Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il romanzo della bambola

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Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
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La bimba abbassava il capo tutta tremante; e stava bene attenta a ogni minima parola materna, per il terrore che le metteva addosso quella crudele minaccia. Ormai, se le avessero levata la Giulia le avrebbero spezzato il cuore. Quando restavano sole in casa, Camilla e la bambola, ne' giorni che il babbo gironzava in cerca d'un impiego, e la mamma, vestita de' panni migliori, era uscita per la città a fare come poteva la parte della signora, le due solitarie se la godevano. - Vieni, vieni - diceva Camilla prendendo la pupattola. - Ora puoi uscire, poverina! E l'alzava dal suo lettino dentro il cassetto, dove aveva aspettato pazientemente, sicura di non essere dimenticata. - Che bella giornata, eh? - seguitava la bimba - ma noi non usciamo. Te ne importa? No? Neanche a me. Tanto, stiamo insieme. Ora ti lavo il visino, sai, perchè iersera t'ho baciata troppo: ti ci ho lasciato il segno... - E prendeva una punta dell'asciugamano, bagnata nell'acqua, per passarla delicatamente su le guance della pupattola, un po' ombrate dalle troppe carezze; perchè le pupattole son come le bimbe: si sciupano a baciarle troppo. Poi ripigliava: - Adesso ti metto il grembiulino che ho stirato stamane. Non ho altro da metterti di bello. Ma tu sei contenta lo stesso, è vero?... La Giulia avrebbe voluto gettarle al collo quelle piccole braccia che le pendevano stecchite lungo i fianchi; avrebbe voluto dire alla pietosa creatura tutta la gratitudine con cui ricambiava tanto amore. Ma no! sempre no! sempre no! Le braccia le restavano inerti; il suo visetto di porcellana era impassibile; non traspariva il più leggiero palpito del cuore sotto la sua vesticciola di cotone. Per altro, la bimba, indovinando d'essere compresa, non chiedeva di più; e anche la bambola doveva contentarsi del suo destino. Le ore della sera, quando tutto taceva intorno, erano le più gradite alle due amiche. Allora Camilla, finito il suo cómpito quotidiano e recitate le preghiere, era beata di stendersi accanto al corpo rigido ma caro della compagna sua; e lì tutta stretta ad esso, dandogli, sotto le coperte, il proprio calore, per modo da potersi figurare di tenere accosto una sorellina di carne e d'ossa, ella le raccontava le sue pene più intime. - Vedi, Giulia, fin da quando ero piccina piccina, ho sempre patito, io. La fame e il freddo no; ma peggio. Ho patito perchè la mamma e il babbo mi trascurano, e perchè non vanno d'accordo. Se loro stessero in pace io riderei e canterei tutto il giorno. Così non rido mai, non canto mai. Ma quando non avevo te stavo peggio, sai!... La pena mi restava nel cuore, e mi pareva di affogare. Come ti voglio bene! E tu, me ne vuoi? Ora tiro il filo! e tu rispondi - T'amo. - No, non lo tiro perchè se sentono la tua voce, guai! - Non diceva la minaccia che la madre le avea fatta di buttar la pupattola dalla finestra, per paura d'addolorare la povera Giulia. Sentiva però che se la sua bambola le fosse stata veramente strappata, qualcosa di tristo sarebbe accaduto anche a lei. Ormai le era impossibile di tornar a vivere come prima, sola sola, contentandosi di veder di lontano il visetto birichino de' fanciulli del vicinato, e i voli delle rondini e de' piccioni, su su in quel pezzetto di cielo guardato per iscorcio dalla finestra del cortile. Una sera che la signora Amalia erasi mostrata più dura con la figliuola, dopo un litigio grave col marito, sempre disoccupato, Camilla aveva pianto a lungo, appoggiata al tavolino, con la faccia nascosta in un fazzoletto tutto fradicio, senza curarsi della bambola, senza neanche guardarla. Davanti a quelle lacrime, la Giulia si sentiva struggere. Aveva veduto chi sa quante volte piangere la Marietta per i capricci che le passavano per la testa, come d'estate passano i nuvoli sul cielo sereno; e siccome, per sua fortuna, la Marietta non aveva alcuna ragione di piangere, alla Giulia quelle stravaganze d'ogni momento non facevano nè caldo nè freddo. Ma i singhiozzi profondi e disperati di Camilla, che viveva davvero in tante tribolazioni, mettevano uno spasimo nell'animo dell'amica condannata a star muta. Ella avrebbe dato tutta la segatura - non avea sangue la poverina! - del

