Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbassato

Numero di risultati: 8 in 1 pagine

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Il codice della cortesia italiana

184486
Giuseppe Bortone 2 occorrenze
  • 1947
  • Società Editrice Internazionale
  • Torino
  • verismo
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Ci si muove dal proprio posto soltanto quando il sipario è abbassato. E non ci si precipita verso l'uscita, specialmente se si è con signore; né ci si accalca allo spogliatoio. Qui, ritirando le proprie cose, si paga la quota prescritta, beninteso anche per le signore che si accompagnano, o si dà una mancia in proporzione degli oggetti depositati e del posto occupato in teatro. Una signora che si è accompagnata a teatro, specie se invitata, si riaccompagna a casa: onere, in verità non sempre gradito ai signori uomini. Se essa dispensa dal farlo, non si insisterà. Se desidera andare in vettura, si cerca questa e si paga la corsa. Se si dispone di vettura propria, salvo casi eccezionali, per i quali bisognerà scusarsi, non si manda a prenderla o a riaccompagnarla, ma si va. Una signora che s'invita da sé potrà essere dispensata dal pagare la sua quota: se lo rifacesse, insisterà per pagare. Va da sé che queste norme subiscono oggi delle profonde modificazioni - nei particolari, non nelle linee generali - perché, essendo le donne un po' da per tutto, si mettono spesso d'accordo, per esempio, con i colleghi d'ufficio; nel qual caso, si fa « alla romana ». In questo caso, specialmente, le signore e le signorine insistano per evitare ai signori uomini la noia e, talora, il supplizio dell'accompagnamento. Credano: per quanto cavallereschi essi sieno, preferirebbero pagar per loro due posti a teatro piuttosto che accompagnarle a casa. E poi, che bisogno c'è? Era doveroso al tempo dei rapimenti briganteschi o romantici, e quando, per la solitudine e per il buio delle vie, si poteva andare incontro a molestie. Ma oggi chi oserebbe dar noia a una donna che vada veramente per i fatti suoi? Senza dire che qualsiasi donna, sol con uno sguardo, può agghiacciare e far fare marcia indietro al piú intraprendente ed insistente dei seccatori. In Italia, all'uscita dal teatro, non usa accompagnare le signore al caffè o al ristorante: altrove, specialmente in Francia, è quasi di prammatica. C'è, in fine, chi, al teatro, si vergogna di farsi vedere « in alto » e preferisce non andarvi. È uno dei tanti indizi della stupidità umana; prima di tutto, perché, al teatro, si va per noi, per un nostro godimento, non per gli altri; il secondo luogo, se c'è della gente che crede di « essere onorata » da una poltrona o da un palco delle file cosí dette nobili, s'accomodi pure; tanto piú se la sua borsa non ne soffre: ma si può anche « onorare » una modesta sedia, o un palco dalla terza fila in su. È forse una colpa, per le persone intelligenti ed oneste, esser povere?

