Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 1 occorrenze

- Era il ponte una lunghissima tavola, sostenuta da catenoni, la quale si abbassava, precisamente come i levatoi, a mettere in comunicazione la piattaforma del battifredo colle mura nemiche. - Calate il ponte! - gridavano ancora Gisalberto e Aginaldo, correndo sulle strette scale. - Maestro Sega, mettete i contrappesi! - comandava Ugo con poderosa voce: - Girate le ruote e tendete le corde! - Ma non vedeva il maestro. Gli armati nell'ardore dell'assalto udirono quel comando, e credendo fosse ubbidito, o, a meglio dire, fremendo unicamente per menare le mani, erano giunti all'alto. Aginaldo liberò un catenone, poi l'altro, nè tenne la fune del ponte perché abbassasse a poco a poco, ma lasciò andare. Gisalberto esultava: - Investiamo con impeto! Al basso Ugo ancora affannosamente minacciava: - I contrappesi o la dannazione eterna! - ed ecco ficcando intorno gli occhi, gli venne veduto il maestro orrendamente schiacciato nel terreno e dimezzato il corpo da una rotaia sanguinosa: una freccia gli era confitta al petto. - Cavalieri! - ebbe ancora cuore di urlare Ugo: - tenete i catenoni! - ma non aveva ancora detto, che ecco la torre barcollò verso la fossa.... Egli che si stava attaccato ai congegni delle ruote posteriori fu balzato a cinque passi sul terreno: la torre con fragore di ruina schiantò il ponte contro le mura nemiche, e precipitò nel fossato Gisalberto, Aginaldo e quanti armati v'aveva. Nel castello suonarono i pifferi a scorno e dalle feritoie i balestrieri levarono grida di vittoria... Si scosse Ugo, dolorosissimo, e ancora incerto di quanto era accaduto, ancora imprecava: - Maestro, v'hanno pagato per tradirci? - Si volse su un fianco e vide gli uomini che, abbandonate le petriere e le manganelle, accorrevano animosissimi, giungevano alla torre, vi s'arrampicavano come gatti, tentavano di unghiarsi alla muraglia: ma la muraglia restava troppo alta e non dava appicco; piovevano gli olii e la pece, guizzavano d'alto in basso le punte: e chi degli assalitori rifaceva il cammino: chi era incalzato: chi incontrato: e chi piombava nella fossa: e chi, avvinghiato al legname, si spenzolava!... Intanto sopraggiunsero i fanti e i cavalli che erano indietro. - Avanzate le manganelle! Se il ponte c'è, per Dio! fate la breccia! - tuonava Ugo, tentando di rizzarsi dal terreno sul quale lo inchiodavano le doglie. Cominciarono poco più di dodici uomini, incontro alle frecce nemiche, a trascinare le macchine e a caricarle di sassi, e a porle da assestare i colpi. Presero a farle giuocare: un proietto percuoteva nelle mura, l'altro nella torre, sconquassandola e facendola sempre più piegare, e i nemici ridacchiavano e ululavano i troppo presti assalitori così sfracellati dagli amici. Ugo, non sapendosi persuadere che fosse desto, così com'era senza l'elmo, si tormentò fortemente la faccia, poi si rotolò davanti a una pozza d'acqua, e in essa tuffò il capo per averne refrigerio. Accorrevano in quella Oberto ed Ildebrandino, e venivano dall'altro lato del castello, investito dalle petriere e dai trabuchi, a portare la trista notizia che troppo deboli erano le macchine, nulla si era potuto fare, dalla porta deretana avevano dato il passo ad una banda di nemici, combattendoli sì, ma non sperdendoli. Tutti credevano che questa masnada fosse venuta alle spalle di Ugo per distruggere le torri di legno. Oberto incominciò a meravigliare: - Come? Qui non ci sono i nemici? - e vedendo, alla lontana, Ugo disteso bocconi: - Messere, - disse allo zio: - è morto! - Chi? - Ugo. Si storce nell'agonìa. Guardate! Ildebrandino per dolore volse via la faccia esclamando: - Oh la libertà delle nostre castella! - e vivamente: - Ma i nemici non sono venuti per di qua? - Tutto non è perduto, messere. Fate lavorare le scuri al ponte! - Ugo è morto! - Fate in vostro nome! E tutti e due galopparono oltre, per un pezzo, verso le macchie: ad un tratto ecco sul cammino loro incontro il trombetto di Ugo. - Che avete? - domandò Ildebrandino. - Lasciatemi, chè ho grandissima furia! - Che avete? - Devo parlare a lui! - Ugo è morto! Mi riconoscete? - Morto? - Morto di punta - confermò energicamente Oberto. - Santa Madre di Dio! - proruppe il trombetto: - Torno dall'inseguire un traditore accorso di lontano, che poco stette mi mettesse lo scompiglio nei saluzzesi! «Messere! dov'è Ildebrandino?» gridava egli per farci abbandonare l'assalto: «L'ho difeso quanto ho potuto! ho difeso madonna! ma il castello d'Ildebrandino è in mano dei nemici!» Oberto e lo zio furono lì lì per rovesciarlo d'arcioni. E quegli seguitava: - Ma dite! Il capitano è morto? - Pensiamo ai vivi - rispose irosamente Oberto. Lamentò Ildebrandino: - Che si è fatto da Aginaldo? Da Gisalberto? Baldo ancora aspetta coi cavalli! Che aspetta? In quella quattro uomini, gittando l'armi, venivano per la montagna, abbandonate le macchine e lasciati vilmente i compagni. Come videro i cavalieri e il trombetto Aimone, certo si sentirono a mal punto, il perchè due ad alta voce dissero a giustificazione: - Aginaldo e Gisalberto sono morti! Aldigero, Ugonello, Oddone, sono fuggiti alla valle! - e con artifìcio: - Voi che avete tromba, dove siete stato? Il capitano ci mandò in cerca di voi. Presto, suonate! ad avvisare i saluzzesi! - e si dispersero nel bosco. - Dio volesse che fosse come voi dite! - lamentò Aimone. - Pensiamo ai vivi - replicò Oberto con ambizione: - Due dì fa l'impresa fu cominciata da tale che aveva sproni d'argento! - E con quel tale io la compirò! - comandò lo zio: - Vi faccio cavaliere d'arme! Voi sarete tanto valente che sbatterete la testa di Adalberto sul ponte di Rupemala a orrendo giuoco dei mastini! - e così proclamando in atto di solenne promessa volse il capo nella direzione del suo castello. Una nube nerissima, a vortici rigurgitanti, dal sotto in su insanguinata da riflessi guizzanti, si levò dal basso del monte, roteando nella valle. - Oberto! - gridò Ildebrandino, afferrando il nipote per un braccio sì fortemente che quasi lo fece staffeggiare: - E non diemmo le mazze sul capo al malaugurato! Guarda! La masnada era corsa la! Oberto guardò e non riuscì che a dire: - E potemmo lasciare sola Imilda! Il trombetto si toccò la spada, dicendo, come ad ammansarli col pensiero di vendetta: - E affermava dunque il vero quel traditore! Ma gli ho pagato l'ambascerìa quanto valeva: tre stoccate sulla testa tanto vecchia e tanto pelata! E ancora parlava! «Ho difeso!» E voleva dirmi il suo nonme, e lo disse, ed io lo bandirò per vitupero dei traditori: Federigo saluzzese. - Il mio fedelissimo servo! - urlò lldebrandino: e Oberto spronava al suo castello. - Tu l'hai ucciso! Vitupero a te, figlio di bifolchi! Non conosci i forti e i fedeli?... Oberto! Oberto! attendimi al tuo fianco!... Tu l'hai uccìso? E tu mi tradisci?... Oberto! Oberto! Noi due soli? E i nemici quanti saranno? Ah! quelli cui diemmo il passo! E Federigo perchè lasciò Imilda? Forse che tutto era già perduto? Ma quelli che appiccarono il fuoco, non sono nemici di tutti! Dunque su tutti!... Suona la ritirata, o araldo, suona poi a raccolta e muoviamo al castello!... Oberto! Oberto! attendici! Saremo più di cento lance!... Suonate la ritirata, suonate, messer l'araldo! Suonate, per pietà! - Così finiva a supplicare il cavaliere, quasi impazzato, e pregava, alzando la mazza, e minacciava a mani giunte, e strappava le redini al cavallo per raggiungere Oberto e le strappava per accostarsi al trombetto. Aimone avrebbe le mille volte voluto una freccia a forargli le orecchie, piuttosto che quelle parole a straziargli l'anima, e chiamava il capitano che lo conducesse al furore di una zuffa, così: - Messer Ugo! Ditemi che non è morto! Perchè mi partii dal suo fianco? No, fu lui che mi mandò ad Eleardo! Messer Ugo!... - Suonate, la ritirata! E l'araldo dolorosissimo: - Oldrado non mi diede mai questo comando! - Dopo fate a raccolta!... Oberto! Oberto! - E se messer Ugo tornasse? - Anche là al mio castello sono i nemici di tutti! Il trombetto si disse con risoluzione guerresca: - La voce del capitano è la tromba: udite la voce - e squillò, verso il monte. - Che segno è questo? - domandò trepidante il cavaliere. - Quello che avvisa i saluzzesi di accorrere al portone! - disse superbamente l'araldo, e suonò verso la valle, e vide che dopo lo squillo si muoveva un drappelletto di cavalieri... Che? Un'insegna? Un'insegna quadra di comando. Fosse...? - Era l'insegna dì Ugo. Aimone staccò la tromba dalle labbra e guardò. Per una via Ugo veniva. E per un'altra Ildebrandino cacciavasi a rovinosa corsa dietro ad Oberto.... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla mattina di quel giorno, nel castello d'Ildebrandino, partiti i cavalieri, lasciandovi poca scorta, madonna Imilda era scesa nella cappella. Oh sì eh'ella aveva grandissimo bisogno di conforto! - O Signore, o Vergine santissima! Fate che il padre mio mi torni salvo dall'armi! Almeno il padre! Oh come vi prego! Tu che sei interceditrice potente, e tu che tutto ascolti!... Se ci fosse anche la madre mia a pregarvi! Come la vorrei accanto a me! - E Imilda piangeva dirottamente: - Ella m'avrebbe salvata da questo tumulto! Vedi, anch'io vorrei esser tra l'armi, per udire quel grido: - vittoria!... Vergine dolcissima, tu sorridi a me che piango? E tu che sei Dio hai voluto per immenso gaudio avere in eterno la madre! A me l'hai tolta! Salvatemi il padre, che mi protegga!... Che sarebbe d'Imilda deserta nel castello degli avi?... Deserta?... O Signore, per un'altra persona io ti prego, per Oberto... Oh ma sarei deserta senza padre, sola nei lunghissimi giorni dell'abbandono! Oberto, povero Oberto, da tre notti non ho più cucito la tua fascia... Qual tormento, quale dolcezza novissima in me! Tu non sai! E se sapessi!... Ma che ho fatto? Che ha detto? Perché basta uno sguardo, una compassione, una lagrima?... Una vita infelice! - E Imilda fremeva tutta: e taceva, non osando nemmeno a sè stessa confessare il grido dell'anima combattuta: poi - A Oberto m'aveva promessa il padre: ed ero contenta, e sarei stata tranquilla... O Madonna, che voglio dirti? Che vuoi ascoltare? Non so... voglio... vorrei... devo, oh sì devo! come cristiana, pregarti per un altro cavaliero: devo, come nata da liberi castellani, pregarti per il capo dell'impresa! Egli ci rende tutto! Ed è valente, e cortesissimo.... Perchè sorridi, Vergine santissima? Non so, ma mi sorridi, come mai non facesti. Ah perchè anche tu lo scorgi benigna? E fai bene perchè mi fu detto ch'egli è infelice. Io sento che è infelicissimo! Non conobbe la mamma sua. Tu che sei la mamma di lassù fagli conoscere almanco... una sorella del suo dolore! E fammi grazia: disponi sì che ci sia un'altra giovinetta, bella e religiosa più di me, la quale preghi per Oberto. Così tu potrai esaudirla... Io sono... Io non so!.... Mi trovo irrequieta.... Ah tu sai ed esaudisci! Mi trovo tormentata! Amo messer Ugo! «Chi siete?» «Sono il figlio di Guidinga»... Ugo! Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si fa in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto. - I nemici! - ascolta la voce del vecchio Federigo: - Salvate madonna! - ed ecco ancora: - Fuoco! fuoco! La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso: - O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto? - ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava: - Balestrate fuoco nelle finestre! - e un'altra: - Se tutto arde che ci rimane di bottino? - Combattete! - gridava Federigo agli uomini del castello: - Giuratemi! Alla fantasìa della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco: e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione... Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, lo stanzone dell'arme... - O Signore! la fanciulla se li imaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!... Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!... O padre! O Ugo!... La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare. - Non sia vero! - Fu scossa. Di nuovo la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! - E un'altra: - Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella. - Ancora la prima: - Sconficcate le inferriate! Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò: - E se vuoi mandarmi la morte! fa che non sia vergognosa! In quella al di là della porta del sacro luogo s'udirono due pedate affrettatissime e caute, e queste voci, diverse da quelle prime: - Capitano, qui c'è la cappella. Gli ori e gli argenti sono nostri. Non fate chiasso. Io provvederò - e fu chiusa la porta per di fuori e tolta la chiave. - Voi, Ingo, guarderete le finestre, e l'impresa avrà fruttato qualcosa, vi pare? - Dopo più nulla. Poi nella corte: - Oibò! guardate dal porre mano sulle cose sacre! C'è su scomunica di pontefici sommi. Via, dalle inferriate, marmaglia! Ma più poderosa gridava la voce: - Balestrate fuoco nelle finestre! dappertutto! Madonna Imilda per somma grazia della Vergine santa aveva perduto i sensi. Quando dopo un pezzo risentì l'angoscia della vita, si trovò avvinghiata fra le braccia di un cavaliero. Era suo padre? Era Oberto? Era un nemico?... Il primo pensiero che le si affacciò fu questo tremendo: - Quanto castigo! Almeno Ugo sia morto nella pugna! Ugo tristissimo! La vergine spossata levò la faccia... Oh sì l'angoscia della vita! - Sei tu! Era Ugo il cavaliero. La cappella ardeva tutta: la porta infiammata vedevasi parte cadente, parte squarciata, parte a terra. Al di là ecco la voce d'Ildebrandino: - È qui! È salva! Oberto la tua sposa è salva! - Con queste parole il vecchio credeva aggiungere maggiore gloria al fatto di Ugo: ed adempiva ad una promessa tra la sua donna morta e il morto padre di Oberto. Ugo lanciò uno sguardo alla porta, e parvegli vedere il volto di Oberto, lo vide, e parvegli che le fiamme gli fischiassero il pensiero di quello: - Imilda nelle braccia di Ugo! - Sì! - esultò, come Lucifero, il cavaliero tormentato e tormentatore, in un minuto solo di trionfale passione e di vendetta! La salvata gli avvelenava la faccia coll'alito scottante, e la persona coll'abbandono delle membra, insidioso e annuente. Oberto mosse un passo, ma arretrò soffogato. A quel solo movimento di lui, Ugo addoppiò la stretta al corpo d'Imilda, e fu ventura ch'egli non inciampasse, ubbriacato dalla malìa di quel peso: poi la spinse verso le fiamme, con atroce disegno.... - Di qui passerete un giorno sposa! - lamentò Ugo. - Può essere la porta che conduca al paradiso o all'inferno! - susurrò Imilda. Oberto mosse un secondo passo. - Pietà! - stridette Imilda. - Non sai morire? - tempestò Ugo nell'anima, scagliò a terra l'azza, e rise. E veramente per la prima volta sghignazzò. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Come Ugo era accorso nella cappella? Rifacciamo un po' di cammino, tornando al luogo della battaglia. Lasciammo Ugo, sbalestrato a terra, vicino alla pozza d'acqua, stordito ed ammaccato. Quand'egli ebbe levata la persona e guardato intorno nel bosco folto ed altissimo, vide fanti e cavalli fuggenti per ogni direzione. Non scorse però nè Ildebrandino nè Oberto che volavano a Rupemala per un cammino assai basso e nascosto. Il dolore dell'anima in Ugo la vinse sui dolori del corpo, perch'egli disperatissimo si diede per riannodare tutta quella gente scompigliata, ma invano. Gridavano in cento: - Oh quanti morti! Sarà gran ventura se domani avremo le gole salve dal capestro. Fummo traditi! Messer Baldo e Ildebrandino già lo dissero. Fummo traditi! - E chi il traditore? - Traditrice la poca esperienza degli anni in voi. - Morire domani? Oh non è meglio cercare oggi un ultimo sforzo di vittoria e gloriosa vittoria? Ma i dispersi erano troppo spaurati dalla gravità del fatto commesso e dai casi della mattina... Ugo gridava... A un tratto ode uno squillo di tromba. - Il segnale ai saluzzesi! Suono come questo non può uscire che dalla tromba di Aimone! Demonio! che suoni di là, dall'altra vita? Non è più tornato! E chi mi disse ch'è morto? - sclama Ugo, e sorge sul suo cavallo e rizza l'insegna, e, mostrando la faccia audacissima e disarmata, chiama intorno a se tre o quattro lance accorrenti, Aroldo, Bonifacio, Eustachio, trova Aimone, muove alle macchie, scavalca, solleva i saluzzesi, e solo si precipita al castello.... Che? Nessuno vorrebbe credere, ma è così! il ponte levatoio calato. Ugo, strappata la scure a un tardo soldato e datagliela sul capo, si mette a lavorare contro il portone, con braccia poderosissime, tanto più quanto più dolorose. Accorrono a lui fanti. L'insidia tremenda! ad un tratto si scuotono i catenoni e il ponte si solleva. Ugo, perduto l'equilibrio, piomba all'indietro e per somma sua ventura, siccome non vi era sbarra, rotola nel fossato. I fanti volsero le spalle per fuggire, ma il legno inclinantesi all'insù li fece sdrucciolare giù al portone, ove tutti in un fascio si maledirono orrendamente schiacciati. Ugo si abbranca ad uno dei ritti che sostengono il ponte quando sia calato, e quivi, chiamando e richiamando, giunge a farsi porgere una lancia da Bonifacio. Appena in salvo alla riva, non trovando più il suo cavallo, stramazza d'arcione Aroldo, monta sull'animale di quello, comandando: - Sorprendiamo cogli arcieri dalla parte della valle! Aimone! Aimone! Dov'è Aimone? Cercate di lui e dite che suoni a richiamare tutti i duci vicino a me! Bonifacio osserva: - È troppo tardi! Qui tutto è perduto! - E che? In tutti un impeto solo! - Baldo e Ildebrandino vi diranno.... - Per Dio! obbediranno! Io solo sono il capo dell'impresa! Altissimamente lo grido alle castella, io, io! Aroldo, Bonifacio, Eustachio, non credevo di parlare con gente pari vostra! - Galoppa verso il terreno raso, ed alza la faccia... Vede un fumo sollevarsi di lontano. - Il forte d'Ildebrandino! Chi disse di lasciare sguernite le castella? O Gesù! - e con spronate furiose Ugo lancia il cavallo... In quale direzione? Pareva che cento demoni strappassero il freno all'animale, perchè era tormentato innanzi, indietro, a destra, a sinistra, come una cosa pazza. - Qui tutto è perduto! - ripeteva il cavaliero straziatissimo le parole di Bonifacio. - Ed io voglio vittoria! - Fugge il messere! Il capo dell'impresa! - fischiano dietro ad Ugo Bonifazio ed Eustachio: e poco dopo Baldo accorre dalla valle. Ugo lancia il cavallo così da averne mozzo il respiro, lancia e smania! Eccolo al ponte di Ildebrandino: entra nel castello, balza d'arcioni gridando: - Io voglio combattere i nemici! Qui si raggrupperà una fortissima pugna! Suonate tutte le trombe! Tutti i duci vicino a me! Gli si presenta a terra un ferito, il quale, giungendo le mani: - Per amore della croce, abbiatemi misericordia! - Dov'è madonna? - supplica Ugo: - Ah!... misericordia a me! - Non uccidetemi! - Dico di madonna! Madonna! I nemici! - Misericordia, gran barone! Il traditore è quello che era all'uscio della cappella! Ho risparmiato anche il veleno per voi, gran barone! Ugo si caccia per le scale e nelle camere, trova nemici predatori e li combatte. Scompigliati, gli scarsi che avevano tentato la sorpresa, facile dacchè il castello era poco difeso, sono stretti a sgombrare, gridando: - È qui Ugo con cento cavalli! - Ugo, giù ancora per lo scalone, entra nei corridoi incendiati. Oh ecco! vede Ildebrandino ed Oberto. Incalza Ugo: - Ov'è madonna? Quegli meraviglia spaventato: - I morti tornano! - E questi: - Ugo è risuscitato per mia dannazione! - E tutti e due, facendosi segni di croce, si danno a fuggire, guardandosi alle spalle. Ugo dolorosamente li chiama e li richiama per tutti i santi: poi si mette dietro ad essi, corre, corre... È nella corte ed inciampa. Lo stesso ferito geme: - Abbiate pietà! - Il cavaliero guarda, e vede che quegli ha sul petto lo stemma di Adalberto, e sulla testa sanguinosa la tonsura di chierico. E quello: - Fate da cavaliero cristiano! Sono sul sagrato! - Era Ingo difatti sotto una finestra della cappella. Ugo, con subito pensiero religioso, esclama: - Voto una lampada d'oro alla Vergine di Saluzzo! - e facendo sgabello col corpo del ferito, s'aggrappa all'inferriata di una finestra aperta, si strascina su col petto, e ripete: - In luogo sacro voto due lampade d'oro! - D'improvviso una vampa guizza dal sotto in su ad infuocargli i capegli, e un globo di fumo gli soffoca il respiro... Riapre gli occhi: storce la bocca a ricevere aria dalla corte, fa per balzare... No, prima nell'ardentissimo strazio dell'anima raddoppia il voto alla Vergine del cielo: - Quattro lampade d'oro, per quel che ho falto! per quello che voglio fare! - e fìcca gli occhi dolorosi nella cappella, cercando l'altare a cui drizzare la destra.... Imilda è là dentro arrovesciata ed immota!... Ugo balza a terra, strappa di sotto al corpo del ferito un'azza, precipita dove gli pare debba essere l'ingresso della cappella. L'uscio è in fìamme! Lo squassa terribilmente. È chiuso! Tempesta colla scure. A quell'indiavolare accorrono Ildebrandino ed Oberto. Essi avevano combattuto gli invasori, ma non avevano trovato Imilda per tutto il castello, né alcuna cosa saputa di lei. I servi e le ancelle crano stati uccisi: il povero Federigo più non tornava dal campo di certo. Accorrono dunque Ildebrandino e Oberto, sclamando: - È proprio lui! Gii spiriti hannobraccia di nebbia. Questo no, per Dio! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alla sera di quel medesimo giorno, narrano le cronache: Adalberto, andando nella sua camera e buttandosi armato sul letto, trovò al capezzale la fascia che Oldrado aveva riportato nel gioco d'arme, vent'anni prima, e su quella c'era scritto il numero dei morti e dei feriti nemici. Narrano anche che quello sparviero presentato all'omaggio, sorgesse dalle ortiche fra cui fu gettato, e apparisse cogli artigli di ferro e col becco di ferro, vecchio, lontano, lontanissimo, su un monte, ma ancora pronto a spiccare il volo. Queste ciance furono scritte dall'eremita di Malandaggio, un veggente che la sapeva assai lunga!

Vietato ai minori

656701
Bonanni, Laudomia 1 occorrenze

Anzi abbassava la voce rendendosi conto che qualche cosa mi era dispiaciuto anche questa volta. Del resto Elio è regolarmente orfano di padre e di madre. Orfano di guerra, per così dire ritardato, il padre essendo morto in tempo di pace a seguito di deterioramento da lager. Io dovevo osservarle, con qualche imbarazzo, data l'ignoranza della vecchia monaca in materia, che la punizione di una giornata a letto era un grosso errore. Pedagogico, aggiunsi stupidamente. Quella semplice disarmata donna non aveva altra preparazione che la carità, come regola astratta. I giochi solitari dei bambini si riducono al proprio corpo. Non capiva, o finse, oppure rifiutava di parlarne. Non ebbi coraggio di affrontare allora l'argomento. Elio era, all'istituto come a scuola, insensibile a ogni autorità, e a qualsiasi punizione. In forma del tutto passiva, l'invincibile passività che conoscevo. Lo compativano, si capisce, ma bisognava pure castigarlo qualche volta... per l'esempio... Non si può nemmeno dargli una piccola correzione, gli altri solo alla vista... (di che?, sorvolò)... si mettono a strillare come aquile, lui si lascerebbe ammazzare... Lo compativano per la sua triste storia di orfano a quel modo. Orfano di padre e sarebbe poco, ma la madre si era per giunta impiccata sotto i suoi occhi. Allibii. Non si sa, spiegò la monaca, che effetto le facesse la perdita del marito _ chi non ha per sposo Gesù... " poi aveva subito bombardamenti l'occupazione tutta la paura e miseria che ne venne. S'era stranita, si vede. Così, un giorno caccia fuori dell'uscio il bambino, lega la corda a una trave e s'impicca. Lui sente la sedia picchiare in terra _ essa l'aveva tirata via col piede _ rientra e trova la madre boccheggiante. Pare che, gridando, si appendesse alle gambe, i vicini la trovarono morta. Prendo Elio per mano, la sua manina rustica e nervosa. Mi guarda un po' stupito ma non la ritira. Gli sembrerà buffo essere condotto in pubblico per mano, m'accorgo che nascostamente ride. E avviene una strana cosa: si mette a parlarne. Mai a scuola gli avevo domandato, ne lui accennato alla sua vita di prima, di fuori. Come se fosse stato sempre rinchiuso. Se indagavo: ti trovi bene?, lui sì con quella sbarratura d'occhi, mentendo. Sapeva che io capivo, ma continuava col sì sbrigativo di chi non vuole crearsi fastidi o sa che è inutile. Anche quando scoprii sotto la sciarpetta il segno rosso e la glandola gonfia e sospettai (era) una cinghiata, negò. Se rispondeva con la bocca, altrimenti un cenno della testa. O niente, nelle sue giornate mute. "La corda dei panni," dice. E alla mia occhiata sorpresa: la corda per "appiccare" i panni lavati. Scandisce la parola con certa maliziosa intenzione, come se si fosse sempre accorto del mio desiderio indiscreto al sapere, di sentire, e stesse finalmente appagandomi, alla maniera di un adulto. "Ma tu," dico, "dove stavi?" " Stavo fuori la porta col cane. E il cane abbaia." Riguarda per traverso, gli occhi in prospettiva ovale deformati da specchio convesso. Non mi stupirei se allungando la testa come una bolla di sapone, aggiungesse che sua madre gli cavava la lingua. Invece: "La sedia sbatte, rientro, e stava appiccata." Mi riprende la mano senza proseguire. È il racconto delle monache, degli altri _tranne il cane abbaia _ quello che ha sentito e risentito, non il suo. Capisco che non vi partecipa più, con un trasalimento dentro. Possibile che vi sia nei bambini, nella natura umana, tale forza di recupero da cancellare tutto, tutto? "Ma perché," mi sfugge. Voglio accertarmi. "Mica la facevo arrabbiare io," dice a un tratto senza quella montatura difensiva e quasi insolente che s'è impressa sulla faccia, "era zia Carmela." Spiega che con la cognata litigavano sempre, s'inquietava. Ecco perché, conclude persuaso. Non si ricorda del padre morto, non sa della guerra bombe paura miseria, ma solo le liti con zia Carmela. C'è dunque questa provvidenza per i bambini: qui la tragedia sembrerebbe risolta in una specie di ruolo che assume, una recitazione di personaggio minore nel racconto che fanno di lui e dal quale s'è ormai staccato. La fila sta abboccandosi nella porta dell'istituto, la monaca non si volta. Ultimo Elio si rigira a guardarmi. Ancora i suoi occhi tondi cerchiati mi stringono il cuore. No, non è che dimentichino, i bambini in un certo senso non dimenticano niente. Se anche non sanno più, tutto è però entrato nella loro sostanza, la memoria si trasforma in sostanza umana. E da grande, senza ricordo, Elio sarà pure fatto di quello che ha subito.

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

658914
Capuana, Luigi 1 occorrenze

Da qualche tempo aveva notato che il Reuccio, passando, alzava gli occhi verso la facciata della casa loro, come sé cercasse qualche persona che non c'era: scorreva con lo sguardo tutte le finestre, e abbassava gli occhi scontento. - Ma, forse deve fingere di non vedermi, per timore del Re suo padre! - ella pensava. E insuperbiva più che mai. Quel giorno, il Reuccio, passando, alzò secondo il solito, gli occhi alle finestre, come se cercasse qualche persona che non c'era, e, abbassatili scontento, spronò il cavallo e tirò via. Quel giorno ella fu così cattiva con la Zoppina, che la poveretta piangendo si mise a gridare: - Ah nonnina, nonnina, vi siete scordata di me! E la sorella, inviperita: - Te la do io la nonnina! E picchia. .... - Te la do io la nonnina! E picchia. Le lasciò le lividure. La notte, la Zoppina: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me. - Ci penserò io! Ci penserò io! Svegliatasi, cerca tastoni la veste, e al tatto si accorge che la stoffa era un'altra. Apre gli scuretti della finestra, e che vede? Su la seggiola, a piè del letto, vede steso un terzo vestito nuovo tutto ricamato d'oro, tempestato di pietre preziose: neppur la Regina doveva averne uno pari. Questa volta era inutile frugare nel cassettone; ella sapeva benissimo che non aveva altri abiti smessi. - Come fare, per via della sorella? Non sapeva risolversi ad indossare uno di quelli: intanto la sorella, di là, gridava: - Zoppina! Zoppinaccia! Non senti dunque, Zoppina del diavolo! E le si rovesciò in camera, furibonda. Visto quell'abito da Regina, rimase di sasso. - Di chi è? - Non lo so. - Chi te l'ha dato? - Non lo so. - E tu perché in sottana? - Non ho più vestiti da indossare: me l'han portati via. - Zoppaccia, non me la dài ad intendere. Per acchetare la sorella, la poverina, mezzo sbalordita, le raccontò tutto: del Fiorellino, della voce udita di notte, degli altri vestiti trovati su la seggiola: e glieli fece vedere. Colei non voleva crederle. - Zoppaccia, non me la dài ad intendere. Prese i vestiti e il vasetto col Fiore e li portò in camera sua. La Zoppina dovette indossare un abito vecchio della sorella. Ci nuotava dentro e pareva più buffa che non era. - Vo' provar io! - disse la sorella maggiore. E la notte appresso, spento il lume, cominciò a dire: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me! - Ci penserò io! Ci penserò io! Rimase stupita. - Dunque la Zoppina non aveva mentito! E la mattina, svegliatasi, cercò tastoni la veste; al tasto s'accorse che la stoffa non era quella. Aperse gli scuretti della finestra, e che vide? Su una seggiola, a piè del letto, vide steso un vestito vecchio, di canavaccio, tutto sbrendoli e frittelle. E nell'armadio, dov'ella aveva riposti i tre bei vestiti, ne mancava uno, il migliore. - Ah, Zoppaccia del diavolo! Sei stata tu! E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure. Però volle ritentare: - Nonnina mia, nonnina mia, pensateci voi per me! - Ci penserò io! Ci penserò io! Smaniava che si facesse giorno, per vedere se le accadeva come la mattina avanti. Le accadde peggio. Su la seggiola a piè del letto trovò steso un vestito fatto di scorze di albero imputridite. E dall'armadio ne mancava un altro di quelli ripostivi, il migliore. - Ah, Zoppaccia del diavolo! Sei stata tu! Sei stata tu! E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure, Caparbia, volle ritentare; ma la mattina seguente, non solo non trovò nulla né sulla seggiola né nell'armadio, ma fin il Fiorellino rosso era sparito dal vasetto, lasciando nella camera un puzzo che ammorbava. - Ah, Zoppaccia del diavolo! Sei stata tu! E picchia e ripicchia! Le lasciò le lividure. Il giorno dopo si sparse la notizia ch'era stato scoperto un furto nella guardaroba della Regina: mancavano tre abiti di gala, abiti di un valore inestimabile; tutta la corte era sossopra; il Re e la Regina su le furie; i Ministri spaventati della collera reale perdevano la testa. Il Re li aveva radunati a consiglio. - Se fra tre giorni non mi trovate il ladro, vi faccio impiccare tutti in fila! Eran passati due giorni, e i poveri Ministri si tastavano il collo. Del ladro, nessuna notizia. E il Re: - Domani all'alba, vi farò impiccare tutti in fila! I Ministri pensarono di mettere una sentinella a ogni porta e far perquisire tutte le case. Le guardie rovistavano da per tutto, ma non trovavano niente. Andate in casa delle due sorelle, cerca, ricerca, fruga, rifruga non trovarono niente neppur lì. La sorella maggiore intanto, di nascosto dalle guardie, borbottava nell'orecchio della Zoppina: - Zoppaccia ladra! Zoppaccia ladra! Che tradimento volevi farmi! La povera Zoppina, atterrita di veder tanti brutti ceffi, non rispondeva nulla. E pregava dentro di sé: - Nonnina mia, aiutateci voi! Aiutateci voi! Pregava anche per quell'altra. Una guardia, più sospettosa dei compagni, tastata la materassa del letto della sorella maggiore, disse: - Scucite qui. Scuciono e fra la lana eccoti gli abiti regali di gala, proprio quelli trovati dalla Zoppina su la seggiola in camera sua. - La ladra è lei! La ladra è lei! - urlava la sorella maggiore. Ma le guardie le acciuffarono tutte e due, e le condussero in carcere, La Zoppina neppure piangeva; guardava attorno, stupefatta. L'altra pareva impazzita: - La ladra è lei! La ladra è lei! Nella prigione, le chiusero in due stanze separate. La Zoppina, al buio, pregava a mani giunte: - Ah nonnina, nonnina, pensateci voi per me! - Ci penserò io! Ci penserò io! Si volse dalla parte d'onde la voce veniva e, nel buio, vide il Fiorellino rosso che luccicava come un pezzettino di carbone acceso. A poco a poco quel luccichio crebbe, crebbe, illuminò tutta la stanza, e fra lo splendore comparve una bellissima donna che non toccava terra coi piedi, e pareva fatta tutta di luce, carni e vestiti. - Sono Fata Fiore; mi chiamano così perché un mese son creatura vivente e un mese Fiore: è il mio destino. Tu mi hai raccolto, mi hai ripulito, mi hai rimutata l'acqua due volte al giorno, mi hai salvato dal penare. Ora son qua io per te! E detto questo, scomparve. La mattina il Reuccio, nel punto di montar a cavallo, vide per terra un Fiorellino rosso; uno degli scudieri stava per metterci il piede sopra. - Bada! Bada! Se lo fece raccogliere, e rimase incantato del gratissimo odore che il Fiore mandava; un odore di paradiso. Subito gli venne in mente la Zoppina, a cui aveva molto pensato dal giorno che la raccattò da terra come quel Fiore: gli era parsa tanto buona, tanto gentile, quantunque non bella. Non l'aveva più riveduta; e non s'era mai saputo spiegare perché pensasse così spesso a lei avendola vista una sola volta. Si mise il Fiore all'occhiello, e quando tornò a palazzo, lo ripose in un vasetto con l'acqua, in camera sua; lo chiamò il Fiore della Zoppina. La notte, sul punto di addormentarsi, a un tratto ode: - Psi! Psi! Psi! Psi! Accese subito il lume, guardò attorno stupito; non c'era nessuno. Poco dopo, di nuovo: - Psi! Psi! Psi! Psi! - Chi sei? Che cosa vuoi? - Sono Fata Fiore! Ascolta bene quel che ti dirò: ma non accendere il lume. E Fata Fiore gli raccontò la dolorosa storia della Zoppina. Verso la fine il Reuccio piangeva. Non attese che fosse giorno, e corse dal Re suo padre. Rifece il racconto della Fata e poi si gettò al piedi del Re: - Maestà, Fatemi sposare questa Zoppina! La Reginotta dev'esser lei. Il Re non disse di sì né di no. Ma quando gli parve l'ora, diede ordine: - Conducete qui le due ladre. Le guardie andarono prima alla prigione della sorella maggiore. Tutta arruffata e sconvolta non sembrava più lei; pareva una Strega. L'ammanettarono e la introdussero al cospetto del Re. Aperto l'uscio della prigione dov'era rinchiusa la Zoppina, le guardie si arrestarono meravigliate su la soglia. La nera stanzaccia s'era trasformata in un magnifico giardino fiorito, e la Zoppina, così bella da non riconoscersi, con indosso un abito sfarzosissimo, coglieva fiori e ne faceva tanti bei mazzi. - Questo pel Re, questo per la Regina, e questo pel Reuccio che sospira. Subito il Re e la corte andarono alla prigione per condur via la Zoppina con tutti gli onori di Reginotta. La sorella maggiore, appena la vide, diede in ismanie e furori: - Ah! Zoppina ladra! Mi hai rubato anche il Reuccio! Possa tu morire di mala morte, Zoppaccia ladra! Invece morì lei di mala morte; perché il Re non volle farle grazia, vedendola così cattiva fino all'ultimo contro la sua buona sorella, che implorava per essa il perdono reale. Diventata Reginotta, la Zoppina che per virtù di Fata Fiore non era più Zoppina, a ricordo del suo passato, volle esser chiamata sempre a quel modo; anzi, quando compariva in pubblico, affettava con grazia di zoppicare un tantino.

GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

E nei soliti mercoledí, che conservavano sempre la loro voga e le servivano a mascherare una sconfitta che sarebbe stata un trionfo pei suoi nemici, se incontrava lo sguardo del Follini, cosí sereno, cosí pieno di compatimento, abbassava gli occhi mortificata. Il disgusto del suo stato la rivoltava, le dava la nausea.

Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 2 occorrenze

Don Silvio adattatosi il manipolo al braccio destro, abbassava la testa perché il sagrestano gli infilasse la pianeta. «Non ve n'importa niente, a voi, di questa offesa alla parrocchia?» Preso di sul pancone il calice col corporale e il sovraccalice, don Silvio si era avviato per l'altare. Su la soglia della sacrestia il canonico Cipolla lo fermava. «Siete avvertito: noi non interverremo. Ve l'ha detto don Giuseppe?» Ospite incomodo quel Crocifisso che, di tanto in tanto, pareva si svegliasse per turbare con la sua importuna visione la coscienza del marchese! Egli non avrebbe dovuto badargli più, dopo che il cugino Pergola gli aveva sbarazzato il cervello di tutte le superstizioni dei preti. Intanto, che cosa poteva farci? la figura di quel Cristo agonizzante su la croce, abbandonato laggiù nello stanzone del mezzanino, con la testa, le mani e le ginocchia fuori dai brandelli del lenzuolo roso dalle tignuole, come egli lo aveva inattesamente visto quel giorno ... che cosa poteva farci? ... quella figura gli dava un senso di inquietudine, di malessere ogni volta che gli invadeva l'immaginazione. E meno male se, col fantasma di essa, altri ed ugualmente tetri, non gli si fossero ripresentati davanti, altri che egli già credeva scacciati lontano e da parecchio tempo! E così ora ecco Rocco Criscione, a cavallo della mula, nell'oscurità, tra le siepi di fichi d'India di Margitello, che veniva avanti, canticchiando sotto voce - gli era rimasto nell'orecchio! - Quannu passu di ccà, passu cantannu e non aveva avuto tempo di dire: Gesù! Maria! ... con quella palla ben assestata che gli avea fracassato la testa! E il tonfo del corpo! ... E lo scalpito della mula che fuggiva spaventata! ... E il gran silenzio nell'oscurità, terribile, seguito allo scoppio della fucilata! ... E così, ora ecco Neli Casaccio che dal gabbione delle Assise, alzando la mano destra e piangendo, gridava: «Sono innocente! Sono innocente!». E tanto forte, che il suo giuramento sembrava si trasformasse in urlo, in quegli urli del vento, la nottata della confessione, e ch'egli assumesse le sembianze di don Silvio, pallido, con la stola, e inesorabile: «Bisogna riparare il mal fatto! Ah, marchese!». Nervi! Immaginazione esaltata! ... Se lo ripeteva cento volte, n'era persuasissimo. Ma che cosa poteva farci? Era andato a sorvegliare, con altri della Commissione municipale, la distribuzione delle minestre e del pane alla povera gente; e Padre Anastasio, guardiano del convento di Sant'Antonio, parlava di una gran processione di penitenza, a piedi scalzi, con corone di spine e disciplina per placare lo sdegno divino. Dovevano intervenirvi persone di ogni ceto, sacerdoti, signori, maestranze, contadini, senza distinzione alcuna, come egli si era sognato che gli ordinasse Sant'Antonio, due notti di seguito. Il marchese tentennava il capo. Quel padre Anastasio, alto, nerboruto, col naso a tromba e gli occhi che gli scoppiavano fuor dell'orbita, non era tenuto per stinco di santo nei dintorni del convento. Caso mai, Sant'Antonio sarebbe andato proprio da lui per ordinargli la processione? Ma gli altri della Commissione approvavano. «E col simulacro della Regina degli Angioli», proponeva uno. «È miracoloso!» «Con la statua del Cristo alla Colonna», suggeriva un altro. «È più miracolosa ancora! Si dice: "Ora per la pioggia, ora pel vento. Non si fa la festa del giovedì santo!". Ed è quella del Cristo alla Colonna.» «Ho un gran Crocifisso. Ve lo regalo per la vostra chiesa, padre Anastasio. E farete la processione trasportandolo da casa mia.» L'idea gli era balenata in mente tutt'a un tratto. Il marchese si stupiva di non averci pensato prima. «Quando il Crocifisso non sarà più laggiù nel mezzanino, col lenzuolo roso dalle tignuole», egli rifletteva, «i miei nervi rimarranno certamente tranquilli, e tutto il resto si cheterà anch'esso. Che diamine!» E sorrideva in faccia a padre Anastasio profondentesi in ringraziamenti con quel naso che pareva volesse squillare proprio come una tromba, con quegli occhi che, dalla gioia, si sgangheravano più dell'ordinario ... «Che fortuna pel convento! Un Crocifisso grande?» «Al naturale.» «Di carta pesta?» «Scolpito in legno duro e con una croce immensa. Non lo reggeranno due uomini. Figuratevi che un giorno ... » Suo malgrado, senza poter ritenersi, il marchese si sentì spinto a raccontare quel che gli era accaduto quel giorno. «Ha avuto paura?» «Un pochetto.» «Ah! Lo credo ... Una notte, anni fa, nel convento di Nissorìa ... » E padre Anastasio rideva anticipatamente di quel che stava per dire: che paura anche la sua! Nell'andare dalla cella in fondo al corridoio ... in un certo posto ... miseria umana! ... si doveva passare davanti a un gran San Francesco, dipinto nella parete, con le braccia aperte e rapito in estasi dal suono del violino di un angelo a cavalcioni delle nuvole. Lo vedeva almeno venti volte al giorno, da sei mesi che si trovava in quel convento, passando e ripassando pel corridoio. Ma quella notte, al lume della lampadina recata in mano ... Come se quel San Francesco - che alla dubbia luce sembrava vivo e parlante, con gli occhi travolti in su - come se quel San Francesco gl'imponesse: «Padre Anastasio, di qui non si passa!». E non era passato, con tutta l'urgenza! Che cosa fosse allora accaduto, miseria umana! ... Ora rideva, ma in quel momento! ... E la pancia di padre Anastasio sobbalzava sotto la tonaca; e gli occhi gli erano diventati lustri dal convulso provocato dalle grosse risate.

Parlava e aveva paura della sua voce, che gli sembrava la voce di un altro; parlava e abbassava la testa, quasi quel qualcuno gli giganteggiasse di fronte, senza forma, senza nome, simile a un terribile misterioso fantasma, facendogli sentire la stessa prepotente forza da cui, la notte che il vento urlava per le vie, era stato trascinato in casa di don Silvio per confessarsi e sgravarsi la coscienza dell'orrido incubo che l'opprimeva. Ed ora, che doveva egli fare? Accusarsi, come gli aveva imposto don Silvio? Gli sembrava inutile ormai. Neli Casaccio era morto in carcere. Nessuno, all'infuori di lui, pensava più a Rocco Criscione! Che doveva egli fare? Andare a buttarsi ai piè del papa per ottenere l'assoluzione, per farsi imporre una penitenza? Oh! Non poteva più vivere così ... E tornava ad irrompere contro se stesso: «L'orgoglio ti acceca! ... Non vuoi macchiare il nome dei Roccaverdina! ... Dei Maluomini! Ah! Ah! E vorresti continuare ad ingannare il mondo, come hai ingannato la giustizia umana! ... Hai scacciato di casa tua il Cristo, che t'importunava col rimprovero della sua presenza! ... Ed ecco dove ora ti trovi! Egli, sì, egli ti è stato addosso, non ti ha dato tregua ... E ti perseguiterà, fino all'estremo, e smaschererà la tua ipocrisia, inesorabilmente! ... Che potrai tu contro di lui?». Con un manrovescio fece volar via dal tavolino quei libri che più non riuscivano a convincerlo, e già gli sembravano balorda mistificazione; e stette a lungo, con la testa tra le mani, con gli occhi sbarrati, guardando verso il letto, dov'egli aveva dormito, facendo brutti sogni, la notte avanti e dove non avrebbe più potuto trovar sonno fino a che non avesse ottenuto, espiando, la divina grazia del perdono! Si stupiva di vedersi ridotto in questo stato, come travolto da un turbine improvviso. Gli sembrava che il tempo fosse trascorso con incredibile celerità, e ch'egli fosse, in poche ore, invecchiato di vent'anni. Eppure niente era mutato attorno a lui. Ogni oggetto della sua stanza era al posto di prima, li scorreva con gli occhi, li numerava ... No, niente era mutato. Egli soltanto era diventato un altro. Perché? Perché? Suo cugino, sentendosi in pericolo di morte, aveva rinnegato le sue convinzioni? Che doveva importargli di lui? E non poteva essere stata una debolezza piuttosto fisica che intellettuale? Raccolto da terra uno dei volumi, sfogliò parecchie pagine, si rimise a leggere, irritandosi di non ritrovare in quei ragionamenti l'evidenza persuasiva e convincente che lo aveva prima turbato un po' e poi consolato e confortato, facendogli vedere il mondo e la vita sotto un aspetto positivo, affatto nuovo per lui. Forza e materia, nient'altro ... E le cose che scaturivano per propria virtù dal seno della materia cosmica, dall'atomo all'uomo, via via con lunga serie di lente evoluzioni ... E gli organismi che si perfezionavano per continuo e interminabile movimento, dalla coesione minerale alla germinazione vegetativa, dalla sensazione all'istinto e alla ragione umana ... E tutto senza soprannaturale, senza miracoli, senza Dio! ... La materia che si disgregava assumeva nuove forme, sviluppava nuove forze ... Ah! Si era lasciato convincere facilmente, perché gli accomodava di credere che le cose andassero così! E non era mai rimasto proprio convinto. No! No! Come espiare? Era inutile illudersi; doveva espiare! Gli sembrava impossibile che quella parola fosse potuta uscire dalla sua bocca. Ma si sentiva vinto; non ne poteva più! La sua volontà, il suo orgoglio, la sua fierezza erano cascati giù tutt'a un tratto, come vele abbattute da un tremendo colpo di vento. C'era, da un pezzo, dentro di lui qualcosa che lavorava a logorarlo, se n'era già accorto ... Aveva tentato di opporvisi, di contrastarlo ... Non era riuscito! ... Bisognava espiare! Bisognava espiare! Il silenzio gli faceva paura. Un gatto cominciò a lamentarsi nella via con voce quasi umana ora di bambino piangente, ora di uomo ferito a morte; e il lamento si allontanava, si avvicinava, elevandosi, abbassandosi di tono, prolungatamente; grido di malaugurio, sembrava al marchese, quantunque lo sapesse richiamo di amore. Non poté fare a meno di stare in ascolto, distraendosi, o piuttosto confondendo con quel grido l'intima voce che gli si lamentava nel cuore, mentre gli sfilavano quasi davanti agli occhi a intervalli o confusamente Rocco Criscione, Agrippa Solmo, don Silvio La Ciura, Zòsimo, Neli Casaccio, dolorose figure di vittime sacrificate alla sua gelosia, al suo orgoglio, alla sua impenitenza. Rocco, bruno, con neri capelli folti, con occhi nerissimi, penetranti, con impeto di virilità che scattava nella parola e nei gesti, eppure devoto a lui, altero di sentirsi chiamare Rocco del marchese , e in atto di ripetergli le parole di quel giorno. «Come vuole voscenza !». Agrippina Solmo, chiusa nella mantellina di panno scuro, che andava via singhiozzando, ma con un cupo rimprovero, quasi minaccia, nello sguardo. Don Silvio La Ciura, steso sul cataletto, col naso affilato, con gli occhi affondati nelle occhiaie illividite dalla morte, la bocca sigillata per sempre, come egli si era rallegrato di vederlo, davanti a la cancellata del Casino , tra la folla. Zòsima, con quella bianchezza smorta, con quel sorriso di tristezza rassegnata, che non osava ancora credere alla sua prossima felicità, con quel diffidente «Ormai!» su le labbra, che in quel punto gli sembrava profetico: «Ormai! Ormai! ... ». Come avrebbe potuto avere il coraggio di associarla alla sua vita, ora che egli si sentiva alla mercé di una vindice forza, avverso alla quale non poteva nulla? ... No, no! Doveva espiare, solo solo, non procurarsi un nuovo rimorso travolgendo quella buona creatura nella inevitabile ruina! Inevitabile! ... Non sapeva da che parte, né da parte di chi, né come, né quando; ma non poteva più dubitare che una parola rivelatrice sarebbe pronunciata, che un castigo gli sarebbe piombato addosso presto o tardi, se non si fosse volontariamente imposta una penitenza, un'espiazione, fino a che non si sentisse purificato e perdonato. Don Silvio gli aveva detto: «Badate! Dio è giusto, ma inesorabile! Egli saprà vendicare l'innocente. Le sue vie sono infinite!». E con l'accento di queste parole gli risuonava nell'orecchio anche il ricordo del vento che scoteva le imposte della cameretta, e passava e ripassava via pel vicolo, urlando e fischiando. Non osava più alzarsi dalla seggiola, con la strana sensazione che la sua camera fosse diventata una prigione murata da ogni parte, dove lo avrebbero lasciato morire di terrore e di sfinimento, com'era morto Neli Casaccio, immeritatamente, in scambio di lui. Si era lusingato di sfuggire alla giustizia umana e alla divina, dopo che i giurati avevano emesso il loro verdetto; dopo che don Silvio era stato reso muto prima dal suo dovere di confessore, poi dalla morte; dopo ch'egli si era illuso di essersi sbarazzato di Dio, della vita futura e di avere acquistato la pace con le dottrine e con l'esempio del cugino Pergola ... E, tutt'a un tratto! ... O aveva sognato? ... O continuava a sognare a occhi aperti? Sentì il primo cinguettio dei passeri sui tetti, vide infiltrarsi a traverso gli scuri mal chiusi del balcone il chiarore dell'aurora, e gli parve di destarsi davvero da un orribile sogno. Spalancò l'imposta, respirò a larghi polmoni la frescura mattutina, e sentì invadersi da un dolce senso di benessere di mano in mano che la luce del giorno aumentava. I passeri saltellavano, si inseguivano sui tetti, cinguettando allegramente; le rondini gorgheggiavano su la grondaia, dove avevano appesi i loro nidi; pel vicolo, per le case riprendeva il rumore, l'affaccendamento della vita ordinaria. E il sole, che già dorava la cima dei campanili e delle cupole, scendeva lentamente, gloriosamente sui tetti, faceva venire avanti, quasi le ravvicinasse, le colline lontane, le montagne che formavano una lieta curva di orizzonte attorno alle colline che digradavano e si perdevano nella vasta pianura verde, coi seminati qua e là luccicanti di rugiada, nell'ombra. Con la crescente luminosità del giorno, i tristi fantasmi che lo avevano contristato durante la nottata si erano già dileguati. E appena gli tornò davanti agli occhi la figura del cugino Pergola, col berretto bianco, di cotone, calcato fin su le orecchie, il collo circondato d'empiastri sorretti dalla grigia fascia di lana, seduto sul letto, appoggiato al mucchio dei guanciali, col viso congestionato e gli occhi rigonfi, quella risata che colà, nella camera, tra le candele ardenti sui candelabri di legno dorato attorno alle teche delle reliquie e al cordone di argento del Cristo alla Colonna, quella risata che gli era stata soffocata in gola, più che dal turbamento, dalla presenza dell'afflitta signora e dei bambini, gli scoppiò ora irrefrenabile in faccia al cielo azzurro, luminoso, in faccia alle cupole, ai campanili, alle case di Ràbbato, alla campagna, alle colline; e senza nessuna amarezza di delusione, quasi finalmente comprendesse di aver ecceduto, di essersi lasciato vigliaccamente impressionare anche lui! E apriva soddisfatto i polmoni a lunghi respiri di soddisfazione!