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Nulla - rispondeva invariabilmente la bimba, e abbassava il capo, mentre su la tinta cerea delle guance le si diffondeva un leggiero rossore. Un giorno che la fanciulla stava peggio, la direttrice mandò a chiamare la signora Amalia e la condusse nel proprio gabinetto. - L'ho fatta incomodare, signora Cerchi - disse ella - per avvertirla che Camilla non istà affatto bene. O non se n'è avveduta, lei? Quella si strinse nelle spalle e fece il viso di chi si stupisce; poi rispose: - Le dico la verità, a me, finora, non m'ha dato nell'occhio. La direttrice, ch'era un'ottima madre di famiglia e adorava i suoi quattro figliuoletti, rimase rattristata da quelle parole, e soggiunse: - Io, vede, se avessi una delle mie creature malata come la sua, non so che cosa farei! La Cerchi si morse le labbra, ma si contenne. - Io faccio quello che posso per Camilla - diss'ella - e non è certo colpa mia se non siamo più i signori d'una volta... Temendo d'averla offesa, la direttrice la interruppe con voce più mite: - Lei, signora, non ha seguito quello ch'io volevo dire. Volevo dire che... Camilla, col suo caratterino serio, meditativo, e con la sua gracile salute va tenuta, mi servo d'un termine volgare, in uno scatolino d'ovatta, e... - Che cosa manca a mia figlia? - chiese bruscamente la Cerchi; poi si rimise, e dichiarò: - Del poco che resta in casa è padrona lei; capirà, è figlia unica... Nessuno la sgrida, nessuno la maltratta... - Dio mi guardi dal pensare che si maltratti una bambina, e per di più, malata - interpose la maestra, - solamente, glie lo dico con tutta franchezza, Camilla è d'una sensibilità straordinaria; basta uno sguardo dolce a farla contenta, basta uno sguardo severo a straziarle il cuore... - E io, che cosa faccio per... - Ci pensi; la osservi; veda di farla guarire, poverina! Dietro queste parole, la direttrice salutò la signora Amalia, che se ne andò con le fiamme in viso, irritata della mortificazione ricevuta, benchè questa fosse in termini tanto cortesi. Quando Camilla tornò dalla scuola, fu accolta dalla madre con strilli e rimproveri. Che cosa andava a raccontare alle maestre per farsi compatire a quel modo? Che smorfie faceva con loro, mentre in casa era tutto il santo giorno a gingillarsi con la bambola? La bambina stava in piedi davanti a lei, dritta come una statua, con le braccia cadenti lungo i fianchi, il viso alto, gli occhi fissi. In un'espressione nuova di dolore, il volto le si era ancora di più affilato; le labbra, sbiancate, le tremavano convulsamente. Non batteva ciglio; non diceva una sillaba. In tanto, la Cerchi, alzatasi dalla sua solita poltrona, passeggiava su e giù per la stanza, indispettita. D'improvviso si fermò. La figura interita, ma presso a cadere, della piccina, l'aveva colpita. Per la prima volta vide quel pallore da giglio, quei lividi in torno alle occhiaie, tutte le membra rifinite. Raddolcì la voce, e chiese: - Che hai, si può sapere? Ti senti proprio male? - Io? no - rispose Camilla con accento risoluto. Poi soggiunse, dopo un poco: - Mamma, posso andare? La signora Amalia accennò di sì col capo, e la bambina s'affrettò a chiudersi in camera sua. Costì la Giulia l'aspettava: ella ch'era diventata la confidente di tutto quanto accadeva in quella povera vita