Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassava

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PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Supina, col petto che si sollevava e si abbassava pel respiro affannato, con gli occhi intorbidati, spalancati e fissi nel vuoto, il viso disfatto, il naso filiginoso, l'inferma rantolava stancamente a intervalli, che di mano in mano diventavano più lunghi e più strazianti. Nella camera, silenzio profondo. Patrizio era caduto in ginocchio davanti al letto, inebetito, con le mani giunte in atto di preghiera; e a quella vista si erano inginocchiati anche gli altri, tranne Eugenia e Giulia che la sosteneva da un lato. Eugenia si sentiva trattenuta in piedi dal fascino delle torbide pupille della morente che le parevano fissate intensa- mente su lei, piene del loro ultimo cruccio, quasi maledicenti insieme con quel rantolo che le sembrava parola. "No! No! ... Perché? ... Mamma, perché?" avrebbe voluto gridarle. Ma la sua lingua era legata. Sopraffatta da un orrore nuovo, Eugenia sentiva in tutto il corpo il rapido ridestarsi del suo male, creduto domato; e tremava, tremava senza poter distogliere lo sguardo dalle torbide pupille che lo evocavano su, con terribile malia, da tutte le parti del suo corpo, dove la cura del dottor Mola lo aveva già ricacciato. "No! No! Oh, mamma! ... Perché? Perché?" Portò le mani alla gola per tentar di sciogliere il nodo da cui si sentiva soffocata, e si rovesciò indietro con un ranto- lo che si confuse con l'ultimo fioco rantolo della morente. Patrizio non sentì niente, nè vide Giulia e Ruggero portar via la povera Eugenia che si agitava violentemente. I suoi sguardi eran rimasti inchiodati sul volto, immobile e senza vita neppure negli occhi, di colei che era stata la prima, la più grande, l'unica adorazione del suo cuore. Non poteva affatto persuadersi che già fosse cadavere; e gli pare- va impossibile che, dopo così terribile scena, egli potesse ancora continuare a vivere e a pensare! Non piangeva, non diceva nulla, restava là in ginocchio, con le mani giunte, opponendo tutta la inerzia del suo corpo affranto al dottore, a Zuccaro e a Griffo che volevano portarlo via. E rifletteva, come in vaneggiamento muto: "Morta! Morta senza potermi dire una sola parola! Morta, forse, senza aver sentito la mia voce! Morta in questo mo- do, quasi abbia voluto andarsene per sempre col broncio, con la collera che mi ha mostrato fino a pochi giorni fa, ineso- rabile, implacabile! Che orrore!" "Rassegnatevi! Fate la volontà di Dio!" gli ripetè il dottor Mola prendendolo per le braccia. Il pianto gli scattò dal cuore tutt'a un tratto, e singhiozzando "Mamma! Mamma!" si rizzò per coprire di baci e ba- gnare di lacrime la squallida faccia della venerata sua morta.