Pagina 195

Se il pelo è abbassato, si batte il velluto con un giunco flessibile e si espone dal rovescio al vapore d'acqua. Per rimettere a nuovo i vestiti, tuffarli e agitarli in un bagno di benzina ; passarli in un nuovo bagno di benzina; se erano molto sudici, in un terzo: avvolgerli in un panno pulito , strizzarli e metterli ad asciugare all'ombra. Per evitare il raccorciamento dei tessuti di lana. - S'immergono in acqua con allume o con acetato d'allumina. Dopo asciugati, s'immergono nuovamente in acqua con fosfato di sodio ; indi, si lavano con acqua e sapone, e si risciacquano. I guanti di pelle si lavano benissimo strofinandoli con un pezzo di flanella impregnata di una miscela fatta, in parti uguali, di sapone in polvere e acqua ossigenata. I guanti lavabili di pelle. - S'infilano e si lavano le mani in acqua tiepida e sapone di Marsiglia. Si risciacquano le mani inguantate in parecchie acque tiepide: nell'ultima, si può aggiungere qualche goccia di glicerina. Si levano i guanti, si sfregano leggermente con uno straccio delicato, s'imbottiscono di ovatta e si sospendono. Non asciugarli al fuoco. Perché la benzina non lasci l'alone, è bene mettervi qualche presa di fecola di patate. Prima di smacchiare è bene far risaltare ed ammollire le macchie, esponendole al vapore acqueo ; ed è bene altresí non bagnarle coll'acqua prima di levarle. Per ben pulire le pellicce, si adopera della crusca fatta riscaldare in un vaso. La si getta sulla pelliccia distesa e si sfrega. Sbattere dal rovescio, spazzolare. Le pellicce bagnate non si asciugano, né si lisciano, ma vanno scosse delicatamente e, lontano da sorgenti di calore, messe ad asciugare nel senso contrario del pelo. Le volpi, per es. con la testina in giú. - Ovvero si stendono e si spolverano di acido borico in scaglie. Dopo alcune ore, si spazzolano delicatamente nel senso del pelo, o basta soltanto scuoterle. Le pellicce chiare si puliscono stendendole su una tavola, spazzolandone delicatamente e accuratamente il pelo, e stropicciando parecchie volte con magnesia calcinata o con creta in polvere. Passarvi poi una flanella morbida e pulita, scuotere la pelliccia e batterla con un giunco fine e flessibile fino a che non vi sia piú polvere. Le pellicce scure si puliscono come le precedenti; soltanto che, invece della magnesia o della creta, bisogna adoperare la segatura di cedro. Contro le tarme prima di riporre le lane, usa spolverarle di borace in polvere; mettere nei sacchi dei rami di valeriana, di ruta, di lavanda, di antropogono; dei fogli di carta assorbente imbevuti in essenza di trementina ; o, qua e là negli armadi, dei pezzettini di spugna imbevuti di essenza di lavanda, o dei sacchettini con della buona canfora: spandere con uno schizzetto, sugli oggetti di lana, pellicce, ecc. un po' della seguente miscela: Foglie di assenzio gr. 15; pepe nero gr. 10; canfora gr. 5; fiori di piretro gr. 5: polverizzare separatamente e mescolare intimamente. Contro mosche e zanzare. - Per evitare che entrino in casa, bruciare qualche granello di benzoino o di canfora, o un cucchiaio di polvere di fiori di piretro, o un cucchiaio di foglie secche di zucca: o avere nelle stanze una piccola spugna imbevuta di essenza di lavanda; o una pianta di ricino coltivata in vaso; o tenere sui davanzali delle finestre delle bacinelle con soluzione di formolo. Per evitare le punture delle zanzare, lavarsi seralmente viso, collo e mani con infusione concentrata di camomilla o con decozione di legno quassio. Per non sentirne il bruciore, schiacciare sulla puntura un fiore di geranio; o toccare con la tintura di iodio, con l'ammoniaca, con l'alcool, con la glicerina. Verdura in sala. - Riempire un piatto di sabbia fine, inumidirla, cospargerla fittamente di