PROFUMO

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Supina, col petto che si sollevava e si abbassava pel respiro affannato, con gli occhi intorbidati, spalancati e fissi nel vuoto, il viso disfatto, il naso filiginoso, l'inferma rantolava stancamente a intervalli, che di mano in mano diventavano più lunghi e più strazianti. Nella camera, silenzio profondo. Patrizio era caduto in ginocchio davanti al letto, inebetito, con le mani giunte in atto di preghiera; e a quella vista si erano inginocchiati anche gli altri, tranne Eugenia e Giulia che la sosteneva da un lato. Eugenia si sentiva trattenuta in piedi dal fascino delle torbide pupille della morente che le parevano fissate intensa- mente su lei, piene del loro ultimo cruccio, quasi maledicenti insieme con quel rantolo che le sembrava parola. "No! No! ... Perché? ... Mamma, perché?" avrebbe voluto gridarle. Ma la sua lingua era legata. Sopraffatta da un orrore nuovo, Eugenia sentiva in tutto il corpo il rapido ridestarsi del suo male, creduto domato; e tremava, tremava senza poter distogliere lo sguardo dalle torbide pupille che lo evocavano su, con terribile malia, da tutte le parti del suo corpo, dove la cura del dottor Mola lo aveva già ricacciato. "No! No! Oh, mamma! ... Perché? Perché?" Portò le mani alla gola per tentar di sciogliere il nodo da cui si sentiva soffocata, e si rovesciò indietro con un ranto- lo che si confuse con l'ultimo fioco rantolo della morente. Patrizio non sentì niente, nè vide Giulia e Ruggero portar via la povera Eugenia che si agitava violentemente. I suoi sguardi eran rimasti inchiodati sul volto, immobile e senza vita neppure negli occhi, di colei che era stata la prima, la più grande, l'unica adorazione del suo cuore. Non poteva affatto persuadersi che già fosse cadavere; e gli pare- va impossibile che, dopo così terribile scena, egli potesse ancora continuare a vivere e a pensare! Non piangeva, non diceva nulla, restava là in ginocchio, con le mani giunte, opponendo tutta la inerzia del suo corpo affranto al dottore, a Zuccaro e a Griffo che volevano portarlo via. E rifletteva, come in vaneggiamento muto: "Morta! Morta senza potermi dire una sola parola! Morta, forse, senza aver sentito la mia voce! Morta in questo mo- do, quasi abbia voluto andarsene per sempre col broncio, con la collera che mi ha mostrato fino a pochi giorni fa, ineso- rabile, implacabile! Che orrore!" "Rassegnatevi! Fate la volontà di Dio!" gli ripetè il dottor Mola prendendolo per le braccia. Il pianto gli scattò dal cuore tutt'a un tratto, e singhiozzando "Mamma! Mamma!" si rizzò per coprire di baci e ba- gnare di lacrime la squallida faccia della venerata sua morta.

Racconti 1

662674
Capuana, Luigi 3 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Era rossa in viso e abbassava gli occhi. - Allora finisci. Scrivi al babbo? - Sí ... al babbo -. Egli non badò all'aria imbarazzata della bambina e richiuse l'uscio. Tornò da lí a poco; ma China non c'era piú. E sedutosi al tavolino, visto sulla cartella d'incerato un foglio scritto a caratteri grossi, vi buttò gli occhi, distrattamente. - Oh Dio! - esclamò. E rilesse, stupito. "Carlo del mio cuore. Ti voglio bene e ti ho dato il mio cuore perché tu sei bello. Ma tu non mi vuoi bene quanto alla zia. Io ti voglio bene con tutto il cuore e ti voglio per amante. Non dire niente alla zia. Ed ora che me ne vado mi sento morire perché ti voglio tanto bene. Dovresti voler bene a me sola che ti bacio e sono la tua fedele amante China". Il signor Artale non credeva ai propri occhi. Si era già alzato per chiamare sua moglie e far leggere quella lettera anche a lei, ma gli parve di commettere una cattiva azione. - Povera bambina! Cosí precoce! - E tornava a rileggere le ingenue parole: "ti voglio per amante ... la tua fedele amante ..." - Chi le ha insegnato questo? - Non rinveniva dalla sorpresa. Sentendo aprir l'uscio, nascose subito il foglio. - Fa' presto, - veniva a dirgli la signora Luisa. - L'uomo ha fretta -. Sceso giú con la lettera in mano per consegnarla al contadino, egli vide China che raccoglieva fiori di campo sotto i mandorli e ne aveva già fatto un bel mazzo. La bambina gli corse incontro, a testa alta, scuotendo i capelli sciolti, fissandolo in faccia, quasi per aver la risposta della sua lettera nel porgergli il mazzo. - Portalo su - egli le disse severo. La bambina impallidí, buttò via il mazzo e si addossò a un tronco di albero, piangendo. - Cristo! - egli esclamò da sé. - China, vieni qui; non far la cattiva -. Né si accorgeva che tornava a parlarle bruscamente. Montò su, e disse alla moglie: - Bisogna rimandare Chinuccia -. La signora Luisa fece col capo un movimento interrogativo. - Mi secca ... Non siamo piú liberi! E poi, la viziamo davvero, come dice la signora Morello. Ora, guarda, è lí, a piangere perché non ho preso subito un suo mazzo di fiori di campo quando davo gli ordini al contadino ... La signora la trovò che non piangeva piú; masticava però la cocca del grembiulino, per rabbia. - Sii buona: vieni a far colazione. - No. Voglio andarmene dalle zie. - Perché? - Voglio andarmene! - Il visino di China aveva già un'espressione cosí dura che la signora Artale stimò prudente non irritarla di piú. - Voglio andarmene ... ora stesso! - Sei cattiva. Lo zio non ti vorrà piú bene e neppur io, sai? - La bambina fece una spallucciata sdegnosa, sprezzante. La signora Artale ne fu scossa. E dopo colazione, appena giunsero i signori Morello con le figliuole, gliel'accusò per gastigarla - Oggi è stata cattiva; voleva andarsene via -. - Allora resterà qui altri otto giorni - disse il signor Morello, senza togliersi la pipa di bocca. China aveva tratto in disparte la zia Carmela, la minore delle signorine Morello, e le si raccomandava: - Zietta, te ne prego, conducimi via con te! - Non hai sentito il nonno? Resterai qui altri otto giorni. Perché tu fai la cattiva? - No, no! ... Voglio andarmene! - Pestava co' piedi e aveva la vocina piena di pianto. - Dici almeno perché - soggiunse la signora Luisa irritata di quell'insistenza di bambina capricciosa. - Le zie possono immaginarsi che qui ti si maltratti. - Voglio andarmene! - Fu irremovibile; e la spuntò. Né quel giorno, né dopo, le si poté cavar altro di bocca. Se gli Artale scendevano alla villa dei Morello, ella andava a nascondersi. Bisognava proprio scovarla e trascinarla innanzi ad essi per forza. - E tutto questo perché? Perché Carlo, distratto, non prese da lei un mazzo di fiori! ... È troppo sensibile - aggiungeva la signora Artale compassionandola. Il signor Carlo, imbarazzato, taceva. E una volta che la signora Morello volle forzar la bimba a baciarlo e a chiedergli scusa, egli rispose: - Non la tormenti ... È cosí nervosa -. Aveva rimorso di farla soffrire. Il peggio fu quando ella parve proprio cambiata, tanto stava seria, muta, imbroncita, facile a piangere per un nonnulla. Mangiava poco, dimagrava a vista d'occhio. - Questa creaturina minaccia di ammalarsi - dicevano le zie. - Forse per ciò è cosí intrattabile -. E la mattina che la zietta Carmela, nel vestirla, sentí scottarsi da quel viso pallido e da quelle manine scarne: - La bambina ha la febbre - corse a dire alla mamma. Le furono tutte attorno. - Ti senti male? - No. - Il capo ti duole? - No. - Insomma? - Non ho niente -. Ma scoppiò in pianto tutt'ad un tratto. - Questa bambina ci darà qualche grave dispiacere - disse la signora Morello a suo marito. - Domani la riporterò in città. Se si ammalasse qui, sarebbe peggio - egli rispose, vuotando la pipa, impensierito. Quindici giorni dopo i Morello interruppero la villeggiatura, richiamati dal loro figliuolo, vedovo da un anno. La bambina stava male assai, ed egli - che pei nuovi appalti di lavori ferroviari dovea assentarsi frequentemente - non voleva lasciarla alle mani della donna di servizio. Gli Artale rimasero soli lassú. Il signor Carlo non riusciva a levarsi dagli occhi quella bambina impallidita a un tratto e che gittava via il mazzo di fiori di campo; gli pareva d'averla colpita a morte lui, di propria mano, in quel punto. - Chi sa come sta Chinuccia? - diceva alla moglie, appena desto. - Poverina! ... Tu lo prevedevi: non camperà molto; è troppo sviluppata per la sua età -. Per delicatezza, egli non sapeva decidersi a raccontarle tutto. E fu subito di accordo, quando sua moglie disse: - Che facciamo qui, soli soli? La signora Artale, entrata la prima nella camera della malata, sentí empirsi gli occhi di lagrime vedendo quel corpicino disfatto e quasi irriconoscibile. Pure la bambina le sorrideva e lasciava baciarsi. Ma tosto ch'ella s'accorse del signor Carlo, si voltò, accigliata, verso il muro; né volle piú muoversi, finché non si persuase che era andato via. - Che ti ha fatto quel bravo signor Artale, da trattarlo cosí? - China non rispondeva né alla zietta né alle altre, arcigna, coi lineamenti quasi cattivi. Dopo parecchie di queste scene, il signor Artale notò che i Morello lo accoglievano freddamente. - Che sospettavano? Doveva mostrar la lettera per incolparsi? ... Com'era già donna quella bambina! Lo faceva apposta, perché capiva di metterlo male coi parenti -. E fece cosí fino agli ultimi istanti, quando la febbre gastrica, che stava per portarla via, le lasciava appena un barlume di vita negli occhi, dove il colore ceruleo si era mutato in grigio torbido. Avean dovuto accorrere di notte, egli e la moglie. E in quella triste circostanza la signora Morello lasciò scapparsi di bocca: - Che le avevate fatto? ... Vi odiava! - Il signor Carlo la prese per una mano e la condusse nell'altra stanza. Intanto ch'egli parlava, la signora Morello sentiva montarsi al cuore tutta la sua grande severità di mamma e di nonna: e appena ebbe letto due volte la incredibile lettera della bambina: - È bene che sia morta! - esclamò singhiozzando. Mineo, 8@ 8 dicembre 1884@. 1884.

La baronessa abbassava la testa e aggrottava le sopracciglia. Il barone interpretava quell'atto a modo suo: ci vedeva lo stesso dolore che tormentava lui, il desiderio smanioso di quel frutto della loro unione che tardava tanto a venire! - La presenza di Giorgio doveva essere una continua irritazione di quel sentimento, un'offesa, involontaria, alle legittime esigenze di quel cuore! Lo capiva, pur troppo! Ma chi ne avea colpa? ... Ora che suo figlio s'era rimesso in salute, poteva ritornare in collegio. Intanto, c'era ancora da sperare! - Ma quando partecipò la sua risoluzione alla baronessa, questa si oppose: - Quel ragazzo era ancora sofferente. Perché tanta fretta di mandarlo via? Voleva far sospettare che lei, la matrigna, cercasse di tenerlo lontano? Le vacanze erano prossime. In ottobre Giorgio sarebbe stato rimesso del tutto ... - E lui che credeva di farle piacere! Com'era lieto di scoprire che si era ingannato! In città la vita della Cecilia e di Giorgio scorreva piú monotona. La lettura, il pianoforte potevano svagarli per qualche ora. Le giornate parevano eterne! La sera, durante la solita passeggiata pel viale alberato, fuori il dazio, mentre il barone giocava a' tarocchi nel casino di convegno, Giorgio diceva delle barzellette, osava delle confidenze come ad un camerata. Una sera le raccontava la storia di un suo amoruccio a dieci anni, una vera fanciullaggine. - E poi? - Poi? ... Nulla - aveva risposto Giorgio. Lei gli si era aggravata sul braccio camminando a passi lenti, muta, cogli occhi fissi nel cielo stellato. Poi aveva lasciato il braccio per ficcare le mani nelle maniche della mantiglia con un gesto di freddolosa, e avea avuto il capriccio di andar quasi di corsa; poi si era fermata a un tratto: - Voleva tornare a casa. La serata era troppo fresca ... Sentiva dei brividi ... - Faceva caldo invece! ... - E in casa si era svestita in fretta ed era andata a sedersi sul terrazzino, colla testa appoggiata al ferro della ringhiera, cogli occhi socchiusi, dondolando la seggiola. - Ninna, ooh! Ninna ooh! - cantava Giorgio, ridendo, agevolando colla mano quel dondolamento. - Ninna, ooh! - Al lume di luna che cadeva a sbieco dalla cornice della casa, i capelli di lei e la mano appoggiata sulla sbarra della ringhiera risaltavano luminosi; il resto della figura si velava nell'ombra: e in quell'ombra il bianco dei suoi denti brillava fra le labbra semiaperte a un sorriso. - Ninna, ooh! - Giorgio, stai fermo! stai fermo! - E tentava fiaccamente di trattenergli la mano. Ma Giorgio non smetteva, da ragazzo imbizzito. All'ultimo, improvvisamente, le soffiava sul viso e scappava. Cecilia s'era rizzata d'un colpo, come se quel soffio l'avesse frustata. Si mordeva le labbra, si passava le mani sui capelli, col petto che le si sollevava. Giorgio, battendo le mani, rideva in fondo alla stanza, nel buio. Il barone era andato a Palermo; ed essi avevan seguitato a fare il chiasso per gli appartamenti, rincorrendosi, nascondendosi dietro agli usci, proprio come due ragazzi, appena si sentivano stanchi di leggere o seccati di suonare. Due volte erano anche andati al Gelso Nero in carrozza, per poche ore, il tempo di fare una giratina pel giardino degli agrumi e di perdersi sotto gli archi a sesto acuto dell'uliveto o sotto il pergolato che attraversava la vigna. Tornando, sul tardi, la Cecilia si rannicchiava in fondo alla carrozza, muta, guardando fissamente Giorgio con certi sguardi divoratori, quando lui non poteva vederla: e di tratto in tratto aveva certe scossettine nervose che le facevano strizzar gli occhi e scuoter la testa. Giorgio, rincantucciato nel lato opposto, non pensava a nulla; e se si voltava verso la matrigna e incontrava la punta acuta degli sguardi di lei, sorrideva a fior di labbra con puerile compiacenza, senza sottintesi. Allora sorrideva anche lei, tristamente, e stendeva la mano ad accarezzargli la bionda capigliatura che gli si arruffava sulla fronte d'avorio, con una carezza da mamma; e il suo polso batteva piú celere e la sua mano, piccola e bianca, tremava. In uno di questi ritorni Giorgio, destandosi dalla sua indolenza, le avea detto: - Domenica avrò diciassette anni; divento quasi un uomo -. La Cecilia lo aveva guardato come se queste parole significassero chi sa che cosa: - Diciassette anni! E la settimana dopo erano andati di nuovo al Gelso Nero, questa volta a cavallo. Era una giornata d'estate, col cielo leggermente nuvoloso, piena di tepori. Ma verso sera, quando essi già si apparecchiavano a ritornare, aveva cominciato a venir giú un'acquerugiola fina fina che sembrava un gran velo di tulle steso contro il sole al tramonto. - Pioggia d'estate! - disse Giorgio osservando il tempo dalla finestra. La baronessa guardava il cielo e la campagna, muta, colla fronte corrugata, colle labbra strette, gustando quel sordo e carezzevole rumore della pioggia sul fogliame che luccicava, agitato lievemente dal vento. Lontano, lontano, brontolavano i tuoni: il temporale s'avvicinava, preceduto da lampi. I cavalli, insellati, nitrivano e scalpitavano sotto la tettoia della stalla. Ma la pioggia avea continuato a venir giú piú fitta. Il sole era già sparito dietro montagne di nuvoli nerastri. - O dove vuole andare, voscenza? - disse massaro Turi. - Pioverà certamente tutta la nottata -. La baronessa aveva guardato Giorgio e si erano messi a ridere: - Che bella sorpresa! - Anche la massaia era comparsa sull'uscio della stanza col suo grembialone bianco di traliccio: - Doveva accendere i lumi? Preparare i letti? Cuocere un po' di verdura, un filu d'amareddi, per la cena? C'era delle uova fresche; il pecoraio, piú tardi, avrebbe portato la ricotta ... - Oh, bene! Oh, bravo! Giorgio ruzzava come un bimbo, intanto che la baronessa, addossata alla finestra, mordevasi lievemente la punta dell'indice, cogli sguardi sprofondati nella oscurità a traverso la nera campagna. I canali scrosciavano sull'acciottolato davanti la casa. Le fiammate dei contadini vi gettavano larghe striscie di luce rossiccia dagli usci aperti del pianterreno, e su quelle passavano di tratto in tratto strane ombre allungate. La voce di Giorgio, sceso un momento giú dagli uomini, scoppiava argentina fra le risate, a riprese. Un cane abbaiava. Poi Giorgio era tornato su ridendo: - Che grullo quel boaro! Lo canzonavano tutti. Aveva paura delle Nonne che gli spastoiavano le vacche per farlo arrabbiare! Una notte gli avevano anche impiastricciato quattro ciocche della sua zazzera; se lui le avesse tagliate, sarebbe morto sul corpo. Che grullo! - E la biancheria da letto? Ah! Gli toccava a dormire sulle materasse belli e vestiti! - Allora s'eran messi a rovistare pei cassettoni. Finalmente, in fondo a un armadio, avean trovato due paia di lenzuola rimaste in campagna per caso. E rifacevano i letti, chiassosamente. Giorgio strappava il lenzuolo rimboccato; la Cecilia fingeva d'arrabbiarsi: - Com'era strambo! - E tornavano a rimboccare, ridendo, irrefrenabilmente, abbandonandosi a traverso il letto, l'una di qua, l'altro di là, tenendosi i fianchi, non ne potendo piú. E cosí daccapo nell'altra camera attorno il letto di lui. La cena era parsa deliziosissima. - Ghiotti quegli amareddi! - Squisito quel pane dei contadini! - Seduti di faccia, coi gomiti sulla tavola e il viso fra le mani, colle ginocchia che si toccavano, perduti in mille discorsi inconcludenti, indugiavano ad andare a letto. Giorgio un po' sonnacchioso, lei cogli occhi foschi, luccicanti, colle labbra umide e piú accese del solito. Parlavano a voce bassa, ad intervalli. Giorgio si alzò il primo, snodandosi la cravatta, sbottonando la camicia che scoprí il suo collo tornito, piú bianco della spuma, un collo di vergine. Cecilia lo accompagnò fino all'uscio della camera e rimase sí, addossata allo spigolo, mentre lui appostava sbadatamente una sedia a piè del letto. - Buona notte! - Buona notte! - La pioggia veniva giú forte ma uguale, con uno scroscio sordo sordo. Tutta la villa dormiva. La baronessa cominciò a spogliarsi, lasciando cadere i capelli snodati sulle spalle ignude. Si passava sulla fronte le mani fredde, madide come quelle d'una ammalata. Tutt'a un tratto, cosí come trovavasi, barcollante come una persona ebbra, aveva fatto uno, due passi verso l'uscio ... e l'avea aperto, risoluta. Era stata lei! Al povero ragazzo non era mai passato pel capo che ciò potesse accadere. Ah, tutto gli avea preparati! E avean continuato, insaziabili, come due esseri senza coscienza, come due bruti belli e giovani che tracannavano la coppa della vita, per esaurirla. Nulla era venuto a turbarli: né cura del presente, né pensiero dell'avvenire. Una figura, fantasma, non s'era mai rizzato in mezzo a loro! Ogni sentimento era stato soffocato da quel delirio di sensi scoppiato pari a un fulmine in mezzo alla loro serenità gioconda. Lei lo avea fatto tremare sotto la violenza del suo fascino; lui l'avea scossa tutta colla sua carne di fanciullo piú bianca della spuma, fresca, vellutata, colla soavità del suo sorriso, coll'azzurro profondo del suo sguardo; complici: la libera solitudine, la cieca confidenza di chi non poteva neppur sospettare e il ciel o e la terra e ogni cosa, in quell'autunno siciliano che ha tutte le seduzioni della primavera con qualche cosa di piú intimo e di piú seducente! Il pretore, il brigadiere dei carabinieri e due amici erano stati introdotti dal barone in punta di piedi, allo scuro. Il barone avea acceso un fiammifero; la sua mano, che lo teneva in alto per rischiarare il gran letto nuziale a traverso le cortine, tremava convulsa. - Per carità, signor barone! Siamo ancora a tempo, sia generoso! - Il pretore lo scongiurava, stringendogli fortemente le braccia. - È molto se invoco soltanto la legge! - avea risposto il barone. Da quella mattina in poi le imposte del palazzo Russo-Scaro non sono state piú aperte, chiuse per un lutto eterno. La villa del Gelso Nero è rimasta anch'essa deserta. Quando lo zio del barone, il vecchio abbate di San Benedetto, passa per caso davanti quel palazzo che gli rammenta la catastrofe dell'ultimo rampollo della sua famiglia, abbassa la testa, accasciato: - Se vedete una grande rovina - suol ripetere colla sua profonda amarezza di cenobita - dite pure, senza timore d'ingannarvi, che una donna è passata per lí! Milano, 15@ 15 febbraio 1879@. 1879.

Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrav a piú dessa. Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo. Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte: - Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! - Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i singhiozzi. - Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi? ... Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore ... ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io pre sto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti ... Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente , quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero! - Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile? - È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama? ... E intanto! E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa. "Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!" "È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco" "Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!" pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava! Suonò il campanello Era lei. Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere ... Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia ... Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma d ignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno! L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile ... Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte ... Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita. Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto ... Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla. Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse: "Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!" Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa. Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra ... Mi sentivo mancare "Poverino! - esclamavo; - poverino!" E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto. Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle: "Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!" Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: "Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!" E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: "Passerà!" Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei ... e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore. Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai pati to abbastanza! Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai! Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto : non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto. Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, s empre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita! Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina! Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! "Non mi ha riconosciuta!" dissi all'amica che avevo allato. Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente! Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso! ... Come sono ora felice! Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo! Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere - Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro - Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera - Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito - Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà! Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra - Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima - T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro. - Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela? - Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto. - Non seguirmi! - Oh! - Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? - Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello. - T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano. - T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi. Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!

CENERE

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Deledda, Grazia 2 occorrenze

Egli abbassava e sollevava gli occhi lucenti (che le cure di zia Tatàna avevano guarito perfettamente), e cercava di nascondersi dietro del padre. «Dunque, rispondi al padrino!», esclamò il mugnaio scuotendolo. «Che cosa ti farai, diavoletto?» «Mugnaio?», chiese la signora. Egli accennò di no, di no. «Ah, non ti piace? Contadino?» No, e sempre no. «Ebbene, vuoi studiare?», chiese astutamente il mugnaio. «Sì.» «Ah, bravo!», disse il signor Carboni, «tu vuoi studiare? ti farai prete?» «Ancora no.» «Avvocato?», chiese il mugnaio. «Sì.» «Diavolo! Diavolo! Lo dicevo io che ha gli occhi vivi! Vuol farsi avvocato il piccolo topo!» «Ah, caro mio, siamo poveri», osservò sospirando il mugnaio. «Se il bimbo ha voglia di studiare la provvidenza non mancherà», disse il padrone. «Non mancherà!», ripeté come eco la padrona, queste parole decisero il destino di Anania: ed egli non le dimenticò mai più. Il frantoio venne definitivamente chiuso, - per quell'anno, - ed il mugnaio si trasformò del tutto in contadino. Una primavera ardente ingialliva già le campagne; le vespe e le api ronzavano intorno alla casetta di zia Tatàna; il grande sambuco del cortiletto coprivasi di un meraviglioso merletto di fiori giallognoli. Nel cortile d'Anania conveniva quasi sempre tutti i giorni la compagnia che già usava riunirsi nel molino: zio Pera col randello, Efes e Nanna costantemente ubriachi, il bel calzolaio Carchide, Bustianeddu ed il padre, nonché altre persone del vicinato. Inoltre Maestro Pane aveva messo su bottega in un bugigattolo in faccia al cortiletto; tutto il santo giorno era un viavai di gente che rideva, gridava, s'insultava, diceva male parole. Il piccolo Anania passava le sue giornate fra questa gente meschina e violenta, dalla quale apprendeva atti e parole sconcie, abituandosi allo spettacolo dell'ubriachezza e della miseria incosciente. A fianco della bottega di Maestro Pane, in un altro bugigattolo nero di fuliggine e di ragnatele, marciva una misera ragazzetta inferma, del cui padre, partito per lavorare in una miniera africana, non s'era saputo più nulla: l'infelice creatura, soprannominata Rebecca, viveva sola, abbandonata, piagata, su una stuoia lurida, fra nugoli d'insetti e di mosche. Più in là abitava una vedova con cinque bambini che mendicavano; lo stesso Maestro Pane chiedeva spesso l'elemosina. Con tutto ciò la gente era allegra: i cinque bimbi mendicanti ridevano sempre, Maestro Pane parlava con se stesso ad alta voce, raccontandosi storielle amene e ricordandosi fatti allegri della sua gioventù. Solo nei meriggi luminosissimi, quando il vicinato taceva e le vespe ronzavano tra i fiori del sambuco, conciliando il sonno al piccolo Anania coricato supino sul limitare della porta, vibrava nel silenzio caldo il lamento acuto di Rebecca, che saliva, si spandeva, si spezzava, ricominciava, slanciavasi in alto, sprofondavasi sotterra, e per così dire pareva trafiggesse il silenzio con un getto di freccie sibilanti. In quel lamento era tutto il dolore, il male, la miseria, l'abbandono, lo spasimo non ascoltato del luogo e delle persone; era la voce stessa delle cose, il lamento delle pietre che cadevano ad una ad una dai muri neri delle casette preistoriche, dei tetti che si sfasciavano, delle scalette esterne e dei poggiuoli di legno tarlato che minacciavano rovina, delle euforbie che crescevano nelle straducole rocciose, delle gramigne che coprivano i muri, della gente che non mangiava, delle donne che non avevano vesti, degli uomini che si ubriacavano per stordirsi e che bastonavano le donne ed i fanciulli e le bestie perché non potevano percuotere il destino, delle malattie non curate, della miseria accettata incoscientemente come la vita stessa. Ma chi ci badava? Lo stesso piccolo Anania, coricato supino sul limitare della porta, scacciava le mosche e le vespe agitando un fiore di sambuco, e pensava istintivamente: «Uh! Perché grida sempre quella lì? Cosa la fa gridare? Non ci devono essere gli ammalati nel mondo?». Egli s'era fatto tondo tondo, ingrassato dai cibi abbondanti, dal dolce far niente, e sopratutto dal sonno. Dormiva sempre. Ed anche nei meriggi silenziosi, nonostante il grido continuo di Rebecca, egli finiva con l'addormentarsi, col fior di sambuco nella manina rossa, e il naso coperto di mosche. E sognava di trovarsi ancora lassù, nella casa della vedova, nella cucina vigilata dal gabbano nero che pareva un fantasma appiccato: ma sua madre non c'era più, era fuggita, lontano, in una terra ignota. Ed un frate veniva dal convento, ed insegnava a leggere e scrivere al piccolo abbandonato, che voleva studiare per mettersi in viaggio alla ricerca di sua madre. Il frate parlava, ma Anania non riusciva a sentirlo, perché dal gabbano usciva un lamento acuto e straziante che assordava. Dio mio, che paura! Era la voce dello spirito del bandito morto. Ed oltre alla paura, Anania provava un gran fastidio al naso ed agli occhi. Erano le mosche.

, ma non si abbassava mai a giocare con lui. Gli anni passarono. Dopo la maestrina dai baffi venne la volta del maestro che pareva un gallo; poi d'un vecchio maestro tabaccone che additando l'isola di Spitzberg diceva piangendo: «qui fu imprigionato Silvio Pellico»; poi di un piccolo maestro dalla testa rotonda, pallido, molto allegro, che si suicidò. Tutti gli scolari rimasero morbosamente impressionati dal fatto doloroso; per molto tempo non pensarono e non parlarono d'altro, ed Anania, che non sapeva persuadersi come il maestro si fosse potuto uccidere mentre era un uomo allegro, dichiarò in piena scuola che era pronto a suicidarsi alla prima occasione. Fortunatamente l'occasione mancava; egli in quel tempo non aveva dispiaceri; era sano; amato dai suoi, sempre primo nella scuola. Intorno a lui la vita si svolgeva sempre eguale, con le stesse figure ed i meschini avvenimenti, - un giorno simile all'altro, un anno simile all'altro, - come la stoffa a disegni eguali che il mercante svolge dall'interminabile pezza. D'inverno convenivano nel frantoio sempre le stesse persone, gli stessi tipi, e si rinnovavano le stesse scene. In primavera il sambuco fioriva nel cortiletto, le mosche e le api ronzavano nell'aria luminosa; nelle strade e nelle case si delineavano sempre le stesse figure; zio Barchitta il pazzo, con gli occhi azzurri fissi e la barba ed i capelli lunghi, simile ad un vecchio Gesù mendicante, continuava nelle sue innocue stravaganze, - Maestro Pane segava le assi, e parlava fra sé a voce alta. - Efes passava barcollando, - Nanna lo seguiva, - i bambini laceri giocavano coi cani, i gatti, le galline, i porcetti, - le donnicciole si bisticciavano, - i giovanotti cantavano cori melanconici nelle notti serene illuminate dalla luna, il lamento di Rebecca vibrava nell'aria simile al canto del cuculo nella tristezza d'un paesaggio desolato. Come appare il sole in uno squarcio improvviso di cielo velato, qualche volta appariva nel misero vicinato ove Anania viveva, la florida figura del signor Carboni. Le donne uscivano sulla porta per salutarlo e sorridergli; gli uomini disoccupati, sdraiati indolentemente al sole, balzavano in piedi arrossendo; i bambini gli correvano dietro, baciandogli le mani ch'egli teneva bonariamente intrecciate dietro la schiena. Durante un rigido inverno di carestia egli provvide di polenta e d'olio tutto il vicinato. Tutti ricorrevano a lui per piccoli prestiti che non venivano mai restituiti: qua e là, per tutte le stradette dove il vento portava foglie, paglia e immondezze, egli incontrava bambini e ragazzi che lo chiamavano «padrino» e donne ed uomini che lo chiamavano «compare»; ormai non ricordava più il numero dei suoi figliocci, e zio Pera affermava malignamente che non poche persone si fingevano compari e comari del padrone per carpirgli danari. «Eppoi molti sperano che egli aiuti negli studi i loro figliuoli!», disse un giorno il vecchio ortolano, seduto davanti al forno del frantoio, col randello sulle ginocchia. «Eh, qualcuno ne aiuterà bene!», osservò il mugnaio, con evidente compiacenza, guardando Anania che stava affacciato alla finestra. «Non più d'uno! Il padrone è un po' vano, ma non si rovina, poi!» «Che dite voi, vecchia cavalletta!», esclamò il mugnaio, adirandosi. «Come il diavolo, voi, più invecchiate, più diventate maligno.» «Andiamo!», riprese il vecchio raschiando e tossendo. «E le cose forse non si sanno? Ebbene, solo i cani riescono a nascondere le loro immondezze. Perché il padrone non fa studiare i suoi bastardi?» Anania, che guardava alla finestra, sotto la quale odorava un mucchio di sanse fumanti, sentì un fremito di dolore, come se qualcuno l'avesse percosso. Il mugnaio raschiò e tossì a sua volta, e avrebbe voluto che Anania non udisse le parole sacrileghe dell'ortolano, ma anche lui non poté contenersi, e cominciò ad inveire contro zio Pera. «Schifoso, maligno, topo morto, che modo di parlare è il vostro?» «E che le cose non si sanno?», ripeté il vecchio, prendendo il randello in mano, come per difendersi da un possibile attacco. «Il bambino che lavora nella bottega di Franziscu Carchide è forse figlio di Gesù Cristo'? Ebbene, perché il padrone non fa studiare quel bambino, che è suo?» «È il figlio d'un prete», disse il mugnaio, abbassando la voce. «Non è vero. È del padrone. Osservalo; è tal e quale a Margarita.» «Ecco», rispose il mugnaio completamente disarmato, «quel bambino è cattivo come il diavolo: non si può far studiare. Si può combattere contro le pietre?» «Ah, bene!», mormorò zio Pera, ripreso da un attacco di tosse. Anania stette ancora alla finestra, sputando sul mucchio di sanse, oppresso da una misteriosa tristezza. Egli conosceva il ragazzetto che lavorava presso il Carchide, e sapeva che era discolo, ma non più di Bustianeddu e d'altri ragazzi che frequentavano la scuola. Perché il signor Carboni non lo prendeva in casa sua, se era suo figlio, come lui era stato preso dal mugnaio? Poi pensò: «Ha madre, quel ragazzetto?». Ah, la madre, la madre! A misura che egli cresceva, che la sua mente aprivasi e le sue idee e le sue percezioni prendevano forma, il pensiero della madre delineavasi sempre più chiaro nel crepuscolo della sua coscienza nascente. In quel tempo egli frequentava la quarta elementare, tra fanciulli di ogni condizione e di ogni carattere, e cominciava ad aver sentore della scienza del bene e del male. Si vergognava già coscientemente se qualcuno alludeva a sua madre, e ricordava di essersene sempre vergognato per istinto; e nello stesso tempo provava un desiderio struggente di sapere ove ella era, di rivederla, di rimproverarle la sua fuga. Già la terra ignota, lontana e misteriosa, ove ella s'era rifugiata, prendeva ai suoi occhi linee e parvenze decise, come la terra che tra i vapori dell'alba s'avvicina al naviglio viaggiante. Egli studiava con piacere la geografia, e sapeva già perfettamente l'itinerario da percorrere per arrivare dall'isola a quel continente dove si nascondeva sua madre. E come un tempo, nel villaggio dell'alta montagna, sognava la città dove viveva suo padre, adesso pensava alle grandi città di cui leggeva notizie nei libri di scuola, ed in una di esse, ed in tutte, vedeva sua madre. L'immagine fisica di lei si scoloriva sempre più nella sua memoria come una vecchia fotografia, ma egli se la figurava sempre vestita in costume, scalza, svelta e triste. Un fatto accaduto qualche anno appresso sconvolse però le sue fantasticherie. Fu il ritorno della madre di Bustianeddu. In quel tempo Anania frequentava il ginnasio ed era segretamente innamorato di Margherita Carboni: si credeva quindi già una persona seria, e finse di non interessarsi al fatto che commoveva tutti i suoi vicini di casa, mentre invece vi pensava giorno e notte. Oppresso da un cumulo d'impressioni dolorose. Egli non vide presto la donna, nascosta in casa di una sua parente, ma giorno per giorno riceveva le confidenze di Bustianeddu, che era diventato un giovinetto serio ed astuto. Siccome zio Pera perdeva le forze, s'era associato il mugnaio nella coltivazione delle fave e dei cardi. Anania aveva quindi libero ingresso nell'orto, e amava studiare seduto sull'erba del ciglione, nella corta ombra dei fichi d'India, davanti al selvaggio panorama dei monti e della vallata. Qui Bustianeddu veniva a trovarlo ed a confidargli i suoi pensieri. «È tornata!», diceva, steso a pancia a terra sull'erba, e muovendo le gambe in aria. «Era meglio che non tornasse. Mio padre voleva ammazzarla, ma poi s'è calmato.» «L'hai veduta?» «Sicuro che l'ho veduta. Mio padre non vuole che io vada da lei, ma io ci vado egualmente. È grassa, vestita da signora. Io non l'ho riconosciuta, diavolo!» «Tu non l'hai riconosciuta!», esclamava Anania, palpitando, meravigliandosi di Bustianeddu e pensando a sua madre. Ah, egli l'avrebbe riconosciuta subito! Ma poi diceva a se stesso: «Anche lei sarà vestita da signora, pettinata alla moda ... Dio, Dio, come sarà?». «In tutti i modi la riconoscerei, oh, ne sono certo!», pensava poi, confidando nel suo istinto. «Perché è tornata tua madre?», chiese un giorno a Bustianeddu. «Perché? Oh, bella, perché questo è il suo paese. Essa cuciva a macchina, in una sartoria di Torino; era stanca ed è tornata.» Un grave silenzio seguì a queste parole: i due ragazzi sapevano che la storia della sartoria era una menzogna, ma l'accettavano incondizionatamente. Anzi, dopo un momento, Anania osservò: «Ed allora tuo padre dovrebbe far la pace». «No!», disse Bustianeddu, fingendo di dar ragione a suo padre. «Ella non aveva bisogno di lavorare per vivere!» «Oh, che tuo padre non lavora? È vergogna lavorare?» «Mio padre è un negoziante!», corresse l'altro. «Che farà ora tua madre? E tu con chi andrai a stare?» «Chi lo sa!» Di giorno in giorno, però, le notizie diventavano sempre più emozionanti. «Se tu sapessi quanta gente viene da mio padre per pregarlo di far la pace con lei! Anche il deputato, sì. Poi venne la nonna, ieri notte, e disse a mio padre: "Gesù perdonò alla Maddalena; ebbene, figlio mio, pensa che siamo nati per morire; pensa che al di là noi rechiamo con noi solo le buone azioni. Guarda come è desolata la tua casa; i topi vi fanno continuamente festa".» «E tuo padre?» «"Andate via", disse arrabbiandosi, "andate via subito; vergognatevi."» «Ed ora», disse Bustianeddu il giorno appresso, «ora s'è immischiata anche zia Tatàna! Che sermone ha fatto! "Ecco" ha detto a mio padre, "figurati di prendere in casa un'amica. Prendila: ella è pentita, si emenderà. Se tu rifiuti chissà che cosa avverrà di lei! Re Salomone aveva settanta amiche in casa sua ed era l'uomo più savio del mondo"». «E lui?» «Duro come la pietra; anzi disse che le amiche fecero perder la testa a Salomone.» Infatti il negoziante non si piegò mai; e la donna andò ad abitare dall'altra parte del paese, verso il convento ov'erano le scuole; rivestì il costume, ma un costume un po' falsato, arricchito di nastri e di merletti, e dal quale si riconosceva subito la donna di fama equivoca. Il marito non perdonò, ed ella continuò la sua vita. Anania la vide un giorno, e poi sempre, mentre si recava al ginnasio; ella abitava una casa nerastra, intorno alle cui finestre biancheggiava una striscia di calce che terminava in una croce. Sotto la porta c'erano quattro scalini, e spesso la donna, che era alta e bella, sebbene non più giovanissima e molto bruna di viso, stava seduta sugli scalini, cucendo o ricamando una camicia paesana. In estate rimaneva a testa nuda, coi capelli nerissimi rialzati un po' a ciuffo sulla breve fronte, e teneva un fazzolettino di seta grigia intorno al lungo collo. Anania arrossiva ogni volta che la vedeva; provava una morbosa simpatia per lei, e nello stesso tempo gli pareva di odiarla. Avrebbe voluto cambiar strada per non vederla, ma una forza occulta e maligna lo attirava sempre in quella via.

Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Essa tornò a sollevare gli occhi lucenti al quadrante dell'orologio, mentre Demetrio abbassava i suoi sulle rughe delle sue vecchie scarpe. Stettero cosí forse un minuto, senza parlare, durante il quale risonarono ancora le lamentele di Giovedí chiuso in gabbia. S'intesero cosí senza parlare, stringendosi tratto tratto la mano con un battito di tenerezza. Arabella dopo un po' di tempo, nel consegnare allo zio una busta che pareva una lettera, riprese a dire: "La mamma la prega d'accettarlo per sua memoria. È il suo ritratto." "Ringraziala" balbettò lo zio, senza alzare gli occhi. Arabella disse di sí con un colpo delle palpebre. Durante il tempo che lo zio Demetrio stette allo sportello a comperare il biglietto, essa sedette sulla valigia, abbandonando le mani sulle ginocchia, assorta in una grande quantità di cose, che non avevano ordine, ma che la trascinavano colla forza di una corrente, di cui sentiva nella testa il frastuono. La stazione era andata di mano in mano popolandosi di gente che si aggirava frettolosa nella luce scialba e biancastra che pioveva dai globi, in mezzo al sordo rotolío delle carriole che menavano i bauli e alle voci sonore e imperiose che annunciavano le partenze. I treni in arrivo fischianti e rumoreggianti sotto la tettoia, il picchiar dei ferri, il suono delle catene, il bisbiglio, lo scalpiccío di tante persone mosse e sospinte anch'esse da pensieri, da voglie, da inquietudini proprie, o dalla forza delle cose, tutto ciò bastò a distrarre Arabella dai pensieri indeterminati, misti di presentimenti e di risentimenti, coi quali essa cominciava troppo presto la storia della sua giovinezza. Guai se gli occhi avessero la vista del futuro! A distrarla tornò indietro lo zio Demetrio, che colla piccola ombrella sotto il braccio e il biglietto in mano le fece capire ch'era giunta l'ora d'andarsene. Giovann dell’Orghen prese la valigia e si avviò verso la scala d'ingresso. Arabella si attaccò al braccio dello zio e lo accompagnò fin sulla soglia. Era pallidissima, ma non piangeva per non conturbare con lagrime inutili la malinconia del viaggiatore. Questi, col corpo in preda a piccole scosse, colle rughe del volto tese a uno sforzo supremo, disse ancora qualche cosa colla mano, mosse le labbra a un discorso che non volle uscire, e lí sulla soglia, sotto gli occhi del controllore, baciò sulla fronte Arabella, mettendole la mano sulla testa, come aveva fatto la sua mamma con lui. E si divisero senza piangere. Demetrio, quando si trovò solo nel suo scompartimento di terza classe, immerso nella poca luce d'un torbido lampadino giallognolo, poté abbandonarsi interamente, con minor soggezione di sé stesso, alla piena dei varii pensieri, che in quell'epilogo della sua oscura tragedia uscivano da cento parti a invadere l'anima. Sentendosi la testa calda come un fornello, quando il treno cominciò a muoversi nella crescente oscurità della sera, appoggiò la faccia al finestrino e stette a bevere l'aria con le labbra aperte, cogli occhi fissi a un cielo non ancora chiuso del tutto agli ultimi respiri del crepuscolo. Passando sul cavalcavia del vecchio Lazzaretto, da dove la città si apre ancora alla vista del viaggiatore in tutta l'ampiezza del corso, co’ suoi bianchi edifici, — e già splendevano di lumi case e botteghe — la salutò con un sospiro. Poi il treno, affrettando la corsa, cominciò a battere la bassa campagna nelle umide e fitte tenebre della notte, assecondando colle sorde scosse il correre tumultuoso dei pensieri. Non era una campagna ignota, anzi erano gli stessi prati suoi, dov'era nato, dov'era cresciuto ragazzo. Oltre il quarto o il quinto casello cominciò a riconoscere anche al buio i vecchi fondi di casa Pianelli, e piú in là San Donato, e tra una macchia bruna di pioppi il fabbricato chiatto e lungo del cascinale, da dove una volta un Demetrio bifolco usciva coi piedi negli zoccoli e coi calzoni rimboccati fino al ginocchio. In una bassura, nascosta da un muro sormontato da un tettuccio a triangolo, riposava da venticinque anni una donna, una povera donna, che inutilmente anch'essa aveva lavorato per il bene de' suoi. " Ciao , mamma ... " disse una voce, che un Demetrio irritato e sordo non volle ascoltare. Un tratto ancora e il treno avrebbe rasentato uno stagno, all'orlo del quale appare la stupenda abbazia di Chiaravalle: ed eccola infatti uscire quasi dall'acqua livida, a venir addosso nella sua nera e solenne costruzione, colla stupenda macchina del campanile impressa come un'ombra sull'aria oscura; e piú in qua, segnato da alcuni lumi rossicci, il solido edificio delle Cascine, la reggia del signor Paolino. A quella chiesa quante volte aveva accompagnato la sua mamma nei tempi che meno si pensava alle miserie del mondo! C'erano, in quell'antico convent o degli angoli cosí tiepidi e santi, con certe figure lunghe e patetiche su per i muri: c'erano dei corridoi cosí lunghi con cento cellette che davano sul verde luminoso delle praterie: c'era insomma in quella vecchia badia del medio evo un tal senso di riposo, che solo a pensarci il cuore se ne immalinconiva. Peccato non esserci vissuto trecent'anni prima! peccato non esserci due braccia sotto terra. In quella chiesa Beatrice avrebbe detto il suo sí un'altra volta. Ributtato da questi pensieri, Demetrio si ritrasse dal finestrino, appoggiò la testa nell'angolo delle due pareti di legno, chiuse gli occhi come se si atteggiasse a dormire; e mentre il treno lo portava via sbattacchiandolo, una canzone ancora in fondo al cuore sussurrò in tono quasi di canzonatura "To-to ... finito."

