Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Contessa Lara (Evelina Cattermole)

219851
Storie d'amore e di dolore 1 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Di bello e di ancor giovanile non aveva altro che gli occhi grandi, lucenti, mobilissimi: due occhi proprio meridionali, che girava, socchiudeva, alzava, abbassava senza tregua, accompagnando, con questo gioco espressivo e con la fitta mimica delle mani, la sua loquacità d'una straordinaria espansione. In pochi minuti la grossa femmina rovesciò a mo' di confidenze, più sottovoce che poteva, un diluvio di notizie confuse e non richieste addosso all'infermiera, che ascoltava, in piedi, contentando l'altra, ogni tanto, d'un cenno o d'un monosillabo. — Io, vede, — dichiarò, — ho preso in casa questo signore perchè me l'ha mandato un signore ch'è stato due anni mio inquilino. Mi disse che si trattava di tenerlo pochi giorni, perchè il tenente doveva tornare ad imbarcarsi per la Spagna, per il Giappone, che so io? insomma per là giù lontano; e io non ebbi difficoltà ad accettarlo. Non l'avessi mai fatto! Non perchè mi rincresca d'usar dei riguardi agl'inquilini; ma perchè le case ristrette non sono adatte a certe malattie. Questo povero figliuolo si capiva subito che covava qualcosa di brutto.... Arrivò bianco come un cencio di bucato, con gli occhi stralunati. Che cosa avesse, Dio lo sa. Basta; la disgrazia è toccata a me, e da una settimana in casa mia non c'è piu pace, nè giorno, nè notte. Io mi sono prestata quanto ho potuto; ma anch'io ho i miei interessi, e il sonno mi preme più del mangiare. — Senza lasciare che suor Istituta mettesse una parola nel discorso, la padrona seguitò a chiacchierar fitto fitto. Disse che lei aveva fatto scrivere alla famiglia del tenente per mezzo del ministero: aveva parlato proprio da sè col segretario, che l'aveva mandata dal ministro, cioè dal capo sezione; e difatti era venuto un fratello del malato, un pezzo d'uomo biondo; ma anche lui pare che avesse molti affari, poveretto, perchè subito era ritornato via, promettendo di venire a pena poteva, e raccomandava che avesse avuto cura del malato lei, la signora Carmela. Ma, intanto, come far così. sola? Come poteva rimediare a ogni cosa? — E concluse: — Non ostante quest'apparenza grassa, in realtà sono assai delicata; guai, se mi strapazzo un po' più del solito! Mi pigliano certi dolori nervosi da non resistere; e nella mattinata, se lo crede, m'è venuto perfino uno svenimento.... Con questo caldo, poi! Ecco perchè d'accordo col medico, un bravo professore se ce n'è — viene due volte al giorno — mi son determinata a far chiamare lei che mi levi da questo gran pensiero; tanto più che questo povero signore mi passa proprio il cuore. Così buono! Ma con certi malacci c'è poco da scherzare!... — E dopo un'infinità d'altre ciarle del genere, la signora Carmela invite la suora a passar di là, se aveva bisogno di cenare, e a non far complimenti, se non voleva proprio che se ne avesse a male, come d'una offesa. Suor Istituta scosse negativamente l'ali della cornetta inamidata. - Grazie, grazie — mormorò. — Noi non accettiamo nè pure un bicchier d'acqua. - O perchè? — mormorò la schiattona. - La regola — disse, con un breve sorriso e senza altra spiegazione, la monaca. Poi con una certa insistenza nella voce umile, soggiunse: - Lei, signora, vada, vada pure a letto, e non abbia alcuna pena: col malato ci sto io, ora. — Pronunziò quest'ultima frase scandendo leggermente ogni sillaba, come per significare: — egli ormai sotto la mia protezione, sotto la mia responsabilità; e fino a tanto che non guarisca... o non muoia, mi appartiene. — Dopo un'ultima scarica di frasi, d'occhiate, di gesti, la padrona di casa si ritirò finalmente. L' infermo, che in quel frattempo erasi assopito, tornò di nuovo a lamentarsi. Allora suor Istituta, guardato un oriolino la cui catena d'oro, larga e corta, serpeggiava su 'l cassettone, s'accostò alla lampada, preparò con la punta delle dita affusolate una presa d'antipirina dentro l'ostia nel cavo del cucchiaio, poi venne verso il capezzale, e passando il braccio sinistro sotto il primo cuscino del sofferente, sollevata che gli ebbe la testa senza scomporlo, gli fece trangugiare la medicina. L'ufficiale, aperte le palpebre, volse la pupilla vaga e dilatata su quella ignota figura di donna, così prona sopra di lui da sfiorargli quasi il viso col petto. Tutti e due si fissarono per un momento: lei vide ch'egli era giovane e bello: lui, forse, non capì nulla, e subito rinserrò gli occhi. Piano piano, suor Istituta aveva ritirato il braccio; acccomodò le coltri, le rincalzò ai lati; quindi parve dileguarsi tra l'ombre alte e nere che il lume proiettava dirimpetto. Cominciava la veglia. Seduta sur una poltroncina bassa, in disparte, d'onde alzavasi a quando a quando per apprestar qualche farmaco o dare un cucchiaio di brodo al paziente, quando ella tornava al suo posto, riprendeva il rosario, facendo scorrere senza rumore su la cima delle sue piccole dita, gli acini della corona di fruttiglia che le pendeva a fianco. Pregava per una pia abitudine, come chi ha sempre le stesse parole in bocca. Anche l'ordinanza, il cui profilo ampio e svelto si disegnava diritto poco discosto dal letticciuolo, se ne stava affatto immobile: tranne con la mano destra che agitava blandemente, in misura, una fogliona ovale di palmizio, a mo' di ventaglio, su 'l viso cocente del malato; e dalla finestra socchiusa s'udiva soltanto venire a tratti un lievissimo fruscío d'aria mossa o d'insetti tra le fronde inselvatichite del piccolo giardino; ma subito tornava a regnare più che mai grave il silenzio. — Il mare è d'argento! — balbettò l'infermo — Incantevole!... Un quarto simpatico. Letterina sua.... Manda.... odor di fiori — e gridò — Mi fa male.... male! Mi si spezza la testa.... Oh, felicità! Mia creatura! Amor mio! Qui, qui — e stendeva le braccia tremanti come a chiamar qualcuno su 'l suo petto. Suor Istituta rimase a mezzo d'un'avemaria, che quasi subito riprese a recitare. — Oh, guarda.... gli albatri.... su l'acqua.... Par che dormano.... E sospirò: — Dormire!... - quasi che l'idea del sonno gli apparisse come un bene supremo, forse l'unico rimedio per non più pensare, per non più patire. La suora seguitava a sgranar lento il rosario; Così per queste tre persone tanto diverse di paese, d'indole e di destino, riunite lì quasi al buio, nella medesima stanzuccia di dolore, passò molta parte della notte. il marinaro seguitava a sventolare: tutti e due dolcemente, tacitamente, errando chi sa dove col pensiero. Il malato a momenti s'assopiva, a momenti vaneggiava, ricordando con frasi incoerenti e tronche qualcuno de' paesi da lui visitati ne' lontani viaggi, e un suo amore, che, forse, più della febbre gli bruciava il cuore e le carni, fatto com'era di delicata tenerezza e di desiderii brutali: un vero amore da uomo di mare, dalla duplice natura piena di sogni fantastici propri del suo pellegrinaggio tra cielo e acqua, e di sensualità selvagge aguzzate dalle astinenze di bordo. A un tratto, l'infermo, allontanando con violenza le coltri di su 'l petto, prese a dire affannosamente: — Orribile!... orribile.... il riverbero su la sabbia!... Scotta gli occhi... il cervello, la gola! Ondeggia tutto.... Oh, un pozzo, Dio mio!... Una goccia sola... Brucio!.. L'acqua limpida... fresca... Oh, Dio!... La monaca introdusse fra le labbra aride del malato l'orlo d'un bicchiere colmo di limonata dove tintinnava un pezzetto di ghiaccio. Egli bevve avidamente, lungamente, tenendo fissa la pupilla sbarrata, piena di meraviglia, su la mano alabastrina e sottile che gli porgeva quel refrigerio; e quando ebbe finito di bere, alzò gli occhi su la donna. Di nuovo i loro sguardi s'incontrarono e rimasero immobili qualche momento. Albeggiava. Una luce d'un chiaro bigiognolo penetrava ormai nella camera, dove le ombre erano scomparse, e la lampada s'affievoliva, gettando a pena a canto a se un riflesso giallastro su le lame delle lance e delle zagaglie aggruppate nell'angolo. Suor Istituta appariva più bianca della sua cornetta; e nel volto emaciato spiccavan vie piu bruni i profondi cerchi delle occhiaie e la frangia delle lunghe ciglia color nocciòla. Un'ondata di sangue arrossò invece leggermente le guance color di cera del malato: il quale tornò anche questa volta a richiuder subito gli occhi, come sotto un'impressione di pena. Forse quella pietosa mano femminile gli aveva procurato un rapidissimo sogno: un sogno seguíto tosto da una disillusione. La febbre non cedeva: centigrado più, centigrado meno, era quasi sempre oltre i quaranta gradi, non ostante i rimedi del medico curante e d'altri dottori chiamati ogni giorno a consulto: così che le forze e la vitalità dell'infermo Contessa Lara. si consumavano, scemavano ogni ora, come divorate da un inesorabile fuoco interno. Durante lunghe prostrazioni, egli restava con mezzo aperte le palpebre violacee, dal cui spiraglio si vedeva l'occhio vitreo e torbo, con dischiuse le labbra gonfie e scure, dentro cui appariva tutta nera la sega dei denti: un sudor gommoso gli attaccava a ciocche compatte i capelli scomposti su la fronte e su le tempie; le braccia ingiallite ed inerti gli pendevan fuori del lenzuolo; e in quelle ore l'ordinanza, dopo averlo inutilmente chiamato pian piano, dopo avergli posata una sua mano callosa su 'l cuore, spinto da un subitaneo terrore, avvicinava la sua larga bocca fresca e rossa a quella povera bocca arsa di moribondo, per assicurarsi ch'ei respirava ancora... Con un muto segno di gioia, subito dopo, volgendosi verso la suora, accennava di sì; ed ella rispondeva a quel cenno con un pallido sorriso, come per dire: — Non morrà, non dubitare; lo salvo io.

Mitchell, Margaret

220912
Via col vento 4 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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La casa era rigurgitante di folla e un incessante brusío di parole, di risa schiette e di risa sommesse, di gridolini femminili, di esclamazioni, si alzava e si abbassava di tono. Sui gradini del porticato era ritto John Wilkes coi suoi capelli d'argento; da lui emanava una tranquilla simpatia e un fascino ospitale immancabile e pieno di calore, come il sole dell'estate georgiana. Accanto a lui Gioia Wilkes (cosí chiamata perché si rivolgeva indistintamente con questa affettuosa espressione a tutti gli agricoltori di suo padre) si muoveva irrequieta e salutava con una sciocca risatina gli invitati che arrivavano. L'evidente desiderio di Gioia di apparire attraente a tutti gli uomini, desiderio che la rendeva nervosa, contrastava vivamente con l'atteggiamento di suo padre; e Rossella pensò che dopo tutto vi era forse qualche cosa di vero in quello che diceva la signora Tarleton. Certamente i Wilkes (uomini) avevano un'aria di famiglia. Le pesanti ciglia color d'oro scuro che ombreggiavano gli occhi grigi di John Wilkes e di Ashley erano invece rade e incolori nei volti di Gioia e di sua sorella Lydia. Gioia aveva lo strano sguardo senza ciglia di un coniglio. Lydia non poteva venir definita altrimenti che con l'aggettivo «trascurabile.» Lydia era invisibile, ma Rossella sapeva che probabilmente era in cucina a dare le ultime istruzioni alla servitú. «Povera Lydia!» pensò Rossella. «Ha sempre avuto tanto da fare a dirigere la casa da quando è morta sua madre, che non ha mai avuto la possibilità di attrarre un corteggiatore, eccetto Stuart Tarleton; e certo non è colpa mia se egli mi trova piú carina di lei.» John Wilkes scese gli scalini per offrire il braccio a Rossella. Nello scendere dalla carrozza ella vide Súsele sorridere con affettazione e da quel sorriso comprese che ella doveva aver riconosciuto tra la folla Franco Kennedy. «Se io non riuscissi ad avere uno spasimante migliore di quella vecchia zitella in calzoni!...» pensò con disprezzo, nel fermarsi a ringraziare John Wilkes. Franco Kennedy si stava affrettando per aiutare Súsele; e questa si dava tali arie, che fece venir la voglia a Rossella di mollarle un ceffone. Franco Kennedy poteva essere il piú grande proprietario della Contea e al tempo stesso un bravissimo uomo; ma queste cose non avevano importanza di fronte al fatto che aveva quarant'anni, che era smilzo e nervoso e aveva una barbetta sale e pepe e delle buffe movenze da zitellona. Peraltro, ricordando il suo progetto, Rossella dominò il suo sdegno e gli rivolse un sorriso cosí luminoso per salutarlo, che egli si fermò di scatto, piacevolmente stupito col braccio teso verso Súsele, facendo tanto d'occhi a Rossella. Lo sguardo di questa frugò la folla in cerca di Ashley, benché ella discorresse graziosamente con John Wilkes; ma il giovinotto non era nel porticato. Si udirono voci di saluto, e i gemelli Tarleton le andarono incontro. Le fanciulle Munroe si prodigarono in esclamazioni sulla bellezza del suo vestito ed in breve ella fu il centro di un gruppo di persone che vociavano sempre piú forte, dato che ognuno cercava di farsi udire al disopra degli altri. Ma dov'era Ashley? E Melania e Carletto? Cercò di non farsi accorgere che si guardava intorno e scrutò i gruppi attraverso il vestibolo. Mentre chiacchierava, rideva e lanciava rapidi sguardi nell'interno della casa e nel cortile, i suoi occhi caddero su uno straniero, solo nel vestibolo, che la fissava con una fredda impertinenza che destò in lei un sentimento misto di piacere femminile per aver suscitato l'interesse di un uomo e di imbarazzo per la sensazione che il suo abito fosse eccessivamente scollato. Le sembrò tutt'altro che giovine: almeno trentacinque anni; alto e ben costruito. Rossella si disse che non aveva mai visto un uomo con le spalle cosí larghe e con muscoli cosí vigorosi, quasi troppo vigorosi per un signore. Quando lo sguardo di lei incontrò il suo, egli sorrise mostrando una dentatura candida da animale da preda sotto i baffi neri tagliati corti. Era bruno di pelle, abbronzato come un pirata, e i suoi occhi erano arditi e neri appunto come quelli di un pirata che abborda una galera per depredarla, o una fanciulla per rapirla. Il suo volto era freddo e indifferente e la bocca aveva un'espressione cinica mentre egli sorrideva. E Rossella trattenne il fiato. Sentiva che quello sguardo era insultante e si irritava di non sentirsi insultata. Non sapeva chi fosse colui, ma innegabilmente quel viso bruno rivelava la persona di buona razza. Ciò si vedeva anche nel naso sottile, aquilino, nelle labbra rosse e carnose, nell'alta fronte e negli occhi ben tagliati. Ella distolse lo sguardo senza rispondere al sorriso: e l'uomo si voltò mentre qualcuno chiamava: - Rhett, Rhett Butler, venite qui! Voglio presentarvi alla ragazza piú insensibile di tutta la Georgia. Rhett Butler? Il nome non le era nuovo; le sembrava di averlo udito in occasione di qualche avventura piacevolmente scandalosa; ma la sua mente era rivolta ad Ashley e quindi allontanò subito quel pensiero. - Devo andar su a ravviarmi i capelli - disse