Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbassava

Numero di risultati: 11 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Passa l'amore. Novelle

241833
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1908
  • Fratelli Treves editori
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

E s'era spinto oltre, visto che la ragazza, improvvlsamente arrosslta, abbassava il capo; afferratala per la vita, voleva darle un bacio su la nuca. - La mamma! - esclamò Benigna, che non se lo aspettava. - Per carità, santo cristiano! Ma al blando rimprovero, Zitu che aveva perduto la testa, le diede un altro bacio, e questa volta su la bocca. E a quel bacio il cuore della povera Benigna aveva dato una vampata; giacchè il fuoco le si era appiccato sin dal primo istante, quella sera che, rinvenendo, aveva visto Zitu davanti al letto e aveva saputo che era stata portata da lui in collo, fino a casa, come una bambina malata. Donna Sara si era sùbito accorta di qualcosa, ma era stata zitta. - Guardia municipale non è un bel mestiere - ella pensava. - Ma, se il patriarca San Giuseppe vuole così!... Anche lei era abbagliata dalla divisa e dai luccicanti bottoni di rame e dalla daga e dal kepì che Zitu portava con aria spavalda. E stava ad osservare sottecchi, fingendo di non essersi accorta di niente. Tanto più che don Franco, a cui Zitu continuava di tratto in tratto a regalare buoni bicchieri di vino, ora dal Patacca e ora dallo Scatà, si espandeva in grandi elogi di quel bravo figliuolo, fior di galantuomo, che rispettava tutti e si faceva rispettare da tutti! Per ciò Benigna e donna Sara cascarono dalle nuvole la sera che don Franco, tornato a casa tutto accigliato, prima di cavarsi il cappello e di posare la mazza nel solito angolo, esclamò quasi con un grugnito: - Qui non ci deve più venire nessuno! Quel nessuno, si capiva, era Zitu. - Perchè? Che cosa significa? - osò di domandare donna Sara. - Significa che voi siete una stupida e costei una civetta! Significa che io non voglio gente tra' piedi, in casa mia. Non sono padrone, forse? E sbatacchiò all'angolo la mazza, che cadde per terra.

Pagina 315

Cosima

243805
Grazia Deledda 1 occorrenze
  • 1947
  • Arnoldo Mondadori Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Cosima abbassava gli occhi. La speranza ch'egli volesse rispondere alla cugina, sull'argomento scottante, le faceva battere il cuore: ma egli non badava a Lenedda piú che alle pietre del muro sul quale si appoggiava: però si passava la mano bianca, con le unghie che riflettevano l'oro del tramonto, sui capelli divisi da un lato da una sottile scriminatura candida, e se li tormentava come per dimostrare che non erano lucidi per artifizio. «E poi, perché non hai il corpetto? L'hai perduto? La tua camicia sembra la camicetta di una donna.» Cosima taceva, mortificata e offesa per lui, e provò una gioia cattiva quando egli allungò il giornale e lo sbatté piú volte sulla testa della cuginetta insolente: ma non fu tutto: allorché Lenedda, con un piccolo salto felino tentò di tirargli i capelli, egli l'afferrò per un braccio, la fece girare intorno a sé come una trottola, la spinse costringendola a scendere di precipizio nel vialetto in declino. Ella strillava come una ghiandaia, e lui non rideva, tutt'altro, anzi stringeva un po' crudelmente i denti e continuava ad agitare il giornale, come avesse un gran caldo. Cosima stava lí quasi tramortita, e avrebbe voluto non assistere a quella scena. Poiché il suo idolo si scomponeva alquanto; eppure se egli avesse fatto su di lei lo scempio toccato alla cugina, ne sarebbe stata paurosamente felice. Egli però le mostrava, pur con la sua indifferenza, il massimo rispetto; non solo, ma ella aveva l'impressione che la lezione data a Lenedda fosse in suo omaggio, per non essere diminuito agli occhi di lei. Ad ogni modo ella respirò quando egli, dopo averla salutata con un lieve cenno del capo se ne andò senza far piú caso degli strilli della cugina.

Pagina 86

Il marito dell'amica

245192
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

La faccia del piccino, tutta rosea nella cornice ricamata della cuffietta, riposava in attitudine di una pace profonda, colle palpebre serrate che gettavano un'ombra sulle guancie; in fondo al piumino di seta celeste usciva uno de' suoi pieducci, nudo, e fra questi due estremi il piccolo corpo ravvolto nelle coperte si alzava e si abbassava con un movimento regolare, di una placidezza beata e sana. Dall'altra parte, l'uscio spalancato scopriva l'incerto nereggiamento di un corritoio, attraversato da una striscia sottilissima di luce che sfuggiva da una fessura dell'uscio di Emanuele. Maria era come impietrita, con un senso di soffocazione penoso e opprimente che le serrava la gola. Volse gli sguardi, lenti, dalla culla all'uscio, sempre colla mano alzata contro la candela, ascoltando. Sentì le forze che le venivano meno; e quel ghiaccio rigido delle membra fondersi sotto una fiamma invadente, che partita dalle guancie, dopo esser salita ratta alla fronte discendeva, stendendosi per tutto il corpo, frustandola colla reazione di una vergogna improvvisa. Non posso - mormorò, quasi per giustificarsi, con un terrore angoscioso - non posso! E ripeteva, senza saperlo, le parole che Emanuele stesso aveva dette a lei, una volta. Rifece la via percorsa, senza voltarsi indietro, con ondeggiamenti da ubbriaca.

Pagina 176

Il romanzo della bambola

245613
Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

La bimba abbassava il capo tutta tremante; e stava bene attenta a ogni minima parola materna, per il terrore che le metteva addosso quella crudele minaccia. Ormai, se le avessero levata la Giulia le avrebbero spezzato il cuore. Quando restavano sole in casa, Camilla e la bambola, ne' giorni che il babbo gironzava in cerca d'un impiego, e la mamma, vestita de' panni migliori, era uscita per la città a fare come poteva la parte della signora, le due solitarie se la godevano. - Vieni, vieni - diceva Camilla prendendo la pupattola. - Ora puoi uscire, poverina! E l'alzava dal suo lettino dentro il cassetto, dove aveva aspettato pazientemente, sicura di non essere dimenticata. - Che bella giornata, eh? - seguitava la bimba - ma noi non usciamo. Te ne importa? No? Neanche a me. Tanto, stiamo insieme. Ora ti lavo il visino, sai, perchè iersera t'ho baciata troppo: ti ci ho lasciato il segno... - E prendeva una punta dell'asciugamano, bagnata nell'acqua, per passarla delicatamente su le guance della pupattola, un po' ombrate dalle troppe carezze; perchè le pupattole son come le bimbe: si sciupano a baciarle troppo. Poi ripigliava: - Adesso ti metto il grembiulino che ho stirato stamane. Non ho altro da metterti di bello. Ma tu sei contenta lo stesso, è vero?... La Giulia avrebbe voluto gettarle al collo quelle piccole braccia che le pendevano stecchite lungo i fianchi; avrebbe voluto dire alla pietosa creatura tutta la gratitudine con cui ricambiava tanto amore. Ma no! sempre no! sempre no! Le braccia le restavano inerti; il suo visetto di porcellana era impassibile; non traspariva il più leggiero palpito del cuore sotto la sua vesticciola di cotone. Per altro, la bimba, indovinando d'essere compresa, non chiedeva di più; e anche la bambola doveva contentarsi del suo destino. Le ore della sera, quando tutto taceva intorno, erano le più gradite alle due amiche. Allora Camilla, finito il suo cómpito quotidiano e recitate le preghiere, era beata di stendersi accanto al corpo rigido ma caro della compagna sua; e lì tutta stretta ad esso, dandogli, sotto le coperte, il proprio calore, per modo da potersi figurare di tenere accosto una sorellina di carne e d'ossa, ella le raccontava le sue pene più intime. - Vedi, Giulia, fin da quando ero piccina piccina, ho sempre patito, io. La fame e il freddo no; ma peggio. Ho patito perchè la mamma e il babbo mi trascurano, e perchè non vanno d'accordo. Se loro stessero in pace io riderei e canterei tutto il giorno. Così non rido mai, non canto mai. Ma quando non avevo te stavo peggio, sai!... La pena mi restava nel cuore, e mi pareva di affogare. Come ti voglio bene! E tu, me ne vuoi? Ora tiro il filo! e tu rispondi - T'amo. - No, non lo tiro perchè se sentono la tua voce, guai! - Non diceva la minaccia che la madre le avea fatta di buttar la pupattola dalla finestra, per paura d'addolorare la povera Giulia. Sentiva però che se la sua bambola le fosse stata veramente strappata, qualcosa di tristo sarebbe accaduto anche a lei. Ormai le era impossibile di tornar a vivere come prima, sola sola, contentandosi di veder di lontano il visetto birichino de' fanciulli del vicinato, e i voli delle rondini e de' piccioni, su su in quel pezzetto di cielo guardato per iscorcio dalla finestra del cortile. Una sera che la signora Amalia erasi mostrata più dura con la figliuola, dopo un litigio grave col marito, sempre disoccupato, Camilla aveva pianto a lungo, appoggiata al tavolino, con la faccia nascosta in un fazzoletto tutto fradicio, senza curarsi della bambola, senza neanche guardarla. Davanti a quelle lacrime, la Giulia si sentiva struggere. Aveva veduto chi sa quante volte piangere la Marietta per i capricci che le passavano per la testa, come d'estate passano i nuvoli sul cielo sereno; e siccome, per sua fortuna, la Marietta non aveva alcuna ragione di piangere, alla Giulia quelle stravaganze d'ogni momento non facevano nè caldo nè freddo. Ma i singhiozzi profondi e disperati di Camilla, che viveva davvero in tante tribolazioni, mettevano uno spasimo nell'animo dell'amica condannata a star muta. Ella avrebbe dato tutta la segatura - non avea sangue la poverina! - del

