Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbassava

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Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

266259
Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
  • UNIFI
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Di questa seconda dicevamo allora che vi erano tre sole figure, le quali si potessero dire intelligibili: Marco stecchito, allampanato, il padre un drappo rosso gettato sopra un manichino, e lo zio tanto lungo, che abbassava il capo per non picchiarlo al soffitto. Al proposito del primo quadro, che la oleografia del Borzino ha fatto conoscere a tutti e che, in vero, è pieno di grazia e di poesia, esponevamo il dubbio che il giovine pittore non istesse fermo contro le adulazioni leggiere, contro la interna vanità, che spinge spesso a strafare e ad uscire dalla ragione. E così accadde. Le Bue teste ed il Trovatore del 1865 furono uno scandalo: in quegli sgorbii, non più pensiero, non più composizione, non più disegno; il colore era da cadavere in putrefazione, la pennellata da scenografo che abbia fretta.

Pagina 260

Racconti 1

662674
Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Era rossa in viso e abbassava gli occhi. - Allora finisci. Scrivi al babbo? - Sí ... al babbo -. Egli non badò all'aria imbarazzata della bambina e richiuse l'uscio. Tornò da lí a poco; ma China non c'era piú. E sedutosi al tavolino, visto sulla cartella d'incerato un foglio scritto a caratteri grossi, vi buttò gli occhi, distrattamente. - Oh Dio! - esclamò. E rilesse, stupito. "Carlo del mio cuore. Ti voglio bene e ti ho dato il mio cuore perché tu sei bello. Ma tu non mi vuoi bene quanto alla zia. Io ti voglio bene con tutto il cuore e ti voglio per amante. Non dire niente alla zia. Ed ora che me ne vado mi sento morire perché ti voglio tanto bene. Dovresti voler bene a me sola che ti bacio e sono la tua fedele amante China". Il signor Artale non credeva ai propri occhi. Si era già alzato per chiamare sua moglie e far leggere quella lettera anche a lei, ma gli parve di commettere una cattiva azione. - Povera bambina! Cosí precoce! - E tornava a rileggere le ingenue parole: "ti voglio per amante ... la tua fedele amante ..." - Chi le ha insegnato questo? - Non rinveniva dalla sorpresa. Sentendo aprir l'uscio, nascose subito il foglio. - Fa' presto, - veniva a dirgli la signora Luisa. - L'uomo ha fretta -. Sceso giú con la lettera in mano per consegnarla al contadino, egli vide China che raccoglieva fiori di campo sotto i mandorli e ne aveva già fatto un bel mazzo. La bambina gli corse incontro, a testa alta, scuotendo i capelli sciolti, fissandolo in faccia, quasi per aver la risposta della sua lettera nel porgergli il mazzo. - Portalo su - egli le disse severo. La bambina impallidí, buttò via il mazzo e si addossò a un tronco di albero, piangendo. - Cristo! - egli esclamò da sé. - China, vieni qui; non far la cattiva -. Né si accorgeva che tornava a parlarle bruscamente. Montò su, e disse alla moglie: - Bisogna rimandare Chinuccia -. La signora Luisa fece col capo un movimento interrogativo. - Mi secca ... Non siamo piú liberi! E poi, la viziamo davvero, come dice la signora Morello. Ora, guarda, è lí, a piangere perché non ho preso subito un suo mazzo di fiori di campo quando davo gli ordini al contadino ... La signora la trovò che non piangeva piú; masticava però la cocca del grembiulino, per rabbia. - Sii buona: vieni a far colazione. - No. Voglio andarmene dalle zie. - Perché? - Voglio andarmene! - Il visino di China aveva già un'espressione cosí dura che la signora Artale stimò prudente non irritarla di piú. - Voglio andarmene ... ora stesso! - Sei cattiva. Lo zio non ti vorrà piú bene e neppur io, sai? - La bambina fece una spallucciata sdegnosa, sprezzante. La signora Artale ne fu scossa. E dopo colazione, appena giunsero i signori Morello con le figliuole, gliel'accusò per gastigarla - Oggi è stata cattiva; voleva andarsene via -. - Allora resterà qui altri otto giorni - disse il signor Morello, senza togliersi la pipa di bocca. China aveva tratto in disparte la zia Carmela, la minore