semi di crescione. Mantenere la sabbia sempre umida. Lattuga improvvisata. - Dopo aver tenuto per 12 ore i semi di lattuga nell'alcool denaturato, si seminano in terriccio, concimato con calce viva e stereo di colombi. Si innaffia frequentemente e, dopo due giorni, si può cogliere la lattuga. Per prolungare la vita dei fiori, tenerne i gambi in: acqua l. 1, sali d'ammoniaca gr. 5 con un pezzetto di carbone di legna. Lavatura dei capelli. - Prima si spazzolano con cura; poi si lavano con acqua al legno di Panama; infine, si risciacquano con acqua tiepida, in cui si sia messa qualche cucchiaiata di buon aceto. Sudore eccessivo alle mani. - Fare parecchie frizioni al giorno con la seguente miscela: Alcool, gr. 50, glicerina gr. 50, acido salicilico gr. 5, balsamo del Perù gr. 5. Per i geloni. - Se la pelle è soltanto arrossata frizionarla mattina e sera con alcool benzoinato all'adrenalina all'1 %. Se la pelle è lesa, tenere il gelone sempre coperto e mettervi su una pomatina picrica all' 1%. La bowle si prepara mettendo in un boccale, parecchie ore prima di servirsene, del vino bianco, con qualche cucchiaiata di zucchero e qualche bicchierino di cognac. Vi si aggiunge un po' di frutta di stagione: delle fragole, o delle pesche, o delle albicocche, ecc., tagliate in piccoli pezzi (se si adoperano quelle sciroppate, bisogna diminuire la quantità dello zucchero: non manca quasi mai l'ananas) e si mette il boccale in fresco. Al momento di servirsene, nelle famiglie modeste, si aggiunge dell'acqua minerale, anche artificiale e preparata lí per lí; nelle famiglie che possono, si aggiunge una bottiglia di spumante. Si serve in bicchieri col manico, attingendo dal boccale con lo speciale ramaiolino; e si offre tanto nelle ore pomeridiane quanto in quelle serali. Torta imperiale. - Battere bene 6 torli d'uovo: incorporandovi a mano a mano gr. 250 di zucchero, gr. 250 di mandorle pestate fini, un arancio e un limone grattugiati interamente, con la buccia. Aggiungere i bianchi montati a neve, versare in una teglia imburrata e mettere al forno moderato per una ventina di minuti. Spolverare con zucchero vanigliato. Tartufi di città. - Sciogliere al fuoco, con una cucchiaiata di latte, gr. 150 di cioccolata in polvere. Ritirare e incorporarvi successivamente 1 etto di ottimo burro, gr. 80 di zucchero, gr. 60 di mandorle pestate, un pizzico di vaniglina, 2 torli d'uovo. Dopo alcune ore, farne dei tartufini e rotolarli in altra cioccolata in polvere. Noccioline di serra. - Pestare gr. 200 di nocciole tostate, aggiungendovi gr. 200 di zucchero e gr. 200 di cioccolata in polvere: odore di vainiglia. Impastare con 2 bianchi d'uovo, amalgamare, farne delle palline e rotolarle in zucchero cristallino. Liquore di caffè. - A sciroppo fatto con zucchero gr. 300 e acqua gr. 100 aggiungere caffè preparato con acqua gr. 250 e polvere freschissima di moka gr. 70. Completare con alcool a 95 gr. 150. Odore appena di vainiglia. Filtrare. - Di mandarini. - In un litro di alcool a 95, in infusione per 2 giorni, un bastoncello di cannella frantumata, 2 chiodi di garofano, una noce moscata grattugiata e la parte piú superficiale della buccia di 10 mandarini e 2 aranci. Mescolare poi con uno sciroppo fatto con acqua l. 1 e zucchero kg. 1. Lasciar riposare un giorno e filtrare con carta. - All'uovo. - Frullar bene 6 torli d'uovo, finchè divenuti biancastri. Far bollire 500 gr. di latte con 400 gr. di zucchero. Quando questo è perfettamente raffreddato, incorporarlo con le uova. Aggiungere in ultimo, adagio adagio e rimestando, 130 gr. di alcool a 95 e 130 di buon marsala, in cui si sia sciolto un cucchiaino abbondante di zucchero vanigliato. Conserva di caffè. - Par bollire in gr. 1500 d'acqua, per dieci minuti, gr. 300 di