'io voglio andarmene presto - disse Santone. - Perché? Qui si sta bene - rispose Ghino. - Voialtri potete starci, io me ne vado. - Santina non ha paura di rimanere sola a casa? - Perché paura? - Tu l'avresti, Berta? - Io sì - ribatté con atto monellesco che smentiva le parole. Ma un altro accordo si era fatto sentire e nuovi ballerini vennero a cercare le ragazze; i tre uomini rimasero a tavola, poi Santone alzatosi per accendere un mozzicone di sigaro ad una bracia del focolare vi rimase seduto presso alla Veronica. Era una vecchia ragazza sdentata, con un gran naso nel quale una narice molto più larga faceva come un buco; ma tutti le volevano bene perché lavorava tutto l'anno da tessitrice per mantenere il fratello ubbriacone. Quella fatica di fare da sola i ponci, i caffè e il vino caldo, sempre col viso nel fuoco, le aveva fatto diventare le guance giallastre un po' lucide. - Non ho potuto trovarla ancora - mormorò Toto, rientrando, all'orecchio di Viù. - Io so dov'è. - Tu? - Me lo ha detto Berta: è giù nel capanno della Costa con Prugnolina, Scopetta e Sandro. A quest'ora ci saranno già altri. Toto scattò per andar via. - Aspetta - fe' l'altro, gittando una occhiata sinistra a Santone: - si sono portati dietro un fiasco per finire di ubbriacarla, la metteranno in cuccagna. - Nel capanno ci si sta bene. Turulù vi ha lasciato l'altra settimana un fascio di paglia - replicò Toto cogli occhi luccicanti. - Adesso bisogna tener qui Santone. - Vado a vedere. - No, se vai ci resti: sta qui - conchiuse imperiosamente guardandogli in faccia così che l'altro si sottomise. - Allora che cosa vuoi fare? - Andremo giù noi con Santone. L'altro ebbe un gesto d'incredulità. - Gli dico che è la Sghemba di Porciano; noi l'abbiamo condotta laggiù d'accordo cogli altri e vedrai che viene anche lui. Tu vai avanti ad avvisare che scappino perché arriva Santone. L'altro non capiva ancora. - E se la scopre? - Non la scoprirà. È buio; Santina, riconoscendolo alla voce, starà zitta. Mengo e Rocco entrando dalla scala tagliarono loro il dialogo; allora Santone tornò alla tavola e la Veronica servì altri cinque ponci. - Abbiamo cantato fino adesso: ohé, Mengo!, torna a dire l'ultimo stornello - esclamò Rocco, che una sbornia affettuosa traeva a confessare la propria inferiorità davanti al rivale. Fiori di cesta. Se Adamo c'ebbe a perdere una costa nel far la donna Dio perdé la testa. Ma gli stornelli non facevano più effetto a quella ora. Fortunatamente Santone s'impegnò con Mengo in un discorso di fieno, che non poteva essere breve, perché quegli ne aveva ancora da vendere una buona partita, tutto il suo ricolto dell'estate. Allora Toto e Viù diedero una occhiata in sala e, non potendo stare neanche lì, uscirono a passeggiare. La notte era sempre così tiepida, umida e nera; non si sarebbe riconosciuto un uomo a cinque passi di distanza. - Andiamo laggiù a vedere - insisteva sempre Toto con un tremito spaurito nella voce dopo quella confidenza. Il gobbo invece rideva silenziosamente: ogni tanto qualcuno usciva o rientrava dal portone. - Dunque nessuno lo sa ancora, perché andrebbero per di là in questo caso? - egli osservò accennando verso il fiume. - Che Berta abbia tenuto il secreto? Sarà stato Sandro che non ha voluto avvisare altri; lo conosco. Se gli fosse capitato il tiro da solo, sarebbe stato anche più contento. - Ma Berta come lo ha saputo? - Non ha voluto dirmelo. - Andiamo a vedere. - Andiamo. Oltrepassarono il muraglione a passi concitati, quindi sfiancando per un sentiero discesero la sponda del fiume per tornare quasi sotto la casa del pozzangherone. In quella oscurità il pericolo di tombolare giù sino all'acqua era imminente ad ogni passo, ma i due ragazzacci conoscevano troppo bene cinghione per cinghione tutta la ripa per darsene pensiero. Appena in fondo Viù si arrestò mettendo un fischio. - Vado io. - No, verrà uno di loro - e ripeté cinque o sei volte quel sibilo del quale era solito servirsi come di un segnale. Nullameno