Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbassava

Numero di risultati: 1 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Un giorno a Madera

677930
Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Era in camicia; era pallida, magra: aveva una mano bianca appoggiata sul petto che si alzava e si abbassava nei moti alterni di un respiro affannoso. Il volto era quello d'un angelo e aveva in sé la bellezza della razza latina e dell'inglese; un ovale perfetto, un mento piccino e rotondetto, come una nocciuola ancor verde; due labbra rosee, ma secche e socchiuse; un nasino affilato grazioso, sopracciglia nere nere e stranamente folte; ciglia lunghe e nere e palpebre grandi che coprivano due occhi neri che vagavano fra i crepuscoli d'un sonno febbrile. Dalla fronte reclinata all'indietro cadeva un torrente di capelli biondi con vene castane, dorate, rosse; tutta una tavolozza di tinte che con un disordine di rara bellezza fermavano l'occhio lungamente. - Vedete questa mia Dolores, è l'ultima che mi resta, e l'ho chiamata Dolores, perché è nata pochi giorni prima della morte di sua madre. Sì, mia signora, ho perduto la moglie, ho perduto tre maschi e due bambine, tutti tisici. Ed io, soggiunse ridendo in un modo crudele, non posso mandare i miei figli a Madera, perché guariscano; in casa mia si nasce a Madera, ma si muore anche a Madera. Allora Dolores, svegliandosi improvvisamente, si mise a sedere sulle ginocchia del padre e a tossire; e tossiva così forte che le guancie le divennero porporine e sudanti, e gli occhi lagrimosi. - Vedete, vedete, anche questa farà come gli altri. Maledizione! Maledizione! Quel dolore però era troppo grande, perché potesse a lungo mescersi coll'ira: e quel pover'uomo, chinando il capo su quel volto d'angelo, lo baciò, lo ribaciò cento volte, e quando lo rialzò, i suoi occhi eran rossi, gonfi di lagrime. - Sono un uomo rozzo io, sono un villano tirato su a piantar viti e patate, ma son vent'anni che ho malati e morti in casa; e il cuore per Dio (e qui col grosso pugno peloso stretto stretto batteva sul cuore fino a far rimbombare il petto) non mi si è fatto ancora di pietra, piango ancora io. - Caro signore, voi siete infelice, ma Dolores guarirà. In una famiglia di tubercolosi non muoiono mai tutti. Anch'io, sapete, ebbi undici fratelli e sorelle e tutti son morti tisici, ma ho già venticinque anni e vivo e penso di guarire. Dolores sarà delicata, avrà spesso la tosse, ma guarirà, guarirà sicuramente. - Lo spero anch'io: sarebbe troppo crudeltà lasciarmi solo. Se avessi a seppellire anche questa, darei - fuoco alla mia casa e me n'andrei a imbarcarmi come marinaio sulla prima nave che partisse per l'America, per il Portogallo, per la casa del diavolo ... scusatemi, signora. - Ma come mai, voi nato qui, in un paese dove la tisi è rara, specialmente fra gli agiati, avete tanta sventura? - L'è una storia ben triste, mia buona signora; e, vedete, la racconto a tutti, perché almeno abbia a giovare a chi può ancora approfittare di una lezione. Avete voi marito? - No. - Ebbene, allora anche a voi la mia storia può esser utile. E poi, vedete, voi avete il petto gracile, voi avete un'aria tanto gentile che subito subito mi avete aperto le cateratte del cuore, che in me stanno chiuse per giorni e settimane e mesi. Più volte mi chiudo in casa tutto solo, coi miei dolori: passeggio per le camere deserte, colla mia Dolores per mano, e più spesso colla mia Dolores fra le braccia. Ho venti camere, capite, in questa mia casa, e son tutte vuote meno una dove dormo e vivo e mangio colla mia figliuola. Capite voi in qual deserto io viva? E mi fa molto bene quando posso trovare una