CENERE

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Deledda, Grazia 3 occorrenze

Egli abbassava e sollevava gli occhi lucenti (che le cure di zia Tatàna avevano guarito perfettamente), e cercava di nascondersi dietro del padre. «Dunque, rispondi al padrino!», esclamò il mugnaio scuotendolo. «Che cosa ti farai, diavoletto?» «Mugnaio?», chiese la signora. Egli accennò di no, di no. «Ah, non ti piace? Contadino?» No, e sempre no. «Ebbene, vuoi studiare?», chiese astutamente il mugnaio. «Sì.» «Ah, bravo!», disse il signor Carboni, «tu vuoi studiare? ti farai prete?» «Ancora no.» «Avvocato?», chiese il mugnaio. «Sì.» «Diavolo! Diavolo! Lo dicevo io che ha gli occhi vivi! Vuol farsi avvocato il piccolo topo!» «Ah, caro mio, siamo poveri», osservò sospirando il mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà», disse il padrone. «Non mancherà!», ripeté come eco la padrona, queste parole decisero il destino di Anania: ed egli non le dimenticò mai più. Il frantoio venne definitivamente chiuso, - per quell'anno, - ed il mugnaio si trasformò del tutto in contadino. Una primavera ardente ingialliva già le campagne; le vespe e le api ronzavano intorno alla casetta di zia Tatàna; il grande sambuco del cortiletto coprivasi di un meraviglioso merletto di fiori giallognoli. Nel cortile d'Anania conveniva quasi sempre tutti i giorni la compagnia che già usava riunirsi nel molino: zio Pera col randello, Efes e Nanna costantemente ubriachi, il bel calzolaio Carchide, Bustianeddu ed il padre, nonché altre persone del vicinato. Inoltre Maestro Pane aveva messo su bottega in un bugigattolo in faccia al cortiletto; tutto il santo giorno era un viavai di gente che rideva, gridava, s'insultava, diceva male parole. Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconcie, abituandosi allo spettacolo dell'ubriachezza e della miseria incosciente. A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

, ma non si abbassava mai a giocare con lui. Gli anni passarono. Dopo la maestrina dai baffi venne la volta del maestro che pareva un gallo; poi d'un vecchio maestro tabaccone che additando l'isola di Spitzberg diceva piangendo: «qui fu imprigionato Silvio Pellico»; poi di un piccolo maestro dalla testa rotonda, pallido, molto allegro, che si suicidò. Tutti gli scolari rimasero morbosamente impressionati dal fatto doloroso; per molto tempo non pensarono e non parlarono d'altro, ed Anania, che non sapeva persuadersi come il maestro si fosse potuto uccidere mentre era un uomo allegro, dichiarò in piena scuola che era pronto a suicidarsi alla prima occasione. Fortunatamente l'occasione mancava; egli in quel tempo non aveva dispiaceri; era sano; amato dai suoi, sempre primo nella scuola. Intorno a lui la vita si svolgeva sempre eguale, con le stesse figure ed i meschini avvenimenti, - un giorno simile all'altro, un anno simile all'altro, - come la stoffa a disegni eguali che il mercante svolge dall'interminabile pezza. D'inverno convenivano nel frantoio sempre le stesse persone, gli stessi tipi, e si rinnovavano le stesse scene. In primavera il sambuco fioriva nel cortiletto, le mosche e le api ronzavano nell'aria luminosa; nelle strade e nelle case si delineavano sempre le stesse figure; zio Barchitta il pazzo, con gli occhi azzurri fissi e la barba ed i capelli lunghi, simile ad un vecchio Gesù mendicante, continuava nelle sue innocue stravaganze, - Maestro Pane segava le assi, e parlava fra sé a voce alta. - Efes passava barcollando, - Nanna lo seguiva, - i bambini laceri giocavano coi cani, i gatti, le galline, i porcetti, - le donnicciole si bisticciavano, - i giovanotti cantavano cori melanconici nelle notti serene illuminate dalla luna, il lamento di Rebecca vibrava nell'aria simile al canto del cuculo nella tristezza d'un paesaggio desolato. Come appare il sole in uno squarcio improvviso di cielo velato, qualche volta appariva nel misero vicinato ove Anania viveva, la florida figura del signor Carboni. Le donne uscivano sulla porta per salutarlo e sorridergli; gli uomini disoccupati, sdraiati indolentemente al sole, balzavano in piedi arrossendo; i bambini gli correvano dietro, baciandogli le mani ch'egli teneva bonariamente intrecciate dietro la schiena. Durante un rigido inverno di carestia