s'inoltrarono. La corrente del fiume ingrossata dallo sciogliersi delle nevi rumoreggiava sordamente; si distingueva appena il vecchio ponte, e giù pel greto una casa perché v'era lume ad una finestra. Dall'altro lato non si vedeva che buio. Viù fischiò ancora, poco dopo un'ombra gli si parò davanti. - Sei tu, Sandro? - Sì. Ah! lo hai saputo. - Lo ha saputo anche Santone, almeno cerca Santina. - Oramai è talmente ubbriaca che non ci riconosce più. Vieni. - No, torno su per trattenere Santone; ma se mi sentite ancora a fischiare, scappate subito; vuol dire che egli viene giù. Lo conoscete! - L'altro era rimasto interdetto. La voce di Viù, la sua premura, mentre tutti lo sapevano così pronto a godersi il male altrui, gli parevano sospette. - Di', vuoi mandarci via per restare tu con lei? - La pigli così? Ti saluto. - Aspetta. Toto era perplesso, ma la soggezione verso Viù lo vinse anche questa volta; allora Sandro andò loro dietro per qualche passo, quindi concluse: - Per me ne ho avuto già abbastanza. - No, per Dio! - ribatté Viù - io torno subito. Se posso, imbroglio Santone e lo mando a cercare dal lato opposto, altrimenti calo anch'io con lui fischiando. Voialtri fuggite per il fiume: ma se veniamo soli io e Toto, ci divertiremo. Com'è, com'è Santina? - chiese mutando tono. - Oh! è da ridere; spranga calci come una cavalla. - Su, svelto, Toto! - E si separarono. Santone scendeva appunto le scale per tornare a casa, quando essi rientrarono nell'andito. - Dove vai? - A letto. - Vuoi venire con noi invece? - Dove? - Abbiamo la Sghemba di Porciano nel capanno della Costa. - Ohé! - esclamò Santone sorridendo - siamo noi soli? - Ritorno adesso di là, è mezzo ubbriaca: ho detto che venivo a prendere un fiasco. Vedrai che rideremo. - Andiamo pure. Toto non aveva fiatato; malgrado la sua precoce malvagità quel tentativo lo spaventava. Lungo il muraglione diede una gomitata a Viù, ma questi gli disse di andare innanzi; quindi scesero adagio, circospetti, perché Santone meno agile di loro veniva ultimo. - Com'è che non parliamo? Pare che andiamo a seppellire un morto - questi esclamò. - Sta zitto, qualcuno potrebbe seguirci; è meglio che siamo soli. - La Sghemba ne ha viste ben altre. - Sai pure che quando s'impunta è capace di non volere alcuno. - Questa volta la vedremo! - replicò Santone con un franco riso. - È tutto carnevale. Erano scesi. - Vado io, voialtri venite adagio - disse Viù sparendo rapidamente nell'ombra. I due si fermarono. Toto tremava. Benché il capanno non si distinguesse ancora, non era a più di cinquanta passi entro una insenatura della ripa coperta di virgulti, pei quali coll'agilità della giovinezza non sarebbe stato molto difficile arrampicarsi; e davanti gli si apriva un bel pezzo di fiume asciutto. Santone andò innanzi. - Vieni, è mezzo addormentata - gli sussurrò improvvisamente Viù sorgendogli di faccia ad una svolta: - Entra tu per il primo che sei il più forte: con te certo non la può. - Non c'è nessun altro? - No, io non sono nemmeno entrato: l'ho sentita dal di fuori nicchiare sul fieno. - Lascia fare a me. - Bada che ci siamo anche noi dopo - riprese Viù sogghignando. - Diavolo! - Ecco. Toto e Viù si ritrassero, mentre Santone allungando due passi imboccava l'apertura del capanno. - Ohé, Sghemba! - chiamò a mezza voce. Un urlo soffocato fu la risposta, intanto che Toto e Viù sgattaiolavano su per la macchia, nella quale gli altri tre erano già fuggiti. Ma Viù si fermò: il rombo del fiume in quel momento gli parve spaventevole. Aspettò ansiosamente con Toto senza capire che cosa potesse accadere, giacché Santone era sparito dentro al capanno ridendo all'urlo di Santina senza riconoscerla. S'intese un rumore sordo di lotta e la voce di Santone che disse: - Va là, Sghemba, che non mi scappi. - No, no - esclamò soffocatamente Toto alzandosi. - Che fai? - Vado via. - Vigliacco! hai paura - rispose Viù con voce tremula. - Tu sei il vigliacco - replicò l'altro: - va là, questo non ti tornerà