monotona e piena di sofferenze. - Mi vuoi bene, tu? - chiese la fanciulla abbracciandosi la bambola. Stettero così un pezzo con gli occhi fissi una nell'altra, e in quello sguardo muto si dissero più cose del cuore, si raccontarono più dolori che se avessero parlato un'intera giornata. - Ora lascia la scopa; finisco io di spazzare - diceva ogni tanto la signora Amalia a sua figlia, nei giorni che seguirono il colloquio con la direttrice. Ma nel mettersi a ripulire la casa, brontolava e sbuffava, in tal modo, ribattendo sempre che il mestiere della serva non era fatto per lei, che, a Camilla, quelle maniere facevano più male di qualunque fatica. Per evitare tutto ciò, ella avea dunque pensato di sbrigare le faccende nell'ore del primo mattino, mentre la madre era ancora a letto: quelle ore in cui una volta s'occupava della sua pupattola cucendole una cosa o un'altra, tanto per vederla pulitina se non elegante. Adesso la Giulia rimaneva anche spesso co' capelli arruffati, perchè l'amica sua non aveva nè tempo nè forza da pettinarla. Però quando la signora Amalia s'alzava, quasi ogni cosa era lesta, perfino calda la tazza del caffè co' biscotti, alla quale ella non avea mai rinunziato. - Perchè non hai dormito un'ora di più? - domandava la madre, contenta non di meno, nel suo egoismo, di veder tutto in ordine senza averci contribuito lei: non tanto per la fatica materiale quanto per il disgusto dell'abbassamento a cui le pareva trovarsi costretta. - Stavo meglio stamane - rispondeva la bimba, asciugandosi la fronte sudata. Ma era una pietosa bugia, di quelle rare bugie che portano tanti anni di paradiso anzichè di purgatorio: perchè in vece di migliorare, quella debole salute s'andava sempre più consumando. Venne poi il tempo in cui la direttrice della scuola scrisse alla signora Cerchi che, per conto suo, per la quiete della sua coscienza, ella non poteva più permettere a Camilla di stancarsi a studiare, e pregava i genitori di tenere in casa la creatura e lì di curarla. - Anche la malattia! Questa mi ci mancava! - esclamò la signora Amalia con un rumoroso sospiro di disperazione rabbiosa. Ma non procurò nè medico, nè medicine; anzi, nemmanco ci pensò, a causa della scarsezza de' suoi mezzi, unica disgrazia che veramente le facesse impressione e le pesasse. Dapprima leggiera, poi un po' più forte, la febbre coglieva quasi tutte le sere la bambina. Verso il calare del sole erano piccoli brividi a intervalli che le davano una scossa fredda in tutto il corpo. Ella badava a stropicciarsi le manine magre, che poi si passava sul viso e su le braccia, tentando inutilmente di richiamarvi un po' di calore. Allora si doveva mettere a letto, e coprirsi bene, fin che il calore venisse e la facesse addormentare. Al mattino, dopo una notte dal sonno interrotto, sentiva una spossatezza generale; per cui le dava fastidio il muoversi; e per sollevare la testa dal guanciale doveva riflettere che c'era da fare, molto da fare in casa. - Mi sento male, Giulia! - diceva piano alla bambola. E la Giulia avrebbe voluto alzarsi in vece sua e ingegnarsi a far lei tutto. Ma pur troppo, queste belle cose succedono soltanto nelle novelle delle fate, e non nelle storie vere, piene di avvenimenti più malinconici che maravigliosi. Sicchè la pupattola vedeva la sua povera amica abbandonare il calduccio del letto e la sentiva tossire, con que' colpi di tosse secca che, in chi ascolta, entra per gli orecchi e si conficca nel cuore. Più in là i brividi si fecero più acuti. La bambina batteva i denti come uno che è nudo nel gennaio; e si doveva accatastare sul letto tutto quel che trovava capace a coprirla: persino il tappetuccio del tavolino, persino i suoi vestiti da estate. Ma dopo, il caldo era terribile; le faceva buttar via tutto da dosso; e allontanare la Giulia, come se la pupattola avesse avuto del sangue nelle vene. In