delle signorine Morello, e le si raccomandava: - Zietta, te ne prego, conducimi via con te! - Non hai sentito il nonno? Resterai qui altri otto giorni. Perché tu fai la cattiva? - No, no! ... Voglio andarmene! - Pestava co' piedi e aveva la vocina piena di pianto. - Dici almeno perché - soggiunse la signora Luisa irritata di quell'insistenza di bambina capricciosa. - Le zie possono immaginarsi che qui ti si maltratti. - Voglio andarmene! - Fu irremovibile; e la spuntò. Né quel giorno, né dopo, le si poté cavar altro di bocca. Se gli Artale scendevano alla villa dei Morello, ella andava a nascondersi. Bisognava proprio scovarla e trascinarla innanzi ad essi per forza. - E tutto questo perché? Perché Carlo, distratto, non prese da lei un mazzo di fiori! ... È troppo sensibile - aggiungeva la signora Artale compassionandola. Il signor Carlo, imbarazzato, taceva. E una volta che la signora Morello volle forzar la bimba a baciarlo e a chiedergli scusa, egli rispose: - Non la tormenti ... È cosí nervosa -. Aveva rimorso di farla soffrire. Il peggio fu quando ella parve proprio cambiata, tanto stava seria, muta, imbroncita, facile a piangere per un nonnulla. Mangiava poco, dimagrava a vista d'occhio. - Questa creaturina minaccia di ammalarsi - dicevano le zie. - Forse per ciò è cosí intrattabile -. E la mattina che la zietta Carmela, nel vestirla, sentí scottarsi da quel viso pallido e da quelle manine scarne: - La bambina ha la febbre - corse a dire alla mamma. Le furono tutte attorno. - Ti senti male? - No. - Il capo ti duole? - No. - Insomma? - Non ho niente -. Ma scoppiò in pianto tutt'ad un tratto. - Questa bambina ci darà qualche grave dispiacere - disse la signora Morello a suo marito. - Domani la riporterò in città. Se si ammalasse qui, sarebbe peggio - egli rispose, vuotando la pipa, impensierito. Quindici giorni dopo i Morello interruppero la villeggiatura, richiamati dal loro figliuolo, vedovo da un anno. La bambina stava male assai, ed egli - che pei nuovi appalti di lavori ferroviari dovea assentarsi frequentemente - non voleva lasciarla alle mani della donna di servizio. Gli Artale rimasero soli lassú. Il signor Carlo non riusciva a levarsi dagli occhi quella bambina impallidita a un tratto e che gittava via il mazzo di fiori di campo; gli pareva d'averla colpita a morte lui, di propria mano, in quel punto. - Chi sa come sta Chinuccia? - diceva alla moglie, appena desto. - Poverina! ... Tu lo prevedevi: non camperà molto; è troppo sviluppata per la sua età -. Per delicatezza, egli non sapeva decidersi a raccontarle tutto. E fu subito di accordo, quando sua moglie disse: - Che facciamo qui, soli soli? La signora Artale, entrata la prima nella camera della malata, sentí empirsi gli occhi di lagrime vedendo quel corpicino disfatto e quasi irriconoscibile. Pure la bambina le sorrideva e lasciava baciarsi. Ma tosto ch'ella s'accorse del signor Carlo, si voltò, accigliata, verso il muro; né volle piú muoversi, finché non si persuase che era andato via. - Che ti ha fatto quel bravo signor Artale, da trattarlo cosí? - China non rispondeva né alla zietta né alle altre, arcigna, coi lineamenti quasi cattivi. Dopo parecchie di queste scene, il signor Artale notò che i Morello lo accoglievano freddamente. - Che sospettavano? Doveva mostrar la lettera per incolparsi? ... Com'era già donna quella bambina! Lo faceva apposta, perché capiva di metterlo male coi parenti -. E fece cosí fino agli ultimi istanti, quando la febbre gastrica, che stava per portarla via, le lasciava appena un barlume di vita negli occhi, dove il colore ceruleo si era mutato in grigio torbido. Avean dovuto accorrere di notte, egli e la moglie. E in quella triste circostanza la signora Morello lasciò scapparsi di bocca: - Che le avevate fatto? ... Vi odiava! - Il signor Carlo la prese per una mano e la condusse nell'altra stanza. Intanto ch'egli parlava, la signora Morello sentiva montarsi al cuore tutta la sua grande severità di mamma e di nonna: e appena ebbe letto due volte la incredibile lettera della bambina: - È bene che sia morta! - esclamò singhiozzando. Mineo, 8@ 8 dicembre 1884@. 1884.