egli provvide di polenta e d'olio tutto il vicinato. Tutti ricorrevano a lui per piccoli prestiti che non venivano mai restituiti: qua e là, per tutte le stradette dove il vento portava foglie, paglia e immondezze, egli incontrava bambini e ragazzi che lo chiamavano «padrino» e donne ed uomini che lo chiamavano «compare»; ormai non ricordava più il numero dei suoi figliocci, e zio Pera affermava malignamente che non poche persone si fingevano compari e comari del padrone per carpirgli danari. «Eppoi molti sperano che egli aiuti negli studi i loro figliuoli!», disse un giorno il vecchio ortolano, seduto davanti al forno del frantoio, col randello sulle ginocchia. «Eh, qualcuno ne aiuterà bene!», osservò il mugnaio, con evidente compiacenza, guardando Anania che stava affacciato alla finestra. «Non più d'uno! Il padrone è un po' vano, ma non si rovina, poi!» «Che dite voi, vecchia cavalletta!», esclamò il mugnaio, adirandosi. «Come il diavolo, voi, più invecchiate, più diventate maligno.» «Andiamo!», riprese il vecchio raschiando e tossendo. «E le cose forse non si sanno? Ebbene, solo i cani riescono a nascondere le loro immondezze. Perché il padrone non fa studiare i suoi bastardi?» Anania, che guardava alla finestra, sotto la quale odorava un mucchio di sanse fumanti, sentì un fremito di dolore, come se qualcuno l'avesse percosso. Il mugnaio raschiò e tossì a sua volta, e avrebbe voluto che Anania non udisse le parole sacrileghe dell'ortolano, ma anche lui non poté contenersi, e cominciò ad inveire contro zio Pera. «Schifoso, maligno, topo morto, che modo di parlare è il vostro?» «E che le cose non si sanno?», ripeté il vecchio, prendendo il randello in mano, come per difendersi da un possibile attacco. «Il bambino che lavora nella bottega di Franziscu Carchide è forse figlio di Gesù Cristo'? Ebbene, perché il padrone non fa studiare quel bambino, che è suo?» «È il figlio d'un prete», disse il mugnaio, abbassando la voce. «Non è vero. È del padrone. Osservalo; è tal e quale a Margarita.» «Ecco», rispose il mugnaio completamente disarmato, «quel bambino è cattivo come il diavolo: non si può far studiare. Si può combattere contro le pietre?» «Ah, bene!», mormorò zio Pera, ripreso da un attacco di tosse. Anania stette ancora alla finestra, sputando sul mucchio di sanse, oppresso da una misteriosa tristezza. Egli conosceva il ragazzetto che lavorava presso il Carchide, e sapeva che era discolo, ma non più di Bustianeddu e d'altri ragazzi che frequentavano la scuola. Perché il signor Carboni non lo prendeva in casa sua, se era suo figlio, come lui era stato preso dal mugnaio? Poi pensò: «Ha madre, quel ragazzetto?». Ah, la madre, la madre! A misura che egli cresceva, che la sua mente aprivasi e le sue idee e le sue percezioni prendevano forma, il pensiero della madre delineavasi sempre più chiaro nel crepuscolo della sua coscienza nascente. In quel tempo egli frequentava la quarta elementare, tra fanciulli di ogni condizione e di ogni carattere, e cominciava ad aver sentore della scienza del bene e del male. Si vergognava già coscientemente se qualcuno alludeva a sua madre, e ricordava di essersene sempre vergognato per istinto; e nello stesso tempo provava un desiderio struggente di sapere ove ella era, di rivederla, di rimproverarle la sua fuga. Già la terra ignota, lontana e misteriosa, ove ella s'era rifugiata, prendeva ai suoi occhi linee e parvenze decise, come la terra che tra i vapori dell'alba s'avvicina al naviglio viaggiante. Egli studiava con piacere la geografia, e sapeva già perfettamente l'itinerario da percorrere per arrivare dall'isola a quel continente dove si nascondeva sua madre. E come un tempo, nel villaggio dell'alta montagna, sognava la città dove viveva suo padre, adesso pensava alle grandi città di cui leggeva notizie nei libri di scuola, ed in una di esse, ed in tutte, vedeva sua madre. L'immagine fisica di lei si scoloriva sempre più nella sua memoria come una vecchia fotografia, ma egli se la figurava sempre vestita in costume, scalza, svelta e triste. Un fatto accaduto qualche anno appresso sconvolse però le sue fantasticherie. Fu il ritorno della madre di Bustianeddu. In quel tempo Anania frequentava il ginnasio ed era segretamente innamorato di Margherita