quel calore eccessivo smaniava, senza riposo. Una notte, finita ch'ebbe la bottiglia che si era messa vicino al letto, s'alzò a piedi nudi, trovando un rifrigerio nel freddo de' mattoni, e andò a bere al mesciacqua, attaccandovisi come un'assetata. - T'amo! T'amo! - si faceva dire ogni poco dalla pupattola, quasi che la dolcezza di quella parola avesse potuto farla star meglio. La bambola ripeteva: T'amo; con tutta l'animuccia sua; ma a che pro? Non basta l'affetto a risanare, a salvare le persone amate. Ormai Camilla rimaneva parte della giornata in letto; s'alzava tardi e si coricava presto; non era più buona a sfaccendare in casa; e accorata guardava sua madre, che passava e ripassava, brontolando un poco ma meno di prima, coperta d'un largo grembiule la bella veste da camera, ch'era uno spoglio della signora de' Rivani. Quando il male s'aggravò e la bambina non potè levarsi quasi più affatto, la sua solitudine le sarebbe parsa insoffribile, se quella bambola, piccola immagine umana, non fosse stata con lei. La Giulia sentiva perfettamente la propria azione benefica, e si compiaceva d'esser lì a fianco della povera inferma. Com'era diversa la malattia di Camilla da quella che aveva avuta Marietta per la sua gola! Si ricordava d'aver patito anche quella volta, ma adesso era tutt'altro tormento; e le faceva l'effetto d'aver perfino un cuore diverso per sentirlo. Spesso, voltandosi e rivoltandosi nella smania dell'insonnia, Camilla sbatteva un braccio su la pupattola: e subito la paura d'averla sciupata, più ancora quella di averle fatto male, gliela faceva attirare a sè, e osservarla e carezzarla. Povera Giulia! I suoi bei capelli biondi s'erano aggrovigliati come serpentelli d'oro; di vestirla non se ne parlava più; non sembrava, certo, più lei. Una sera Camilla non istette alle mosse. Chiese con voce fioca: - Mamma, mi dai una camicina? La signora Amalia aprì un cassetto e prese una camicia della figlia. - No, non per me... - fece questa. - O per chi? - Per la Giulia... Sono lì, accanto alle mie, le sue camicine. La madre prese quel che le si chiedeva, ma ci fece la sua brava osservazione: - Sei malata e pensi sempre ai balocchi! Pensa piuttosto a guarire. Camilla avrebbe voluto dirle che per essa la Giulia non era soltanto un balocco; ma stette zitta; e raccogliendo le poche forze che le restavano, si sollevò a stento sul guanciale e lentamente mise la camicia linda, bene stirata, alla sua compagna di letto. Quando la zia de' Rivani seppe che la bambina era tanto malata, venne subito a trovarla, rimproverando la sorella di non averla avvertita prima. La signora Amalia si scusò assicurandola ch'ella avea ritenuto trattarsi di cosa passeggera. Allora cominciarono le visite regolari del dottore, mandato da casa de' Rivani; e Camilla dovette prendere molte medicine disgustose, che non le fecero alcun bene, perchè ormai il suo male era troppo avanti; anzi le stava a dirittura nel sangue fino dalla nascita. - Quando sarai guarita ti regalerò un giocattolo nuovo - le diceva la zia - basta che tu sia ubbidiente al dottore. Un giocattolo nuovo! Non lo desiderava affatto, lei, affezionata com'era alla Giulia. Soltanto, se guariva, avrebbe domandato qualche pezzo di roba da far dei vestiti alla pupattola, ormai in cattivo arnese. Questa miseria dell'amica sua e l'impossibilità in cui ella si trovava per allora di rimediarvi, era il suo principal dispiacere, quasi un pensiero fisso. Ma non ne disse mai nulla alla zia, contentandosi di baciarle piano piano una mano: la bella mano inguantata e odorosa. - Marietta come sta? - era una delle sue poche domande. La Marietta stava bene; ma non aveva voglia di far niente; disubbidiva a più non posso; e una signorina di Berlino che avevano preso in casa perchè la bambina imparasse il tedesco, se n'era andata su due piedi per le impertinenze ricevute.