a Stuart e a Brent che cercavano di trarla lontano dalla folla. - Voialtri aspettatemi e non ve ne andate con qualche altra ragazza, altrimenti mi arrabbio. Vedeva che Stuart sarebbe stato poco maneggevole oggi, qualora ella avesse civettato con qualche altro. Aveva bevuto ed aveva quell'espressione bellicosa che - lo sapeva per averlo visto altre volte - conduceva facilmente a qualche disputa. Si fermò nel vestibolo per scambiare qualche parola con l'uno o con l'altro e per salutare Lydia che emergeva dal retro della casa coi capelli in disordine e la fronte coperta di goccioline di sudore. Povera Lydia! Non solo aveva i capelli sbiaditi, le ciglia invisibili e un mento proteso che rivelava disposizioni alla caparbietà; ma aveva già vent'anni e per di piú era una zitellona. Chi sa se era molto irritata perché lei le aveva portato via Stuart? Molti dicevano che ne era ancora innamorata; ma non si poteva mai sapere che cosa pensasse un membro della famiglia Wilkes. Se ne era irritata, non lo aveva mai dimostrato e aveva sempre trattato Rossella con la stessa lieve cortesia, cordiale e distante, che sempre le aveva manifestata. Rossella le rivolse qualche parola gentile e si avviò alla scala. In quel momento udí pronunciare timidamente il suo nome; si volse e vide Carlo Hamilton. Era un grazioso ragazzo, con una massa di riccioli bruni sulla fronte bianca e occhi neri, dolci e affettuosi come quelli di un cane da pastore. Era vestito elegantemente: calzoni color mostarda e giubba nera; attorno al collo della camicia a pieghe, si avvolgeva una larga cravatta nera di ultima moda. Un lieve rossore gli invase il volto quando Rossella si volse, perché era timido con le donne. Come la maggior parte degli uomini timidi, egli ammirava moltissimo la vivacità e la disinvoltura delle fanciulle come Rossella. Fino ad ora, ella non gli aveva mai accordato altro che un saluto formale; perciò il vedersi accolto con un sorriso radioso e con le mani tese giocondamente gli tolse quasi il respiro. - Carlo Hamilton, simpatico vecchio amico! Scommetto che siete venuto da Atlanta apposta per spezzarmi il cuore! Quasi balbettando per l'eccitazione, Carlo prese fra le sue le manine tepide e fissò i begli occhi verdi e ridenti. In questo modo le ragazze solevano parlare con gli altri giovanotti; non mai con lui. Non sapeva perché, ma lo trattavano sempre come un fratello piú giovine ed erano gentili, senza mai prendersi la pena di stuzzicarlo. Egli avrebbe voluto che si comportassero con lui come con altri assai meno belli e meno provvisti di beni di fortuna. Ma le rare volte in cui questo avveniva, egli non sapeva mai che cosa dire e soffriva un tormentoso imbarazzo a causa della sua timidezza. E restava poi sveglio tutta la notte a pensare alle galanterie che avrebbe potuto dire: ma raramente gliene capitava l'occasione, perché le fanciulle dopo un paio di tentativi lo trascuravano. Perfino con Gioia con la quale esisteva una tacita intesa di matrimonio per il giorno in cui egli entrasse in possesso della sua proprietà, era silenzioso e diffidente. A volte lo assaliva il pensiero poco gentile che le civetterie di Gioia e i suoi atteggiamenti dispotici nei suoi riguardi non erano da attribuirsi a particolare simpatia, ma al fatto che le piacevano tanto i giovinotti che essa avrebbe avuto lo stesso contegno con chiunque gliene avesse dato l'opportunità. La prospettiva di sposarla non lo eccitava, perché la fanciulla non destava in lui nessuna delle emozioni violente che i suoi amati libri gli assicuravano fossero l'appannaggio del perfetto innamorato. Egli aveva sempre anelato d'essere amato da una creatura bella e ardita, piena di fuoco e di malizia. Ed ecco Rossella O'Hara che lo stuzzicava accusandolo di spezzarle il cuore! Cercò di pensare qualche cosa da dire ma non trovò nulla, e tacitamente la benedisse perché aveva cominciato a chiacchierare fitto fitto, liberandolo cosí da ogni necessità di conversazione. Era troppo bello per esser vero. - Aspettatemi qui finché torno, perché voglio mangiare la porchetta con voi. E non andate a fare il civettone con le altre ragazze, perché sono terribilmente gelosa. - Queste incredibili parole furono pronunciate dalle labbra rosse che avevano una fossetta a ogni angolo; e le folte ciglia nere si abbassarono pudicamente sugli occhi verdi. - Obbedirò - riuscí finalmente a dire in un soffio Carlo, non supponendo neppur lontanamente che dentro di sé ella lo paragonava a un vitello in attesa del macellatore. Lo percosse lievemente sul braccio col ventaglio chiuso e si volse di nuovo per salire; i suoi occhi caddero ancora una volta sull'uomo che aveva udito chiamare Rhett Butler e che era fermo a qualche passo da Carlo. Evidentemente egli aveva udito tutta la conversazione perché le sorrise maliziosamente come un gatto; nuovamente i suoi occhi la fissarono con uno sguardo completamente privo della deferenza a cui ella era abituata. - Per la camicia di Giove! - disse fra sé indignata, usando l'imprecazione favorita di Geraldo. - Sembra che... sí, pare che sappia come sono quando sono svestita... - E crollando la testa, salí le scale. Nella camera da letto dov'erano deposti gli scialli, trovò Catina Calvert che si guardava nello specchio mordendosi le labbra per farle apparire piú rosse. Aveva alla cintura delle rose fresche che armonizzavano con le sue guance, e i suoi occhi color fiordaliso brillavano di eccitazione. - Catina - disse Rossella cercando di tirare il corpetto un poco piú in alto - chi è quell'antipatico, giú, che si chiama Butler? - Come, non lo sai? - rispose Catina eccitata, lanciando un'occhiata alla stanza vicina dove Dilcey e la bambinaia delle ragazze Wilkes stavano spettegolando. - Non so quanto farà piacere a Mr. Wilkes averlo in casa; ma era in visita da Kennedy, a Jonesboro - credo per comperare del cotone - e Mr. Kennedy naturalmente ha dovuto condurlo con sé. Non poteva certamente andarsene e piantarlo in casa! - Ma che cos'ha? - Tesoro mio, è un uomo che nessuno riceve! - Davvero? - Davvero! Rossella digerí questo in silenzio, perché non si era mai trovata sotto lo stesso tetto con una persona che non è ricevuta. Era una cosa eccitantissima. - Che cos'ha fatto? - Ha una reputazione terribile. Si chiama Rhett Butler, è di Charleston e i suoi parenti sono bravissima gente; una delle migliori famiglie. Ma non hanno rapporti con lui. Carolina Rhett mi parlò di lui l'estate scorsa. Non sono parenti, ma lei, come tutti quanti, sa tutto di lui. È stato espulso da West Point. Figúrati! E per cose troppo gravi perché Carolina potesse saperle. E poi c'è stata la storia di quella ragazza che non ha voluto sposare. - Racconta! - Ma non sai proprio niente, tesoro? A me la raccontò Carolina, e sua madre morirebbe se sapesse che la figliuola ne sa qualche cosa. Dunque, questo signor Butler condusse una ragazza a fare una passeggiata in carrozzino. Non so chi sia la ragazza ma ho dei sospetti. Non doveva essere una gran cosa, altrimenti non sarebbe uscita con lui nel tardo pomeriggio senza accompagnatrice. Rimasero fuori quasi tutta la notte e finalmente tornarono a casa dicendo che il cavallo aveva preso la mano e il carrozzino si era fracassato e loro si erano smarriti nei boschi. E indovina che cosa... - Non posso indovinare. Dimmelo! - esclamò Rossella con entusiasmo, sperando il peggio. - L'indomani rifiutò di sposarla! - Oh! - fece Rossella, delusa. - Disse che non aveva... hm... non le aveva fatto nulla e non vedeva perché avrebbe dovuto sposarla. Suo fratello lo sfidò a duello, e lui disse che preferiva farsi ammazzare piuttosto che sposare una stupida scioccherella. Si batterono alla pistola e Mr. Butler uccise il fratello della signorina. Dovette andar via da Charleston e ora nessuno lo riceve - terminò Catina trionfante, e appena in tempo perché Dilcey entrava in quel momento nella stanza per sorvegliare le tolette affidate a lei. - E la ragazza ebbe poi un bambino? - bisbigliò Rossella nell'orecchio di Catina. Questa scosse violentemente il capo. - Ma fu rovinata lo stesso - sussurrò di rimando. «Dio mio, vorrei che Ashley mi compromettesse» pensò Rossella a un tratto. «È troppo gentiluomo per non sposarmi.» Ma nel suo intimo, aveva un senso di spontaneo rispetto per quell'uomo che aveva rifiutato di sposare una scioccherella.

Pagina 107

Alzava soltanto lo sguardo verso Melania e le parlava; e Melania abbassava lo sguardo su lui con un'espressione che affermava la sua dedizione. Cosí, Rossella era infelice. Per un osservatore esteriore, mai una fanciulla aveva avuto minor motivo di esserlo. Indubbiamente era la piú bella della riunione, il centro dell'attenzione generale. In qualsiasi altro momento l'entusiasmo degli uomini, insieme all'irritazione delle altre ragazze le avrebbe fatto un enorme piacere. Carlo Hamilton, reso ardito dalla sua cortesia, si era piantato alla sua destra rifiutando di lasciarsi sloggiare dagli sforzi combinati dei gemelli Tarleton. Teneva in una mano il ventaglio di Rossella e nell'altra il suo piatto di porchetta e rifiutava caparbiamente d'incontrare gli occhi di Gioia, la quale sembrava che stesse per scoppiare in lacrime. Claudio era graziosamente sdraiato alla sua sinistra, tirandole ogni tanto la gonna per richiamare la sua attenzione e guardando Stuart con occhi di fuoco. Fra lui e i gemelli vi era già una certa elettricità, nell'aria, ed erano state scambiate parole aspre. Franco Kannedy strepitava intorno come una gallina con un pulcino, correndo avanti e indietro dalla quercia alle tavole per prendere delle leccornie che dovevano tentare Rossella, come se non vi fossero una dozzina di servi per questo scopo. Come risultato, il cupo risentimento di Súsele aveva oltrepassato il limite di sopportazione femminile ed ella fissava sua sorella con occhi incandescenti. La piccola Carolene avrebbe pianto perché, contrariamente alle parole incoraggianti che Rossella le aveva detto al mattino, Brent non aveva fatto altro che dirle «Hallò, piccola,» e tirare il nastro dei capelli, prima di rivolgere tutta la sua attenzione a Rossella. Di solito egli era tanto buono e la trattava con una negligente deferenza che le dava l'impressione di essere una persona grande, e Carolene sognava segretamente il giorno in cui si sarebbe rialzata i capelli e avrebbe messo le gonne lunghe; allora avrebbe potuto riceverlo come un vero corteggiatore. E adesso invece era Rossella che se lo teneva accanto. Le ragazze Munroe celavano il loro dispiacere per la defezione dei bruni ragazzi Fontaine, ma erano annoiate della maniera in cui Tony e Alessandro stavano attorno al circolo aspettando di poter prendere posto vicino a Rossella, qualora uno degli altri si fosse alzato per un attimo. Telegrafarono a Etta Tarleton la loro disapprovazione per la condotta di Rossella, sollevando delicatamente le sopracciglia. La sola parola adatta per definirla era «sfacciata.» Simultaneamente le tre signorine alzarono i loro ombrellini di pizzo, dissero che avevano mangiato abbastanza, grazie, e posando leggermente le dita sul braccio dell'uomo che avevano piú vicino, dichiararono dolcemente che volevano vedere il giardino delle rose, il padiglione di primavera e quello d'estate. Questa ritirata strategica in buon ordine fu notata da tutte le donne presenti e da nessun uomo. Rossella rise fra i denti vedendo tre uomini rapiti al suo fascino e condotti a contemplare luoghi familiari alle fanciulle fin dalla loro infanzia. Lanciò uno sguardo acuto verso Ashley per capire se se ne fosse accorto: ma egli stava giocherellando con la sciarpa di Melania, e le sorrideva. Un dolore acuto le strinse il cuore. Sentí che sarebbe stata capace di graffiare con gioia la pelle di avorio di Melania, sino a farla sanguinare. Volgendo lo sguardo; incontrò quello di Rhett Butler, che non si era mescolato con la folla, ma conversava in disparte con John Wilkes. La stava osservando e quando ella lo guardò, rise clamorosamente. Rossella ebbe la spiacevole sensazione che quell'uomo che non era ricevuto, fosse il solo fra i presenti che sapesse ciò che si nascondeva sotto alla sua selvaggia gaiezza, e che questo gli procurasse un divertimento beffardo. Avrebbe graffiato con piacere anche lui. «Se posso resistere a questa riunione fino al pomeriggio,» pensò «tutte le ragazze andranno di sopra a fare un riposino per essere fresche stasera ed io rimarrò giú e riuscirò a parlare con Ashley. Certamente egli avrà notato come sono corteggiata.» Calmò il suo cuore con un'altra speranza: «Senza dubbio, dev'essere premuroso con Melania, perché dopo tutto è sua cugina e non ha corteggiatori; e se egli non si occupasse di lei, rimarrebbe a far parete.» Riprese coraggio a questo pensiero e raddoppiò i suoi sforzi in direzione di Carlo, i cui occhi neri la fissavano avidamente. Era una giornata magnifica per Carlo, una giornata di sogno, ed egli si era innamorato di Rossella senza sforzo alcuno. Dinanzi a questa nuova emozione, Gioia scompariva in una nebbia cupa: era un passero dalla voce stridula, mentre Rossella era un usignolo che gorgheggiava. Lo stuzzicava, lo favoriva, e gli rivolgeva delle domande a cui rispondeva lei stessa, sicché egli appariva intelligente senza dover dire una parola. Gli altri giovinotti erano perplessi e indispettiti da questo evidente interesse di Rossella per lui, poiché sapevano che Carlo era troppo timido per cucire assieme due parole, ed essi mettevano a dura prova la loro educazione per nascondere l'ira crescente. Tutti ardevano per quella fanciulla, e se non vi fosse stato Ashley, Rossella avrebbe goduto un autentico trionfo. Quando l'ultimo boccone di porchetta, di pollo, e di montone fu mangiato, Rossella sperò che Lydia si alzasse per dire alle signore di ritirarsi in casa. Erano le due e il sole era caldissimo; ma Lydia, stanca dopo tre giorni di preparativi per la riunione, era troppo contenta di poter stare un po' seduta sotto l'albero, parlando a voce altissima con un vecchio gentiluomo di Fayetteville, sordo come una campana. Una pigra sonnolenza discendeva sulla folla. I negri indugiavano sparecchiando le lunghe tavole su cui erano state le vivande. Le risate e le conversazioni diventavano meno animate; qua e là alcuni gruppi erano silenziosi. Tutti aspettavano dalla loro ospite il segnale che la prima parte della festa era finita. I ventagli di palma si agitavano piú lentamente, e parecchi vecchi signori lasciavano penzolare il capo per il sonno e per lo stomaco carico. Il banchetto era terminato, e tutti provavano il desiderio di riposarsi mentre il sole era alto nel cielo. In questo intervallo tra la festa della mattina e il ballo della sera tutti sembravano placidi e tranquilli. Solo i giovinotti conservavano la instancabile energia che fino a poco prima aveva animato tutti quanti. Muovendosi fra i gruppi, trascinando le parole con la loro voce dolce, erano belli come stalloni di sangue e altrettanto pericolosi. Il languore del meriggio pesava sull'elegante