Pagina 53

Nulla - rispondeva invariabilmente la bimba, e abbassava il capo, mentre su la tinta cerea delle guance le si diffondeva un leggiero rossore. Un giorno che la fanciulla stava peggio, la direttrice mandò a chiamare la signora Amalia e la condusse nel proprio gabinetto. - L'ho fatta incomodare, signora Cerchi - disse ella - per avvertirla che Camilla non istà affatto bene. O non se n'è avveduta, lei? Quella si strinse nelle spalle e fece il viso di chi si stupisce; poi rispose: - Le dico la verità, a me, finora, non m'ha dato nell'occhio. La direttrice, ch'era un'ottima madre di famiglia e adorava i suoi quattro figliuoletti, rimase rattristata da quelle parole, e soggiunse: - Io, vede, se avessi una delle mie creature malata come la sua, non so che cosa farei! La Cerchi si morse le labbra, ma si contenne. - Io faccio quello che posso per Camilla - diss'ella - e non è certo colpa mia se non siamo più i signori d'una volta... Temendo d'averla offesa, la direttrice la interruppe con voce più mite: - Lei, signora, non ha seguito quello ch'io volevo dire. Volevo dire che... Camilla, col suo caratterino serio, meditativo, e con la sua gracile salute va tenuta, mi servo d'un termine volgare, in uno scatolino d'ovatta, e... - Che cosa manca a mia figlia? - chiese bruscamente la Cerchi; poi si rimise, e dichiarò: - Del poco che resta in casa è padrona lei; capirà, è figlia unica... Nessuno la sgrida, nessuno la maltratta... - Dio mi guardi dal pensare che si maltratti una bambina, e per di più, malata - interpose la maestra, - solamente, glie lo dico con tutta franchezza, Camilla è d'una sensibilità straordinaria; basta uno sguardo dolce a farla contenta, basta uno sguardo severo a straziarle il cuore... - E io, che cosa faccio per... - Ci pensi; la osservi; veda di farla guarire, poverina! Dietro queste parole, la direttrice salutò la signora Amalia, che se ne andò con le fiamme in viso, irritata della mortificazione ricevuta, benchè questa fosse in termini tanto cortesi. Quando Camilla tornò dalla scuola, fu accolta dalla madre con strilli e rimproveri. Che cosa andava a raccontare alle maestre per farsi compatire a quel modo? Che smorfie faceva con loro, mentre in casa era tutto il santo giorno a gingillarsi con la bambola? La bambina stava in piedi davanti a lei, dritta come una statua, con le braccia cadenti lungo i fianchi, il viso alto, gli occhi fissi. In un'espressione nuova di dolore, il volto le si era ancora di più affilato; le labbra, sbiancate, le tremavano convulsamente. Non batteva ciglio; non diceva una sillaba. In tanto, la Cerchi, alzatasi dalla sua solita poltrona, passeggiava su e giù per la stanza, indispettita. D'improvviso si fermò. La figura interita, ma presso a cadere, della piccina, l'aveva colpita. Per la prima volta vide quel pallore da giglio, quei lividi in torno alle occhiaie, tutte le membra rifinite. Raddolcì la voce, e chiese: - Che hai, si può sapere? Ti senti proprio male? - Io? no - rispose Camilla con accento risoluto. Poi soggiunse, dopo un poco: - Mamma, posso andare? La signora Amalia accennò di sì col capo, e la bambina s'affrettò a chiudersi in camera sua. Costì la Giulia l'aspettava: ella ch'era diventata la confidente di tutto quanto accadeva in quella povera vita monotona e piena di sofferenze. - Mi vuoi bene, tu? - chiese la fanciulla abbracciandosi la bambola. Stettero così un pezzo con gli occhi fissi una nell'altra, e in quello sguardo muto si dissero più cose del cuore, si raccontarono più dolori che se avessero parlato un'intera giornata. - Ora lascia la scopa; finisco io di spazzare - diceva ogni tanto la signora Amalia a sua figlia, nei giorni che seguirono il colloquio con la direttrice. Ma nel mettersi a ripulire la casa, brontolava e sbuffava, in tal modo, ribattendo sempre che il mestiere della serva non era fatto per lei, che, a Camilla, quelle maniere facevano più male di qualunque fatica. Per evitare tutto ciò, ella avea dunque pensato di sbrigare le faccende nell'ore del primo mattino, mentre la madre era ancora a letto: quelle ore in cui una volta s'occupava della sua pupattola cucendole una cosa o un'altra, tanto per vederla pulitina se non elegante. Adesso la Giulia rimaneva anche spesso co' capelli arruffati, perchè l'amica sua non aveva nè tempo nè forza da pettinarla. Però quando la signora Amalia s'alzava, quasi ogni cosa era lesta, perfino calda la tazza del caffè co' biscotti, alla quale ella non avea mai rinunziato. - Perchè non hai dormito un'ora di più? - domandava la madre, contenta non di meno, nel suo egoismo, di veder tutto in ordine senza averci contribuito lei: non tanto per la fatica materiale quanto per il disgusto dell'abbassamento a cui le pareva trovarsi costretta. - Stavo meglio stamane - rispondeva la bimba, asciugandosi la fronte sudata. Ma era una pietosa bugia, di quelle rare bugie che portano tanti anni di paradiso anzichè di purgatorio: perchè in vece di migliorare, quella debole salute s'andava sempre più consumando. Venne poi il tempo in cui la direttrice della scuola scrisse alla signora Cerchi che, per conto suo, per la quiete della sua coscienza, ella non poteva più permettere a Camilla di stancarsi a studiare, e pregava i genitori di tenere in casa la creatura e lì di curarla. - Anche la malattia! Questa mi ci mancava! - esclamò la signora Amalia con un rumoroso sospiro di disperazione rabbiosa. Ma non procurò nè medico, nè medicine; anzi, nemmanco ci pensò, a causa della scarsezza de' suoi mezzi, unica disgrazia che veramente le facesse impressione e le pesasse. Dapprima leggiera, poi un po' più forte, la febbre coglieva quasi tutte le sere la bambina. Verso il calare del sole erano piccoli brividi a intervalli che le davano una scossa fredda in tutto il corpo. Ella badava a stropicciarsi le manine magre, che poi si passava sul viso e su le braccia, tentando inutilmente di richiamarvi un po' di calore. Allora si doveva mettere a letto, e coprirsi bene, fin che il calore venisse e la facesse addormentare. Al mattino, dopo una notte dal sonno interrotto, sentiva una spossatezza generale; per cui le dava fastidio il muoversi; e per sollevare la testa dal guanciale doveva riflettere che c'era da fare, molto da fare in casa. - Mi sento male, Giulia! - diceva piano alla bambola. E la Giulia avrebbe voluto alzarsi in vece sua e ingegnarsi a far lei tutto. Ma pur troppo, queste belle cose succedono soltanto nelle novelle delle fate, e non nelle storie vere, piene di avvenimenti più malinconici che maravigliosi. Sicchè la pupattola vedeva la sua povera amica abbandonare il calduccio del letto e la sentiva tossire, con que' colpi di tosse secca che, in chi ascolta, entra per gli orecchi e si conficca nel cuore. Più in là i brividi si fecero più acuti. La bambina batteva i denti come uno che è nudo nel gennaio; e si doveva accatastare sul letto tutto quel che trovava capace a coprirla: persino il tappetuccio del tavolino, persino i suoi vestiti da estate. Ma dopo, il caldo era terribile; le faceva buttar via tutto da dosso; e allontanare la Giulia, come se la pupattola avesse avuto del sangue nelle vene. In quel calore eccessivo smaniava, senza riposo. Una notte, finita ch'ebbe la bottiglia che si era messa vicino al letto, s'alzò a piedi nudi, trovando un rifrigerio nel freddo de' mattoni, e andò a bere al mesciacqua, attaccandovisi come un'assetata. - T'amo! T'amo! - si faceva dire ogni poco dalla pupattola, quasi che la dolcezza di quella parola avesse potuto farla star meglio. La bambola ripeteva: T'amo; con tutta l'animuccia sua; ma a che pro? Non basta l'affetto a risanare, a salvare le persone amate. Ormai Camilla rimaneva parte della giornata in letto; s'alzava tardi e si coricava presto; non era più buona a sfaccendare in casa; e accorata guardava sua madre, che passava e ripassava, brontolando un poco ma meno di prima, coperta d'un largo grembiule la bella veste da camera, ch'era uno spoglio della signora de' Rivani. Quando il male s'aggravò e la bambina non potè levarsi quasi più affatto, la sua solitudine le sarebbe parsa insoffribile, se quella bambola, piccola immagine umana, non fosse stata con lei. La Giulia sentiva perfettamente la propria azione benefica, e si compiaceva d'esser lì a fianco della povera inferma. Com'era diversa la malattia di Camilla da quella che aveva avuta Marietta per la sua gola! Si ricordava d'aver patito anche quella volta, ma adesso era tutt'altro tormento; e le faceva l'effetto d'aver perfino un cuore diverso per sentirlo. Spesso, voltandosi e rivoltandosi nella smania dell'insonnia, Camilla sbatteva un braccio su la pupattola: e subito la paura d'averla sciupata, più ancora quella di averle fatto male, gliela faceva attirare a sè, e osservarla e carezzarla. Povera Giulia! I suoi bei capelli biondi s'erano aggrovigliati come serpentelli d'oro; di vestirla non se ne parlava più; non sembrava, certo, più lei. Una sera Camilla non istette alle mosse. Chiese con voce fioca: - Mamma, mi dai una camicina? La signora Amalia aprì un cassetto e prese una camicia della figlia. - No, non per me... - fece questa. - O per chi? - Per la Giulia... Sono lì, accanto alle mie, le sue camicine. La madre prese quel che le si chiedeva, ma ci fece la sua brava osservazione: - Sei malata e pensi sempre ai balocchi! Pensa piuttosto a guarire. Camilla avrebbe voluto dirle che per essa la Giulia non era soltanto un balocco; ma stette zitta; e raccogliendo le poche forze che le restavano, si sollevò a stento sul guanciale e lentamente mise la camicia linda, bene stirata, alla sua compagna di letto. Quando la zia de' Rivani seppe che la bambina era tanto malata, venne subito a trovarla, rimproverando la sorella di non averla avvertita prima. La signora Amalia si scusò assicurandola ch'ella avea ritenuto trattarsi di cosa passeggera. Allora cominciarono le visite regolari del dottore, mandato da casa de' Rivani; e Camilla dovette prendere molte medicine disgustose, che non le fecero alcun bene, perchè ormai il suo male era troppo avanti; anzi le stava a dirittura nel sangue fino dalla nascita. - Quando sarai guarita ti regalerò un giocattolo nuovo - le diceva la zia - basta che tu sia ubbidiente al dottore. Un giocattolo nuovo! Non lo desiderava affatto, lei, affezionata com'era alla Giulia. Soltanto, se guariva, avrebbe domandato qualche pezzo di roba da far dei vestiti alla pupattola, ormai in cattivo arnese. Questa miseria dell'amica sua e l'impossibilità in cui ella si trovava per allora di rimediarvi, era il suo principal dispiacere, quasi un pensiero fisso. Ma non ne disse mai nulla alla zia, contentandosi di baciarle piano piano una mano: la bella mano inguantata e odorosa. - Marietta come sta? - era una delle sue poche domande. La Marietta stava bene; ma non aveva voglia di far niente; disubbidiva a più non posso; e una signorina di Berlino che avevano preso in casa perchè la bambina imparasse il tedesco, se n'era andata su due piedi per le impertinenze ricevute.