La baronessa abbassava la testa e aggrottava le sopracciglia. Il barone interpretava quell'atto a modo suo: ci vedeva lo stesso dolore che tormentava lui, il desiderio smanioso di quel frutto della loro unione che tardava tanto a venire! - La presenza di Giorgio doveva essere una continua irritazione di quel sentimento, un'offesa, involontaria, alle legittime esigenze di quel cuore! Lo capiva, pur troppo! Ma chi ne avea colpa? ... Ora che suo figlio s'era rimesso in salute, poteva ritornare in collegio. Intanto, c'era ancora da sperare! - Ma quando partecipò la sua risoluzione alla baronessa, questa si oppose: - Quel ragazzo era ancora sofferente. Perché tanta fretta di mandarlo via? Voleva far sospettare che lei, la matrigna, cercasse di tenerlo lontano? Le vacanze erano prossime. In ottobre Giorgio sarebbe stato rimesso del tutto ... - E lui che credeva di farle piacere! Com'era lieto di scoprire che si era ingannato! In città la vita della Cecilia e di Giorgio scorreva piú monotona. La lettura, il pianoforte potevano svagarli per qualche ora. Le giornate parevano eterne! La sera, durante la solita passeggiata pel viale alberato, fuori il dazio, mentre il barone giocava a' tarocchi nel casino di convegno, Giorgio diceva delle barzellette, osava delle confidenze come ad un camerata. Una sera le raccontava la storia di un suo amoruccio a dieci anni, una vera fanciullaggine. - E poi? - Poi? ... Nulla - aveva risposto Giorgio. Lei gli si era aggravata sul braccio camminando a passi lenti, muta, cogli occhi fissi nel cielo stellato. Poi aveva lasciato il braccio per ficcare le mani nelle maniche della mantiglia con un gesto di freddolosa, e avea avuto il capriccio di andar quasi di corsa; poi si era fermata a un tratto: - Voleva tornare a casa. La serata era troppo fresca ... Sentiva dei brividi ... - Faceva caldo invece! ... - E in casa si era svestita in fretta ed era andata a sedersi sul terrazzino, colla testa appoggiata al ferro della ringhiera, cogli occhi socchiusi, dondolando la seggiola. - Ninna, ooh! Ninna ooh! - cantava Giorgio, ridendo, agevolando colla mano quel dondolamento. - Ninna, ooh! - Al lume di luna che cadeva a sbieco dalla cornice della casa, i capelli di lei e la mano appoggiata sulla sbarra della ringhiera risaltavano luminosi; il resto della figura si velava nell'ombra: e in quell'ombra il bianco dei suoi denti brillava fra le labbra semiaperte a un sorriso. - Ninna, ooh! - Giorgio, stai fermo! stai fermo! - E tentava fiaccamente di trattenergli la mano. Ma Giorgio non smetteva, da ragazzo imbizzito. All'ultimo, improvvisamente, le soffiava sul viso e scappava. Cecilia s'era rizzata d'un colpo, come se quel soffio l'avesse frustata. Si mordeva le labbra, si passava le mani sui capelli, col petto che le si sollevava. Giorgio, battendo le mani, rideva in fondo alla stanza, nel buio. Il barone era andato a Palermo; ed essi avevan seguitato a fare il chiasso per gli appartamenti, rincorrendosi, nascondendosi dietro agli usci, proprio come due ragazzi, appena si sentivano stanchi di leggere o seccati di suonare. Due volte erano anche andati al Gelso Nero in carrozza, per poche ore, il tempo di fare una giratina pel giardino degli agrumi e di perdersi sotto gli archi a sesto acuto dell'uliveto o sotto il pergolato che attraversava la vigna. Tornando, sul tardi, la Cecilia si rannicchiava in fondo alla carrozza, muta, guardando fissamente Giorgio con certi sguardi divoratori, quando lui non poteva vederla: e di tratto in tratto aveva certe scossettine nervose che le facevano strizzar gli occhi e scuoter la testa. Giorgio, rincantucciato nel lato opposto, non pensava a nulla; e se si voltava verso la matrigna e incontrava la punta acuta degli sguardi di lei, sorrideva a fior di labbra con puerile compiacenza, senza sottintesi. Allora sorrideva anche lei, tristamente, e stendeva la mano ad accarezzargli la bionda capigliatura che gli si arruffava sulla fronte d'avorio, con una carezza da mamma; e il suo polso batteva piú celere e la sua mano, piccola e bianca, tremava. In uno di questi ritorni Giorgio, destandosi dalla sua indolenza, le avea detto: - Domenica avrò diciassette anni; divento quasi un uomo -. La Cecilia lo aveva guardato come se queste parole significassero chi sa che cosa: - Diciassette anni! E la settimana dopo erano andati di nuovo al Gelso Nero, questa volta a cavallo. Era una giornata d'estate, col cielo leggermente nuvoloso, piena di tepori. Ma verso sera, quando essi già si apparecchiavano a ritornare, aveva cominciato a venir giú un'acquerugiola fina fina che sembrava un gran velo di tulle steso contro il sole al