accolta, ma sotto a questa tranquillità si nascondevano temperamenti che potevano in un attimo balzare ad altezze straordinarie e infiammarsi con la stessa rapidità. Uomini e donne erano belli e selvaggi, tutti un po' violenti sotto le loro buone maniere, e solo in parte domati. La conversazione stava morendo, quando nella calma temporanea si udí la voce di Geraldo levarsi in accenti furibondi. A breve distanza dalle tavole, egli era al culmine di una discussione con John Wilkes. - Per la camicia di Giove! Desiderare un accordo pacifico con gli yankees! Dopo che abbiamo scacciato quei mascalzoni dal Forte Sumter? Pacifico? Il Sud mostrerà con le armi che non vuole essere insultato e che non si scinde dall'Unione per bontà di questa, ma per la propria forza! «Oh, Dio, ci siamo!» pensò Rossella. «Ora si rimane seduti qui fino a mezzanotte.» In un attimo la sonnolenza era scomparsa e qualche cosa di elettrico aveva attraversato l'aria. Gli uomini balzarono dai banchi e dalle sedie; furono braccia che si agitavano a larghi gesti e voci che proclamavano il diritto di farsi udire al di sopra delle altre. In tutta la mattina non si era parlato né di politica né di guerra perché il signor Wilkes aveva desiderato che non si annoiassero le signore. Ma ora Geraldo aveva urlato le parole «Forte Sumter» e tutti i presenti dimenticarono l'ammonimento dell'ospite. - Certo combatteremo... - Yankees ladri... - Ce ne sbarazzeremo in un mese... - Figuriamoci, un meridionale può tener testa a venti yankees... - Dargli una lezione che non dimenticheranno... - Pacifico? Ma sono loro che non ci lasciano in pace... - Avete visto come Mr. Lincoln ha insultato i nostri Commissari?... - Sí, li ha portati in giro per delle settimane, giurando che avrebbe fatto evacuare Forte Sumter!... - Vogliono la guerra: la avranno... - E sopra a tutte le voci, dominava quella di Geraldo. Tutto ciò che Rossella riusciva a udire era «Diritti di Stato, per Dio!» urlato sempre piú forte. Geraldo gongolava; ma non cosí sua figlia. Secessione... guerra... Da un pezzo queste parole erano diventate un vero incubo per Rossella; ma ora le odiava addirittura, perché il loro suono significava che ormai gli uomini sarebbero rimasti lí per delle ore a discutere; e lei non avrebbe avuto nessuna opportunità di trarre in disparte Ashley. Certamente la guerra non vi sarebbe, e gli uomini lo sapevano. Ma piaceva a loro di parlare e di ascoltarsi parlare. Carlo Hamilton non si era alzato con gli altri. Trovandosi relativamente solo con la ragazza, le si avvicinò e, con l'audacia nata dal nuovo amore, le sussurrò la sua confessione. - Miss O'Hara... io... ho già deciso che se faremo la guerra, dovrò andare nella Carolina del Sud e unirmi a quelle truppe. Si dice che il signor Wade Hampton stia organizzando uno squadrone di cavalleria e certamente io desidero andare con lui. È un grand'uomo ed era il migliore amico di mio padre. Rossella pensò: «E che cosa crede che io faccia adesso? Che gridi evviva?» L'espressione di Carlo mostrava che egli le stava rivelando i segreti del suo cuore; ma ella non seppe che cosa dirgli e si limitò a guardarlo, chiedendosi perché gli uomini sono tanto sciocchi da credere che le donne si interessano di queste storie! Egli credette che la sua espressione significasse muta approvazione e continuò rapidamente, audacemente: - Se andassi... vi dispiacerebbe, miss O'Hara? - Bagnerei di lagrime tutte le notti il mio guanciale - rispose Rossella facendo la disinvolta; ma Carlo prese le sue parole per moneta contante e arrossí di gioia. La mano di lei era nascosta fra le pieghe della sua veste; egli la cercò e la strinse, stupito della propria temerità e della condiscendenza di lei. - Pregherete per me? «Che idiota!» pensò amaramente Rossella, lanciando attorno uno sguardo furtivo, nella speranza che qualcuno venisse a salvarla da quella conversazione. - Sí o no? - Ma sí, certo, Mr. Hamilton! Almeno tre rosari per sera! Carlo si guardò attorno e irrigidí i muscoli del petto trattenendo il fiato. Erano praticamente soli; ed egli non avrebbe mai piú avuto una fortuna simile. E, anche se Domineddio gliel'avesse fatta avere, forse il coraggio gli sarebbe mancato. - Miss O'Hara... debbo dirvi una cosa... Vi... vi amo! - Hm? - fece Rossella distratta, cercando di vedere, attraverso la folla di uomini che ragionavano, se Ashley era ancora seduto ai piedi di Melania. - Sí - bisbigliò Carlo, in estasi perché ella non aveva riso, né era svenuta né aveva emesso un grido, come egli aveva sempre immaginato che ogni fanciulla dovesse fare in simili circostanze. - Vi amo! Siete la piú... la piú... - e per la prima volta in vita sua le parole non gli mancarono... la piú bella fanciulla che io abbia mai conosciuta, e la piú cara e la piú buona e la piú gentile; ed io vi amo con tutto il cuore. Non posso sperare che voi amiate uno come me, ma se voi, cara, vorrete darmi il piú piccolo incoraggiamento, io farò tutto al mondo per farmi amare da voi. Voglio... Si interruppe perché non riuscí a pensar nulla di abbastanza difficile per convincere Rossella della profondità dei propri sentimenti; quindi disse semplicemente: - Desidero sposarvi. Rossella tornò alla realtà con un sussulto, al suono della parola «sposarvi». Stava pensando al matrimonio e ad Ashley, e guardò Carlo con malcelata irritazione. Perché quel cretino col viso di vitello veniva ad annoiarla coi suoi sentimenti proprio in quel giorno in cui lei era cosí preoccupata che le sembrava di perdere il cervello? Guardò gli occhi bruni supplichevoli e non comprese affatto la bellezza del primo amore di un ragazzo timido, dell'adorazione di un ideale divenuto realtà, della felicità e della tenerezza che mettevano in quegli occhi una fiamma. Rossella era abituata agli uomini che le chiedevano di sposarla, uomini piú attraenti di Carlo Hamilton, uomini che avevano la delicatezza di non fare una domanda di matrimonio durante un convito all'aperto, mentre lei aveva da pensare a tante altre cose piú importanti. Vide soltanto un ragazzo di vent'anni, rosso come un peperone e con l'aria molto sciocca. Ebbe il desiderio di dirgli quanto era idiota. Ma automaticamente le salirono alle labbra le parole che Elena le aveva insegnato a dire in simili circostanze, e abbassando pudicamente gli occhi, per forza di abitudine, mormorò: - Mr. Hamilton, sono molto sensibile all'onore che mi fate chiedendomi di diventar vostra moglie; ma la cosa è per me talmente inattesa che non so che cosa dirvi. Era un modo grazioso di accarezzare la vanità di un uomo e di tenerlo sulla corda; e Carlo abboccò a quell'amo come se fosse nuovo ed egli fosse il primo a inghiottirlo. - Aspetterò quanto vorrete! Voglio che siate sicura di voi... Ditemi che posso sperare, miss O'Hara! - Hm - fece Rossella, i cui occhi di lince osservavano in quel momento Ashley, il quale non si era alzato per prender parte alla discussione degli uomini sulla guerra e stava sorridendo a Melania. Se questo stupido che stava cercando di ottenere la sua mano tacesse un minuto, forse le riuscirebbe di udire ciò che quei due stavano dicendo. Doveva udirlo. Che cosa diceva Melania per destare negli occhi di lui quell'espressione di interessamento? Le parole di Carlo soverchiavano le voci che ella anelava di udire. - Oh, ssst! - gli bisbigliò pizzicandogli una mano senza neanche guardarlo. Spaventato e vergognoso, Carlo arrossí al rabbuffo; poi, vedendo gli occhi di lei fissi su sua sorella, sorrise. Rossella temeva che qualcuno potesse udire le sue parole. Naturalmente era imbarazzata e timida, e l'idea che altri potessero udire la sgomentava. Carlo si sentí invadere da un'onda di mascolinità che non aveva mai provata, perché questa era la prima volta in vita sua che egli turbava una ragazza. L'emozione fu inebriante. Diede al suo volto quella che credeva essere un'espressione indifferente e prudentemente ricambiò il pizzicotto di Rossella per mostrarle che era uomo di mondo e che comprendeva e accettava il suo rimprovero. Ella non sentí neppure il pizzicotto, perché in quel momento udiva la dolce voce che costituiva il fascino principale di Melania: - Non sono d'accordo con te su Thackeray. È un cinico. E credo che non sia un signore come Dickens. «Che stupidi discorsi da fare a un uomo» pensò Rossella, pronta a ridere di sollievo. «Non è che una bas bleu, e tutti sanno che cosa pensano gli uomini delle bas bleu!» Per interessare un uomo e conservar vivo il suo interesse, bisognava parlargli di lui e poi gradatamente condurre la conversazione su se stessa... e mantenervela. Rossella si sarebbe allarmata se Melania avesse detto: «Sei straordinario!» oppure: «Come fai a pensare queste cose? Il mio cervellino scoppierebbe, se cercassi anch'io di pensarle!» Ed eccola lí, con un uomo ai suoi piedi, a parlare seriamente come se fosse in chiesa. La prospettiva apparve a Rossella piú brillante; tanto brillante che rivolse a Carlo degli occhi radiosi e un sorriso giocondo. Entusiasmato per questa prova di affetto, egli afferrò il suo ventaglio e lo richiuse con tanto ardore che ella si sentí drizzare i capelli. - Non ci avete favorito la vostra opinione, Ashley - disse Giacomo Tarleton volgendosi dal gruppo maschile vociferante; Ashley si scusò e si alzò. Nessuno era bello come lui - pensò Rossella osservando la grazia del suo atteggiamento negligente e i capelli e i baffi che il sole faceva scintillare. Anche gli uomini anziani si interruppero per ascoltare le sue parole. - Ebbene, signori miei, se la Georgia combatterà, andrò anch'io. Altrimenti perché fare parte dello Squadrone? - furono le sue parole. I suoi occhi grigi erano spalancati e la loro sonnolenza era scomparsa dando luogo a una vivezza che Rossella non aveva mai vista prima. - Ma, come il babbo, spero che gli yankees ci lasceranno in pace e che la guerra non si farà... - Alzò la mano con un sorriso, perché dai ragazzi Tarleton e dai Fontaine giungeva una babele di voci. - Sí sí, so che ci hanno insultati e che ci hanno mentito... ma se noi fossimo stati nei loro panni, come avremmo agito? Probabilmente nello stesso modo. «Eccolo, al solito» pensò Rossella. «Sempre la smania di mettersi nei panni degli altri.» Per lei, in ogni argomento non vi era che un solo lato. A volte non era punto d'accordo con Ashley. - Non ci scaldiamo troppo la testa e non cerchiamo la guerra. La maggior parte delle miserie del mondo è stata cagionata dalle guerre. E quando le guerre erano finite, nessuno sapeva piú la ragione che le aveva suscitate. Rosella arricciò il naso. Meno male che Ashley aveva una inattaccabile reputazione di coraggio; altrimenti le cose si sarebbero guastate. Mentre ella pensava questo, attorno ad Ashley si levò un clamore di voci dissenzienti e indignate. Sotto l'albero, il vecchio sordo percosse lievemente il ginocchio di Lydia. - Che c'è? - chiese. - Che stanno dicendo? - Guerra! - gli gridò Lydia nell'orecchio facendosi cornetto con la mano. - Vogliono far la guerra agli yankees! - La guerra? - gridò a sua volta il sordo cercando il suo bastone e alzandosi con maggiore energia di quanta ne avesse mostrata da anni. - Gliene parlerò io, della guerra. Vi sono stato. - Non capitava spesso a Mr. McRae l'occasione di poter parlare della guerra, perché le sue donne gli imponevano sempre il silenzio. Raggiunse rapidamente il gruppo, agitando il bastone e gridando e, siccome non udiva le voci degli altri, in breve fu padrone indisturbato del campo. - Ascoltatemi, giovani mangiatori di fuoco. Voi non potete volere la guerra. Io l'ho fatta e lo so. Quella contro i Seminoli; e fui tanto pazzo da fare anche la guerra messicana. Voialtri non sapete che cos'è la guerra. Credete che si tratti soltanto di cavalcare un bel cavallo, con le ragazze che vi gettano fiori chiamandovi eroe. Non è cosí, signori miei! Si tratta di soffrir la fame e di buscarsi polmoniti e malattie della pelle dormendo nell'umidità. E se non sono quelle, sono gli intestini che non vanno. Sí, signori; non potete immaginare che cos'è la guerra per gl'intestini degli uomini: dissenteria e cose del genere e... Le signore erano diventate rosse. Mr. McRae stava ricordando i momenti piú volgari della vita, come la nonna Fontaine con le sue sconcie flatulenze: momenti che ognuno preferiva dimenticare. - Corri a chiamare il nonno - sussurrò una delle figlie del vecchio gentiluomo a una bimba che le era accanto. - Vi assicuro - mormorò poi alle signore attorno - che va peggiorando ogni giorno. Credereste che stamattina ha detto a Maria (la quale ha solo sedici anni): «Ora, figliuola...» - e il resto della frase si perse in un sussurro, mentre la nipotina correva a cercar di indurre il nonno a tornare a sedere all'ombra. Nei gruppi che si affollavano intorno agli alberi, fanciulle che sorridevano e uomini che parlavano appassionatamente, una sola persona sembrava aver conservato la calma. Gli occhi di Rossella si volsero verso Rhett Butler che stava appoggiato a un albero con le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni. Da quando John Wilkes si era allontanato, egli era rimasto solo e non aveva pronunciato parola mentre la conversazione si riscaldava. Le labbra rosse sotto i baffetti si increspavano e negli occhi neri passavano lampi di disprezzo divertito; come se ascoltasse delle chiacchiere infantili. «Un sorriso sgradevole» pensò Rossella. Egli continuò ad ascoltare tranquillamente, finché Stuart Tarleton, coi rossi capelli arruffati e gli occhi scintillanti, gridò: - Ce li leveremo dai piedi in un mese! I gentiluomini combattono sempre meglio della plebe. Un mese... macché, una battaglia... - Signori - interruppe senza muoversi dal suo posto Rhett Butler, con un accento strascicato che rivelava la sua nascita (Charleston) e senza togliersi le mani di tasca - posso dire una parola? Il gruppo si volse verso di lui e gli prestò ascolto con la cortesia dovuta a uno straniero. - Ha mai pensato, nessuno di voi, che non vi è una fabbrica di cannoni a sud della linea Mason-Dixon? E alle poche fonderie che vi sono nel Sud? E industrie per la lana o per il cotone o concerie? Avete mai pensato che non abbiamo una sola nave da guerra e che gli yankees possono imbottigliare i nostri porti in una settimana, sicché non potremmo piú vendere il nostro cotone all'estero? Ma... certamente avete pensato a queste cose. «Questo significa che i ragazzi sono una massa di stupidi!» pensò Rossella indignata; e il sangue le salí al volto. Evidentemente non era la sola ad aver quest'idea, perché parecchi giovinotti cominciavano a drizzar la cresta. John Wilkes lasciò il suo posto in maniera indifferente, ma avanzandosi rapidamente verso colui che aveva parlato, come per ricordare ai presenti che quell'uomo era suo ospite e che, inoltre, vi erano delle signore presenti. - Il torto di molti di noi meridionali - proseguí Rhett - è che non viaggiamo abbastanza e non approfittiamo abbastanza dei nostri viaggi. Tutti voi, certamente, avete viaggiato. Ma che cosa avete