Pagina 59

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246998
Matilde Serao 2 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Passavano delle coriste, delle comparse, dei facchini di scena, sogguardandola con quella familiarità del lavoro comune, del destino comune, con quella impertinenza che dànno il palcoscenico e le quinte: ella abbassava gli occhi e si fermava dal masticare, vergognandosi. Divorò a grossi bocconi la mela, non sapendo ove gittarne il cuore, senza che niuno la vedesse: circolava sempre gente. Risalì verso il fondo oscuro del palcoscenico, gittò anche il giornale, in un cantoncello. Ridiscese: aveva sete. Giusto, Maria Arneri, una piemontese di seconda fila, aveva chiesto al caffettiere del teatro un Vermouth con acqua di Seltz: il garzone se ne andava via, quando Carmela Minino gli chiese, per piacere, un bicchier d'acqua: egli si fermò e gliela versò. Gli diede un soldo: il garzone glielo restituì, galante, dichiarando: - Non si paga l'acqua. Quanto era lunga, l'ora! Almeno, per l'ora e mezzo che dura l'Excelsior, quel vestirsi e svestirsi, quel correre sul palcoscenico, quei Waltzer, quei galoppi, quel ritornare al camerone, la fretta continua, l'affanno invincibile sebbene monotono, occupavano il tempo: ma l'attesa, fra uno spettacolo e l'altro, ma l'attesa, durante lo spettacolo musicale, in quegli androni di legno, polverosi, la cui polvere non è mai vinta dall'acqua che vi si getta, sempre, la cui polvere attacca e dissecca la gola e le fauci, quegli stanzoni così caldi, pieni di pulci, esalanti ogni specie di profumo e ogni specie di nauseante puzzo, l'attesa inutile, quel perdere il tempo così, gittavano Carmela Minino in un crescente ebetimento. Talvolta, aspettando, seduta in un cantuccio del teatro, ella aveva portato seco un lavoro all'uncinetto, delle stelline di cotone bianco che dovevano unite, in numero strabocchevole, formare una grande coperta, per letto a due posti. - Non aveva ella, qualche volta, vanamente sognato di maritarsi, con qualche umile, oscuro lavoratore? - e le sue dita si erano mosse alacremente, intorno a quella fatica di ragazze del popolo: ma ella aveva avuto le beffe delle amiche e delle compagne: - Perchè non porti addirittura la calzetta, a teatro? - le gridavano, sogghignando sulla sua miseria onesta, sulle sue occupazioni di popolana. Aveva smesso. Altre volte, quando il suo spirito era più tranquillo, in quelle ore di aspettativa che la direzione del teatro le infliggeva, quando la sua schietta anima non aveva turbamenti strani, ella mentalmente, tenendosi la mano nella tasca del suo vestito dove portava sempre il rosario, ne recitava le Ave Maria, i Pater noster e i Gloria Patri: anzi, ella recitava il rosario doppio, quello di quindici diecine, per cui si libera un'anima dal Purgatorio, pronunziando con molto fervore, sempre fra se, i misteri gloriosi e i misteri dolorosi a ogni diecina. Ah, ora, no! Ella era profondamente distratta, da qualche tempo, e non ritrovava più la bella calma, la bella attenzione degli anni trascorsi: la preghiera le usciva monca, fredda dallo spirito, come un vacuo esercizio. Una profonda amarezza era in lei. Aveva già ventiquattro anni; fra scuola di ballo e ballo in teatro, stava già sulle scene da dodici anni, senza che mai nulla di bello, di dolce, di soddisfacente fosse venuto a consolare, prima, la sua adolescenza, poi, la sua giovinezza. Anzi, in quel periodo, due dolori l'avevano colpita: la morte di sua madre e la morte di Amina Boschetti. Certo, per una singolarità incomprensibile, ella aveva sofferto assai più per la morte della sua protettrice, della sua fata, che per quella della madre; ma, infine, aveva perduto tutto quello che amava. Ventiquattro anni, di già, fra tre o quattro mesi: niente che accennasse a un miglioramento, a un sorriso della vita, a un riposo dell'anima e del corpo. Come, come si sentiva stanca, in alcuni momenti, che bisogno fisico di dormire molto, di mangiare un po' meglio, quietamente, senza strozzarsi, di vestirsi come una persona per bene, di aver caldo sotto una buona giacchetta, sotto una buona mantellina, che bisogno di vivere, di vivere umanamente, come una giovane donna che fa una professione d'arte e non come una serva dal grossolano lavoro! Queste idee di tentazione, questi desideri corruttori costantemente ella li respingeva: costantemente essi ritornavano ad assalirla, ricondotti dall'età che era quella dei godimenti materiali, ricondotti dalle lunghe e ostinate privazioni, ricondotti, ogni giorno, ogni sera, dai contatti col teatro, con le altre ballerine, specie con quelle belle, graziose, fortunate delle prime file, che avevano dei banchieri, dei conti, dei marchesi che si rovinavano per loro. Come dire devotamente il rosario, in quell'ambiente di vizio oramai ingenito, costituzionale, su quel palcoscenico che era, ingenuamente e turpemente, un mercato di bellezza e di gioventù' Una volta, quando ell'aveva diciotto, venti anni, con quel grande timor di Dio che le veniva dal suo cuore popolano, dalle chiese intorno alla Pignasecca che l'avevano assidua frequentatrice, dal suo confessore, don Giovanni Parascandolo, il rettore della chiesa dello Spirito Santo, un piissimo e rigoroso sacerdote, dall'ambiente del Vicolo Paradiso in cui ella abitava da piccina, Carmela Minino poteva dire le orazioni del rosario, anche fra una recita e l'altra della Norma e del Faust, fra, una riproduzione e l'altra del ballo la Devadacy. Una volta! Adesso, quando macchinalmente, in quei giorni di gaudio carnevalesco, ella portava la mano in tasca per toccare i grani del suo rosario, quando le sue labbra, aduggiate principiavano le consuete preghiere, non giungeva più ad immergersi in questa tenera e familiare occupazione dello spirito: subito, la sua fantasia si distraeva in pensieri completamente profani e le sue labbra sibilanti le parole sacre in una quasi mentale ripetizione, si ammutolivano. Ella pensava a cose assai profane: alle lettere amorose di Roberto Gargiulo a cui non rispondeva, ma che leggeva con una, certa compiacenza, come tutte le donne che sono sempre lusingate di ricevere un bi- glietto d'amore, anche da persone che non amano e che non vorrebbero mai amare: alle sottane di seta di Carlotta Musto e di Marietta Sanges sospese al chiodo del camerone e messe in mostra con ostentazione: al suo busto di traliccio bianco, comperato da Carsana a due lire e settantacinque e che tutto consunto, spezzato nelle balene dei fianchi, le faceva una vita enorme, non potendolo troppo stringere, perchè le balene spezzate le sarebbero entrate nella carne: a quel pranzo di Concetta Giura con il Duca di Sanframondi, di Emilia Tromba con Ferdinando Terzi di Torregrande, a quel pranzo di Sorrento dove, certo, i due gentiluomini avevano trattato le due ballerine con la loro signorilità e la loro generosità abituale, riempiendole di buoni cibi, di Vini forestieri, di dolci, innanzi a una candida mensa, coperta di fiori, innanzi al mare sorrentino che Carmela Minino conosceva bene, essendovi andata un giorno, con un'altra ballerina, scritturata come lei allo Stabia Hall di Castellammare, in un giorno di estate, ma vi erano andate sole e avevano rosicchiato alcune gallette di Castellammare, che costano tre un soldo; ed anche ad Amina Boschetti, ella pensava, che era vissuta fra i più grandi splendori del lusso, che era stata imbalsamata come una regina e che aveva portato nella tomba di Poggioreale, intorno al suo bianco collo, un collare di grosse perle, a sette file, un dono di Otto Schulte, il tedesco innamorato, un dono di cinquantamila lire. Già, nelle quinte, si udiva il clangore delle trombe con cui gli araldi di Enrico, re di Germania, chiamano, dai quattro punti cardinali, i cavalieri che vogliono scendere in campo, per l'onore di Elsa di Brabante, accusata di maleficio dal traditore Telramondo. Carmela Minino si levò, con un sospiro, dal cantuccio dell'androne, ove si era seduta e si avvicinò alle quinte. Erano le nove di sera: la seconda edizione dell'Excelsior non sarebbe incominciata che alle undici. Ella portava il suo vestitino di panno azzurro cupo, il migliore che possedeva, il primo che si era fatto, smesso il lutto di sua madre; al collo aveva una sciarpa di merletto crema con un grosso fiocco, su cui aveva fermato lo spillo d'oro, uno spillo formante due cuori legati da una catenella, un dono antico della Boschetti, gittatole in grembo, un giorno, molti anni prima, quando la divina danzatrice la incontrava nella sua anticamera e innanzi ai grandi occhi sgranati nell'ammirazione istupidita della bimba, la leggiadrissima donna sorrideva: dono conservato con cure specialissime, strofinato sempre con un vecchio guanto, per far uscire il lucido dell'oro e che all'immaginazione della povera corifea simboleggiava il legame per la