Clelia: il governo dei preti: romanzo storico politico

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Garibaldi, Giuseppe 1 occorrenze
  • 1870
  • Fratelli Rechiedei
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Il capitano Thompson, ardente di obbedire al desiderio della padroncina, s’era perfino scordato di consultare il barometro; ed il barometro abbassava furiosamente, ed in questi mari la caduta del mercurio è segno infallibile di forti venti da Libeccio. Come dicemmo, la Clelia usciva con tutte le vele spiegate dal porto d’Anzo ed orzando a maestro

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 2 occorrenze

- e abbassava gli occhi accennandosi la sciagura della persona miserrima; poi sollevava le iridi chiare: - ... verrò! Sappiate vedermi. La mia anima sarà con voi. Vi giuro che verrò! Tremai della mia eccitazione. Cercai il dottore intorno, come un salvatore, senza trovarlo. Cercai un capitello, una pietra dove sedermi: tutto era occupato dalle signore. E le ginocchia non mi reggevano. Girai intorno alla colonna, passai dagli intercolunni della cella agli intercolunni esterni, in piena luce lunare. Avanzai quasi di corsa lungo il pronao per allontanarmi dal malefizio dei suoni e per sentire la frescura notturna ventarmi in viso. Alla quarta metopa scesi due, tre gradini, mi adagiai con le spalle addossate al granito, la nuca ben sorretta da una curva della pietra consunta. Dinnanzi m'era la pianura incolore ed il mare incolore, non rivelato che dal riscintillare tremulo della luna. Da un lato, obliquo, il sarcofago di Fedra con le figure fatte più visibili dalla luce obliqua. Mi dimenticai per alcuni secondi in quel dolore. La regina seduta, con un braccio rigido appoggiato allo sgabello, e l'altro braccio inerte abbandonato a due schiave che lo reggevano accarezzandolo, affannate e dolenti ... E la donna volgeva altrove il profilo inconsolabile dove s'addensa tutta la disperazione umana, la disperazione incolpevole di essere quali siamo, di non poter essere che quali siamo! Amore, in disparte, contemplava sogghignando l'effetto del dardo, l'amore minuscolo come un piccolo demone. Ma l'altro demone, il piccolo demone del tempo nostro, il Mago dei suoni che mi perseguiva fin là col martirio divino del suo stromento! Anche la Zingaresca di Sarasate, gaia e saltellante, non mi dava sollievo! Accarezzai con la mano le pieghe ordinate del peplo tre volte millenario. - Il dolore, il dolore anche qui, eternato nella pietra dura! Cercai la luna, in alto, per dimenticarmi in una cosa morta per sempre, in una cosa che non soffre più, che non soffrirà mai più. - Eleanor, Eleanor! Ah! Perchè non l'avevo vicina? Perchè non aveva consentito al convegno? Fissai il cielo a lungo, troppo a lungo. Quando abbassai gli occhi vidi il disco lunare moltiplicarsi in rosso ovunque posassi lo sguardo; chiusi gli occhi, li premetti a lungo con le dita per cancellare dalla palpebra interna l'immagine del disco sanguigno. Giungeva nel silenzio la Chanson triste di Sinding, il notturno prediletto di Eleanor. La sua anima era veramente vicina? Certo la sua anima l'udiva anch'essa, dalla sua veranda fiorita, ma non soffriva come me! La mia amica infelicissima conosceva il segreto d'esser felice! E il piccolo evocatore lontano moltiplicava gli effetti imprevisti e la musica m'era vicina come se le corde mi vibrassero nelle orecchie. Ma udivo anche un passo lieve lungo il pronao. L'importuno s'arrestò due, tre volte alle mie spalle, con un fruscìo che sembrava cadenzato col ritmo musicale. Io non volli sollevare il volto dalle mani. Non sollevai il volto nemmeno quando sentii che lo sconosciuto scendeva, mi si sedeva vicino. Guardai, a volto chino, dal basso in alto. E vidi i due piedi ignudi, minuscoli, perfetti nel coturno gemmato; poi il peplo ordinato come un ventaglio semichiuso, raccolto alle ginocchia, il peplo che fasciava con grazia attorta il busto perfetto, avvolgeva le spalle snelle, lasciava la nuca e il volto come in un soggolo, non lasciando libero che il profilo; il profilo di Eleanor. Non balzai, non diedi grido. Cercai di convincermi che non sognavo: palpai il granito, mi morsi le labbra, per sentire il freddo ed il dolore. Non sognavo. - Non sogni! Non sogni! Eleanor parlava! Non so dire come fosse la sua voce; forse le sillabe delle sue parole e le note che venivano di lungi erano la stessa cosa. Ma parlava, eretta dinnanzi a me che non trovavo la forza di balzare in piedi; e m'aveva teso le due mani intrecciando le mie dita alle sue dita soavi. La sua persona era assoluta, poichè la parola bellezza è troppo umana per la rivelazione divina che mi stava dinnanzi, per quell'anima fattasi carne in una forma imitata dalle statue immortali. - Non sogni! Non sogni! Ho giurato. Sono venuta. - No, non è vero! - gemevo con le dita nell'intreccio delle sue dita, - mi sveglierò tra poco e tutto sarà come se non fosse stato e non avrò più queste tue mani; non avrò che le mie unghie infisse nella mia palma sanguinante. Conosco l'inganno dei sogni. - Non sogni! Ah, perchè quest'orgoglio di fanciullo dinnanzi al mistero? Perchè ribellarsi? Per tutto ciò che è divino m'hai chiamata. Sono venuta. E venuta quale voglio essere. Tutto è possibile. Anche questo. - Eleanor! Eleanor! Che questa sia la realtà di un attimo e poi venga il buio senza fine. - Verrà la luce. È giunta l'ora. T'aspettavo da anni. È fatto il miracolo! - Eleanor, se questo non è sogno, - e balzai afferrandola alla vita sottile, - lascia ch'io ti porti tra gli uomini, che io gridi alto il tuo nome nel mondo dei vivi! E tentai di trascinare la tepida forma palpitante lungo il pronao, verso l'interno del tempio. - No! no! La fede sola ha fatto il miracolo. Non profanare il mistero! Mi resisteva ed io la cingevo alla vita, deciso di trascinare nella realtà il sogno divino, ben certo che con l'ultima nota tutto sarebbe dileguato nel nulla. E non volevo. Volevo ghermire alle potenze dell'occulto quella forma divina. - No! Bada! Profani il mistero! La fede sola ha fatto questo! Mi perdi per sempre! Lasciami! Lasciami! Fu la resistenza decisa, la lotta ostile per il bene supremo. - Lasciami! Lasciami! Sollevai la persona che riluttava, guizzava come se la portassi alla morte; poi s'allentò con un grido, s'abbandonò senza vita. E la portai tra gli intercolunnii, trionfando di giungere dal sogno alla realtà con quella preda ben certa, di sollevarla al cospetto di tutti gridando al miracolo. Ma fu allora come se cominciassi a sognare. Vidi per un attimo la folla adunata e il piccolo musico che suonava sul plinto. Poi più nulla. E nel buio un grido, molte grida; e nel cervello che si smarriva disegnarsi ancora in sanguigno il disco lunare poi una voce ben vera, la voce di Madame Delassaux, la mia nemica. - Il est ivre, il est fou! Par ici, sauvez-vous par ici, miss Quarrell! Poi più nulla. L'assenza del tempo e dello spazio. La felicità del non essere. - E dopo - dopo quanto? - vidi per prima cosa attraverso le ciglia socchiuse una prateria ondulata, costellata di fiori non terrestri, simili a quelli ritratti dagli occultisti nei paesaggi di Giove e di Saturno e un gelo, un gelo che contrastava con la flora meravigliosa. Ma aprii gli occhi ben vivi alla luce ben vera, vidi che la prateria smagliante era la coperta del mio letto alterata dalla prospettiva dell'occhio recline, e sentii che il gelo veniva dalla benda che mi copriva le tempia. Portai la mano alla fronte, ma fui impedito dal dottor Gaudenzi che mi sorrise, parlando affettuoso e calmo, come se riprendesse un dialogo interrotto mezz'ora prima. - Ieri? Ventitrè giorni fa! Ventitrè giorni sono passati dal concerto famoso. Ma non t'agitare ... ti dirò poi. - Voglio sapere, voglio sapere! - Tutte cose innocentissime e amene. Amena anche la tua meningite, ora che è scongiurata. Ma non ti agitare! Mi rinnovò il ghiaccio sulla fronte, m'impose il silenzio. M'addormentai nuovamente. Due giorni dopo cominciai ad alzarmi, felice di sentire che le gambe mi reggevano ancora. E volli il barbiere subito, per avere l'illusione di riprendere la mia vita consueta. E mentre ero sotto il rasoio, il dottore si decise a parlare, misurando a grandi passi la stanza. - Bada di dirmi la verità! Tanto saprò tutto oggi, da Miss Eleanor. - Miss Elaanor è partita da tre settimane per l'Inghilterra. Non ritornerà in Sicilia mai più. Per quanto inglese e teosofessa, certe lezioni si ricordano una volta per sempre. Ma lasciami parlare! - Allora cose gravi! - Ma no! Importa molto, a un carattere come il tuo, d'essere la favola allegra di qualche migliaio di sfaccendati, per qualche tempo? Dunque nessun guaio. L'unico guaio si è l'aver portato di peso, tra la folla, in pieno concerto, urlando come un forsennato, la povera gobbina svenuta. Avevo allontanato il rasoio, per prudenza, m'ero alzato in piedi, torcendomi le mani. Non potevo ridere, non potevo piangere. - Non è vero! Dimmi che non è vero! - È vero questo soltanto. E non ti descrivo la scena. Ti sarà descritta a sazietà dai volonterosi e dalle volenterose, in tutti i particolari. I quali tornano più a colpa di Miss Eleanor che a tuo disdoro. - Dimmi che non è vero! - Ed è lezione ben meritata per quella incompleta figlia d'Albione. Tutti gli anni ha sempre tessuto qualche idillio, coronato da catastrofi amene. Ha anche avuto qualche amante, forsennati che giuravano d'averla vista con un corpo fidiaco. Ora posso confessarlo. Nei primi tempi ha tentato lo stesso gioco anche con me. Ma io ho un cervello sano. E l'ho vista sempre con due gobbe e alta come uno sgabello. Con te, ridotto come eri, la cosa è stata diversa. Afferrai il rasoio, per gioco. - Non mi resta che il suicidio od il chiostro! Ridevamo perdutamente. Ma lasciai la Magna Grecia per sempre, tre giorni dopo.

I sogni dell'anarchico

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Mioni, Ugo 1 occorrenze

£d' egli sapeva difendere il suo popolo, anche dagli spagnoli, perché non si sentiva soltanto vescovo cattolico, ma anche lombardo ed italiano, amava il suo popolo, soffriva al vedere calpestati i diritti, e si abbassava, lui,.il conte, il rampollo di nobile casato, l'arcivescovo, il cardinale, il santo, fino all' ultimo dei suoi figli spirituali, al meno intellettuale, al più povero, al più umile, per sollevarlo a sé.. - O la Chiesa. Se essa non fosse poveri noi! - esclama. Ora comprende, che anche il parroco fa quanto può, fa più di quello che può. Ne attende il ritorno; e mentre le mani assidue lavorano, che egli non può rimanere a lungo senza lavorare, il suo sguardo spia la viache conduce al castello del signorotto, attendendo il ritorno del curatore d'anime, curioso di rilevare, ciò che egli ha potuto ottenere. Sarà già arrivato; ecco che parla, che discute, che si accalora. Don Fernando cede, lo minaccia, nega ogni cosa, lo fa cacciare dal castello dai servi, dai cani... Ma egli non ritorna. Che l'abbia trattenuto, fatto prigioniero, chiuso'in carcere? I contadini che avevano aiutato i muratori di professione nella costruzione del castello raccontavano, che ai piedi della torre erano stati costruiti certi ambienti oscuri, che dovevano servire da prigione. Il parroco incarcerato? Il villaggio non doveva tollerare una simile onta. Bisognava liberare l'amato pastore. Verso sera vede finalmente una figura umana, che avanza veloce. E' lui, è lui. Gli corre incontro. Ma egli viene da una dirczione diversa da quella del castro. Non vi è dunque stato? Ha fatto il gradasso ed ha avuto paura di avvicinare il covo del leone? ? Signor Parroco. Lei? - Ritorno da Tonio. Il medico spera di salvarlo.. - II barbiere? ? domanda. - Il medico della borgata vicina. Don Fernando, da principio, non voleva credere. Non gli avevano raccontato nulla. Poi ritenne che i suoi si erano difesi da un attacco. Ma io ho parlato.... gli ho detto ogni cosa, gli ho fatto toccare con mano... ? disse il parroco infervorandosi. - Non ha avuto paura? domanda Tonio ammirato, II parroco non risponde alla domanda ma continua a raccontare. Don Fernando era. montato sulle furie quando egli aveva chiesto un indennizzo per Tonio, voluto che gli mandasse un medico e pensasse alla moglie di lui ed ai figli, e quando aveva pur domandato, che fosse rispettata la popolazione inerme e tranquilla. Il signorotto aveva dato ordine ai servi di cacciare il prete importuno, che veniva a tutelare gli interessi di quegli italiani, che egli, nella sua boria spagnola, disprezzava tanto; ma l'audace sacerdote non si era lasciato imporre da quelle parole, ed aveva invitato il superbo spagnolo al tribunale di Dio. Don Fernando era, cristiano. Le parole del prete lo avevano impressionato. Aveva incominciato a cedere lentamente. _ Ho finito per ottenere tutto quello che volevo. Egli si è ravveduto; ha mandato per il medico; ha promesso di risarcire a Tonio i danni sofferti, di rispettare il seminato, di aver riguardo del popolo. Non so se manterrà la promessa. E' così difficile ridurre questa gente a buon senno. Sono così superbi, così boriosi, cosi poco malleabili; si credono gente di ordine superiore, ci disprezzano tanto. Pure voglio sperare.... Intanto per Tonio venne provveduto ? disse il sacerdote. Egli si congratula con lui di quanto ha ottenuto. Il sacerdote gli disse, che anche il cardinale si prendeva cura del suo gregge e faceva quanto stava nelle sue forze per fargli sentire meno il dominio spagnolo. ? Volevano introdurre la loro inquisizione. ? Cielo! Con tutti i suoi orrori! ? esclama egli, che ne aveva udito parlare con spavento. - Le si esagerano le cose sul suo conto; pure si sparge sangue. Il cardinale però si oppose. Volle libero il ducato da tanta piaga. ? E' riuscito? - Al cardinale riesce tutto quello che si prefigge - fu la risposta del sacerdote, il quale era fiero del proprio arcivescovo, come sono sempre fieri i buoni di un superiore santo. Il sacerdote si allontanò per ritornare alla sua cura, ed egli rimase indietro e guardò pensieroso il castello, puntato lassù quale un gigantesco guanto di sfida di un'aristocrazia senza cuore ad un popolo sofferente e paziente; quale un'eterna minaccia del feudalismo spagnolo a questo buon popolo italiano, così fremente di libertà; pensava che il popolo avrebbe sofferto assai di più senza la Chiesa, la quale s'interponeva presso i potenti e cercava di tutelare i diritti dei poveri, dei repressi, degli umili e sentiva nel suo cuore una riconoscenza infinita per il parroco, il cardinale, e quanti difendono e tutelano i diritti degli oppressi. Ritornò stanco a casa, e dopo una cena molto parca si coricò nel vecchio talamo, dove nacquero tré generazioni, e cercò e trovò sonno.....

Pagina 103

Teresa

678512
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ogni membro della fanciulla si gonfiava nella tensione; le vene delle braccia e del collo apparivano brune alla superficie della pelle; il petto si alzava e si abbassava, lottando col busto; i fianchi spuntavano, colle loro curve giovanili, la succinta gonnella di rigatino bianco e azzurro. Una robustezza fiorente e giuliva le correva in tutta la persona; il suo sangue si scaldava piacevolmente nel moto; tutti i nervi, tutti i muscoli esultavano; ed ella li attizzava, esagerando la pressione delle mani, abbandonandosi al benessere fisico di quella specie di ginnastica. Si fermò un momento per levarsi dalle braccia alcuni pezzettini di pasta, tenendo alte le mani, osservando che in quella positura le vene dei polsi scomparivano, morendo su su nella bianchezza soda delle carni. Un raggio di sole piombando diritto, da un buco della tenda, sui capelli della fanciulla, le metteva intorno al capo una cornice luminosa che dava risalto ad alcune ciocchette pioventi sul collo, di dietro, fin dentro all'avvallatura delle spalle; e a certi piccoli ricciolini che si sbizzarrivano tra l'occhio e l'orecchio, coperti da un lieve pulviscolo di farina. E si rimise al lavoro, spalmando, levigando la pasta che diventava lucida e prendeva un tono caldo nella prima gradazione del giallo; poi, con una grossa cannella, che Teresina staccò da un chiodo, incominciò la difficile operazione dello stirarla, adagino, con precauzione, per non romperla; avendo cura che tutta la superficie riuscisse uguale in spessore. Quando fu ridotta sottile e compatta quasi come un foglio di carta, la ragazza, sollevando la cannella con un movimento esperto, sbatté la pasta sul tavolo, facendola cantare, srotolandola, colla soddisfazione che ispira un lavoro riuscito bene. A questo punto, sulla soglia della cucina, comparve la pretora. - Sei sola? Teresina amava quella donna loquace, che aveva pratica del mondo, e che sembrava comprendere così bene le aspirazioni di una fanciulla. Le andò incontro sorridendo. - Sì, sono sola. La mamma è di sopra ... ha l'emicrania. L'Ida, combinazione, è uscita col babbo ... Dio sa quanto lo fa ammattire! - Oh! non troppo. Tuo padre ha per questa bambina una predilezione; ne sopporta tutti i capricci ... e non è dir poco, davvero. Ma continua, sai? Non far complimenti. - No, veda, ho terminato; ora la lascio asciugare prima di tagliarla. Fece atto d'avviarsi in sala, ma la pretora sedette lesta sopra uno sgabelletto di paglia, dicendo: - Restiamo qui. Tacquero un momento, intanto che Teresina si lavava le mani e le braccia in una catinella di rame; e poi venne anche lei a sedersi accanto alla pretora, tirando giù le maniche lentamente, facendosi vento col grembiale. - Che caldo, nevvero? Teresina accennò di sì, col capo. Non dondolava un nastro, non tremava una foglia, né una festuca; dalle fessure della tenda non entrava un filo d'aria. L'afa d'agosto gravitava, come piombo fuso, con una caldura opprimente che toglieva il respiro. Nella cucina ronzavano, instancabili, quasi feroci, alcune mosche, e le due donne le cacciavano con un movimento automatico della mano, prese entrambe da una specie di torpore, in quell'atmosfera chiusa, dove evaporava l'odore umido e molle della pasta. Bruscamente Teresa chiese, strizzando l'occhio: - È poi vero? ... L'altra comprese a volo. - E che vero! È andato stamattina a fare la domanda formale; l'ho saputo dal cancelliere che è amico intimo di Luzzi. Una lieve ombra attraversò gli occhi di Teresina. - Che cosa vuol dire i denari, eh? perché nessuno mi farà credere che Luzzi la sposi per la sua bella faccia! quando mai, senza andare a cercar lontano, una faccia un po' piú simpatica ... Teresina interruppe in fretta, divorando le parole: - Si diceva che l'avrebbe sposata il Prefetto. - Siii ... il Prefetto; quello è un furbo! Finché vi sono le lenzuola degli altri non vuol sciupare le sue. E senza fermarsi sull'arditezza sguaiata di una frase simile, detta ad una ragazza, la pretora tornò alla sua idea: - Dimmi il vero, qui tra noi ... non hai mai pensato che Luzzi potesse venire per te in via San Francesco? Molto turbata, Teresina si dié a spianare le arricciature del suo grembiale, mormorando: - Egli non me lo ha mai fatto capire, certamente; né io avrei osato immaginarlo. Chi vuol mai che pensi a me? - To', perché non si potrebbe pensare a te? Non sei una ragazza come le altre? - e a parte i complimenti, le Portalupi te le mangi tutte in un boccone. - Ma sono povera. - Ah! ... questo ... La pretora si morse le labbra, mentre batteva nervosamente il piede sull'ammattonato, collo sguardo a mezz'aria, come se cercasse qualche cosa nel suo cervello. E Teresina intanto pensava che dacché avevano mandato Carlino a Parma, per via del liceo, e tutti i mesi bisognava pagare la pensione, si parlava molto molto d'economia in casa sua - e non avevano piú la donna di servizio - ed erano tre mesi ch'ella aspettava un paio di stivaletti nuovi. D'improvviso la pretora domandò: - Quanti anni hai? - Diciannove. - Sei giovane. Però senti, conosci il professor Luminelli, quello che fa la quarta e la quinta? che è d'Ostiano? che porta gli occhiali? ... No? ... che va attorno cosí, dimenando le braccia? - Aah! - Ti ricordi adesso? - Che ha una bambina della stessa età dell'Ida? - Giusto. Ha una bambina, ma non ha moglie; e la cerca. Si fermò, guardando Teresina tra occhio e occhio. Soggiunse, trascinando le parole, sempre guardandola: - Cerca una brava ragazza, sana, senza pretese, senza lusso… Si fermò ancora, aspettando che la sua giovane amica dicesse qualche cosa; ma vedendola muta, col respiro un po' affannoso e una voglia di lagrime in fondo agli occhi: - Tu non lo prenderesti? Tagliò corto così per far piú presto. - Rispondi. - Ma se non lo conosco ... - Non è una ragione. - È tanto piú vecchio di me. - È vero, ma ... - È vedovo. - Peuh!, per questo, mia cara, gli uomini sono sempre piú o meno vedovi. Teresina voleva replicare: Ha una bambina: ma temette di dire una brutta cosa, una cosa che la facesse sembrare priva di cuore; mentre non era ciò. - Infine non ti piace? - Proprio no. - Fa' come vuoi. È un buon partito però. Un uomo posato, senza vizi, che lavora, che ha già la casa piantata; io l'ho vista. Fior di mobili di noce, e il letto con baldacchino. - E poi - saltò su Teresina - questo signore non l'ha mica la voglia di sposarmi! - Glie la si fa venire. Passa sempre la sera con mio marito, al caffè, ed è stato parecchie volte anche in casa nostra ... è facile mettersi d'accordo. Purché tuo padre si decida a fissarti un piccolo assegno ... Teresina ascoltava, istupidita, con una voglia di piangere che le faceva groppo alla gola e un'ira contro se stessa, inesplicabile. - Capisco, - disse la pretora, calma, con un fondo di indulgenza canzonatrice - tu aspetti il principe Camaralzaman quello delle Mille ed una notte lo sogni, e ti figuri che i mariti si taglino su quel modello là. - Non è ... - Lascia dire. Siete tutte così, benedette ragazze, e non volete mai approfittare dell'esperienza di quelle che ne sanno piú di voi. Si ha un bel dirvi: non cercate la bellezza del marito, non cercate l'aria sentimentale, non cercate l'eleganza, non cercate la poesia ... sono corbellerie, razzi, fuochi fatui. Ma che! Finché non ci date dentro il naso ... - Però la mamma - interruppe Teresina, colla vivacità di chi crede aver trovato una buona ragione - sposò il babbo perché ne era innamorata. La bocca, discretamente maliziosetta, della pretora si inarcò ad un sorriso tale di compassione ironica, che non sarebbero occorse altre spiegazioni. Tuttavia volle aggiungere: - Domanda a tua madre se è stata contenta. Ha mangiate piú ... Basta, mi faresti dire uno sproposito. - E lei? - arrischiò timidamente Teresina. - Io? Oh! le ho avute anch'io le mie disillusioni; ma quando vidi che gli anni passavano, sposai il pretore, che era allora cancelliere, che di illusioni me ne poteva dar ben poche… e che per compenso, mi diede un figlio tutti gli anni. Il linguaggio un po' brutale della pretora faceva, tratto tratto, trasalire la fanciulla. Ella rifletteva ora a tutti quei figli nati senza amore, mentre nel suo cervello stava fissa l'idea che i figli sono un pegno d'amore. - Ebbene, grullina, che pensi? Vuoi il compendio della saviezza in poche parole? Un Luminelli che sposa è sempre superiore ad un Luzzi che non sposa ... o sposa un'altra. Teresina arrossì per quella nuova allusione al segretario di Prefettura. Ella non si era accorta di aver pensato qualche volta all'elegante zerbinotto e di averlo seguito con lunghe, lunghe occhiate quando passava sul marciapiede, a testa alta, attillato nel soprabito chiaro. Però era strano che, dopo la notizia del suo matrimonio colla seconda delle Portalupi, questa signorina le sembrasse il doppio piú antipatica di prima. - Dunque - continuò la pretora vedendo che la ragazza si ostinava a tacere - niente Luminelli. Peccato, avrei combinato questo affare volentieri; senza dire che egli è uomo influente in materia di studi, ha molte relazioni e potrebbe giovare anche a tuo fratello ... A Teresina vennero i lucciconi; per fermo non si teneva piú. Scoppiò a piangere, con una desolazione, un abbandono che intenerirono la pretora; la quale, abbracciatala maternamente, si diede a consolarla: - Via, via, non ne parliamo altro; sei tanto giovane ... capiterà di meglio ... speriamolo. Oh! Dio, vedete qui questa bella ragazza che piange, priva d'amore, e tanti uomini invece ... Strinse il pugno minacciando nell'aria una legione invisibile di uomini, e li chiamò egoisti, brutali, avidi, calcolatori. - Guarda, se tu sapessi ... se potessi solamente dirti come non valgono niente ... Infine verrà un giorno che capirai ogni cosa e allora dirai: La Giovannina aveva ragione. Si alzò dandosi una palmatina sui rigonfi del vestito, un po' nervosa. - Se ne va? - Sì. È l'ora che tornano a casa i monelli dalla scuola. Se non mi trovano presente, succede un diavolìo; io, lo sai, ho un sistema spiccio per farli star cheti ... Ci vorrebbe per l'Ida, che, sia detto intanto che babbo e mamma non sentono, è un vero folletto in carne ed ossa. Ieri ha picchiato la mia Estella come fosse un tamburo, ma se la trovo io ... E cosí piccina! Quando poi sarà grande ... - Non so proprio cos'abbia quella bambina nella pelle, - disse Teresa - la mamma se ne dispera, creda ... ma, povera mamma, non ha piú salute; tocca a me a ridurla meglio che posso ... e non ci arrivo; babbo la protegge sempre. - Sì, sì, hai la tua bella croce. E le gemelle, eh? quelle mutrione ... pelano la gallina senza farla gridare, tutt'e due d'accordo, che quel che dice l'una dice l'altra; sono due corpi in un'anima sola. S'erano avviate nell'andito; si fermarono ancora un momento prima di aprire la porta. - Fai la mamma innanzi tempo, tu ... Cara Teresina, vero come c'è Dio, se non ti voglio un bene di sorella! Magari la mia Giulia e la Bice e l'Estella e la Norina ti assomigliassero; sarei una madre fortunata. Si intenerirono entrambe, tenendosi per la mano, ciondolando, senza riuscire a staccarsi. La pretora, che aveva la faccia voltata verso il giardino, esclamò: - Che bella cedrina! Io non sono mai arrivata ad averla così viva e folta; le bestie me la mangiano sempre; quelle bestie che nascono dalla pianta stessa, che ne hanno il preciso colore e portano sulla schiena certe righe azzurrine che sembrano ricami di ciniglia ... un orrore ti dico! - Ne vuole una piantina? - Volentieri. - Attacca subito. Tornarono indietro fino ai vasi di cedrina, fermandosi a guardarla, stropicciandone le lunghe foglie asprette e odorose. La fanciulla andò a prendere una forbice. - Penso che le bestie me la mangeranno ancora! - esclamò la pretora languidamente. - Oh perché? Verrò io a tenergliela pulita. Si guardarono, sorrisero. Una placida simpatia di donna le spingeva l'una verso l'altra. Intanto che Teresa, china sull'arbusto, ne tagliava i ramicelli, la pretora le accomodava le treccie piú alte sulla nuca. - Così, stai meglio. - Non ho mai tempo di pettinarmi a modo. - Povera ragazza! Alla cedrina vennero aggiunti due bei gerani rossi infocati e un garofano dello stesso colore. - Sai che cosa indica nel linguaggio dei fiori il garofano rosso? - chiese la pretora, riunendo con delicatezza i gambi, colla testa un po' inclinata da una parte, l'occhio socchiuso: - Amor vivo e puro Grazioso nevvero? se esistesse. Teresina non afferrò subito l'ironia; ma la capì a poco a poco, rifacendo l'andito verso la porta, e un sentimento di malinconia la invase. - A rivederci. - A questa sera. La porta era chiusa. Sul punto di varcarla, la pretora si fermò: - Notizie di Carlino? - Buone. Deve arrivare a giorni. - Addio dunque; non me ne vado piú. Saluta la mamma. - Senta. Era Teresina, questa volta che la richiamava. Voleva chiederle quando si farebbe il matrimonio della Portalupi; ma, colpita da una vergogna improvvisa, balbettò e si confuse. La pretora, quasi le avesse letto nel pensiero, disse: - Presto i confetti, dall'altra parte della strada; e, chi sa, forse presto anche da questa parte ... Teresina crollò il capo, ridendo, per mostrarsi forte. - Oh! se lei dice che gli uomini non valgono nulla, che sono egoisti, brutali, avidi, calcolatori ... Già fuori, con un piede sul selciato della via, l'amica si volse tutta d'un pezzo: - E sono pronta a ripeterlo. Ma, che vuoi, è un po' come le cipolle; vi è cosa piú volgare, che ammorba dove tocca, che fa piangere solamente a maneggiarla, doppia da non riuscire mai a contarle le pelli, comune che si trova dappertutto, disgustosa al punto che nessun animale la mangia? Eppure si pretende che senza cipolla è impossibile fare un manicaretto gustoso. Addio. Scappò decisamente.

Pagina 106

Oro Incenso e Mirra

678748
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Egli non pensò più, tutto quanto sapeva e credeva gli dileguò improvvisamente dallo spirito, mentre i suoi occhi atoni vedevano senza guardare, e il rantolo del malato si abbassava lentamente. Questi ebbe ancora un gemito. Allora la sorella, adagio, venne col grembiule a cacciargli le mosche dal volto: anche Giannino si era appressato. Dopo qualche minuto l'altro lo riconobbe, poi chiese che gli raddrizzassero i cuscini sudici sotto la schiena, e parve star meglio. - Ero venuto... - cominciò Giannino cercando di dare alla propria voce una intonazione disinvolta per dissimulare il proprio terrore, - ho qui il libro da renderle. - Tienilo... è il legato che ti faccio - e ricadde nuovamente in quella specie di torpore. Ma questa volta vi durò qualche ora. Giannino e la sorella non parlavano, quegli per sfuggire all'angoscia di tale tensione aveva preso dal comodino uno dei libri, L'uomo sotto la legge del soprannaturale del cardinale Alimonda. Si era fatto tardi; il medico, un signore vicino, non veniva che prima di mezzogiorno o assai tardi la notte rincasando, ma aveva dichiarato che forse la cosa durerebbe ancora qualche giorno. Don Costantino occupatissimo per la festa di San Saverio, nella quale la sua chiesa avrebbe sfoggiato un ricco addobbo, era tornato sulle due dopo pranzo, e rassicurato da quella frase del medico non verrebbe più nella notte senza una chiamata. Giannino ne parlò sommessamente colla sorella, che gli rispose con quella rassegnazione ormai vicina all'indifferenza, nell'impossibilità di qualunque speranza. - È tardi? - domandò improvvisamente l'infermo agitando la testa, mentre il ragazzo stava per ritirarsi inosservato. - Sì, bisogna ch'io vada: sono le otto e mezzo. L'altro gli tese la mano con uno sforzo così spossato che Giannino cadde in ginocchio per baciarla. Un'ultima luce si accese nei grandi occhi vitrei dell'agonizzante; la sorella seduta alla finestra vide il ragazzo alzarsi quasi subito per fuggire dallo spasimo di quella emozione: il libro gli era caduto, lo raccolse vergognoso che avesse potuto sciuparsi davanti a lui, e vi soffiò sulle costole per cacciarne la polvere. - Non studiare... - ammonì ancora, spegnendosi, la voce del vecchio professore. Due giorni dopo Giannino verso le sette ritornava in città con la cotta bianca sotto il braccio, per una stradicciuola che dal cimitero passava presso il convento dei cappuccini, solo e triste dopo aver accompagnato il mortorio di don Riva. Anche il funerale era stato miserabile; avevano coperta la bara col panno sbiadito dei poveri, poi don Costantino l'aveva seguìta con altri quattro preti e poche beghine del vicinato: egli portava dinanzi la croce fra due monelli in cotta. Appena deposta la bara al cancello, don Costantino aveva mormorato in fretta le solite preghiere, e il piccolo corteo si era disperso. In quel vespero luminoso di letizia, per la larga strada da porta Montanara al cimitero, passavano molti gruppi di persone e qualche carrozza; quindi egli sfiancò per quel viottolo fra gli orti e i due bracci del canale Naviglio. La sua anima tutta piena della morte provava una strana dolcezza nella contraddizione di quel crepuscolo estivo, vibrante di sussurri e di profumi, mentre nel cielo limpido e tremulo grandi nuvole rosse sembravano isole in fiamme. Dagli orti densi di verzura e lungamente inaffiati veniva un sito terroso. Egli camminava a testa bassa rivedendo ancora nel pensiero gli ultimi istanti del morto: dov'era egli adesso? La terra, che gettavano forse in quell'istante sulla sua cassa era tutto il premio de' suoi giorni tribolati quaggiù, mentre il suo spirito salito sino a Dio aveva già ricevuto la benedizione della felicità eterna? Eppure egli sentiva con una specie di terrore che l'anima del vecchio aveva protestato amaramente sino all'ultimo minuto, come se le consolazioni della vita futura non bastassero a chiudere le cicatrici di tutta la sua vita umana. Si moriva, morivano i credenti e gl'increduli dopo essere passati sotto le medesime verghe, sparendo nel mistero: solo la religione aveva saputo accendere una lampada sul gran varco per gittare nelle tenebre dell'infinito il bagliore di qualche raggio. E in mezzo a questo trionfo continuo della morte, la vita si manteneva egualmente lieta nella pompa spensierata della propria bellezza, come se la gente e la natura non potessero mai ricordarsene. Improvvisamente ad un gomito della stradicciuola si vide venire incontro due signore, ricche negli abiti, con un servo gallonato di dietro a pochi passi. Erano madre e figlia, ma questa, forse quindicenne, camminava con una lentezza impressionante. Il suo viso piccino, rotondo, sebbene le gote fossero già un po' scavate, era di un pallore simile a quello dei vecchi ceri sugli altari; una immensa capellatura bionda, di un oro ardente, le scendeva sulle spalle, mentre coi grandi occhi azzurri, bistrati, guardava tristamente la mamma, che le parlava con tenerezza. Egli si tirò vergognoso verso il fosso per non urtarle, con uno spasimo nuovo per quella sottana così lagrimevole, dai bottoni sfilacciati e quasi sordida malgrado tutto il suo studio di tenerla pulita, ma la fanciulla accorgendosi forse della sua confusione deviò gli occhi. Quei pochi passi diventavano una immensa distanza, s'imbrogliava a camminare, colla testa bassa, guardando con inconsapevole ardimento il viso della fanciulla. Anch'essa era pallida, più di lui, irremissibilmente ammalata. Una indefinibile dolcezza le spirava intorno come se non camminasse nemmeno, così sospesa al braccio della madre, una donna alta e bella, cogli occhi neri e un battito nelle palpebre, che tradiva la dolorosa fatica per reprimere una troppo lunga emozione. Infatti quella passeggiata, a piedi, fuori dalla città, se vi ritornavano così lentamente, doveva essere per la madre la più orribile delle torture. Chi erano? Egli non le aveva mai vedute e non avrebbe saputo a chi chiederlo, ma il suo cuore si era aperto impetuosamente dinanzi all'aspetto moribondo di quella fanciulla. Nessun'altra bellezza di giovinetta o di angelo dipinto gli era mai sembrata più eterea: la sua esile ed alta figurina si disegnava appena sotto le vesti accanto al corpo così splendido e vigoroso della mamma, mentre in quell'ombra della sera le sue labbra violette lasciavano ancora vedere i denti bianchi. Quando le ebbe oltrepassate si voltò, ed arrossì vivamente, vedendo che anche la fanciulla aveva girato la testa per guardargli dietro. Che cosa pensava ella di lui? Aveva indovinato colla chiaroveggenza misteriosa degli infermi, pei quali la vita non è più che un velo, la sua profonda tristezza in quel momento, dopo aver accompagnato al cimitero il cadavere dell'unico amico? Aveva sentito che povero, abbandonato, infermo desiderava anche egli di morire? Senza rendersene conto, giacché in questo caso gliene sarebbe mancato il coraggio, ritornò sui propri passi dietro di loro: camminava adagio attardandosi nello svellere qualche germoglio dalle siepi per mantenere la distanza; il suo sguardo si attaccava ad ogni passo di quell'effimera creatura con una inesprimibile emozione, ma non vedeva che il suo abito chiaro e tutto quell'oro sulle spalle sotto un cappellino di una eleganza incomprensibile per lui, che non aveva mai osservato una donna. Ella teneva penzoloni nella mano sinistra, stancamente, un grande merletto bianco per avvolgersene il volto al primo soffio fresco. La mano era sguantata. Ci vollero venti minuti per ritornare sulla strada, che dalla porta della città conduce al cimitero: allo sbocco aspettava una magnifica carrozza con due grandi cavalli bai. Allora egli affrettò il passo inconsideratamente, e poté essere visto dalla fanciulla nel momento che i cavalli partivano al gran trotto; ma nel farla salire sul predellino con quale delicatezza la mamma aveva saputo aiutarla per nascondere agli occhi della gente la sua estrema prostrazione! Alcuni passanti avevano salutato rispettosamente. Egli tornò in fretta da quella porta entro la città, e sull'altra porta di un gran palazzo barocco sorprese fra due donnicciuole questo dialogo: - La contessina non arriverà in fondo al mese. - È tisica marcia: quasi tutti i signori sono così. - Allora la famiglia Naldi è finita. - Bel male! non hanno da morire anche i signori? La contessa vedova tornerà a maritarsi; come ama però la sua creatura!... - Poveretta! - replicò l'altra, addolcendo la voce a questa osservazione, che la toccava nelle fibre di madre. A lui sembrò di aver saputo tutto. Ma da quel giorno la sua vita interiore parve aver trovato finalmente la tenerezza consolatrice, che le era mancata sino dall'infanzia. Quella morente fra tutti gli splendori della ricchezza era una derelitta come lui: glielo aveva letto nei grandi occhi cilestri, pallidi di uno smarrimento, che si sentiva anch'egli nel cuore così spesso. Prima di coricarsi pregò anche per lei, perché la madonna la guarisse, lasciandola quaggiù come una immagine degli angeli adoranti intorno al suo trono. E a poco a poco quella tenerezza si fece più intensa: non era l'amore inevitabile a' suoi diciotto anni, quel primo fervore di tutto l'essere verso di un altro in uno slancio d'ispirazioni infinite, entusiasta e vivace come tutte le illuminazioni della fantasia; ma una passione delicata e profonda, che lo faceva vivere collo spirito di quella sconosciuta, in una confidenza fraterna e nullameno trepidante di riserve. Nessuna immagine impura, nessun volgare sottinteso turbava la serenità ardente del suo affetto. Egli non sapeva nemmeno abbastanza chiaramente che cosa fosse la donna, benché avesse dovuto studiare sui libri la torbida epopea di peccato e di espiazione per la quale essa aveva traversato il cristianesimo fino all'apoteosi di Maria. Poi la sua stessa miseria di seminarista, costretto a vivere con dieci franchi al mese, perdeva ogni dolore dinanzi alla miseria mortale di quell'altra, vacillante come un'ombra fra tutti i riverberi della ricchezza, e già vicina a sparire improvvisamente nel chiarore di un'alba. L'indomani ripassò sotto le finestre del palazzo, avventurandosi per tutta la città sino nello Stradone, un largo viale fiancheggiato di platani, all'ombra dei quali nel pomeriggio le signore uscivano a farsi vedere. Tutto fu indarno, dovettero trascorrere delle settimane prima che la rivedesse in carrozza, poi la incontrò ancora a piedi sempre così lenta, vestita di chiaro, col viso bianco dentro l'aureola dorata dei capelli. Avrebbe voluto conoscere il suo nome, ma quando lo seppe gli parve volgare, Tecla, perché sentì dolorosamente l'impossibilità di aggiungervi un diminutivo; quindi ascoltando, talvolta chiedendo imprudentemente, seppe il resto. Era l'unica figlia del conte Naldi morto tisico dopo pochi mesi di matrimonio colla contessa Crivelli. Tutta la città s'interessava del caso pietoso, perché i più illustri professori avevano già dichiarata perduta ogni speranza. Solo la madre colla sublime assurdità dell'amore confidava sempre. Ma gli esami gli caddero addosso nella prostrazione fantasiosa di quel sogno, dentro il quale oramai rimaneva chiuso, senza avere ancora potuto rendersene un conto abbastanza chiaro. Egli sapeva solo di amarla con tutta la forza dell'anima dal momento che il suo pensiero si perdeva affascinato dietro di lei. La notte ed il giorno, nel silenzio delle scuole o nelle solitudini del proprio granaio, vedendo sempre la sua esile figura di fanciulla passare lentamente cogli occhi cilestri, pallidi di quello stesso smarrimento, che si sentiva nel cuore. - Merlini, che cosa avete dunque da essere sempre così intontito? Lo sgridava talora la voce aspra del professore, mentre gli altri ridevano intorno. Egli si turbava, ma nella purezza della propria coscienza non credette nemmeno di aprirsene col confessore. Quell'anno gli esami andarono meglio, poi restò ancora due giorni in città per tentare di vederla, e la terza mattina ripartì a piedi per il villaggio. Là si ammalò. Un tifo, forse dovuto all'insalubrità del pozzo di casa, lo tenne due mesi tra la vita e la morte: il medico lo aveva spacciato, il parroco volle amministrargli i sacramenti, egli invece era quasi contento pensando che forse anch'ella stava per morire. Il loro breve viaggio, così dissimile eppure egualmente triste, finiva allo stesso modo; avevano appena traversato un lembo della terra, che Dio già impietosito della loro stanchezza li richiamava. Invece guarì. Allora provò tutte le amarezze della malattia, le prostrazioni, gli scoramenti, e soprattutto l'umiliazione della miseria, che gli contendeva di rimettersi in forza coi cibi sostanziosi prescritti dal medico. Intorno a lui il padre e le sorelle erano freddi: oramai credendolo svogliato degli studi e così poco in gambe si erano rassegnati a perderlo, quindi le querimonie scoppiarono alle spese provocate dalla malattia. Egli si sentì discusso, valutato coll'atroce discernimento dei poveri, pei quali tutto deve soggiacere alla misura del danaro. Quando ripartì ai Santi per la città pareva uno scheletro, ma l'appetito gli era tornato in un rigoglio improvviso di giovinezza. Sciaguratamente i dieci franchi al mese non gli avrebbero permesso di mangiare di più, se qualche buona fortuna di chiesa non venisse ad aggiungere loro un altro guadagno. I primi mesi furono terribili, il freddo e la fame gli attanagliarono spesso lo stomaco. Rivide la giovinetta sempre così diafana, coi capelli d'oro sulle spalle, e le guance di un pallore cinereo: forse questo poteva essere un effetto del freddo, ma i suoi occhi incontrandola gli rivelarono subito, come la prima volta, che nulla era migliorato nella sua vita di fantasma. Come la prima volta ella rivolse la testa a guardarlo, ed egli arrossì nuovamente. Essa pure cominciava ad alzarsi solo con quei primi freddi a rovescio di tutte le previsioni, che non le avevano concesso altri giorni dopo la caduta delle foglie. Naturalmente si era ingiallita in un colore d'ambra sottilmente venato: solo l'oro dei suoi capelli regali scintillava agli ultimi soli. Egli la rivide ancora, e non trascorse più giorno che almeno cinque o sei volte non passasse e ripassasse sotto le sue finestre, dacché una mattina aveva creduto di scorgerla fra due tende, altrettanto bianca, col viso ai vetri, immobile. I cristalli di un pezzo solo, purissimi, lasciavano apparire la sua figura sino alle ginocchia. Egli si arrestò di botto come dinanzi ad una di quelle sante dipinte nelle alte vetriate: i capelli d'oro le facevano sul capo un nimbo di gloria attraverso la luminosità dei cristalli, che rendeva quasi trasparenti anche i suoi abiti. Per fortuna in quel momento la strada era deserta, ma quando poté finalmente sottrarsi all'incanto di quella apparizione senza che ella lo avesse ancor veduto, per rattenere uno scoppio di pianto lì nel mezzo del Corso si disse di aver fatto una grande scoperta. Quella era dunque la sua camera? Una voce segreta, inconfutabile, glielo affermava. Infatti tornandovi tutte le sere vi scorse sempre il lume; l'indizio era tutt'altro che sicuro, ma nullameno egli si sentiva certo di non ingannarsi. Quell'anno l'inverno rigido cominciò a San Martino. Egli tormentato sempre più dalla fame aveva finalmente potuto trovare un condiscepolo, al quale ripetere le lezioni di ogni giorno, nel figlio di un calzolaio, che impietosito dalla miseria di questo nuovo maestro lo invitava tutte le sere a cena. Non era un vitto molto fine, ma abbondante come in vita sua non gli era mai capitato: poi il calzolaio gli risuolò le scarpe e sua moglie gli fece un paio di calze in grossa lana nera. Così col mantellone dell'arciprete e lo stomaco pieno non aveva più freddo, ma in quella casa lo trovarono presto svogliato. Durante le ripetizioni, cui l'altro si prestava di mala voglia, frequenti distrazioni gli facevano spesso sbagliare i temi esponendolo alle berte dello scolaro contento di potersi a quel modo mostrare superiore in faccia ai propri parenti. Era una nuova tortura più aspra della fame; poi in quella famiglia il padre ateo e la madre villana non avviavano il figlio al sacerdozio che come ad un mestiere, calcolandone anticipatamente i guadagni senza un riguardo né a se stessi né a lui. I loro discorsi osceni lo facevano soffrire nelle fibre più delicate dell'anima; nullameno resistette per quella necessità di dovere pur mangiare, e soprattutto perché le ripetizioni gli avevano fornito la scusa per ottenere dal padrone di casa la chiave della porta. La libertà gli parve immensa. Tutte le sere sulle dieci ripassava due o tre volte sotto il palazzo Naldi fermandosi a considerare lungamente quella finestra illuminata. La sua sottile ombra nera si disegnava sinistramente sulla bianchezza della neve; talvolta i passanti si voltavano meravigliati a considerarlo, e allora egli riprendeva il passo nascondendo il viso magro nell'alto bavero del mantellone, colto da un senso pauroso di vergogna al pensiero che qualcuno potesse parlarne col vescovo. Perché un seminarista giovane come lui era ancora fuori ad ora così tarda? Ma siccome all'angolo della casa di contro, prima di arrivare al palazzo, v'era una piccola Madonna di maiolica rischiarata da un lampione, tutte le sere si fermava devotamente a dirle tre Salve Regina per lei. Certamente quella neve avrebbe preso prima di sciogliersi la tenue fanciulla nella propria bianchezza per nasconderla agli occhi di tutti, lieve e pura dentro l'ombra di un'altra notte più profonda. Egli lo sapeva già con una certezza che talvolta lo faceva rabbrividire. Infatti imparò presto dalla voce di tutti che la giovinetta, da quindici giorni sdraiata sopra una poltrona nella camera della mamma prospiciente sull'ampio giardino perché non poteva stare a letto, era in fin di vita. Egli ebbe uno schianto al cuore: che cosa vi era dunque in quell'altra camera perennemente illuminata? Poi la notte degli otto dicembre, festa della Immacolata Concezione, nel passare alla solita ora vide dentro l'atrio del palazzo una carrozza bruna con due immensi fanali accesi, che lo rischiaravano come di una luce d'incendio. Nevicava fittamente, silenziosamente, a larghe falde. La neve turbinava ai vetri dei fanali con un battito di piccole ale bianche crescendo pura e fredda sulla strada: nessuno passava. Egli già tutto bianco, colle scarpe sepolte nella neve e il mantellone che vi strideva dietro ad ogni passo, si diresse verso la Madonna. Dentro quella opacità la fiamma del lampione gli parve come di lampada sepolcrale. Improvvisamente sentì un soffio più freddo negli occhi e un bisogno irresistibile d'inginocchiarsi dinanzi alla Madonna singhiozzando sotto il mantello perché nessuno potesse vederlo. Appoggiò la testa al muro e si prostrò col mantello sulla testa congiungendo disperatamente le mani: le sue orazioni salirono a quella piccola immagine quasi invisibile come una fiamma fra il pianto dirotto che gli inondava il viso. La fanciulla moriva: egli se ne accorgeva come la madre ginocchioni anche essa accanto alla poltrona. Era allucinazione? Era una di quelle misteriose visioni, che la scienza nega ancora, e che lo spirito ebbe sempre? Egli mormorava sommessamente le parole del salmista ai moribondi con lo stesso accento monotono dei preti in tali istanti, simile ad un murmure di acque, che avvallino per un fondo senza fine. Quando i ginocchi intirizziti dalla umidità della neve lo fecero rinvenire, si sentì tutto bagnato: tentò di rialzarsi colle mani al muro, ma l'impressione del freddo fu così acuta che gli fece quasi gettare un urlo. Una carrozza passò rotolando sulla neve, mentre il portone si chiudeva strepitosamente. Egli intontito di quanto aveva fatto si avviò rabbrividendo per tornare a casa; nella notte lo colse la febbre.

Le Fate d'Oro

678897
Perodi, Emma 1 occorrenze

Ognuno gl'invidiava il suo valore in guerra, i nu- merosi suoi feudi e le sue immense ric- chezze, ma nessuno lo amava, neppure la moglie, che aveva scelta fra le fanciulle più nobili e belle del regno; quando ella lo vedeva, abbassava gli occhi, tremava, e taceva: neppure il bambino che gli era nato gli voleva bene; quando lo sentiva accostare alla culla, incominciava a pian- gere, e si copriva il visino con le mani, impaurito. - Che vale che tutti obbediscano ai miei ordini quando non posso ottenere che mi vogliano bene? - gridava il Conte dalla torre più alta del castello. Il vento portava lontano i suoi la- menti che parevano ruggiti di leone fe- rito. Una sera che era lassù da molte ore, gridando e lamentandosi, un’aquila reale venne a posarsi su un merlo della torre. Il Conte trattenne la voce per non spaventarla, e involontariamente ammirava con compiacenza i grossi artigli e il becco adunco di quella dominatrice dell'aria. Mentre la guardava, la vide sorridere tristamente: - Son come te: temuta e non amata - disse l’aquila, e volò via. Il Conte andò su tutte le furie. Quel- la aquila conosceva il segreto del suo dolore; quell’ aquila doveva morire. La mattina dopo salì sulla torre armato di frecce e d'arco e si mise in agguato. Dopo poco vide l’aquila che descriveva larghi circoli attorno alla torre, ma stava sempre fuori del tiro della sua arma. L'aquila gli passò alta sopra alla testa, gridando: - Conte, caro Conte, deponi le armi e t'insegnerò il mezzo di farti amare. - Il Conte digrignava i denti dalla col- lera e scoccava frecce all'impazzata. L'aquila si avvicinava sempre più, ma nessuna freccia le penetrava nella carne, e il Conte raddoppiava di furore nel lan- ciargliele. L'aquila, sogghignando, andò a posarsi sul solito merlo. - Conte, caro Conte, deponi le armi e t'insegnerò il mezzo di farti amare. - Il Conte si avventò sull'aquila col pu- gnale, ma la lama, invece di penetrare nel collo dell'uccello, scivolò e andò a confic- carsi nella pietra. L'aquila si accoccolò sulla impugnatura d'oro del pugnale, e di lassù seguitava a dire: - Conte, caro Conte, desisti dalla tua collera ed io ti insegnerò il mezzo di farti amare! - Il Conte, giallo ancora di rabbia, si avvicinò all'uccello. - Nessuno mi vide mai soffrire, - mormorò fra i denti. - Ho raccolto i lamenti di uomini più forti e più potenti di te, - disse l'a- quila. - Sono la Fata della notte, e i forti confidano soltanto alle tenebre i loro do- lori. - Che cosa debbo fare dunque per farmi amare? - domandò il Conte. - Bisogna che tu parta per andare alla ricerca del dittamo del buon cuore, e tu ne porti a casa un ramoscello verde. - Dove fiorisce? - In molti luoghi, ma specialmente vicino alla miseria. - L'aquila spiccò il volo e sparì. Il Conte rimase lungamente a pensare. Finalmente esclamò: - È meglio tentare l'impresa! - E scese nella camera della Contessa, sua moglie, la quale era occupata a rica- mare in mezzo alle sue ancelle. Queste s'inchinarono profondamente dinanzi al Conte e uscirono; la Contessa non osava alzar gli occhi dal lavoro, e tremava tanto che non poteva infilar l'ago nella stoffa. - Parto, - le disse il Conte - debbo fare un lungo viaggio, e vi lascio padrona assoluta, per tutto il tempo della mia as- senza, di quanto è nel castello: uomini e cose. - Il Conte la guardava, e s'accòrse che l'annunzio del suo viaggio la rallegrava; ne provò dispetto, ma seppe dominarsi. Chiese di vedere il bambino, che strillò come un disperato quando volle baciarlo, e, fatto sellare un cavallo, prese armi senza stemma, si vestì in modo irriconoscibile, si calò la visiera sul volto, e partì solo solo. Una sera traversava una pianura de- serta, dove non cresceva neppure un cardo, quando una vecchina tutta grinzosa, con un fastello di legna in testa, gli s'avvicinò dicendogli: - Signore, mi pesan tanto queste le- gna; caricatemele, per carità, sul vostro cavallo. - Il Conte avrebbe risposto per le rime alla vecchia, se in quel momento non avesse veduto l'aquila che gli volava al disopra del cimiero. L'aquila, abbassandosi, gli disse: - Conte, mio bel Conte, la pianta di dittamo del buon cuore fiorisce special- mente vicino alla miseria. - Il Conte si rabbonì; scese da cavallo e caricò sulla sella il fastello delle legna. La vecchina camminava piano, quindi do- veva camminar piano anche lui. Intanto il cielo diventava nero nero, e i fulmini facevano parere la pianura un mare di fuoco. - È lontana di qui la vostra casa? - domandò il Conte alla vecchina. - È lontana per le mie gambe e non per le vostre. - Ed ambedue seguitavano a camminare. Finalmente, fra il bagliore dei fulmi- ni, il Conte vide una capanna piccina pic- cina. Era stanco anche lui e aveva una fame.... una fame.... - Eccoci a casa mia, - disse la vec- china, fermandosi davanti alla capanna. Entrarono. In cucina c' era il fuoco spento, una sola panca da sedere e una tavola. La vecchia accese il lume, fece ri- covrare il cavallo, e disse al Conte: - Mettetevi a sedere per riposarvi; intanto io vi porterò qualche cosa da man- giare. Quel che ci sarà, lo divideremo fra noi. Ma ci sarà poco. Siamo vassalli del Conte, e non c'è gente più povera e più maltrattata di noi. - Il Conte non fiatò: ma si sentì andar via tutta la fame che aveva. La vecchina mise in tavola una ma- gra forma di cacio, un mezzo pane e una brocca d’acqua, e non cessò un momento dal lagnarsi della durezza del Conte e dei suoi sottoposti, che toglievano ai poveri anche il sangue a nome del padrone. Il Conte seguitava a stare zitto, e buttava giù qualche raro boccone tanto per non parere. Quando ebbero finito di mangiare, la vecchina accese un lume e condusse il Conte nell'unica cameruccia della capan- na, e accennandogli un misero lettuccio, gli disse: - Coricatevi, e buon riposo. - Il Conte si coricò, ma gli ci volle un pezzo a addormentarsi, benché cascasse di stanchezza; e appena chiuse gli occhi gli parve d'esser trasportato nel suo castello. Tutti erano cambiati: i servi portavano alta la testa e scherzavano lavorando; le ancelle della Contessa facevano echeggiare le sale delle loro allegre risate; la Con- tessa passeggiava sulle terrazze, tenendosi in collo il suo bambino e rideva come non l'aveva mai veduta ridere. Il Conte si destò e volle partire. Gli pareva di soffocare in quella capanna. Andò per sellare il suo cavallo; la vecchina era già desta. - Ditemi, buona donna, - le chiese mettendole in mano alcune monete d'oro - dove fiorisce la pianta di dittamo del buon cuore? - Vicino al castello del Conte non ci alligna; ma più che salite verso la mon- tagna e più diventa comune. - Il Conte la ringraziò, montò a cavallo e si diresse verso la montagna. Sali, sali, la foresta diventava più folta e la neve cominciava a cadere. Nonostante il Conte non si sgomentava e spronava il cavallo. Voleva tornare a casa col ramoscello verde, e tornarci presto. A un tratto si trovò ad un crocicchio. Vedeva quattro strade lunghe, intermina- bili, e non sapeva quale prendere; intanto la neve e il vento ghiacciavano il povero Conte. In quel momento sentì uno starnazzar d'ali sopra alla sua testa e scòrse l'aquila reale. - Imbocca una strada qualunque. Il dittamo del buon cuore fiorisce per tutto quassù, - disse l'aquila, e sparì. Il Conte riprese speranza, e spronò il cavallo; ma la neve cadeva sempre più fitta e copriva tutto. Cavallo e cavaliere caddero in un fosso. Il Conte gemeva e chiedeva aiuto; nes- suno lo sentiva. Sarebbe bastato che qual- cuno gli avesse gettato una corda per salvarlo; ma il tempo passava ed egli si sentiva sempre più intirizzire dal freddo. Comin- ciava a rassegnarsi a morire senza rivedere i suoi, sbranato forse dai lupi, quando udì abbaiare un cane, e poco dopo lo scòrse avvicinarsi alla sponda del fosso, insieme con una bambina. - Non vi sgomentate, - gli disse la bambina - corro a casa e torno con una fune per tirarvi su. - Il Conte riprese animo, e dopo un po' di tempo vide ricomparire la coraggiosa bambina, la quale, legata solidamente la fune al tronco di un albero, la lasciò ca- lare nella fossa. Aiutato dalla fune, il Conte potè salire insieme col cavallo sulla proda, sano e salvo. La bambina gli dette pure una boccettina di liquore per risto- rarlo, e lo guidò a casa sua, dove fu ac- colto affettuosamente e albergato dai ge- nitori di lei. - Vi potremmo dare di più, - disse il padre della bambina a cena, mettendo in tavola castagne e carnesecca - ma il Conte ci spolpa. Se sapeste che flagello è un padrone simile per noi! Bisogna soffrire e tacere; ma lui deve essere più infelice di tutti gl'infelici che fa. - Il Conte respinse il piatto, disse che era stanco, e chiese d’andare a letto. S'addormentò anche quella notte a stento, e in sogno vide la felicità che re- gnava nel suo castello riflessa in tanti quadri lieti, e vide che nessuno desiderava il suo ritorno. Si destò, fu preso da un grande sco- raggiamento e si mise a piangere. In quel momento sentì battere forte forte alle im- poste della finestra. Aprì e vide l'aquila. - Cògli un ramoscello del dittamo del buon cuore, che cresce qui sulla fine- stra della bambina; annaffialo di lacrime e portalo a casa tua; vedrai che non si sec- cherà più. - A. casa non ci torno; non ci posso tornare! - Perchè avresti fatto il viaggio? - gli domandò l'aquila. - Da' retta a me e parti subito. - Il Conte colse il ramoscello, si vestì e scese giù. Tutti erano già alzati e lavo- ravano. Il Conte sellò il suo cavallo, dette una borsa piena di danari al capoccia, baciò la bambina e ringraziando si al- lontanò. La famiglia lo accompagnò con sa- luti e benedizioni, ed egli si sentì sol vare il cuore. Il Conte, tornando al castello, vide spa- rire a un tratto l'allegria da tutti i volti, cessare i canti, cessar le risa, ma egli non si sgomentò per questo; voleva essere amato ad ogni costo. Egli piantò con cura il ramoscello di dittamo in un bel vaso, lo annaffiò ogni giorno, si mostrò umano e affabile con i sottoposti, dolce con la moglie, carezzevole col bambino, e da quel tempo il dittamo del buon cuore fiorì splendidamente nel castello, e il Conte diventò un signore fe- lice, meno temuto, ma molto amato.