visto? L'Europa, Nuova York, Filadefia; e le signore, senza dubbio, sono state a Saratoga. - Si inchinò lievemente verso il gruppo sotto gli alberi. - Avete visto i musei, gli alberghi, i balli e le case da giuoco. E siete tornati a casa convinti che non vi fosse un altro luogo come il Sud. Quanto a me, sono nato a Charleston, ma ho passato questi ultimi anni nel Nord. - Un sorriso dei suoi denti candidi fece comprendere che egli era sicuro che tutti quanti sapevano perché egli non dimorava piú a Charleston, e non gl'importava nulla che lo sapessero. - Ho visto molte cose che voialtri non avete vedute. Migliaia di emigranti che sarebbero ben contenti di combattere per gli yankees avendone in cambio vitto e un po' di denaro; le fabbriche, le fonderie, i cantieri, le miniere di carbone e di ferro... tutte cose che noi non abbiamo. Quello che noi abbiamo è cotone, schiavi... e arroganza... In un mese ci batterebbero completamente. Un minuto di tensione silenziosa. Rhett Butler trasse dalla tasca della giubba un bel fazzoletto di lino e si spolverò distrattamente una manica. Quindi dalla folla sorse un mormorio minaccioso e da sotto gli alberi giunse un ronzio simile a quello di un'arnia disturbata. Benché Rossella sentisse ancora sulle guance il rosso calore della collera, pure qualche cosa nel suo spirito pratico le fece comprendere che quell'uomo aveva ragione e parlava con buonsenso. Infatti, ella non aveva mai visto una fabbrica né conosciuto nessuno che ne possedesse una. Ma anche se tutto ciò era vero, un gentiluomo non doveva fare queste dichiarazioni... soprattutto durante un ricevimento dove tutti si stavano divertendo. Stuart Tarleton si avanzò, con la fronte aggrottata, insieme con Brent. Senza dubbio, i gemelli erano dei ragazzi educati e non avrebbero fatto una scenata durante una riunione mondana, pur essendo provocati. Malgrado ciò, le signore erano piacevolmente eccitate, perché era ben raro, per loro, assistere a una scenata o a una lite. Di solito ne sentivano parlare di terza mano. - Che intendete dire, signore? - disse Stuart lentamente. Rhett lo guardò con occhio gentile ma beffardo. - Intendo dire che Napoleone... forse ne avete sentito parlare? dichiarò una volta «Dio è dalla parte del battaglione piú forte». - Quindi si volse a John Wilkes, con una gentilezza che non era finta: - Mi avevate promesso di mostrarmi la vostra biblioteca. Posso chiedervi il favore di mostrarmela adesso? Debbo tornare a Jonesboro piuttosto presto nel pomeriggio, a causa di un affare. Si volse fronteggiando la folla, batté i tacchi e si inchinò come un maestro di danza; un inchino grazioso in un uomo cosí forte, e insolente come un ceffone. Quindi attraversò il prato con John Wilkes, col nero capo eretto; e il suono della sua risata scoraggiante pervenne al gruppo che era rimasto presso le tavole. Vi fu un attimo di silenzio allarmato; quindi il ronzio ricominciò. Lydia si levò stancamente dalla sua sedia sotto l'albero e si avvicinò all'incollerito Stuart Tarleton. Rossella non udí le sue parole, ma l'espressione dei suoi occhi mentre ella lo fissava in volto diede una specie di rimorso alla sua coscienza. Era la stessa espressione di dedizione che aveva Melania quando guardava Ashley; ma Stuart non la vide. Dunque, Lydia lo amava. Rossella pensò che se lei non avesse civettato cosí sfacciatamente con Stuart l'anno scorso, a quella riunione politica, forse a quest'ora egli avrebbe sposato Lydia. Ma il rimorso si dileguò subito, col pensiero che dopo tutto non era colpa sua se le altre ragazze non sapevano trattenere gli uomini accanto a loro. Finalmente Stuart sorrise a Lydia, un sorriso involontario, e accennò di sí. Probabilmente Lydia lo aveva pregato di non seguire Mr. Butler e di non fare questioni. Un tumulto gentile si levò sotto agli alberi quando gli invitati si alzarono, scrollandosi dal grembo le briciole. Le signore maritate chiamarono le bambinaie e i bambini piccoli riunendo le loro covate per la partenza; gruppi di giovinette si misero in moto verso la casa, ridendo e chiacchierando, per recarsi nelle stanze da letto al piano di sopra a scambiar pettegolezzi e a fare un po' di siesta. Tutte le signore, eccetto la signora Tarleton, lasciarono l'ombra delle querce; Beatrice era trattenuta da Geraldo, da Calvert e da altri, che insistevano per aver da lei la risposta concernente i cavalli per lo Squadrone. Ashley si avviò lentamente verso il luogo ove sedevano Rossella e Carlo, con un sorriso curioso e divertito. - Un bell'arrogante, non è vero? - fece seguendo Butler con lo sguardo. - Sembra un Borgia. Rossella rifletté rapidamente, ma non ricordò nessuno della Contea o di Atlanta o di Savannah che si chiamasse cosí. - Non li conosco. È un loro parente? Chi sono? Una strana espressione si dipinse sul volto di Carlo, in cui incredulità e vergogna si trovarono a lottare con l'amore. Ma questo trionfò; egli si disse che per una ragazza bastava esser carina, dolce, e bella, anche se la sua istruzione era scarsa, e si affrettò a rispondere: - I Borgia erano italiani. - Ah, - fece Rossella disinteressandosi. - Stranieri. Rivolse ad Ashley il suo piú bel sorriso, ma egli non la guardava in quel momento. Guardava Carlo e sul volto era comprensione e un po' di compassione.

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Ma Rossella vide che egli abbassava gli occhi dinanzi allo sguardo penetrante di Rhett e fu sgomentata. Ricordò l'osservazione di Butler: «Se riescono a farlo ritirare nella pianura d'Atlanta, sarà un macello». - Ma credete, capitano... - Ma no! Non vi preoccupate. Il Vecchio Joe ritiene giusto prendere delle precauzioni che sono eccessive. Questo il motivo delle nuove trincee... Ma ora dobbiamo andare. Molto lieto di avervi veduta. Salutate la vostra padrona, ragazzi, e andiamo. - Addio, ragazzi. Se state poco bene, o altro, informatemi. Abito in Via dell'Albero di Pesco; quasi l'ultima casa della città. Un momento... - Frugò nella sua reticella. - Dio mio, non ho neanche un quattrino. Per favore, Rhett, datemi qualche spicciolo. Tieni, grosso Sam, compra un po' di tabacco per te e per i tuoi compagni. E siate buoni e ubbidienti col capitano Randall. Il gruppo si riformò, la polvere si levò nuovamente in una nuvola rossa quando essi ripresero a camminare. E la voce del grosso Sam si levò un'altra volta a cantare: «Scendi, Moseeeè! Quaggiú, sulla teeeerra d'Egiiiitto! E di' al vecchio Faraooone di lasciarci andar liiiiberi!» - Rhett, il capitano Randall mi ha mentito, come tutti gli uomini... che cercano di nasconderci la verità per timore dei nostri svenimenti. Se non vi è pericolo, Rhett, perché fanno queste nuove fortificazioni? E l'esercito è cosí povero d'uomini che occorre servirsi dei negri? Rhett diede la voce alla giumenta. - L'esercito è terribilmente impoverito. Altrimenti, perché verrebbe chiamata la Guardia Nazionale? Quanto alle fortificazioni, possono servire in caso d'assedio. Il generale si prepara a compiere qui la sua ultima ritirata. - Un assedio! Oh, voltate il cavallo. Voglio tornare a casa mia, a Tara, subito subito. - Perché tanta fretta? - Un assedio! Ma ci pensate: un assedio! Dio mio, ne ho sentito parlare... Il babbo ci si è trovato, o forse suo padre, e mi ha raccontato... - Quale assedio? - Quello di Drogheda, quando Cromwell strinse gli irlandesi e questi non avevano nulla da mangiare... Il babbo mi ha detto che morivano di fame per le strade e che finirono col mangiare gatti e topi e perfino scarafaggi... E mi ha detto che prima di arrendersi si mangiarono gli uni con gli altri... ma non so se questo sia vero. Un assedio! Madre di Dio! - Siete la donna piú barbaramente ignorante che io abbia conosciuta. L'assedio di Drogheda è stato nel Seicento e qualche cosa, e il signor O'Hara non può esservisi trovato. Del resto, Sherman non è Cromwell. - Ma è peggio! Dicono... - Quanto alle carni strambe mangiate dagli irlandesi... vi assicuro che per conto mio preferirei un topo ben cucinato a certa roba che mi propinano all'albergo. Credo che farò bene a tornare a Richmond. Lí c'è ancora da mangiar bene se si ha denaro per pagarlo. I suoi occhi irridevano lo sgomento dipinto sul volto di lei. Irritata di aver lasciato vedere la propria paura, ella gridò: - Non so davvero perché siate rimasto qui tanto tempo! Non pensate se non a mangiar bene e altre cose del genere! - Trovo che è il miglior modo di passare il tempo: mangiare e... hm, altre cose del genere. Quanto all'essere rimasto qui... ho letto tante descrizioni di assedi, ma non ne ho mai visto nessuno. Non mi dispiacerebbe assistervi. Non ho nulla da temere, non essendo un combattente; e quest'esperienza mi attira. Non bisogna mai trascurare le esperienze, Rossella: esse arricchiscono la mente. E poi rimango per salvarvi quando vi sarà l'assedio. Non ho mai salvato una donna in pericolo. Anche questa sarà un'esperienza interessante. Rossella sentiva che egli la prendeva in giro; ma che nelle sue parole era un fondo di serietà. Crollò la testa, infastidita. - Non ho nessun bisogno che mi salviate. So badare a me stessa, grazie. - Non lo dite, Rossella! Pensatelo, se volete, ma non ditelo mai a un uomo. Questo è il torto delle ragazze yankee, che sarebbero simpaticissime se non dicessero sempre che non hanno bisogno di nessuno. E allora gli uomini lasciano che se la sbroglino da sole. Fu seccatissima, perché nessun insulto poteva esser peggiore che l'essere paragonata a una ragazza yankee. - Come correte! - gli disse quindi gelida. - Mi raccontate delle frottole; sapete benissimo che gli yankees non arriveranno mai ad Atlanta. - Scommetto che saranno qui fra meno di un mese. Scommetto una scatola di dolci contro... - I suoi occhi neri corsero alle rosee labbra di lei. - Contro un bacio. Per un attimo il timore dell'invasione yankee le strinse il cuore, ma la parola «bacio» la distrasse subito. Questo era un terreno conosciuto, assai piú interessante delle operazioni militari. Represse a stento un sorriso di trionfo. Dal giorno in cui le aveva regalato il cappello verde, Rhett non aveva mai detto una parola che potesse essere interpretata come quella di un innamorato. E adesso, senza nessun incoraggiamento da parte sua, eccolo che parlava di baci. - Non mi piacciono questi discorsi - replicò con freddezza. - E del resto, preferirei baciare un maiale. - Non si tratta di gusto; e d'altronde ho sempre sentito che gli irlandesi hanno simpatia per i porci. Li tengono perfino sotto al letto. Ma voi, Rossella, avete un tremendo bisogno di baci. Tutti i vostri spasimanti vi hanno rispettata troppo, Dio sa perché!, o hanno avuto paura di comportarsi come bisognava con voi. Il risultato è che vi date delle arie insopportabili. Avete bisogno di esser baciata, e da uno che sa baciare. La conversazione non si svolgeva come Rossella desiderava; cosa che le accadeva sovente con lui. - E probabilmente credete di esser voi la persona adatta? - gli chiese con sarcasmo, dominandosi a stento. - Senza dubbio, se volessi prendermi la pena... Dicono che so baciare molto bene. - Oh... - cominciò indignata nel sentire cosí messo in non cale il suo fascino. Ma abbassò gli occhi confusa, vedendo nella profondità dei suoi occhi, malgrado il sorriso irridente, una fiammella che si spense subito. - Probabilmente, vi sarete chiesta perché non ho dato alcun seguito a quel casto bacetto che vi diedi, il giorno in cui vi portai il cappello... - Non ho mai... - Vuol dire che non siete sensibile, Rossella; e questo mi dispiace. Tutte le ragazze sensibili si stupiscono se un uomo non tenta di baciarle. Sanno che non dovrebbero desiderarlo e che dovrebbero sentirsi insultate se un uomo lo facesse... ma lo desiderano ugualmente. Fatevi coraggio, cara. Un giorno o l'altro vi bacerò e la cosa vi piacerà. Ma adesso no; perciò vi prego di non essere impaziente. Come sempre, il suo scherno la rendeva furente. Vi era sempre troppa verità in quello che egli diceva. Ma questo era troppo. Gli darebbe una buona lezione, il giorno in cui fosse tanto villano da tentare di prendersi qualche libertà! - Volete aver la bontà di voltare il cavallo, capitano Butler? Desidero tornare all'ospedale. - Davvero, bell'angelo assistente? Pidocchi e catini di sangue sono preferibili alla mia conversazione? Lungi da me impedire a due mani volenterose di lavorare per la Nostra Causa Gloriosa! - Voltò il cavallo e questo riprese il cammino verso i Cinque Punti. - Quanto al fatto di non aver mosso piú alcun passo - riprese come se ella non gli avesse fatto comprendere che la conversazione era terminata - vi dirò che aspettavo che foste un po' piú donna. Sono egoista, nei miei piaceri; e non ho mai amato baciare le bambine. Accennò a un sogghigno, vedendo con la coda dell'occhio il seno di lei che ansimava di collera silenziosa. - E poi - continuò dolcemente - aspettavo che il ricordo dello stimabile Ashley Wilkes impallidisse alquanto. All'udire il nome di Wilkes, una pena improvvisa le strinse il cuore, mentre le lagrime le pungevano gli occhi. Impallidire, il ricordo di Ashley? Neanche se fosse morto da mille anni. Pensò al giovine ferito, moribondo in una lontana prigione yankee, senza un cencio per coprirsi, senza una persona amata che gli tenesse la mano, e fu piena di odio verso l'uomo ben pasciuto che le sedeva accanto e che le parlava con un leggero sarcasmo nella voce strascicata. Era troppo adirata per parlare, sicché continuarono per un poco a procedere in silenzio. - Ora ho ricostruito tutto sul conto vostro e di Ashley - riprese Rhett dopo un certo tempo. - Ho cominciato quando avete fatto quella volgare scenata alle Dodici Querce; e da quel giorno ho appreso molte cose tenendo gli occhi aperti. Quali cose? Per esempio, che voi nutrite ancora per lui una romantica passione da scolaretta, che egli ricambia nei limiti che la sua natura di uomo onesto gli permette. E che Mrs. Wilkes non ne sa nulla; fra tutti e due, le avete fatto un bello scherzo. Ho capito tutto, meno una cosa che punge la mia curiosità. L'ineffabile Ashley ha mai compromesso la sua anima immortale baciandovi? Un silenzio e un gesto del capo che si volgeva altrove furono la risposta. - Bene; dunque vi ha baciata. Immagino che sia stato quando fu qui in licenza. E ora che probabilmente è morto, voi circondate di un culto quel ricordo. Ma sono certo che finirete col dimenticarlo e allora... Ella si volse come una furia. - Allora... andate al diavolo! - E i suoi occhi verdi brillavano di collera. - E fatemi scendere da questa carrozza prima che io mi getti a terra. E non voglio che mi rivolgiate la parola mai piú! Egli fermò la carrozza; ma prima che potesse scendere per aiutarla, ella era balzata a terra. L'abito le si impigliò nella ruota, e per un attimo la folla dei Cinque Punti ebbe una rapida visione di sottovesti e mutandine. Ma Rhett si chinò e la liberò con sveltezza. Ella sfuggí senza una parola, senza neanche voltarsi indietro; l'uomo rise piano e diede la voce al cavallo.