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Il romanzo della bambola

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La bimba abbassava il capo tutta tremante; e stava bene attenta a ogni minima parola materna, per il terrore che le metteva addosso quella crudele minaccia. Ormai, se le avessero levata la Giulia le avrebbero spezzato il cuore. Quando restavano sole in casa, Camilla e la bambola, ne' giorni che il babbo gironzava in cerca d'un impiego, e la mamma, vestita de' panni migliori, era uscita per la città a fare come poteva la parte della signora, le due solitarie se la godevano. - Vieni, vieni - diceva Camilla prendendo la pupattola. - Ora puoi uscire, poverina! E l'alzava dal suo lettino dentro il cassetto, dove aveva aspettato pazientemente, sicura di non essere dimenticata. - Che bella giornata, eh? - seguitava la bimba - ma noi non usciamo. Te ne importa? No? Neanche a me. Tanto, stiamo insieme. Ora ti lavo il visino, sai, perchè iersera t'ho baciata troppo: ti ci ho lasciato il segno... - E prendeva una punta dell'asciugamano, bagnata nell'acqua, per passarla delicatamente su le guance della pupattola, un po' ombrate dalle troppe carezze; perchè le pupattole son come le bimbe: si sciupano a baciarle troppo. Poi ripigliava: - Adesso ti metto il grembiulino che ho stirato stamane. Non ho altro da metterti di bello. Ma tu sei contenta lo stesso, è vero?... La Giulia avrebbe voluto gettarle al collo quelle piccole braccia che le pendevano stecchite lungo i fianchi; avrebbe voluto dire alla pietosa creatura tutta la gratitudine con cui ricambiava tanto amore. Ma no! sempre no! sempre no! Le braccia le restavano inerti; il suo visetto di porcellana era impassibile; non traspariva il più leggiero palpito del cuore sotto la sua vesticciola di cotone. Per altro, la bimba, indovinando d'essere compresa, non chiedeva di più; e anche la bambola doveva contentarsi del suo destino. Le ore della sera, quando tutto taceva intorno, erano le più gradite alle due amiche. Allora Camilla, finito il suo cómpito quotidiano e recitate le preghiere, era beata di stendersi accanto al corpo rigido ma caro della compagna sua; e lì tutta stretta ad esso, dandogli, sotto le coperte, il proprio calore, per modo da potersi figurare di tenere accosto una sorellina di carne e d'ossa, ella le raccontava le sue pene più intime. - Vedi, Giulia, fin da quando ero piccina piccina, ho sempre patito, io. La fame e il freddo no; ma peggio. Ho patito perchè la mamma e il babbo mi trascurano, e perchè non vanno d'accordo. Se loro stessero in pace io riderei e canterei tutto il giorno. Così non rido mai, non canto mai. Ma quando non avevo te stavo peggio, sai!... La pena mi restava nel cuore, e mi pareva di affogare. Come ti voglio bene! E tu, me ne vuoi? Ora tiro il filo! e tu rispondi - T'amo. - No, non lo tiro perchè se sentono la tua voce, guai! - Non diceva la minaccia che la madre le avea fatta di buttar la pupattola dalla finestra, per paura d'addolorare la povera Giulia. Sentiva però che se la sua bambola le fosse stata veramente strappata, qualcosa di tristo sarebbe accaduto anche a lei. Ormai le era impossibile di tornar a vivere come prima, sola sola, contentandosi di veder di lontano il visetto birichino de' fanciulli del vicinato, e i voli delle rondini e de' piccioni, su su in quel pezzetto di cielo guardato per iscorcio dalla finestra del cortile. Una sera che la signora Amalia erasi mostrata più dura con la figliuola, dopo un litigio grave col marito, sempre disoccupato, Camilla aveva pianto a lungo, appoggiata al tavolino, con la faccia nascosta in un fazzoletto tutto fradicio, senza curarsi della bambola, senza neanche guardarla. Davanti a quelle lacrime, la Giulia si sentiva struggere. Aveva veduto chi sa quante volte piangere la Marietta per i capricci che le passavano per la testa, come d'estate passano i nuvoli sul cielo sereno; e siccome, per sua fortuna, la Marietta non aveva alcuna ragione di piangere, alla Giulia quelle stravaganze d'ogni momento non facevano nè caldo nè freddo. Ma i singhiozzi profondi e disperati di Camilla, che viveva davvero in tante tribolazioni, mettevano uno spasimo nell'animo dell'amica condannata a star muta. Ella avrebbe dato tutta la segatura - non avea sangue la poverina! - del