Pagina 117

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

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Perodi, Emma 1 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Vezzosa non si abbassava nel prestare umili servigi. Aveva un certo fare che nobilitava ogni opera delle mani, e una destrezza che già le future cognate le invidiavano. Quando la cucina fu tutta in ordine, ella andò a sedersi accanto a Regina, e le disse sorridendole: - Mamma, aspettiamo la novella! La vecchia la guardò con compiacenza e prese a dire: - C'era una volta a Bibbiena una ragazza per nome Amabile, che era reputata in paese la bella delle belle. Il padre di lei faceva il tessitore di panni, dunque Amabile non era punto, ma punto ricca. Però le piaceva di comparire, e avrebbe fatto a meno di desinare pur di mettersi un fronzolo nuovo. Dovete sapere che da anni e anni a Bibbiena c'è la costumanza di far baldoria l'ultimo giorno di carnevale. In quel dì una comitiva di Fondaccini, con nastri celesti e merli, vivi o morti, legati per le zampe al cappello, gira di giorno la città suonando il trescone sul violino o sull'organetto. Ogni tanto questa comitiva dei Fondaccini si ferma davanti alla casa di qualche persona facoltosa, acclama il proprietario che dispensa denari e rinfreschi. Nello stesso tempo un'altra comitiva, detta dei Piazzolini, percorre altre strade, e a una cert'ora si ferma in Piazza Grande. Costì uomini e donne si mettono in giro alla fonte e cantano la canzone del Pomo Bello. Appena suona la campana della torre, tutta questa gente va in Piazzolina, dove i Fondaccini hanno acceso il Pomo Bello, che è un rogo formato di fascine di ginepro. Mentre la fiamma avvolge il rogo, anche i Fondaccini cantano la canzone del Pomo Bello, suonano il trescone, e le ragazze e i giovinotti ballano a più non posso. Ora avvenne che Amabile, la bella fra le belle di Bibbiena, si trovasse sulla Piazzolina quando fu incendiato il Pomo Bello. Ella era accompagnata dal padre, che, essendo uomo faceto, cantava a squarciagola: e le ronzava intorno Bindo, un altro tessitore, che era tanto innamorato di lei che pareva lo avesse stregato. Amabile, che era vana e ambiziosa, lo teneva a bada, ma non gli dava troppe speranze, perché il giovanotto non aveva terre al sole. Quell'ultima sera di carnevale, dunque, era mescolato alla folla un giovine signore di casa Dovizî, venuto da qualche giorno da Pisa, dove compieva gli studî. Costui appena vide Amabile se ne innamorò a tal segno che non si rammentò neppure che la ragazza era di bassa condizione, e lui di famiglia nobile. Voleva lasciare gli studî e non moversi più da Bibbiena, e dopo aver ballato con lei e averle dette tante dolci parole, consumò la strada davanti la casa di Amabile cantando le ultime strofe della canzone del Pomo Bello, che dicono: La Brunettina mia, Coll'acqua della fonte, La si bagna la fronte, Il viso e il petto. Un bianco guarnellino, Ell'ha con che si veste, E pel dí delle feste, Quello adopra. La voce del giovane si faceva specialmente forte per cantare gli ultimi quattro versi, che sono questi: S'io fossi in campo acciso, Fra suoni e canti, Io mi vedrei davanti, Il suo bel viso. Amabile, cui non era sfuggita la cortesia del giovine signore, capì che era lui che cantava, e disse fra sé: - Bindo non mi avrà certo; di qui a poco, sarò la moglie del bel cavaliere. Il dì appresso ella stava filando sull'uscio di casa, quando Desiderio Dovizî, passando di là, la salutò cortesemente. Ella rispose al saluto, e con belle maniere lo invitò a fermarsi per scambiare alcune parole. Desiderio accondiscese, e da quel giorno non cessò di passare dalla casa di Amabile, finché le due chiacchiere diventarono lunghi discorsi. A farla breve, egli, che era sempre più consumato dalla fiamma d'amore, le promise di sposarla appena terminati gli studî. Amabile era al colmo della felicità, perché aveva sempre bramato di crescere di grado e di vestire abiti di drappo, come aveva veduto portare alle signore del castello di Bibbiena. Ma intanto che i due giovani parlavano del loro avvenire, il fratello maggiore di Desiderio, cui non era sfuggita la passione del giovane per la bella fra le belle, gli ordinò di tornarsene a Pisa agli studî. Desiderio, prima di partire, pose in dito ad Amabile un ricco anello, e si fece promettere di restargli fedele. In capo a tre mesi egli sarebbe tornato e allora avrebbero pensato a celebrare le nozze. Amabile pianse in sulle prime, ma il timore di guastarsi i begli occhi, che tutti decantavano, la fece smettere, e, ripreso il fuso, tornò sulla porta a cantare per svagarsi. I giovinotti, che si erano allontanati per lasciare il campo libero a messer Desiderio, appena lo videro partire ricominciarono a ronzare intorno ad Amabile, la quale li trattava gentilmente, e alle loro parole melate rispondeva senza scoraggiarli, come sogliono far le ragazze che desiderano di sentirsi sempre adulare. Intanto messer Desiderio non s'era fatto vivo, e Amabile si cominciava ad annoiare di doverlo attendere tanto tempo, Un giorno ella era andata a merenda a Fonte Chiara da una sua comare, e verso sera se ne tornava a Bibbiena, quando le si accostò un cavaliere montato sopra un bellissimo cavallo morello: - Che cosa desiderate, signor cavaliere? - domandò Amabile alzando su di lui i bellissimi occhi. - Bella fra le belle, vorrei offrirti questa rosa, meno fresca delle tue labbra, - rispose il signore. Amabile fece una risata. - Voi non sapete certo che io sono promessa sposa, e che non posso accettare neppure un fiore da altri che dal mio sposo. Il cavaliere non rispose, ma balzato di sella infilò il braccio nella briglia e si mise a camminare accanto ad Amabile, sussurrandole nell'orecchio paroline dolci. Fra le altre cose egli le disse: - Se la bella fra le belle non vuole accettare una rosa, posso offrirle un bel fiore d'argento, poiché mio padre mi ha lasciato tanti fiorini d'oro da caricare tre carri. - Anche il mio sposo è ricco e non mi ricuserebbe nulla, - rispose Amabile. Quand'ebbero fatto un pezzo di strada il cavaliere disse: - Oltre l'eredità di mio padre, ho anche i beni che mi ha lasciati mia madre, i quali consistono in campi e vigneti; e se la bella fra le belle ricusa il fiore d'argento, posso offrirglielo d'oro. - Non vi ascolto, - rispose Amabile turbata. Così doveva parlare il serpente alla nostra prima madre. Fecero un altro pezzo di strada e il cavaliere disse: - Fin qui ho parlato alla bella fra le belle soltanto dei beni ereditati da mio padre e da mia madre; ma ho ancora dei boschi immensi lasciatimi da mio zio, e se il fiore d'oro le par cosa troppo misera, posso offrirgliene uno tutto scintillante di diamanti e rubini. Questa volta Amabile rispose: - Tacete, messer lo cavaliere, voi volete la mia dannazione. Ma lo sconosciuto continuò a parlare a voce bassa di ciò che voleva offrire alla bella fra le belle. Prima di tutto abiti più ricchi di quelli di una regina e un palazzo degno di un re di corona. Amabile non poté resistere a siffatte tentazioni. Ella si tolse di dito l'anello da sposa e l'offrì al cavaliere, e invece di tornare a casa si lasciò condurre lontano, nel luogo ove doveva trovare il palazzo promessole. Ma più che camminavano, più il cielo si faceva scuro, e a una a una sparivan le stelle. Nella campagna non si udiva altro canto che quello sinistro della civetta. Allora ella ebbe paura e disse allo sconosciuto: - Signor cavaliere, è tanto che camminiamo e non vedo dinanzi a me altro che una spianata, che somiglia a un camposanto. - È il cortile del mio palazzo, - rispose il signore. - Vedo una croce come quelle che piantano sul margine delle vie, nel luogo ove fu commesso un delitto. - È la banderuola del mio tetto, - rispose lo sconosciuto. Amabile fece alcuni passi e poi si fermò. - Mi par di camminare sopra una cava abbandonata, dove gettano gli animali morti. - È la soglia della mia dimora, - disse il cavaliere, e la trascinò giù per la discesa. Ma appena ebbero toccato il fondo della cava, la luna ricomparve ed Amabile si vide dinanzi, invece del bel cavaliere, uno scheletro avvolto in un lenzuolo sbrandellato. Amabile cadde in ginocchio, gridando: - Misericordia! Allora il morto le disse: - Non urlare: son Desiderio, lo sposo tuo. Tornavo per celebrare le nozze e sono stato aggredito da due ladroni, i quali, dopo avermi spogliato, mi hanno messo questa corda al collo e mi hanno gettato in questa cava. Il mio cadavere marciva sopra a terra, quando Gesù s'è impietosito e mi ha dato le sembianze d'uomo per provare la tua fede. Tu sei una spergiura, ma io voglio mantenere le promesse che ti ho fatte poco fa. Avrai abiti da regina, perché anche le regine sono rivestite di terra dopo morte; avrai un palazzo degno di un re di corona, perché anche i re, una volta spirati, son posti sottoterra. Dammi la mano, sposa mia, e mettiti al mio fianco, perché è sonata per me l'ora di tornare in seno alla morte. Ciò dicendo lo scheletro legò la corda attorno al collo della ragazza con un nodo così forte che nessuno avrebbe potuto sciogliere; e si coricò sulla terra umida. Amabile passò tutta la notte a pregare la Madonna, che non la udiva. Verso l'alba vide qualche cosa che si moveva ai suoi piedi. Era un topolino che stava fermo a guardarla. Nel medesimo tempo apparve qualche cosa di nero sopra la casa, e un corvo bigio andò a posarsi sopra una pietra. Il corvo e il topo erano due Maghi, che andavano in quel luogo a pascersi di cadaveri. - Corpo del diavolo, compare! - disse il corvo. - Sei giunto presto e scommetto che hai già scelto quel che ti piace meglio di quella ragazza! - Ma Satanasso non ci permette di toccar carne viva, - rispose il topo. - Ebbene, aspetteremo che sia morta. - Sì, - disse il topo - io mi sono scelto le gote. - E io le labbra, - replicò il corvo. - Le mangeremo gli occhioni neri. - E le orecchie rosee. Amabile si sentiva gelare, ma ebbe la forza di dire: - Ahimè! sono tanto giovane e smilza che avrete poco da mangiare; scommetto che vi tornerebbe più conto di salvarmi. - Salvarti! E come si farebbe mai? - Non è difficile; basta che il topo roda la corda che mi tien legata al cadavere, e che il corvo mi porti fuori da questa caverna. - Che cosa ci daresti se ti si contentasse? - domandarono i due Maghi. - Supplicherei mio padre di tesservi un bell'abito di drappo per ciascuno. I Maghi si misero a ridere. - Una camicia di finissimo lino. I Maghi risero più forte. - Anche un mantello di velluto. - No, - disse il topo, - non ho bisogno di vestiti né di biancheria; ma voglio due ali per volare. - Ed io, - continuò il corvo, - voglio quattro piedi per camminare. - Se domani non ci dài quello che chiediamo, l'anima tua è perduta, - aggiunsero tutti e due. Quelle condizioni parvero abbastanza dure a Amabile; ma accettò tutto, piuttosto che restare in quella caverna legata allo scheletro. I Maghi le fecero fare un giuramento sulla crocellina d'oro che portava appesa al collo, e appena ella ebbe giurato, il topo si mise a rosicare la corda, finché non fu spezzata, e poi il corvo si avvicinò, se la fece salire in groppa e la ricondusse fino dal padre. Quando l'ebbe posata nell'orticello del tessitore, l'avvertì che il giorno dopo sarebbe tornato in quel luogo insieme col compagno, affinché ella mantenesse la promessa. Amabile corse subito a picchiare all'uscio di cucina, che dava sull'orto, e il padre andò ad aprire. Ma vedendo la sua bella figliuola pallida, infangata, con gli occhi sbarrati, cominciò ad urlare che doveva esserle accaduta qualche disgrazia, e dallo strepito destò tutta la gente del vicinato. Amabile raccontò tutto quello che le era accaduto, e il padre disse che bisognava ricorrere a fra' Cirillo, che era un frate francescano, famoso per dar consigli. Appena fu giorno, Amabile andò al convento, accompagnata dal suo babbo e in confessione raccontò tutto a fra' Cirillo, che le disse: - Figlia mia, tu hai giurato sulla croce e nessuno ti può prosciogliere dal giuramento; ti conviene fare quanto hai promesso. - Dio mio, sarò dannata! - esclamò Amabile. - Stammi a sentire, - replicò il Frate, - e fa quanto ti ordino. La ragazza promise di non dimenticar nulla. - Prenderai prima un coltello che non abbia mai toccato carne; andrai lungo le siepi ascoltando il soffio del vento nell'erbe; quando udrai un lieve rumor di sonaglio, taglia la parte superiore dell'erba, che è quella del sonno, portala nell'orto, stendila in terra e torna ad avvertirmi. Amabile fece come le aveva ordinato il Frate e, trovata l'erba, la tagliò con un coltello nuovo e la stese nell'orto, e poi tornò dal Frate, il quale la rimandò a casa dopo averle insegnato quel che doveva fare. Fino a sera l'Amabile rimase nell'orto in orazione, e quando fu notte, sentì la voce del topo, che la chiamava. - Sono pronte le ali? - domandò in tono di scherno. - Non ancora, - rispose Amabile, - ma presto sì. - Sbrigati, sbrigati, - replicò il Mago, - ho furia, e domani sera devo essere a Firenze per certi affari miei. - Riposatevi un momento, - rispose la ragazza, - e vi contento subito. Il topo, che si sentiva volentieri trattato come persona di riguardo, si sedé sull'erba preparata da Amabile; ma l'erba del sonno produsse il suo effetto e di lì a poco il topo dormiva e russava. Dopo qualche momento comparve il corvo, e domandò: - Ebbene, carina, dove sono i miei quattro piedi? - Ahimè non ho potuto trovarli, neppure pagandoli a peso d'oro, - rispose Amabile. - Ne ero sicuro, - disse il Mago sghignazzando. - Ora dunque mi spetta metà della tua animaccia, e la voglio fra poco. - Concedetemi un po' di tempo, caro Mago! - esclamò Amabile. - Spero che avrete compassione di una povera ragazza innocente, che vi reca da cena. - Come mai? - domandò il corvo. - Ho acchiappato un topo con la trappola e l'ho portato qui per offrirvelo, - disse accennando il topo che dormiva sdraiato sull'erba. Il corvo lo guardò. - È un bocconcino ghiotto e lo accetto, a condizione di non rinunziare ai miei diritti. - Fate quello che vi pare, - replicò Amabile. Il corvo non si fece pregare: chiappò il topo per la collottola e giù in un boccone. Ma quello, svegliandosi, si mise a gridare e a dimenarsi tanto forte che con le quattro zampe forò lo stomaco del ghiottone. Allora comparve fra' Cirillo, che aveva veduto tutto. Egli recava la croce, e gridò: - Via, razza nata dal Diavolo! Questa ragazza non vi appartiene più perché ha adempiuto la sua promessa. A te, topo, ha dato le ali, perché oramai sei una cosa sola col corvo; a te, corvo, ha dato le quattro zampe che volevi. Andate dunque, e restate così come avete voluto essere, fino al giorno del Giudizio. I due Maghi, scorbacchiati, se ne andarono, ma non per questo la ragazza fu salva. Il grande spavento che aveva avuto nella caverna la fece ammalare, e presto presto si ridusse al lumicino. Il tessitore si rodeva le mani dal dispiacere. Avere una figliuola così bella, la bella fra le belle, e vedersela morire nel fiore degli anni! Il padre mandò a chiamare un forestiero che curava gl'infermi; costui le dette intrugli sopra intrugli, ma Amabile non risanò. Mandò a chiamare fra' Cirillo, e fra' Cirillo l'asperse di acqua benedetta; ma Amabile non risanò. Allora mandò a chiamare una vecchia, che stava in una capannuccia su verso la Beccia, e che tutti chiamavano la Strega, e costei, guarda e riguarda, esamina che ti esamino, disse che Amabile non sarebbe guarita, perché il suo male aveva sede nel cervello. E infatti non guarì. Di giorno era un po' più tranquilla, ma la notte pareva una indemoniata, perché appena l'aria si faceva buia, lo scheletro si alzava dal fondo della cava, si avvolgeva nel lenzuolo sbrandellato, e via accanto a lei a tormentarla, a coprirla di rimproveri per la fede mancata e per esserle fuggita con l'inganno. - Spergiura! Spergiura! - le diceva, e con le mani scheletrite le cingeva il collo, e con le guance ghiacciate toccava il viso infocato di Amabile. La malata urlava, si dibatteva tutta la notte, e ogni momento faceva atto di gettarsi giù dal letto; ma lo scheletro la tratteneva con le lunghe braccia, Amabile lo vedeva e lo sentiva, ma il padre, che l'assisteva, non vedeva nulla e attribuiva quelle smanie alla febbre che divorava la figliuola. Una sera Amabile morì. Le donne del vicinato la vestirono dei suoi abiti più belli, accesero molti ceri attorno al cadavere e le misero una croce fra le mani. Prima esse pregarono per l'anima di lei, poi, stanche, cederono al sonno. Quando si destarono all'alba, che è che non è, il cadavere era sparito. Figuriamoci lo spavento del padre e delle donne! Chi diceva che i ladri lo avevano rubato per spogliarlo degli abiti! Chi diceva che il Diavolo se l'era portato via! Figuriamoci se il padre cercò il cadavere della sua Amabile per fargli dare onorata sepoltura! Si mise alla testa di una comitiva di amici, e frugò per le macchie, per i burroni; tutto fu inutile. Allora fece fare delle novene; ma sì, il corpo d'Amabile era sparito e nessuno l'aveva veduto, né in città, né nel contado. Poi, come succede sempre, egli si stancò di cercare e riprese a tessere pensando sempre alla figliuola. Ecco com'erano andate le cose. Il corvo e il topo, che ormai formavano una sola persona, perfida per cento, appena che furono burlati a quel modo da Amabile pensarono di vendicarsi atrocemente di lei, e, aspettato il sabato notte, si recarono a un luogo dove sapevano d'incontrare il Diavolo, e gli esposero l'accaduto. - Che cosa posso fare per compiacervi, figli diletti? - domandò Satanasso quando ebbe udita tutta la narrazione. - Noi vorremmo un piccolo favore soltanto, - rispose il corvo che era molto loquace e parlava anche per il compagno. - Vorremmo cioè che ogni notte lo scheletro di messer Desiderio si destasse dal sonno della morte e andasse a tormentare Amabile. All'ora della di lei morte, poi, sarebbe nostra brama che Desiderio portasse la sua promessa sposa nella cava abbandonata, e se la tenesse a fianco fino al giorno del Giudizio. - Compare, - disse il topo, che vinceva in perfidia il corvo, - non ti pare che sarebbe meglio ottenere che tanto Desiderio quanto Amabile tornassero in vita per alcune ore; così il tradito continuerebbe a tormentare la spergiura? - Bravo! - esclamò il corvo. Il Diavolo, che era stato a sentire, si dette una fregatina alle mani in segno di allegrezza, e concesse ai due Maghi quello che volevano. - Ora, - disse il topo, - voliamo pur via e andiamo a godere dello spettacolo di Amabile alle prese con lo scheletro. Quella vista ci farà buon sangue, Infatti il corvo, nelle notti della malattia di Amabile, non si mosse più di sul davanzale della finestra, e quando la ragazza fu morta volò dietro allo scheletro, che se la portava nella sua caverna umida. Nel destarsi in quel luogo d'orrore, Amabile gettò un grido, e il topo le disse: - Perfida fra le perfide, ora non c'è nessuno che ti roda la corda. - Né che ti prenda sulle proprie ali per cavarti di qui, - aggiunse il corvo. - Sposa mia, sei diventata tanto brutta che mi fai orrore; - le diceva lo scheletro, - ma posa la testa più qua, affinché mi serva da guanciale. E allora lo scheletro posava il teschio sul viso di Amabile e la copriva d'improperî. - Spergiura! ... Vile! ... Anima nera! ... Strega! ... Questa scena si ripeteva ogni notte, e il corvo e il topo non la perdevano mai; venivano da lontano per assistervi, e a tutti e due pareva di andare a nozze. Ora avvenne che, dopo un certo tempo, fu stabilito a Bibbiena di costruire una nuova chiesa in onore della Madonna, e pensarono di prender la pietra nella cava abbandonata dove giacevano insepolti i cadaveri di Desiderio e di Amabile. Gli scavatori, appena vi scesero e videro quei due corpi, corsero a Bibbiena a raccontare il fatto, e il povero tessitore, che non aveva dimenticata la figlia, andò subito nella cava con la speranza di riconoscere in uno dei due cadaveri la sua Amabile. La riconobbe infatti dalle vesti, e con molta solennità fece trasportare la salma nel sagrato della Pieve, dove le dette onorata sepoltura. Le ossa di Desiderio furono poste in altro luogo. Da quel momento in poi Amabile riposò in pace, aspettando il giorno del Giudizio, e Desiderio la cercò invano accanto a sé. Si dice che per anni e anni un corvo stesse sempre, di notte, sul sagrato della Pieve gracchiando. Era il Mago col topo in corpo. Nessun dei due aveva potuto dimenticare il tradimento. Ora saranno crepati di vecchiaia, almeno si spera. E qui la novella è finita. - Mamma, - disse Cecco, - non so perché stasera ci abbiate raccontato questa novella che mette i brividi. Pare che l'abbiate detta per la Vezzosa. La ragazza rise di cuore mettendo in mostra i bellissimi denti, e fu lei che rispose: - No, la mamma non l'ha detta per me, prima di tutto perché non son la bella fra le belle, esposta a grandi tentazioni, e poi perché sa come la penso, - e qui guardò Cecco con occhio affettuoso. - Se ha scelto stasera questa novella, è perché si suol raccontare alle future spose. La mamma ha fatto bene a seguir l'usanza; è tanto bello di fare ciò che hanno fatto quelli che vissero prima di noi. Ma quell'Amabile, sentite, mamma, è vero che fu cattiva, ma ebbe una punizione che più tremenda, credo, non avrebbe saputo inventarla neppur Dante, che ha scritto l'Inferno! - E che ne sai tu di Dante? - le domandò Cecco. - Poco o nulla. Quand'ero piccola andavo per la vendemmia da certi cugini del babbo a Rassina, e là c'era una vecchia che sapeva a mente il canto del conte Ugolino, quello dei Serpenti, e non so più quali altri. Non sapeva neppur leggere, ma li diceva così bene da farci piangere. Ella ci raccontava che al tempo dei tempi questo Dante era stato in Casentino, a Poppi, a Romena e altrove, sempre ne' palazzi de' Guidi, e qui aveva scritto anche qualcuno di quei canti. Dice che i fiorentini lo avevan messo al bando e lui, sdegnato, se n'era venuto in questi poggi a sfogare il suo risentimento. - Non sai che cosa è avvenuto di quella cugina di tuo padre, che sapeva a mente i canti di Dante? - domandò la Regina alla sua futura nuora. - Ho sentito dire che era morta, - rispose la ragazza. - Morta sì, ma prima di scender nella fossa aveva fatto una tappa al manicomio. La povera Rosa s'era tanto empita la testa di quei canti, della descrizione delle pene dei dannati, che si figurava di esser lei nell'inferno circondata di serpenti. Era uno strazio a vederla. Credimi, Vezzosa, certi libri non son fatti per gli ignoranti come noi. Se ci si comincia a riflettere, s'ammattisce, perché il nostro cervello non è avvezzo a certo cibo. Maso fece osservare alla Vezzosa che era tardi e occorreva interrompere la veglia. La ragazza salutò tutti, prese in collo i bambini per baciarli, e avanti d'uscire chiamò da parte l'Annina e le regalò le buccole che aveva prima agli orecchi. Maso la riaccompagnò fino a casa, insieme con Cecco. Sulla porta c'era la matrigna ad aspettarla, che le urlò da lontano: - Dovevi farti aspettar dell'altro! È questa l'ora? Se tardavi un momento, trovavi tanto di catenaccio. Cecco sussurrò a Vezzosa: - Coraggio, ce n'è per poco; lasciala urlare e dormi bene.

ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Se avesse voluto avrebbe potuto superare facilmente la pesante barca di Sandokan, essendo quei piccoli bastimenti velocissimi, anche con vento scarso; ma si vedeva che il suo equipaggio non aveva alcun desiderio di fare troppo cammino, poiché di quando in quando abbassava ora l'una ora l'altra vela per rallentare la marcia. Essendosi il sole ormai innalzato sopra le immense foreste del levante, Sandokan e Tremal-Naik potevano distinguere facilmente le persone che montavano quel poluar. Non erano che dieci o dodici e parevano battellieri, non avendo per vestito che un semplice dootèe annodato intorno ai fianchi per esser più lesti a montare sull'alberatura, ma forse altri si tenevano nascosti nella stiva. Una cosa aveva subito colpito il pirata ed il bengalese: era un enorme tamburo, uno di quelli che gl'indiani chiamano hauk e di cui si servono nelle feste religiose, tutto adorno di pitture e di dorature e sormontato da mazzi di penne variopinte e che si trovava collocato fra i due alberi, quasi in mezzo alla coperta. - Quello non è un istrumento da guerra, - disse Sandokan, a cui nulla sfuggiva, - né fino ad oggi ho veduto quei tamburoni sui velieri indiani. - E nemmeno io, - rispose Tremal-Naik. - Lo hanno collocato là per qualche motivo e che io forse indovino. - Vuoi dire? - Che quegli istrumenti quando sono vigorosamente percossi si possono udire a distanze incredibili. - Sicché servirebbe? - Per trasmettere dei segnali. - Sono della tua opinione, - disse Sandokan. - Si prepara qualche cosa contro di noi. Ormai abbiamo fatto troppe osservazioni. - Bah! aspettiamo questa sera e anche quel tamburone andrà a tenere allegra compagnia ai pesci del Brahmaputra. - La bangle intanto continuava la sua marcia, senza troppo affrettarsi, non volendo Sandokan allontanarsi di troppo dal canale che conduceva alla laguna, seguìta ostinatamente dal poluar, il quale si sforzava di mantenersi sempre alla medesima distanza, quantunque la brezza mattutina fosse diventata più forte. Il fiume che si svolgeva superbo, scendendo dolcemente, invece di restringersi tendeva ad allargarsi, scorrendo fra due magnifiche rive coperte di palas, di palmizi tara, di mangifere splendide e di nim dal tronco enorme e dal fogliame cupo e foltissimo. Di quando in quando compariva qualche risaia, chiusa tra arginetti alti alcuni piedi, destinati a trattenere le acque, tutta coperta da lunghi steli d'un bel verde e che producono dei chicchi enormi; ma ben presto la foresta riprendeva il suo impero svolgendosi fra un caos di liane che formavano dei pergolati bellissimi. Numerose bande di semnopiteci, svelte e leggere scimmie che gli indiani chiamano langur, alte un metro e mezzo, ma così magre da non pesare oltre dieci chilogrammi, si mostravano sugli alberi e salutavano i naviganti con fischi acuti, scagliando nel medesimo tempo frutta e ramoscelli, essendo insolentissime. Sulle rive invece, fra i canneti, svolazzavano gruppi di bellissime anitre bramine, di cicogne, di bozzagri e di marabù e sonnecchiavano indolentemente, scaldandosi al sole, grossi coccodrilli dai dorsi rugosi e coperti di piante acquatiche. A mezzogiorno, Sandokan fece dirigere la bangle verso la riva sinistra e affondare l'ancora, onde permettere ai suoi uomini di far colazione. Il poluar continuò la sua marcia per altri tre o quattrocento metri per non destare forse dei sospetti, ma poi poggiò verso la riva destra gettando le sue ancore in un minuscolo seno, dove l'acqua era ancora abbastanza profonda. Dal fumo che sfuggiva dal casotto di poppa, Sandokan s'accorse subito che anche quell'equipaggio si preparava il pasto del mezzodì. - Hai ancora qualche dubbio sulle intenzioni di quegli uomini? - chiese a Tremal-Naik. - No, - rispose il bengalese che appariva preoccupato. - Se non troviamo il mezzo di sbarazzarci di quel legno, non ci lasceranno più. Quegli uomini devono aver ricevuto l'ordine di spiarci. - Aspettiamo questa notte. - Fecero chiamare Surama e pranzarono sulla tolda, dopo d'aver avuto la precauzione di far stendere una vela sopra le loro teste onde preservarsi da qualche colpo di sole. Non fu che verso le quattro del pomeriggio che Sandokan fece dare il segnale della partenza. La bangle si era appena mossa che anche il poluar spiegava una delle sue due vele, prendendo la medesima via. - Ah, non volete lasciarci? - disse il pirata. - La bomba è pronta e penserà essa ad arrestarvi anche in piena corsa. - Le due barche continuarono a navigare di conserva, l'una a remi e l'altra a vela, mantenendo la medesima distanza che variava dai trecento ai cinquecento metri. La regione era diventata deserta. Non si scorgevano più né risaie, né capanne e nemmeno barche. La jungla, sfuggita da tutti gli abitanti che non avevano alcun desiderio di ricevere le visite poco gradite delle tigri e delle pantere, non doveva essere lontana. Infatti verso il tramonto, la bangle che si era avanzata assai, benché lentamente, passava dinanzi al canale che conduceva nella palude; ma Sandokan vedendosi sempre alle costole il poluar, si guardò bene dal dare il comando di cacciarvisi dentro. Lasciò che la barca risalisse il fiume per un paio di miglia ancora, poi, quando le tenebre scesero, fece gettare di nuovo le ancore presso la riva sinistra. Il poluar, come aveva fatto al mezzodì, proseguì la sua marcia per alcune centinaia di metri e si ancorò non già sulla riva opposta, bensì in mezzo al fiume, onde sorvegliare più strettamente la piccola barca. - Cenate pure, - disse Sandokan a Tremal-Naik ed a Surama. - E tu? - chiese il bengalese. - Mangerò dopo il bagno. - Che cosa vuoi tentare? - Non te l'ho detto? Voglio sbarazzarmi di quegli spioni. - E come? - Il tuo bravo Kammamuri m'ha preparato una bomba veramente splendida. Quando tu, Surama, diventerai la regina dell'Assam lo nominerai generale dei granatieri. - Io farò tutto quello che desidereranno i miei protettori, - rispose la giovane con un amabile sorriso. - Pensiamo ora al nostro affare, - disse Sandokan. - La notte è oscura e nessuno mi vedrà attraversare il fiume. - Tu vuoi farti divorare! - esclamò Tremal-Naik spaventato. - Da chi? - Vi sono coccodrilli e anche squali d'acqua dolce nelle acque del Brahmaputra. - Sandokan alzò le spalle, poi levandosi dalla fascia il kriss malese disse con noncuranza: - E quest'arma a che cosa dovrebbe dunque servire? - chiese. - Quando il vecchio pirata di Mompracem l'ha bene in pugno, se ne ride degli uni e anche degli altri. La mia carne non fa per loro, tranquillizzati. - Lascia che t'accompagni. - No, amico. In queste faccende non può agire che un solo uomo. - Non mi hai spiegato ancora il tuo progetto. - È semplicissimo. Vado ad appendere la mia bomba ai cardini del timone del poluar, accendo la miccia e ritorno tranquillamente a bordo della mia bangle. Vedrai che guasto farà quel chilogrammo di polvere! Kammamuri, sono pronto. - Il maharatto accorse portando con una certa precauzione la famosa bomba, la quale non consisteva che in una scatola di latta, bene cerchiata con filo di rame tolto dai bordi della bangle, con una miccia lunga otto o dieci centimetri ed un gancio, ad una delle due estremità, formato pure di filo di rame, per poterla appendere ai cardini del timone. Sandokan la esaminò attentamente, fece col capo un gesto come d'uomo soddisfattissimo, poi entrato nel casotto di poppa, si spogliò rapidamente stringendosi ai fianchi un dootèe e passandovi dentro il kriss. - Ora tu, mio bravo Kammamuri, mi legherai sulla testa la bomba e vi unirai l'acciarino e l'esca. Assicura bene l'una e gli altri, onde non costringermi a rifare il viaggio. - Kammamuri non si fece ripetere due volte l'ordine. - Fa' calare una fune ora, - riprese Sandokan. - Bada ai coccodrilli, signore, - disse Surama che sembrava commossa. - Tu arrischi la tua preziosa vita per me. - E per gli altri, - rispose il fiero pirata. - Sii tranquilla, mia bella fanciulla. La carne delle vecchie tigri di Mompracem è troppo coriacea. - Stese la mano alla giovane ed a Tremal-Naik, raccomandò il più assoluto silenzio, poi si lasciò scivolare lungo la fune, immergendosi, dolcemente, nella corrente dal fiume. Surama, Tremal-Naik e tutto l'equipaggio, avevano seguìto ansiosamente cogli sguardi il formidabile pirata chiedendosi, non senza sgomento, come sarebbe finito quell'audace tentativo, ma dopo pochi istanti lo perdettero di vista essendo l'acqua oscurissima ed il cielo coperto di vapori. Sandokan si era messo a nuotare silenziosamente, tagliando la corrente, che era d'altronde debolissima, senza far rumore. Con frequenti colpi di tallone si teneva ben alto, temendo che qualche spruzzo bagnasse l'esca o la miccia. Il poluar si trovava a soli quattrocento metri: una distanza derisoria per un uomo dell'arcipelago della Sonda. Nessun nuotatore può competere con un malese ed un bornese della costa. Si può dire che quegli audaci pirati nascono nel mare e che vi muoiono dentro. Sandokan, di passo in passo che s'accostava al piccolo veliero indiano, diventava più prudente. Non era il timore d'incontrare qualche coccodrillo o qualche squalo d'acqua dolce, bensì il timore che degli uomini vegliassero a bordo e che potessero scorgerlo. Di quando in quando si fermava per ascoltare, poi rassicurato dal profondo silenzio che regnava sul fiume e sul veliero, riprendeva la sua marcia silenziosa, agitando le braccia e le gambe con somma prudenza e sempre più dolcemente. A cinquanta passi dal poluar subì un urto. Credette per un istante che qualche sauriano cercasse di assalirlo; trovò invece sotto mano un corpo molle, che lo appestò col suo puzzo nauseante di carogna imputridita. - Un cadavere, - mormorò, respirando. S'allungò lasciando il passo al morto e con cinque o sei bracciate giunse sotto la poppa del veliero. Quantunque avesse avuta la precauzione di non levare le mani dall'acqua, gli uomini che vegliavano sul poluar, s'accorsero certamente di qualche cosa d'insolito, poiché udì distintamente una voce a dire: - Si direbbe, Maot, che qualcuno ha rasentato il bordo della nave. Hai udito nulla tu? - Solo il timone a cigolare sui cardini, - rispose un'altra voce. - Bah! qualche coccodrillo lo avrà urtato. - Sarà meglio accertarsene, Maot. Mi hanno detto i seikki che quelli che montano la bangle non sono indiani. - Guarda dunque. - Sandokan si era prontamente cacciato sotto la poppa, aggrappandosi al timone. Trascorse un mezzo minuto poi la medesima voce di prima riprese: - Non si vede nulla con questa oscurità, Maot. Ti ripeto che sarà stato un coccodrillo. Quelle brutte bestie non mancano su questo fiume. Dammi un po' di betel e riprendiamo la nostra guardia a prora. Dal castello osserveremo meglio. - Sandokan, che ascoltava attentamente, udì uno stropiccìo di piedi nudi allontanarsi. - Stupidi! - mormorò. - Al vostro posto non mi sarei accontentato di chiacchierare come pappagalli. Ah! sapete che noi non siamo indiani? Ecco una ragione di più per farvi saltare in aria. - Attese ancora qualche minuto, poi rassicurato dal profondo silenzio, che regnava sul poluar, levò con una mano la scatola, si mise fra le labbra l'acciarino e l'esca, badando bene di non bagnare quest'ultima e appese la bomba al secondo cardine. Ciò fatto strinse le gambe contro il timone e con grande precauzione, diede fuoco all'esca accostandola alla miccia. Il rumore però, per quanto lievissimo, prodotto dalla selce battuta contro l'acciarino, fu certamente udito dai due battellieri di guardia, poiché Sandokan s'accorse che s'avvicinavano. Si lasciò andare a picco nuotando sott'acqua con estrema velocità, onde non saltare insieme con la nave. Emerse a cinquanta metri e fissò subito gli occhi sul poluar. Piccole scintille cadevano sotto la poppa. Era la miccia che ardeva. - Eccovi serviti, - mormorò, tornando a tuffarsi e percorrendo sempre sott'acqua altri cinquanta o sessanta metri. Quando tornò a galla, urla acutissime partivano dal poluar: - Al fuoco! al fuoco! - Quasi nell'istesso momento un lampo squarciò le tenebre, seguìto da una detonazione che parve un colpo di cannone. La poppa del piccolo veliero era stata squarciata dalla bomba, e per l'enorme falla l'acqua entrava a torrenti. Il timone era stato già mandato in pezzi. A quel rimbombo, che si propagò lungamente sotto le interminabili volte di verzura che si estendevano sulle due rive, tenne dietro un breve silenzio, poi le grida dell'equipaggio tornarono a farsi udite: - Il poluar affonda! Si salvi chi può! - Sandokan con poche bracciate raggiunse la bangle e afferrata la fune, che non era stata ritirata, si issò sul ponte. Surama e Tremal-Naik erano accorsi. - Ah! Tigre della Malesia! - esclamò la prima. - Io ormai non dubito più di diventare una regina, quando l'uomo che mi protegge possiede tale audacia. - Tu sei un demonio, - aggiunse il bengalese. - Lascia che me lo dicano quei poveri diavoli che affondano, - rispose Sandokan, scuotendosi di dosso l'acqua. Il poluar s'inabissava rapidamente, inclinandosi verso la poppa. Numerosi uomini saltavano in acqua, mentre altri si salvavano sull'alberatura mandando grida di terrore, colla speranza che il fiume non fosse in quel luogo così profondo da inghiottire tutta la nave. - Lasciamoli urlare e raggiungiamo il canale, - disse Sandokan freddamente. - Se la cavino da loro. Ai remi, amici. - I malesi che avevano assistito impassibili a quel disastro, per loro già non nuovo, afferrarono le lunghe pagaie e la bangle ridiscese velocemente il fiume, aiutata dalla corrente, che si faceva sentire piuttosto forte lungo la riva sinistra. Per alcuni minuti i fuggiaschi udirono ancora le urla disperate dei disgraziati che venivano tratti a fondo insieme col naviglio, poi il grande silenzio tornò ad imperare sul Brahmaputra. Sandokan che si era affrettato ad indossare le sue vesti, aveva raggiunto Surama e Tremal-Naik, che dall'alto della poppa cercavano ancora di discernere il poluar. - Non mi ero ingannato, - disse loro. - Ho avuto la prova che quei battellieri avevano avuto l'incarico di sorvegliarci e fors'anche di catturarci. A bordo vi erano dei seikki del rajah. - E come l'hai appreso? - chiese il bengalese stupefatto. - Da un discorso fatto da due di quegli uomini, nel momento in cui stavo appendendo la scatola al timone. È un vero miracolo se non mi hanno scoperto. - Sanno dunque chi siamo noi? - chiese Surama. - Forse non lo credo, - rispose Sandokan, - ma qualche cosa è trapelato di certo dei nostri progetti. Tu devi aver parlato, Surama. - È possibile, se mi hanno dato da bere qualche narcotico. - E ciò m'inquieta per Yanez. - Non spaventarmi signore! - esclamò la bella assamese. - Tu sai quanto io ami il sahib bianco. - Tu finché Yanez non ci manda qualche messo, non devi preoccuparti. Aspettiamo che torni Bindar. - Tu però sospetti che possa correre qualche pericolo. - Pel momento no, e poi mio fratellino è un uomo da cavarsela anche senza il mio aiuto. Come ha giuocato James Brooke, il rajah di Sarawak, saprà burlare anche il rajah dell'Assam. Aspettiamo sue nuove. - La bangle che scendeva il fiume con grande rapidità, era già giunta dinanzi al canale che conduceva alla palude. Kammamuri che aveva ripreso il suo posto al timone, guidò la barca entro il passaggio, dopo essersi prima ben assicurato che nessun'altra nave spiava la bangle. Venti minuti dopo affondavano le ancore in mezzo al vasto stagno. Essendo la jungla pericolosissima di notte, Sandokan mandò a dormire i suoi uomini, che cadevano per la fatica, vi mandò poi Surama, e lui si stese sul ponte, su una semplice stuoia accanto a Tremal-Naik, dopo essersi messa a fianco la sua fida carabina. L'indomani, dopo aver assicurata bene la bangle che era loro necessarissima e d'averla nascosta sotto un enorme ammasso di canne e di rami, Sandokan ed i suoi compagni attraversarono felicemente la jungla e giunsero alla pagoda di Benar. I malesi ed i dayachi si trovavano riuniti, sorvegliando attentamente il fakiro ed il demjadar dei seikki. Durante l'assenza della Tigre della Malesia, nessun avvenimento aveva turbato la calma che regnava in quella parte della jungla. Solo qualche tigre e qualche pantera avevano fatto la loro comparsa, senza però osar di assalire l'accampamento, troppo formidabile anche per quei feroci animali. Sandokan fece allestire alla meglio, in una delle stanze dei gurum, un modesto alloggetto per Surama, non presentando la vasta sala della pagoda, in parte diroccata, molta solidità, ed attese pazientemente il ritorno di Bindar. Fu la sera del settimo giorno che il fedele assamese finalmente comparve. Aveva risalito il fiume su un piccolo gonga, ossia su un battello scavato nel tronco d'un albero, e aveva attraversata la jungla prima che le belve, che l'abitavano si fossero messe in cerca di preda. Egli recava una terribile notizia. - Sahib, - disse appena fu condotto dinanzi a Sandokan che stava fumando sotto un tamarindo, godendosi un po' di fresco insieme con Tremal-Naik, - una catastrofe ci ha colpiti. - Sandokan ed il bengalese balzarono in piedi in preda ad una vivissima agitazione. - Che cosa vuoi dire tu? - gridò il primo. - Il sahib bianco è stato arrestato ed i suoi malesi sono stati decapitati. - Un vero ruggito uscì dalle labbra del pirata. - Lui ... preso! - E tu stai per essere assalito. La jungla domani sarà circondata. -

ATTRAVERSO L'ATLANTICO IN PALLONE

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Salgari, Emilio 6 occorrenze

Il vascello aereo si abbassava lentamente, ma doveva essere cosa di breve durata. Ben presto il barometro avvertì gli aeronauti che i trovavano a 3000 metri di altezza, mentre prima si erano sempre tenuti a 3500. Quell'abbassamento permise di osservare meglio la grande isola che si stendeva sotto di loro. Si distinguevano perfettamente le abitazioni sparse sul bordo delle grandi boscaglie, gli abitanti che cercavano di correre dietro all'aerostato, credendolo forse un gigantesco uccello di nuovo genere, data la sua forma così differente dai soliti palloni, e si udivano nettamente le loro grida di stupore. Alle tre pomeridiane O'Donnell e l'ingegnere scorsero, come annidata sulle sponde di una baia, San Giovanni, la capitale dell'isola. Per alcuni istanti poterono vedere il palazzo dell'assemblea, la dogana, le fortificazioni e le numerose graves che si estendevano per lungo tratto fuori dalla città, poi non videro più che una massa biancastra poiché il vento li spingeva verso nord, ossia in direzione delle baie di Trinità e Bonavista. Alle tre e quaranta minuti si libravano sopra il capo Fuels, avvistando l'isola del Fuoco, e pochi minuti più tardi l'aerostato abbandonava l'isola, filando sopra l'oceano Atlantico, le cui onde si urtavano con profondi muggiti, coprendosi d'un immenso manto di candida spuma." "Addio terra!" esclamò O'Donnell. "D'ora innanzi non vedremo che acqua." "Purché il vento non cambi direzione," disse l'ingegnere. "Potrebbe spingerci verso il nord e fors'anche ricondurci verso l'America." "Dove ci porta ora?" "Diritti al grande banco. Non vedete laggiù, verso l'est, quei punti neri? Sono le navi occupate nella pesca ai merluzzi." "E lontano però il grande banco" "Vi giungeremo fra un paio d ore, se la nostra velocità, che è ora di quaranta miglia, non diminuisce." "Si pescano dappertutto i merluzzi, intorno all'isola?" "Sì, specialmente quando i pesci cominciano a lasciare il banco per cercare un altro cibo. In primavera i merluzzi si radunano in grandi masse nei dogger-banks delle coste di Islanda, nei fiorden della Norvegia e nei golfi dell'Irlanda, poi si dirigono tutti insieme verso Terranova. È in questa stagione che dalle coste della Norvegia, della Francia, dell'Inghilterra e dell'Olanda partono vere flottiglie di pescatori, i quali, cosa sorprendente davvero, qui vengono senza bisogno di carte e di strumenti necessari a fare il punto, seguendo, direi quasi, una traccia secolare. Si calcolano fino a seimila navi che tutti gli anni vengono impiegate nella pesca del prezioso pesce." "Devono pescarne una quantità immensa." "Dai 35 ai 40 milioni." "E chi per primo s'accorse della riunione dei merluzzi su questo grande banco?" "Caboto lo aveva notato; poi un altro ardito navigatore italiano, il fiorentino Giovanni da Verrazzano, che prese possesso di Terranova nel 1525 in nome di Francesco I re di Francia e che poco dopo cadde sotto le lance e le scuri degli indigeni; poi Cartier, lo scopritore del fiume San Lorenzo." "Si pescano anche nel San Lorenzo?" "No, i merluzzi non penetrano mai nei fiumi, anzi si tengono lontani dalle foci." "Terminata la stagione sul grande banco, si radunano altrove?" "No, si disperdono, scompaiono e non si vedono più per il resto dell'anno. Si ignora dove vadano a svernare durante la stagione fredda, ma pare che si tengano in acque assai profonde. Ma ecco le prime barche da pesca, O'Donnell, aprite bene gli occhi, e non vi dispiacerà di aver fatto una volata sopra il grande banco di Terranova.