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Elena chiuse gli occhi e cominciò a pregare; la sua voce si elevava e si abbassava, cullava e molceva. Le teste si curvavano nel cerchio di luce gialla mentre ella ringraziava Dio per la ricchezza e la felicità della sua casa, della sua famiglia e dei suoi schiavi. Dopo aver terminato di pregare per quelli che vivevano sotto il tetto di Tara, per suo padre, madre, sorelle, per i tre bimbi morti e per le «anime del Purgatorio» strinse fra le lunghe dita la corona e cominciò il rosario. Come il fruscío di un dolce venticello si udiva il mormorio delle risposte delle gole bianche e di quelle nere: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Cosí sia». Malgrado il suo mal di capo e la sofferenza delle lagrime represse, un senso profondo di quiete e di pace discese su Rossella, come sempre a quell'ora. Un po' delle delusioni della giornata e del timore dell'indomani scomparivano lasciando posto a un sentimento di speranza. Non era l'elevazione dell'anima a Dio che recava questo balsamo, perché in lei la religione non andava al di là delle preghiere mormorate a fior di labbro, ma piuttosto la vista della faccia serena di sua madre rivolta verso il trono di Dio, coi suoi angeli e i suoi santi, a chiedere la benedizione per tutti quelli che amava. Quando Elena parlava col cielo, Rossella era sicura che il cielo la ascoltava. Elena terminò; e Geraldo che non riusciva mai a trovare il suo rosario al momento delle preghiere, cominciò a contare le avemarie sulle dita. Mentre la sua voce tuonava, i pensieri di Rossella cominciarono suo malgrado a vagabondare. Sapeva che avrebbe dovuto fare l'esame di coscienza; Elena le aveva insegnato che alla fine di ogni giornata bisognava esaminare attentamente la propria coscienza, riconoscere le proprie colpe e pregare il buon Dio di averne il perdono e la forza di non piú ripeterle. Ma Rossella esaminava il proprio cuore. Lasciò cader la testa sulle mani giunte, in modo che la madre non potesse vederla in viso, e il suo pensiero tornò tristemente ad Ashley. Come poteva egli progettare di sposar Melania mentre amava lei, Rossella? E mentre sapeva quanto ella lo amava? Come poteva volontariamente spezzarle il cuore? E ad un tratto un'idea le attraversò il cervello come un lampo di luce. «Ma Ashley non sa affatto che io lo amo!» Ebbe un sussulto: la sua mente rimase come paralizzata per un lungo momento durante il quale non respirò neppure; quindi prese l'aire. «Come potrebbe saperlo? Mi sono sempre comportata con tanta riservatezza, cosí da signora e cosí "lasciatemi-stare" che probabilmente egli immagina che non m'importi nulla di lui se non come amico. Sí, per questo non ha mai parlato! Crede che il suo amore sia senza speranza. E perciò aveva l'aria tanto... La sua mente tornò velocemente al tempo in cui lo aveva sorpreso a guardarla in modo strano, quando gli occhi grigi che nascondevano cosí bene i suoi pensieri le erano apparsi spalancati in un'espresisone di tormento e di disperazione. «Sarà disperato perché crede che io sia innamorata di Brent o di Stuart o di Cade. E probabilmente ha pensato che dal momento che non può sposare me, tanto vale che accontenti la sua famiglia sposando Melania. Ma se sapesse che io lo amo...» Il suo spirito volubile passò dalla piú profonda depressione alla felicità piú vibrante. Questa era la ragione della reticenza di Ashley, della sua strana condotta. Egli non sapeva! La sua vanità venne in aiuto al suo desiderio di credere e questo desiderio divenne realtà. Se egli sapesse che lei lo ama, accorrerebbe accanto a lei. Ella non doveva che... «Oh!» pensò in estasi premendosi le dita sulla fronte china. «Come sono stata sciocca a non pensare a questo fino ad ora! Debbo trovare il modo di farglielo sapere. Non la sposerebbe se sapesse che io lo amo! Come potrebbe?» Con un sobbalzo si accorse che Geraldo aveva finito e che gli occhi di sua madre erano fissi su lei. Cominciò in fretta la sua decina, sgranando le avemarie automaticamente ma con una profondità di emozione nella voce che costrinse Mammy ad aprir gli occhi e a lanciarle uno sguardo inquisitivo. Quando ebbe terminato la sua decina e Súsele e poi Carolene dissero le loro, la sua mente ricominciò a correre dietro al nuovo pensiero che l'aveva invasa. Non era ancora troppo tardi! Quante volte la Contea era stata scandalizzata dalla fuga di due innamorati quando uno o l'altro dei due era quasi davanti all'altare con un terzo! E il fidanzamento di Ashley non era ancora stato neanche annunciato! Sí, vi era tutto il tempo! Se non vi era amore fra Ashley e Melania, ma soltanto una promessa data tanto tempo fa, perché non avrebbe egli potuto sciogliersi dalla promessa e sposare lei? Certamente lo farebbe, se sapesse che lei, Rossella, lo amava. Doveva trovare il modo di farglielo sapere! E ora... Si svegliò bruscamente dal suo sogno di felicità, perché aveva trascurato di rispondere alle preghiere e sua madre la stava guardando con aria di rimprovero. Nel riprendere il rituale, aperse un attimo gli occhi e lanciò un rapido sguardo intorno alla stanza. Le figure inginocchiate, il quieto splendore della lampada, l'ombra in cui i negri si inchinavano, perfino gli oggetti familiari che un'ora prima le erano sembrati odiosi, presero in un momento il colore delle sue nuove emozioni e la stanza le sembrò ancora una volta un luogo piacevole. Non dimenticherebbe mai quel momento e quella scena. - Virgo fidelissima - intonò sua madre. Le litanie della Vergine erano cominciate e Rossella rispondeva obbedientemente: - Ora pro nobis - mentre Elena, col suo dolce contralto, lodava gli attributi della Madre di Dio. Come sempre fin dall'infanzia, questo era per Rossella il momento dell'adorazione per Elena anziché per la Madonna. Per quanto ciò potesse esser sacrilego, Rossella vedeva sempre, attraverso gli occhi chiusi, il volto di Elena e non la Beata Vergine mentre si ripetevano le antiche frasi. «Salus infirmorum... Refugium peccatorum... Sedes sapientiae... Rosa mystica...» erano belle parole perché erano gli attributi di Elena. Ma stasera, a causa dell'esaltazione del suo spirito, Rossella trovò in tutto il cerimoniale, nelle parole mormorate dolcemente, nel mormorio delle risposte, una bellezza che superava tutto ciò che aveva conosciuto prima. E il suo cuore si volse a Dio in sincero ringraziamento perché dinanzi ai suoi piedi si era aperto un sentiero... una strada che la conduceva fuori dalla sua miseria, dritta fra le braccia di Ashley. Dopo l'ultimo «amen» tutti si alzarono, qualcuno un po' faticosamente. Mammy riuscí a rimettersi in piedi mediante gli sforzi combinati di Tina e di Rosa. Pork prese dalla mensola del caminetto un lungo cerino, lo accese alla fiamma della lampada e si avviò per il vestibolo. Di faccia alla scala era una credenza di noce, troppo grande per la stanza da pranzo; sulla scansia superiore erano diverse lampade e una lunga fila di candele ficcate nei candelieri. Pork accese una lampada e tre candele e, con la pomposa dignità di un primo ciambellano della camera reale che accompagna il re e la regina nella camera da Ietto, precedette la processione per le scale, sollevando il lume in alto. Elena lo seguiva al braccio di Geraldo, e dopo di loro venivano le ragazze, ciascuna con un candeliere in mano. Rossella entrò nella sua stanza, posò il candeliere sul cassettone e frugò nell'armadio per prendere l'abito da ballo che bisognava aggiustare. Se lo gettò sul braccio e attraversò silenziosamente il pianerottolo. La porta della stanza da letto dei suoi genitori era semiaperta, e prima che ella avesse bussato, udí la voce di Elena bassa ma severa. - Mr. O'Hara, devi licenziare Giona Wilkerson. Geraldo esplose: - E dove vado a prenderlo un altro sorvegliante che non mi truffi e non mi derubi? - Bisogna licenziarlo, immediatamente, domani mattina. Il grosso Sam è un buon caposquadra e può occuparsi di tutto finché tu non trovi un altro sorvegliante. - Ah, ah! - era la voce di Geraldo. - Capisco! È il bravo Giona che è il padre... - Bisogna licenziarlo. «Dunque è lui il papà del bambino di Emma Slattery» pensò Rossella. «Sfido! Che altro ci si può aspettare da uno yankee e da una ragazza di quel genere?» Quindi, dopo una pausa discreta che diede tempo a Geraldo di smettere di borbottare, picchiò alla porta e porse l'abito a sua madre. Mentre si svestiva, Rossella rifletteva; e quando spense la candela il suo progetto per l'indomani era completo in ogni particolare. Era facilissimo, perché con la semplicità di spirito che aveva ereditato da Geraldo, i suoi occhi erano fissi soltanto sulla meta, ed ella pensava soltanto al mezzo piú diretto per raggiungerla. Prima di tutto, sarebbe orgogliosa, come aveva ordinato Geraldo. Dal momento del suo arrivo alle Dodici Querce sarebbe piú allegra e piú spiritosa che mai. Nessuno sospetterebbe che ella era stata addolorata per il matrimonio di Ashley con Melania; e civetterebbe con tutti quanti. Questo tormenterebbe Ashley, ma lo farebbe spasimare per lei. Non trascurerebbe nessuno degli scapoli, dal vecchio Franco Kennedy, che era il corteggiatore di Súsele, fino al tranquillo e timido Carlo Hamilton, fratello di Melania, il quale arrossiva cosí facilmente. Ronzerebbero attorno a lei come api attorno all'alveare, e certamente Ashley lascerebbe Melania per unirsi al circolo dei suoi ammiratori. E allora, ella manovrerebbe in modo da rimanere qualche minuto sola con lui, lontana dalla folla. Sperava che tutto andasse bene; altrimenti la cosa sarebbe stata difficile. Ma se Ashley non faceva il primo passo, lo farebbe lei. Quando fossero finalmente soli, egli avrebbe ancora dinanzi agli occhi il quadro degli altri uomini che le giravano attorno; sarebbe impressionato dal fatto che ognuno di coloro la desiderava, e lo sguardo triste e disperato riapparirebbe nei suoi occhi. Allora ella lo renderebbe nuovamente felice, lasciandogli scoprire che, pure avendo tanti spasimanti, lo preferiva a tutti gli uomini del mondo. E dopo aver ammesso questo, pudicamente e dolcemente, si sorveglierebbe con attenzione, comportandosi in tutto come una signora. Certo non le verrebbe neanche in mente di dirgli audacemente che lo amava; questo no. Ma questo era un particolare che non la turbava. Aveva già sbrogliato simili situazioni altre volte e lo farebbe ancora. A letto, col chiaro di luna che la bagnava tutta, si figurò la scena. Vedeva l'espressione di sorpresa e di felicità che gli illuminerebbe il volto nel momento in cui Ashley avrebbe compreso che ella lo amava, e udiva le parole che egli le direbbe chiedendole di essere sua moglie. Naturalmente essa gli risponderebbe che non poteva pensare a sposare un uomo che era fidanzato con un'altra, ma egli insisterebbe; e finalmente lei si lascerebbe persuadere. Allora decidererebbero di andar a Jonesboro nello stesso pomeriggio e... Sicuro, domani sera a quest'ora lei poteva essere la signora Ashley Wilkes. Sedette sul letto abbracciandosi le ginocchia, e per un momento fu veramente la signora Ashley Wilkes... la sposa di Ashley! che felicità! Ma subito dopo sentí un po' di freddo al cuore. E se le cose non andassero cosí? Se Ashley non le proponesse di fuggire con lui? Respinse decisamente questo pensiero. - Non voglio pensare a questo, adesso - disse decisamente. - Se ci penso, mi conturbo troppo. Non vi è ragione che le cose non vadano come io desidero... se Ashley mi ama; e so che mi ama! Sollevò il mento e i suoi occhi dalle lunghe ciglia nere brillarono nel chiaro di luna. Elena non le aveva mai detto che desiderio e raggiungimento sono due cose diverse; la vita non le aveva insegnato che il correre non sempre significa raggiungere il palio. Rimase nella luce argentea col coraggio che si rafforzava sempre piú e facendo i progetti che una sedicenne può fare quando la vita è sempre stata per lei cosí piacevole che ogni sconfitta pare impossibile, e un bell'abito e una fresca carnagione sono per lei le armi che vincono il destino.