tramonto. - Pioggia d'estate! - disse Giorgio osservando il tempo dalla finestra. La baronessa guardava il cielo e la campagna, muta, colla fronte corrugata, colle labbra strette, gustando quel sordo e carezzevole rumore della pioggia sul fogliame che luccicava, agitato lievemente dal vento. Lontano, lontano, brontolavano i tuoni: il temporale s'avvicinava, preceduto da lampi. I cavalli, insellati, nitrivano e scalpitavano sotto la tettoia della stalla. Ma la pioggia avea continuato a venir giú piú fitta. Il sole era già sparito dietro montagne di nuvoli nerastri. - O dove vuole andare, voscenza? - disse massaro Turi. - Pioverà certamente tutta la nottata -. La baronessa aveva guardato Giorgio e si erano messi a ridere: - Che bella sorpresa! - Anche la massaia era comparsa sull'uscio della stanza col suo grembialone bianco di traliccio: - Doveva accendere i lumi? Preparare i letti? Cuocere un po' di verdura, un filu d'amareddi, per la cena? C'era delle uova fresche; il pecoraio, piú tardi, avrebbe portato la ricotta ... - Oh, bene! Oh, bravo! Giorgio ruzzava come un bimbo, intanto che la baronessa, addossata alla finestra, mordevasi lievemente la punta dell'indice, cogli sguardi sprofondati nella oscurità a traverso la nera campagna. I canali scrosciavano sull'acciottolato davanti la casa. Le fiammate dei contadini vi gettavano larghe striscie di luce rossiccia dagli usci aperti del pianterreno, e su quelle passavano di tratto in tratto strane ombre allungate. La voce di Giorgio, sceso un momento giú dagli uomini, scoppiava argentina fra le risate, a riprese. Un cane abbaiava. Poi Giorgio era tornato su ridendo: - Che grullo quel boaro! Lo canzonavano tutti. Aveva paura delle Nonne che gli spastoiavano le vacche per farlo arrabbiare! Una notte gli avevano anche impiastricciato quattro ciocche della sua zazzera; se lui le avesse tagliate, sarebbe morto sul corpo. Che grullo! - E la biancheria da letto? Ah! Gli toccava a dormire sulle materasse belli e vestiti! - Allora s'eran messi a rovistare pei cassettoni. Finalmente, in fondo a un armadio, avean trovato due paia di lenzuola rimaste in campagna per caso. E rifacevano i letti, chiassosamente. Giorgio strappava il lenzuolo rimboccato; la Cecilia fingeva d'arrabbiarsi: - Com'era strambo! - E tornavano a rimboccare, ridendo, irrefrenabilmente, abbandonandosi a traverso il letto, l'una di qua, l'altro di là, tenendosi i fianchi, non ne potendo piú. E cosí daccapo nell'altra camera attorno il letto di lui. La cena era parsa deliziosissima. - Ghiotti quegli amareddi! - Squisito quel pane dei contadini! - Seduti di faccia, coi gomiti sulla tavola e il viso fra le mani, colle ginocchia che si toccavano, perduti in mille discorsi inconcludenti, indugiavano ad andare a letto. Giorgio un po' sonnacchioso, lei cogli occhi foschi, luccicanti, colle labbra umide e piú accese del solito. Parlavano a voce bassa, ad intervalli. Giorgio si alzò il primo, snodandosi la cravatta, sbottonando la camicia che scoprí il suo collo tornito, piú bianco della spuma, un collo di vergine. Cecilia lo accompagnò fino all'uscio della camera e rimase sí, addossata allo spigolo, mentre lui appostava sbadatamente una sedia a piè del letto. - Buona notte! - Buona notte! - La pioggia veniva giú forte ma uguale, con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva. La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati sulle spalle ignude. Si passava sulla fronte le mani fredde, madide come quelle d'una ammalata. Tutt'a un tratto, cosí come trovavasi, barcollante come una persona ebbra, aveva fatto uno, due passi verso l'uscio ... e l'avea aperto, risoluta. Era stata lei! Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere. Ah, tutto gli avea preparati! E avean continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla. Nulla era venuto a turbarli: né cura del presente, né pensiero dell'avvenire. Una figura, fantasma, non s'era mai rizzato in mezzo a loro! Ogni sentimento era stato soffocato da quel delirio di sensi scoppiato pari a un fulmine in mezzo alla loro serenità gioconda. Lei lo avea fatto tremare sotto la violenza del suo fascino; lui l'avea scossa tutta colla sua carne di fanciullo piú bianca della spuma, fresca, vellutata, colla soavità del suo sorriso, coll'azzurro profondo del suo sguardo; complici: la libera solitudine, la cieca confidenza di chi non poteva neppur sospettare e il ciel o e la terra e ogni cosa, in quell'autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera con qualche cosa di piú intimo e di piú seducente! Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro. Il barone avea acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso le cortine, tremava convulsa. - Per carità, signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso! - Il pretore lo scongiurava, stringendogli fortemente le braccia. - È molto se invoco soltanto la legge! - avea risposto il barone. Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state piú aperte, chiuse per un lutto eterno. La villa del Gelso Nero è rimasta anch'essa deserta. Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato: - Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí! Milano, 15@ 15 febbraio 1879@. 1879.

Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrav a piú dessa. Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo. Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte: - Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! - Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i singhiozzi. - Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi? ... Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore ... ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io pre sto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti ... Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente , quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero! - Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile? - È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama? ... E intanto! E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa. "Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!" "È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco" "Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!" pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava! Suonò il campanello Era lei. Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere ... Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia ... Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma d ignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno! L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile ... Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte ... Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita. Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto ... Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla. Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse: "Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!" Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa. Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra ... Mi sentivo mancare "Poverino! - esclamavo; - poverino!" E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto. Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle: "Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!" Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: "Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!" E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: "Passerà!" Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei ... e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore. Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai pati to abbastanza! Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai! Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto : non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto. Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, s empre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita! Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina! Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! "Non mi ha riconosciuta!" dissi all'amica che avevo allato. Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente! Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso! ... Come sono ora felice! Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo! Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere - Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro - Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera - Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito - Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà! Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra - Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima - T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro. - Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela? - Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto. - Non seguirmi! - Oh! - Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? - Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello. - T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano. - T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi. Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!

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