Carboni: si credeva quindi già una persona seria, e finse di non interessarsi al fatto che commoveva tutti i suoi vicini di casa, mentre invece vi pensava giorno e notte. Oppresso da un cumulo d'impressioni dolorose. Egli non vide presto la donna, nascosta in casa di una sua parente, ma giorno per giorno riceveva le confidenze di Bustianeddu, che era diventato un giovinetto serio ed astuto. Siccome zio Pera perdeva le forze, s'era associato il mugnaio nella coltivazione delle fave e dei cardi. Anania aveva quindi libero ingresso nell'orto, e amava studiare seduto sull'erba del ciglione, nella corta ombra dei fichi d'India, davanti al selvaggio panorama dei monti e della vallata. Qui Bustianeddu veniva a trovarlo ed a confidargli i suoi pensieri. «È tornata!», diceva, steso a pancia a terra sull'erba, e muovendo le gambe in aria. «Era meglio che non tornasse. Mio padre voleva ammazzarla, ma poi s'è calmato.» «L'hai veduta?» «Sicuro che l'ho veduta. Mio padre non vuole che io vada da lei, ma io ci vado egualmente. È grassa, vestita da signora. Io non l'ho riconosciuta, diavolo!» «Tu non l'hai riconosciuta!», esclamava Anania, palpitando, meravigliandosi di Bustianeddu e pensando a sua madre. Ah, egli l'avrebbe riconosciuta subito! Ma poi diceva a se stesso: «Anche lei sarà vestita da signora, pettinata alla moda ... Dio, Dio, come sarà?». «In tutti i modi la riconoscerei, oh, ne sono certo!», pensava poi, confidando nel suo istinto. «Perché è tornata tua madre?», chiese un giorno a Bustianeddu. «Perché? Oh, bella, perché questo è il suo paese. Essa cuciva a macchina, in una sartoria di Torino; era stanca ed è tornata.» Un grave silenzio seguì a queste parole: i due ragazzi sapevano che la storia della sartoria era una menzogna, ma l'accettavano incondizionatamente. Anzi, dopo un momento, Anania osservò: «Ed allora tuo padre dovrebbe far la pace». «No!», disse Bustianeddu, fingendo di dar ragione a suo padre. «Ella non aveva bisogno di lavorare per vivere!» «Oh, che tuo padre non lavora? È vergogna lavorare?» «Mio padre è un negoziante!», corresse l'altro. «Che farà ora tua madre? E tu con chi andrai a stare?» «Chi lo sa!» Di giorno in giorno, però, le notizie diventavano sempre più emozionanti. «Se tu sapessi quanta gente viene da mio padre per pregarlo di far la pace con lei! Anche il deputato, sì. Poi venne la nonna, ieri notte, e disse a mio padre: "Gesù perdonò alla Maddalena; ebbene, figlio mio, pensa che siamo nati per morire; pensa che al di là noi rechiamo con noi solo le buone azioni. Guarda come è desolata la tua casa; i topi vi fanno continuamente festa".» «E tuo padre?» «"Andate via", disse arrabbiandosi, "andate via subito; vergognatevi."» «Ed ora», disse Bustianeddu il giorno appresso, «ora s'è immischiata anche zia Tatàna! Che sermone ha fatto! "Ecco" ha detto a mio padre, "figurati di prendere in casa un'amica. Prendila: ella è pentita, si emenderà. Se tu rifiuti chissà che cosa avverrà di lei! Re Salomone aveva settanta amiche in casa sua ed era l'uomo più savio del mondo"». «E lui?» «Duro come la pietra; anzi disse che le amiche fecero perder la testa a Salomone.» Infatti il negoziante non si piegò mai; e la donna andò ad abitare dall'altra parte del paese, verso il convento ov'erano le scuole; rivestì il costume, ma un costume un po' falsato, arricchito di nastri e di merletti, e dal quale si riconosceva subito la donna di fama equivoca. Il marito non perdonò, ed ella continuò la sua vita. Anania la vide un giorno, e poi sempre, mentre si recava al ginnasio; ella abitava una casa nerastra, intorno alle cui finestre biancheggiava una striscia di calce che terminava in una croce. Sotto la porta c'erano quattro scalini, e spesso la donna, che era alta e bella, sebbene non più giovanissima e molto bruna di viso, stava seduta sugli scalini, cucendo o ricamando una camicia paesana. In estate rimaneva a testa nuda, coi capelli nerissimi rialzati un po' a ciuffo sulla breve fronte, e teneva un fazzolettino di seta grigia intorno al lungo collo. Anania arrossiva ogni volta che la vedeva; provava una morbosa simpatia per lei, e nello stesso tempo gli pareva di odiarla. Avrebbe voluto cambiar strada per non vederla, ma una forza occulta e maligna lo attirava sempre in quella via.