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Il romanzo della bambola

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Contessa Lara 2 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • paraletteratura - romanzi
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La bimba abbassava il capo tutta tremante; e stava bene attenta a ogni minima parola materna, per il terrore che le metteva addosso quella crudele minaccia. Ormai, se le avessero levata la Giulia le avrebbero spezzato il cuore. Quando restavano sole in casa, Camilla e la bambola, ne' giorni che il babbo gironzava in cerca d'un impiego, e la mamma, vestita de' panni migliori, era uscita per la città a fare come poteva la parte della signora, le due solitarie se la godevano. - Vieni, vieni - diceva Camilla prendendo la pupattola. - Ora puoi uscire, poverina! E l'alzava dal suo lettino dentro il cassetto, dove aveva aspettato pazientemente, sicura di non essere dimenticata. - Che bella giornata, eh? - seguitava la bimba - ma noi non usciamo. Te ne importa? No? Neanche a me. Tanto, stiamo insieme. Ora ti lavo il visino, sai, perchè iersera t'ho baciata troppo: ti ci ho lasciato il segno... - E prendeva una punta dell'asciugamano, bagnata nell'acqua, per passarla delicatamente su le guance della pupattola, un po' ombrate dalle troppe carezze; perchè le pupattole son come le bimbe: si sciupano a baciarle troppo. Poi ripigliava: - Adesso ti metto il grembiulino che ho stirato stamane. Non ho altro da metterti di bello. Ma tu sei contenta lo stesso, è vero?... La Giulia avrebbe voluto gettarle al collo quelle piccole braccia che le pendevano stecchite lungo i fianchi; avrebbe voluto dire alla pietosa creatura tutta la gratitudine con cui ricambiava tanto amore. Ma no! sempre no! sempre no! Le braccia le restavano inerti; il suo visetto di porcellana era impassibile; non traspariva il più leggiero palpito del cuore sotto la sua vesticciola di cotone. Per altro, la bimba, indovinando d'essere compresa, non chiedeva di più; e anche la bambola doveva contentarsi del suo destino. Le ore della sera, quando tutto taceva intorno, erano le più gradite alle due amiche. Allora Camilla, finito il suo cómpito quotidiano e recitate le preghiere, era beata di stendersi accanto al corpo rigido ma caro della compagna sua; e lì tutta stretta ad esso, dandogli, sotto le coperte, il proprio calore, per modo da potersi figurare di tenere accosto una sorellina di carne e d'ossa, ella le raccontava le sue pene più intime. - Vedi, Giulia, fin da quando ero piccina piccina, ho sempre patito, io. La fame e il freddo no; ma peggio. Ho patito perchè la mamma e il babbo mi trascurano, e perchè non vanno d'accordo. Se loro stessero in pace io riderei e canterei tutto il giorno. Così non rido mai, non canto mai. Ma quando non avevo te stavo peggio, sai!... La pena mi restava nel cuore, e mi pareva di affogare. Come ti voglio bene! E tu, me ne vuoi? Ora tiro il filo! e tu rispondi - T'amo. - No, non lo tiro perchè se sentono la tua voce, guai! - Non diceva la minaccia che la madre le avea fatta di buttar la pupattola dalla finestra, per paura d'addolorare la povera Giulia. Sentiva però che se la sua bambola le fosse stata veramente strappata, qualcosa di tristo sarebbe accaduto anche a lei. Ormai le era impossibile di tornar a vivere come prima, sola sola, contentandosi di veder di lontano il visetto birichino de' fanciulli del vicinato, e i voli delle rondini e de' piccioni, su su in quel pezzetto di cielo guardato per iscorcio dalla finestra del cortile. Una sera che la signora Amalia erasi mostrata più dura con la figliuola, dopo un litigio grave col marito, sempre disoccupato, Camilla aveva pianto a lungo, appoggiata al tavolino, con la faccia nascosta in un fazzoletto tutto fradicio, senza curarsi della bambola, senza neanche guardarla. Davanti a quelle lacrime, la Giulia si sentiva struggere. Aveva veduto chi sa quante volte piangere la Marietta per i capricci che le passavano per la testa, come d'estate passano i nuvoli sul cielo sereno; e siccome, per sua fortuna, la Marietta non aveva alcuna ragione di piangere, alla Giulia quelle stravaganze d'ogni momento non facevano nè caldo nè freddo. Ma i singhiozzi profondi e disperati di Camilla, che viveva davvero in tante tribolazioni, mettevano uno spasimo nell'animo dell'amica condannata a star muta. Ella avrebbe dato tutta la segatura - non avea sangue la poverina! - del

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Nulla - rispondeva invariabilmente la bimba, e abbassava il capo, mentre su la tinta cerea delle guance le si diffondeva un leggiero rossore. Un giorno che la fanciulla stava peggio, la direttrice mandò a chiamare la signora Amalia e la condusse nel proprio gabinetto. - L'ho fatta incomodare, signora Cerchi - disse ella - per avvertirla che Camilla non istà affatto bene. O non se n'è avveduta, lei? Quella si strinse nelle spalle e fece il viso di chi si stupisce; poi rispose: - Le dico la verità, a me, finora, non m'ha dato nell'occhio. La direttrice, ch'era un'ottima madre di famiglia e adorava i suoi quattro figliuoletti, rimase rattristata da quelle parole, e soggiunse: - Io, vede, se avessi una delle mie creature malata come la sua, non so che cosa farei! La Cerchi si morse le labbra, ma si contenne. - Io faccio quello che posso per Camilla - diss'ella - e non è certo colpa mia se non siamo più i signori d'una volta... Temendo d'averla offesa, la direttrice la interruppe con voce più mite: - Lei, signora, non ha seguito quello ch'io volevo dire. Volevo dire che... Camilla, col suo caratterino serio, meditativo, e con la sua gracile salute va tenuta, mi servo d'un termine volgare, in uno scatolino d'ovatta, e... - Che cosa manca a mia figlia? - chiese bruscamente la Cerchi; poi si rimise, e dichiarò: - Del poco che resta in casa è padrona lei; capirà, è figlia unica... Nessuno la sgrida, nessuno la maltratta... - Dio mi guardi dal pensare che si maltratti una bambina, e per di più, malata - interpose la maestra, - solamente, glie lo dico con tutta franchezza, Camilla è d'una sensibilità straordinaria; basta uno sguardo dolce a farla contenta, basta uno sguardo severo a straziarle il cuore... - E io, che cosa faccio per... - Ci pensi; la osservi; veda di farla guarire, poverina! Dietro queste parole, la direttrice salutò la signora Amalia, che se ne andò con le fiamme in viso, irritata della mortificazione ricevuta, benchè questa fosse in termini tanto cortesi. Quando Camilla tornò dalla scuola, fu accolta dalla madre con strilli e rimproveri. Che cosa andava a raccontare alle maestre per farsi compatire a quel modo? Che smorfie faceva con loro, mentre in casa era tutto il santo giorno a gingillarsi con la bambola? La bambina stava in piedi davanti a lei, dritta come una statua, con le braccia cadenti lungo i fianchi, il viso alto, gli occhi fissi. In un'espressione nuova di dolore, il volto le si era ancora di più affilato; le labbra, sbiancate, le tremavano convulsamente. Non batteva ciglio; non diceva una sillaba. In tanto, la Cerchi, alzatasi dalla sua solita poltrona, passeggiava su e giù per la stanza, indispettita. D'improvviso si fermò. La figura interita, ma presso a cadere, della piccina, l'aveva colpita. Per la prima volta vide quel pallore da giglio, quei lividi in torno alle occhiaie, tutte le membra rifinite. Raddolcì la voce, e chiese: - Che hai, si può sapere? Ti senti proprio male? - Io? no - rispose Camilla con accento risoluto. Poi soggiunse, dopo un poco: - Mamma, posso andare? La signora Amalia accennò di sì col capo, e la bambina s'affrettò a chiudersi in camera sua. Costì la Giulia l'aspettava: ella ch'era diventata la confidente di tutto quanto accadeva in quella povera vita monotona e piena di sofferenze. - Mi vuoi bene, tu? - chiese la fanciulla abbracciandosi la bambola. Stettero così un pezzo con gli occhi fissi una nell'altra, e in quello sguardo muto si dissero più cose del cuore, si raccontarono più dolori che se avessero parlato un'intera giornata. - Ora lascia la scopa; finisco io di spazzare - diceva ogni tanto la signora Amalia a sua figlia, nei giorni che seguirono il colloquio con la direttrice. Ma nel mettersi a ripulire la casa, brontolava e sbuffava, in tal modo, ribattendo sempre che il mestiere della serva non era fatto per lei, che, a Camilla, quelle maniere facevano più male di qualunque fatica. Per evitare tutto ciò, ella avea dunque pensato di sbrigare le faccende nell'ore del primo mattino, mentre la madre era ancora a letto: quelle ore in cui una volta s'occupava della sua pupattola cucendole una cosa o un'altra, tanto per vederla pulitina se non elegante. Adesso la Giulia rimaneva anche spesso co' capelli arruffati, perchè l'amica sua non aveva nè tempo nè forza da pettinarla. Però quando la signora Amalia s'alzava, quasi ogni cosa era lesta, perfino calda la tazza del caffè co' biscotti, alla quale ella non avea mai rinunziato. - Perchè non hai dormito un'ora di più? - domandava la madre, contenta non di meno, nel suo egoismo, di veder tutto in ordine senza averci contribuito lei: non tanto per la fatica materiale quanto per il disgusto dell'abbassamento a cui le pareva trovarsi costretta. - Stavo meglio stamane - rispondeva la bimba, asciugandosi la fronte sudata. Ma era una pietosa bugia, di quelle rare bugie che portano tanti anni di paradiso anzichè di purgatorio: perchè in vece di migliorare, quella debole salute s'andava sempre più consumando. Venne poi il tempo in cui la direttrice della scuola scrisse alla signora Cerchi che, per conto suo, per la quiete della sua coscienza, ella non poteva più permettere a Camilla di stancarsi a studiare, e pregava i genitori di tenere in casa la creatura e lì di curarla. - Anche la malattia! Questa mi ci mancava! - esclamò la signora Amalia con un rumoroso sospiro di disperazione rabbiosa. Ma non procurò nè medico, nè medicine; anzi, nemmanco ci pensò, a causa della scarsezza de' suoi mezzi, unica disgrazia che veramente le facesse impressione e le pesasse. Dapprima leggiera, poi un po' più forte, la febbre coglieva quasi tutte le sere la bambina. Verso il calare del sole erano piccoli brividi a intervalli che le davano una scossa fredda in tutto il corpo. Ella badava a stropicciarsi le manine magre, che poi si passava sul viso e su le braccia, tentando inutilmente di richiamarvi un po' di calore. Allora si doveva mettere a letto, e coprirsi bene, fin che il calore venisse e la facesse addormentare. Al mattino, dopo una notte dal sonno interrotto, sentiva una spossatezza generale; per cui le dava fastidio il muoversi; e per sollevare la testa dal guanciale doveva riflettere che c'era da fare, molto da fare in casa. - Mi sento male, Giulia! - diceva piano alla bambola. E la Giulia avrebbe voluto alzarsi in vece sua e ingegnarsi a far lei tutto. Ma pur troppo, queste belle cose succedono soltanto nelle novelle delle fate, e non nelle storie vere, piene di avvenimenti più malinconici che maravigliosi. Sicchè la pupattola vedeva la sua povera amica abbandonare il calduccio del letto e la sentiva tossire, con que' colpi di tosse secca che, in chi ascolta, entra per gli orecchi e si conficca nel cuore. Più in là i brividi si fecero più acuti. La bambina batteva i denti come uno che è nudo nel gennaio; e si doveva accatastare sul letto tutto quel che trovava capace a coprirla: persino il tappetuccio del tavolino, persino i suoi vestiti da estate. Ma dopo, il caldo era terribile; le faceva buttar via tutto da dosso; e allontanare la Giulia, come se la pupattola avesse avuto del sangue nelle vene. In quel calore eccessivo smaniava, senza riposo. Una notte, finita ch'ebbe la bottiglia che si era messa vicino al letto, s'alzò a piedi nudi, trovando un rifrigerio nel freddo de' mattoni, e andò a bere al mesciacqua, attaccandovisi come un'assetata. - T'amo! T'amo! - si faceva dire ogni poco dalla pupattola, quasi che la dolcezza di quella parola avesse potuto farla star meglio. La bambola ripeteva: T'amo; con tutta l'animuccia sua; ma a che pro? Non basta l'affetto a risanare, a salvare le persone amate. Ormai Camilla rimaneva parte della giornata in letto; s'alzava tardi e si coricava presto; non era più buona a sfaccendare in casa; e accorata guardava sua madre, che passava e ripassava, brontolando un poco ma meno di prima, coperta d'un largo grembiule la bella veste da camera, ch'era uno spoglio della signora de' Rivani. Quando il male s'aggravò e la bambina non potè levarsi quasi più affatto, la sua solitudine le sarebbe parsa insoffribile, se quella bambola, piccola immagine umana, non fosse stata con lei. La Giulia sentiva perfettamente la propria azione benefica, e si compiaceva d'esser lì a fianco della povera inferma. Com'era diversa la malattia di Camilla da quella che aveva avuta Marietta per la sua gola! Si ricordava d'aver patito anche quella volta, ma adesso era tutt'altro tormento; e le faceva l'effetto d'aver perfino un cuore diverso per sentirlo. Spesso, voltandosi e rivoltandosi nella smania dell'insonnia, Camilla sbatteva un braccio su la pupattola: e subito la paura d'averla sciupata, più ancora quella di averle fatto male, gliela faceva attirare a sè, e osservarla e carezzarla. Povera Giulia! I suoi bei capelli biondi s'erano aggrovigliati come serpentelli d'oro; di vestirla non se ne parlava più; non sembrava, certo, più lei. Una sera Camilla non istette alle mosse. Chiese con voce fioca: - Mamma, mi dai una camicina? La signora Amalia aprì un cassetto e prese una camicia della figlia. - No, non per me... - fece questa. - O per chi? - Per la Giulia... Sono lì, accanto alle mie, le sue camicine. La madre prese quel che le si chiedeva, ma ci fece la sua brava osservazione: - Sei malata e pensi sempre ai balocchi! Pensa piuttosto a guarire. Camilla avrebbe voluto dirle che per essa la Giulia non era soltanto un balocco; ma stette zitta; e raccogliendo le poche forze che le restavano, si sollevò a stento sul guanciale e lentamente mise la camicia linda, bene stirata, alla sua compagna di letto. Quando la zia de' Rivani seppe che la bambina era tanto malata, venne subito a trovarla, rimproverando la sorella di non averla avvertita prima. La signora Amalia si scusò assicurandola ch'ella avea ritenuto trattarsi di cosa passeggera. Allora cominciarono le visite regolari del dottore, mandato da casa de' Rivani; e Camilla dovette prendere molte medicine disgustose, che non le fecero alcun bene, perchè ormai il suo male era troppo avanti; anzi le stava a dirittura nel sangue fino dalla nascita. - Quando sarai guarita ti regalerò un giocattolo nuovo - le diceva la zia - basta che tu sia ubbidiente al dottore. Un giocattolo nuovo! Non lo desiderava affatto, lei, affezionata com'era alla Giulia. Soltanto, se guariva, avrebbe domandato qualche pezzo di roba da far dei vestiti alla pupattola, ormai in cattivo arnese. Questa miseria dell'amica sua e l'impossibilità in cui ella si trovava per allora di rimediarvi, era il suo principal dispiacere, quasi un pensiero fisso. Ma non ne disse mai nulla alla zia, contentandosi di baciarle piano piano una mano: la bella mano inguantata e odorosa. - Marietta come sta? - era una delle sue poche domande. La Marietta stava bene; ma non aveva voglia di far niente; disubbidiva a più non posso; e una signorina di Berlino che avevano preso in casa perchè la bambina imparasse il tedesco, se n'era andata su due piedi per le impertinenze ricevute.