vita e oltre la tomba, fra la Boschetti e lei. Le guancie di Carmela Minino erano cariche di rossetto, quella sera; ella ne metteva sempre molto, perchè era molto bruna, molto pallida, di carnagione opaca; anzi se ne era fatto prestare un poco da Margherita De Santis, la malatina che ne portava sempre molto, anche lei pallidissima, non per temperamento, ma per l'anemia che le divorava la vita. Appoggiata a una quinta, essendosi gittata sulle spalle il suo scialletto di lana bianca, lo scialletto caratteristico di tutte le ballerine napoletane, che esse lasciano sempre in teatro, in cui esse si avvolgono, nelle quinte, fra una danza e l'altra, sempre sudate, sempre scalmanate, per garentirsi dalle orribili correnti d'aria di quel palcoscenico. E, quasi senza udirle, le arrivavano all'orecchio le note wagneriane eccelse, con cui si annunzia il miracolo, l'arrivo inaspettato e stupefacente del Cigno, del Cigno che porta il cavaliere del San Graal, chiuso in un'armatura di argento luccicante. Era così assorta, quando uno scoppio di risata la colse alle spalle: risate femminili forti e sguaiate. Dalla porticina che mena, dopo il gran corridoio di pietra, prima a larghi scaglioni, poi con un piano ascensivo, dalla porta di entrata, sino sul palcoscenico, erano giunte in teatro le due mancatrici della rappresentazione diurna, le due gitanti di Sorrento, Concetta Giura ed Emilia Tromba. Arrivavano, un po' ansanti, accaldate, con le guancie rosse assai, con un balenìo negli occhi: e rispondevano, schiattando dalle risa, al direttore del palcoscenico, che erano state malate, tutto il giorno, col medico accanto al letto, poichè avevano uno spaventoso male... e ridevano, ridevano, come matte stringendo dei fiori freschi sul petto. - Sì, sì, lo so io il vostro male, care ragazze, - gridò il direttore - Ora vi applico io il rimedio! Un bel cataplasma vi voglio applicare, una multa di cinque lire, eh, per ciascuna! - Ma noi avevamo il male di ndì ndo! - finse di piagnucolare Concetta Giura. - Cinque lire di multa, belle figliuole, cinque lire! - gridò ancora lui, che si seccava di essere burlato da loro. - Io le do in elemosina, cinque lire - disse Emilia Tromba, annusando i suoi fiori. Il direttore crollò le spalle allontanandosi, per non dire delle ingiurie più forti alle due insolenti. Concetta ed Emilia scoppiarono di nuovo a ridere, con quel clamore bestiale del riso muliebre sforzato e laido. Concetta Giura era veramente una bella creatura, bianchissima, coi capelli color rame, alta e snella, ma pure rotonda in tutte le sue linee, con un paio di occhi grigio-acciaio, assai vivi, scintillanti; di giorno, certo, le macchie di lentiggini onde era cosparso il volto si vedevano molto; le sue mani e i suoi piedi non erano fini, malgrado che vi adoperasse cure quotidiane, ma che importa, ella era bella, giovane, freschissima! Vestiva, quasi sempre di nero, molto riccamente, coperta di merletti e di jais, in estate, portando il velluto e il raso, d'inverno, volendo assolutamente avere un aspetto distinto, volendo imitare le grandi dame che incontrava nelle vie, di cui vedeva i profili nei palchi di San Carlo e specialmente la duchessa di Sanframondi, la moglie del suo amante, un angelo di virtù; quando taceva, talvolta, con la rossa bocca composta e chiusa sul volto bianco, con le palpebre socchiuse nell'atto della indifferenza, arrivava, quasi quasi, per un momento, ad aver l'aria per bene. Ma se apriva la bocca, la sua voce gutturale, canagliesca, le sue inflessioni e le sue parole in dialetto napoletano, non nel dialetto pretenzioso borghese mescolato di storpiate frasi italiane, ma il dialetto del trivio, le espressioni volgari e spesso francamente oscene, facevano fuggire ogni illusione. Eppure Sanframondi, dicevano, se ne era innamorato e l'amava, appunto perchè ella parlava così e diceva quelle cosaccie. Quandò il suo angelo di moglie lo aveva troppo seccato con la sua virtù , con la sua castità, con la sua rassegnazione serena di vittima cristiana, egli andava a trovare Concetta e la pregava di dirgli quattro buffonate, come sapeva dir lei, nel gergo più corrotto di Basso Porto. Ella fingeva di offendersi; protestava; pretendeva di esser chiamata Tina, diminutivo elegante di Concettina, e non Concetta; ma conoscendo che il solo segreto di seduzione, oltre la sua persona, sul duca di Sanframoudi, era la sua canaglieria, si lasciava andare. Sanframondi si sganasciava dalle risa, l'abbracciava, la sbaciucchiava, felicissimo, obbliando la duchessa, il duchino e la duchessina, le perdite al giuoco e i debiti di cui si copriva. Giusto quella sera, Concetta Giura, aveva un lussuoso vestito di raso nero e un grande spillo al collo, un fermaglio a foggia di ferro di cavallo, tempestato di brillanti e zaffiri che, quella mattina, Sanframondi le aveva appuntato al collo, aiutandola a vestirsi. Emilia Tromba era un altro tipo, molto bianca, con capelli nerissimi e folti, con certi stupendi occhi neri tagliati a mandorla, con una bocca espressiva nel sorriso e con un gran naso adunco che le guastava il viso, ma di cui ella si teneva molto, dicendo che era un naso nobile; sua madre, la fruttivendola del Cavone, doveva aver peccato con un gran signore. Grassotta, non alta, aveva delle spalle e delle braccia magnifiche, non portava mai busto e lasciava a posta, che nella danza, talvolta, si scomponessero, i suoi capelli stupendi. Portava, quel giorno, un elegantissimo vestito di velluto grigio, guarnito di rara e ricca pelliccia chinchilla; vi aveva messo su un mantello identico, tutto foderato di pelliccia e aveva un gran cappello nero piumato ed era coperta di braccialetti, di anelli, di spilli, di spilloni, di fibbie, un mondo di gioielli. Però, tutta questa roba le stava male addosso, come tutti i vestiti che ella portava, alla carlona, trascurata, coi merletti delle balayeuses lacerati; il suo bel vestito era macchiato di champagne, innanzi ed ella aveva schiacciato un dolce, un cioccolattino, sotto il suo gomito. Col cappello storto, odorando i fiori, la rozza, tumultuosa, screanzata amante del corretto, fine e taciturno Ferdinando Terzi, interpellò la povera Carmela Minino, che si stringeva addosso il suo scialletto di lana bianca, già lavato tre volte e che era gialliccio, oramai: - A che ne stiamo, Minino? - Finisce il primo atto dell'opera, donna Emilia - mormorò l'altra, a occhi bassi. - Siamo venute troppo presto, Concettì! - esclamò Emilia - potevamo restare fuori, ancora. - Hai ragione! Che peccato! Ce ne andiamo? - Ma che! Con chi? Dove? Ferdinando e Luigi sono andati via! Non torneranno che a prenderci. Tu sei venuta, oggi, Minino? - chiese Emilia Tromba. - Sissignore. - E perchè? Non potevi far festa? Far festa con qualcuno che ti volesse bene? - Io non posso far festa: cinque lire di multa mi rovinerebbero - rispose Carmela, che era diventata mortalmente pallida, sotto il suo rossetto. - E chi ti vuol bene, non le potrebbe pagare - soggiunse Emilia, che amava perder tempo, in quella conversazione fra le quinte. - Chi mi vuol bene, donna Emilia? Chi volete che mi voglia bene? - e un accento di dolore scoppiò nelle sue parole. - Eh, qualcuno lo avrai! Proprio nessuno? E tutta la poca vanità femminile che era in Carmela Minino, ebbe come una frustata. - Qualcuno... forse... - sussurrò. - Vi sarebbe, qualcuno... - E deciditi, va, figliuola mia! - esclamò maternamente la corruttrice. - Buttala via questa zitellanza! Che ti serve? Che ne fai? Per Gesù Cristo? A tempo e ora, ti penti dei peccati e muori in santità, come farò io. Per il mondo? Il mondo si ride di te, perchè sei zitella. Se non ti decidi adesso, quando aspetti? Bella non sei, già, è inutile dir bugie, tu lo sai; se non profitti di un poco di gioventù, nessuno ti vorrà più; quando è passato questo tempo... Invano rattenute, delle grosse lacrime cominciarono a scorrere sulle guancie di Carmela Minino, i singulti le soffocavano la gola. - E perchè piangi, adesso? Che ti è successo? - strillò Emilia Tromba. - Niente... niente - arrivò a balbettare Carmela, fra i singhiozzi. Tieni, tieni, per consolarti un poco. Me li ha dati, oggi, a, Sorrento, Ferdinando Terzi, il mio innamorato. Emilia Tromba aprì un sacchetto di dolci, mezzo vuoto, ne fece cadere sulla mano dei cioccolattini, ne diede un pugno a Carmela, dicendole - Mangia, mangia, e non pensare a guai. Allontanandosi, verso il camerone, a capo basso, Carmela Minino teneva preziosamente distesi sulla, mano aperta, i cioccolattini che Ferdinando Terzi aveva donati alla sua amante Emilia Tromba, quel giorno, a Sorrento e che Emilia aveva dati a Carmela per pietà delle sue misteriose lacrime. Carmela non mangiò quei dolci. Trovò un pezzetto di carta e ve li ravvolse cautamente, per non romperli, per conservarli intatti. Ancora qualche lacrima le guastava il belletto.