persona come voi a cui raccontare i miei dolori. Io ho quarant'anni soli, sapete, quarant'anni con tanti capelli bianchi e tante rughe, e tutti me ne dànno almeno cinquanta e anche più. Non me ne meraviglio; piuttosto stupisco di esser ancor vivo, ma già è la mia Dolores che non mi lascia morire. Anch'io ebbi i miei vent'anni; anch'io cavalcava sul più ardente dei cavalli di Madera, e senza sella amava gettarmi al galoppo nei sentieri che rasentavano gli abissi più profondi e precipitarmi giù per le chine, con una mano robusta nella criniera e un'altra nella coda, e giù, e giù, sicuro di non distaccarmi mai dal mio cavallo; amava sentirmi intorno l'aria vertiginosa che mi sollevava i capelli e mi fischiava nelle orecchie. Aveva braccia così robuste che più d'una volta andava a strappar la zappa dalle mani dei contadini di mio padre, e mi metteva a zappar profondamente, fortemente, finché non mi sentissi correre il sudore a ruscelletti lungo le spalle giù per il petto infuocato. Aveva ereditato da mio padre la passione della terra: odiava la città e i villaggi; voleva sempre esser fra i campi di maiz o all'ombra dei lauri. Non guardava mai in faccia alle donne: non so perché, ma mi pareva una smorfia da cittadini il fare all'amore. Aveva una febbre nei muscoli che volevano sempre muoversi; aveva una smania nel petto di respirare l'aria più pura, e respirarla a onde e tutti i picchi più alti dell'isola hanno veduto i miei piedi: c'è qualche roccia che io solo e l'aquila abbiamo toccato. L'amore mi prese come un fulmine, come una palla da cannone che vi colpisca in mezzo al petto. Un giorno me n'era andato a Funchal e stava passeggiando sul molo del porto, aspettando un amico con cui dovevo imbarcarmi per Porto Santo. Voleva andare a caccia di conigli. Zufolava, impazientito che il mio amico mi facesse aspettare, quando dinnanzi a me vedo una carrozzina in cui stava una pallidissima creatura che, se non avesse tenuto gli occhi aperti, io avrei giudicata morta. Dietro al carrozzino stava un'altra creatura giovane e bellissima che lo spingeva innanzi e che ad ogni tratto amorosamente si chinava a domandare alla povera signora moribonda che cosa volesse. Quella signora doveva essere una cameriera, ma questo a me non importava nulla: quel ch'io ricordo è che i suoi occhi azzurri, i suoi folti capelli biondi, la sua carnagione di rosa mi innamorarono talmente che quando l'amico mi venne incontro col suo fucile ad armacollo, gli dissi che non partivo più per Porto Santo. Era la prima donna ch'io aveva guardato in volto, ma mi parve subito che non avrei potuto vivere senza di lei, e il mio amore dovette essere così violento, così contagioso, che dopo otto giorni anche Jessy era innamorata di me. Ella era una cameriera, ma una cameriera inglese che parlava tre lingue, che leggeva molto, che scriveva; era un cuore di zucchero innamorato della sua padrona, con cui viveva tutto il giorno, con cui dormiva di notte, di cui era innamorata. Qui si dice che la tisi non è contagiosa, ma io so che la mia Jessy, che era bella e fresca come una rosa, pigliò il male dalla sua padrona, e che quando questa fu morta ed io doveva sposare Jessy, ella fu colta da un male che i medici di Funchal chiamarono bronchite, ma che infine era una tisi bella e buona. Fu malata due mesi, ma la convalescenza non finiva mai. Mangiava, camminava, ma era debole, e la tosse non se n'andava mai ed ella era magra magra. Ad onta di tutto questo Jessy era allegra come un pesce, e mi diceva di esser magra, perché era innamorata di me, e che quando ci fossimo sposati, saremmo guariti. Mio padre mi diceva sempre: - Sebastiano, Sebastiano, quella donna non è per te; è