Gli aeronauti si sentirono come soffocare in quella vertiginosa ascensione, mentre attorno a loro la temperatura si abbassava bruscamente, diventando fredda, come se un crudo inverno fosse piombato su quelle regioni del sole. L'aerostato varcò i 3000 metri senza arrestarsi, poi i 4000, poi i 5000 e s'arrestò cento metri più sopra. Gli aeronauti trasportati quasi di colpo in quelle alte regioni, dove regna il cosiddetto "male della montagna", caddero nel fondo della scialuppa, colpiti da uno stordimento generale e da un principio di asfissia. Si sentivano presi da nausee e da vertigini, la loro faccia era congestionata, il ventre gonfio mentre i polsi battevano febbrilmente e come volessero spezzarsi, mentre un freddo intenso li irrigidiva. "Mister Kelly, dove siamo?" chiese O'Donnell con voce fioca. "Siamo stati trasportati fra i ghiacci della baia di Hudson?" "Siamo a 5100 metri, in una regione dove l'ossigeno diminuisce la sua tensione, non penetrando più nel nostro sangue in quantità sufficiente." "Mi sento tutto scombussolato e provo delle nausee." "E anch'io," disse il mozzo. "Si direbbe che mi assalga il mal di mare." "I nostri disturbi cesseranno presto poiché il Washington fra poco scenderà in regioni più respirabili." "Andiamo verso l'est, almeno. Mister Kelly?" chiese l'irlandese, facendo uno sforzo por sollevarsi. "No!" rispose l'ingegnere coi denti stretti. "Siamo immobili." "Non c'è corrente ?" "Nessuna." "Ne troveremo più sotto?" "Lo sapremo più tardi." "Oh! che spettacolo! L'Africa è a due passi! ... E quel fiume?" "È il Gambia." "Si direbbe un gran nastro d'argento disteso su un tappeto verde." "Sì, un nastro di 1500 chilometri di lunghezza e largo 24 alla foce." "Che panorama, Mister Kelly! Vale la pena di sfidare le nausee per godere simile spettacolo." "Purché questo spettacolo non si muti per noi in un altro terribile." "Perché?" "Scendiamo." "Ancora! ... Decisamente il nostro pallone è diventato tisico." "Scherzate di fronte a una simile prospettiva?" "Cerco di essere un po' allegro all'ultimo istante, considerato che l'essere di cattivo umore non porterebbe alcun cambiamento." "Vi ammiro, O'Donnell." "Grazie, Mister Kelly." "Di che cosa?" "Di avermi prolungato la vita fino ad oggi." "Ma forse fra poco io vi trascinerò con me laggiù." "Bah! Abbiamo la scialuppa." "È vero, e ora che ci penso, conto di servirmene." "Per toccare la costa?" "L'avete detto." ''Ecco una splendida idea che c'è sempre sfuggita. Quanto distiamo dal Gambia?" "Forse quaranta miglia." "Una semplice passeggiata." "Sì, caro amico, se non troviamo più sotto una corrente che ci spinge verso terra, apriremo le valvole e caleremo sull'oceano." "Aspettiamo, dunque!" Il Washington calava lentamente: il gas sfuggiva attraverso il tessuto e dalle lacerazioni; già le estremità dei due grandi fusi ricadevano, formando grandi pieghe. La costa africana non era lontana più di quaranta miglia e si distingueva ormai nettamente. Il Gambia, questa grande arteria che attraversa la parte inferiore (la superiore è la costa del Senegal) della regione conosciuta sotto il nome di Senegambia, appariva distintamente per un tratto immenso. Si vedevano i suoi affluenti di destra e di sinistra scorrere attraverso le folte boscaglie. Con l'aiuto del cannocchiale, si scorgevano perfino le lontane cascate del Barraconda, che si trovavano a 400 chilometri dalle foci e le isole degli Elefanti, degli Ippopotami, degli Uccelli, di Saffo. Alle cinque, un clamore assordante e parecchi spari giunsero agli orecchi degli aeronauti. Si curvarono sui bordi della scialuppa e s'accorsero di essere sopra Bathurst, la principale borgata dell'isola di Santa Maria. Si scorgevano la chiesa, la scuola, le abitazioni dei negri e le fattorie inglesi e francesi. Numerosi punti neri popolavano le vie e si agitavano correndo ora da un lato ora dall'altro e dei lampi balenavano di qua e di là. "È la popolazione che ci invita a scendere," disse l'ingegnere. "Scendiamo, Mister Kelly." "Vedo davanti al villaggio grossi punti neri, e quelli là sono navi." "E che importa?" "Mi preme salvarvi. O'Donnell. Forse fra quelle navi si trova qualche stazionario inglese o qualche incrociatore e non vi lascerebbe scappare." "Volete che sappiano chi siamo?" "Il nostro viaggio deve aver fatto molto rumore anche in Europa; la vostra fuga sarà stata notificata a tutti i consoli delle città delle coste europee e africane, e le navi da guerra saranno state a loro volta informate." "Lo credete?" "So quanto sono cocciuti gli inglesi, amico mio. Sono certo che sono stati dati ordini severi per riprendervi nel caso che il pallone scendesse su uno dei loro territori o in vista d'una delle loro navi. L'Inghilterra, dovreste saperlo, non perdona ai feniani." "È vero, Mister Kelly, ma io non vorrei che, per salvare me, naufragaste in mezzo all'oceano." "Saprò regolarmi e cercherò di scendere lontano da quelle coste, ma non tanto da non poterle riafferrare." In quell'istante, l'aerostato si piegò verso sud-est e si mise a filare in quella direzione lentamente, allontanandosi dall'isola. "Il vento!" esclamò O'Donnell. "E spira in favore" disse l'ingegnere. "Dio sia ... " L'irlandese non finì. Una formidabile detonazione era echeggiata sull'oceano, soffocandogli la frase. "Che cosa succede?" chiese impallidendo. "Una nave a vapore!" gridò Walter. Una nave si era staccata dall'isola e seguiva l'aerostato a tutto vapore. "Che vengano in nostro aiuto?" chiese O'Donnell. "In nostro aiuto?" esclamò l'ingegnere. "No, O'Donnell, quella nave ci dà la caccia per prenderci. Io non mi ero ingannato!" "E una nave da guerra inglese?" "Sì, vedo sul ponte le giacche rosse della fanteria marina." "Dunque voi credete? ... " "Che quella nave sappia già chi siamo noi e soprattutto chi siete voi." "È impossibile, signore!" "E perché?" "Non vi è un solo pallone nel mondo e chissà quanti altri hanno fatto delle ascensioni dopo la nostra partenza." "Ma il mio Washington ha una forma speciale e noi soli abbiamo tentato questa grande traversata." Un'altra detonazione echeggiò sull'oceano. L'ingegnere tese le orecchie ma non udì fischio di proiettile. "È un colpo a salve," disse. "Sapete che cosa significa per le genti di mare?" "Un'intimidazione di fermarsi?" "Sì, e per noi di scendere, sotto pena di venire cannoneggiati." "Era destino che io dovessi ricadere nelle loro mani," disse O'Donnell con rassegnazione. "Mi prendano dunque." "Non vi hanno ancora in mano, O'Donnell." "Che cosa volete fare, Mister Kelly?" "Salvarvi." "Ma non vedete che il pallone scende e che il vento ci porta con una velocità di appena dieci miglia l'ora? Fra pochi minuti quella nave sarà qui." "Sfido l'equipaggio a salire fino a noi." "Ma presto lo vedremo." "Non così presto." "Non abbiamo più zavorra da gettare." "Abbiamo i barili, i cilindri, le casse, le armi, le munizioni e in ultimo il battello. Ah! signori inglesi, non ci prenderete così facilmente." "Ma se ci prendono, vi arresteranno come mio complice." "Bah! Sono americano io, non sono loro suddito e non oseranno toccarmi." "Grazie, Mister Kelly," esclamò O'Donnell con voce commossa. "Vi devo la vita." "Lanciate andare i ringraziamenti, mio buon amico, e prepariamoci a vuotare la scialuppa. È necessario, per salvarvi, toccare le coste africane e scendere assai lontano dalle rive." "Il vento ci spinge verso la costa?" "Non direttamente, ma fra poche ore io spero di scendere fra i boschi dell'interno." Intanto la nave, che bruciava tonnellate di carbone per accrescere la sua velocità, si avvicinava molto rapidamente. Era un incrociatore della portata di mille o milleduecento tonnellate, attrezzato a goletta, assai lungo e stretto. A poppa, sul picco della randa, sventolava la bandiera inglese e sull'albero di maestra il grande nastro delle navi da guerra. Non era possibile ingannarsi sulle sue intenzioni, dopo quei due colpi a salve. Senza dubbio la partenza del Washington era stata segnalata a tutte le navi da guerra inglesi nei porti occidentali dell'Europa e dell'Africa. Ormai sapevano che il feniano O'Donnell era fuggito con l'ardito aeronauta e tutte dovevano aver ricevuto l'ordine di arrestarlo, prima che scendesse in qualche Stato. Vedendo quel grande aerostato venire dall'ovest, il comandante della nave doveva aver sospettato d'avere a che fare col Washington il solo che doveva venire dalla parte dell'oceano, e si era prontamente messo in caccia, deciso forse di rovinarlo a colpi di cannone, prima che andasse a cadere in mezzo alle grandi foreste della Senegambia, su territorio francese e dove non avrebbe potuto lanciare i suoi uomini senza suscitare delle gravi complicazioni diplomatiche. Il Washington cadeva. Non era più che a milleduecento metri dalla superficie dell'oceano e non s'arrestava. Ormai gli aeronauti distinguevano nettamente l'equipaggio inglese schierato sulla tolda dell'incrociatore, gli ufficiali ritti sulla passerella di comando e il cannone di prua che aveva fatto fuoco. "Affrettiamoci," disse l'ingegnere. "Quegli uomini non scherzano e ci prenderanno a cannonate se s'accorgono che noi, invece di scendere, cerchiamo di innalzarci." In quell'istante una voce tuonante s'alzò sul ponte dell'incrociatore. "Scendete!" L'ingegnere non si degnò di rispondere e spiegò la sua bandiera dell'Unione. "Scendete o facciamo fuoco!" ripete la voce. "Ve lo dicevo, O'Donnell che quei volponi si sono accorti chi siamo e donde veniamo?" disse l'ingegnere. Si curvò sulla poppa della scialuppa, imboccò un megafono e gridò: "Che desiderate?" "Che scendiate," rispose una voce tuonante. "Con quale diritto?" "Di nave da guerra." "Sono suddito dell'Unione Americana io, e non ho conti da rendere alle navi di S. M. Britannica." "Voi portate un suddito inglese: il condannato Harry O'Donnell.'' "Non lo conosco." "Scendete o facciamo fuoco.'' "Andate all'inferno!" urlò l'ingegnere furioso. Poi, volgendosi verso O'Donnell, che conservava un sangue freddo ammirabile, e al mozzo disse rapidamente: "Gettate!" L'irlandese e Walter a quel comando rovesciarono nell'oceano i cilindri, le casse, i barili, le vesti di ricambio, i materassi, le coperte, tutto quanto ingombrava la scialuppa. Sul ponte della nave s'alzò un clamore furioso, poi scoppiarono quindici o venti colpi di fucile, ma l'aerostato era già fuori di portata. Scaricati da quel peso, aveva fatto un salto immenso, toccando i 3700 metri. "Buon viaggio!" gridò l'ingegnere ironicamente. "Spero di farvi correre! ... "

Il Washington si abbassava con un largo dondolio, descrivendo di quando in quando dei giri concentrici. "Basta," disse l'ingegnere, lasciando andare le due funicelle. Le due valvole si chiusero, ma l'aerostato continuò ad abbassarsi con notevole rapidità. I due coni e la guide-rope sommersero e tosto rallentarono la sua marcia discendente, mantenendolo a sessanta metri dalla superfìcie dell'oceano. "Vedete nulla?" chiese O'Donnell all'ingegnere che aveva puntato un canocchiale da notte. "Sì, mi pare di scorgere una piccola striscia nera scivolare sull'oceano." "È lontana?" "Tre o quattro chilometri." "Allora fra poco il naufrago sarà qui. Come mai un ragazzo si trova perduto in mezzo all'Atlantico e solo?" "Lo sapremo più tardi. Udite lo sbattere dei remi?" "Mi pare di udire un lontano rumore. Ci vedrà quel mozzo ?" "Accendete una torcia: gli servirà da faro." La sottile striscia nera avanzava sempre verso il pallone e si distingueva ormai senza bisogno di cannocchiale e si udiva anche nettamente lo sbattere dei remi. In capo a mezz'ora era lontana poche centinaia di metri, su di essa si scorgeva una forma umana di piccole dimensioni, la quale manovrava i remi con grande energia. "Coraggio, giovanotto!" gridò Mister Kelly. "Grazie signore," rispose il naufrago. In pochi minuti superò la distanza, abbandonò il canotto, si fermò alcuni istanti sul primo nodo della guide-rope per riposarsi, poi si arrampicò con l'agilità di un gatto e raggiunse la navicella. O'Donnell lo afferrò per le braccia e lo depose nella scialuppa. "Grazie," ripeté il naufrago. Poi, dopo aver girato lo sguardo ardente sulle casse e sui barili che ingombravano la scialuppa, mormorò: "Da bere! ... Da bere, signori! ... Muoio di sete!"

Il Washington filava lentamente verso il sud, con un leggero dondolamento, e di quando in quando si abbassava di parecchi metri, rimontando quasi subito. I due coni, trascinati, opponevano sempre una forte resistenza. Verso le cinque, mentre l'ingegnere stava accendendo una sigaretta, l'aerostato provò una scossa così brusca da rovesciare alcuni barili e parecchi altri oggetti. Il battello si era inclinato verso prua, e i due immensi fusi si erano abbassati di parecchi metri, risalendo poscia lentamente. "Che cosa accade?" si chiese il Mister Kelly, al colmo dello stupore. "Se non ci trovassimo in pieno oceano direi che il battello ha urtato, ma contro che cosa?" Guardò attorno e non vide nessun ostacolo. L'atmosfera sola circondava il vascello aereo. Alzò il capo e s'accorse che i due palloni erano immobili; sentiva la brezza mattutina sibilare attraverso i cordami. "Cosa può averci arrestati?" si domandò, maggiormente stupito. "Che i due coni si siano arenati su qualche banco situato a fior d'acqua?" Stava per spiegare la carta dell'Atlantico settentrionale, al fine di accertarsi se in quella latitudine e longitudine segnalasse qualche scoglio o qualche banco, quando una seconda scossa, più violenta della prima, lo atterrò. L'inclinazione della scialuppa verso prua fu tale, che O'Donnell e il negro Simone rotolarono l'uno addosso all'altro. "By God! "esclamò l'irlandese, sbarazzandosi precipitosamente della coperta di lana che lo copriva. "Si cade?" "Massa! ... massa! Aiuto!" si mise a strillare Simone, il quale credeva che il pallone precipitasse nell'oceano. "Il caso è strano!" esclamò l'ingegnere, che si era prontamente rialzato. "Se le mie ancore fossero munite di punte, si potrebbe supporre che qualche pescecane avesse addentato qualche braccio; ma sono coni lisci." "Un pescecane?" chiese O'Donnell. "Siamo presi a rimorchio, Mister Kelly?" "No, poiché siamo perfettamente immobili." "Che cosa accade dunque?" "Ecco quello che cerco di spiegare, ma invano, O'Donnell." "Diamine! che qualcuno si sia aggrappato ai coni?" "Chi mai?" "Non vedete alcuna nave?" "No, non vedo che l'oceano." Un'altra scossa fece inclinare i due aerostati verso la prua. Non vi era più da dubitare. Qualche mostro aggrappatosi al cono che era stato calato a prora del battello cercava di trascinare con sé il Washington, il quale, però, data la sua forza eccezionale, non cedeva, tornando sempre al precedente livello. Quelle scosse potevano causare qualche grave danno: o guastare la seta dei due fusi, o spezzare le funi, o disarticolare la scialuppa. I tre aeronauti afferrarono la guide-rope di prua e operarono una energica trazione, ma il mostro che imprimeva all'aerostato quelle scosse doveva essere estremamente pesante e dotato di una forza eccezionale, poiché non abbandonò il cono. "Ma in che modo è rimasto aggrappato?" chiese O Domiell. "Che qualche pescecane di gran mole lo abbia inghiottito?" "Un pescecane non può avere tale gola da assorbire un cono che contiene duecento trenta litri." "Sarà una balena." "Nemmeno, poiché la balena ha il canale tanto stretto da non poter inghiottire dei pesci più grossi del nostro braccio." "Sarà un capodoglio. So che quei cetacei hanno delle gole enormi." "A quest'ora ci avrebbe trascinati sottacqua o avrebbe troncato la fune." "Ma quale mostro volete che sia?" "Non lo so." "Che cosa decidete di fare? Tagliare la corda e abbandonare l'ancora?" "Sarebbe una grande imprudenza perdere uno dei nostri coni. Manderò Simone a vedere." "Lui! ... quel pauroso! ... Con il vostro permesso, andrò a vedere io, Mister Kelly." "Ci sono trecentocinquanta metri da discendere, e voi non potete tentare una così pericolosa impresa, O'Donnell. Simone è agile come una scimmia delle foreste africane e può toccare il cono senza stancarsi." "Ma come salirà poi?" "Lo solleveremo noi fino alla navicella, ritirando la fune. Orsù, Simone, prendi una rivoltella e và a vedere che cosa accade laggiù."

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 4 occorrenze

La nube nera, che aveva i margini tinti d'una luce pallida, quasi sulfurea, si abbassava rapidamente minacciando di avvolgere anche la macchina volante. Nel suo seno i lampi si seguivano quasi senz'interruzione e tuoni assordanti scrosciavano destando l'eco delle enormi montagne giganteggianti intorno al lago. Senza quegli sprazzi di luce vivida, si sarebbe detto che la notte era improvvisamente piombata sul misterioso lago dei buddisti. E infatti, quando i lampi cessavano, una profonda oscurità avvolgeva le acque e le montagne. Anche l'elettricità aumentava. Sulla punta delle ali, sulle estremità dei due piani inclinati, perfino sulle eliche, correvano delle fiammelle; era il fuoco di Sant'Elmo che faceva la sua apparizione. E intanto le folate di vento si succedevano sempre più impetuose, con mille fischi, mille stridori e mille muggiti rauchi. Pareva che dalle gigantesche vette della catena dell'Himalaya tutti i venti si fossero scatenati. Venivano raffiche dall'est, dall'ovest e dal sud, provocando delle trombe d'aria d'una tale violenza, che talora assorbivano, per modo di dire, lo "Sparviero", travolgendolo in una vertiginosa corsa circolare. - Capitano - disse Rokoff, che forse per la prima volta si sentiva profondamente impressionato. - Come finirà la nostra corsa? Vedo la nube abbassarsi con rapidità spaventevole. - Stiamo giocando una carta disperata - rispose il comandante. - Non credevo che questa bufera dovesse scatenarsi con tale violenza. - Dove siamo noi? - In mezzo al lago, suppongo. - Riusciremo a toccare la riva opposta, prima che il vento ci fracassi le ali o che le folgori ce le incendino? - Chi può dirlo? Come vedete, ho impresso al mio "Sparviero" tutta la velocità possibile, ma i venti ci travolgono. Temo di dover cedere e di lasciarmi trasportare dalle raffiche. - E tornare verso la costa settentrionale? Il capitano non ebbe il tempo di rispondere. Una tromba d'aria, formata dai venti che pareva s'incontrassero proprio in mezzo al lago, aveva preso lo "Sparviero", facendolo girare su se stesso con rapidità spaventevole. Le ali, impotenti a lottare, si torcevano e scricchiolavano paurosamente, come se da un momento all'altro dovessero spezzarsi e perfino i robusti fianchi del fuso gemevano. Il treno aereo, sempre roteando, veniva spinto in alto, verso il vertice della tromba, dove si vedevano le nubi disgregarsi, formando come un immenso cono rovesciato. Per alcuni istanti, in fondo a quel tubo, si vide apparire una specie di disco rosso che pareva fosse incandescente, forse il sole, poi un'oscurità profondissima avvolse lo "Sparviero" e gli aeronauti. Dove si trovavano? Erano stati spinti o meglio assorbiti dalla immensa nuvola nera? Il capitano lo credette. A un tratto però a quell'oscurità successe una luce intensa, abbagliante, seguita da tuoni formidabili che sembravano scoppi di mine colossali o di polveriere. Linee di fuoco correvano a destra e a sinistra degli aeronauti atterriti, facendo scintillare il fuso, il quale pareva che fosse diventato incandescente. Erano folgori che passavano a pochi metri e che subito scomparivano in mezzo alle masse di vapore che il vento travolgeva burrascosamente. Un odore acuto, che pareva di zolfo, si espandeva all'intorno soffocando gli aeronauti. Tutto era in fuoco. Migliaia di scintille correvano sulle ali, sui piani inclinati, sulle eliche, sul ponte, sulle vesti stesse degli uomini. Perfino la barba di Rokoff era piena. - Capitano! - gridò il cosacco cercando di dominare, colla sua robusta voce, quei rombi e quegli scoppi. - Che cosa succede? - Siamo in mezzo alla meteora - rispose il comandante, con voce soffocata. D'improvviso quelle luci si spensero, i tuoni cessarono bruscamente, i ruggiti del vento si quietarono. Non si udiva altro che un continuo crepitio, come se della grandine minuta percuotesse i fianchi del fuso. Una calma profonda era successa a tutto quel tramestio. Lo "Sparviero" aveva cessato di roteare e s'abbassava lentamente verso il lago, sempre avvolto fra una fitta nebbia che impediva di vedere a due o tre passi di distanza. - Signore, cadiamo - disse Fedoro, slanciandosi verso il capitano. - Ho fermato le ali e le eliche - rispose questi. - Il lago sta sotto di noi. Non udite le onde muggire? - A suo tempo arresteremo la discesa. Cerchiamo per ora di uscire da queste nubi o verremo tutti fulminati. Non spaventatevi, signor Fedoro, e nemmeno voi, signor Rokoff. Credo che il momento più terribile sia passato. - Ma questa calma? - chiese Rokoff. - Scendiamo nel centro della tromba. Ecco il vento che riprende il suo movimento circolare; tentiamo di spezzare le sue spire. Macchinista! A tutta velocità! I ruggiti del vento ricominciavano e lo "Sparviero" tornava a roteare su se stesso. Le ali ben presto si rimisero a battere a colpi vigorosi, precipitati e il fuso, forando con uno slancio irresistibile la colonna d'aria, sfuggì alla stretta della formidabile tromba. Ma anche fuori da quella meteora, l'uragano imperversava con furia incredibile. Lo "Sparviero", dopo qualche istante, veniva trascinato verso settentrione, senza essere più capace di tenere testa alle raffiche. Correva all'impazzata, travolto, sbattuto in tutti i sensi, ora salendo e ora abbassandosi fino quasi a sfiorare i cavalloni del lago. Vibravano le ali, incurvavansi i piani, fremevano i fianchi del fuso. Certi momenti pareva che fosse lì lì per rovesciarsi e precipitare, fra le acque spumeggianti, gli aeronauti. Quanto durò quella corsa? Venti minuti o un'ora? Nessuno sarebbe stato capace di dirlo. Delle grida strapparono Rokoff dal suo sbalordimento. Guardò giù. Un promontorio si prolungava sul lago e su un'alta rupe scorse, alla luce dei lampi, un vasto edificio a tetti arcuati. Su una specie di terrazzo, degli esseri umani si dimenavano, alzando le braccia verso lo "Sparviero", che l'uragano trascinava in una corsa vertiginosa. - Signore! - gridò. - Una casa ... un convento ... una fortezza ... non so ... là ... guardate ... guar ... Non poté proseguire. Un lampo abbagliante aveva avvolto il fuso, mentre una linea di fuoco piombava in mezzo al ponte. Fece per aggrapparsi alla balaustrata, ma prima che l'avesse toccata si sentì scaraventare nel vuoto, mentre un rombo formidabile scuoteva l'atmosfera. Erano scoppiati i serbatoi dell'aria liquida o la macchina? Non poté saperlo. Udì vagamente un tonfo seguito da un grido, poi si sentì sprofondare e coprire da un'onda spumeggiante. Quando, ancora stordito da quell'improvviso capitombolo e ancora abbagliato da quella luce che per poco non gli aveva abbruciato gli occhi, tornò alla superficie, lo "Sparviero" era scomparso! - Per le steppe del Don! - esclamò. - È saltato in aria o l'uragano l'ha trascinato entro la nube nera? Un'onda che lo investì impetuosamente, riempiendogli la bocca d'acqua amara e salata, gli tolse, almeno pel momento, l'idea di occuparsi dei compagni. - Pensiamo a salvare la pelle, per ora - disse. - Poi vedremo di sapere che cosa è avvenuto dello "Sparviero". Dove sono caduto? Sarà lontana la riva? Avrò molto da lottare per uscire vivo da questo lago. Le onde si succedevano alle onde, ora spingendolo in alto, ora precipitandolo negli abissi mobili e ora coprendolo e sballonzolandolo in tutti i versi. Anche il lago era in tempesta e non era cosa facile sottrarsi ai suoi assalti. Rokoff era però un valente nuotatore. Si lasciò portare dalle onde e come poté si sbarazzò della sua lunga casacca, che gl'impediva di muoversi liberamente. Era rimontato a galla, quando sentì sotto mano qualche cosa che le onde trastullavano. Credendo che fosse qualche albero o qualche oggetto caduto dallo e Sparviero", allungò le braccia e strinse un corpo umano che pareva privo di vita. - Mille steppe! - gridò, rabbrividendo. - Qualcuno dello "Sparviero"? Con uno sforzo supremo sollevò il capo dell'annegato, cercando di ravvisarlo. Proprio in quel momento un lampo vivissimo illuminò le acque del lago. Un urlo di disperazione gli sfuggì. - Fedoro! È morto forse? Gran Dio! No ... non è possibile! Pur continuando a nuotare con suprema energia per non venire subissato dalle onde che lo incalzavano da tutte le parti, col braccio sinistro si strinse al petto l'amico, cercando di tenergli la testa fuori dell'acqua. Nel fare quell'atto gli parve che un tremito avesse scosso quel corpo che poco prima aveva creduto inerte. - No ... non è morto! - gridò. - Salviamolo! La cosa però era tutt'altro che facile, perché non sapeva dove si trovasse, quantunque si rammentasse vagamente di aver scorto, poco prima della caduta, un promontorio e una vasta costruzione. E poi le onde erano ben lungi dal calmarsi e aveva da sostenere l'amico. - Se non potrò salvarlo, almeno morremo insieme - pensò il bravo cosacco. - Ah! Se ci fosse qui anche il capitano ad aiutarmi? Ma chissà se sarà ancora vivo. Nuotava con furore, facendo sforzi prodigiosi per non venire travolto dai marosi, girando gli sguardi in tutte le direzioni per vedere se scopriva la riva. I muggiti delle onde e i fischi acuti del vento lo stordivano, eppure continuava a lottare coll'energia che infonde la disperazione. No, non voleva morire. Nuotava da dieci minuti, quando gli parve, fra le urla del vento e lo scrosciare delle acque, di udire delle grida umane. Alzò gli occhi e distinse confusamente su una rupe la medesima costruzione che aveva veduto poco prima di venire precipitato nel lago. - La costa è vicina - pensò. - Cerchiamo di raggiungerla e badiamo soprattutto di non venire sfracellati contro le rocce. Si lasciava portare dalle onde, nuotando solamente coi piedi, per tema che la violenza della risacca gli strappasse dalle braccia Fedoro. A un certo momento si trovò dinanzi una superficie spumeggiante, quasi calma. Non più marosi e non più controndate. Era entrato in qualche piccola baia difesa da uno o più promontori o da qualche linea di scogliere? Almeno lo suppose. Comunque fosse, colà l'acqua era tranquilla e se vi era una terra vicina, l'approdo non doveva essere né difficile, né pericoloso. - Ecco una fortuna insperata - disse Rokoff. - Se ... Non proseguì. Le sue gambe avevano toccato un fondo duro, probabilmente roccioso, irto di punte. Si rizzò e s'accorse d'aver l'acqua solamente fino al petto. - Siamo salvi! - esclamò. A cinquanta o sessanta passi si estendeva un breve tratto di costa, una specie di punta abbastanza bassa per potervi approdare senza fatica. Più oltre, invece, s'alzava una rupe gigantesca sulla quale Rokoff aveva scorto, alla luce dei lampi, quella massiccia costruzione che gli era sembrata un monastero o una fortezza. Le onde, in causa d'una ripiegatura della costa e d'una scogliera altissima, non potevano giungere fino al luogo dove trovavasi il cosacco. Si frangevano con mille muggiti contro quegli ostacoli che non potevano rovesciare, provocando, in quella specie di baia o di cala, solamente una certa ondulazione. Tenendo sempre alto Fedoro, il quale non dava ancor segno di tornare in sé, Rokoff attraversò velocemente l'ultimo tratto e raggiunse la spiaggia, arrestandosi sotto la gigantesca rupe che cadeva a piombo. - Se vi fosse qualche rifugio - mormorò, gettando un rapido sguardo verso la parete. L'oscurità era però così fitta da non poter vedere a dieci passi di distanza, essendo ormai calata la notte e il cielo sempre coperto da quell'immensa nuvola nera che il vento non era ancora riuscito a disgregare e lacerare. - Lo cercherò più tardi - pensò. - Ora occupiamoci di Fedoro. Depose l'amico su uno strato di sabbia fine e lo spogliò della casacca e del panciotto, mettendogli una mano sul petto. - Il cuore batte - disse con voce giuliva. - Quale fortuna averlo trovato subito! Se le onde mi spingevano pochi passi lontano, era finita per questo povero Fedoro. Gli aprì la bocca, prese la lingua e si mise a tirarla con movimenti lenti e eguali per riattivare il funzionamento dei polmoni. Coll'altra mano intanto gli alzava ora l'uno ora l'altro braccio. La pioggia cadeva a torrenti e il vento spazzava rabbiosamente la spiaggia, ma Rokoff non se ne preoccupava e continuava a operare quelle trazioni con delicatezza. A un tratto un profondo sospiro sfuggì dalle labbra del russo. - La respirazione è riattivata - disse Rokoff - tutto va bene. Lasciò la lingua e si mise a strofinargli vigorosamente il petto con un pezzo di lana strappata dalla fodera della giubba. Fedoro tornava rapidamente in sé, rigettando di quando in quando, sotto quelle pressioni, delle boccate d'acqua. Finalmente anche i suoi occhi si aprirono. - Dove ... sono ... io? - chiese con voce debole. - Rokoff ... capitano ... - Eccomi, sono presso di te - rispose il cosacco, coprendogli il petto. - Tu ... amico ... Rokoff ... che cos'è accaduto? - Una catastrofe, un accidente, non lo so nemmeno io. Siamo stati scaraventati entrambi nel lago, forse dalla folgore e ti ho trovato per puro caso, nel momento in cui stavi per andare a tenere compagnia ai pesci. - Ah! Sì ... mi ricordo ... quella luce ... quel rombo ... poi le onde ... E mi hai salvato? - Ti ho portato qui. - E il capitano? - Non ne so più nulla. - E lo "Sparviero"? - Scomparso, forse caduto nel lago, fracassato dalla folgore o dallo scoppio dei serbatoi d'aria liquida o della macchina. - No ... no! ... - esclamò Fedoro. - No, caduto. - Come lo sai tu? - chiese Rokoff sorpreso. - Quando le onde mi hanno portato a galla, io l'ho veduto ... sì ... me lo ricordo ... il vento lo trascinava verso il nord ... rapidamente ... - Non è scoppiato? - No, Rokoff. - Quanto mi sarebbe rincresciuto che quel meraviglioso treno-aereo fosse stato annientato e che quel valoroso capitano fosse stato ucciso. Sei certo d'averlo veduto fuggire, Fedoro? - Sì, Rokoff, il vento lo travolgeva. - E non bruciava? - No. - Allora non sono i suoi serbatoi che sono saltati? - È stata la folgore che è piombata sul ponte e che ci ha precipitati nel lago. - Ah! Respiro! ... - esclamò il cosacco. - Allora lo rivedremo tornare dopo cessato l'uragano. - Ma noi dove ci troviamo? - Presso un monastero o una fortezza. - Non facciamoci scoprire, Rokoff - disse Fedoro. - Rimaniamo nascosti fino al ritorno dello "Sparviero". Il capitano verrà a raccoglierci, ne sono certo. - Non lo dubito nemmeno io. Sarà però necessario cercarci un nascondiglio; il monastero sta sulla cima di questa rupe e domani potremmo venire scoperti. Rimani qui, vado a vedere se posso trovare qualche crepaccio o qualche caverna. Mi pare che questa parete sia tutta screpolata. - Tu sei senza casacca! - esclamò Fedoro. - Indossa la mia. - Ho dovuto abbandonarla alle onde per poterci salvare entrambi, tuttavia non preoccuparti di me. Ho la pelle dura io e il freddo non ha presa sulle mie carni. Non muoverti e aspetta il mio ritorno. Il cosacco s'allontanò seguendo la rupe che appariva tutta screpolata alla sua base. Essendo i lampi cessati, era costretto a procedere a tentoni e cercare il rifugio colle mani. La burrasca, lungi dal calmarsi, imperversava con rabbia estrema. Onde gigantesche correvano pel lago, frangendosi furiosamente contro le coste con boati e muggiti formidabili e dalle nevose vette dei monti scendevano raffiche gelate e d'una tale violenza, che talvolta il cosacco si sentiva mancare perfino il respiro. - Sarà impossibile allo "Sparviero" poter tornare finché dura quest'uragano - pensava Rokoff, senza cessare di perlustrare. - Il vento soffia sempre dal sud e chissà dove lo avrà trascinato. A un tratto si fermò, mandando una imprecazione. Fra le tenebre aveva scorto dei punti luminosi gialli, verdi, rossi e azzurri che s'avanzavano seguendo la parete. Parevano lanterne cinesi, o qualche cosa di simile. - Che i monaci ci abbiano veduto approdare e vengano a cercarci? - si chiese. - O che ci abbiano anche veduto a cadere nel lago? Mi ricordo d'aver notato degli uomini, un momento prima che la folgore avvolgesse lo "Sparviero". Gridavano e alzavano le braccia verso di noi. Cosa fare? Attenderli o fuggire? Fuggire? E dove, se questa parete è tagliata a picco? Stette un momento esitante, non sapendo a quale partito appigliarsi, poi decise di raggiungere Fedoro, onde avvertirlo del pericolo che li minacciava. - Lui conoscerà i tibetani meglio di me - disse. I punti luminosi o meglio le lanterne continuavano ad avanzarsi, seguendo ora la parete rocciosa e ora la spiaggia. Pareva che gli uomini che le portavano cercassero qualche cosa, perché ora si fermavano e abbassavano le lampade, ora si disperdevano e ora si raggruppavano di nuovo. - Fedoro - disse Rokoff, quando fu vicino all'amico. - Stiamo per venire scoperti e non sono riuscito a trovare alcun nascondiglio. - Ho notato anch'io quei punti luminosi - rispose il russo. - Che quegli uomini cerchino noi? - Non ho alcun dubbio. Siamo stati veduti cadere dallo "Sparviero" o approdare. - Chi saranno costoro? - Dei monaci, suppongo. Mi hai detto d'aver veduto un'enorme costruzione. - Sì, Fedoro, ma poteva essere anche una fortezza. - Non ne esistono su questo lago; qui non vi sono che monasteri. - Sono cattivi i preti di questo paese? - Non credo, però avrei preferito non essere scoperto. - Bah! Se sono monaci, non ci faranno paura - disse Rokoff, mostrando i suoi pugni. - Mi sento in forza per affrontarne cinquanta. - Non vi è alcun modo di fuggire? - Ricacciarci nel lago. - Non pensiamoci; la tempesta invece di scemare aumenta sempre e le onde cominciano a giungere anche qui. Vediamo quale accoglienza ci faranno questi buddisti; se si mostrano ostili daremo battaglia. - Le mie braccia sono pronte a grandinare pugni santissimi che faranno loro vedere le stelle e anche il sole. Fedoro si era alzato. I monaci non erano lontani che cinquanta o sessanta passi e continuavano ad esplorare la spiaggia. Erano una mezza dozzina, non vi era quindi da temere con un uomo della forza di Rokoff. - Andiamo ad incontrarli - disse Fedoro risolutamente. - Anche rimanendo qui ci troverebbero egualmente. - Ti seguo - disse il cosacco, rimboccandosi le maniche della camicia. Avevano percorso mezza distanza, quando videro le lanterne fermarsi, proiettando la luce innanzi. Delle esclamazioni che parevano di stupore, sfuggirono agli uomini che le portavano. - Ci hanno veduto - disse Fedoro. - Chi sono, dunque? - chiese Rokoff. - Monaci, che portano delle tonache di grosso feltro con un manto bianco? - Sì, e che dà loro l'aspetto di fantasmi, specialmente fra questa oscurità. Fedoro mosse incontro a loro alzando le mani e dicendo in cinese: - Pace! ... Pace! ... I sei monaci stettero un momento immobili, col più vivo stupore impresso sui loro volti giallognoli, poi deposero le lanterne e si inginocchiarono dinanzi ai due naufraghi coi segni del più profondo rispetto, pronunciando delle parole che né il russo, né il cosacco riuscivano a comprendere. - Eh! che cosa ne dici, Fedoro? - chiese Rokoff. - Che questi uomini ci adorano. - Che ci prendano per figli della luna o delle tempeste? - Per i figli del grande Buddha, amico mio. Devono averci veduto cadere dallo "Sparviero". - Per le steppe del Don! Sapremo approfittare della loro ignoranza per farci regalare almeno una buona cena e un comodo letto. Spero che non saranno poi così stupidi da credere che i figlioli di Buddha vivano d'aria. Alzatevi, reverendi, basta colle adorazioni: abbiamo fame ed anche freddo. E siccome i monaci non accennavano a levare la fronte che tenevano posata al suolo, ne prese uno e lo sollevò come fosse un pupattolo, mettendolo in piedi. Gli altri s'affrettarono a rialzarsi, cacciando fuori le lingue lunghe una buona spanna e dimenandole in tutti i sensi. - Abbiamo capito, ci salutate - disse Rokoff. - Ma basta; conduceteci con voi. I monaci si guardarono l'un l'altro cercando probabilmente di comprendere ciò che chiedeva il cosacco, poi uno di loro, che portava al collo un grosso monile formato di pietruzze traforate e molto trasparenti, fece alcuni segni, indicando replicatamente la cima della roccia. - Che c'invitino a salire lassù? - chiese Rokoff. - Mi sembra - rispose Fedoro. - Non puoi farti capire da costoro? - Non comprendono il cinese. Nel loro monastero ci sarà, spero, qualcuno che lo parlerà, essendo i tibetani tributari della Cina. Sì, Rokoff, c'invitano a seguirli. - Andiamo - rispose il cosacco. - Mi sento gelare il sangue e desidererei un buon fuoco. Tre monaci si misero dinanzi, illuminando la spiaggia colle loro lampade e levando i ciottoli che potevano far cadere i due aeronauti, gli altri seguivano. - Molto gentili - disse Rokoff. - Mi pare che questa avventura debba finire meglio di quello che credevo. Purché lo "Sparviero" torni presto! ... Non si sa mai quello che può accadere, anche ai figli di Buddha, in questo paese che gode poco buona fama. Seguirono la parete per tre o quattrocento passi, poi salirono una stretta gradinata e raggiunsero il piano superiore, su cui giganteggiava una enorme costruzione, con alti tetti arcuati e doppi e due torri di stile cinese. - Che siamo caduti presso il monastero di Dorkia? - disse Fedoro. - È uno dei più belli? - chiese Rokoff. - Non solo, ma anche il più celebre del Tengri-Nor, visitato ogni anno da migliaia e migliaia di pellegrini e perfino dal Dalai-Lama. - Saranno ricchissimi questi monaci? - Prodigiosamente, Rokoff. - Allora siamo certi di trovare una buona tavola.

Verso sera lo "Sparviero" si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell'Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d'inverno e a riaccendere la stufa. - Sarà domani che passeremo la grande catena? - chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina. - A mezzodì passeremo presso il Dorkia - rispose il comandante. - E non andremo a vedere l'Everest? - Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile. - Sicché non andremo verso l'ovest? - No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani. Erano appena le quattro del mattino, quando lo "Sparviero" riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s'innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli. La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l'orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l'imponente massa dell'Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l'orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All'ovest, a una grande distanza, scintillava l'enorme Gaurinkar, o meglio l'Everest, il monte santo degl'indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un'altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri. La catena dell'Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l'estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all'est dal Brahmaputra e all'ovest dall'India, i due più grandi fiumi della penisola indostana. Ancora cent'anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne. Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione. Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l'ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l'Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente. Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un'altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell'America meridionale. Tutti gl'indiani hanno una grande venerazione per la catena dell'Himalaya, che per loro è d'origine santa e da migliaia e migliaia d'anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi. - Che cosa ne dite di queste montagne? - chiese il capitano, mentre lo "Sparviero", che aveva raggiunto un'altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s'apriva da un fianco orientale del Dorkia. - Mettono spavento - disse Rokoff. - Un panorama meraviglioso, unico al mondo - rispose Fedoro. - Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra. - Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell'Europa - disse il capitano. - Questi colossi vincono tutti. - E animali se ne trovano qui? - chiese Rokoff. - Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero. - Spero che non lasceremo l'India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre - disse Rokoff. - Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete - rispose il capitano. - Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo. - Per sempre? - chiesero a una voce Rokoff e Fedoro. - Chi può saperlo? - rispose il capitano. - Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora ... guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un'aquila, su quel dirupo. È Pharò, l'ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell'India: il Butan non è che a due passi. Lo "Sparviero" era uscito da quell'immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d'altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un'altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz'ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan. L'India s'apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

I PESCATORI DI BALENE

682373
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Il suo respiro, che si ode a una non breve distanza, era più frequente, la sua coda si alzava e si abbassava con molta violenza; e spesso sollevava la testa fuori dell'acqua come se cercasse di vedere i nemici che la seguivano. - Arranca a tutta lena! - gridò ad un tratto il tenente. La baleniera partì rapida come una saetta. In brevi istanti si trovò a sole venti braccia dal cetaceo. - Koninson! - gridò il tenente. - Pronto, signore! rispose il fiociniere. - Getta! ... Koninson alzò il rampone, lo fece oscillare innanzi e indietro e lo lanciò con tutta la forza del suo braccio, piantandolo profondamente nel fianco destro della balena in un punto ricco di tendini e di carne. Parve che il cetaceo subito non si accorgesse di essere stato ferito, ma dopo alcuni secondi agitò furiosamente la coda lanciando contemporaneamente una nota così acuta da udirsi a parecchi chilometri di distanza. - Attenti ragazzi! - gridò il tenente, mentre Koninson afferrava una lancia munita di una specie di palla taglientissima. La baleniera si spinse innanzi a tutta velocità, ma il cetaceo si rovesciò bruscamente sul fianco ferito sforzandosi di strapparsi l'arma, che doveva farlo soffrire atrocemente; indi si tuffò con grande fracasso, dopo aver lanciato un'altra e più formidabile nota. - Maledetto! - gridò Koninson - Se aspettava due secondi ancora, gli tagliavo i tendini e l'arteria della coda. La lenza filava rapidissimamente, anzi tanto che si dovette bagnare il bordo della baleniera affinchè per il continuo strofinio non si accendesse. Ben presto fu quasi tutta finita; Koninson ne aggiunse un'altra. - Per mille, boccaporti! - gridò il fiociniere. - Vuol scendere all'inferno? - Pazienza, - Koninson - disse il tenente. Ricomparirà, te lo dico io. Mezzo minuto dopo la lenza cessò di filare. - Ehi, mastro Widdeak, sta bene attento! - gridò il tenente. - Il cetaceo apparirà vicino alla tua baleniera. - Lo riceveremo, come si deve! - rispose il mastro. - Eccolo! Eccolo! - gridarono ad un tratto alcuni marinai. Sulla tranquilla superficie del mare, a una sola gomena dalla prua della baleniera di Widdeak, era stato scorto il tremolio. Harwey, che era ansioso di lanciare la sua arma si alzò di colpo. Poco dopo il gigante apparve. Aveva il rampone ancora piantato nel fianco e manifestava il suo dolore con sordi brontolii e con un continuo eruttare di densi vapori dai due sfiatatoi. Mastro Widdeak diresse verso di lui la sua baleniera. Harwey alzò il rampone e lo lanciò con grande forza. Il cetaceo, nuovamente ferito, emise una formidabile nota che durò otto o dieci secondi. Si sarebbe detto che quella nota era prodotta da una impetuosissima corrente d'aria spinta dentro un largo tubo di bronzo. Subito dopo il mostro si mise a guizzare qua e là, ora avvicinandosi alle baleniere e ora allontanandosi come se avesse completamente perduto la testa. La sua possente coda e le sue grandi pinne pettorali battevano furiosamente l'acqua sollevando delle ondate. Sordi brontolii gli uscivano dalla gola e fischi acuti, dagli sfiatatoi i quali lanciavano senza posa bianchissime e molto dense nubi di vapore. - Avanti! Avanti! - gridò Koninson. Il tenente, punto curandosi dei colpi di mare e punto spaventato dai tremendi colpi di coda che il mostro avventava, fece avanzare la baleniera mentre mastro Widdeak girava al largo per non imbrogliare le due lenze. I cacciatori con pochi colpi di remo si trovarono a breve distanza dal cetaceo. Koninson che era diventato frenetico, appena lo vide alzare la coda gli lanciò il rampone dalla punta rotonda, colpendolo nelle ultime vertebre caudali. Dalla larga ferita uscì subito un grosso rivo di sangue, il quale arrossò per un largo tratto le acque. - Urrah! Urrah! - urlò il fiociniere balena è nostra! Infatti per il cetaceo era ormai finita. Colpito ai fianchi dai due ramponi e poi sotto la coda da quella larga palla tagliente che gli aveva recisi i tendini e l'arteria, non poteva più fuggire. Era questione di ore, forse di soli minuti, poichè le baleniere tornavano alla carica per gettare le lancie. In meno di quindici secondi altre ferite gli furono aperte sui fianchi dai due fiocinieri, e tutte mortali. Allora cominciò l'agonia, ma un'agonia terribile e pericolosissima, non solo per le baleniere, ma per il "Danebrog". Il gigante diventato pazzo per il dolore e anche cieco si precipitava in tutte le direzioni con impeto irresistibile. Usciva più di mezzo dall'acqua, si tuffava, tornava a galla, si rovesciava sui fianchi, ora filava colla rapidità di una freccia, ora si arrestava mandando suoni rauchi, metallici o note potenti, ora descriveva delle curve o dei bruschi angoli. Il "Danebrog" si era messo nuovamente alla vela per non venire investito e si teneva ad una grande distanza e le due baleniere avevano un gran da fare per non venire subissate dalle onde che il gigante sollevava, o sfasciate dalla coda. Ad un tratto però la balena si arrestò. Dai suoi sfiatatoi uscirono con sinistro rumore due getti di sangue che arrossarono una grande zona di mare, poi un fremito agitò l'intera massa. Mandò un'ultima e più acuta nota, indi sollevò la testa mostrando la sua immensa bocca, poi si rovesciò sul dorso e rimase immobile col ventre a fior d'acqua. Era morta!

Il gran banco sotto i loro piedi vibrava fortemente e si alzava e si abbassava come se sotto di esso il mare fosse diventato tempestoso. Di quando in quando dei lunghi segni bianchi, che annunciavano prossime spaccature, correvano da una estremità all'altra del banco con sinistri crepitii seguiti da sordi boati e tutto d'un tratto s'innalzavano delle colonne di ghiaccio in cerchi concentrici che tosto strapiombavano con indescrivibile fracasso. Dopo aver corso dieci volte il pericolo di venire sfracellati o ingoiati, i due intrepidi balenieri giunsero sull'orlo della frana attraverso alla quale gettarono l'albero. Il tenente vi si avventurò sopra, tenendosi solidamente aggrappato e raggiunse in breve l'opposta riva. Il fiociniere lo seguì e ben presto si trovarono dinanzi ai magazzini che erano coperti da un ammasso di neve indurita. - Mi sembra che non abbiano sofferto - disse il tenente dopo una rapida occhiata. - È vero - confermò il fiociniere. - Mano alla scure e non perdiamo tempo, amico Koninson. Sento dei fremiti correre sotto il ghiaccio, e ciò indica che può aprirsi un abisso sotto i nostri piedi. Dotati entrambi di una forza poco comune, in breve aprirono nella massa nevosa una specie di galleria, entro la quale arditamente si cacciarono finchè giunsero alla parete del magazzino che con due o tre colpi di scure sfondarono. - Le scialuppe? - chiese il fiociniere al tenente che lo aveva preceduto. - Eccole lì! - rispose l'interpellato, che si era cacciato in mezzo alle casse e ai barili che ingombravano il magazzino. - Saremo capaci di spingerle fuori? - Lo spero, Koninson, poichè poggiano sopra i curli. In quell'istante udirono sotto i piedi crepitare fortemente il ghiaccio e al di fuori raddoppiare le urla e le detonazioni. Alcune grida umane, che partivano senza dubbio dal "Danebrog", giunsero pure ai loro orecchi. - Presto, presto, Koninson! - gridò il tenente. - Forse la nave sta per affondare. - Eccomi, signore! - rispose il fiociniere, che era diventato pallido, pensando al grave pericolo che correvano il capitano Weimar e tutti gli altri. Afferrarono i bordi della grande baleniera e si misero a spingerla con disperata energia, mentre le detonazioni si succedevano con spaventevole frequenza facendo oscillare le pareti del magazzino. Dapprima non riuscirono a muoverla essendosi i curli saldati al ghiaccio, ma poi, dopo alcune vigorose scosse, la spinsero attraverso il magazzino cercando di dirigerla all'imboccatura della galleria. Il tenente, in preda ad una forte inquietudine che non riusciva a vincere, faceva sforzi sovrumani ed eccitava il suo compagno che non ne aveva proprio bisogno, poichè anche lui spingeva con una specie di rabbia, invaso da una vaga paura che ad ogni istante cresceva. Avevano già spinto la grande baleniera nella galleria, quando in mezzo all'orribile baccano prodotto dai ghiacci che le pressioni spaccavano e rovesciavano, s'udirono delle urla disperate venire dal luogo ove si trovava la nave. - Koninson! - esclamò il tenente con voce soffocata dall'emozione. - Tenente! - rispose il fiociniere che era diventato pallido come un cadavere. - Aiuto! Si salvi chi può! - s'udì urlare al di fuori. Il tenente e il fiociniere, atterriti, cogli occhi stravolti, si precipitarono fuori della galleria le cui pareti cadevano a larghi pezzi. Un grido sfuggì dai loro petti. Il "Danebrog", schiacciato dalle pressioni, andava rapidamente a picco. Già la sua prua era scomparsa e l'acqua del mare, alzatasi sopra il banco, saliva spumeggiando l'inclinato ponte del vascello, strappando tutto ciò che incontrava sul suo passaggio. I marinai, pazzi di terrore, dopo essersi rifugiati a poppa stavano saltando sul campo di ghiaccio dirigendosi a tutte gambe verso il crepaccio. - Capitano! Capitano! - gridò il tenente. - Accorriamo! Accorriamo! - esclamò Koninson, Stavano per slanciarsi verso il crepaccio, quando una scossa formidabile seguita da uno scoppio inaudito, paragonabile solo all'esplosione di una immensa polveriera, fece traballare il gran campo di ghiaccio che dapprima si curvò in alto e che poi si spaccò aprendo qua e là dei profondi baratri dai quali irruppe furioso il mare. Il tenente e il fiociniere, violentemente scossi, stramazzarono in mezzo alla neve. Quando si alzarono, il "Danebrog" e il suo valoroso equipaggio erano scomparsi! Il banco di ghiaccio, prima apertosi e poi richiusosi, li aveva per sempre inghiottiti!