Pagina 130

Carmela Minino taceva: e oppressa dai suoi pensieri di miseria e di abbandono, oppressa dall'ambiente, abbassava la faccia dietro la grama veletta nera del suo cappello. - Poggioreale! Poggioreale - gridarono dalla minuscola stazione del cimitero i due ferrovieri. E quasi immediatamente, con un gran rumore di sportelli battuti, il piccolo treno si vuotò tutto, mentre pel viale saliente al largo ingresso inferiore del cimitero, un flutto di gente si avviava, portando i suoi pacchetti di cerei, le sue corone di canutiglie, di semprevivi, di fiori freschi. Attorno all'ampio cancello una quantità di omnibus, di calessi, di char-à-bancs, di biroccini, stazionava, coi cavalli senza cavezza, la testa immersa in un sacco di crusca, coi cocchieri che fumavano la pipa, seduti di traverso sulle loro serpi, alcuni aggruppati, altri in cerca di qualche osteria dei dintorni, dove mangiare un boccone, aspettando i passeggieri che dovevano ritornare dal loro lugubre pellegrinaggio. Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d'immenso e florido giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fiori vivaci che circondano le tombe e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gli ombrosi viali dai campi pieni di lapidi e i boschetti di alberi dove da mattina a sera cinguettano gli uccellini, gli alberi alti che ombreggiamo le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli edifici, ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri, sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l'anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti aperte da cui escivan chiarore di cerei, canti liturgici e odore d'incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. L'ampio viale onde Carmela Minino, insieme con gli altri, saliva alle alture del cimitero ove sono le chiese più belle e i monumenti funerari più ricchi e più artistici, era murato e sulle mura vi eran delle lapidi cementate, le più antiche, con date di trenta o quarant'anni: la ballerina ne lesse due o tre ed ebbe un moto d'indifferenza. Che mai eran quelle donne, quei bimbi, quegli uomini che essa non avea mai conosciuti? Nulla a lei e, forse, nulla a nessuno di costoro che salivan con lei: quaranta, cinquant'anni sono troppi, perchè mi morto possa esser più niente a nessuno. Qua e là, ora che cominciavano i prati fioriti di rose, di cinerarie, di tutti que' fiori bigi, lilla, violetti che par che Iddio faccia nascere nell'autunno per esser di accordo con la stagione e con le tombe dei morti, gruppetti di due o tre persone si agitavano intorno alle pietre mortuarie, infisse semplicemente nella terra e, ripulitele, amorosamente, vi depositavano le corone novelle e infiggevamo, nella terra i cerei che ardevano nel giorno, con certe linguelle di fiamma esili e pallide, e qualcuno s'inginocchiava, pregando, senza, curarsi di chi passava; e un singhiozzo, ogni tanto, rompeva l'aria, sulle tombe più recenti, singhiozzi scoppianti da donne vestite di nero, austeramente velate, mentre da tutte le cappelle, da tutte le chiese grandi e piccole, da ogni maestoso monumento escivano i canti del De profundis e della Libera e scintillavano, nel fondo di pietra, le candele accese e si dilatava l'odore dell'incenso, nell'aria. Carmela Minino, disfatta, sentendo sul suo corpo e sulla sua anima tutto un insopportabile peso di dolore, quasi non poteva avanzare più passo: un desiderio folle la travolgeva, di gittar via, quella corona, di buttarsi sulle erba, sui fiori, faccia a terra, e di sciogliersi in lacrime, fino a che la morte l'avesse sorpresa, colà! Ma, a un tratto, il monumento elevato ad Amina Boschetti le apparve innanzi, quasi magicamente. Sorgeva in un quadrivio pieno di alberi, alti e folti, pieno di odorati cespugli di fiori: aveva dirimpetto la cappella magnatizia dei principi di Sansevero: da un lato la chiesa votiva per la morte della giovanissima duchessa di Noja; ma il tempio eretto alla memoria della ballerina era più ampio, più ricco, più bello delle due chiese patrizie. Aveva un'architettura schiettamente egiziana, imitante una delle antiche tombe faraoniche, tutto in granito oscurissimo e in lucido basalto grigio: le due porte, di un massiccio e puro artistico bronzo cesellato, erano schiuse: intorno intorno a quelle possenti, gravi e larghe masse di granito, girava un giardino fiorito, chiuso a sua volta da un cancello di bronzo. Guardandolo di lontano, il tempio egizio costruito per chiudere la leggiera salma della danzatrice, pareva tozzo, goffo, come sempre appariscono queste architetture, anche laggiù, fra il Nilo e il deserto. Ma come vi si avvicinava, le linee si sviluppavano, si ingrandivano, diventavamo imponenti, maestose. E bastò questo solo suo aspetto grandioso e calmo, per dare un sussulto di coraggio a Carmela Minino; bastarono le due semplici parole, in bronzo dorato, scritte sul sommo della porta: AMINA BOSCHETTI, perchè mia novella forza la ringagliardisse. Man mano che ella si accostava a quella magnifica forma di tempio, dove la fortuna, la ricchezza e la potenza della sua madrina, ricevevano la consacrazione del trionfo anche dopo la morte, una esaltazione facea balzare l'anima di Carmela, asciugandone, disseccandone tutte le lacrime, gonfiandole di tenerezza, ma di tenerezza superba, il suo piccolo cuore. Fu senza dolore, con un senso singolarissimo e inesplicato a lei, che ella entrò nel tempio egizio, segnandosi piamente. Il tempio era riccamente adorno per la commemorazione di Amina Boschetti: dal soffitto pendevano quattro massiccie lampade d'argento, sospese a grosse catene di argento, dove bruciava l'olio votivo: quattro alti e adorni candelieri di argento sopportanti i grossi cerei accesi erano collocati innanzi al breve altare funebre, disposto sotto la lapide che murava la salma. Tutto il tempio, intorno, spariva, sotto le corone fresche di fiori rarissimi: ve ne erano, di fiori, sparsi per terra, sul basalto: e la lapide ne era coperta. Un prete, assistito da due altri, in ricchi paramenti dai colori mortuari celebrava la decima o la duodecima messa funebre, colà, e come egli era venuto dopo gli altri, altri sarebbero venuti dopo lui, sino alle tre pomeridiane: e due chierici spandevano incenso dagli incensieri di argento. Due camerieri in livrea, appartenenti alla casa del banchiere Schulte, colui che aveva, per dieci anni della sua vita, adorato la leggiadrissima danzatrice, che le avea dato la sua fortuna e che, fedele oltre la morte, in un miscuglio singolare di amore, di misticismo e di cinismo, le dava tutte le pompe più ricche del culto religioso, stavano in fondo al tempio, muti, immobili; il loro padrone era venuto presto colà e tutto era stato disposto secondo i suoi ordini, sotto i suoi occhi, e tutti quei fiori li aveva portati lui, ed egli stesso aveva pregato per un'ora, lì dentro, incapace di dimenticare, incapace di consolarsi. l due camerieri presero silenziosamente dalle mani di Carmela Minino la corona di fiori, per deporla presso l'altare: - Sulla pietra, sulla sua pietra - ella mormorò, supplice, tremante di una emozione che non era solo dolore, anzi quasi non era dolore. Poi, quando la corona andò ad appoggiarsi a metà della lapide marmorea, sul posto dove giaceva, dietro la fredda pietra, il freddo cuore della incantevole Amina, la sua figlioccia, si piegò sovra un inginocchiatoio di legno scolpito, dal cuscino di velluto rosso, dove, un'ora prima, era venuto a pregare Otto Schulte e chiuso il volto fra le mani mentre il prete orava, pronunziando le parole tetre, tristi, dolenti, ploranti, della messa per i defunti, mentre il grido dell'anima cristiana che, giunta davanti all'Eterno suo giudice, domanda misericordia esciva dalle labbra dei suoi coadiutori, invece di pregare, Carmela Minino vide innanzi agli occhi della sua immaginazione colei che era sepolta dietro quel marmo, colei per cui era stato eretto quel tempio ricchissimo, colei per cui ardevano quelle lampade e quei candelabri, per cui olezzavano quei fiori, per cui pregavano il Signore quei sacerdoti. E vide una figura esile e lieve, un paio di occhi larghi, bruni, pensosi e ridenti insieme, un sorriso sopra una bocca deliziosamente espressiva, un fascino emanante da ogni atto gentile, un fascino di bellezza, di grazia, di giovinezza, di poesia, qualche cosa di trasvolante tra i veli candidi, fra lo scintillio dei corsaletti ricamati d'oro, qualche cosa, di fugace, di alato, d'inafferrabile che facea palpitare e fremere non solo gli uomini giovani ma i vecchi, non solo gli uomini ma le donne: Amina Boschetti! Fra la luce, innanzi ai teatri zeppi e semioscuri, ella appariva, sottile come uno stelo, con la sua piccola testa carica di capelli bruni, e non toccava terra nelle sue gonne simili a una nuvola e i suoi piccoli piedi calzati di seta rosa non toccavan terra e appena appena parea ricamassero delle cifre posate fra i fiori, sulle aiuole. Ella sorrideva dagli occhi e dalle labbra, danzando, mentre il suo corpo pieghevole si arrotondava allo slancio lievissimo: ella danzava, senza che mai quel sorriso, quel lampeggio degli occhi venissero meno, per la fatica: ella danzava, così, come se null'altro ella fosse venuta a fare, sulla terra. E veramente, la sua irresistibile perizia, veramente la delizia di quella danza facevano delirare le platee: e dal loggione dove il popolo si ammassava nelle serate classiche alle poltrone d'orchestra dove si raccoglieva la nobiltà napoletana, il nome di Amina Boschetti era acclamato come quello di una trionfatrice. La coprivano di fiori, di doni, di gioielli: le offrivano i loro cuori e le loro fortune: ed ella tutto accoglieva, sorvolando su tutto, sapendo che i fiori, i gioielli, i cuori, le fortune, eran fatti per lei, perchè i suoi piedini calzati dalle fini scarpette di raso rosa vi facessero in mezzo una gaia danza. Ella aveva ville a Portici e a Posillipo, palazzi a Napoli, mobili sontuosi, equipaggi ricchissimi, vesti e pietre preziose degne di una sovrana; e la sua lieta giovinezza spensierata rideva di tutto ciò: ed ella dava in cambio tutta la poesia della sua bellezza, tutta la poesia della sua danza, sorridendo ai sogni di amore e di piacere. Così, nella sua infanzia, Carmela Minino l'aveva vista, ammirata, amata, come se Amina Boschetti avesse in sè qualche cosa di divino: così la povera figliuola della rammendatrice di maglie, la figliuola di Bettina Minino, aveva volto gli occhi pieni di ammirazione trepida e devota alla fata delle danze. Tutti quei deliri, tutte quelle acclamazioni, tutti quei gioielli, tutto quel denaro che la gente gittava innanti alla danzatrice adorabile, non sembravano, alla oscura piccola corifea, che un omaggio naturale, giusto, dovuto a quel leggiadrissimo idolo. La messa, funebre quasi finiva, mentre alte risuonavano le parole latine d'implorazione del sacerdote, sotto la volta granitica del tempio egizio. Ma Carmela Minino che, pure, era una, umile e pia cristiana, ancora non pensava a pregare per l'anima della sua madrina. Ora, si rammentava come la bella danzatrice era entrata nella sua piccola vita, piena di ombre, di tristez- ze, di miserie! si rammentava di essere stata condotta, un giorno, due giorni, varie volte, in quel grande palazzo della Riviera di Chiaia, dove Amina Boschetti viveva fra la ricchezza del lusso e dell'arte, e in quell'amena, fresca villa di Portici, posta fra gli orti, i giardini e il mare: sua madre rammendatrice di maglie di seta, aveva servito la Boschetti, quando costei era una semplice ballerinetta di quarta fila, e, più tardi, quando la ballerinetta era diventata una stella fulgida, la povera rammendatrice, assai misera per mancanza, di lavoro, andava a raccogliere le vecchie maglie che la Boschetti gittava via, gli scarpini di raso rosa che la Boschetti metteva una volta soltanto, e di questi doni, facili alla prodigalità, della grande artista delle danze, Bettina Minino faceva un piccolo commercio. Allora, Carmela Minino aveva dieci anni, due grandi occhi neri e dei bei capelli neri, non pareva che dovesse diventare bruttina come era, poi, più tardi, di- venuta pur conservando il dono dei belli occhi e dei bei capelli. Ogni tanto, Amina Boschetti passava nella sua anticamera, dove Carmela si rannicchiava in un angolo; la carezzava lievemente, passando, nelle sue ampie vesti di lana bianca che avevan del peplo greco e da cui si ergeva la seducente testina. - E falla ballare, falla ballare - rispondeva familiarmente la Boschetti, quando la sua vecchia rammendatrice sospirava, parlando di sua figlia. - E se è brutta, Eccellenza? - Speriamo di no. - E se si perde l'anima e il corpo a teatro? - Chi si perde, si ritrova - replicava, ridendo, la Boschetti. Ciò finì con questo: che la Boschetti dava venticinque lire il mese, per vari anni, a Bettina Minino, perchè la sua figliuola, potesse imparare il ballo. Ohimè, la piccola Carmela mancava di grazia, di brio, di leggerezza, nella danza: studiava molto, si stancava enormemente, era obbediente, sommessa alle osservazioni del maestro, tentava del suo meglio, ma non arrivava a conquistare quelle qualità necessarie ad una ballerina. Anche, verso i sedici anni, invece di fiorire come tutte le giovinette, deperì. La sua carnagione si fece bruna e opaca, le linee s' indurirono ai pomelli, al mento; le labbra s'impallidirono. Forse mangiava poco: forse, ballava troppo: forse mancava d'aria e di luce, in quella stanza del vico Paradiso; ma la sua gioventù fu sfiorata, restandole solo quei begli occhi un po' tristi, ma pur fieri, che, del resto, hanno le napoletane più brutte, quei bei capelli, che, anche, sono un pregio assai comune, a Napoli. - Signora mia, è brutta, è brutta - diceva, piagnucolando, ogni tanto, Bettina Minino alla sua benefattrice. - Pazienza! Così non si perderà - rispondeva, sorridendo la Boschetti. E per la sua protezione, solo per questo, Carmela Minino era entrata nel corpo di ballo di San Carlo: ma nell'ultima fila, con due lire e cinquanta ogni sera di ballo, con l'obbligo di fornirsi del basso vestiario, scarpette, coturni, maglie