troppo delicata, tu la perderai presto e avrai dei figli malati. Sebastiano, va a Lisbona a trovar tuo zio, dimentica Jessy, io mi sono innamorato dieci volte prima di sposar tua madre e vorrai tu sposare la prima donna che t'è venuta fra i piedi? Mio padre aveva ragione, ma nessun medico mi sconsigliò da quel matrimonio: ma a che servono i medici? Servono a tormentare i malati, ma non a tener sani i sani. Eravamo tanto innamorati! Ci sposammo: Jessy rimase subito incinta e durante la prima gravidanza cessò la tosse, ingrassò un pochino; io mi credeva il più felice degli uomini; ma venne il parto e d'allora in poi la vita di Jessy fu una lenta agonia ed io, ignorante come una bestia, la vedevo migliorare ad ogni gravidanza, e aveva sempre nuovi figli. Nessun medico mi diceva che ad ogni parto mia moglie era più debole di prima, che ogni figliuolo le dava una spinta verso la tomba. Il buon clima di Madera la tenne viva otto anni, che tanti ne durò il nostro matrimonio; in Inghilterra sarebbe morta in pochi mesi. Il cielo della nostra isola le concesse una lunga, una dolorosa agonia. E non solo mi è morta la mia Jessy, ma mi sono morti tutti i miei figliuoli. Tutti rassomigliavano alla mamma; nessuno seppe prendersi le mie spalle, i miei polmoni di ferro. Se li aveste veduti! Com'eran belli! Eran tutti come Dolores, alcuni più belli ancora; biondi rosei intelligenti, amorosi. Son vent'anni che ho preso moglie e per vent'anni la mia casa è stata un ospedale e un cimitero. Io ho fatto da infermiere a Jessy, a Michele, a Sebastiano, ad Antonio, a Lisa, a Robinia; io li ho seppelliti tutti, mia signora. E capite voi cosa voglia dire avere un figliuolo moribondo nel letto, e un altro che sputa sangue e sta coricato sotto gli alberi del giardino, perché non ha fiato di muoversi? Capite voi che cosa vuol dire andare a tavola e leggere coll'occhio ansioso nel volto dei vostri figliuoli i primi segni della fatal malattia? E capite voi che cosa voglia dire svegliarsi di notte e d'improvviso sentir tossire il più robusto dei vostri figli, quello che pareva voler sfuggire alla sorte comune? Capite voi che cosa voglia dire andar errando il mattino di letto in letto a veder le macchie rosee che la saliva insanguinata d'una vostra bambina ha lasciato sul guanciale nel respiro affannoso della notte? E capite voi che cosa voglia dire vivere fra l'agonia dei vivi e l'agonia dei moribondi e dover sorridere per tranquillare i figli sgomenti e dover mentire oggi, mentire domani, mentir sempre, inventando ai malati sempre nuove e più crudeli menzogne, inventando menzogne ai sani che già temono di esser malati? Capite voi tutto questo, avete voi letto nei vecchi libri che vi sia tortura più crudele di questa? Una volta, me lo ricordo ancora, era un dì di dicembre e pioveva e pioveva, e un freddo umido penetrava fin nelle ossa. Si ritornava coi miei figliuoli dal cimitero dove avevamo accompagnato la mia bellissima Lisa, fanciulla di quindici anni. Eravamo allora quattro ancora; io, Robinia, Dolores e Michele. Avevamo tutti i vestiti inzuppati d'acqua fredda e nessuno parlava. Mentre si saliva sull'erta che avete salito voi, pochi momenti or sono, Michele si mette a tossire; una tosse secca, crudele feroce; e poi si avvicina il fazzoletto alla bocca, lo guarda, quindi facendosi pallido e pur sorridendo, lo mostra a Robinia: era tutto insanguinato. Io veniva dietro ai miei figliuoli e vedeva tutto. Robinia si voltò a me improvvisamente, e piangendo e singhiozzando, mi gridava: - Papà, papà, dobbiamo noi morir tutti, proprio tutti? Caddi seduto sul muricciuolo della strada; Robinia, Michele e la piccola Dolores mi si strinsero tutti