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

... " L'israelita, quantunque si vedesse ormai perduto, non abbassava il braccio armato. Teneva la pistola sempre puntata, deciso, a quanto pareva, a scaricare contro i suoi nemici i due colpi e poi a far uso anche del pugnale. I suoi occhi neri, pieni di splendore come quelli delle donne ebree, mandavano lampi, ma il suo volto bianchissimo era diventato così pallido da far paura. "Indietro!" ripeté, con voce angosciata. I fanatici, incoraggiati dalla folla, avevano invece impugnato le corte scimitarre e gli spilloni, mandando urla feroci. Stavano per precipitarsi su di lui e farlo a brani, quando due altri uomini, vestiti di bianco come gli europei che soggiornano nel Marocco e nei paesi caldi, si scagliarono dinanzi ai fanatici, tuonando: "Fermi!" Uno era un uomo di trent'anni, alto, bruno, con baffi neri, gli occhi vivi e mobilissimi, elegante; l'altro invece era un vero gigante, alto quanto un granatiere, con un corpo erculeo e con braccia grosse come colonne, un uomo insomma da far paura e da tener testa, da solo, ad un drappello d'avversari. Era bruno come un meticcio, con una selva di capelli più neri delle penne dei corvi, con baffi grossi che gli davano un aspetto brigantesco, coi tratti del volto angolosi, il naso diritto e le labbra rosse come ciliege mature. Vestiva un costume bianco come il compagno, però invece dell'elmo di tela portava una specie di tocco di panno nero, cinto da un drappo rosso e adorno d'un fiocco d'egual colore. Era più vecchio dell'altro di cinque o sei anni, ma quale vigore doveva possedere quell'ercole di fronte a cui i magrissimi marocchini facevano una ben meschina figura! Vedendo slanciarsi quei due uomini, per la seconda volta i fanatici si erano arrestati. Non si trattava più di scannare un cane d'ebreo. Quei due sconosciuti erano due europei, forse due inglesi, due francesi o italiani, due uomini insomma che potevano chiedere l'aiuto del governatore, far accorrere delle corazzate dinanzi a Tangeri e disturbare seriamente la quiete dell'Imperatore. "Levatevi!" aveva gridato, con tono minaccioso, uno dei fanatici "L'ebreo è nostro!" Il giovane bruno invece di rispondere aveva levato rapidamente da una tasca una rivoltella, puntandola contro i marocchini. "Rocco, preparati," disse volgendosi verso il compagno. "Sono pronto a fare una carneficina di questi cretini," rispose il gigante. "I miei pugni basteranno, marchese." La folla, che giungeva coll'impeto d'una fiumana che rompe gli argini, urlava a piena gola: "A morte gl'infedeli!" "Sì, a morte!" vociferarono gli allucinati. Si precipitarono innanzi agitando le scimitarre, i pugnali ed i punteruoli grondanti sangue che avevano levato dalle ferite e si prepararono a fare a pezzi l'ebreo e anche i due europei. "Indietro, bricconi!" gridò ancora, con voce più minacciosa, il compagno del gigante, gettandosi dinanzi all'ebreo. "Voi non toccherete quest'uomo." "A morte i cani d'Europa!" urlarono invece i fanatici. "Ah! Non volete lasciarci in pace?" riprese l'europeo con ira. "Ebbene, prendete!". Un colpo di rivoltella echeggiò ed un marocchino, il primo della banda, cadde morto. Nel medesimo istante il colosso piombò in mezzo all'orda e con due pugni formidabili fulminò altri due uomini. "Bravo Rocco!" esclamò il giovane dai baffi neri. "Tu vali meglio della mia rivoltella." Dinanzi a quell'inaspettata resistenza, i fanatici si erano arrestati, guardando con terrore quel colosso che sapeva così bene servirsi dei suoi pugni e che pareva disposto a ricominciare quella terribile manovra. L'ebreo approfittò per accostarsi ai due europei. "Signori," disse in un italiano fantastico, "grazie del vostro aiuto, ma se vi preme la vita, fuggite." "Me ne andrei molto volentieri," rispose il compagno del colosso, "se trovassi una casa. Noi non l'abbiamo una casa, è vero, Rocco?" "No, signor marchese. Non ne ho trovata ancora una." "Venite da me, signore," disse l'ebreo. "È lontana la vostra?" "Nel ghetto." "Andiamo." "E presto," disse Rocco. "La folla si arma e si prepara a farci passare un brutto quarto d'ora." Alcuni uomini avevano invaso le case vicine ed erano usciti tenendo nei pugni moschetti, scimitarre, jatagan e coltellacci. "La faccenda diventa seria," disse il marchese. "In ritirata!" Preceduti dall'ebreo il quale correva come un cervo, si slanciarono verso la piazza del Mercato, salutati da alcuni colpi di fucile, le cui palle, per loro fortuna, si perdettero altrove. I fanatici ed i loro ammiratori si erano gettati sulle loro tracce urlando ed imprecando: "A morte i kafir!" "Vendetta! Vendetta!" Se i marocchini correvano, anche il marchese ed i suoi compagni mostravano di possedere garetti d'acciaio, perché non perdevano un passo. Però la loro posizione diventava di momento in momento più minacciata, tanto anzi che il marchese cominciava a dubitare di poter sfuggire a quel furioso inseguimento. La folla si era rapidamente ingrossata e dalle strette viuzze sbucavano altri abitanti, mori, arabi, negri, e non inermi. La notizia che degli stranieri avevano assassinato tre fanatici doveva essersi propagata colla rapidità del lampo e l'intera popolazione di Tafilelt accorreva per fare giustizia sommaria dei kafir che avevano osato tanto. "Non credevo di scatenare una burrasca così grossa," disse il marchese, sempre correndo. "Se non sopraggiungono i soldati del governatore, la mia missione finirà qui." Avevano già attraversato la piazza e stavano per imboccare una via laterale, quando si videro sbarrare il passo da una truppa di mori armati di scimitarre e di qualche moschetto. Quella banda doveva aver fatto il giro del mercato per cercare di prenderli fra due fuochi e come si vede era riuscita nel suo intento. "Rocco," disse il marchese, arrestandosi, "siamo presi!" "La via ci è tagliata, signore," disse l'ebreo con angoscia. "Mi rincresce per voi; il vostro aiuto vi ha perduti!" "Non lo siamo ancora," rispose il gigante. "Ho cinque palle e il marchese ne ha altre sei. Cerchiamo di barricarci in qualche luogo." "E dove?" chiese il marchese. "Vedo un caffè laggiù." "Ci assedieranno." "Resisteremo fino all'arrivo delle guardie. Il governatore ci penserà tre volte prima di lasciarci scannare. Siamo europei e rappresentiamo due nazioni che possono creare serie noie all'Imperatore. Orsù, non perdiamo tempo. Si preparano a fucilarci." Due spari rimbombarono sulla piazza e una palla attraversò l'alto berretto del colosso. All'estremità della piazza sorgeva isolato un piccolo edificio di forma quadrata, sormontato da una terrazza, colle pareti bianchissime e prive di finestre. Dinanzi alla porta vi erano certe specie di gabbie che servono da sedili ai consumatori di caffè. I tre uomini si slanciarono in quella direzione, giungendo dinanzi alla porta nel momento in cui il proprietario, un vecchio arabo, attratto da quelle urla e da quegli spari, stava per uscire. "Sgombra!" gridò il marchese in lingua araba. "E prendi!" Gli gettò addosso una manata di monete d'oro, lo spinse contro il muro e si precipitò nell'interno seguito da Rocco e dall'ebreo, mentre la folla, maggiormente inferocita, urlava sempre "A morte i kafir."

Il marchese stava per dare il segnale della fermata, quando la sua attenzione fu attirata da uno stormo immenso d'uccelli di rapina, il quale ora s'alzava ed ora si abbassava fra le dune, con un gridio assordante. "Cosa c'è laggiù?" si chiese fermando il proprio cavallo. "Qualche motivo deve aver radunato qui quei volatili che sono pur rari in questo deserto." "Se voi vedete gli uccelli, io sento un puzzo orrendo," disse Rocco, che da qualche istante fiutava l'aria. "Si direbbe che dietro quelle dune vi sia un carnaio che sta putrefacendosi." "Un'ecatombe forse?" chiese il marchese, impallidendo. "Qualche massacro compiuto dai predoni del Sahara, dai feroci Tuareg?" "Od una carovana morta di sete?" aggiunse Ben. "Rocco, rimani a guardia della provvista d'acqua e di Esther, ed io con Ben andiamo a vedere." Fecero fermare la carovana e spinsero i cavalli attraverso le dune spronandoli vivamente, perché s'impennavano, nitrivano, fiutavano l'aria, scuotevano le folte criniere e sferravano calci. A mano a mano che s'accostavano alle dune, dietro le quali si vedeva piombare l'immenso stormo degli uccelli da preda, l'odore diventava così pestilenziale, che il marchese, quantunque abituato alle stragi dei campi di battaglia, si sentiva quasi venir meno. Sorpassata l'ultima duna, un orribile spettacolo si offerse ai loro occhi.

La virtù di Checchina

682465
Serao, Matilde 1 occorrenze

Il lume filava, e quando si abbassava, la luce era troppo fioca. A un punto il marito disse: - Caro marchese mio, questi gnocchi e la torta che assaggerete in fine di pranzo, sono opera di questa Checca mia, che ha le mani benedette. Il marchese le fece un complimento squisito. In verità, egli fu finissimo. Parve non si accorgesse neppure di tanti piccoli incidenti volgari, non guardò mai Susanna, come se non esistesse, prese due volte della frittura e parlò sempre, con la massima scioltezza. Parlava a mezza voce, con una erre molto lieve, quasi aspirata, e una esse infantile, molto dolce; quella voce aveva delle intonazioni molli, come carezzevoli, e nelle più semplici parole, pareva che ondeggiassero soffi caldi, aliti avvincenti di tenerezza. Parlando, fissava negli occhi il suo interlocutore, col suo sguardo serio, pensoso, mentre un lieve sorriso compariva sotto l'arco biondo dei mustacchi e la mano morbida scherzava col coltello. Checchina, sollevata dal suo incubo, si rincorava, vedendo la disinvoltura da gran signore con cui il marchese di Aragona non si accorgeva di nulla: il viso rosso diventava roseo, e l'arricciatura che le solleticava la nuca, le cagionava un fastidio dilettoso, invece che una pena. Ogni tanto, sotto lo sguardo del marchese, le palpebre le battevano, come se la luce fosse troppo viva nella stanza; ma anch'ella sorrideva, silenziosamente, annuendo col capo a quello che diceva. A proposito della torta, che era forse un po' troppo cotta, abbrustolita nell'orliccio, egli disse qualcosa di molto delicato, sulla dolcezza della donna. Checchina non intese bene il senso delle parole, ma la voce la carezzò come una musica. Il marchese non prese il caffè, che forse era molto cattivo, ed ella gliene fu grata in cuor suo: i denari non le erano bastati per comprare la macchinetta. Invece Toto Primicerio volle che si sturasse una bottiglia di vieux cognac , che gli aveva regalato un suo cliente di Francia. Il marchese allora levò il bicchierino e fece un brindisi alla signora Primicerio: la quale, per corrispondere, bevve un bicchierino di cognac , liquore che non aveva mai bevuto, di un fiato solo. Nel salotto, tutti tre tacquero un momento. Vi faceva freddo in quella stanzetta povera di mobili, senza tappeto, con quelle tendine grame. Come se si potesse riscaldarla coi lumi, Checchina fece portare l'altro lume che esisteva in casa; ma non aveva paralume e accecava, a guardarlo. Ella sedeva sul divano, ritta sul busto, sentendo per la prima volta la miseria di quella stanza e soffrendone acutamente: appena appena se udiva la voce armoniosa del marchese di Aragona che le diceva male della villeggiatura di Scozia, dove gli Altavilla, suoi cugini, avevano un castello. Vi era freddo laggiù: ella rabbrividiva qui: le lagrime le salivano agli occhi. Toto Primicerio si lasciava vincere dall'irresistibile sonno degli uomini adiposi, che hanno molto mangiato e molto bevuto. Ella rivolgeva a suo marito certe timide occhiate, quasi supplicando di non addormentarsi: Toto, come tutti gli uomini grassi, russava. Toto non capiva e, disteso sulla poltroncina, ogni tanto chiudeva gli occhi e abbassava la testa sul petto. Alla fine uno sguardo di Checchina lo svegliò, come una scossa elettrica: egli si levò, arrivò sino alla finestra, guardò nella strada per avere un'aria disinvolta, poi uscì dalla stanza, d'un tratto solo, senza voltarsi. Egli aveva bisogno di dormire un'oretta, dopo il pranzo. Questo bel marchese di Aragona finse di non vedere l'uscita del marito. Disteso nella poltroncina con una gamba accavallata sull'altra, egli mostrava il piede aristocratico, calzato dalla calza di seta rossa e dalla scarpa di copale: una mano arricciava, affilava i mustacchi biondi, e l'altra si poggiava sul bracciuolo del divano, dove Checchina era seduta. Checchina, ora, respirava meglio, chè suo marito dormiva, largo disteso, sul letto coniugale. Ella osava alzare sul marchese i suoi grandi occhi romani, immobili forse nell'espressione, ma profondi. Di nuovo sentiva quel molle profumo di violetta, che le dava un intenerimento ai nervi. Il marchese d'Aragona aveva ancora abbassato il tono della voce: ora le diceva della propria casa, un quartierino da scapolo, dove egli passava delle lunghe ore solitarie. - Perchè non vi ammogliate, allora? * disse ella, ingenuamente. Poi si pentì della soverchia familiarità. Egli non rispose alla domanda: vi fu silenzio. - La casa è solitaria - mormorò egli, di nuovo, guardando Checchina - in quella malinconica via dei santi Apostoli. La conoscete? Sì?… mi fa piacere. Non il palazzo di Balduccio Odescalchi, il principe Odescalchi, un mio amico: no, quello accanto, dopo un arco. Sono al primo piano: ventiquattro scalini. Io detesto le scale lunghe: mi fanno male al cuore. Nella mia famiglia è ereditaria la malattia di cuore: ne moriamo tutti molto presto. Che importa? La vita deve essere breve e buona. La mia è troppo lunga: e non è bella sicuramente. Non vi è mai nessuno in casa mia: vi sono due porte nell'appartamento, il mio cameriere prepara, dal mattino, tutto quello che mi può servire nella giornata. Poi, resto solo. Il quartierino ha le triplici tende di seta gialla, di merletto bianco e di broccato che lo difendono contro la soverchia luce. Io amo molto la penombra, in cui si può sonnecchiare. Vi sono dei tappeti dapertutto, e la casa tutta quanta è un po' foderata, un po' imbottita, contro il freddo: il caminetto del salotto ha sempre una fiammata viva. Io sono molto freddoloso: nel calduccio mi sento felice. Sono sempre solo, in quella casa: per divertirmi, abbrucio una pastiglia orientale che profuma la stanza, fumo una sigaretta, e aspetto che venga… chi? Un sogno, un fantasma, una bella donna semplice e buona, che mi volesse bene, che io adorerei… - Volete venirci voi? - soggiunse subito, baciandola improvvisamente sul collo. - No, no - disse lei, difendendosi le labbra col braccio. - Vieni mercoledì, dalle quattro alle sei, vieni, Fanny. - No, mercoledì - rispose Checchina, vinta da quel nome. - Venerdì allora, alla stessa ora. E fattole un profondo inchino, se ne andò. Susanna gli fece lume, con una lampadina a olio, per le scale.

LEGGENDE NAPOLETANE

682482
Serao, Matilde 1 occorrenze

Egli le parlava lungamente, poi stanco, la voce gli si abbassava a poco a poco, poi taceva. La contemplava, estatico. Ella si muoveva per andarsene. - Non partire, non partire! - supplicava lui. Ella restava ferma innanzi a lui, i piedini bianchi come ale di colombo, appena posati a terra, coi capelli vagamente adorni di rose bianche, con un lembo di abito sostenuto da rose bianche. - Siedi, siedi accanto a me! Ella non sedeva, immota, guardando dinanzi a sé coi grandi occhi senza pupilla. - Parlami, parlami - mormorava lui. Ella non aveva voce, non si muovevano le labbra. Invano egli la pregava, la scongiurava, s'inginocchiava, ella non gli rispondeva. Era inflessibile e serena. Ma in un crepuscolo d'autunno, egli trovò le frasi più eloquenti per esprimere la propria disperazione: batté la fronte a terra, sparse le lagrime più cocenti, adorò la fanciulla. Ella parea si trasformasse; dietro il candore della pelle pareva che cominciasse a correre il sangue. Egli, folle, morente di amore, le offerse la sua vita per una parola. - M'ami? - Sì - parve un sussurrìo. Allora, in un impeto di passione, egli l'abbracciò. Un orribile scricchiolìo s'intese e la divina fanciulla cadde al suolo, frantumata in tanti cocci di porcellana candida. Nella notte profonda, quando i custodi dormivano, nella deserta sala delle porcellane cominciò un mormorìo, un bisbiglio, un'agitazione. Correvano fremiti da una scansia all'altra, attraverso i cristalli; voci irose e sommesse si urtavano, fieri propositi, progetti di vendetta cozzavan l'un contro l'altro. Poco a poco la calma si ristabilì: tutto era deciso. La sfilata cominciò. Prima fu l'Aurora bianca sul suo carro tirato da quattro cavalli candidi; e discesa nel giardino dove lui giaceva svenuto accanto al suo idolo infranto, maledisse per sempre le sue albe; la seguirono le ventiquattro fanciulle che sono le Ore, e sfogliarono rose avvelenate sullo svenuto; dopo vennero gli Amorini, e gli conficcarono nel cuore i dardi acuti e dolorosi. Il gruppo passò. Secondi vennero i sette re di Francia, bianchi, sui cavalli bianchi, Carlomagno, S. Luigi, Francesco I, Enrico II, Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV; galoppando pei viali, toccarono con lo scettro, con la spada l'infelice, ed ogni colpo gli rintronò nel cervello. Poi ogni statuina s'avviò, gli sputò in viso, lo insultò, lo calpestò; ogni tazza fu piena per lui di cicuta, ogni vassoio di cenere, ogni coppa da fiori contenne per lui fiori malefici e crudeli. Ed infine si mosse il grande gruppo dei Titani che vogliono scalare l'Olimpo: Giove, seduto sull'aquila, fulminò il moribondo, ed i Titani lo seppellirono sotto enorme sepolcro di massi. Poi ognuno riprese la sua via, i gruppi rientrarono nelle scansie e vi rimasero immobili. Fu questa la vendetta della fredda e candida porcellana su colui che aveva frantumata la fanciulla immortale. È questa la storia eterna e fatale. L'ideale raggiunto, toccato, va in pezzi - l'arte si vendica sulla vita - e l'anima muore sotto un immane sepolcro.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 7 occorrenze

Egli si abbassava ancora, angosciato e offeso, dicendole sottovoce che era lui, il padre, suo padre, che l'amava così teneramente, che la voleva guarita, lui, la sola persona che l'amasse veramente… ma la espressione di noia cresceva su quel volto di povera inferma, di paziente, come diceva il dottore, e la gracile mano, irrequieta, ostinata continuava a cacciar via da sé il marchese Cavalcanti. Il vecchio reprimeva a stento un fiotto di collera che gli saliva al cervello, e andava a sedersi poco distante, piegando le braccia sul petto, abbassando il capo, rassegnandosi, umiliandosi. Solo Margherita otteneva risposta, quando chiedeva qualche cosa a Bianca Maria, se volesse bere di quella forte bibita, marsala, uovo battuto e brodo, che si dà agli ammalati di tifo, se volesse far cambiare la vescica del ghiaccio. La fanciulla, senz'aprir gli occhi, rispondeva sì, no, con il movimento della mano sottile: e il marchese Cavalcanti era costretto, per saper qualche cosa, a interrogare la faccia della vecchia cameriera. In certi momenti, disperato di quell'ostinato ostracismo, usciva dalla stanzetta di Bianca Maria e si metteva a passeggiare nel salone: spesso i suoi passi agitati facevano troppo rumore e sulla soglia compariva il viso inquieto di Margherita: egli si fermava: ella gli faceva cenno di chetarsi, il rumore dava dolore a Bianca Maria. - Anche qui, le do fastidio? - chiedeva lui, fremente. E poiché la cameriera Margherita assentiva, sì, era vero, anche da lontano egli la faceva soffrire, per reprimere un impulso d'ira, egli prendeva il cappello e usciva di casa. Allora l'appartamento ricadeva nella grande taciturnità: Giovanni sonnecchiava tristemente in anticamera, mentre Margherita si piegava sul viso pallido e bruciante dell'ammalata, per soffiarle qualche dolce parola. Facendo uno sforzo, la povera figliuola sorrideva, un minuto secondo: e la vecchia serva appagata, tornava a sedersi, mormorando fra sé le parole delle orazioni, senza distogliere lo sguardo da Bianca Maria. Tardi, tardi, dopo aver errato nelle vie, stancandosi a camminare, mal vestito, spettinato, avendo perduto tutta la dignità della persona, irriconoscibile, il marchese Cavalcanti tornava a casa, trovando la porta aperta, quasi che avessero udito da lungi il suo passo. Margherita veniva a lui, nell'ombra, col suo passo di fantasma. - Come sta? - Lo stesso, - sospirava ella. - Che dice il medico? - Neve e chinino. Ha chiesto ancora del dottor Amati. - Vi ho detto di non nominarmi mai quell'infame! - esclamava il marchese. - Ssst! - zittiva lei, rispettosamente. E se ne andava. Il marchese era preso da un'angoscia così profonda, che l'antica fede rinascendogli nel cuore, cercava dove inginocchiarsi a pregare il Signore, perché gli salvasse la figlia, perché gli levasse quella tortura. Ahimè, la stanzetta che faceva da cappella, prima, e dove, tante volte, Bianca Maria e lui avevano pregato insieme, era deserta; egli, dopo aver ingiuriato i santi e la Madonna, dopo aver commesso il sacrilegio di punire l' Ecce Homo, veva vevavenduto i santi, la Madonna e l' Ecce Homo er giuocarne il denaro al lotto. Non vi erano più santi protettori in casa Cavalcanti, la Madonna e il suo Divino Figliuolo ne avevano ritratto gli occhi, addolorati dall'ingiuria. Niente più, niente più, in quella casa. In questi ultimi tempi, nella malattia della povera fanciulla, erano vissuti di elemosina, vale a dire di certi scarsi sussidi, che la pietà dei larghi parenti, che la inesauribile pietà della moglie di don Gennaro Parascandolo, lo strozzino, concedeva alle preghiere e alle lacrime di Margherita e Giovanni, i due servi. Stendevano la mano, adesso, i Cavalcanti! Da molte settimane egli non aveva più denaro per giuocare, e fuggiva il Banco lotto di don Crescenzo, perché non aveva le molte lire da restituirgli, che gli doveva: ma quando veniva il venerdì, pur sapendo che essi eran ridotti, alla privata mendicità, pur sapendo che era un delitto familiare, quello che commetteva, egli giungeva a scongiurare Margherita che gli desse due lire, una lira, per giuocare. Solo quel venerdì, primo della malattia di Bianca Maria, non aveva osato: egli era colpito inguaribilmente, quel corpo di fanciulla disteso su quello che sarebbe stato forse il letto dì morte, quella testa schiacciata sotto la grossa vescica del ghiaccio, quel profilo stirato, come assottigliato da una mano interna, quelle sopracciglia che si aggrottavano solamente a udire la sua voce e quella mano, quella mano, sovrattutto, che lo scacciava continuamente, ostinatamente, in preda a un muto ed energico orrore: tutto ciò aveva atterrato le ultime energie della sua vecchiaia. Le malattie dei vecchi impensieriscono e immalinconiscono i vecchi, ma le malattie dei giovani li sgomentano, come un fatto contro l'ordine della natura. Ah in questi minuti di angoscia, egli si sentiva così debole, così antico, così consumato, organismo senza vitalità, lampada senz'olio: e vacillante, tremante, senza neppure guardare dalla parte del letto di sua figlia, egli veniva a sedersi al suo solito posto, abbandonandosi come se dovesse colà aspettare la morte. Una sola cosa era capace di ridargli un lampo di energia, cioè un lampo di odio: ed era il nome di quell'esecrato dottore, ripetuto ogni tanto dal medico, o ripetuto dai suoi servi, ripetuto malgrado le sue proibizioni. Ella, Bianca Maria, non lo aveva mai pronunziato. Nelle lugubri convulsioni che avevano preludiato a quel tifo, ella aveva lungamente delirato, lungamente gridato, chiamando sua madre, mamma, mamma, ome il fanciullo in pericolo, come il fanciullo che si perde. Niente altro. Invano, in quei farfugliamenti bassi, in quei borbottamenti confusi, in quei lunghi, incomposti balbettii, egli aveva teso l'orecchio per udire il proprio nome o quello dell'infame, che gli aveva tolto il cuore di sua figlia: ella aveva sempre chiamato sua madre, nessun altro. Ed egli tremava, tremava di udirle uscire dal labbro quel nome, conservando ancora, nella vecchiaia, nella stanchezza, nella debolezza crescente. quella collera sorda, quel rancore implacabile. Talvolta, quando il delirio cresceva, e lo perseguitava, egli fuggiva via dalla stanza, turandosi le orecchie, temendo sempre che ella invocasse quel nome. Fuori, stava così, aspettando, incerto, agitatissimo. - Di che parla? - chiedeva a Margherita. quando costei usciva dalla stanza, stordita, sgomenta. - Vuole sua madre, - mormorava l'altra, piangendo in silenzio, poiché quello le pareva un augurio di morte. E il tifo andava completando la sua prima settimana, resistendo al ghiaccio, resistendo al chinino, mantenendosi tra i quaranta e i quarantuno gradi, come se il mercurio del termometro si fosse immobilizzato su quella cifra lugubre, colonna funerea, che nulla valeva più a fare scemare. - Quanto? - domandava, con gli occhi ansiosi, il vecchio padre a Margherita che osservava il termometro, posto a contatto delle pelle rovente della malata. - Quaranta, - mormorava ella, sottovoce, con una desolazione infinita. Cifra implacabile! Per diminuire quel bruciore che consumava il sangue e le fibre di Bianca Maria, visto che il chinino preso per bocca, a grandi dosi, non aveva nessun benefico effetto, adesso il chinino era iniettato, con la minuta e leggiadra siringhetta d'argento, nelle magre braccia dell'ammalata. Senz'aver la forza di aprire gli occhi, ella si levava a stento, sorretta sui cuscini, sollevata nelle braccia di Margherita, e il capo le vacillava, e i neri capelli, attaccati alle tempie e al collo, stillavano l'umidità del freddo che dava la vescica di ghiaccio. Le dovevano sostenere anche il capo, che si abbandonava; e denudato il povero braccio, tutto punzecchiato dall'ago di argento, una nuova puntura, bruciante, dolorosa, si aggiungeva alle altre: ella trasaliva solo leggermente, come se nessun dolore fosse più grave di quel sonno. Talvolta apriva gli occhi: e li fissava nel volto delle persone, così tristi nella espressione di stanchezza, così torbidi nel colore, così aridi e così indifferenti oramai a tutti gli spettacoli umani, che un loro sguardo stringeva il cuore. Pareva che avessero esaurito la fonte delle lagrime. Quando il padre e Margherita si vedeano innanzi quei dolorosi occhi, trasalivano. - Figlia mia, figlia mia, - diceva il vecchio, tenendole le mani. Ed ella, infastidita, stanca, riabbassava le palpebre, subito, s'immergeva di nuovo in quello stordimento, dove le sue due forme di vitalità erano il respiro affannoso e il calore della temperatura. Raramente le iniezioni di chinino arrivavano a diminuire il calore della febbre: era una variazione minima, scorante. Solo, nel mattino del decimo giorno, ella parve a un tratto migliorata: era sonno invece di torpore. E nel sonno confortante, un gelido sudore le scorreva dalla fronte, che delicatamente Margherita le rasciugava. La povera vecchia seguiva trepidante ogni minuto di quel sonno, come se da quello, ella intuisse dover dipendere la vita di Bianca Maria: e mentre pregava, mentalmente, la sua attenzione era su quel volto amato, affilato dalla infermità, che sembrava riacquistasse una novella vivacità. Mentre il benefico riposo durava, l'orecchio vigile di Margherita udì un rumore nell'appartamento. Si levò e in punta di piedi uscì fuori: era il marchese di Formosa che rientrava e la interrogava con gli occhi, ansiosamente. - Riposa: sta meglio: sta molto meglio, - mormorò la povera vecchia, mettendosi un dito sulle labbra, per raccomandare il silenzio. Gli aridi occhi del padre si riempirono di lacrime: era la prima buona notizia, in dieci giorni di angoscia, di sgomento. Anch'egli entrò nella stanza di sua figlia, sedendo al suo solito posto, sogguardando quel viso magro, su cui la gran tensione nervosa pareva avesse ceduto a una crisi benefaciente. Margherita, per non turbare il sonno di Bianca Maria, non osava adoperare il termometro per sapere a che grado fosse la temperatura, ma il cuore le diceva che la febbre aveva certamente ceduto. Così, senza parlare, ella pregando mentalmente, il marchese Cavalcanti ritrovando ancora in fondo alla sua coscienza annebbiata qualche brandello di orazione, passarono due ore a sorvegliare il pacifico sonno della malata. Era l'imbrunire, quando ella aprì gli occhi, i grandi occhi che erano stati chiusi per dieci giorni, dalla mano di piombo rovente della febbre; e subito Margherita si piegò su lei, interrogando: - Come vi sentite? Il suo stupore fu che la fanciulla, invece di rispondere con un cenno della mano o della testa, dicesse con una voce fievole: - Meglio… Adesso anche il marchese Cavalcanti era accorso vicino al letto e, tremante di gioia, ripeteva: - Figliuola mia, figliuola mia. - Volete qualche cosa? - chiese la cameriera, per udire un'altra volta quella sottile voce, che le era andata al cuore. - Niente: sto meglio, - mormorò l'ammalata, con un sospiro di sollievo, dal petto liberato. Il padre le aveva preso una mano, guardando teneramente la sua fanciulla. Ed ella, che da dieci giorni lo scacciava dal suo letto, con lo sguardo e col gesto della mano, questa volta gli sorrise. Fu una luce rapidissima. Egli non sapeva dire altro, balbettando: - Figlia mia, figlia mia… E Margherita uscì dalla stanza, lietamente, come se la sua giovane padrona fosse salva, salva per sempre dall'orribile pericolo in cui aveva versato, per dieci giorni. Ora il marchese Cavalcanti si era seduto al capezzale dell'inferma, e tenendone la sottilissima mano fra le mani, sentiva ogni tanto le dita scarne della sua creatura appoggiantesi un po' di più sulle sue, a espressione di affettuosa carezza. Due o tre volte, egli si era chinato e le aveva domandato: - Vuoi qualche cosa? Ella non aveva risposto, ma quel lume fugacissimo di sorriso era riapparso. Era già notte e i visi non si distinguevano più, quando a una novella domanda del vecchio padre, Bianca Maria rispose: - Sì. - Che vuoi? Dillo subito. - Voglio il dottore, - ella disse. - Ti senti male? chiese il vecchio, fraintendendo. - No: voglio il dottor Amati. Il padre mise dalle sue la mano della figliuola sulla coltre, ma non disse nulla. - Hai inteso? Voglio il dottor Amati, - ella ripetette, con voce più alta, ma dove già un turbamento fremeva. - No, figlia mia, - egli rispose, cercando di frenarsi, pensando alla malattia, pensando al pericolo. - Voglio il dottor Amati, - diss'ella a voce forte, levando la testa dal cuscino, con un moto singolare. E parve anzi al vecchio che ella avesse digrignato i denti, dopo aver pronunziato, per la quarta volta, la sua strana richiesta. - Non è possibile, figliuola, - mormorò lui, cercando di domare la propria collera bollente. - Va a chiamare il dottor Amati, va subito! - gridò ella, come se gli comandasse. - Tu sei pazza! - gridò lui, levandosi. - Non andrò mai. - Sì, sì, sì, - urlò lei, sollevata sul cuscino, colle pugna chiuse che stringevano convulsamente il lenzuolo, - tu andrai subito, e lo porterai qui, subito, Amati, io lo voglio, vicino a me, sempre con me, va subito! - No, no, no, - urlò lui, a sua posta, senza capire più nulla, - egli non metterà mai piede qua dentro, finché io sono vivo. Margherita era accorsa, sconvolta, un'altra volta disperata, ma più disperata ancora, della novella piega che aveva presa la malattia. Appena la vide comparire, Bianca Maria le gridò: - Margherita, se mi vuoi bene, va a chiamare il dottor Amati! - Te lo proibisco, hai capito? - strillò alla cameriera il vecchio marchese, così esasperato, che le mani gli tremavano, gli occhi lanciavano scintille. - Per carità, signorina, non vi agitate, considerate che parlate a vostro padre.., per carità, Eccellenza, pensate che la signorina è ammalata… non ragiona… - diceva Margherita, piangendo. - Io non sono pazza, io voglio il dottor Amati, - gridò ancora la fanciulla, stringendo le pugna, digrignando i denti, roteando così convulsamente gli occhi, che pareva si vedesse solo il bianco della cornea. - Oh Madonna mia, oh Madonna mia! - continuava a piangere Margherita. - Per carità, per carità, se mi volete bene, andate a chiamare il dottor Amati, - singultava l'inferma, col capo abbandonato, che ogni tanto si sollevava, sbattendo sul cuscino. - È pazza, è pazza, - gridava il vecchio frenetico. - Signore mio, andatevene fuori, ve ne prego, andatevene fuori, - supplicava Margherita, vedendo che la figliuola fissava i suoi occhi, ora carichi di un'intensa collera, ora di un intenso dolore, sul padre e che ciò lo rendeva anche più frenetico. - Me ne vado, me ne vado, ma essa non lo vedrà, il dottor Amati! - gridava, lui, uscendo fuori, sentendo di non regger più. Ma dal salone dove egli aveva portato il suo furore, egli udì un urlo alto, lungo, straziante, come se all'inferma le si attanagliasse la carne: e dopo, altre grida, più basse, ma strazianti ugualmente, tanto vibrava in esse un lamento di dolore insopportabile, e parole alte e basse, che gli arrivavano confusamente. La fanciulla era caduta in convulsioni: a un tratto il rumore si chetava ed allora, tremando ancora, di una complessa emozione d'ira, di pietà, di paura, egli si avvicinava alla stanza, ma non entrava, chiamando la cameriera sulla porta. - Come sta? - Peggio, peggio, - diceva ella, piangendo silenziosamente. - Ma che dice? - Vuole il dottor Amati. - Questo, mai. I brevi dialoghi, però, malgrado che la inferma fosse immersa, a intervalli, in un coma profondo, erano uditi da lei: e due volte, uscendo dal quel torpore, le alte grida erano scoppiate, di nuovo, nella convulsione di tutti i muscoli, specialmente nella spaventosa contrattura di quelli della nuca. Attraverso le grida, quel nome, quel nome che la povera creatura aveva adorato per tanto tempo in segreto, quel nome che era stato per lei il segno della salvazione, quel nome ricompariva, sempre, ostinatamente, in quel delirio, proclamato dall'anima che non conosceva più vincoli, pronunziato imperiosamente, dolcemente, disperatamente, con tale impeto di amore, che Margherita e Giovanni che accorrevano per frenare le braccia della convulsa, si sentivano schiantare il cuore. Di là, come l'inferma levava la voce, ora stridula, ora grave, a invocare il dottore Amati, il marchese Cavalcanti trasaliva, e fremeva di quell'odio ostinato e cieco dei vecchi, che non sanno perdonare. Invano, invano egli cercava di distrarsi, di non udire, di non sentire il dolore disperato di quella invocazione; invano egli chinava il capo, turandosi le orecchie, fuggito nell'ultima stanza dell'appartamento: gli giungeva sempre quel lamento clamoroso, fitto, che nulla arrivava a sopire. Era un incubo, oramai: e malgrado la distanza, malgrado le porte chiuse, egli udiva distintamente, precisamente, le parole di amore e di dolore con cui Bianca Maria invocava il dottor Amati; le parole gli si imprimevano nella mente, gli martellavano il cervello, come una persecuzione. Ciò continuava da un ora e mezzo ed ella non si chetava, non taceva, trovando nuova forza nervosa, per chiamare, per chiamare, come se la sua voce, come se la sua chiamata dovesse passare attraverso le mura, attraverso le strade, dovesse arrivare sino all'uomo che ella voleva, per salvarsi. Ah che incubo, che incubo, udire il delirio della sua figliuola, la quale lo scacciava dal suo tetto e disperatamente faceva appello a un altro uomo! Ogni tanto, come per far finire quella follia parlante, invocante, egli si appressava alla porta della stanzetta, e udiva la voce piana di Margherita che, tenendo abbracciata la sua padrona, cercava di calmarla, mentre costei seguitava, quasi che non avesse più orecchie per altre voci, quasi che ella dovesse chiamare il dottor Amati fino a che lo vedesse comparire nella sua stanza. E il vecchio padre si allontanava, furioso e disperato, tremando di collera e tremando di angoscia, non sapendo più che fare, ora avvilito, ora feroce, indomito sempre, conservando il suo odio, non sapendo placarsi, col sangue che gli bolliva nelle vene, e con un'ambascia che l'opprimeva. Ma a un certo punto, udì suonare il campanello ed entrare qualcuno nell'appartamento e poi nella stanza di Bianca Maria. Formosa restò immobile, stupefatto. Chi era entrato, dunque? Quando Margherita apparve nella stanza ove egli si era rifugiato e lo chiamò con un cenno, egli la seguì, docilmente. Presso il letto dell'ammalata, tenendole le braccia convulse e guardandola negli occhi, era il medico curante, il Morelli, che la povera cameriera aveva chiamato. Ma Bianca Maria, anche sotto le mani ferme del medico, anche sotto il suo sguardo scrutatore, continuava a tremare, convulsamente il capo le si sollevava dal guanciale, dal collo che si tendeva, irrigidendosi: e poi la testa ricadeva di nuovo, accasciata, con un continuo piccolo movimento di va e vieni, mentre instancabilmente ella continuava a dire, ora pian piano, ora acutamente: - Amati… Amati…Amati…voglio Amati… - Ma che ha? - domandò il vecchio padre, congiungendo le mani, con le lacrime negli occhi. - Ha dovuto avere un forte eccitamento, due o tre ore fa, non è vero? - Sì… - Per qualche spavento, per qualche rumore…? - No…non so… - Ma si è esaltata? Ha gridato? - Sì… - Perché l'avete lasciata esaltare? Perché non l'avete contentata in quel che voleva? Sapevate quale pericolo correva vostra figlia! - Io non so…, non so nulla.., che volete che io sappia? - gridò il vecchio, stendendo le mani, implorando come un fanciullo. - Il pericolo della meningite, - disse il medico, a denti stretti. Adesso l'inferma aveva socchiusi gli occhi; il medico le divaricò le pupille: l'occhio apparve vitreo, immobile, come si era immobilizzata tutta la persona. - Dottore, ma che, è morta? - urlò il vecchio, come pazzo. - Paralisi temporanea: è la meningite. - E che si fa? - Eh vedremo. Intanto, vi prego, fate chiamare il dottor Amati. Il vecchio lo guardò, sconvolto. - Che dite? - Mandate a chiamare Amati. Non vedete che ella lo vuole? - …è in delirio. - Sissignore: ma quando lo ha chiesto, doveva esser ragionevole: e anche in delirio, dovete ubbidire, marchese. - Ubbidire? - Vostra figlia è in istato grave, è meglio contentarla… - In istato grave? - Potete perderla, da un'ora all'altra: essa non ha forza, per resistere alla meningite. - Dottore, dottore, non dite questo!. - Oh caro marchese, volete che vi dica la verità? Tanto la povera paziente non può udirci. Voi vi siete negato di chiamare Amati, prima: poi, avete lasciato che la signorina arrivasse a questo stato di esasperazione… Non vorrete continuare in questa negazione, la ragazza muore. - Oh Dio sacrato!… - bestemmiò il marchese. - Andrò io, da Amati… -… non verrà. - Ma perché? Non era il medico curante? E un galantuomo, è un gran medico. -… non verrà. - E andateci voi, marchese. Ora, mentre Cavalcanti faceva un atto di disperazione, la malata si era riscossa, e di nuovo rapidamente, a denti stretti, si era messa a dire: - Amati…Amati… voglio Amati… - Sentite? - disse Morelli. - Ma io non posso, - gridò Cavalcanti, - ma io ho cacciato quell'uomo di casa, non ho voluto che mia figlia lo sposasse, non posso umiliarmi a lui. - Sta bene, ma la fanciulla muore… - disse il medico, trattenendo le mani battenti della fanciulla. - Andate a chiamare Amati, per carità, per amore di Dio, non mi abbandonate, chiamate Amati, - gemeva l'inferma. - Oh Dio! che castigo, che castigo! - esclamava il vecchio, con le mani nei capelli; - ma, dottore, fatele qualche cosa, non la lasciate morire!. - Amati… Amati… voglio Amati, - ella diceva, delirando, stravolgendo paurosamente gli occhi. E ricaduta, abbattuta sul letto, in una nuova paralisi, l'unica cosa viva di lei era la voce che voleva Amati, sempre l'unica idea della sua ragione smarrita era Amati, Amati, Amati. - Gli scriverò, - disse il vecchio, desolatamente, andando di là mentre il medico provava a mettere nuovo ghiaccio, sulla testa infiammata di Bianca Maria. Il marchese scriveva: ma era insopportabile lo sdegno di dover cedere, e le parole non uscivano dalla sua penna. Stracciò due foglietti. Infine ne uscì una breve lettera, con la quale pregava il dottor Amati di andare a casa sua, perché sua figlia era malata: niente altro. Quando dovette scrivere l'indirizzo, fu per ispezzare la penna. E senza guardare in volto Giovanni, gli disse di correre dal dottore… sì, dal dottore Amati. E il poveretto corse, mentre Morelli dava delle pillole di calomelano alla povera delirante che urlava, poiché il dolor di testa era divenuto insoffribile, atroce. Il padre, consumato il primo sacrificio, si sentiva impazzire, a quegli urli: e tremava, temeva di mettersi anche lui a urlare, a urlare, come lei, come se ella gli avesse comunicata la meningite. Adesso che aveva scritta la lettera, consumando un insopportabile sacrificio, adesso il marchese Cavalcanti si metteva a desiderare che il dottor Amati giungesse presto, almeno: gli era impossibile sopportare più quelle grida, quei lamenti, quei gemiti, in cui un solo nome continuava ad apparire, sempre, sempre. E oramai contava i minuti del ritorno di Giovanni, tendendo l'orecchio, se udisse qualche rumore di porta che si schiudeva: il tempo passava e l'ammalata, malgrado il ghiaccio, malgrado il calomelano, delirava, con gli occhi stravolti, in preda alla infiammazione che sembra arda il cervello. Ecco una porta si apriva, qualcheduno si avanzava verso la stanza, in cui il marchese di Formosa aveva ricoverata la sua disperazione. Era Giovanni, solo: e pareva così stanco, così vecchio, così triste, che il marchese tremò, chiedendogli: - Ebbene? - Non viene, il dottor Amati. - Non vi era? - Non vi era, l'ho aspettato sotto il portone: è poi venuto… - E dunque? - Ha letto la lettera… e ha detto che egli era troppo occupato, che la signorina aveva certo qualche altro buon medico… - Non lo hai… pregato? - L'ho pregato, Eccellenza: si è fatto aspro, è andato via mormorando certe parole, che non ho capite. - Dovevi salire… insistere… - Non ho avuto il coraggio… - Ma capisci che senza lui la signorina muore, non lo capisci? - Lo capisco, Eccellenza, ma il dottore mi ha maltrattato, sono un povero servo… - Egli ha ragione, - disse il vecchio lentamente, - io l'ho molto offeso… - Eccellenza, Eccellenza, andateci voi, a voi non dice di no… - Tu sei pazzo!… - Per la signorina, Eccellenza! - Dirà di no, m'insulterà… - Per la signorina… - No, no, è troppo… - Ma, Eccellenza, lo avete detto, la signorina muore. - Va via, - gridò brutalmente il marchese, cacciando il suo servitore. Restò solo. Il suo orgoglio si ribellava potentemente all'idea di umiliarsi innanzi all'uomo che egli aveva ingiuriato: soffriva atrocemente; la voce di sua figlia che ora borbottava in tono basso, ora strideva acutamente, nominando Amati, gli dava il senso di un dolore fisico, di un ferro rovente che bruciava la sua carne. Dentro di lui, però, come il tempo passava, come il pericolo della fanciulla aumentava, si compiva un lavoro di annichilimento, in cui tutte le ribellioni antiche e nuove della sua superbia andavano cadendo: e al posto dell'orgoglio si metteva una immensa pietà, una immensa tenerezza, un immenso dolore. Fuggiva l'ora, mentre egli passeggiava su e giù, rodendo il freno degli ultimi vincoli in cui si abbassava e radeva terra il suo cuore: e non cessava di là quell'eterna voce delirante, che non sapeva dire altro che il nome di Antonio Amati. Oramai egli non trasaliva più di collera, l'odio taceva e quando, di nuovo, si presentò il dottore Morelli, che era andato e che era ritornato, domandandogli, egli rispose: - Non è venuto: vado io. - Lo condurrete? - Lo condurrò. Era ben tardi, però, quando si mise in cammino, a piedi, per andare in via Santa Lucia, dove abitava adesso il dottor Amati: era quasi mezzanotte e la gente si era diradata per Toledo, nella dolcezza della sera di aprile. Malgrado la vecchiaia, il marchese correva per la strada, spinto da una forza nervosa, e quando fu nel grande portone del palazzo che abitava Amati, fece le scale rapidamente, senza neppur rispondere al portiere, che domandava dove andasse. - Dite ad Amati che vi è il marchese Cavalcanti, - disse alla governante che gli era venuta ad aprire. - Veramente… studia… - Diteglielo, ve ne prego, è una cosa urgentissima, - pregò il vecchio, il cui orgoglio era completamente sparito. Ella andò di là, ricomparve subito, facendo cenno al marchese di entrare. Egli attraversò due salotti e si trovò in uno studio, tutto in penombra, dove la luce della lampada si concentrava sopra un gran tavolone, sparso di carte e di libri. Ma il dottor Amati era in piedi, in mezzo alla stanza, aspettando. Quei due uomini, che si erano tanto odiati, si guardarono, con lo stesso dolore che li accomunava, e la pietà della infelice creatura morente troncò ogni astio. Si guardarono. - Che è? - dimandò, con voce fioca, Amati. - Muore, - disse Formosa, facendo un atto disperato. - Di che? - Di meningite. Un pallore terreo si diffuse nel volto del dottore e due pieghe gli si formarono alle labbra. E non osò fare rimproveri al marchese. Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