di seta, gonnellini di velo, coll'obbligo di venire ben pettinata o di farsi pettinare dal parrucchiere del teatro, con tanti obblighi, tutti costosi, che riducevano a nulla le due lire e cinquanta serotine. Era, anche, una grazia, particolare, perchè a San Carlo non volevano brutte ballerine, anche nell'ultima fila, perehè Carmela ballava così e così, sovra tutto mancava di sorriso, sempre con quel viso senza gioventù e gli occhi malinconici. Con il poco guadagno della madre, con le venticinque lire il mese del sussidio Boschetti, meno male, si tirava avanti, quando Amina Boschetti morì... Ora, la messa era finita e il prete secondato dai due coadiutori, benediceva con l'acqua santa il tumolo, cioè la lapide. E invece di pregare per colei che dormiva da sei anni l'eterno sonno della morte, dietro quel macigno di granito, Carmela Minino pensava alla morte di Amina Boschetti. Ella l'aveva vista ballare, l'ultima volta, in un ballo grandioso, di carattere egizio: Le figlie di Cheops. Le due figliuole del Faraonide eran rappresentate da una bellissima mima, alta, formosa, Assunta Mezzanotte, che poi, più tardi, doveva tentare con minor fortuna il teatro di prosa, e l'altra figliuola, la sorella, la rivale, era Amina Boschetti. Non so per quante sere, nelle vesti orientali, con l'ibis d'oro fermante i capelli bruni sulla fronte, carica di gioielli antichi, Amina Boschetti aveva ballato, e più che ballato, sceneggiato e drammatizzato quel ballo delle Figlie di Cheops: e non so quale storia d'amore vincitore e vinto, fra le due sorelle, conduceva la minore Faraonide, la danzatrice, alla morte. Nell'ultima scena, ell'appariva in una festa sacra, bella di una ieratica bellezza fatale, coverta di ori e di gemme preziose, con un sorriso inebbriato ed inebbriante sulle labbra, con qualche cosa di folle negli occhi scintillanti. Così la Faraonide Amina Boschetti imprendeva una sua danza religiosa insieme a uno serpente: a un serpente pitone, sacro alle deità egizie, che ella si avvolgeva alle braccia, al corpo, scherzando, giuocando con esso, accostandosene lietamente e follemente la testa al volto, gittandolo via, ghermendolo, agitandolo intorno a sè, in volute bizzarre. Poi, l'affanno delle danze cresceva, cresceva, i capelli della danzatrice si scioglievano sulle spalle, ella girava come folle, come convulsa, fino a che, appuntando la testa del serpente sul suo petto nudo, si faceva mordere, cadeva, moriva, fra il terrore di tutti. In questo ballo, in quest'ultima scena, Amina Boschetti esciva dal limite della danzatrice felice, vaga e spensierata: ell'assumeva un aspetto drammatico e il pubblico ne aveva un effetto più profondo e più alto. Quattro giorni dopo la chiusura del San Carlo, quattro giorni dopo l'ultima trionfale rappresentazione delle Figlie di Cheops, non ancora trentenne, in piena beltà, in pieno trionfo, Amina Boschetti moriva nel suo palazzo della Riviera di Chiaia, in pochi minuti per la rottura di un aneurisma. Niuno sapeva che ella fosse malata al cuore: forse, lo sapeva ella sola. E nella limitata intelligenza di Carmela Minino, la esaltazione dell'adorazione che ella portava ad limina Boschetti, la induceva oltre i confini della piccola anima popolana, la slanciava in pieno sogno. Quel tempio, quegli argenti, quei fiori, quegli incensi, quelle preghiere, quel culto d'amore e di lusso grandioso che oltrepassava il tempo, che oltrepassava la morte, non dicevano l'imperio della grande maga, ancora, sempre? Non era Amina Boschetti indimenticabile, indimenticata, come una suprema parvenza di poesia? Nessuna ne aveva preso il posto nella fervida ammirazione del pubblico e tutta una folla la rimpiangeva, ogni volta che una nuova ballerina appariva sulle scene del San Carlo: nessuno ne aveva preso il posto, nel cuore di colui che l'aveva amata. Nessuno, nulla, nè il tempo nè gli eventi avrebbero potuto prenderne il posto nella oscura vita, di Carmela Minino, la corifea. Colà, sola, innanzi a quella tomba, piegate le ginocchia innanzi a un diletto nome scritto sulla pietra, nell'ardore che le bruciava le vene, Carmela Minino promise, giurò, alla sua madrina morta, di fare sempre quello che ella aveva voluto la sua figlioccia facesse: promise, giurò di continuare quel mestiere duro, faticoso, pieno di pericoli, pieno di tristezze, che appena le dava il pane, che la lasciava mesi intieri senza lavoro, che la esponeva alle delusioni, alle amarezze, ai dileggi di tutto l'orribile mondo teatrale, che la teneva fra il disonore e la miseria e che, infine, l'avrebbe portata, chi sa, all'elemosina, all'ospedale: che importava? Ella aveva voluto così: e Carmela s'inchinava ancora una volta, ebbra di obbedienza, ebbra di devozione, oltre la tomba, sino alla morte e oltre la morte. Anzi, nella sua febbre di amore e di sacrificio, Carmela dimenticò completamente di pregare. Con la familiarità religiosa comune ai cuori semplici napoletani, con la empietà ingenua dei cuori passionali , ella era certa, certa, che il Signore aveva perdonato ad Amina Boschetti tutti i suoi peccati. La corifea rientrò in Napoli verso le cinque. Quasi annottava. Questa volta, per trovarsi più presto in Via Paradiso, alla Pignasecca, voltò dalla Stazione per la regione settentrionale di Napoli, Via Cirillo, Via Foria. Quando fu presso il Museo Nazionale, la pioggia cominciò a cader fitta fitta. Temendo pel suo vestito, pel suo cappello, per le scarpe, ella si rifugiò nella Galleria Principe di Napoli, dove centinaia di altre persone, senza ombrello, o con qualche vecchio ombrello consunto, aspettavano che finisse di piovere. Si faceva tardi, per Carmela. La pioggia diminuiva ed ella discese la scalinata della Galleria verso via Toledo; guardando innanzi a sè, ella scorse un elegantissimo coupé signorile fermo innanzi al grande arco della Galleria. Sul marciapiede, piegato verso lo sportello, nascondendone il vano, un signore parlava alacremente e attentamente ascoltava chi era dentro la vettura. Malgrado che le volgesse le spalle e che avesse cambiato vestito, Carmela riconobbe subito il Conte Ferdinando Terzi. Ella si fermò un istante sugli scalini, guardando verso il coupé, cercando timidamente di scorgere chi vi si trovasse dentro. Oh ella sapeva bene, Carmela, che Ferdinando Terzi nascondeva e mal nascondeva, una perigliosa e violenta relazione con una giovane signora dell'aristocrazia, a cui Emilia Tromba faceva o da paravento o da diversivo: sul palcoscenico se ne parlava, fra le ballerine che spettegoleggiavano sugli amori e sui vizi del mondo aristocratico, in cui spesso hanno delle rivali, e Carmela conosceva il nome e il volto giovanile, pensoso e dolce di colei che si diceva, amasse follemente Ferdinando Terzi. Ma pioveva ancora e fra le penombre del crepuscolo, il velo sottile della pioggia, nel giro largo e lento che Carmela Minino fece intorno alla piccola carrozza signorile, non giunse a distinguere nulla. Lentamente, la ballerina si allontanò lungo il marciapiede opposto, andando verso la sua casa: si voltò solo, sotto ombrello, due o tre volte, a guardare indietro. Il coupé era sempre fermo, Ferdinando Terzi - le pareva a Carmela - si era sollevato, guardandosi intorno, per diffidenza: poi si era curvato di nuovo, a discorrere. Ma in quell'ora, con quel tempo, lontano dal centro aristocratico di Napoli, fra le oscurità del crepuscolo che si facea sera, sotto la pioggia, chi potea, lassù, riconoscere Ferdinando Terzi e il coupé della marchesa.... chi, se non l'occhio umile ma acuto di una poveretta che ritornava dal cimitero, a piedi dalla ferrovia, tutta molle di umidità, senz'aver pranzato, anelando alla sua stanzetta solinga e a un po' di cibo? Fu più in là, verso piazza Dante, che una voce amabile interruppe il cammino di Carmela. Sulla soglia di uno dei grandi magazzini inglesi di Gutteridge, un giovanotto l'aveva interpellata: - Oh signorina Minino, buonaseral non mi salutate, neppure? - Buonasera, buonasera - ella mormorò, interdetta, fermandosi e pentendosi subito di essersi fermata. - Entrate un poco, signorina - soggiunse il giovane, liberando l'entrata. - No, non posso, signor Gargiulo, ho fretta. - Sempre così! E donde venite, sempre simpatica, sempre così simpatica e così cattiva, con me? Da una prova di ballo? - A quest'ora? - ella mormorò, senza badare ai complimenti. - Io vengo dal camposanto. - Scusate - disse Garginlo, interdetto. - Andate a casa? Posso accompagnarvi, un poco? - No, no, grazie, badate al vostro lavoro. - Oh, è già sera, non verrà più nessuno, dico a un compagno di supplirmi alla cassa. Permettete? - Nossignore, buonasera, signor Gargiulo - concluse lei, in fretta licenziandosi. Il giovane cassiere rimase un po' interdetto: ma lo stesso sorriso un po' fatuo gli restò sulle labbra, mentre guardava allontanarsi la ballerina. Egli era alto e magro, con un viso olivastro e un po' di baffetti bruni a cui teneva molto, accarezzandoli spesso: portava i capelli neri tagliati a spazzola sulla fronte e non mancava di una certa linea di eleganza, nella sua magrezza. Parlava con sovrabbondanza, come tutti i commessi di negozio, con uno spolvero di false buone maniere, con le unghie lunghe e accurate e un brillante al mignolo: vivente maluccio col suo stipendio di cassiere, ma sempre ben vestito, con quella ricercatezza speciale dei giovani commessi, amatore dello smoking e frequentatore accanito di teatri e di balletti borghesi. In teatro andava gratuitamente, per mezzo di un giornalista suo amico, specie a San Carlo: e, talvolta, con l'amico era andato ad aspettare l'uscita delle ballerine dopo lo spettacolo. Colà aveva visto passare, varie sere, Carmela Minino sola: le aveva diretto qualche parola, così, per far anche lui il corteggiatore di una ballerina. - Lascia fare - gli aveva mormorato l'amico giornalista. - È brutta ed onesta. - Ne sei certo - Certissimo. Sono otto o dieci, ancora zitelle, a San Carlo, fra cui la Minino. - Allora, sarebbe un bel guaio per me. - Naturalmente. Niente altro. Ma sempre che la incontrava, Roberto Gargiulo si avvicinava a Carmela, le faceva dei complimenti vivaci e delle allusioni poco velate. Ella rispondeva poco o nulla, si schermiva alla meglio, si allontanava,. Pure, Gargiulo che aveva fatto qualche conquista, nel monduccio borghese ove si aggirava, pensava che se avesse voluto, con una corte assidua, con qualche regaluccio, Carmela Minino avrebbe finito per amarlo. Conveniva a lui, però, insistere, poichè la ballerina era onesta, affrontare certe conseguenze, portare la catena di una relazione simile? Chi sa... più tardi... forse... e intanto, ogni volta che ella gl'impediva di continuare i suoi discorsi, egli conservava il suo sorriso fatuo, di seduttore che non vuole insistere. Carmela affrettava il passo, verso via Pignasecca, aveva crollato le spalle, lasciando Roberto Gargiulo. Egli non le dispiaceva e non le piaceva, ma ella adoperava con lui le armi di difesa abituali di una donna che ha paura dell'amore e paura del peccato. Credendosi anche più brutta di quello che era, una istintiva, selvatica diffidenza le veniva contro ogni accenno di corte; ella supponeva sempre un inganno maschile, una trama, per farla cadere nel peccato, per burlarsi di lei, subito dopo. Vagamente, nella sua coscienza di povera serva sociale, di povero atomo, senza forza e senza coraggio, ella sentiva che, un giorno o l'altro, questo sarebbe accaduto: ma con tutte le cure quotidiane ella respingeva da sè questo avvenimento, ciecamente respingendo chiunque avesse potuto rappresentarlo: adoperava le più puerili e le più inani armi di difesa, fuggendo le conversazioni, fuggendo i contatti, evitando ogni occasione, facendosi anche più rustica e più sgraziata. Oh non molti la corteggiavano, mal vestita, sempre sola, sempre danzante nelle ultime file, senza un gioiello, senza un fiore nei capelli, ma ogni tanto qualcuno, Roberto Gargiulo o don Gabriele Scognamiglio, il cav. Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, consuetudinario di San Carlo, che abitava in piazza della Pignasecca, o il figliuolo del direttore del palcoscenico, qualcuno di questi la perseguitava per due o tre giorni, per una settimana, dicendole sempre le stesse cose, volendo tutti la medesima cosa, ingannarla, cioè, pensava lei, condurla al peccato, per piantarla subito. No, no. Ella li scoraggiava, facendosi vedere sempre più sgraziata, a occhi bassi, troncando i discorsi, fuggendo, quasi sempre. - Buonasera, donna Carmelina! - disse una voce d'uomo, mentre ella sbucava sulla piazza della Pignasecca. - Ecco l'altro - mormorò fra sè, Carmela. - Buonasera, cavaliere. Era don Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, celibe impenitente, famoso donnaiuolo: un uomo che aveva già i suoi cinquantacinque anni, ma che portava la sua barba bianca bene tagliata e profumata, quasi sempre in marsina, la sera, pulito, svelto, che sapeva parlare alle donne, brutale, del resto, nel fondo del suo animo, freddo e calcolatore. - Donna Carmelina, volete venire a pranzo con me, a Frisio, stasera? - Grazie, cavaliere, ho già pranzato. - Allora, andiamo insieme al cafè concerto, donna Carmelina, che ne dite? Dopo mezzanotte, si cena... - Buonasera, buon divertimento, cavaliere - diss'ella, allontanandosi. - Siete proprio una scema, donna Carmelina, ve ne pentirete! - esclamò lui, ridendo, chiamando una carrozza per andare a pranzo. Ah, quando fu in casa, nella stanza al quarto piano, piena di umidità, Carmela Minino fu presa da una stanchezza mortale. A forza si trascinò sino al tavolino per accendere il lume a petrolio; e per forza se ne andò in cucina, ad accendere un po' di fuoco, per cucinarsi un paio di uova, che aveva in casa: niente altro, perchè sarebbe morta di fame, anzi che discendere quei quattro piani a comperarsi qualche altra cosa. Moriva di fatica, di lassitudine morale, di segreta tristezza: e mangiando quel poco di cibo, sopra un angolo nudo del suo tavolino, alla luce fumosa della sua lampada, pensò, sì, di essere una scema, come aveva detto don Gabriele Scognamiglio. Ma non se ne pentì, in quella sera.