intorno alle ginocchia. Dolores piangeva senza sapere il perché, e Michele mi accarezzava e diceva: - Papà, papà, non sarà nulla; ho una gengiva ferita; è sangue venuto dalle gengive. - Ma un anno dopo, mia buona signora, si seppelliva anche Michele, e ritornando a casa noi eravamo tre soli. Ch'io sia maledetto, ch'io sia maledetto! Ora non ho più che Dolores, e seppellirò anche questa accanto a Jessy, ed io mi farò seppellir vivo accanto a tutti i miei figliuoli. Ch'io sia maledetto: non si ha il diritto di dare una vita moribonda ai propri figliuoli, no, no, non si ha il diritto di mettere al mondo uomini condannati a morir fanciulli, a morir giovinetti nell'età delle gioie e delle speranze. No, no, ch'io sia maledetto, la vita è un peso: convien dare insieme ad essa forza e salute per sopportarla. La vita non è un dono, è un peso, è una croce. Non siete voi forse, mia buona signora, figlia di un padre o di una madre tisica?» Mio William, io mi alzai a queste parole come una pazza, gridando: - Basta, basta, signore, voi mi uccidete insieme ai vostri figliuoli. E fuggii da quell'orto e fuggii a casa e mi gettai piangendo e singhiozzando fra le braccia della zia, che mi veniva incontro. William, tutto questo t'ho voluto scrivere; mi è sembrato che fosse mio dovere il farlo. MISS ANNA A WILLIAM. Londra, 3 Agosto. William, la nostra Emma è morta; ed io non trovo altra parola, ed io non so immaginare ipocrisia pietosa che valga a farmi tacere. Ah, William, tu che l'hai tanto amata, tu che vivrai eternamente colla memoria di quell'angelo che abbiam perduto, capirai la mia brutalità. Perché tenterei nasconderti l'orrenda novella fra le pieghe di lunghi periodi, perché tenterei nasconderla nell'ultima pagina della mia lettera? Son sicura che nell'aprir questo foglio, tu sentiresti nell'aria l'odore della fossa, ed io non potrei ingannarti. Potrei tacerti ancora per qualche tempo l'orribile parola, ma il mio silenzio sarebbe ancor più crudele. Ella ti aveva giurato di scriverti ad ogni corriere, e tu non avresti più ricevute notizie di Emma. Vi ha qualche cosa peggiore della morte, ed è l'agonia. Son quindici giorni che la nostra Emma riposa nel bosco dei pini, nel parco, vicino al ponticello; e solo perché oggi parte il corriere, dopo una lunga tortura ho potuto prender la penna e scriverti. William, come possono tollerare la vita coloro che non credono in Dio, come possiamo sentirci strappar vivente il cuore a brani a brani, mentre siamo ancor vivi, senza credere che rivedremo un giorno i nostri cari? Ho letto che gli abitanti dell'Abissinia strappano dai bovi brandelli palpitanti di carne che poi fanno cuocere per loro alimento: e così di giorno in giorno macellano e straziano quei poveri animali, finché non rimangono che le ossa e le viscere, mal vive o mal morte. Ma non siamo noi nel corso della nostra vita in tutto eguali ai bovi dell'Abissinia? Non perdiam noi lembo a lembo i nostri più santi affetti, e chi vive a lungo non si trova all'ultimo ridotto ad uno scheletro senza carni e senza gioia, ma che pur cammina, spossato ed esangue per la lunga abitudine di aver vissuto? William, pensa che la tua Emma è morta sicura di rivederti in un mondo migliore, ha chiuso gli occhi tranquilla e serena, confidando che tu saprai resistere al tuo dolore, che tu non affretterai d'un minuto l'orologio della tua vita. Io piangerò finché vivo la mia Emma, che ho amato come una figliuola, ma nel mio pianto avrò sempre la cara speranza di rivederla. E anche tu, William, devi piangerla a questo modo; ritorna in Inghilterra a baciare la sua tomba, ritorna fra noi. Io sono rimasta sola sola, ultimo avanzo d'una famiglia numerosa, spenta