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Nulla - rispondeva invariabilmente la bimba, e abbassava il capo, mentre su la tinta cerea delle guance le si diffondeva un leggiero rossore. Un giorno che la fanciulla stava peggio, la direttrice mandò a chiamare la signora Amalia e la condusse nel proprio gabinetto. - L'ho fatta incomodare, signora Cerchi - disse ella - per avvertirla che Camilla non istà affatto bene. O non se n'è avveduta, lei? Quella si strinse nelle spalle e fece il viso di chi si stupisce; poi rispose: - Le dico la verità, a me, finora, non m'ha dato nell'occhio. La direttrice, ch'era un'ottima madre di famiglia e adorava i suoi quattro figliuoletti, rimase rattristata da quelle parole, e soggiunse: - Io, vede, se avessi una delle mie creature malata come la sua, non so che cosa farei! La Cerchi si morse le labbra, ma si contenne. - Io faccio quello che posso per Camilla - diss'ella - e non è certo colpa mia se non siamo più i signori d'una volta... Temendo d'averla offesa, la direttrice la interruppe con voce più mite: - Lei, signora, non ha seguito quello ch'io volevo dire. Volevo dire che... Camilla, col suo caratterino serio, meditativo, e con la sua gracile salute va tenuta, mi servo d'un termine volgare, in uno scatolino d'ovatta, e... - Che cosa manca a mia figlia? - chiese bruscamente la Cerchi; poi si rimise, e dichiarò: - Del poco che resta in casa è padrona lei; capirà, è figlia unica... Nessuno la sgrida, nessuno la maltratta... - Dio mi guardi dal pensare che si maltratti una bambina, e per di più, malata - interpose la maestra, - solamente, glie lo dico con tutta franchezza, Camilla è d'una sensibilità straordinaria; basta uno sguardo dolce a farla contenta, basta uno sguardo severo a straziarle il cuore... - E io, che cosa faccio per... - Ci pensi; la osservi; veda di farla guarire, poverina! Dietro queste parole, la direttrice salutò la signora Amalia, che se ne andò con le fiamme in viso, irritata della mortificazione ricevuta, benchè questa fosse in termini tanto cortesi. Quando Camilla tornò dalla scuola, fu accolta dalla madre con strilli e rimproveri. Che cosa andava a raccontare alle maestre per farsi compatire a quel modo? Che smorfie faceva con loro, mentre in casa era tutto il santo giorno a gingillarsi con la bambola? La bambina stava in piedi davanti a lei, dritta come una statua, con le braccia cadenti lungo i fianchi, il viso alto, gli occhi fissi. In un'espressione nuova di dolore, il volto le si era ancora di più affilato; le labbra, sbiancate, le tremavano convulsamente. Non batteva ciglio; non diceva una sillaba. In tanto, la Cerchi, alzatasi dalla sua solita poltrona, passeggiava su e giù per la stanza, indispettita. D'improvviso si fermò. La figura interita, ma presso a cadere, della piccina, l'aveva colpita. Per la prima volta vide quel pallore da giglio, quei lividi in torno alle occhiaie, tutte le membra rifinite. Raddolcì la voce, e chiese: - Che hai, si può sapere? Ti senti proprio male? - Io? no - rispose Camilla con accento risoluto. Poi soggiunse, dopo un poco: - Mamma, posso andare? La signora Amalia accennò di sì col capo, e la bambina s'affrettò a chiudersi in camera sua. Costì la Giulia l'aspettava: ella ch'era diventata la confidente di tutto quanto accadeva in quella povera vita monotona e piena di sofferenze. - Mi vuoi bene, tu? - chiese la fanciulla