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222549
Misteri del chiostro napoletano 1 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
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Sino a tanto che non presi il velo, quella donna, incontrandomi, abbassava gli occhi, masticava fra i denti qualche parola di dispetto, e, se lo poteva cangiava di strada. Ma il suo contegno entrò coll'andar del tempo in una fase diversa. Mi fu detto la sera della mia vestizione avermi dessa apparecchiato un piccolo dono, e voler sapere se l'avrei accettato di buon grado. - Risposi, che ad un fatto passato non pensava più. Angiola Maria venne da me tutta ben vestita e adorna, mi presentò il regalo (è questo uso del monastero nei giorni di vestizione o di professione), e si estese in iscuse sull'avvenimento che mi aveva crucciata seco lei. - Le ripetei aver posto il tutto in dimenticanza. Da quel giorno avvenne in lei una metamorfosi: l'orso diventò agnellino. Ogni volta che m'incontrava, atteggiavasi d'insinuante mansuetudine, chiedeva conto della mia preziosa salute, cercava l'occasione di prestarmi i suoi servigi, e se io era indisposta, impadronivasi della mia stanza per tenermi compagnia. Ciò nonostante, i suoi discorsi mi stuccavano oltremodo, e il suo sguardo equivoco mi spaventava. Regionava essa perpetuamente del suo confessore, vagheggiava le proprie forme, il buon gusto del suo vestire, e di tratto in tratto lagnavasi del tradimento fattole dalle due converse della zia Lucrezia, tradimento (a suo dire) tramato ed eseguito con lo scopo di strapparle la sua diletta ragazza, ch'era io. Insomma mi confermava ogni giorno più nell'opinione, che il cervello di quella femmina, non si trovasse nello stato normale. Di lì a qualche tempo, lo sconcerto mentale dispiegavasi in un modo orribile. Alzavasi di notte tempo, per vagare a guisa di spettro, ricusava il cibo, e cadeva ora in isconcie farnetichezze, ora in una cupa fissazione, che prolungavasi fino ad otto o dieci giorni. La pazzia, per mala sorte, le ispirò uno strano desiderio; quello di rientrare al mio servizio particolare, acciocchè, diceva, la passata noncuranza si mutasse a suo favore in affettuosa predilezione. A tal fine non rifiniva d'importunarmi, sostenendo che dovessi allontanare Gaetanella, e riprender lei. - Gaetanella dall'altra parte, e con più ragione, pretendeva che non dovessi più ricever la matta nella mia stanza. E quando io le diceva: "Ma, non vedi che la sventurata è pazza? "Essa rispondeva: "Pazza! scusatemi: è pazza per utile suo." "Se adunque dissimula, a quale utile aspira?" A questa domanda, Gaetanella si mordeva le labbra, e serbava silenzio imperturbabile; il che veniva da me attribuito al risentimento che la muoveva contro la compagna. Anzi ad evitare qualche conflitto fra di loro, tentai più d'una volta di proibire ad Angiola Maria l'ingresso nella mia stanza: ma costei, prosternandosi a me dinanzi, e percuotendosi il capo con ambo le mani, e strillando e piangendo, ripeteva le mille volte: "Deh, non mi scacciate, per pietà! Precipitatemi piuttosto dall'alto della loggia!" Convinta dell'insania che l'affliggeva, e che di giorno in giorno sviluppavasi, lasciai libero sfogo all'umanità, nè feci più conto dell'incredulità di Gaetanella. Allora fu che gli accessi di frenesia incominciarono. Era in quel tempo badessa quella donna inetta, che mi aveva fatto da maestra di noviziato. L'avvertii badasse all'alienata, onde a lei medesima e all'intera comunità non accadesse qualche disastro. "Cerca tu stessa di calmare i suoi furori," mi rispose.... "ascolta meglio la voce tua." "Mi credete dunque maestra, di pazze? O pensate ch'io debba starla a badare giorno e notte?" "Non importa: ci penserà la Madonna," soggiunse la sciocca superiora. L'affare, frattanto, facevasi sempre più serio. A dispetto della disciplina, Angiola Maria si era lasciata crescere i capelli, e, deposto il velo e il soggolo, dividevasi la chioma all'uso secolaresco, dicendo di voler uscire del convento per cercarsi un marito. "Voi mi dite pazza," gridava ne' momenti del parossismo alle monache che la circondavano: "no, non sono io la pazza, per voler marito; pazze, dementi, forsennate non siete voi piuttosto? Voi che, possedendo giovinezza, ricchezze, beltà, e quindi potendo trovar marito più agevolmente, vi state, per mancanza di consorte, intisichendo in questa spelonca? Seguite l'esempio mio, seppur avete in zucca un grano di cervello: buttate via le cocolle, e lasciatevi crescere le treccie, Ut sitis filii patris vestri, qui in caelis est: qui solem suum oriri facit super bonos et malos." Altra volta, malgrado l'intenso dolore che accusava all'occipite, componevasi in goffi e sguaiati atteggiamenti, o, sgambettendo, e scontorcendosi, e crocchiando il dito medio sul pollice, in modo da imitare il ritmo delle castagnette, intuonava con voce stridula e dissonante le strofe di quella canzonetta in dialetto napeletano: "Guè Mà, ca cchiù non pozzo Menà sola sta vita: Io voglio fà la zita, Me voglio mmaretà. Me faje fà vicchiarelle, Me faje jire a l'acito: Guè Mà, voglio o' marito, Non pozzo sola stà. Sì già, s'è mmaretata, Teresa e Luvisella: Pecchè a me poverella Me faje patè accossì? Lo fecatiello a fforza S'à da 'nfelà a lo spito: Guè Mà, voglio o' marito, Non pozzo sola stà." Si sa, che alle monache è vietato di dormire a porte chiuse: tratto di diffidenza non molto onorevole alle spose di Cristo. - Una notte mi sentii sulla fronte il contatto d'una mano ruvida: credetti di aver sognato, e mi riaddormentai. La notte appresso, fu d'altra sorta l'impressione: sentii cadere un bacio sulle mie labbra..... spalancai gli occhi esterrefatta, e vidi l'Angiola Maria, che mi diceva: "Non aver paura, son io." "Che cosa vuoi?" "Niente: non posso dormire." Gaetanella, che abitava nella mia stanza, avendo un sonno pesante, rare volte destavasi; quand'io, spaventata dalla demente, la scossi, borbottò fra i denti: "Non la volete scacciare questa birbacciona?" indi, voltandosi dall'altro lato, riprese il ferreo sonno. Intanto divennero sempre più frequenti queste notturne apparizioni; la mia stanza fu posta in istato d'assedio: poco a poco la folle mi fece vittima delle sue smanianti veglie. Sollevando la cortina del letto, accomodavasi seminuda e scarmigliata sulla seggiola, per tenermi i più strani discorsi; donde non tardai a comprendere, come cagione della sua follía fosse la passione violenta che concepita aveva pel suo confessore. Implorai presso la superiora un pronto riparo. Infiacchita dalle frequenti interruzioni del sonno, snervata dall'incessante apprensione, io mi sentiva vicina a cader malata. La badessa, senza brigarsene di vantaggio, mi rispondeva: "Dio ti aiuterà!" Una mattina, mentre nel coro salmeggiavamo il Mattutino, una conversa venne a chiamar la zia delle due educande amiche di Paolina. Ella andò, e pochi minuti appresso tornò pallida e smarrita, ed accostatasi alla badessa, chiese licenza di lasciar il Mattutino per accorrere in aiuto delle sue nipoti ch'erano state percosse da Angiola Maria. Paolina la seguitò, affine di aiutare le sue pericolanti amiche. Di lì a poco, la badessa, chiamatami a sè col gesto, m'impose d'intervenire nella contesa, per placare col mio ascendente i furori della conversa; ubbidii, non però prima d'averle fatto osservare, che ogni giorno io la supplicava di porre a quell'inconveniente un efficace rimedio. Angiola Maria erasi chiusa a chiave nella sua cella, nè voleva aprirmi. Bramosa di appurare il male che la folle aveva fatto alle educande, andai all'incontro di queste; Paolina, che stava di guardia all'uscio della stanza dove s'erano rifugiate le giovinette, nel vedermi giungere, disse loro stizzosamente: "Ecco colei che ha detto ad Angiola Maria di battervi!" A quest'apostrofe le due educande si slanciano fuor della stanza, non altrimenti che mastini sguinzagliati. Esse non sanno più quel che si dicono: io son fatta l'oggetto del loro risentimento. L'iniqua incolpazione mi fermò di botto. Indisposta da più giorni, urtata nei nervi da morali sofferenze, non resistetti all'inaspettata calunnia, e caddi a terra, dibattendomi in convulsioni. Angiola Maria non aveva riconosciuta la mia voce allorchè le intimava di aprire; la riconobbe nei gemiti dell'attacco nervoso. Spalancò allora la porta con fracasso, e uscì in camicia. Vedutami in quello stato, scostò furiosa quelle che mi stavano attorno; indi, con erculea forza sollevatami nelle sue braccia, mi portò sul mio letto, ove mi profuse le più tenere cure. Quando ricuperai i sensi e la parola, la sgridai fortemente per quello che aveva fatto. Ella, sulle prime, mi ascoltò commossa, ma, ricaduta bentosto nel furore, si lacerò a pezzi la camicia, lo che la fece restare completamente ignuda, e andò a chiudersi di nuovo nella sua cella. L'imputazione appostami da Paolina, mi aveva, di molto mortificata, benchè nuovo non mi fosse il disamore delle giovani monache. Per riconquistare la perduta tranquillità e viemaggiormente scostarmi da persone cresciute ed allevate nel chiostro sin dall'infanzia, per conseguenza digiune d'ogni rudimento di civiltà, profittai dell'opportunità che la matta trovavasi rinchiusa, onde trasferire il mio letto nella stanza della zia; io sapeva altresì che la conversa, memore tuttavia dei trascorsi dissapori, non poneva il piede giammai in quella stanza. Un'ora dopo, la pazza riapre la porta: era vestita per metà. Entra nella mia camera, che dalla sua era separata da altre quattro, e non trovandovi più nè me nè il mio letto, mette orribili strida: indi, trasportata dal furore, impugna un coltello a punta acuta, e misurando a precipitosi passi il corridoio del dormentorio, urla spaventevolmente: "Hanno uccisa la mia ragazza, eh? Saranno scannate tutte quante, come galline nel pollaio!" Non mi mossi dal luogo dove mi trovava; udii le voci che mi chiamavano, ma stetti zitta. Frattanto le monache, che si trovavano nel dormentorio ove la scena accadeva, si chiusero spaventate al più presto; le altre corsero dalla badessa, che con reiterati messaggi mi fece chiamare dalla parte opposta del dormentorio. "Cara Enrichetta," disse nel vedermi, "tu sei la sola, che recar possa un rimedio all'attuale scompiglio della comunità." "E come?" domandai. "Niuna monaca vuol dormire stanotte al secondo piano, dove la frenetica se ne sta. Non mi farai la finezza di riportare il tuo letto nella tua stanza, e farvi inoltre collocare quello d'Angiola Maria? Tu, carina, te la riterrai teco, nè le permetterai di uscire." "Questo è troppo, reverenda!" risposi sommamente indignata. "No: non lo farò. Prima di tutto, per mancanza di sonno, ho un fiero mal di capo; poi, quella meschina è giunta a tal segno d'alienazione da non riconoscere più la mia voce; finalmente, non darò alle malevole motivo di attribuire alle mie suggestioni ciò che farebbe la pazza nel suo furore." "Su, via, non dare ascolto alle chiacchiere di qualche monella: io e la comunità intera te ne saremo gratissime." Opposi in giustificazione il mio malessere: ed infatti, aveva la febbre. La badessa conchiuse, dicendomi: "Hai fatto il voto d'ubbidienza: l'ubbidienza dissiperà il tuo malessere." Per quanto dispotica mi fosse sembrata quell'ingiunzione, dovetti per amore o per forza uniformarmici. Salita adunque al secondo piano, trovai Angiola Maria, che stavasi ancora col coltello in pugno, e perlustrava l'andito, declamando in monologo. Dio mio, quale orrido aspetto! La era una belva, una furia. I suoi occhi, schizzanti fuor dell'orbita, eseguivano le rapide evoluzioni d'una sfera d'oriuolo nel punto di essere scombussolato: i capelli inestricabilmente arruffati; la bocca contorta e schiumante; le narici sbuffanti la collera; il braccio alzato nell'atto di colpire chi primo si presentasse. Mi fermai alla porta del dormentorio, pronta a chiuderla, nel caso che la pazza avesse inveito contro di me. Era sola, nessuna aveva voluto seguirmi. La chiamai: si volse, mi conobbe e corse colle braccia aperte, senza però sbarazzarsi dell'arma. Chiusi la porta, e ne voltai la chiave; essa ricominciò ad urlare di più bello, scongiurandomi di aprire. "Getta, via il coltello," le dissi di fuori: "mi fa paura." Ubbidì. Quando l'udii cader molto lontano, aprii la porta. La pazza mi prese le mani, che strinse nelle sue, e poi le coprì di baci. Il suo stato mi mosse a pietà. Raccolsi il coltello, e la sgridai: mi promise che non l'avrebbe fatto mai più. Mi portai quindi nella sua cella, e fattomi da essa lei aprire i bauli, le tolsi e coltelli e forbici. La misera ubbidiva, senza far motto. Ciò fatto, le dissi che avrebbe pernottato nella mia stanza: al quale annunzio, abbandonatasi di subito alla più stemperata esultanza, si mise a batter le palme, a ridere sgangheratamente. In un momento portò il suo letto nella mia camera, ciò che a Gaetanella fece saltar la mosca al naso. Questa donna soffriva di scorbuto, morbo frequente nell’atmosfera non abbastanza ventilata della clausura. Il sangue, che davano le sue gengive, era da lei creduto effetto d'emottisi, ed ognivolta attribuito alle tribolazioni che quella furba e dissimulata d'Angiola Maria non cessava di suscitarle. Giunse la sera; era il mese d'agosto: alle 8 suonava il silenzio. Mi posi a letto; Gaetanella ed Angiola Maria fecero lo stesso, promettendo quest'ultima di starsi cheta. Ciò non ostante, smaniava, storcevasi, rivoltolavasi da far pietà. Le domandai che cosa avesse. "Non posso stare nel letto," disse, "la testa mi brucia, le orecchie mi tintinnano." Balzò in piedi, schiuse la loggia, e trasse un sonorissimo sospiro nell'aspirare il fresco della notte; poi prese a passeggiare per la camera, pronunziando delle parole incoerenti. "Sposo mio, e in pari tempo mio confessore: che bella cosa! Dovrete, caro Don *** disimpegnarvi da due uffizi.... e quella gaglioffa cerca di trappolarvi, eh....? Ora dovete accompagnare il Sacramento in casa di un moribondo.... non è tempo ancora.... il bacio prima! datemi il bacio prima di andarvene!" E ciò dicendo, apriva le braccia per istringere l'oggetto della sua visione; poi pianse un poco, un poco si smascellò di risa, un poco urlò. Dopo due ore di tal delirio si ricoricò e prese sonno. Gaetanella si era pure addormentata. Io non reggea per la gagliarda febbre. Scesi pian piano dal letto, richiusi il balcone del terrazzo, e mi assopii. Una forte palpitazione al cuore, che spesso m'assaliva, mi risvegliò. Regnava nella stanza perfetto silenzio: non udivasi che la respirazione precipitata della mia conversa. Sollevai la cortina per vedere ciò che la matta facesse .... Il letto era vuoto. Mi posi a sedere sul mio, guardai, riguardai all'intorno: non c'era. Chiamai Gaetanella, le dissi che Angiola Maria se n'era scappata; mi rispose: "E che m'importa? Se ne vada pur alla malora!" Lasciato il letto, indossai una sottana. I panni d'Angiola Maria stavano sopra una sedia, le scarpe sotto il letto. Cacciai la testa dall'uscio: il dormentorio era deserto. Uscíi con precauzione e m'avviai verso la cella della matta; la chiamai per nome: non rispose. M'intromisi in un secondo dormentorio: era agli angoli illuminato da due semispenti fanali, che non facevano se non aumentare la sinistra oscurità. Ivi rimasi a riflettere, se volgere a dritta o a manca. Risolvetti per la sinistra, e lentamente avanzando m'avvicinai ad uno dei detti fanali. Terminava quel dormentorio con un pozzo da un lato ed una grande galleria dall'altro. Questa galleria, disabitata per causa della sua immensità, destava orrore pur anche di giorno. Pessime dipinture a fresco di santi anacoreti e di romiti vestivano le sue pareti, santi e romiti a faccia lunga e sparuta, a tinta cadaverica, a barba sperticata, i quali per antica