in pochi anni. Tu che sei mio figlio d'adozione, vieni ad abitare con me. Vieni a dare qualche conforto ad una povera vecchia che cammina silenziosa in un vasto palazzo, e sente paura nell'udire i suoi passi, solo avanzo di tanta vita, di tanto rumore. Già da molti anni non si udiva il lieto schiamazzo dei bambini, le grida di pianti innocenti, le esclamazioni della vecchia zia Anna; ma da un anno Emma aveva riempito la casa di una vita nuova. Dove si moveva quell'angelo, dove respirava, vi era un giardino sempre fiorito. Non diceva una parola che non fosse una poesia vivente; non aveva un sorriso che non fosse una carezza; malinconica, malata, sofferente, ella non aveva che gioie e benedizioni per le creature che l'avvicinavano. Quanto vuoto lascia in questo mondo una creatura che si ama! Vieni, William, a raccogliere tutta questa eredità di profumi e di passioni. È tua, soltanto tua, nessuno prima di te verrà a profanarla. Ho chiuso la casa ai curiosi, ai parenti lontani, agli amici. La casa dove ha vissuto gli ultimi giorni la tua Emma, è tutta tua, soltanto tua. Permetti a me sola di esserti guardiana del tuo cimitero. Troverai ancora il cembalo aperto, e sul leggìo l'ultima musica che ha suonato. Troverai nel suo bicchiere accanto al letto dove è morta, i suoi fiori inariditi e pur profumati ancora; vedrai il suo orologio che camminò ancora sette ore dopoché ella era morta; troverai ancora vivo il suo canarino. Vedrai sul suo cavalletto un disegno non finito; troverai i suoi vestiti, i suoi libri prediletti: tutto troverai, fuorché la nostra Emma che dorme in pace nel parco accanto al padre. Vieni, William, non morire su terre lontane, fra stranieri che non ti intendono, fra gente che non l'hanno conosciuta; vieni a raccogliere l'ultimo fiato di quell'anima che non ha vissuto che per te e per te solo. Vieni a baciare su questo nido il suo spirito che aleggia intorno intorno, come una farfalla che batte le sue ali tenerelle contro i vetri della finestra per cercare i raggi di un sole che più non tramonta. La nostra Emma sentiva la morte vicina e, ad onta della sua fermezza, ne aveva paura. Già da più giorni non voleva più rimaner sola, e quando aveva presso di lei una cameriera o un'amica, si indispettiva per un nonnulla, e contraddiceva ogni cosa e montava in collera. Ella, sempre pazientissima, sgridava aspramente le sue cameriere, e poi se ne pentiva e chiedeva loro perdono. Diceva di sentirsi bene, ma tossiva più del solito e non aveva appetito; e dopo aver detto poche parole, si stancava; e pochi gradini della scala la facevano ansare orribilmente. Le proposi di far chiamare un medico; ma montò sulle furie a questa mia proposta, e divenne così rossa in volto da farmi credere che una febbre gagliarda l'avesse assalita colla rapidità del fulmine. Irascibile, irrequieta, malcontenta di tutto, si sdraiava sul letto, e poi si metteva a sedere, e poi di nuovo accasciata si gettava col capo fra i cuscini. In un'ora sola faceva cento cose; in un'ora sola leggeva, scriveva, suonava il cembalo, tentava di dipingere, domandava i giornali, frugava la libreria, e tutto la scontentava. Nelle ore più calde della giornata la prostrazione delle forze era tale che non esciva dalla camera. Io la vedeva soffrire e non poteva consolarla. Tentai ogni via per farlo, ma era un dolore profondo, insanabile, che le rodeva le viscere; ed io non insistetti ad importunarla colle mie domande e i miei consigli. Ella che ha sempre saputo leggere nel cuore di chi la circondava, senza bisogno delle parole, mi era grata del mio silenzio rispettoso. Una mattina, e fu l'ultima della sua vita, mi alzai tardi perché mi sentiva malata, e