abbracciandosi la bambola. Stettero così un pezzo con gli occhi fissi una nell'altra, e in quello sguardo muto si dissero più cose del cuore, si raccontarono più dolori che se avessero parlato un'intera giornata. - Ora lascia la scopa; finisco io di spazzare - diceva ogni tanto la signora Amalia a sua figlia, nei giorni che seguirono il colloquio con la direttrice. Ma nel mettersi a ripulire la casa, brontolava e sbuffava, in tal modo, ribattendo sempre che il mestiere della serva non era fatto per lei, che, a Camilla, quelle maniere facevano più male di qualunque fatica. Per evitare tutto ciò, ella avea dunque pensato di sbrigare le faccende nell'ore del primo mattino, mentre la madre era ancora a letto: quelle ore in cui una volta s'occupava della sua pupattola cucendole una cosa o un'altra, tanto per vederla pulitina se non elegante. Adesso la Giulia rimaneva anche spesso co' capelli arruffati, perchè l'amica sua non aveva nè tempo nè forza da pettinarla. Però quando la signora Amalia s'alzava, quasi ogni cosa era lesta, perfino calda la tazza del caffè co' biscotti, alla quale ella non avea mai rinunziato. - Perchè non hai dormito un'ora di più? - domandava la madre, contenta non di meno, nel suo egoismo, di veder tutto in ordine senza averci contribuito lei: non tanto per la fatica materiale quanto per il disgusto dell'abbassamento a cui le pareva trovarsi costretta. - Stavo meglio stamane - rispondeva la bimba, asciugandosi la fronte sudata. Ma era una pietosa bugia, di quelle rare bugie che portano tanti anni di paradiso anzichè di purgatorio: perchè in vece di migliorare, quella debole salute s'andava sempre più consumando. Venne poi il tempo in cui la direttrice della scuola scrisse alla signora Cerchi che, per conto suo, per la quiete della sua coscienza, ella non poteva più permettere a Camilla di stancarsi a studiare, e pregava i genitori di tenere in casa la creatura e lì di curarla. - Anche la malattia! Questa mi ci mancava! - esclamò la signora Amalia con un rumoroso sospiro di disperazione rabbiosa. Ma non procurò nè medico, nè medicine; anzi, nemmanco ci pensò, a causa della scarsezza de' suoi mezzi, unica disgrazia che veramente le facesse impressione e le pesasse. Dapprima leggiera, poi un po' più forte, la febbre coglieva quasi tutte le sere la bambina. Verso il calare del sole erano piccoli brividi a intervalli che le davano una scossa fredda in tutto il corpo. Ella badava a stropicciarsi le manine magre, che poi si passava sul viso e su le braccia, tentando inutilmente di richiamarvi un po' di calore. Allora si doveva mettere a letto, e coprirsi bene, fin che il calore venisse e la facesse addormentare. Al mattino, dopo una notte dal sonno interrotto, sentiva una spossatezza generale; per cui le dava fastidio il muoversi; e per sollevare la testa dal guanciale doveva riflettere che c'era da fare, molto da fare in casa. - Mi sento male, Giulia! - diceva piano alla bambola. E la Giulia avrebbe voluto alzarsi in vece sua e ingegnarsi a far lei tutto. Ma pur troppo, queste belle cose succedono soltanto nelle novelle delle fate, e non nelle storie vere, piene di avvenimenti più malinconici che maravigliosi. Sicchè la pupattola vedeva la sua povera amica abbandonare il calduccio del letto e la sentiva tossire, con que' colpi di tosse secca che, in chi ascolta, entra per gli orecchi e si conficca nel cuore. Più in là i brividi si fecero più acuti. La bambina batteva i denti come uno che è nudo nel gennaio; e si doveva accatastare sul letto tutto quel che trovava capace a coprirla: persino il tappetuccio del tavolino, persino i suoi vestiti da estate. Ma dopo, il caldo era terribile; le faceva buttar via tutto da dosso; e allontanare la Giulia, come se la pupattola avesse avuto del sangue nelle vene. In quel calore eccessivo smaniava, senza riposo. Una notte, finita