tradizione, e al dir delle monache, avevano parlato, camminato, suonato le campane, cantata la messa a mezzanotte, ec. Le gambe mi tremavano, parte per effetto di quella superstizione, al cui assalto non può resistere alcuno in certe circostanze, parte per la tema di ritrovare Angiola Maria stramazzata in qualche luogo, il cui buio avrebbe resa più spaventevole la scena. Già stava per voltare dal canto della galleria, allorchè parvemi veder brulicare qual cosa di bianco in vicinanza del pozzo. Mi rimescolai: era la pazza, che, scalza, scarmigliata, in camicia, guardava nel pozzo, e ne misurava il fondo per precipitarvisi. Entrambe le mani sue stavano poggiate sull'orlo, e colla testa curvata faceva forza sulle braccia per rovesciarsi a capitombolo. Mandai un urlo: mi udì, si volse a guardarmi, e senza più indugiare sforzossi di accelerare lo squilibrio del corpo, affine di potersi più prestamente precipitare. Spicco un rapido salto, e, stese le mani su di lei, l'afferro per un braccio, che sento agghiacciato dal freddo. Ella si rivolge a me con occhi stravolti, ciechi d'ogni pensiero, non mi riconosce e tenta di svincolarsene, come infatti si distacca. L'abbranco per l'altro braccio che ritengo con ambo le mani, e mi stringo con quanto vigore m'infonde la circostanza. Ma sento che la sua forza supera di molto la mia, e già veggo la furente intenta ad addentarmi il polso. Volli stordirla per salvarla. Coll'uno de' bracci la trattengo ferma tuttavia, coll'altro le assesto al volto un potente schiaffo. A quella percossa rientrò per un momento in sè, e proruppe in alti ululati. La presi allora per la mano e la ricondussi senza più tema o fatica nella mia stanza. Ivi si pose a sedere a terra, guaì ancora per un paio d'ore, poscia, racconsolatasi, riprese di nuovo l'incoerente ciarla. In questo mentre Gaetanella, che, turbata dai singulti della pazza, non potea riprender sonno, si alzò ed uscì. Io pur mi vestii, benchè intirizzita dal freddo febbrile che mi faceva battere i denti. Sorta l'aurora, scrissi al generale Salluzzi, invitandolo a venire da me. Al vedermi tanto pallida e febbricitante quell'amico generoso non potè a meno di amaramente condolersene. Poco appresso si recava dal canonico Savarese, allor vicario pro tempore, e lagnavasi energicamente con esso lui, del ticchio venuto alla superiora, di farmi fare la custode di pazze. Per ordine di Savarese venne a visitar la matta il dottore Cosimo Meo. Costui, nel vederla da lungi, esclamò: "Non solo è matta, ma la è pure furiosa. Chiamate tosto il flebotomo." Otto robuste converse furono appena bastanti a contenere i suoi furori nel momento che fu operato il salasso al piede; non cadde dentro la catinella una sola goccia del sangue: spruzzò tutto sulle converse, sul salassatore, ed in gran copia al suolo. Il medico ordinò che molti bagni colla neve sul capo le fossero amministrati, e promise che nella giornata stessa avrebbe mandata una donna del mestiere per domar la furente; esser, del resto, espressa volontà di Savarese, che la badessa trovato avesse un manicomio, essendo quella. pazzia, per la forte complessione della sofferente, di quella tale classe, che senza mezzi violenti non si frena. Tranquillatami su di questo argomento, scrissi tosto al generale una lettera di ringraziamento. Il mio letto si ricolloco nella stanza della zia, e fui sollecita a coricarmi, non reggendo più in piedi. Venne la maestra delle pazze, si diedero i bagni freddi alla sventurata, ma il male infierì. Chiusa adunque in una carrozza colla donna che l'assisteva, fu mandate a Calvizzano, ove un prete teneva una casa di salute per i dementi; ma i rimedi tornarono vani anche colà. Assoggettata al camiciotto di forza, non sopravvisse qualche tempo, se non per sentire nel viaggio alla morte tutti i tormenti immaginabili. Intanto questo incidente aveva aumentato il mio aborrimento pel monastero. Ormai conosceva appieno l'egoismo delle monache: le quali per segreto accordo avevano tentato di farmi morire, mettendo esse due cose in salvo: prima, la loro tranquillità a detrimento della mia salute, e forse con pericolo della mia vita; poi, la spesa d'una donna, che badato avesse alla vittima del loro regime. La spilorceria del convento eclissa benanche quella d'Arpagone e di Sherlock.- Per uscire da quella bolgia soffocante, avrei ben immaginato qualche mezzo idoneo, ma qual dolore non avrei recato alla zia! Un altro fatto consimile, e non meno tragico, avvenne dopo l'uscita d'Angiola Maria. Era, sotto la mia direzione, addetta alla confezione degli sciroppi e distillati per uso della farmacia una conversa chiamata Concetta, compaesana della povera pazza, essendo entrambe dell'Afragola; bella donna di 36 anni, alta, robusta, d'un incarnato maraviglioso, cui dava risalto un grosso neo alla guancia sinistra: bocca gentile fornita di splendida dentatura: occhi cerulei, capelli castagni lucidissimi, leggermente increspati all'estrermità, e sboccanti da sotto il soggolo nell'una e nell'altra ciocca. Il solo naso pregiudicava quel raro tipo di beltà, essendo soverchiamente aquilino. Nell'esercizio de' suoi doveri Concetta mostravasi esattissima, e la sarebbe stata in tutto esemplare, se stata non fosse un po' vanarella e civettuola nel parlatorio. Io aveva osservato ch'ella accordava molta domestichezza ad un giovane facchino del locale. Nelle lunghe giornate d'estate, mentre tutte meriggiavano, la sorpresi più volte affacciata ad una finestrina, che è vicino alla chiesa e guarda la Via San Biagio dei librai. Queste osservazioni mi avevano persuasa che la non era contenta del suo stato, e che molto volentieri avrebbe abbracciato quello del matrimonio. La disgrazia della sua paesana e compagna le avea fatto una impressione spiacevolissima, e sempre che ne sentiva ragionare, stralunava gli occhi in modo da metter paura. Questo suo stato morale durò per alcuni mesi; se non che la follía che già prendeva radice, manifestossi in lei sotto una forma diversa, quella dell'ipocondria. Ritiravasi spesso in luoghi appartati per dar libero sfogo alle lagrime che l'opprimevano; fuggiva la conversazione e mormorava sola; non atteggiava mai la bocca al riso, obliava di leggieri gli ordini ch'io le dave, confondeva le medicine, e se entrava in discorso, lo faceva solo per indirizzare mille domande sulle strade di Napoli, sulla libertà personale degli abitanti, sulla beatitudine di coloro che ne possono godere, ed altre cose simili. A sgravio di coscienza, come infermiera, avvertii la badessa che lo stato di Concetta meritava attenzione, e chiesi un'altra conversa per la farmacia; poichè quella imbrogliava i medicamenti, perdeva il tempo a cambiarli dall’uno all’altro scaffale, ed attaccava il cartellino d'un farmaco al barattolo di un altro; conchiusi dicendo di non voler restare responsabile d'ogni disastro che potesse accadere.- Rispose l'inetta donna: "Sai, mo, che tu sei l'uccello del cattivo augurio?" Mi tacqui allora, nè più parlai sul conto di Concetta. Ma di lì a pochi giorni una contadina, sorella della stessa, avvedutasi di ciò che io pure aveva osservato, chiamava la badessa al parlatorio, onde pregarla di prendere in considerazione lo stato mentale della germana. - Rimase anche quest'avvertimento senza effetto. La balorda badessa ristringevasi a rimetter la inferma sotto la protezione della miracolosa Vergine dell'Idria, superiore patrona del convento. Poco dopo, una vecchia che dormiva con Concetta nella stessa stanza, le disse avere sul far del giorno veduta la sua compagna seduta sul letto, nell'atto di avvolgersi un fazzoletto alla gola, e soltanto le sue grida aver impedito che la si fosse strangolata di propria mano. "Stasera alle litanie farò dire quaranta volte ora pro ea," rispose la badessa. Un giorno di domenica, prima del levar del sole, molte monache stavano ascoltando la santa Messa. Si scende al comunichino per una lunga scala, che mena in un cortiletto umido, intorno a cui gira uno stretto corridoio a vôlta altissima, e sostenuto da pilastri.- Io scendeva per comunicarmi; era appena arrivata alla metà della scala, quando intesi un forte rumore, come di grave corpo caduto a terra. Mi coprii il volto colle mani: senza aver veduto niente, il pensiero mi corse all'ipocondrica Concetta. Scesi precipitosa, e trovai l'infelice in terra: me l'accostai, la credetti morta, e chiamai aiuto. Più di quaranta monache stavano riunite nel comunichino per la Messa: m'udirono gridare: nessuna uscì. Ne scese finalmente una, coll'aiuto della quale sollevai da terra la conversa, e l'adagiai sopra un seggiolone priva di conoscenza; indi, suonato il campanello della sagrestia, feci venire un prete per assisterla. Aveva la gamba sinistra lussata e tutta grondante di sangue. Era caduta a piombo sopra uno dei pilastri che reggevano la vôlta, così la polpa della gamba ne fu orribilmente straziata. - Appena potè articolare qualche parole, due facchini con manovelle passate sotto la sedia la portarono nella sua stanza. Il prete la seguì, ma dovette presto lasciare la camera, poichè la sventurata con un segno indicò che non lo voleva vicino a sè. Il luogo dove Concetta erasi gettata, era presso la chiesa. Le monache, dopo la Messa, uscendo dal comunichino, presero a strepitare intorno all'accaduto sì forte, che alla gente radunata in chiesa parve fosse avvenuta la ruina del monastero. Il sospetto venne confermato dal portamento del prete, che frettoloso e trambasciato se ne uscì di chiesa per entrare nel convento. Circa due ore dopo sopravvennero un ispettore di polizia e un cancelliere con uno stuolo di birri, per procedere all’accesso. La badessa vuol impedire l'entrata di quei profani nel chiostro, ma essi insistono a volervi penetrare. "Sapete bene signor mio, che senza ordine espresso del Santo Padre mi è vietato di ricevere nella clausura chicchessia, fosse pur egli lo stesso sovrano." "E voi, reverendissima, non dovete ignorare come l'ordine pubblico è superiore agli ordini che potete aver avuti da Roma." "Mi fate trasecolare. In qual modo pensate che nel mio monastero sia stato infranto l'ordine pubblico?" "Corre voce che una conversa sia stata precipitate con dolo e premeditazione dall'alto del secondo piano e miseramente infranta: nè manca chi questo turpe misfatto imputi a V. S. R." Figuratevi lo stupore della badessa! - Con mille inchini, li fece immantinenti entrare, ed ella stessa li condusse alla presenza di Concetta, la quale, alla scossa ricevuta dalla caduta, avea per poco ricuperata l'integrità della ragione. Subì essa l'interrogatorio con mirabile disinvoltura, e depose il vero, attestando di essersi precipitata da sè sola, e per irrefrenabile desiderio di morte. Domandata per qual ragione avesse attentato ai suoi giorni, ella, educata a' doveri religiosi più vivamente che non lo sono le donne secolari, trasse un profondo gemito, e provossi a rispondere; ma, o perchè inabile ad articolare suoni, o perchè pentita, si tacque: poi sbadigliò per modo da sgangherarsi le mascelle, stralunò gli occhi, respinse villanamente la mano dell'inquirente, e ricadde nella demenza. L'ispettore, steso il verbale, se ne partì. Ma tutto il peso di questa catastrofe non gravava sulla coscienza della badessa? Nel mentale turbamento che da più mesi travagliava quella misera, non era dover suo di farla assiduamente sorvegliare? Contiguo alla stanza dell'alienata eravi un camerino destinato a guardaroba; ivi fu trovata una fune con un nodo scorsoio in mezzo, ed in un prossimo ripostiglio si rinvenne inoltre un cartoccino di veleno. Era chiaro ch'ella aveva titubato intorno al genere di morte da scegliere, sospesa fra l'arsenico ed il capestro. Di lì a poco venne il cardinale Riario Sforza, esaltato recentemente alla sede arcivescovile di Napoli. Egli apostrofò acremente la badessa, sì per aver menato tanto scalpore male a proposito, sì per aver permesso a' poliziotti di violare colla loro presenza il sacro rifugio delle vergini. "Sapete voi," le disse in tuono severo, "qual sia rispetto ai chiostri l'opinione dei sedicenti filosofi e liberali? Credono essi che nei vostri recinti regnino il rimpianto e la disperazione, ossia, che tutte le vostre monache siensi pentite del loro stato. Or voi, colla pubblicità data ad un fattarello di sì lieve momento, non avete forse dato appiglio alle calunnie del secolo? Se il monastero non è una tomba come i santi canoni la richieggono, perchè ne porterebbe dunque il nome? I vivi non devono sapere giammai le intime peripezie del sepolcro." L'infelice Concetta sopravvisse altri venti giorni, finchè la gamba non le si cancrenò. Non mi dipartii dal suo fianco altro che al tócco della campana ogni mattina e sera, nè cessai di prodigarlei doverosi conforti di carità. Spesso l’udii mormorare da sè sola, tal altra volta la vidi conformare il sembiante a mesto sorriso, benchè afflitta da doglie acerbe. Da alcuni tronchi accenti compresi che la poveretta trovavasi in un critico stato, che voleva con la morte nascondere. Supina sul letto di morte, con gli occhi inchiodati al soffitto, sovente diceva con sè stessa: "Sì..... se la morte non giungerà sollecita..... inevitabilmente tradita....... già il seno........ maledetto!...... scomunicato!.... vattene alla malora, nè mi parlar di Cielo e di Madonna; se la Madonna soccorre gli sventurati, perchè dunque non viene in soccorso a me ed alla creatura che mi sento nelle viscere?" Favellò il più delle volte d'un giovine dagli occhi neri, che era stata solita di vagheggiare dal finestrino presso la chiesa, nè si lasciò persuadere a ricevere il prete e i Sacramenti. Abbandonata alla più cupa, disperazione non cessò di ripetere le mille volte ch'ella era irreparabilmente dannata. Orride, strane allucinazioni sopravvennero a funestarle gli estremi istanti. Di notte tempo mentre tutte dormivano, tranne due o tre che vegliavano al suo fianco, gridava: "Questo luogo è infestato da' demonii.... eccoli là.... li veggo.... uno per uno! Ohè, perchè tu in codesto angolo fai mille sberleffi? E tu in codest'altro, perchè scuoti le pareti, urtando colle corna la soffitta?" Altre volte diceva: "E voi, anime innocenti, non contaminate d'impurità, fuggite, involatevi presto dal mio contatto! Se ne usciste macchiate, ohimè, non basterebbero tre anni di penitenza a purgarvene!" Le monache perfettamente convinte che la delirante fosse ossessa da spirito maligno, pensarono di farla esorcizzare da un monaco crocifero; nè è a dire l'universale spavento all'idea che il monastero fosse invaso da' demonii. L'esorcismo fu praticato con imponente solennità, ma non ebbe alcun effetto. Le monache tutte affollate nel luogo della cerimonia, e facendosi continuamente segni di croce, si aspettavano a bocca aperta di veder sbucare dal corpo dell'invasata la figura di Satanasso; ma la curiosità loro fu delusa: non era ancor vicino il nono mese. Il sacerdote non potè entrare nella stanza per recitare qualche prece, se non nel solo momento in cui l'infelice esalava lo spirito. Restitui essa l'anima al Creatore intorno al vespro. La beltà che nell'assenza della ragione erasi spenta, riapparve commovente sull'esanime spoglia di quella infelice. Quale serenità rifluì allora sulle sue fattezze, insino a quel punto sconvolte dalla follía, tramutate dall'occulto cordoglio! Era sul tramonto. Un raggio di sole morente, dardeggiato traverso le imposte della finestra, venne per un momento a posarsi sul sembiante della morta, a baciarle tremolando la punta delle ciocche..... Anche quel messaggiero della divina misericordia un momento appresso era scomparso! Ella se n'era ita libera: io rimaneva. Sfogliai un mazzo di purpurei garofani, e ne versai un pugno sul corpo della defunta.

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