Era la donna, al primo piano del palazzo dell'Impresa, seduta dietro la ringhiera di un balconcino: seduta di fianco, si vedeva il suo profilo chinarsi e sollevarsi, ogni tanto, sul lucido ingranaggio d'acciaio di una macchina da cucire Singer; mentre il piede, uscendo dalla modesta gonna di percalla azzurra a pisellini bianchi, batteva metodicamente sul pedale di ferro, che si abbassava e si alzava, con moto uniforme. Fra il brusio delle voci, e i dialoghi da un capo all'altro del cortile, e lo stropiccio dei piedi, si perdeva il trillo sordo della macchina da cucire: ma sul fondo scuriccio del balcone, la figura della cucitrice si disegnava tutta, di profilo, con le mani che portavano il pezzo di tela bianca sotto l'ago saliente e discendente della macchina, col piede che piegava il pedale, instancabilmente, con la testa che si alzava e si abbassava sul lavoro, senza vivacità, ma senza stanchezza, continuamente. Di profilo si vedeva una guancia delicata, delicatamente rosea, e una grossa treccia castana modestamente ravviata e stretta sulla nuca, si vedeva l'angolo di una bocca fine, e l'ombra che le lunghe ciglia abbassate gittavano sull'alto delle guancie. La giovane cucitrice, da un'ora che la folla si addensava nel cortile, non aveva guardato che un paio di volte giù, gittandovi una breve occhiata indifferente, e riabbassando subito la testa sull'ingranaggio lucido della macchina, trasportando lentamente con le mani il pezzo di tela, perché la cucitura venisse diritta, diritta. Nulla la distraeva dal suo lavoro, né le voci, né le vive esclamazioni, né il calpestìo crescente della folla; ella non aveva guardato mai sul terrazzino coperto, dove si sarebbe proclamata l'estrazione, fra poco. La gente la guardava, di basso, la delicata e infaticabile cucitrice di bianco, ma ella proseguiva quietamente nel suo lavoro, come se neppure un eco di quella gran passione, fra segreta e palese, arrivasse sino a lei; ella sembrava così lontana, così schiva, così assorta in un mondo assolutamente staccato, diverso, che la fantasia poteva supporla più una immagine che una realtà, più una figura ideale che una persona vivente. Ma, ad un tratto, un lungo grido di soddisfazione uscì dal petto della folla, variato in tutti i toni, saliente alle note più acute e scendente alle note più gravi: il grande balcone della terrazza si era schiuso. La gente che aspettava nella via cercò di penetrare nell'androne, quella che era nell'androne si accalcò nel cortile: vi fu come un serramento, mentre tutte le facce si levavano, prese da un'ardente curiosità, prese da un'angoscia ardente. Un grande silenzio. E guardando bene al moto delle labbra di certe donne, si vedeva che pregavano: mentre Carmela, la fanciulla dall'attraente volto consumato e dagli occhi neri infinitamente tristi, giocherellava con un cordoncino nero che le pendeva dal collo, e a cui erano attaccati una medaglina della Madonna Addolorata e un piccolo corno di corallo. Silenzio universale: di aspettazione, di stupore. Sul terrazzino, due uscieri del Regio Lotto avevano collocato un lungo e stretto tavolino coperto di un tappeto verde; e dietro il tavolino, tre seggioloni, perché vi sedessero le tre autorità: un consigliere di prefettura, il direttore del Lotto a Napoli, e un rappresentante del municipio. Sopra un altro piccolo tavolino fu collocata l'urna, per i novanta numeri. È grande, l'urna; tutta fatta di una rete metallica, trasparente, a forma di limone, con certe strisce di ottone che vanno da un capo all'altro, cingendola come i circoli del meridiano circondano la terra: sottili strisce luccicanti che ne assicurano la forza, senza impedirle la perfetta trasparenza. L'urna è sospesa, in aria, fra due piuoli di ottone, e presso un piuolo c'è un manubrio, anche metallico, che, voltato, fa rapidamente virare sul suo asse tutta l'urna. I due uscieri che aveano portato tutto questo materiale fuori il terrazzino erano vecchi, un po' curvi, come sonnacchiosi. Anche le tre autorità, in soprabito e cappello a cilindro, sembravano annoiate e sonnolente, sedendosi dietro il tavolino: così il consigliere di prefettura dai mustacchi tinti di un nero fortissimo, che pareva avessero stinto in bruno, sul bruno volto lucido e assonnato: così un consigliere comunale, che era un giovanotto dalla barbetta scura. Questa gente si muoveva lentamente, con una misura di movimenti, con una precisione di automi, tanto che un popolano, dalla folla, gridò: - Andiamo, andiamo! Di nuovo, silenzio, ma vi fu un grande ondeggiamento di emozione, quando comparve sulla terrazzina il fanciulletto che doveva estrarre dall'urna i numeri dell'estrazione. Era un fanciulletto vestito della bigia uniforme dell'Albergo dei Poveri, un povero fanciulletto del Serraglio, ome i napoletani chiamano l'ospizio di quelle creature abbandonate, un povero serragliuolo enza enzamadre e senza padre, o figliuolo di genitori che, per miseria o per crudeltà, avevano abbandonato la loro prole. Il fanciulletto, aiutato da uno degli uscieri, indossò, sull'uniforme da serragliuolo, na tunica di lana bianca: un berretto bianco, anche di lana, gli fu messo sulla testa, perché la leggenda del Lotto vuole che il piccolo innocente porti la veste bianca dell'innocenza. E lestamente salì sopra uno sgabello, per trovarsi all'altezza dell'urna. Di sotto, la folla tumultuava: - Bel figliuolo, bel figliuolo! - Che tu possa essere benedetto! - Mi raccomando a te e a San Giuseppe! - La Madonna ti benedica le mani! - Benedetto, benedetto! - Santo e vecchio, santo e vecchio! Tutti gli dicevano qualche cosa, un augurio, una benedizione, un desiderio, un'invocazione pietosa, una preghiera. Il bambino taceva, guardando, con la manina appoggiata sulla rete metallica dell'urna; e un po' discosto, appoggiato allo stipite del balcone, v'era un altro bambinetto del Serraglio, serio serio, malgrado le rosee guance e i biondi capelli tagliati sulla fronte: era il fanciulletto che doveva estrarre i numeri il sabato prossimo e che veniva là per imparare, per assuefarsi alla manovra dell'estrazione e ai gridi della folla. Ma di lui nessuno si curava: era quello vestito di bianco, quello di quel giorno, a cui si rivolgevano le mille esclamazioni della gente; era la piccola anima innocente biancovestita, che faceva sorridere di tenerezza, che faceva venire le lagrime agli occhi a quella folla di esseri tormentati, e speranzosi solo nella Fortuna. Alcune donne avevano sollevato nelle braccia i propri fanciullini e li tendevano verso il piccolo serragliuolo. le voci, tenere, appassionate, straziate, continuavano: - Pare un piccolo san Giovanni, pare! - Che tu possa trovare sempre grazia, se mi fai fare questa grazia! - Core di mamma, quanto è caro! Subito vi fu una diversione. Uno degli uscieri prendeva il numero da mettere nell'urna, lo mostrava spiegato al popolo, annunziandolo a voce chiara, lo passava alle tre autorità, che vi gettavano sopra un'occhiata distratta. Uno dei tre, il consigliere di prefettura, chiudeva il numero in una scatoletta rotonda, il secondo usciere lo passava al fanciulletto biancovestito che lo buttava subito nell'urna, dalla piccola bocca di metallo aperta. E a ogni numero che si annunziava, vi erano esclamazioni, strilli, sogghigni, risate. A ogni numero il popolo applicava la sua spiegazione, ricavata dal Libro dei sogni dalla Smorfia o da quella leggenda popolare che si propaga senza libri, senza figurine. Ed erano scoppii di risa, erano grassi scherzi erano interiezioni di paura o di speranza: il tutto accompagnato da un clamore sordo, come se fosse il coro in minore di quella tempesta. - Due! - …la bambina! - …la lettera! - … fammi arrivare questa lettera. Signore! - Cinque! - …la mano! - … in faccia a chi mi vuol male! - Otto! - …la Madonna la Madonna, la Madonna! Ma come ogni dieci numeri, chiusi nelle loro scatolette rotonde, bigie, erano stati buttati nell'urna dell'estrazione dal piccolo serragliuolo estito di lana candida, il secondo usciere chiudeva la bocca dell'urna, e, voltando il manubrio di metallo, le imprimeva un moto di giro sul suo asse, facendo rotolare, ballare, saltare i numeri. E di giù si gridava: - Gira, gira, vecchiarello! - Ancora un giro per me! - Dammi la giusta misura! I cabalisti, quelli non parlavano, non guardavano neppure i giri dell'urna: per essi non esisteva né il bimbo innocente, né il senso dei numeri, né il giro lento o vivace della grande urna metallica: per essi esisteva solo la Cabala, la Cabala oscura e pur limpidissima, la gran fatalità, dominante, imperante, che sa tutto, che può tutto e che tutto fa, senza che niun potere, umano divino, vi si possa opporre. Essi soli tacevano, pensosi, concentrati, anzi disdegnosi di quella forte gazzarra popolare, assorti in un mondo spirituale, mistico, aspettando con una profonda sicurezza. - Tredici! - …le candele! - …il candelotto, la torcia; smorziamola questa torcia! - … smorziamo, smorziamo! - rombava il coro. - Ventidue! - …il pazzo! - …il pazzarello! - …come te! - …come me! - …come chi giuoca alla bonafficiata Il popolo si sovreccitava. Lunghi fremiti correvano per la folla, che ondeggiava come se l'agitasse lo stesso bizzarro movimento del mare. Le donne, specialmente, erano diventate nervose, convulse, e stringevano nelle loro braccia i bimbi, così fortemente da farli impallidire e piangere. Carmela, seduta sull'alto macigno, aveva la mano raggricchiata intorno alla medaglina della Madonna e al piccolo corno di corallo: donna Concetta, la usuraia, dimenticava di rialzarsi lo sciallo di crespo nero che le cadeva sui fianchi poderosi, mentre le labbra avevano un breve moto convulso. Ed era affogato, il trillo sordo della macchina da cucire, sul balcone del primo piano: niuno più si curava della infaticabile cucitrice di biancheria. La febbre del popolo napoletano nella imminenza del sogno che stava per divenir realtà, si faceva sempre più acuta, dando un più vivo e più lungo sussulto quando veniva chiamato un numero popolare, un numero simpatico: - Trentatré! - … anni di Cristo! - … anni suoi! … questo esce. - …non esce! - …vedrete che esce! - Trentanove! - …l'impiccato! - … nella gola, nella gola! - …così debbo vedere chi dico io! - …stringi, stringi! Imperturbabili, sul terrazzino, le autorità, gli uscieri, il fanciulletto vestito di bianco, continuavano la loro opera, come se tutto quel tumulto di gente non arrivasse alle loro orecchie: solo l'altro bimbo, nuovo a quello stravagante spettacolo, guardava giù, dalla ringhiera, stupito, pallido, con le rosse labbrucce gonfie, come se volesse piangere: piccola anima inconscia e smarrita fra il turbine della profonda passione umana. L'operazione, sul terrazzino, procedeva con la massima calma: a ogni nuova diecina di numeri messi nell'urna, l'usciere la faceva girare più a lungo, facendo ballare e saltellare le pallottoline allegramente fra la trasparente rete di metallo. Non si scambiava una parola, lassù, non un sorriso: la febbre restava all'altezza delle persone, nel cortile, non saliva al primo piano. Giù, adesso, le persone più serie ridevano convulsamente, sottovoce, crollavano il capo, come se si fosse loro comunicato il morbo nella forma più chiassosa. L'operazione parve si affrettasse, verso la fine. Nuovi gridi accolsero il settantacinque che è il numero di Pulcinella e il settantasette che è quello del diavolo; ma un lungo, lunghissimo applauso salutò il novanta, l'ultimo numero, anzitutto perché era l'ultimo, poi perché il novanta è un numero estremamente simpatico: novanta fa la paura: ovanta fa il mare: ovanta fa il popolo: insieme ha altri cinque o sei significati, tutti popolari. Tutti applaudivano, nel cortile, uomini, donne, fanciulli, al gran novanta, che è l'omega del lotto. Poi, subito, come per incanto, un silenzio profondo si fece: una immobilità arrestò tutti quei corpi, tutte quelle facce, - la gran gente convulsa parve pietrificata nei sentimenti, nella parola, negli atti, nella espressione. Il primo usciere, quello che aveva dichiarato i novanta numeri, accostò alla balaustra una tabella di legno, lunga e stretta, a cinque caselle vuote, simile a quella dei bookmakers sui campi delle corse, mentre l'altro usciere dava gli ultimi giri all'urna riempita di tutti i novanta numeri. La tabella era voltata verso il popolo. Poi il consigliere scosse un campanello: il giro dell'urna si arrestò: il terzo usciere mise una benda sugli occhi del bimbo biancovestito; costui lestamente immerse la manina nell'urna aperta e cercò un momento, un momento solo, cavando subito una pallina col numero. Mentre questa pallina passava di mano in mano, giù, da quei petti pietrificati, da quelle bocche pietrificate, uscì un sospiro cupo, tetro, angoscioso. - Dieci, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo subito nella prima casella. Mormorio e agitazione fra il popolo: tutti coloro che avevano sperato nel primo estratto erano delusi. Nuova scossa di campanello: il bimbo immerse, per la seconda volta, la manina delicata nell'urna. - Due, gridò l'usciere, dichiarando il numero estratto e mettendolo nella seconda casella. Al crescente mormorio qualche bestemmia soffocata si aggiunse: tutti quelli che avevano giuocato il secondo estratto erano delusi: tutti quelli che avevano sperato di prendere quattro numeri erano delusi: tutti quelli che avevano giuocato un grosso temo secco cominciavano a temere fortemente la delusione. Tanto che, quando per la terza volta la manina del fanciulletto penetrò nell'urna, qualcuno gridò, angosciosamente: - Cerca bene, scegli bene, bambino! - Ottantaquattro, gridò l'usciere, dichiarando il numero e collocandolo nella terza casella. Qui scoppiò il grande urlo d'indignazione, fatto di bestemmie, di lamenti, di esclamazioni colleriche e dolorose. Questo terzo numero, cattivo, era decisivo, era decisivo per l'estrazione e per i giuocatori. Con l'ottantaquattro erano delusi già tutti quelli che avevano giuocato il primo, il secondo e il terzo estratto; erano delusi tutti quelli che avevano giuocato la quintina, la quaterna, il terno, il terno secco, speranza e amore del popolo napoletano, speranza e desiderio di tutti i giuocatori, da quelli accaniti a quelli che giuocano una volta sola, per caso: il terno che è la parola fondamentale di tutti quei desiderii, di tutti quei bisogni, di tutte quelle necessità, di tutte quelle miserie. Un coro di maledizioni si levava, di giù, contro la mala fortuna, contro la mala sorte, contro il Lotto e contro chi ci crede, contro il governo, contro quello sciagurato ragazzo che aveva la mano così disgraziata. Serragliuolo, serragliuolo! ridavano da basso, per insultarlo, mostrandogli il pugno. Dal terzo al quarto numero passarono due o tre minuti; ogni settimana accadeva così: il terzo numero era l'espressione paurosa della infinita delusione popolare. - Settantacinque, dichiarò con voce più fiacca l'usciere, mettendo il numero estratto nella quarta casella. Tra le voci irose che non si calmavano, qualche fischio risuonò, vendicativo. Le ingiurie piovevano sul capo del bimbo; ma le maggiori imprecazioni erano contro il Lotto dove non si può vincere mai, mai, dove tutto è combinato perché non si vinca mai, mai, specialmente per la povera gente. - Quarantatrè, - finì di proclamare l'usciere, collocando il quinto ed ultimo numero. E un ultimo soffio di collera, fra il popolo: niente altro. In un momento, dal terrazzino scomparve tutta la fredda macchina del lotto: sparvero i due bimbi, le tre autorità, l'urna con gli ottantacinque numeri e il suo piedistallo, sparvero tavolini, seggioloni, uscieri, si chiusero i cristalli e le imposte del grande balcone, in un momento. Sola, ritta, accosto alla balaustra, rimase la crudele tabella, coi suoi cinque numeri, quelli, quelli, la grande fatalità, la grande delusione. Con molta lentezza, a malincuore, la folla si diradava nel cortile. Sui più esaltati dalla passione del giuoco aveva soffiato il vento della desolazione e li aveva abbattuti, come se avessero le braccia e le gambe spezzate, la bocca amara di bile: quelli che avevano giuocato tutt'i loro denari, quella mattina, non sentendo più il bisogno di mangiare, di bere, di fumare, nutrendosi vividamente delle visioni di cuccagna nella fantasia, sognando per quella sera di sabato e per la domenica e per tutti i giorni successivi, tutta una spanciata di pranzi grassi e ricchi, divorati in immaginazione, tenevano mollemente le mani nelle tasche vuote, e negli occhi desolati si dipingeva il fisico, l'infantile dolore di chi sente i primi crampi della fame e non ha, sa di non poter avere il pane per chetare lo stomaco: altri, i più folli, caduti dall'altezza delle loro speranze in un momento, provavano quel lungo minuto di pazzia angosciosa, quando non si vuol credere, no, non si può credere alla sventura e gli occhi hanno quello sguardo smarrito che non vede più la forma delle cose e le labbra balbettano parole incoerenti - ed erano questi folli disperati che ancora figgevano gli occhi sulla tabella dei cinque numeri, come se non potessero ancora convincersi della verità, e macchinalmente confrontavano i cinque numeri, con la lunga lista bianca delle loro bollette da giuoco: - e i cabalisti, infine, non se ne andavano ancora, discutendo fra loro come tanti filosofi, come tanti loici, sempre concentrati nell'alta matematica del lotto, dove vivono le figure, e e cadenze, e triple, a ragione algebrica del quadrato maltese le immortali elucubrazioni di Rutilio Benincasa . Ma in quelli che se ne andavano, come in quelli che restavano lì, inchiodati dalla loro passione, in quelli che discutevano furiosamente, come in quelli che abbassavano la testa, smorti, perduti di coraggio, senza più forza di agire e di pensare, variava la forma della desolazione, ma la sostanza della desolazione era la stessa, profonda, intensa, faciente sanguinare le più intime fibre, intesa a distruggere le stesse sorgenti dell'esistenza. Il lustrino Michele, lo sciancato, sempre seduto per terra, con la sua cassetta nera fra le gambe contorte, aveva udito l'estrazione senza levarsi, nascosto dietro le persone che si accalcavano. Ora, mentre la folla sfilava pian piano, egli avea chinato il capo sul petto e la gialla tinta del suo volto di vecchio rachitico si era colorata di verde, come se tutta la bile gli fosse salita al cervello. - Niente? - domandò una voce sorda accanto a lui. Egli levò macchinalmente gli occhi bigi dalle palpebre rosse e vide Gaetano, il tagliatore di guanti, che mostrava nel volto scialbo l'accasciamento degli esaltati delusi. - Niente, - disse breve breve il lustrino, riabbassando gli occhi. - E niente pur io. Ci hai cinque o sei soldi, per combinazione, compare? Lunedì te li ridò. - Chi me li dà? Se ne hai dieci, facciamo cinque per ciascuno, - mormorò disperatamente il lustrino. - Addio, compare, - disse, con voce rude, il tagliatore di guanti. - Addio, compare, - rispose, nel medesimo tono, il lustrino sciancato. Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Ogni tanto, malgrado la prudenza di don Pasqualino che sembrava anche paura, Luisella lo scopriva, sotto il portone o alla cantonata, e lo guardava così freddamente, con tanto disdegno, che quello abbassava gli occhi e si allontanava, col suo andare goffo, di persona che non sa che cosa fare del suo corpo. Qualche volta, Cesarino Fragalà aveva nominato don Pasqualino innanzi a sua moglie, sogguardandola per vederne il mutamento del viso: e quel viso, delicatamente affettuoso, si era fatto gelido, nell'espressione, le sopracciglia si erano aggrottate. Il marito non aveva osato nominarlo più quell' assistito Anzi aveva dovuto avvertirlo dell'astio di sua moglie, così costui si era fatto più guardingo e per chiamare, ogni tanto, Cesarino Fragalà che era nel negozio, mandava un monelletto che vendeva i giornali all'angolo del vico Bianchi, allo Spirito Santo. Ma anche quegli appelli misteriosi, Luisella aveva imparato donde venissero e crollava il capo, vedendo il marito uscire di bottega, con un'aria falsamente disinvolta. E più l' l'assistito onzava intorno, sempre vestito come un poveraccio, sempre lacero e sporco, e sempre succhiatore di denari, da tutti, più ella sentiva che la passione di suo marito non era il capriccio di un momento, ma un vizio incurabile. Adesso, la notte del venerdì egli rientrava tardissimo, ed ella, fingendo di dormire, udiva benissimo che lui vegliava, inquieto, dando di volta nel letto, battendo la testa sui cuscini. E d'altronde, mentre la febbre di suo marito non diminuiva, la prosperità del magazzino scemava a vista d'occhio. I fornitori all'ingrosso, vedendo che Cesarino Fragalà chiedeva continuamente il rinnovo delle tratte, o pagava a stento una parte delle cambiali, si erano fatti diffidenti, sospendevano i loro invii, arrivavano finanche a spedire la merce contro assegno, il che è un grave indizio di sfiducia, una delle rovine del commerciante, quello di dover tenere la roba in dogana, senza aver denaro da prenderla, pagando magazzinaggio e sapendo che la merce si deteriora. La notizia che Cesarino Fragalà era poco solido, oveva ovevaesser corsa, dalla piazza di Napoli alle altre piazze, poiché egli cominciava a trovar chiuse tutte le porte, se non si presentava coi denari in mano, e l'aver firmato delle cambiali agli usurai, aveva finito di screditarlo. Ancora la sua reputazione e la sua fortuna resistevano, tanto più che era una reputazione collettiva, di tutti i Fragalà: ma non poteva durare, un ultimo colpo e anche l'integrità commerciale sarebbe sparita. Adesso, era venuta la cattiva stagione estiva, con la mancanza dei provinciali, nel languore di tutte le forze napoletane, con la crisi che si andava accentuando, in tutte le classi che vivono dei forestieri, in questo paese senza industrie. Inutilmente Luisella Fragalà aveva rinunziato per la prima volta, in quell'anno, alla villeggiatura di Santo Jorio; non era servito a nulla: la merce era scarsa, in magazzino, per la diffidenza dei fornitori, e gli avventori erano più scarsi ancora per il pessimo tempo. Luisella non arrivava più a soffocare le preoccupazioni, e il bel volto giovanile aveva assunto un'aria grave, spesso il capo le si abbassava sul petto, ed ella pensava, come se l'anima si concentrasse nel più difficile dei problemi. Da una parte, capiva che il male spirituale del marito andava sempre peggiorando, vedendolo così addolorato in certi momenti, da far stringere il cuore a chi lo guardava: e dall'altra veniva anche a colpirla la crudele stagione, in cui tutti soffrivano, ricchi e poveri, dello stesso male, poiché in questo grande paese tutto s'irradia, la gioia come il dolore, la buona fortuna come la mala sorte. Ah ella era decisa, oramai, a parlare: era decisa a interrogare il cuore del marito, poiché la situazione si faceva disperata, sarebbe stata perduta, fra poco tempo. Ben decisa, adesso, nel suo amoroso e forte cuore muliebre, ben decisa, baciando la sua creaturina così cara, così quieta, così leggiadramente saggia! Avrebbe parlato, avrebbe detto tutto. Già la vita le si era aggravata addosso, con tutte le sue responsabilità di sposa e di madre: era passato, per sempre, il lieto tempo dell'idillio, era venuta l'ora lunga e dolorosa, in cui vi era bisogno di tutto il suo coraggio, per vincere l'animo di Cesare. Era proprio una battaglia quella che voleva dare, quella sera, nella bottega chiusa, mentre fuori scrosciava tristemente la pioggia estiva. Ed era il venerdì. Eppure per eccezione, Cesarino Fragalà in quella serata non era sparito dalla bottega, come soleva fare ogni settimana, appena imbruniva l'aria, per non rientrare a casa che alle tre di notte, quando l'ultimo botteghino di lotto era chiuso. Andava, veniva, nervosamente, e due volte che il solito monelletto strillone di giornali era apparso, per chiamarlo a nome di don Pasqualino, egli aveva risposto che quella persona spettasse, perché egli era occupato. Pallida, trepidante, sentendosi venuta a un momento grave, la moglie seguiva, con lo sguardo obliquo, gli andirivieni del marito. Fuori, la pioggia batteva tristemente sui cristalli delle vetrine e il gas aveva aspetto di melanconica fiamma rossiccia. - Chiudiamo? - disse il marito, impaziente. - Chiudiamo, - disse ella, con un lieve sospiro, - tanto, non verrà nessuno. E i due commessi, aiutati dal facchino e dal ragazzo delle commissioni, si sbrigarono a mettere le porte di ferro, a spegnere il gas di fuori, e dare una pulita generale, prima di andarsene per la porticina della dietrobottega, nel vicolo dei Bianchi. Presto, augurarono la buona notte, ad uno ad uno, e partirono. La bianca bottega, dalle scansie scintillanti di colori per le bomboniere, rimase illuminata da una sola fiammella. Luisella era seduta dietro il bancone, come al solito, e la piccola Agnesina si era addormentata sopra la sua seggiolina, con le ginocchia cosparse di sottili striscioline di carta. Cesare, ogni tanto, scompariva nella retrobottega, quasi non avesse pace. E non si decidevano, né l'uno né l'altro, a parlare, sentendo che era un grave punto, a cui si trovavano. Ella, soprattutto, si sentiva soffocare. E fu lui che parlò per il primo. - Ascolta, Luisella, - disse, a voce bassa, - sai che cattiva stagione abbiamo avuta.. - Sì, - mormorò lei. - Un vero disastro, ti assicuro, cara mia, che farebbe passar la voglia di far più il bottegaio. Tu lavori, tu fai economia, io lavoro e… si va di male in peggio… - Questo, lo so, - mormorò lei, di nuovo, quasi infastidita da quelle querimonie. - Non puoi misurare…non puoi sapere… bisognerebbe che tu trattassi direttamente con le case, per vedere che rovina. - Vieni al fatto, - diss'ella, con una certa asprezza. - Sei in collera? - chiese Cesare, umilmente. - No, - ella rispose, con una intonazione strana. - Perché avevo bisogno di un favore da te, di un così grande favore, che io mi vergogno finanche di chiedertelo. - Parla, - disse ella, sormontando il senso di pena che le dava l'agitazione di suo marito. - Ho da fare un pagamento, domani, nella mattinata… - Domani, nella mattinata? - Sì… è una cambiale che scade, me ne ero scordato, una forte cambiale. - E te ne eri scordato? - Sai, sono un po' stordito, da qualche tempo a questa parte… infine, debbo pagare e non sono pronto. Ho chiesto invano un rinnovo, una diminuzione, tutti vogliono il proprio denaro, adesso! Non posso pagare, non vi è denaro sulla piazza. - E che vorresti? - diss'ella, guardandolo freddamente. - Tu potresti aiutarmi, levarmi da questo imbarazzo, momentaneo, io ti restituirei subito il denaro. - Io non ho denaro. - Hai qualche oggetto prezioso… quegli orecchini di brillanti che ti donai… sono di valore, se ne può avere una bella somma. - Vorresti venderli - diss'ella, chiudendo gli occhi, come se avesse avuto innanzi una visione orribile. - Impegnarli, impegnarli, niente altro, per pochi giorni… si riprendono subito… - Impegnare gli orecchini di brillanti? - E la stella, la stella che ti ha donata don Gennaro Parascandolo, - disse lui, frettolosamente, ansiosamente. Ella tacque, aveva abbassato il capo e guardava la sua bimba che dormiva placidissimamente; poi, sottovoce, ma con un fremito indomabile, disse al marito: - Tu vuoi impegnare i miei gioielli, per giuocare al lotto. - Non è vero. - gridò lui. - Non dire bugie. Puoi dirlo innanzi a me, innanzi a tua figlia, che non servono per il lotto? - Non parlarmi così, Luisella, - balbettò lui, con le lacrime agli occhi. - Servono per il lotto, abbi il coraggio del tuo vizio, non aggravarti la coscienza di menzogne, - replicò la moglie, con la ferocia della disperazione. - Non è un vizio, Luisa, era a fin di bene che ho giuocato, a fin di bene, per te, per Agnesina… - Un padre di famiglia non giuoca. - Era per aprire il magazzino a San Ferdinando, mi ci volevano settantamila lire, Luisa, e non le avevo, sai che abbiamo tutto il denaro in giro. - Non giuoca, un padre di famiglia. - Per la felicità di noi tutti, Luisa, te lo giuro, credimi, per quanto voglio bene ad Agnesina! - Tu non le vuoi bene: se le volessi bene, non giuocheresti. - Luisella, non mortificarmi, non avvilirmi, sii buona, sai quanto ti ho amata, quanto ti amo. - Non è vero; se mi amassi non giuocheresti, - gridò lei, esasperata. Egli si buttò sopra una sediolina di ferro, appoggiando le braccia e la testa a un tavolinetto di marmo: si nascondeva la faccia fra le mani, non sapendo sopportare la collera di sua moglie e il peso dei suoi rimorsi. Non provava che un dolore grande, che un immenso dolore, sormontato solo da quel bisogno di denaro, acuto, trafiggente. E con quel cruccio, nuovamente, levò la testa e le disse: - Luisella, se hai caro il mio onore, non farmi fare cattiva figura, domani: dammi i tuoi gioielli, te li ridarò lunedì. - Prendi i gioielli, sono tuoi, - diss'ella lentamente, con gli occhi bassi: - Ma non dire che me li restituirai lunedì, poiché non è vero. Tutti i giuocatori mentiscono così. La roba impegnata non ritorna mai a casa. Prendi tutto. Che posso io dirti? Ero una povera ragazza senza dote e tu un ricco negoziante; ti sei degnato sposarmi e mi hai fatto cambiare stato; non debbo io ringraziarti di ciò, per tutta la vita? Prendi tutto, sei il padrone della casa, di me, di tua figlia. Oggi tu prenderai i gioielli e ne giuocherai il valore; domani venderai i mobili di prezzo, il rame della cucina, la biancheria di casa; si fa sempre così. Anche il marchese Cavalcanti, quello che abita sopra a noi, non ha fatto così? Sua figlia non ha più un tozzo di pane da mettere in bocca: e se il dottore Amati non li soccorresse segretamente, morirebbero di fame. Chi ci soccorrerà, noi, quando fra un anno, fra sei mesi, ci troveremo come loro? Chissà! Forse anche io impazzirò, come minaccia d'impazzire, quella povera signorina del terzo piano, lassù. Suo padre le fa apparire gli spiriti, è uno schianto, fra tutti quelli che la conoscono. Ma che farci! I padri, i mariti sono padroni. Prendi i brillanti, impegnali, vendili, gittali nell'abisso dove è caduto e si è perduto il tuo denaro, io non ci tengo più. Erano il mio orgoglio di sposa felice, quando li mettevo alle orecchie e nei capelli; quando aprivo il cassetto per guardarli, io benedicevo il tuo nome, Cesare, poiché fra le altre consolazioni, tu mi avevi dato questa. È finita, è finita, abbiamo chiuso il libro delle consolazioni, l'ultima parola è stata scritta. - Luisella, per carità! - strillò lui, mezzo pazzo, sentendosi abbruciare la carne e l'anima da quelle roventi parole. - La carità! La cercheremo noi, Cesare, fra breve. Oggi i brillanti, domani gli altri oggetti preziosi, poi tutto, tutto quello che possediamo, tutto sparirà, tutto sarà stato un fugace sogno, - replicò lei, guardando innanzi a sé, ostinatamente, come se già vedesse l'orribile spettacolo della decadenza. - Eppure io ne ho bisogno, ne ho bisogno, - gridò lui, con la dolorosa cocciutaggine dell'uomo disperato, che sente solo l'impulso della sua tendenza malsana. - Chi ti nega nulla? Anche Agnesina ha i suoi orecchinetti di perle, uniscili, la somma sarà più forte: la sua culla è ricca di merletti antichi, regalatile dalla signora Parascandolo, hanno un bel valore, prendili, aumenta la somma. - Ascolta Luisella, ascolta, - riprese il marito affannosamente, l'emozione gli mozzava il fiato, - io ti giuro che questi denari non mi servono per giuocare, non avrei osato chiederli a te, che sei una santa donna, che hai mille ragioni di avvilirmi; ma è un debito per il giuoco che ho fatto! È un debito terribile, usurario, pel quale domani mi si minaccia il protesto, la citazione, il sequestro E questo non può essere, no, non può essere! Il negoziante a cui si protesta una cambiale, deve morire. - È vero, - ella disse, piegando il capo. - Forse… - egli soggiunse, dopo una brevissima esitazione, - forse ne avrei presa una piccola parte, di questo denaro, per tentare solo di rifarmi, solo per questo, Luisa… - Ma insomma, - gridò la moglie, esasperata, - tu non puoi astenerti dal giuocare? Egli tremò come un fanciullo colpevole e non rispose. - Non puoi astenerti? - domandò lei, nuovamente, assalita dal più terribile fra gli sgomenti. - Senti, senti, è una passione perfida, non sai che cosa sia, bisogna averla provata per conoscerla, bisogna aver palpitato e sognato, per sapere che è! Cominci a giuocare per ischerzo, per curiosità, per una piccola sfida buttata alla fortuna, e continui, punto sul vivo dalle delusioni, eccitato da un vago desiderio che si va formando: guai se prendi qualche cosa. un ambo, un piccolo terno! Guai, poiché ti appare la possibilità del guadagno, nella sua forma reale, poiché tu diventi certa, capisci, sei certa che guadagnerai una grossa somma, una immensa somma, poiché hai vinto la piccola, e ci rimetti non solo quello che hai guadagnato, ma il doppio, il triplo, nelle settimane che seguono la vincita, è il denaro del diavolo che ritorna all'inferno! Oh che passione, che passione, Luisa! Guai se non guadagni e guai se guadagni! Allora il sogno che per sette giorni ti alimenta l'esistenza e l'ottavo giorno ti dà un'amarissima delusione, finisce per abbruciarti il sangue; e per aumentare la probabilità, per vincere a qualunque costo, le giuocate aumentano strabocchevolmente, fantasticamente, e il desiderio della vincita diventa un furore e l'anima si ammala, si ammala, e non si vede, non si sente più nulla, non vi è famiglia, non vi è posizione, non vi è fortuna che resista a questa passione. - Oh Dio! - diss'ella, pianamente, quasi fosse sui punto di cadere in un abisso. - Hai ragione, Luisella, hai ragione di maltrattarmi, di calpestarmi col tuo disprezzo. Hai ragione tu, sono un cattivo marito, un pessimo padre, ho rovinato la mia famiglia hai ragione, - ripeteva Cesarino convulsamente. - Io era un giovanotto allegro e laborioso, tutti mi volevano bene, i miei affari andavano magnificamente, tu eri la mia gioia e Agnesina era la mia consolazione. Ah qual fascino mi ha vinto, che maledetta idea mi è venuta, di voler guadagnare sessantamila lire al lotto, per mettere bottega a San Ferdinando? Oh una dannata idea che mi ha messo nel sangue le fiamme dell'inferno! Ho voluto arricchirvi col giuoco, capisci, quando i danari si guadagnano solo col lavoro! Ho voluto arricchirvi giuocando, quando mio nonno e mio padre mi hanno insegnato, con l'esempio, che solo contentandosi del poco, solo mettendo un soldo sopra un soldo si giunge alla ricchezza! Che pazzia mi ha preso, che malattia mi ha reso così infelice, che passione, che orribile passione! Pallida, con le labbra stirate da un moto nervoso che ella faceva per reprimere i singulti, addossata alla spalliera del suo seggiolone la povera donna udiva quell'angosciosa confessione, oppressa da un'angoscia senza nome. - Quanto ho giocato? - riprese Cesarino, che oramai parea che parlasse con sé stesso, senza vedere più sua moglie, senza udire più il placido respiro della sua figliuola addormentata. - Non lo so, non mi rammento più, è una gran liquefazione di denaro, come in un crogiuolo, donde fuggisse tutto il metallo. Sulle prime giuocavo moderatamente, cercando di mettervi della temperanza, dell'abilità: come se il giuoco del lotto non fosse l'ironia più beffarda, che fa la fortuna all'uomo! Allora segnavo i denari che giuocavo, sopra un taccuino dove segno le mie spese ordinarie: ma dopo, dopo, è stato tale un aumento di febbre, che io non mi rammento più, Luisella, non mi rammento quante migliaia di lire ho gittate via, così, pazzamente, in un brutto sogno, in un delirio che ogni venerdì ripeteva il suo accesso furioso. Ah Luisella, tu non sai, non sai, ma noi siamo rovinati… - Lo so, - ella disse, pian piano, guardando il roseo volto della piccolina dove il sonno manteneva la bella serenità infantile. - Non sai, non puoi saper tutto! Io ho dato fondo ai denari che mettevo da parte, per i pagamenti semestrali e annuali: io ho giuocato quelle migliaia di lire che avevamo messe sulla cassa di risparmio, intestate ad Agnesina, le ho rubato il denaro che le avevo donato, il suo denaro! Io ho mancato ai miei impegni commerciali e le case corrispondenti hanno perduto la fiducia nel mio credito, non vogliono più saperne di me, non mi mandano la merce; lo vedi, la bottega si va vuotando, io non ho i contanti per riempirla di mercanzia; io non ho più pagato neppure la rata dell'assicurazione, se domani si brucia la bottega, io non prendo un centesimo, sono un cattivo pagatore! Non sai! non sai! Io ho cercato denaro qua e là, disperatamente, mettendomi in mano agli Strozzini, mangiato sino all'osso, massime da don Gennaro Parascandolo… - Dal compare di Agnesina! - esclamò dolorosamente Luisella, nascondendosi il volto fra le mani. - Innanzi al denaro, non vi è parentela o amicizia, il denaro indurisce tutti i cuori. Questi debiti sono la mia vergogna e il mio tormento. Un negoziante che prende il denaro all'otto per cento al mese, tutti lo giudicano rovinato e hanno ragione, l'usura è una cosa indegna per chi la fa e per chi la subisce! Come farò? La stagione è infame, per i poveri e per i ricchi, e fosse anche magnifica, i guadagni non basterebbero a pagare neppure l'interesse dei miei debiti! Pensa che è un miracolo, se Cesare Fragalà, il capo della casa Fragalà, non è stato dichiarato ancora in istato di fallimento, di fallimento doloso, poiché un negoziante non può togliere il denaro ai suoi creditori per giuocarlo al lotto, poiché questo è un furto, capisci, un furto, e i ladri vanno in galera! Dopo aver messo la mia famiglia alla miseria, io toglierò loro, per questa infernale passione, anche l'onore! E non potendo più sostenere il peso della sua infelicità, egli scoppiò in singhiozzi, affogato, piangendo come un bimbo. Ella, tremante di emozione, sentendo nel cuore una immensa pietà per suo marito e un immenso spavento dell'avvenire, aveva levato il capo, energicamente. - Non vi è rimedio, dunque? - ella disse, con la sua voce ferma di donna buona e amorosa. - Non ve n'è, - rispose lui, aprendo le braccia, con un cenno desolato. - Siamo in un precipizio, lo capisco, lo vedo, ma un rimedio vi deve essere, - ribattè lei, ostinata, non volendo cedere. - Prega la Madonna, prega, - mormorò lui, come un fanciullo, più smarrito di un fanciullo. - Troviamo un rimedio insieme, Cesare, - replicò ancora ella, con dolcezza. - Cercalo tu, io non so più niente, io non ho più né volontà, né forza, cerca tu, cerca, poiché io sono perduto e credo che nulla varrà a salvarmi. La desolata parola ebbe come un'eco lugubre, in quel gaio bianco magazzino, tutto smagliante di rasi e di porcellane. Poscia, un silenzio profondo si fece, fra i due sposi. Ella, raccolta in sé, con la fermezza di sguardo interiore delle donne forti, misurava l'estensione di quella sventura. Non provava più sdegno, ogni collera si era dileguata innanzi alla voce straziante di quel giovane uomo che era stato così sereno, così lieto, e che adesso balbettava affannosamente le parole del suo incurabile errore. Quello che ella aveva inteso, nell'angoscia sgorgante dall'imo cuore di suo marito, quello che ella aveva intravveduto, quello spettacolo doloroso e imponente, avevan fatto un'opera di epurazione, e dalla sua anima generosa ogni personale risentimento era sparito. Ella non provava che un infinito desiderio di abnegazione, che l'ardente bisogno di salvare suo marito e la sua casa. Sparite le grettezze che potevano, in qualche ora, restringere il suo spirito femminile, la sua anima si elevava alle altruistiche altezze del sacrificio. Egli restava terra terra, avvinghiato dalla sua passione, non trovando in essa neppure la violenta grandezza del marchese Carlo Cavalcanti: e il suo dolore, il suo lamento avevano la monotonia e il ritmo del pianto di un bimbo. Ella, invece, al contatto della sciagura, si spiritualizzava, lasciando che tutta la parte nobile del proprio carattere signoreggiasse. Si sentiva, dopo quella incomposta confessione, più che la giovane sposa di suo marito, la sua provvida sorella, la sua madre misericordiosa, come una proteggitrice alta e magnanima, dimentica di tutte le pretese naturali della moglie e della donna. Egli piangeva, là, buttato con le braccia e con la testa sopra un tavolino, abbattuto come una misera creatura la cui infelicità è veramente infinita e irrimediabile: mentre ella, raccolta, studiava il gran mezzo della salvazione. Ma, subitamente, col zittìo delle labbra, ella gli impose di tacere. Agnesina, la bambinella, si era svegliata così, dolcemente, come ella soleva, senza piangere e senza gridare; seduta saviamente sulla sua sediolina, guardava sua madre, con gli occhioni spalancati, scintillanti di dolcezza. Luisella si levò dal seggiolone, dove era restata confitta e si chinò a baciare lungamente la sua creatura, quasi che in quel bacio ella ricevesse forza e ricambiasse affetto. La piccina guardava, senza parlare, suo padre che avea il capo abbassato sul marmo del tavolino; poi domandò: - Papà dorme? - No, no, - disse la madre, passando nella retrobottega a prendere la mantellina e il cappello. - Va a dargli un bacio. Va, digli così: papà, non è niente, non è niente. La bimba, obbediente, andò accanto a suo padre e appoggiando gli la testina alle ginocchia gli disse, con la sua bella voce cantante infantile: - Papà, dammi un bacio: non è niente; non è niente. Allora il cuore gonfio del povero giovane si spezzò, e sui neri capelli della sua creaturina, piovvero le lacrime più cocenti che avesse versato nella sua vita. Annodandosi i nastri del cappellino, udendo quei singulti disperati, Luisella fremeva per reprimere le sue lacrime, ma non interveniva, lasciava che quel cuore desolato si sfogasse e si racconsolasse, baciando la piccina: e la piccina, meravigliata, andava ripetendo, sotto quelle lacrime, sotto quei baci: - Papà mio… papà mio.., non è niente. - Andiamo via, - disse Luisella, rientrando nella bottega, mordendosi le labbra, cercando d'impietrarsi il cuore. Ancora commosso, Cesarino tolse in braccio la fanciulletta, come faceva ogni sera, quando ella si addormentava in bottega: le mise il cappuccetto di lana sulla testa, annodandoglielo sotto il mento. Luisella andava mettendo ancora un po' d'ordine nella bottega, levando la chiave dalla cassaforte, sentendo se tutti i cassetti del bancone fossero chiusi, con quell'istinto di ordine che è nelle alacri mani di tutte le donne giovani, sane e buone. Abbassarono il gas, mentre Luisella accendeva un cerino: se ne andarono per la retrobottega e per la piccola porta che metteva nel vicolo dei Bianchi. Pioveva sempre e il caldo vento sciroccale batteva sul volto la pioggia tiepida di estate: ma erano poco lungi dalla casa. Cesarino aprì l'ombrello e la moglie gli si mise sotto il braccio, per ripararsi dalla pioggia: la bambina, raccolta sull'altro braccio, gli appoggiava la testina sulla spalla. E tutti tre andavano chini, sotto la tempesta estiva, senza parlare, stretti stretti, l'uno all'altro, come se solamente l'amore potesse scamparli, nella gran bufera della vita, che li voleva travolgere. Nella notte, sotto l'ira del cielo, pareva che andassero, andassero a un destino di dolore, ma le due creature innocenti che si stringevano affettuosamente al misero colpevole, pareva che chiedessero e portassero salvezza. Niente avevano detto, finché giunsero in casa, su, dove la serva li aspettava con la porta aperta, e stese le braccia a prendere Agnesina, per portarla in camera sua, per spogliarla ed addormentarla. Ma la creaturina, quasi avesse intesa la gravità di quell'ora, volle ancora farsi abbracciare dal padre e dalla madre, dicendo loro, con quel suo dolce linguaggio infantile: - Mammà, beneditemi: papà, beneditemi. Al fine furono di nuovo soli, nella loro stanza, dove la lampadetta di argento ardeva innanzi alla madre di Gesù, la pia, la dolorosa madre. Cesare era accasciato. Ma Luisella schiuse subito la porta a cristallo del suo grande armadio di palissandro, dove chiudeva i suoi oggetti più preziosi, stette un po'a cercare in quella penombra, e ne cavò fuori due o tre astucci di pelle nera. - Ecco, - disse a suo marito, offrendogli i suoi gioielli. - O Luisa, Luisa! - gridò lui, straziato. - Li dò volentieri. Per l'onor nostro. Non oserei tenere queste pietre, queste gioie, inutili, quando siamo in pericolo di mancare all'onestà. Prendi. Ma per tutto quello che è stato di dolce il nostro passato, ma per tutto quello che può essere di terribile il nostro avvenire, per l'amore che mi hai portato, per quello che ti porto, per quella creaturina nostra, sulla cui testa adorata hai pianto, questa sera, Cesare, te ne prego con tutta l'anima, te ne prego come si prega Cristo all'altare, concedimi una promessa… - Luisa, Luisa, tu vuoi farmi morire… - gridò lui, mettendosi le mani nei capelli. - Prometti di lasciare in mia mano tutti gli affari del nostro commercio, debiti e crediti, compera e vendita? - Prometto… - Prometti di dirmi tutto ciò che devi dare, acciò che io possa pensare al rimedio? - Prometto… - Prometti di dare a me tutto il denaro che hai, che puoi avere, e di non cercarne altro, che non sappia io? - Tutto, tutto, Luisa… - Prometti di credere solo a me, di udire solo i miei consigli, di ascoltare solo la mia voce? - Prometto… - Prometti che nessuno varrà più di me, prometti che mi ubbidirai, come a tua madre, quando eri fanciullo? - Come a mia madre, obbedirò. - Giura tutto questo. - Lo giuro innanzi alla Madonna, che ci ascolta. - Preghiamo, adesso. Ambedue, piamente, si inginocchiarono innanzi alla sacra immagine. Ambedue dissero, insieme, sottovoce, il Pater noster, più forte, alla fine, levando gli occhi, ella disse: - Non c'indurre in tentazione… E lui, ripetette, umilissimamente, sconsolatamente: - Non c'indurre in tentazione…

Proprio pareva che non vi fosse più olio alla lucerna; Margherita, la cameriera, quando gliene parlavano, abbassava gli occhi, per non far vedere che le veniva da piangere. Ma il marchese non aveva avuto torto, di obbedire alla volontà dei nonni: coi castighi di Dio non si scherza! - Eh, stava scritto… - osservava, approvando, la interlocutrice, tutta pensosa. - Scritto, scritto, figlia mia. La volontà di Dio, che volete fare! I ricercatori di case cominciarono subito ad affluire per visitare gli appartamenti disponibili nel palazzo Rossi; e la via crucis ella portinaia, su e giù per le scale, dalle dieci della mattina alle quattro del pomeriggio, non terminava più; ogni volta che una famiglia si presentava, innanzi al suo casotto, e faceva le interrogazioni di rito, ella crollava il capo, sospirava e si levava per accompagnarla su, al primo o al secondo piano. Andava avanti, salendo piano piano, rivolgendosi a discorrere con questi cercatori di asilo, con la familiarità della piccola gente napoletana e faceva scricchiolare le chiavi, che teneva sospese alla cintura, se coloro volevan visitare la casa del medico, che ne aveva affidata la custodia alla portinaia. Monotonamente, girando per le stanze vaste, mobiliate un po' severamente, dove ancor restava l'austera impressione morale di una grande scienza, di una grande volontà, e di tutte le miserie umane che là erano venute a chieder soccorso, ella vantava la casa e il dottor Amati, il famoso dottore, per cui si riempiva d'ammirazione Napoli, e tutto il mondo - come ella diceva. - Ah! - dicevano i visitatori, meravigliati, - e perché va via? In fretta, in fretta, ella soggiungeva che il dottore si ammogliava e aveva bisogno di una casa più vasta, o che i suoi affari avevano cambiato di centro, o che egli si restringeva d'appartamento, avendo preso uno studio ll'ospedale, insomma una bugia qualunque; una bugia così frettolosa e poco logica che i visitatori, dotati già di una naturale diffidenza, non accettavano affatto e la interrompevano: - Ah, va bene: ritorneremo. Ma non tornavano punto, impressionati un po' tristemente dall'aria solitaria e grave di quell'appartamento, dai troppi libri, dalle troppe macchine chirurgiche e infine da quel seggiolone a letto, di cuoio nero, su cui si distendeva l'ammalato, per esser visitato, e che pareva come il preliminare della tomba: e andavano via in fretta, parlando piano, come intimoriti, anche più intimoriti dall'assenza del dottore, il temuto e rispettato Iddio della medicina. Fuggivano e non tornavano più, con la fantasia abbuiata, non volendo mica venire a contristarsi, in quell'ambiente così gravemente pensoso. La portinaia, sulla soglia del portone, li vedeva andar via lestamente, verso Toledo, dove ci era il moto, la luce e l'allegrezza, e malgrado le loro vaghe promesse, vagamente profferite, ella capiva che non sarebbero più ritornati. - Non si combina nulla, comare mia, - ella diceva ogni tanto, con aria stanca, alla sua vicina portinaia del palazzo De Rosa. E non si combinava nulla, neppure per gli appartamenti che lasciavano le famiglie Fragalà e Cavalcanti, quasi che i visitatori sentissero la mala sorte che emanava da quelle due case, dove tante lacrime erano state versate, dove tante se ne versavano. In casa Fragalà la malinconica e valorosa Luisella si era già disfatta di una gran parte dei mobili: il bel salone rosso era oramai nudo dei suoi mobili di antico broccato, la bimba dormiva nella stanza dei suoi genitori e la vita di costoro, di un tratto immeschinita, ammiserita, si era ristretta alla camera da letto e alla stanza da pranzo. Talvolta i visitatori trovavano la famigliuola a pranzo, alle due: Cesare Fragalà teneva gli occhi fissi sul suo piatto, mangiando macchinalmente; Luisella taceva, rotolando palline di mollica fra le dita, e la piccola Agnesina, savia, buona, guardava il padre e la madre, volta a volta, non facendo nessun rumore con la forchetta e col cucchiaio, per non disturbare: e quando i visitatori entravano, il padre di famiglia impallidiva, la madre di famiglia chinava gli occhi: ambedue, a ogni visita, sentivano di dover andar via da quella casa e ancora la loro piaga frizzava, mandava sangue. La bambina li guardava e ripeteva, assai sottovoce: - Mammà, mammà… I visitatori, accompagnati dalla portinaia, sentivano di disturbare e chiedevano scusa, passando nelle altre stanze, mentre la portinaia parlava volubilmente, per stordirli: quando essi vedevano deserti, vuoti, il salone e il salottino e l'anticamera, si scambiavano delle occhiate bizzarre, tanto che la portinaia fremeva d'impazienza, bestemmiando in cuor suo, tutti, chi va via dalle case, chi le va cercando e anche chi li accompagna su, cioè proprio lei, che doveva avere questa dura sorte. E i visitatori facevano la domanda di rito, con un certo sospetto: - Ma perché se ne vanno? Allora ella si decideva e sottovoce mormorava: - Sono falliti… - Ah, ah! - esclamavano, interessati, i visitatori. Nelle scale ella dava i particolari, diceva la ragione del fallimento, narrava l'antica ricchezza e la moderna strettissima privazione di ogni bene materiale; diceva il coraggio della povera signora Luisa, di fronte alla indomabile passione del marito per la bonafficiata; iceva la bontà della povera piccola Agnesina, che parea avesse capito, esser lei nata e cresciuta nel cattivo tempo della sventura. I ricercatori di casa ascoltavano incuriositi, con quella emozione a fior di pelle, che è particolare ai meridionali: ma da quello che avevano visto, come da quello che loro narrava la portinaia, essi ricevevano una singolare impressione di malaugurio, una fatalità che si era appesantita sopra una famiglia buona e innocente, un tetro destino che ne aveva distrutto tutte le sorgenti di felicità e di energia. Ah, davano le spalle alla casa dei Fragalà e al palazzo Rossi lentamente, i visitatori di case, ma restava loro una tristezza nell'anima e parlavano fra loro di questi disastri umani, così implacabili, così impreveduti e invincibili. Chi l'attribuiva al perfido destino, chi alla jettatura, hi faceva della filosofia sulle passioni umane, sul giuoco, specialmente, ripetendo ancora quella frase, che racchiude tutta l'indulgenza, tutto il perdono napoletano: - Signori miei, non ci facciamo maestri… Nell'appartamento del marchese Cavalcanti si penetrava con difficoltà; spesso, Margherita si opponeva che le persone visitassero la casa, malgrado che fosse l'ora delle visite. La portinaia parlamentava, irritandosi un poco, levando talvolta la voce, chiedendo come si sarebbe mai potuto affittare un appartamento, quando nessuno poteva entrare a vederlo; talvolta otteneva di entrare, da un battente socchiuso. Tutti tacevano, immediatamente: e dall'anticamera gelida e nuda, al nudo e gelido salone, vi era un tal freddo, un tal odore di vecchia polvere smossa, che faceva ribrezzo. Sulle mura eran disegnati, in larghe macchie scuriccie, i profili dei mobili che vi erano stati un tempo e che il marchese Cavalcanti aveva venduto, per giuocarne il valore al lotto: si vedevano i grossi chiodi a uncino, a cui una volta erano stati sospesi i quadri; un mucchio di vecchie carte giallastre era per terra, in un angolo del salone vuoto; e dove erano state attaccate le tende, alle porte e ai balconi, restavano i buchi scalcinati, donde parevano essere state strappate con violenza. Anche la cappella era senza più un santo, venduto l' Ecce Homo, enduta la Madonna Addolorata, e le frasche, gli ornamenti, e persino la fine tovaglia guarnita d'antico merletto, tanto che quell'altare spogliato aveva un lugubre, un sacrilego aspetto. Attraverso questa casa, ogni tanto, i visitatori incontravano una pallidissima, esilissima figura di fanciulla, in veste nera, con le magre spalle avvolte in uno sciallino gramo, con le grosse trecce nere che le rendevano anche più esangue il volto. Ella fissava i suoi occhi dolenti sui visitatori, come se non si raccapezzasse, e un'ombra di dolore li rianimava, per un minuto, quando ella intendeva che doveva abbandonare quel tetto, quell'asilo. La portinaia sottovoce, diceva: - La marchesina. Senz'altro: ed era, quell'apparizione, come tutta la grande linea di un disastro morale irrimediabile. Talvolta, i visitatori, accompagnati dalla portinaia e da Margherita, la cameriera, arrivavano davanti a una porta chiusa. La cameriera esitava un momento: ma a un'occhiata suggestiva della portinaia, si decideva a bussare. - Eccellenza, possiamo entrare? - Sì, sì, - rispondeva una fioca voce. E tutti vedevano una misera stanzetta verginale, dove si gelava di freddo, dove la smorta creatura dal vestito nero, avvolta nel gramo sciallino, era seduta presso il suo lettuccio, o si levava prestamente dal suo inginocchiatoio. Allora, intimiditi, coloro davano appena un' occhiata rapida, mormoravano vagamente qualche parola di scusa e se ne andavano, mentre la fanciulla li seguiva coi neri occhi pensosi e dolenti. Nelle scale essi osavano parlare: domandavano alla portinaia, come se si trattasse di persone e di cose morte: - Come si chiamavano, ostoro? ostoro?- I marchesi Cavalcanti, - diceva la portinaia. E i visitatori andavano via, portando seco l'impressione profonda di cose e di persone estinte.