Pagina 28

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247294
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, tutta sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l'accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz'ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, purtroppo, lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne, alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, cRollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano, sul teatro e via: e infine il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant'Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto, per paura che si burlasse di lei; ma si ostinava a non volerlo, in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all'idea che il suo amante, così pretenzioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz'ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto. - No, no, no - aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi. Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un'altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Garginlo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio del giovane cassiere: e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino, sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità - non le faceva sempre dei regalucci? - questa ribellione lo indignava. - Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perchè lo hai fatto? - la investiva, arrivando alle ingiurie. - Perchè... perché... - diceva lei, cRollando il capo, misteriosamente. Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi nè il cappello, nè la giacchetta, all'oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia, che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull'altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola, all'oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un'altra persona: - Ma che ho? Che mi è successo? Ah pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell'ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo! Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione, non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perchè era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell'opinione della gente onesta, non si poteva più confessare, non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle sue gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perche l'ho fatto? Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l'inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a sè questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d'Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di Don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l'errore passato e il dolore futuro. Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guancie di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perchè la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L'amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene: la fortuna d'ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, i bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello, al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che! - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell'amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose, che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poichè sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano: qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l'estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già tre o quattrocento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da sè, per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d'argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme a qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l'aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere. Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando Io Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena di tristezza: si era tolto dai fianchi il cordone di Terz'Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna ne dell'uno, nè dell'altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di risurrezione non aveva potuto comunicarsi. Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Se vi pensava, innanzi, nell'avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare, questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l'anima e coi sensi; ma lusingato nell'amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all'amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero; egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell'amante provvido e innamorato. D'altronde, spesso Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con la sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti di uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un'ignota paura la sua amante. Spesso, taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d'inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo, solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere finita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall'acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva, dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente, si chiedeva: - Perchè l'ho fatto? Perchè l'ho fatto? E la ragione intima, profonda, segretissima che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla nè ad altri, nè a se stessa.

La sorte

248106
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1887
  • Niccolò Giannotta editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Donna Mena abbassava la testa sul cucito, per non fargli attaccar lite, e si metteva a piangere silenziosamente, perchè tutte quelle storie di baronie e di ricchezze guastavano la testa alla ragazza, che non voleva più scendere in bottega. Gli affari, poi, non andavano così bene come dava a intender suo marito, e invece di una lavorante che costava un occhio del capo, la Nunziata avrebbe potuto dare una mano. Ma se ne parlava a don Antonino, pover'a lei! le toccavano male parole: che la ragazza non aveva bisogno di sciupare la sua salute, che lui c'era per questo! Frattanto egli se ne stava tutt'il santo giorno sdraiato sulla soglia della bottega, col forbicione in mano, a tagliuzzare modelli vecchi, o a ritagliare i figurini dell'altr'anno, disturbando le lavoranti con le sue chiacchiere, o facendo fermare i passanti di sua conoscenza, attaccando discorsi che non finivano più. Quando c'era bisogno di fare una commissione, o di pigliare le ordinazioni dalle pratiche, o di comperare i finimenti, restava fuori un'intera giornata, preferendo di spasseggiarsela sul corso, squadrando la gente, come un barone, e se incontrava Raffaele sul brecchi del barone vero, vi montava su volentieri: non era per niente fratello del padrone, almeno si faceva scarrozzare franco e i vicini crepavano d'invidia. Ma donna Michela, la vedova che stava a due passi, invidia non ne provava, per quella gente, e in carrozza a quel modo non ci sarebbe andata, neanche se l'avessero fatta regina. - Poveri, ma onorati! - diceva, assestando le dodici chicchere di porcellana sul canterano di noce lucido - e questa grazia di Dio nessuno può rinfacciarmela! Ripeteva spesso così per amore di suo figlio Concetto, il quale s'era messo a passeggiare sotto la finestra della Nunziata, la figliuola di don Antonino. Concetto da quell'orecchio non ci sentiva, e andava e veniva ogni momento per vedere la ragazza che ricamava con le dita più bianche della tela; tanto che il principale di lui cominciava a lagnarsi. - Badate: che vostro figlio non ha più la testa a posto come prima. Giusto, la cosa venne all'orecchio di don Antonino, che per miracolo di Dio non fece un massacro. - Come? quel pezzo di carnevale ha il viso di alzar gli occhi sopra mia figlia? Sangue di non so chi, se non finisce la commedia l'accompagno a pedate al suo paese pezzente! Poi se la pigliava con le lavoranti. - Già, la colpa è di voialtre ciabatte, che mi mangiate il pane a tradimento. Se un'altra volta non m'avvertite, vi piglio per un piede e vi butto fuori. Donna Mena, a quelle sfuriate, si metteva a piangere peggio di prima, perchè un partito come Concetto, che fra poco avrebbe messo su bottega da sè, sua figlia non lo avrebbe mai più trovato; e le lavoranti minacciavano di andarsene, che, Dio liberi! quello non era il modo di parlare a delle ragazze. Invece, quando non era in casa a gridare e a minacciare, don Antonino se ne andava col cocchiere o col cameriere del barone, a ragionare di ricchezze; e aveva la testa all'eredità, intanto che il negozio andava di male in peggio e la Nunziata passava il tempo alla finestra, a far gli occhi dolci ai passanti. - Almeno, diteglielo a vostra figlia di dare una mano nella sartoria, ora che due la voranti bisogna congedarle. La ragazza, come intese quel discorso, posò da un canto il ricamo di bianco che faceva per isvago, e rispose: - Se volete che vi dia una mano, compratemi un'altra macchina; che io scenda. a lavorare in bottega potete levarvelo dal capo. Nunziata aveva ragione, ci voleva una altra macchina; così lei avrebbe potuto lavorare su in camera, da signora, senza confondersi con le operaie, e la bisogna sarebbe stata spedita più presto. - Ma andiamo che io non ho da dove pigliar le vent'onze, e quella bestia del macchinista non mi vuol far credito! Donna Mena pensò allora di farsi prestare la somma occorrente dalla vicina donna Michela, che non avrebbe negato quel piccolo favore, per amor del figliuolo. Non ne disse però niente al marito se no, Dio ne scansi, poteva finir male, Donna Michela, come la vide spuntare, voleva chiuderle l'uscio in faccia; ma sentendo perchè veniva, si aggiustò le cocche del fazzoletto che portava in testa, e stirò con le mani il grembiale, dalla sodisfazione di vedersi dinanzi, così umiliata, la vicina. Ma vent'onze, com'è vero Dio, non le metteva fuori; per quella gente, poi! - Cara vicina, i tempi sono scarsi, credetelo, ed io non ho potuto neanche rifare i materassi di mio figlio Concetto, che è un figliuolo d'oro. E poi vent'onze son denari, e non si trovano spazzando per terra. - Mi bisognerebbero per comprare la macchina alla Nunziata, che ha le mani fatate, e lavora da sera a mattina. I denari, non dubitate, li riavreste per Ognissanti... - Credetemi, vicina, se avessi potuto, oh, con tutto il cuore!.. Donna Mena se ne andò via afflitta e sconsolata, con le mani vuote com'era venuta. Ma quando tornò a casa Concetto, e seppe della domanda dei vicini e della negativa di sua madre, si fece bianco e rosso in viso, perchè lui avrebbe voluto che si fossero date le vent'onze. - Oggi a te, domani a me; se non ci aiutiamo l'uno con l'altro... - Ho i miei guai! - A Ognissanti le avrebbero restituite. Voi che paura avete? È gente onorata... A queste parole, donna Michela non stette più alle mosse. - Gente onorata, quel bastardo che conta i giorni di suo fratello?.. Gente onorata, quel don Antonino, che alleva la figliuola per farne una... - Mamma, non parlate così! - disse lui con la voce grossa, facendosi brutto e dando un pugno tanto forte sul canterano che le chicchere si misero a ballare. Poi le tenne il broncio: non voleva più mangiare, e le parole bisognava strappargliele di bocca, l'una dopo l'altra. Donna Michela, che gli voleva bene più della pupilla degli occhi, non poteva rassegnarsi a vederselo dinanzi a quel modo. - Almeno ce ne restassero riconoscenti! Ma sono più superbi di Lucifero... - Voi che ne sapete? Sono venuti a chiedervi un favore e li avete mandati via come dei cani. - Allora sia fatta la tua volontà! Ma io non voglio veder nessuno, qui in casa; e cotesti cristiani non mi piace di averli neanche per compagni di processione. - Andrò io da loro - s'affrettò a rispondere Concetto, a cui non pareva vero di veder la Nunziata da vicino; e per questo si mise l'abito delle feste. - Almeno, aggiusta bene gl'interessi! - gli raccomandò donna Michela, quand'egli era già nella via. Come donna Mena vide comparire Concetto dietro lo sporto, non seppe più a che santo raccomandarsi, perchè se scendeva suo marito voleva succedere un guaio. Ma lui non le dette il tempo. - Mi manda la mamma - disse subito - con le vent'onze; che se non ci aiutiamo l'uno coll'altro... - Oh che brava persona voi siete!... L'avevo detto io, che la comare Michela era una buona vicina! Accomodatevi; io chiamo subito mio marito - Ma egli aveva soggezione delle lavoranti, che non gli levavano gli occhi d'addosso. Don Antonino stava buttato sul letto, rosicchiando due fave arrosto; e appena intese che giù c'era Concetto, si rizzò, sbraitando che gli voleva rompere le mascelle; ma quando sua moglie gli ebbe spiegato che quello portava i denari, si chetò, borbottando: - Vent'onze! Valeva la pena, per una simile miseria!.. Nondimeno scese giù, in maniche di camicia come si trovava, e tendendo a Concetto un pugno di fave, gli disse: - Ne volete, amico? Concetto ne prese una, per mostrar di gradire, ma la mise in tasca, che non avrebbe voluto farsi trovar mangiando, se scendeva la Nunziata. Don Antonino aggiunse: - Ho inteso l'affare del prestito; ora vi faccio la ricevuta, in piena regola. - Ma non occorre, signor don Antonino... Fra galantuomini!.. No, no; patti chiari e amicizia lunga: questo è il mio costume. - La chiamo, la Nunziata? - gli domandò sottovoce donna Mena, mentre egli scriveva sopra una fattura della sartoria, al tavolone da stirare. - Se non vai via, ti piglio a calci - rispose ad alta voce don Antonino. Così Concetto se ne andò con la ricevuta in tasca, come un cane bastonato; che non gli avevano neanche detto grazie e della ragazza non ne aveva saputa nè nuova nè vecchia.