avendo chiesto di Emma, mi fu risposto che si era alzata per tempissimo e che ravvolta nel suo scialle era uscita di casa, dicendo alla cameriera: - Direte a mia zia che sono andata col primo treno a Bath, per fare una visita alla tomba di mio padre, ma che sarò di ritorno all'ora di pranzo. Fui tutto il giorno inquieta, e i miei occhi cercavano impazienti l'orologio e più di una volta mi avvenne di metterlo all'orecchio, perché mi sembrava che dovesse essersi fermato, tanto il tempo mi sembrava lungo. Finalmente alle quattro ella venne: le corsi incontro: era pallida come la morte, non poteva parlare, tanto le era cresciuto l'affanno del respiro per aver montate le scale. Volle sorridermi, quasi col labbro muto volesse rispondere alle cento domande che mi si affollavano alla mente e che esprimeva colla faccia angosciata e il gesto straziante. Si precipitò nella cameretta da letto e si lasciò cadere quasi stramazzone sul suo sofà, senza aver tempo né forza di levarsi lo scialle, il cappello, i guanti. Aveva le mani gelate e non mostrava di esser viva che con brividi ripetuti e con sospiri profondi e affannosi. Tirai il campanello con tanta forza che ne strappai il cordone: gridai che subito si chiamasse il medico di casa, e poi, fuori di me, appoggiandomi alla sedia e alle pareti, credendo di dover cadere svenuta ad ogni passo, e ad ogni passo ripigliando tutta la mia forza di volontà, escii dalla camera per cercare non so che cosa. Voleva fare un mondo di cose in una volta sola; avrei voluto aver senape, fuoco, acqua di Colonia; avrei voluto avere con me tutti i medici, tutti i farmacisti di Londra; ma sopratutto io cercava William. Mi pareva che tu fossi in quel momento la cosa più necessaria alla mia Emma. Rientrai pochi minuti dopo, udii un grido forsennato di Jessy che gridava: La mia padrona è morta! Miss Emma muore! - e si strappava i capelli. Mi avvicinai al letto e vidi la mia figliuola divenuta del color della cera: le sue labbra livide e insanguinate nuotavano sul cuscino in un lago di sangue che innondava anche il letto ed era caduto sul tappeto. E quelle labbra si aprivano e si chiudevano, e l'ultimo fiato gorgogliava nel sangue. Mi gettai sulla mia figliuola, la abbracciai stretto stretto, e le gridai: Emma, Emma! con una forza tale che il mio grido mi spaventò. Ella aperse gli occhi, volle parlare, sollevò una mano e mi fece cenno allo scrittoio e poi, agitandosi e raccogliendosi in uno sforzo supremo, appoggiò le sue labbra al mio orecchio e chiaramente pronunciò il tuo nome, o William; e poi mi cadde a rovescio ed io perdetti i sensi. Mio William, io rimasi fuor di me due giorni e due notti e non riapersi gli occhi che per piangere, tutto quel che mi resta di anni o di mesi in questo mondo, non riapersi gli occhi che per sentirmi infelice e sola. Parecchi giorni dopo la morte della nostra Emma, ricordai quel gesto supremo con cui mi aveva fatto cenno allo scrittoio, e con religiosa paura andai là e apersi il cassetto. Subito mi cadde sotto gli occhi una lettera suggellata e diretta a te. Te la mando, o William, dopo averla baciata cento volte. Io sento che in quelle pagine il nostro angelo deve aver chiuso qualche santo pensiero che sarà un balsamo per te, che l'hai tanto amata. Sento che in quelle pagine tu troverai il coraggio per vivere, la forza per sperare; e non so distaccarmi da quell'ultimo tesoro senza dolore e senza una orribile trepidazione che, in sì lungo viaggio, possa andare smarrita. Possa un angelo accompagnare quel foglio attraverso l'Oceano; possa giungerti intatto ... William, io so di averti dato con questa mia lettera lo strazio più crudele che possa sopportare il cuore