ch'ebbe la bottiglia che si era messa vicino al letto, s'alzò a piedi nudi, trovando un rifrigerio nel freddo de' mattoni, e andò a bere al mesciacqua, attaccandovisi come un'assetata. - T'amo! T'amo! - si faceva dire ogni poco dalla pupattola, quasi che la dolcezza di quella parola avesse potuto farla star meglio. La bambola ripeteva: T'amo; con tutta l'animuccia sua; ma a che pro? Non basta l'affetto a risanare, a salvare le persone amate. Ormai Camilla rimaneva parte della giornata in letto; s'alzava tardi e si coricava presto; non era più buona a sfaccendare in casa; e accorata guardava sua madre, che passava e ripassava, brontolando un poco ma meno di prima, coperta d'un largo grembiule la bella veste da camera, ch'era uno spoglio della signora de' Rivani. Quando il male s'aggravò e la bambina non potè levarsi quasi più affatto, la sua solitudine le sarebbe parsa insoffribile, se quella bambola, piccola immagine umana, non fosse stata con lei. La Giulia sentiva perfettamente la propria azione benefica, e si compiaceva d'esser lì a fianco della povera inferma. Com'era diversa la malattia di Camilla da quella che aveva avuta Marietta per la sua gola! Si ricordava d'aver patito anche quella volta, ma adesso era tutt'altro tormento; e le faceva l'effetto d'aver perfino un cuore diverso per sentirlo. Spesso, voltandosi e rivoltandosi nella smania dell'insonnia, Camilla sbatteva un braccio su la pupattola: e subito la paura d'averla sciupata, più ancora quella di averle fatto male, gliela faceva attirare a sè, e osservarla e carezzarla. Povera Giulia! I suoi bei capelli biondi s'erano aggrovigliati come serpentelli d'oro; di vestirla non se ne parlava più; non sembrava, certo, più lei. Una sera Camilla non istette alle mosse. Chiese con voce fioca: - Mamma, mi dai una camicina? La signora Amalia aprì un cassetto e prese una camicia della figlia. - No, non per me... - fece questa. - O per chi? - Per la Giulia... Sono lì, accanto alle mie, le sue camicine. La madre prese quel che le si chiedeva, ma ci fece la sua brava osservazione: - Sei malata e pensi sempre ai balocchi! Pensa piuttosto a guarire. Camilla avrebbe voluto dirle che per essa la Giulia non era soltanto un balocco; ma stette zitta; e raccogliendo le poche forze che le restavano, si sollevò a stento sul guanciale e lentamente mise la camicia linda, bene stirata, alla sua compagna di letto. Quando la zia de' Rivani seppe che la bambina era tanto malata, venne subito a trovarla, rimproverando la sorella di non averla avvertita prima. La signora Amalia si scusò assicurandola ch'ella avea ritenuto trattarsi di cosa passeggera. Allora cominciarono le visite regolari del dottore, mandato da casa de' Rivani; e Camilla dovette prendere molte medicine disgustose, che non le fecero alcun bene, perchè ormai il suo male era troppo avanti; anzi le stava a dirittura nel sangue fino dalla nascita. - Quando sarai guarita ti regalerò un giocattolo nuovo - le diceva la zia - basta che tu sia ubbidiente al dottore. Un giocattolo nuovo! Non lo desiderava affatto, lei, affezionata com'era alla Giulia. Soltanto, se guariva, avrebbe domandato qualche pezzo di roba da far dei vestiti alla pupattola, ormai in cattivo arnese. Questa miseria dell'amica sua e l'impossibilità in cui ella si trovava per allora di rimediarvi, era il suo principal dispiacere, quasi un pensiero fisso. Ma non ne disse mai nulla alla zia, contentandosi di baciarle piano piano una mano: la bella mano inguantata e odorosa. - Marietta come sta? - era una delle sue poche domande. La Marietta stava bene; ma non aveva voglia di far niente; disubbidiva a più non posso; e una signorina di Berlino che avevano preso in casa perchè la bambina imparasse il tedesco, se n'era andata su due piedi per le impertinenze ricevute.

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