a conto. Un urlo di donna, sottile, disperato, si spense dentro al capanno. Allora Viù rimasto solo ebbe paura. Benché la notte fosse buia, si sentì veduto fra quei cespugli: l'aria era pesante, la corrente del fiume scura come l'aria trabalzava rantolando sui sassi, tutto il resto era solitudine. Coll'orecchio teso colse i più piccoli suoni, seguì su per la ripa l'ascensione di Toto, che si separava fuggendo da quel delitto per correre senza dubbio a letto. Nel capanno non si udiva più altro. Santone scambiando la figlia per la Sghemba non si era fatto naturalmente alcun riguardo, mentre l'altra inorridita, inebetita dalla violenza aveva tentato invano di difendersi, poi si era taciuta per una ultima disperata lusinga di non essere così riconosciuta. - Cercherà di sfuggirgli improvvisamente dal capanno, dopo - pensò Viù. Ed egli aveva voluto questo per vendetta dello scapaccione toccato come risposta alla coltellata colla quale per poco non aveva aperto un fianco a Santone. Tutto quanto gli restava ancora di meno guasto nella precoce perversità del cuore balzò in sussulto; poi il silenzio dentro il capanno, come se quei due vi fossero morti, gli dié una paura istantanea, pazza, di poter essere anch'egli ucciso. D'un salto, col medesimo ribrezzo di Toto, si cacciò a caso su per l'erta, ma quando giunse sulla cima era già pentito di aver ceduto a quel moto istintivo; allentò il passo e si dispose a tornare nel pozzangherone. - Sei stato da Santina? - gli chiese Berta col suo sorriso sfrontato. La festa non gli parve più quella. Infatti la maggior parte di coloro che non ballavano l'avevano abbandonata; per le finestre spalancate l'aria della notte, entrando con un freddo umido, sbatteva sinistramente le fiamme dei lumi a petrolio, mentre gli ultimi ballerini, i più ostinati, ballavano come trottano i cavalli da vettura poco più discosti dalla stalla anche se sfiniti. Egli non rideva più. Gli sembrò che la gente lo esaminasse, Toto e Ghino erano spariti, nel botteghino vuoto del caffè la Veronica affranta dormigliava sopra una sedia. Nell'insopportabile crescendo di quella oppressione si ricordò l'atroce ingiuria detta nel pomeriggio al padre, ridotto ad uno spettro, spregiato da tutti per le violenze di una volta, e che nullameno lo aveva sempre amato alla propria maniera. La mamma era morta l'anno passato, in una sera di carnevale, mentre egli, Viù, ballava in quello stesso pozzangherone: se ne ricordava benissimo, che erano venuti indarno a chiamarlo, ma sin d'allora anche i peggiori giovinastri del paese lo avevano giudicato e condannato senza appello. - Vogliamo fare il saltarello? - gli passò innanzi Berta. - Balla tu l'ultima zucchetta - aggiunse un altro. - Balliamola, balliamola! - replicò Berta. - Ti ho detto di no, figlia di beccamorti. - Tu sei il beccamorti, che uccidi tuo padre. - Ohé, ohé! - intervenne il padrone - qui si sta allegri. Balli o non balli la zucchetta? - Viù scrollò la spalla gobba senza rispondere. - Che canaglia! - gli disse dietro il padrone. Ma appena fuori il tormento gli si fece più acuto, avrebbe voluto sapere a qualunque costo come la era andata a finire, e invece appena il pensiero gli si fermava su quella domanda si sentiva correre per le ossa un brivido gelato. Qualche cosa, che prima non avrebbe mai supposto, gli capovolgeva la coscienza, bizzarri rimorsi della vita condotta sino allora gli battevano sul cervello colla violenza di un'accusa, contro la quale non trovava risposta; perché aveva fatto così? Involontariamente tornò al muraglione spiando giù nelle tenebre, ma non udì altro che il rombo del fiume, continuo e misterioso, perdersi nell'invisibile. La notte buia diventava sempre più fredda senza stelle e senza vento: egli solo era così agitato. Sapeva dove abitava Santone, ma non ebbe il coraggio di passare da quel vicolo per vedere se vi era lume alle sue finestre, e Santina vi fosse tornata. Ella era come lui depravata e perversa. Era riuscita a scappare senza farsi