di un uomo; ma anch'io piango e soffro e vivo perché t'aspetto: e conterò i giorni e le ore, perché so che col primo postale di Panama tu sarai qui con me. Fin allora io terrò lontano dalla casa dove visse la nostra Emma, ogni curioso, anche gli amici. Nessuno toccherà i suoi libri, i suoi fiori, il suo cembalo, tutto ciò che fu suo. Nessuno porterà i suoi passi profani là, sotto i pini, dove ella riposa accanto al padre. Più d'una volta ella m'aveva detto che là voleva dormire l'ultimo sonno; e là l'ho coricata per sempre. Vieni a piangere colla tua vecchia zia Anna su quella fossa. Vieni William, vieni subito: io ti attendo. Eccovi le ultime parole di una delle più belle e più sante creature che abbian sorriso e pianto sotto i raggi del sole. L'ultima lettera di Emma portava la data del 14 luglio, vigilia della sua morte. Londra, 14 luglio, 18… William, mi sento morire. Non l'ho detto alla buona zia Anna, non l'ho detto al medico, perché sento che tutto sarebbe inutile. Il dolce clima di Madera aveva messo un velo sottile sulla mia piaga, ma le nebbie di Londra me l'hanno riaperta e più crudele che mai. Io non posso più vivere e solo mi duole che morrò senza averti veduto. Guardo ad ogni ora, ad ogni minuto il tuo ritratto, e ti guardo con così intenso desiderio, che mi pare tu m'abbia a rispondere, che tu abbia a venire a vedermi un'ultima volta - Ma tu non morrai. - E poi mi spaventa ancora il pensiero di dover morire improvvisamente. Sento nel mio petto un fuoco ardente; mi par di sentirvi qualcosa che abbia a scoppiare da un momento all'altro. Tutto questo è nulla, mio William, muoiono tutti: deve esser cosa molto facile il morire. Io ho in me una gioia divina che mi dà coraggio, che mi fa superba d'aver vissuto, che mi fa beata d'averti conosciuto, di averti amato, d'esser stata tanto amata da te! Come siamo egoisti; sto per morire e tripudio come una fanciulla nella beata sicurezza che tu non sarai di nessuna donna, che non sei stato e non sarai d'altri che della tua Emma. M'hai troppo amato! Ti lascio troppo ricco tesoro di memorie, troppo splendida eredità di affetti, perché tu possa essere di un'altra. Questo pensiero mi fa delirar di gioia. Ho bisogno di mettermi le due mani al mio povero seno, e stringerle forte forte, perché il cuore mi palpita tanto che sembra volermi soffocare. La mia fede nel tuo amore è così sicura come la mia fede in Dio. Ah, padre mio, ho fatto il mio dovere. Domani andrò a visitare la tua tomba, andrò a mormorare al tuo orecchio che la tua Emma ha tenuto la sua parola, che è degna di te, che ella muore senza aver messo al mondo altri infelici che come lei sarebbero morti, ma che forse avrebbero maledetta la vita e chi glie l'aveva data. Tu, no, mio padre, non hai avuto colpa alcuna di avermi messo al mondo; tu non sapevi di esser malato quando mi davi la vita. Non vedi, mio William? Io aveva ragione di resistere al tuo amore, di resistere alle tue speranze. Il clima di Madera m'aveva cicatrizzata una ferita, non mi aveva guarita. Se t'avessi dato la mano di sposa, avremmo avuto figli maledetti nel grembo della madre. Un rimorso eterno avrebbe avvelenato il nostro amore; io non avrei potuto pensare a mio padre. Sarebbe stato un inferno. Ma tu devi vivere, mio William, tu me l'hai a giurare, mio William; qui al fondo di questo foglio su cui per l'ultima volta si è appoggiata la mano pallida e magra della tua Emma, tu hai a scrivere il tuo giuramento; tu hai a giurare in nome di questa margheritina, di questo primo fiore che mi hai colto nel Parco di Bath, quando tu mi hai detto, senza parole, d'amarmi. Tu me l'hai a giurare su questa ciocca di capelli, dove tu un giorno, in un