Egli si abbassava col naso sulla carta, miope quale era e schiacciato dai due che gli pesavano sulle spalle; e non sapendo, non avendo ancora firmato nessuna cambiale, confuso, spaventato, rimaneva con la penna sospesa, esitante. L'opera fu lunga: stava per sbagliare la data della scadenza, il poveretto, quando Trifari gli fu sopra con un urlo. - A due mesi! Infine, l'opera fu finita. La fronte rialzata dello studente aveva gocce di sudore, in quel giorno ancora fresco di marzo. Don Gennaro, intanto, aveva tratto del denaro dal cassetto e lo aveva contato. - Settecentosessanta, - disse, tendendo il pacchetto a Rocco Galasso. - Contatevi il vostro denaro. Ma costui non osò prenderlo: guardò ancora i suoi tutori. Colaneri stese la mano grossa e fredda e intascò rapidamente i denari, mentre Trifari guardava, ferocemente. - Anticipato l'interesse, eh? - chiese Trifari, con un ghigno. - Anticipato. - Non potevate aggiungerlo nella cambiale? - ribattè Colaneri, mettendosi la mano in tasca, sul denaro. - No, - disse seccamente don Gennaro che si levò di nuovo. I tre uscirono, in silenzio. Colaneri scappava avanti e Trifari lo seguìa precipitosamente, dimenticandosi di Rocco Galasso che adesso non serviva più a nulla e il cui più gran tormento era che don Gennaro Parascandolo gli aveva fatto scrivere il domicilio a Tito di Basilicata: e il pensiero che suo padre avrebbe saputo, un giorno o l'altro, tale cosa, gli faceva venire le lacrime agli occhi. Malgrado poi il desiderio di uscire che aveva don Gennaro, egli dovette trattenersi ancora cinque minuti. Una vecchietta, vestita pulitamente di nero, una cameriera, era giunta, portando un bigliettino di presentazione e di raccomandazione della signora Parascandolo. Sottovoce, guardando intorno, ella aveva parlato a don Gennaro, che l'aveva ascoltata con un paterno sorriso di bonomia; gli aveva anche timidamente mostrato un oggetto chiuso in un astuccio, cavato da un involto di lana nera e poi di carta; don Gennaro non aveva neppure voluto guardarlo, e lo aveva respinto con la mano, ma senza disprezzo. Poi, dopo aver detto due o tre parole alla vecchia cameriera, facendole atto di tacere, poiché essa voleva ricominciare la sua perorazione, andò al cassetto della scrivania, lo schiuse, contò dei denari e li mise in una busta che offrì alla cameriera. Costei voleva ringraziare, ma lui, per tagliar corto, domandò: - E come sta la marchesina Bianca Maria? - Eh così!… - fece, con un sospiro, la vecchia. Dopo due minuti la victoria ortava il tranquillo e soddisfatto don Gennaro Parascandolo, alla passeggiata di via Caracciolo, dove tutti i suoi debitori passati, presenti e futuri, lo salutavano con un sorriso e con una grande scappellata, mentre egli li salutava con un sorriso e con una grande scappellata.

. - Dimmi, dimmi se è venuto, - stridette la voce di lui, mentre abbassava il capo sui cuscini, quasi a soffiare la sua magnetica curiosità, nel volto, a sua figlia. - No… - diss'ella, con un filo di voce. - Tu menti. - Non mento. - Tu menti. Lo spirito è stato qui, io lo sento. - Per carità, per carità…- diss'ella, con una trepidazione infinita. - Come lo hai visto? Nella veglia? Nel dormiveglia? Nel sonno? Era una figura bianca, nevvero? con le palpebre abbassate, ma sorridente? Che ti ha detto? Una voce debole debole, nevvero? Qualche cosa che tu sola puoi aver udito? - Mio padre, voi volete che io muoia, - pronunziò ella, desolatamente. - Paure da femminetta, - diss'egli, con disdegno. - Chi è mai morto, per una comunicazione suprema? Il contatto dell'anima, con quella di uno spirito, è una fonte di vita. Bianca Maria, non essere ingrata, non essere crudele, dimmi tutto. - Voi volete che io muoia, - ripeté ella disperatamente e rassegnatamente. - Sei una sciocca. Vuoi che ti preghi, io tuo padre? Ebbene, ti pregherò, non c'è che fare: i figli sono ingrati e malvagi, rispondono al nostro amore con la crudeltà. Ti prego, Bianca, te ne prego come se tu fossi la mia santa protettrice, dimmi tutto. - Io morirò di ciò, mio padre, - mormorò lei, con la voce soffocata dai cuscini, dove frenava il suo pianto e i suoi singhiozzi. - Ascolta, Bianca - egli riprese, freddamente, frenando ancora il suo sdegno, - tu devi credermi. Io sono un uomo, sono sano, ho la mia ragione, ho la mia logica: ebbene, è per me articolo di fede, chiaro come la luce del sole, che tu hai avuto in questa notte, o avrai l'apparizione dello spirito, che verrà per benedire la nostra famiglia, che ti dirà le parole della felicità. Se ciò è accaduto, tanto meglio: ma il tuo obbligo di figlia ubbidiente, di figliuola amorosa della casa Cavalcanti, è di dirmi tutto, subito. - Non so nulla, - disse ella, seccamente. - Lo giuri? - Lo giuro. Non so nulla. - Allora questa visione verrà in queste consecutive ore della notte. Vado in cappella a pregare. Sono un peccatore, ma anche i peccatori possono chiedere una grazia. Pregherò perché tu veda e senta lo spirito. - No, non ve ne andate! - gridò ella sollevandosi sul letto e attaccandosi al suo braccio, con una stretta disperata. - E perché? - Non ve ne andate, per amor di Dio, se avete carità, restate qui! - Debbo andare a pregare, Bianca, - esclamò lui, esaltato, non intendendo lo stato convulso della sua figliuola. - No, no, restate, io non posso star sola qui, senza morire di spavento. E parlava affannosa, pallida, con le mani tremanti che stringevano sempre il braccio del padre. Non osava guardarsi intorno, aveva il capo abbassato sul petto, chiudeva gli occhi, si mordeva le labbra; mentre lui, in preda alla ostinazione della sua follia, guardava fiso la sua figliuola, credendo scorgere in lei quel disordine spirituale, che deve fatalmente accompagnare questi grandi miracoli delle anime. - Che hai? - domandò lui, profondamente, intensamente, quasi volesse strappar dall'anima la verità. - State qui, state qui, - disse ella, battendo i denti dal terrore. - Vedi qualche cosa? - chiese lui, suggestivamente, con una intensità di voce e di volontà che dovea piegare quel fragile involucro femminile, tutto sconquassato dall'urto nervoso. - Ho paura di vedere, ho paura, - ella disse, pianissimamente, appoggiando la fronte sui braccio di suo padre. - Non temete, cara, non temere, - le susurrò lui, teneramente, carezzandole con atto paterno i neri capelli. - Tacete, tacete, - diss'ella, con un tremore acuto. E rimase appoggiata alla sua spalla, nascondendo la faccia, raggricchiandosi tutta. Il marchese passò il braccio alla cintura di sua figlia, per sostenerne il debole corpo convulso: e mentre ella più si nascondeva, attaccata a suo padre, come a una tavola di salvezza, egli sentiva ogni tanto sussultare tutto quel povero corpo di creatura inferma nelle fibre, nei nervi e nel sangue. - Che hai? - egli domandava, allora. - No, no, - faceva ella, più col gesto che con la voce. - Guarda, guarda, non aver paura, - suggeriva l'allucinato. - Tacete, - replicava lei, rabbrividendo. Con pazienza, egli la sosteneva, aspettando, con la ostinazione del folle che attenderebbe ore, giorni, mesi e anni, purché la realtà della sua follia potesse avverarsi. - Figlia mia, figlia mia, - mormorava il marchese, ogni tanto, incoraggiandola teneramente. Ella rispondeva, sospirando: un sospiro che pareva un lamento, che pareva un singhiozzo di fanciullo sofferente. Tenendola appoggiata al suo petto, il marchese di Formosa sentiva la rigidità nervosa di quel povero corpo giovanile e malaticcio, percorso da lunghi fremiti. Quando la fanciulla tremava, tutta, suo padre ne sentiva il contraccolpo e parendogli che la rivelazione così invocata fosse imminente, le diceva un'altra volta, ostinato, spietato: - Che hai? Ella faceva un cenno con la mano, di orrore, come se volesse scacciare un pensiero spaventoso o una spaventosa visione. Che importava a lui lo strazio di quel cuore giovanile, lo squilibrio funesto di quei nervi? Egli in quella stanza glaciale e verginale, in quella penombra dove la lampada accesa innanzi alla Madonna gittava un cerchio di luce sul soffitto, con quel corpo convulso di fanciulla fra le braccia, con quell'anima tremante innanzi ai misteri spirituali, egli sentiva di essere in un momento solenne, in cui ogni circostanza di tempo, di età, scompariva, e lui, Formosa, si trovava finalmente in faccia al grande mistero. Dalla bocca innocente di sua figlia lo avrebbe saputo, il segreto della sua vita, del suo avvenire: le fatali cifre che contenevano la sua fortuna, sarebbero state dette a Bianca Maria dallo spirito, da Bianca Maria a lui. - Bianca, Bianca, prega lui he venga, che ti dica se dobbiamo vivere o morire. Pregalo, Bianca, poiché lui, lo spirito, è una emanazione del Divino, di dirti la divina parola...pregalo, se è qui, presso a te, o in te, se è innanzi ai tuoi occhi o alla tua fantasia, pregalo, Bianca, pregalo, ne va la vita nostra, salvaci, Bianca, salvaci, figlia mia, figlia mia... Continuava a parlare, incoerentemente, invocando la presenza dello spirito, dirigendo a lei, dirigendo a lui le preghiere più impetuose e più dolorose. La fanciulla, trasalendo, rabbrividendo, batteva i denti dal terrore; le mani che teneva strette al collo del padre, come un bambino che soffre, si avvinghiavano a guisa di tenaglia. Non parlava più, adesso: ma si capiva che l'ora, l'ambiente e le parole del padre esaltavano la sua convulsione. Un singhiozzo sommesso le sollevava il petto: e quando non singhiozzava, un piccolo lamento fioco fioco, instancabile, di bambino che agonizza, le usciva dalle labbra. Egli le parlava, sempre: ma quando le sue parole diventavano più incalzanti, quasi colleriche nel loro dolore, egli sentiva le braccia della figliuola torcersi per la disperazione. Poi, a poco a poco, un nuovo fenomeno si era manifestato. Sul principio, le mani e la fronte di Bianca Maria erano gelide, come sempre, poiché l'anemia di cui languiva, le toglieva ogni calore vitale. Anzi, in quella convulsione, egli aveva inteso, il vecchio allucinato, che era agghiacciato tutto il corpo della povera creatura. Ma ad un certo punto, in alcuni intervalli in cui il batter dei denti taceva, in cui le braccia si rilasciavano per un accasciamento, egli sentiva un sottile calore correre sotto la pelle delle mani, un sottile calore salire alla fronte della fanciulla. Pareva una fluida corrente di calore che si diffondesse in tutta la persona giovanile di Bianca Maria: un calore che inondava le vene impoverite di caldo sangue e che crescendo, crescendo, ne rendeva scottante la fronte e le mani. Egli udì che il respiro della fanciulla si facea affannoso e ogni tanto, quasi le mancasse l'aria, un lungo sospiro le sollevava il petto oppresso. Due volte egli fece per riporre il capo sui cuscini del letto, ma ella ebbe un fremito di paura. - Non mi lasciar sola, per amor di Dio, - balbettava, quasi infantilmente. - Non ti lascio: dimmi che cosa vedi, - ripeteva lui, indomito, implacabile. - Oh è orribile, è orribile...- balbettava Bianca, tremando ancora, tremando sempre, come se il suo corpo fosse diventato quello di una vecchia settantenne. - Che, è orribile? Parla, Bianca, raccontami tutto, dimmi che cosa hai visto? - Oh! - faceva lei, lamentandosi, disperandosi. Adesso, cessato il batter dei denti, col respiro corto che parea le uscisse a stento dalla gola, ella ardeva tutta, il suo alito breve bruciava il collo del padre, dove la sua testa si appoggiava. A questo fiato ardente si univa il batter rapido, rapido dei polsi pieni, e il battito rapido e pieno delle tempie. Ma il marchese Cavalcanti, preso intieramente dalla sua follia, nella notte gelida, in quella penombra misteriosa, accanto a quella povera anima addormentata in quell'involucro tormentato, aveva smarrito il senso del reale: e la sua ammalata fantasia assaporava acutamente il dramma di quell'ora, senza intenderne la crudeltà. Egli, anzi, vibrava di gioia, poiché credeva giunto il gran momento della rivelazione dello spirito: la fortuna di casa Cavalcanti, ecco, in quel minuto si decideva. Le ansie, i terrori, le convulsioni, le tronche parole di sua figlia si spiegavano: era l'approssimazione della Grazia. Tanto tempo, tanto tempo era passato nella infelicità e nella miseria: e ora tutto si risolveva: l'indomani, lui e sua figlia sarebbero ricchi a milioni. Oppressa, affannata, Bianca Maria era scivolata dal petto di suo padre sui cuscini e si udiva il sibilo del suo respiro, si vedevano i suoi occhi brillare stranamente. Inchiodato dalla morbosa curiosità, il marchese si tenea ritto presso il letto, spiando, al lume della lampada, ogni gesto, ogni atto della sua figliuola, abbattuta su quel letto di dolore. A un tratto, come per una scossa elettrica, le mani della fanciulla brancicarono convulsivamente la coltre: un grido rauco le uscì dalla strozza. - Che è? - gridò il marchese, scosso anche lui. - È lo spirito, lo spirito, - balbettò lei, con la voce cambiata di tono, profonda, cavernosa. - Dove è? - disse il padre, sottovoce. - Sulla soglia, è là, guardatelo, - disse ella, fermamente, energicamente, sbarrando gli occhi verso la porta. - Non vedo niente, niente, sono un povero peccatore! - gridò disperatamente il marchese Cavalcanti. - Lo spirito è là, - sussurrò lei, quasi che nulla avesse inteso. - Come è vestito? Che fa? Che dice? Bianca, Bianca, pregalo! - È vestito di bianco...non si muove... non dice nulla, - mormorò ella, parlando in sogno. - Pregalo, pregalo che ti parli, tu sei innocente, Bianca! - Non parla... non vuol parlare. - Bianca, scongiuralo, per il nostro Dio, per la sua forza, per la sua potenza Tacquero. Tutta l'intensa attenzione del marchese Cavalcanti era su quella porta, dove solo sua figlia vedeva lo spirito, mentre tutto l'animo di lui era una preghiera. Ella giaceva, sempre più affannata, mentre le ardenti mani sottili stringevano convulsivamente, fra le dita, le pieghe del lenzuolo. - Che dice? - Nulla, dice. - Ma perché non vuol parlare? Che è venuto a fare, se non vuol parlare? - Non mi risponde, - replicò lei, sempre con quella voce, che pareva venisse da una profonda lontananza. - Ma che fa? - Mi guarda... mi guarda fisamente... ha gli occhi così tristi, così tristi... mi guarda con pietà; perché mi guarda così, come se fossi morta? Sono forse morta, io? - Ora andrà via, senz'averti detto niente! - urlò il marchese di Formosa. - Domandagli che numeri escono, domani! La figliuola emise un lamento straziante. - Mi pare che pianga, adesso, quasi che io fossi morta, questo mi pare. Gli scendono le lacrime sulle guancie... - Il pianto, sessantacinque, - disse Formosa a se stesso, come se temesse che qualcuno lo udisse. - Leva la mano, per salutarmi... - Guarda quante dita solleva, guarda bene, non ingannarti! - Tre dita: mi saluta, mi saluta, se ne vuole andare.. - Digli che ritorni, pregalo, pregalo... - Accenna col capo di sì, - riprese, dopo una lieve pausa Bianca Maria, - se ne va, se ne è andato, è scomparso... - Lodiamo Iddio, - gridò Cavalcanti, inginocchiandosi ai piedi del letto. - Tre le dita, inque la mano, essantacinque il pianto, isogna sapere che numero fa la fanciulla morta, ingraziamo il Signore!... - Sì, sì, - mormorò la ragazza, con accento bizzarro, - bisogna che vediate quanto fa la fanciulla morta .. ..bisogna saperlo... - Lo sapremo, lo sapremo, - esclamò Formosa, ridendo come un folle. Non pensava più a sua figlia, la cui febbre era arrivata al più alto grado, con la violenza delle effimere he pare vogliano portare via in ventiquattr'ore un'esistenza. Ella affannava, bevendo l'aria dalla bocca schiusa, simile a un uccelletto che muore: il sangue batteva così precipitosamente alle pareti delle vene che sembrava le spezzasse, e tutto quel fragile corpo abbruciava come un ferro rovente. Invece, il marchese di Formosa era in preda a una impazienza giovanile: due volte era andato alla finestra, per vedere se spuntava il giorno; ancora qualche ora da aspettare, per andare a giuocare il biglietto dello spirito. Pensava di non aver più denaro: come avrebbe giuocato? Non una lira, era una cosa feroce, questa continua sete che nulla arriva a soddisfare! Oh, ma li avrebbe trovati i denari per giuocare, avesse dovuto vendere gli ultimi mobili di casa e mettere in pegno la propria persona; li avrebbe trovati, perdio, ora che la rivelazione era stata fatta, ora che lo spirito assistente si era degnato entrare nella sua casa! La sua fortuna era nelle sue mani, ci avrebbe rimesso tutto, per giuocare tutto sul biglietto dello spirito. Oh! Ecce Homo, Ecce Homo i casa Cavalcanti, eravate stato voi a fare quella grazia, per voi ci voleva una cappella apposta e quattro lampade di argento massiccio, sempre accese, in memoria della grazia che avevate fatto. I denari li avrebbe fatti trovar anche lui, l' Ecce Homo, l buono e potente Ecce Homo, rotettore della casa: i denari, i denari per giuocare! E trascinato dal suo fervido, appassionato pensiero, il marchese Cavalcanti parlava ad alta voce, passandosi la mano nei capelli, gesticolando, dandosi a girare nella stanza, come un pazzo. Sottovoce, poiché le mancava il respiro, Bianca Maria continuava a delirare, con dolcezza, parlando a frasi vaghe, nominando adesso Maria degli Angioli o parlando ogni tanto, con una infinita malinconia, di un fresco e ridente paese di campagna, di un paese verde dove avrebbe voluto andare a vivere, laggiù, lontano, lontano. Ma il vecchio, infuocato dall'attesa, non ascoltava più sua figlia e mentre l'alba fredda di marzo sorgeva, in quella stanza si confondevano i due delirii, del padre e della figliuola, tragicamente. Alla livida e glaciale luce dell'alba, pallido e con gli occhi stralunati, il marchese di Formosa girava con passo vacillante pel suo appartamento, cercando nei cassetti vuoti e sui rari mobili, qualche cosa da vendere o da impegnare. Non trovava nulla e con le mani brancolanti tornava ad aprire i cassetti, battendoli forte, macchinalmente, e si guardava attorno con la follia nello sguardo, pensando di voler vendere o impegnare le nude mura di quella casa che era stata sua. Nulla, nulla! A poco a poco, divorati dal giuoco del lotto, erano scomparsi i gioielli di immenso valore, le pesanti argenterie antiche e moderne, i quadri dei grandi pittori, i libri preziosi, le rarità artistiche di bronzo, d'avorio, di legno scolpito: la casa si era denudata, rimanendovi solo i mobili che sarebbe stato vergognoso voler impegnare o vendere. Ahi, che non trovava nulla per far denaro, per giuocare i numeri dello spirito. Egli si torceva le mani dalla disperazione, mentre aveva lasciata Bianca Maria nel sopore affannoso, febbrile, in cui ancora qualche confusa parola le sfuggiva, mentre i due vecchi servi ancora dormivano. Entrò finanche nella cappella, come un pazzo: ma le lampade che vi ardevano, erano di ottone: ma le frasche, ull'altare, egli stesso le aveva comprate, di metallo in imitazione d'argento, quando aveva venduto quelle di argento vero: pensò per un momento a prendere la coroncina di argento dal capo della Madonna Addolorata e di toglierle dal cuore quelle sette spade d'argento, le piccole spade che raffigurano i dolori della Gran Madre straziata, ma lo trattenne un timore mistico. Uscì, senz'aver potuto neppur dire una preghiera, tanto lo tenea, in quell'alba, l'allucinazione della notte, e la fretta febbrile della mattinata di sabato. Pensava, ora, a chi avesse potuto chieder denaro in prestito: ma non trovava la persona e si stringeva le tempie tumultuose fra le mani, per concentrarsi, per arrivare a ottenere lo scopo. Tutti gli amici del suo ceto, i suoi larghi parenti, dopo la morte di sua moglie, si erano allontanati da lui, ma solo dopo che egli li aveva messi a contribuzione, tutti quanti, per giuocare. Gli amici di adesso? Tutti giuocatori: tutti, in quella mattina, faceano dei tentativi disperati per giuocare ancora, e non prestavano, certo, denaro, ognuno pensava a sé, cercava per sé. Amici nuovi? Quella passione non gliene aveva fatti trovare, fuori di quella morbosa cerchia di pazzi, dannosi come lui. E ci voleva molto denaro, molto, poiché lo spirito si era degnato di rivelarsi: bisognava far fortuna in quel giorno, o mai più. A un tratto, un lampo di luce lo colpì: un nome gli si era affacciato alla mente. Costui gli potea dare del denaro; era un galantuomo, ne avea molto, del denaro, non avrebbe rifiutato un piccolo prestito a un Formosa. E mentre, seduto presso la sua scrivania, sopra un foglietto strappato da un taccuino pieno di cifre, egli scriveva al dottor Antonio Amati, pensava che non era vergogna quel prestito chiesto a un estraneo, poiché egli avrebbe restituito quel denaro la sera istessa. uando ebbe scritto, un pensiero lo fece tremare: e se Amati dicesse di no? Era un indifferente, un estraneo, il denaro indurisce tutti i cuori. - Porta questa lettera al dottor Amati e torna qui - egli disse a Giovanni, che si era presentato, mal desto, al suono del campanello. - Dormirà... - Porta! - comandò Formosa. E si mordeva le labbra, adesso, sicuro che Amati avrebbe rifiutato, sentendo il rossore della vergogna salirgli alle guance. Ma doveva aver denaro, ne doveva avere, a qualunque costo! Buttato sulla poltrona, guardando, senza vederle, le cifre scritte sulle carte disperse sulla scrivania, egli si sentiva vincere da quella collera irrefrenabile della passione, alle prese con la realtà. - Quando si sveglia, darà la risposta, - disse Giovanni, rientrando, e aspettando in silenzio gli ordini del suo padrone. - Giovanni, dammi l'altro denaro che hai, - disse sordamente Formosa. - Non ne ho, Eccellenza... - rispose l'altro, assalito da un tremito. - Non dir bugie: hai altre cinquanta lire, dammele subito... - Eccellenza, le ho prese in prestito da un usuraio, debbo restituirle a tanto la settimana, non me le togliete... - Non me ne importa niente, - disse superbamente Carlo Cavalcanti. - Non me le togliete, Eccellenza, se sapeste a che servono... - Non me ne importa niente, - replicò ferocemente il marchese. - Dammi le cinquanta lire... - Servono per far mangiare la marchesina... - Non me ne importa niente! - urlò Formosa. - Quando è così, ubbidisco, - disse disperatamente il servo. E cavò le altre cinquanta lire; il marchese le afferrò con l'atto di un ladro e se le mise in tasca rapidamente. - Tua moglie anche ha denaro, cercaglielo, - riprese Cavalcanti, freddamente. - Chi glielo ha dato, a mia moglie? - Ne ha: fattelo dare e portalo qui. Risparmiami una scena. Se tua moglie nega, potete andarvene dalla mia casa, subito. - Nossignore, nossignore, Eccellenza: vado subito, - disse umilmente il servo. Ma di là, vi fu la scena. Il dialogo fra marito e moglie fu lungo, agitato, la donna non voleva lasciarsi portar via il denaro: gridava piangeva, singhiozzava. Alla fine vi fu un silenzio: e poi come un lamento. Giovanni rientrò, con la vecchia faccia sconvolta, più curvo, quasi colpito da un tremor paralitico. E deponendo altre cinquanta lire sulla scrivania, in silenzio, con gli occhi rossi delle scarse e brucianti lacrime dei vecchi, egli colpì tanto il marchese, che costui, placato a un tratto, disse bonariamente: - Sono trecento lire, fra ieri sera e stamattina: stasera avrete tutto. - E il pranzo di oggi? - Verrò io, alle quattro, disse vagamente il marchese. - La signorina è ammalata, vorrà un po'di brodo, stamane - mormorò il servo. Allora, cercandosi in tasca, con la smorfia dolorosa dell'avaro, il marchese di Formosa diede tre lire al servo, seguendole con lo sguardo avido. Avevano bussato, Formosa trasalì, era la risposta del dottor Amati: non importa, adesso, se diceva no! Ma come ebbe nelle mani la busta, alla divinazione del tatto comprese che i denari chiesti vi erano, e rosso di gioia, si mise la busta in tasca senz'aprirla. Usciva, adesso, usciva alle otto del mattino, come se lo portasse un soffio irresistibile: usciva senza voltarsi indietro, a guardare la figlia inferma, la sua casa nuda, i suoi servi piangenti che gli avevano dato tutto, il suo vicino a cui egli non aveva pagato le visite e a cui aveva osato chieder del denaro in prestito: usciva, portando seco trecentocinquanta lire, che avrebbe messe tutte sul biglietto dello spirito, mentre aveva lasciato digiuni i due poveri vecchi servi, e aveva lesinato sopra un po'di brodo per Bianca Maria. Niuno lo rivide, in casa, sino al pomeriggio. La fanciulla era restata a letto, vinta dalla febbre, ardendo, respirando faticosamente chiedendo ogni tanto da bere, niente altro. Margherita si era seduta accanto al letto, dicendo mentalmente il rosario, due o tre volte, per lasciar passare le ore: e ogni tanto metteva la mano sulla fronte dell'inferma, sgomentandosi del calore. La malata taceva: dormiva, con la respirazione oppressa. A un tratto, aprendo gli occhi, disse nitidamente a Margherita: - Chiamami il dottore... - Ora non sarà in casa. - Quando ritorna... E richiuse gli occhi. Il dottore non venne che alle quattro e mezzo. Si fermò sulla soglia della cameretta, odorando l'aria di febbre. - Potevate chiamarmi prima, - disse ruvidamente a Margherita. - Oh Vostra Eccellenza, se potessi dirvi. Egli le ordinò di tacere. La malata lo guardava coi suoi belli e dolci occhi, sbarrati, e gli tendeva la mano. E il forte uomo, dalla testa poderosa, dalla faccia genialmente brutta, prese, innanzi a quella fragile creatura, quella profonda aria di tenerezza che gli sgorgava spontanea dal cuore. Il medico sentì subito che quella febbre sarebbe finita: già decadeva, con la rapidità delle effimere: ma a lui restava confitta in cuore la spina di quella povera esistenza, traballante fra la vita e la morte, vinta da un morbo di cui egli non trovava le cause. - Ora vi ordino una medicina, - disse lui, dolcemente, alla malata, tenendone la mano fra le sue. - No - disse lei, piano. - Non la volete? - Ascoltate, - disse lei, attirandolo a sé, per farsi udir meglio. - Portatemi via. Tremava, dicendo questo. Antonio, improvvisamente pallido, colpito da una emozione indicibile, non potette neppure risponderle. - Portatemi via, - soggiunse ella, umilmente, come se lo supplicasse. - Sì, cara, cara, - balbettò lui. - Dove voi volete, subito... - In campagna, lontano, - sussurrò la poveretta, - dove non si vedono fantasmi, nella febbre, dove non ci sono ombre, né spettri paurosi... - Che dite? - disse lui, sorpreso. - Niente, portatemi via... in campagna, fra il verde, nella pace, con vostra madre... innanzi a Dio. - Oh cara, cara... - non seppe dire altro, il grande uomo, nel turbamento supremo, nella suprema dolcezza di quell'idillio. - Lontano... - mormorò, ancora ella, guardandolo coi grandi occhi buoni. E soli, dolcissimamente, castamente, senza parlarne, parlavano d'amore.

Abbassava la testa, in una debolezza infinita; e quando arrivarono contemporaneamente dei contadini, il delegato di Capodimonte, due guardie, un carabiniere e un ortolano del Real Palazzo, dovettero sollevarla sopra una sedia, che l'oste Babbasone veva portata, là. Andavano lentamente, per la stessa via per cui ella era venuta, mentre ella giaceva, con le gambe battenti ai piuoli, con le braccia prosciolte, e il capo che le batteva qua e là, a ogni scossa della seggiola, versando larghe stille di sangue sul terreno. Innanzi alla osteria, dove ancora le due tavole erano coperte dalle tovaglie chiazzate di vino, la sedia fu posata: - Volete qualche cosa? - domandò il delegato, un uomo tarchiato e bruno. - Un poco d'acqua, per bere, - ella disse, schiudendo gli occhi lentamente, come se anche le palpebre le pesassero. Intanto, mentre si cercava una carrozza per trasportarla all'ospedale dei Pellegrini, le applicavano delle pezze bagnate nell'acqua fredda, sulla ferita. - Come state? - domandò il delegato, che voleva procedere all'interrogatorio, vedendo che le forze le mancavano. - Meglio: non è niente. - Chi vi ha fatto questo? - Nessuno, - diss'ella, quietamente. - Chi vi ha fatto questo? Ditelo, tanto lo sapremo lo stesso, - insistette il delegato. - Nessuno, - mormorò Carmela. - Era un dichiaramento, h? Quanti erano? - chiese con forza il delegato, il cui cuore era indurito, ormai. - Non lo so. - Quanti erano? - Non so niente. - Badate che, dopo, vi fo metter dentro! - Non importa, - ella disse, chiudendo gli occhi. - Era per voi, eh, che si sono tirati questi colpi di rivoltella? Per causa vostra? - No, no, - disse ella, dolorando nel volto improvvisamente. - E per chi era? - Non lo so: non so niente, - ella soggiunse, definitivamente, come se non volesse rispondere più altro. Il delegato si strinse nelle spalle, furioso. Ma un altro interlocutore giunse, dalla via dei Ponti Rossi: una donna dal vestito di lana verde tutto orlato color di rosa e dalla baschina di lanetta color granata, dai capelli neri lucidi tirati su, su, e dalle guance cariche di rossetto: era Maddalena, la disgraziata sorella di Carmela. Ella giungeva, affannata, con la fisonomia stravolta, con la pettinessa d'argento che non le reggeva più il cumulo dei neri capelli, con le scarpette di copale tutte impolverate, con un fazzoletto appoggiato alla bocca per reprimere i singulti: e quando vide folla intorno a una persona ferita, si buttò nel gruppo, disperatamente, gridando, scostando le persone, gittandosi alle ginocchia di sua sorella, avendo in quel gesto tutto l'abbandono di un dolore immenso, strillando: - Sorella mia, sorella mia, e come è stato? L'altra aprì gli occhi e mostrò sulla faccia un senso di doloroso stupore: con le deboli mani cercava carezzare i capelli neri di Maddalena, ma le dita livide tremavano: - Come è stato, sorella mia! - esclamava singhiozzando clamorosamente Maddalena, mentre calde lacrime le rigavano le guance e le disfacevano il rossetto. - Così, è stato, - disse Carmela, senz'altro. - Sorella mia, e chi ha avuto il coraggio di farti questo, chi è stato l'assassino, dove sta, dove sta, portatemelo avanti?! - gridava Maddalena. - Cercate di sapere la verità, - sussurrò all'orecchio della mala donna il delegato. E fece cenno agli altri di scostarsi un poco, di lasciare le due sorelle, sole. Ora avevano fasciata la testa della fanciulla, rozzamente, e sotto quella benda il viso sembrava più minuto, più consunto, affilato da una mano diminuitrice. - Sorella mia bella, sorella mia cara, - piangeva Maddalena, sempre inginocchiata, innanzi a Carmela. - Non piangere: perché piangi? - diceva la ferita, con una voce singolare, grave, profonda. - Dimmi chi è stato, - le chiese Maddalena. - È stato per Raffaele, non è vero? Ci è stata una rissa? Ah io lo sapeva, io lo sapeva, e non sono arrivata a tempo! Eh Madonna, Madonna, che non mi hai fatto arrivare a tempo! E debbo per questo vedere una sorella così ridotta! Un lividore si era cosparso sulla faccia della ferita, udendo queste parole, e gli occhi si erano sbarrati. Con un forte sforzo levò un po' la testa e disse a Maddalena, guardandola: - Dimmi la verità… - Che vuoi, core della sorella? - Voglio che mi dici… ma pensa come mi vedi, prima, pensaci… voglio che mi dici tutto… Allora l'altra, caduta in una nuova afflizione, tremò tutta: e tacque. - Hanno fatto un dichiaramento, - pronunziò a stento Carmela, tenendo gli occhi intenti in sua sorella. - Erano otto, erano: e ci stava Raffaele, ci stava Ferdinando l' ammartenato: l'hanno fatto per una femmina… - Madonna mia, Madonna, - seguitava a piangere Maddalena, con la faccia fra le mani. - Chi è questa femmina? - disse la ferita, mettendo le mani sul capo della sorella e quasi forzandola a levare il volto. Quella non fece che guardarla, con gli occhi pieni di lacrime. - Sei tu, sei tu? - disse con voce cavernosa la ferita. E la mala donna si ributtò indietro, levò le braccia al cielo e gridò: - Sono un'assassina, sono un'assassina! Il volto di Carmela si fece terreo; sottovoce, borbottando, come se più la lingua non l'aiutasse, diceva anche lei: - Assassina, assassina. - Hai ragione, hai ragione, sorella mia, sono una infame! - gridava Maddalena, torcendosi le braccia. Subito dopo, tutta la benda da cui era circondata la testa della ferita s'intrise di sangue, largamente: e cominciò a gocciolare sangue dal naso. Il delegato che era accorso, aggrottò le sopracciglia: e fece cenno alla carrozza, che si avanzava per trasportare la ferita all'ospedale dei Pellegrini, di fermarsi. - Sorella mia, perdonami, sorella mia cara, - piangeva Maddalena, stramazzata ai piedi della sedia. Ma quella non udiva più. Le rigava la bocca il sangue che le colava continuamente dal naso, e cadeva sul petto - e il terreo pallore del viso si allargava al collo; gli occhi socchiusi mostravano solamente il bianco, le mani appoggiate sulle ginocchia, raspavano la misera lanetta scura del vestito, come se cercassero, con quel gesto che fa una straziante impressione di terrore e di pietà. A un tratto schiuse la bocca, mancandole il respiro. - Sora mia, sora mia! - gridò Maddalena, comprendendo, levandosi sulle ginocchia, anelando. Ma dalla bocca, violetta già, uscì un altissimo e lunghissimo grido, profondo come strappato dalle viscere, straziante, doloroso come se in esso si unissero tutti i clamori di dolore di una vita, un grido così forte e lugubre che tutto parve si scotesse, intorno, uomini e cose, e che la campagna si scolorisse. La mano destra di Carmela, vagamente, cercò ancora qualche cosa e finì per trovare la testa di Maddalena, su cui si posò, su cui si raffreddò, su cui si gelò. Gelida era la fisonomia della morta: ma oramai tranquilla: e silenziosamente curva, sotto quella mano perdonante, la superstite: e tranquilla, silenziosa, la campagna, intorno.

STORIA DI DUE ANIME

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Sul vestito nero, al collo, aveva quasi sempre una folta cravatta di seta rosa, di seta celeste, di seta lilla, o di merletto crema, che formava un fiocco ricco, ove, volentieri, ella abbassava il volto e immergeva il mento. Pure nella cravatta portava un fermaglio chiassoso, di falsi diamanti. Camminava con un passo particolare, quasi appena toccando terra, ma senza mai correre, anzi con un certo languore: e portava la piccola testa eretta, la bocca sempre un po' aperta, quasi a bere l'aria, come un uccellino. E di uccellino era la sua voce chiarissima, cristallina, con intonazioni curiosamente musicali, con certe sillabe trillanti, certe sillabe cullanti, nel loro suono cadenzato. Per ripararsi contro il freddo della cruda stagione, quella sera, ella portava sulle spalle, sino alla cintura, una mantellinetta di panno nero, con qualche ricamo di giaietto, una povera piccola mantellina, comperata per cinque o sei lire, in un emporio a buon mercato; e, avvolto intorno al capo, uno scialletto di lana nera, a uncinetto. Teneva le mani nascoste sotto la mantellina, con un movimento di freddolosa. I suoi occhi larghi e chiari si fissarono su Domenico Maresca, con vivacità tenera, quasi interrogativa: - Hai da fare, Mimì? Posso restare? - Non ho più da fare, resta. - Hai cenato? - chiese ella, sedendosi, in un angolo, presso la tavola. - Ho cenato. - Prosit ! - E tu, non hai cenato, Gelsomina? - Io non ceno - mormorò ella, crollando il capo, togliendosi i capelli dagli occhi. - Perchè? Non hai appetito? Mammà non ti dà la cena? - Io ho appetito - rispose Gelsomina, piano. - Ma non sempre, ho appetito. Allora, siccome mammà mi dà tre o quattro soldi per la cena, io me li conservo. - E brava! - disse il pittore di santi, con un lieve sorriso. - Hai denaro da parte, allora. - Mai niente! - esclamò ella. ridendo un poco. - Appena ho due o tre lire, io le spendo. - E che compri? - Tante cose! Un metro di setina per farmi una cravatta; un fazzolettino fine; una broscia; un po' di merletto per le camicie. - Ti piace di comparire, eh? - le chiese bonariamente il pittore dei santi. - Assai! - diss'ella, con un lampo schietto di vanità, nei grandi occhi. - Mi piace assai! E non posso comparire: sono troppo pezzentella, Mimì. Una malinconia le velò il delicato viso pallido, una vera malinconia puerile, di bambina delusa nelle speranze e nei desiderii. - Perchè te ne affliggi tanto, Gelsomina? Fai all'amore, non è vero? - Io? Io? - proruppe lei, arrossendo tenuemente, sotto la pelle fine del volto. - Me lo hanno detto - soggiunse lui, per scusarsi, col suo solito tono di bontà. - Si dicono tante cose... - Sono bugie - rispose lei, un po' lentamente, abbassando le palpebre sugli occhi. - Sono tutte bugie. Io non amoreggio con nessuno. - Tanto meglio - disse lui, per conchiudere. Ella fissò di nuovo gli occhi in quelli di Mimì Maresca, quasi aspettasse, con curiosità, con ansietà, un'altra domanda. Ma egli tacque. Non la guardava neppure. Gelsomina ebbe una leggiera smorfia di dispetto sulla bocca. E, dopo un silenzio, si decise lei a riprender quel discorso. - Che ti hanno detto, le male lingue del quartiere, Mimì? Con chi ti hanno detto che io amoreggiavo? - Non vi badare. La gente parla così volentieri! - No, no, me lo devi dire, Mimì. Voglio che me lo dici. - E poi ti dispiaci, eh? - Non mi dispiaccio, se me lo dici tu. La voce della giovinetta era diventata, adesso, malinconica e carezzevole, mentre Domenico Maresca conservava il suo tono semplice e quasi indifferente. - Ebbene, giacchè lo vuoi sapere, te lo dirò. Mi hanno detto, che tu amoreggi con don Franceschino Grimaldi, il figlio della baronessa. Ella scrutò ancora la fisonomia tranquilla, affabile e un poco stanca del pittore dei santi, e invece di rispondere, affermativamente, negativamente, interrogò, a sua volta: - E tu vi hai creduto? - No, - disse lui, con una certa serietà. - Meno male! - Non potevo credere, Gelsomina, che una ragazza buona e religiosa, come sei tu, amoreggiasse con un signore. - Già... - disse lei, dopo una pausa. - Dovrei essere una pazza, a fidare nelle chiacchiere dei signori. - E non le ascolti, non è vero, Gelsomina? - Non le ascolto, Mimì, quando posso - continuò lei, pensosa, esitante. - Non sempre, posso. Certe volte, quando io mi nascondo, mentre passa don Franceschino, mammà mi sgrida. - Mammà? - Eh, si! Dice che è il figliuolo della padrona di casa; che noi siamo dei poveri portinai; che non bisogna essere screanzati; se no, ci mandano via. - E tu che rispondi? - Non rispondo nulla, certe volte. Quando sono di malumore, rispondo male, che non ho voglia di amoreggiare con don Franceschino, per farmi corbellare da lui, e che se si deve mangiare quel pane, io preferisco il digiuno. - E mammà? - Qualche volta mi schiaffeggia. - Per questo? - Per questo. E con un accento semplice e profondo, la ragazza concluse: - Tu lo sai, Mimì, che essa non mi è madre. - Povera Gelsomina! - soggiunse lui, con un accento di vera pietà. La ragazza chinò la fronte e tacque. Aveva disciolto, parlando, il nodo, sotto il mento, del suo scialletto nero e lo aveva arrovesciato sulle spalle. La luce batteva sovra quella massa folta di capelli oscuri, mezzo disfatti sul collo, sovra la metà di un piccolo orecchio bianco appena roseo, ove una grossa pietra verde pendeva, una malachite, e disegnava un profilo abbassato, giovanile, fine. L'uomo, seduto un po' lontano da lei, abbandonava sulla sedia il suo corpo tozzo, così goffo, e sotto la luce vivida le ombre giallastre diffuse sul suo volto, un poco gonfio, scialbo, meglio si vedevano, si vedevano anche le radure dei capelli sulla fronte; e le radure dei baffi che crescevano male, incolti, di un colore biondo biancastro. Pure, gli occhi di Gelsomina, risollevandosi, si fissarono in quelli di Domenico, con un effluvio di simpatia, di fiducia, di speranza. E, ancora una volta, ella parve delusa. Si accorse che, da prima sera, Domenico era profondamente distratto: e che egli aveva dovuto fare uno sforzo, per interessarsi a ciò che ella gli aveva narrato. Gelsomina non disse nulla: un sospiro le sollevò il petto. - È tardi, Mimì - ella riprese. - Che fai tu, adesso? - Chiudo la bottega e vado a casa. - Direttamente? - Direttamente. - E là, che fai? - Mi spoglio, mi corico, dormo. - Hai sonno? Sei stanco? - Spesso la stanchezza non mi fa dormire - replicò lui, con cera turbata, quasi che prevedesse l'insonnia. per quella sera. - E allora, che fai? - Penso. - E che pensi ? - chiese lei, già sorridente. - Alle pecore che hai in Puglia? - A tante cose... a tante persone - mormorò Domenico, quasi dicendolo a sè stesso. - All'oscuro, stai? - No, ho la lampada, accesa, innanzi all'Addolorata. - Io avrei più paura - disse lei, con accento bambinesco e guardandosi intorno - io avrei più paura, con la lampada accesa. Mi parrebbe di vedere delle ombre... - Quali ombre? - Gli spiriti, Mimì, i morti. - Che! - disse lui, come sognando - i morti non ritornano. - Quando ero più piccola, Mimì. io, dopo il rosario, pregavo sempre la Madonna di farmi vedere la mia mamma... sai... quell'altra ... la mamma mia vera... - e i grandi occhi di Gelsomina si fissarono, sognanti, guardando, nell'ombra, verso la strada. - E l'hai mai vista? - domandò ansiosamente Mimì Maresca. - No; mai. - E io neppure, mia madre. - Ma tu non te la ricordi? - chiese ingenuamente la fanciulla. - Non me la ricordo - disse, brevemente, il pittore dei santi. - Io sì, io sì, la mia. - Beata te! - mormorò lui. - Io non ho neppure un ritratto, nella casa mia, che mi pare un deserto. - Chi vi sta? Sola, Mariangela? - Mariangela, nessun altro. Un giorno o l'altro la povera vecchia se ne muore, e un saluto alla compagnia. - E tu... tu... perchè non ti ammogli? Gelsomina si vergognò della domanda, subito dopo averla fatta. arrossi lievemente e strinse la bocca, contegnosamente, per assumere un aspetto serio. - Non vi ho mai pensato... - disse Mimì, semplicemente. - E pensaci! - Nessuna mi vuole: sono brutto: non so dire due parole: tutte mi rifiuterebbero. - Perchè dici questo, perchè lo dici? - protestò lei, fra la collera e la tristezza. - Sei così buono! Sei un santo! Tutte ti vorrebbero! - Tutte, sarebbero troppe - rispose lui con un sorriso affettuoso, innanzi all'entusiasmo della sua amica Gelsomina. Una, basterebbe. - E perchè non la cerchi, Mimì? - Io? Non ho il tempo. Ho da scolpire i santi, ho da dipingere le Madonne. - Non ti occupi che di questo? - Così mi hanno avvezzato - conchiuse lui, malinconicamente. Tacquero, ancora. Ella sollevò lo scialletto sul capo, se lo legò sotto il mento. Era pensosa, di nuovo: incerta, anche, come se volesse fare o dire qualche cosa, e una forza intensa la rattenesse. Si mordette, un istante, il breve labbro inferiore. - È tardi, Mimì, me ne vado: buona notte. - Vuoi compagnia? - No, no. non importa: sono due passi: tutti mi conoscono: buona notte; è tardi: buona notte. - Mammà non ti sgrida, perchè hai fatto tardi? - No: sa che dico due parole con te, dopo la Congregazione. Non mi sgrida mai, per te. Tu sei un santo! La fanciulla puntò le sue ultime frasi di un piccolo riso. ove vibrava un po' di scherno. Mimì parve non avesse udito ed ella, partendo, ora, decisamente, dalla soglia. gli ripetette, con una voce, ove vibrava una tristezza profonda: - Buona notte, Mimì. Si allontanò, la figurina vezzosa, muliebre, nella oscurità della via: i passetti lievi si allontanarono. con un rumore sempre più fievole. Inconsciamente, un sospiro sollevò il petto del pittore dei santi. L'uomo veniva, in fretta, quasi, dal tetro vicolo di Donnalbina, che si distende da via Monteoliveto sino alla piazzetta della Madonna dell'Aiuto: l'aria della notte si era fatta gelida, e, ogni tanto, un rude soffio di vento spazzava la polvere, verso i Banchi Nuovi: l'uomo era chiuso in un pesante cappotto e portava intorno al collo una grossa sciarpa di lana, in cui abbassava il viso, un viso di cui si vedeva bene il colore scialbo, malgrado le ombre notturne. Poi, in piazza, il suo passo si rallentò, divenne incerto: obliquò, a diritta, verso la chiesa della Madonna dell'Aiuto, verso la bottega dei santi, che, a quell'ora, era ermeticamente serrata. Giunto nella viuzza deserta, appena rischiarata, in fondo, da una vacillante fiammella di gas, in fondo, verso santa Maria la Nova, l'uomo si fermò e levò gli occhi, in alto, verso quel lato alto e bruno del grande palazzo Angiulli. Come nelle prime ore della sera, lassù, in alto, vi era un balcone illuminato: ma illuminato senza vivacità, tenuamente, come da un povero lume modesto, che rischiarasse un lungo lavoro, un lungo pensiero, una lunga infermità, qualche cosa di paziente, di costante e di silenzioso. L'uomo, Mimì Maresca, immobile, col volto levato in alto, teneva fissi gli occhi in quella luce quieta e mite, e non pareva si accorgesse del tempo che trascorreva verso la mezzanotte, delle folate di vento che s'ingolfavano dal vicolo nella piazzetta, e che gli sbattevano sul viso, col rigore della tramontana, tutto il pulviscolo immondo della strada, che nessuno aveva spazzata, nella giornata. Un viandante passò, in gran fretta, urtando Mimì Maresca: costui, macchinalmente, si scostò, si appoggiò allo sporto della sua bottega chiusa, senz'accorgersi dello sguardo diffidente che, allontanandosi, lanciò su lui, colui che passava, lo sguardo di chi crede di essere sfuggito a un ladro. Più tardi, lentamente, da san Giovanni Maggiore, si avvicinarono due carabinieri, muti, quasi indifferenti: costoro squadrarono il pittore dei santi che restava addossato alla sua bottega, e senza dirsi nulla, tirarono avanti, ma con maggior lentezza. Egli di nulla si avvedeva, quasi che lo assorbisse il più intenso fra i pensieri che, in tutta la giornata, lo avesse perseguitato, e che fosse stato perseguitato, a sua volta, dal lavoro, dalle visite, dalle cento distrazioni dei fatti e delle persone; un pensiero che, infine, in quell'ora nera, gelida, tacita, della notte, riportasse la sua vittoria sovra ogni cosa, ogni fatto, ogni persona: un pensiero che, nella solitudine della sua triste casa del vicolo Donnalbina, avesse impedito ogni sonno e ogni riposo a Domenico Maresca, lo avesse strappato al caldo, al letto, e lo avesse spinto, a quell'ora, nella via solo, solo, solo, con gli occhi messi in quella luce fioca lontana: un pensiero! E, a un certo punto, quasi che il potere fascinante dello spirito che desidera e che invoca, avesse esercitata tutta la sua misteriosa forza, dietro i vetri del balcone alto, un'ombra apparve, oscurando metà di una impannata. La persona, una donna, era così lontana, che era impossibile discernere nessun tratto. Pareva, solo, che avesse appoggiata la fronte al vetro, poichè vi rimaneva immota, in atto silenzioso, in atto di stanchezza. Non vedeva, ella, certo, nella via, colui che, appoggiato contro il bruno legno della bottega dei santi, vi si confondeva nei suoi panni bruni, nelle tenebre notturne. Non vedeva, certo, che Domenico Maresca tremava, laggiù; le sue labbra, un po' schiuse, pareva che mormorassero incomposte parole, di cui non si udiva il suono; le palpebre battevano sugli occhi immoti. Senza aver visto, certo, l'ombra femminile si arretrò, scomparve. Poi, dopo un momento, anche la tenue luce si spense. E solo, solo, solo, il pittore dei santi, giù, piangeva.

Il maleficio occulto

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Zuccoli, Luciano 1 occorrenze

. - Non andartene così, - dissi, vedendo che la donna si levava, e abbassava il veletto del cappellino - Aspetta ch'io chiami una carrozza. - Ma sono a due passi da casa mia, - ella obiettò. - Non importa; di costui non mi fido. In un istante son di ritorno..... Uscii: il barone seguitava ad essere invisibile; tornai con una carrozza chiusa; ciò era più romantico. La giovine vi saliva qualche istante appresso, ed io, dalla finestra, seguii dello sguardo la carrozza che si allontanava rapida e voltava per via Tornabuoni. - Anche voi siete fraterno, nelle vostre idee, - ella m'aveva detto, stringendomi la mano, e partendo. E il complimento, nello stato in cui mi trovavo, non poteva essere più sarcastico.

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