riconoscere? Avrebbe voluto sperarlo, perché non ne sarebbe a quel modo rimasto più che uno scherzo: che importava il fatto, se Santone non se ne accorgeva? Questa strana moralità era la sola, nella quale vedesse chiaro. Poi quella tensione troppo forte per il suo spirito si spezzò lasciandolo in una specie di sonnolenza bruta, con un malessere di sbornia e una ripugnanza istintiva a tornare in casa, dove suo padre solo sul pagliericcio stava senza dubbio rantolando come tutte le altre notti. Accese la pipa e ripassò per tutto il villaggio, quanto era lungo, mettendosi sulla strada di Porciano. Adesso pensava alla Sghemba, quell'altra sgualdrina egualmente nota ai due paesi per la brutalità chiassosa delle proprie avventure, e ancora abbastanza bella malgrado i quarant'anni passati. Cantò Mengo, da lontano: Fior di cicuta. Io remo e la barchetta va spedita Perché, donna, dal cor mi sei caduta. Allora Viù affrettò il passo per incontrarlo, ma quando poté scorgere un'ombra s'accorse che un'altra le veniva dietro. Si avvicinava lentamente, egli riconobbe Santone e saltò la siepe nascondendosi dietro un grosso olmo. Si capiva che andavano a spasso per digerire il troppo vino ingollato, poi Mengo traballando riprese il discorso di prima con quella ostinazione degli ubbriachi, specialmente quando un ricordo affettuoso li mette sui racconti di famiglia. - Perché vedi - si sentiva piagnucolare la sua voce - io le volevo un gran bene; l'avevo sposata senza la camicia contro la volontà di mio padre, che mi avrebbe voluto dare in moglie la Ghita. Va là, vi avrei trovato duecento scudi di dote, che non mi avrebbero giovato gran cosa. Bisogna amarsi piuttosto in famiglia: allora, anche se torni a casa qualche volta ubbriaco, tutto si accomoda. La Ghita ha sposato Giustino, ebbene, Giustino ha fatto un cattivo affare... bisogna che porti sempre il basto e lei sopra. Tu capisci. Ma se vi volete bene in famiglia... la non dura. Qualche cosa ci ha sempre da essere di guasto in casa, o la moglie o la figlia. Santone dié un soprassalto. - Non dico per la tua, ma è così. Io non ho figlie, se le avessi, farebbero come le altre; che colpa ne abbiamo noi? Io me lo sono detto mille volte, i primi giorni, quando mi veniva da piangere anche per strada; e che, la colpa è mia, se Teresa mi è morta di parto? Lo so, doveva accadere così, perché fu così, ma mi pare, guarda, mi pare talvolta ancora di avercene avuto colpa. Non è vero: io non ce ne ho avuta, dillo anche tu. Non avrebbe potuto accadere anche a te? Tu vai a casa, e la moglie resta gravida: ebbene? Dovevo saperlo io che sarebbe morta? - Santone alzò la testa; erano oramai presso l'olmo, ma l'altro non finiva il discorso. - Infine - mormorò Mengo - chi non ne ha colpa non ne ha. Che cosa ci può fare un uomo? Ti capitano alle volte delle cose che non si crederebbero a raccontarle: io ho ammazzato mia moglie, sono io l'assassino! - esclamò Mengo con un singhiozzo. - L'assassino è chi lo sapeva! - mugghiò Santone cupamente stringendo i pugni nell'ombra. Eppure nessun altro assassinio n'è seguìto. Il fatto narrato la mattina da Toto occupò tutti i discorsi del paese senza che alcuno pensasse a denunciarlo alle autorità. Viù, sbigottito, sulle prime tentò di negare, ma siccome Santone era partito per Porciano, dove andava qualche volta a lavorare nelle carbonaie, non stette molto a vantarsene. Quindi la lubricità dello scherzo ne fece presto dimenticare l'orrore, molto più che Santina negando risolutamente non se ne mostrava affatto preoccupata. - Il rovescio di Mirra! - disse un giorno il segretario comunale, appassionato filodrammatico, vedendola passare sgonnellando per la strada. - Mirra, che cosa? - chiese il sindaco, ex maresciallo dei carabinieri, che aveva preso moglie nel paese. E l'altro colse a volo l'occasione di spiegargli lungamente il caso della tragedia alfieriana.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

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