delirio d'amore hai deposto un bacio. Sono le reliquie della tua Emma. Quando verrà il tuo ultimo giorno, fatti seppellire con esse; fa di serbarmele, finché ci rivedremo in cielo. Mio William, tu non hai soltanto a vivere, ma tu hai a rendere feconda la tua vita di opere coraggiose, di opere grandi. Il tuo splendido ingegno può trovare dappertutto un campo d'attività. Nella scienza, in viaggi, pericolosi e nuovi, nel terreno ardente della politica, tu puoi, tu devi essere un uomo grande, utile, potente. Fa tutto quel bene che non ho potuto fare io stessa, che non abbiam potuto fare insieme. E anch'io non avrò vissuto inutilmente, perché la mia memoria ti accompagnerà nelle tue lotte, nelle tue fatiche, nei tuoi affanni. Io muoio coll'orgoglio di averti ispirato sentimenti elevati, di averti ispirato opere utili e grandi. Quando nel silenzio del tuo studio il tuo ingegno detterà pagine sublimi che insegnino agli uomini ad essere onesti, ricordati che l'ombra della tua Emma ti sta vicino; che ella incrocia le sue mani sottili e pallide nel suo grembo; sappi che ella ti contempla e sorride al lampo del tuo ingegno. E quando, nella lotta delle passioni politiche, tu combatterai per la libertà; quando nel turbine degli affari lampeggeranno i tuoi occhi battaglieri e sublimi, ricordati che nella folla si nasconde l'ombra della tua Emma; ricordati che ella applaude ai tuoi trionfi, che piange di gioia di essere stata amata da un uomo nobile, grande, e generoso. E quando ti recherai nella casa del povero, e quando asciugherai una lagrima, quando studierai i tristi problemi del pauperismo e del dolore, ricordati che io ti vedo, che io ti ascolto, che io piango e m'allegro con te. E quando contemplerai le bellezze della natura, che abbiamo adorato insieme tante volte come due fedeli sacerdoti del bello, e nell'azzurro d'un cielo sereno, e nel raggio mesto della luna, e nel mistico silenzio dei folti boschi, e fra le erbe dei prati profumati, e nell'onda querula dei laghi, e nel muggito del mare, ricordati ch'io son con te; io nascosta, ma tremebonda di amore; muta ma sospirosa, beata di accompagnarti in ogni luogo, di vivere ancora nelle tue speranze, nella tua memoria. Dedica a me ogni tua opera buona, ogni santo proposito, ogni slancio generoso, e la tua Emma sarà superba di tutto il tuo ingegno, di ciò che farai di grande. Ella ti aspetta, sì, t'aspetta sicura di stringerti al cuore con un amplesso eterno, senza cure, senza affanni, senza rimorsi; sitibonda di una sete che avrà durato per secoli infiniti, ma che l'infinito avrà ad appagare. La tua Emma parte e t'attende dove tu pure verrai. Addio. Vivi e sii grande; vivi e sii uomo utile; vivi e non far soffrire anima viva; vivi e mi ama, come io t'amerò eternamente. Tracciato con caratteri convulsi e tremanti sotto a questa pagina si leggono queste linee: Ti giuro, mia Emma, di vivere. Ti giuro di essere uomo utile e laborioso, te lo giuro per amor tuo. Quito, 27 ottobre 18... WILLIAM. Dacché ho ricevuto le reliquie di Emma e di William, ho sempre atteso religiosamente e in silenzio che una lettera mi dicesse qualche cosa del mio sventurato amico e ho sempre atteso invano. Dieci anni son passati ed io ho diritto di pubblicare queste pagine ardenti di due fra le più nobili creature che io abbia conosciute. Ad onta del mio diritto, ho scritto in Inghilterra più volte a William, alla zia Anna, ma non ebbi risposta alcuna. E dopo aver sperato fino all'ultima ora una parola del mio amico, ho pensato di pubblicare i fogli che mi aveva inviato. Ho la ferma convinzione che l'averli letti non farà male ad alcuno, potrà fare bene a molti.

Pagina 25

Cerca

Modifica ricerca