Anania avrebbe voluto spegnere il lume e restare al chiaro di luna, solo con lei, e caderle ai piedi, e chiamarla coi più dolci nomi; ma non poteva, non poteva, sebbene s'accorgesse che anche lei sollevava e abbassava gli occhi con delizioso terrore, in attesa del suo grido d'amore. «Ha letto, tuo padre?», egli chiese a bassa voce. «Sì, ha letto; e rideva», ella rispose, commossa. «Rideva?» «Sì, rideva. Alla fine mi diede il foglio e disse: "Chi diavolo sarà?".» «E tu? E tu?» «Ed io ... » Essi parlavano piano, ansiosi, già avviluppati dal mistero di una complicità deliziosa; ma improvvisamente Margherita cambiò voce ed aspetto. «Oh, ecco papà. C'è Anania!», esclamò correndo verso l'uscio; e uscì rapidamente, mentre Anania ricadeva nel massimo turbamento. Egli sentì la mano calda e molle del padrino stringere la sua, e vide gli occhi azzurri e la catena d'oro scintillare, ma non ricordò mai precisamente i buoni consigli e le barzellette che il padre di Margherita quella sera gli prodigò. Un dubbio amaro lo tormentava. Aveva o no capito Margherita il vero significato del sonetto? E che ne pensava? Ella non aveva detto nulla a proposito, nei preziosi istanti che egli s'era così stupidamente lasciato sfuggire. L'aspetto turbato di lei non gli bastava; no; ed egli voleva sapere di più, voleva sapere tutto ... «Che cosa?», si domandò con tristezza. Niente. Era tutto inutile. Anche se ella aveva capito, anche se ella gli voleva bene ... Ma questa era una stupidaggine. Eppoi tutto era inutile! Un vuoto immenso lo circondava, e in questo vuoto la voce del signor Carboni si perdeva senza essere ascoltata, come in un abisso deserto. «Sta lieto e non pensare ad altro che a studiare!», concluse il padrino, vedendo che Anania sospirava. «Allegro dunque! Sii uomo e fatti onore!» Margherita rientrò accompagnata dalla madre, che prodigò allo studente la sua parte di consigli e d'incoraggiamenti. La fanciulla andava e veniva per la stanza; s'era ravviata i capelli in modo civettuolo, lasciando un ciuffetto sulla tempia sinistra, e, quel che più importa, s'era incipriata. I suoi occhi scintillavano; era bellissima, ed Anania la seguiva con uno sguardo delirante, ripensando al bacio di Agata. Come attirata dal fascino di quello sguardo, quando egli andò via ella lo seguì e lo accompagnò fino al portone. La luna illuminava il cortile, come in quella sera lontana, quando la visione altera eppur soave di lei aveva destato nel bimbo la coscienza del dovere: anche adesso ella appariva altera e soave, e camminava leggera, con un fruscìo d'ali, pronta a volare: ed Anania credeva ancora di sognare, di vederla sollevarsi davvero e sparire nell'infinito, e di non poterla raggiungere mai più; e il desiderio di stringerle la vita sottile, cinta dal nastro lucente, gli dava le vertigini. «Non la vedrò più! Cadrò morto appena ella avrà chiuso il portone», pensò, quando giunsero al limite fatale. Margherita tirò il catenaccio, poi si volse e porse la mano allo studente. Era pallidissima. «Addio ... Ti scriverò ... Anania ... » «Addio», egli disse, tremando di gioia; ma invece di andarsene si ritrasse nell'ombra e attirò a sé Margherita. E parve ad entrambi che il contatto delle loro labbra facesse scoppiare qualche cosa di terribile e di grandioso nell'aria, perché, mentre si baciavano perdutamente, sentirono come il rombo e l'ardore e la luce del fulmine.

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