Pagina 220

Una peccatrice

249661
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Alzò gli occhi su quel palchetto della prima fila da dove partiva quel raggio, e vide la contessa che abbassava lentamente l'occhialetto, appoggiandolo, col braccio disteso, sul velluto del parapetto, mentre lo fissava ancora ad occhio nudo, quasi con curiosità: aveva voluto conoscere certamente, per una bizzarìa da donna elegante, quest'uomo che aspettava sull'ingresso, tre quarti d'ora dopo alzata la tela. Pietro cercò il suo posto e sedette quasi dirimpetto alla loggia della contessa. La commedia fu applauditissima; ma Pietro non applaudì giammai, poichè soltanto alcuni squarci attrassero la sua attenzione; e in quegli squarci, quando il suo cuore provava potentemente quello che aveva sentite l'autore, egli rivolgevasi, senza accorgersene anche, verso il palchetto di Narcisa, e cercava negli occhi di lei l'eco di quello che egli provava nel suo cuore. La contessa voltava le spalle alla scena; e solo di tratto in tratto, in quei momenti che avevano il potere di strappare Pietro alle sue frequenti preoccupazioni, ella volgeva i suoi limpidi occhi verso gli attori. Del resto ella discorreva qualche volta con i numerosi visitatori che occupavano successivamente le seggiole del suo palchetto; e pochissime volte si servì dell'occhialetto per esaminare le tolette delle signore. Giammai però l'abbassò verso la platea. Nel suo sguardo, nel suo gesto, nella sua attitudine, fin nel modo in cui parlava e sorrideva qualche volta con quei signori che le tenevano compagnia, n'era un'indefinibile espressione di stanchezza e di noia, che si traduceva in sfumature molli, in pose voluttuosamente accidiose. L'occhialetto di Pietro stava quasi sempre fissato su quella loggia. Due o tre volte, ella, come sorpresa di quella molesta assiduità, volse gli occhi verso quel binocolo che aveva l'indiscretezza di guardarla sì a lungo dalla platea. Una volta infine alzò lentamente il suo, e bruscamente, senza quelle transazioni che sono assai comuni in teatro per mascherare il vero scopo, ella lo fissò di contro a quello del giovane che si abbassò subito. Ella rimase alcuni secondi in quella positura; indi lasciò quasi cadere sul parapetto il binocolo, e fece un leggiero movimento di spalle d'impazienza. Prima di terminare la recita Brusio lasciò il suo posto e si recò sul corridoio. ll suo occhio era acceso e brillante; le sue gote, abitualmente pallide, si coloravano di un rossigno febbrile. Pochi minuti dopo, prima ancora che il sipario fosse abbassato, udì aprire la porta di un palchetto sul corridoio, e dei passi che si avvicinavano, mischiandosi al fruscio d'una veste. La contessa gli passò dinanzi, questa volta allegra e ridente, al braccio di uno di coloro ch'erano stati nel suo palchetto. Pietro in quel momento avrebbe dato dieci anni della sua vita per uno sguardo di quella donna. Le sue vesti lo toccarono senza che ella mostrasse di avvedersi di lui. Solo il conte si volse a fissarlo con occhio assai cupo e sospettoso. Il giovane scese le scale quasi insieme a lei; la vide montare in carrozza col conte, dopo aver dato la mano agli altri, e partire. Egli rimase immobile sul limitare. - Non vai a casa? - gli disse alle spalle la voce di Raimondo. - Sì... ti aspettavo per dirti addio... - A domani, non è vero? - Non lo so... Avrò forse da studiare tutto il giorno... E s'incamminò lentamente per la Marina. A due ore del mattino Raimondo si disponeva tranquillamente ad andare a letto, quando fu bussato con furia alla sua porta. - Chi può essere a quest'ora? - disse fra di se il giovane sorpreso andando ad aprire. - Son io, Raimondo... son io! Apritemi, di grazia! - udì la voce della signora Brusio, quasi delirante dietro la porta. - Che c'è, signora?... Dio mio!... ella mi spaventa! - esclamò il giovane introducendo la madre del suo amico nella sua camera. - Pietro!... Dov'è Pietro? Dov'è mio figlio, signor Angiolini? - disse la povera madre colle lagrime agli occhi. - Pietro non è in casa? - domandò. Raimondo vieppiù sorpreso. - Son due ore del mattino e mio figlio non si è ancora ritirato... Ho mandato il domestico a cercarlo al teatro, e ritornò dicendo che il teatro era chiuso da un pezzo, ma che sulla porta era avvenuta una rissa fra alcuni giovanotti; che vi erano stati dei feriti e degli arrestati... Mio Dio!... gli sarà accaduta qualche disgrazia... Dove lo lasciaste voi?... - Ci separammo all'ingresso del teatro, e mi disse che andava subito a casa... Ma io non so nulla di risse... - Dio!... Dio mio!... - singhiozzò la madre torcendosi le braccia, - come farò, Dio mio, come farò!... Son sola, sig. Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n'è di mio figlio!... Aiutatemi; corriamo all'ufficio di Questura a prendere informazioni... - Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi qui. Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il cappello ed uscì. Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in mente mentre la signora Brusio si disperava per l'inusitata e straordinaria tardanza dl figlio suo, e per la notizia che il domestico le avea rapportato, egli si diresse per la strada Stericorea ed indi per quella Etnea, verso la casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo sotto i veroni, sul marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche cosa di nero immobile sul lastrico. Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a voce bassa. - Che vuoi? rispose una voce rauca e ancora tremante, come se inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe stentato a riconoscere, nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse stata meno famigliare. Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le mani. - Tu qui!... a quest'ora! - esclamò Raimondo. - Che vuoi, ti dico?! - replicò con maggiore asprezza Pietro. Non son forse più padrone di fare quello che mi piace?!... Raimondo capì che quello non era il momento di parlare al suo amico: e sospirando tristamente, poichè allora soltanto scoperse lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si cullava, sedette silenzioso al suo fianco. Pietro rimase muto, come non avvedendosene, cogli occhi, di una sorprendente lucidità, fissi sul lume che brillava dietro le tende di seta del verone. Qualche volta, a lunghi intervalli, egli trasaliva, ed una gocciola, come di sudore, che partiva dall'orbita, luccicava un momento solcando le sue guance. Ad un tratto egli afferrò con violenza il braccio di Raimondo. - Guarda!... guarda anche tu! - disse egli con la voce stridente ed interrotta del delirante o del pazzo. E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino al verone per meglio osservare. - Io non vedo niente, mormorò Raimondo che si fregava gli occhi inutilmente. Pietro, senza rispondergli, gli porse la busta del suo occhialetto che trasse dalla saccoccia del soprabito. - Guarda, ti dico!... c'è da diventar pazzo! Coll'aiuto dell'occhialetto Raimondo vide la contessa, presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona, ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori; ed un uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si chinava verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte. Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorchè il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa. Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse con tuono di chi prende una risoluzione: - Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia! - Mia madre!... - esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore; mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. - Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza. - È tanto tardi dunque? - domandò egli come parlando io sogno. - Son le tre fra poco. - Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini! Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto. - Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli! - replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e strascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.

Pagina 49

Dramm intimi

249993
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1884
  • Casa Editrice A. Sommaruga e C.
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
  • w
  • Scarica XML

Roberto abbassava il capo, e la contessa si sentiva soffocare. Alcuni istanti dopo, dietro alle cortine del letto, si portò il fazzoletto alle labbra, e lo nascose in fretta macchiato di sangue. Poscia Bice tornava in sè, e pareva chiedere perdono a tutti con le sue parole e le carezze affettuose. Appena cominciò a lasciare il letto, sua madre fissò il giorno della partenza. Bice le rivolse uno sguardo scrutatore e impallidì chinando tosto gli occhi. Quando fu l' ultimo momento, alla stazione, erano commosse tutte e due, abbracciandosi senza dire una parola, come si lasciassero per sempre. La contessa arrivò tardi, la sera, affranta, intirizzita dal freddo. La casa vasta o deserta era fredda anch'essa, col gran fuoco acceso, con le lumiere solitarie, per tutta l'infilata delle sale. *

Pagina 43

Cerca

Modifica ricerca