caffè macinato. In altro recipiente, far sciogliere a fuoco forte gr. 650 di zucchero solo. In questo zucchero color oro scuro si versa il caffè depurato dei fondi; e siccome lo zucchero si rapprende, lo si lascia liquefar di nuovo a fuoco lento. Raffreddato, imbottigliare: si conserva a lungo: un cucchiaino in una tazza di latte; due in una tazza d'acqua bollente: ottimo dissetante. Liquore di ginepro. - Acquavite litri 1, bacche gr. 75, anici gr. 2, cannella gr. 1 ; far macerare per 8 giorni filtrare e mescolare con sciroppo di acqua gr. 125, zucchero g. 250. Le bacche di ginepro si bruciano anche negli appartamenti che si vogliono disinfettare. Vino chinato. - Si fanno macerare in 50 gr. d'alcool gr. 30 di corteccia di china calisaya polver. per 24 ore. Si aggiunge un litro di buon vino, rosso o bianco. Si lascia il tutto per 10 giorni, agitando ogni tanto, poi si cola e si filtra. Tonico, aperitivo, febbrifugo. - Far macerare per 48 ore in gr. 200 di alcool a 95 gr. 30 di china rossa polv, e gr. 30 di china gialla. Aggiungervi poi due litri di ottimo vino rosso o bianco: lasciare cosí per 10 giorni, agitando ogni tanto; indi, filtrare e imbottigliare. Mandorlata. - Parti uguali di zucchero e di mandorle: queste né tostate né liberate della seconda buccia. Pochissima acqua al fuoco, farvi sciogliere lo zucchero; aggiungere le mandorle e qualche cucchiaino di cioccolatta o di cacao. Far addensare e versare a cucchiaiate su un marmo unto di olio. Biscotti primavera. - Fior di farina 0,200, zucchero 0,125, latte mezzo bicchiere, burro 0,25 (o due cucchiaiate d'olio), la buccia di un limone grattugiata, bicarbonato gr. 5, cremortartaro gr. 5. Impastare, distendere come sfoglia, tagliare e al forno per dieci minuti su teglia infarinata. Torta casalinga. - 16 cucchiaiate di latte, 4 di olio, 6 di zucchero, la buccia grattugiata di un limone, fior di farina quanto basta per composto denso scorrevole. Aggiungere bustina di buon lievito (o 5 gr. bicarb. e 5 di cremortartaro) e al forno moderato in teglia unta. Ponce imperiale. - Mettere in un boccale tre cucchiaini di tè, la parte piú esterna della buccia di un limone, poi il limone ripulito della parte bianca, sbarazzato dei semi, e tagliato in pezzetti: aggiungervi gr. 500 di zucchero. Versarvi sopra un litro d'acqua bollente, coprire e lasciare in infusione per mezz'ora. Indi, passare il tutto attraverso uno staccio di seta o un panno; aggiungere un litro di buon rhum, agitare e imbottigliare. Quando si serve, si riscalda senza farlo bollire.

Pagina 305

Documenti umani

244223
Federico De Roberto 2 occorrenze
  • 1889
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • verismo
  • UNICT
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Egli si era abbassato fino a raccoglierla, bisognava adorare quelle mani che si erano tese verso lei. Che cosa aveva ella fatto per meritare questo premio insigne? Quante la guardavano con invidia gelosa? Non avrebbe egli avute tutte, tutte quelle che avrebbe desiderate? No, egli non ne desiderava nessuna! La morta lo aveva preso con sè.... Come aveva dovuto amarlo!... Più di lei! di un amore più cieco ed assoluto del suo, contro cui la gelosia nulla poteva, che si faceva invece più saldo ora che si vedeva meno apprezzato!... Che cosa voleva dire esser gelosi?... Ella avrebbe voluto amarlo come lei, avrebbe voluto essere lei, sollevarla dalla bara in cui era stata composta, spirarle la sua propria vita, per ridarla a lui, per farlo felice.... Ella se ne sarebbe andata lontano, in qualche parte; o piuttosto lo avrebbe scongiurato di tenerla ancora con lui, in un angolo, per servirlo, contenta dello spettacolo della sua felicità.... No, la morta non era da compiangere; la morta era degna d'invidia! Ella avrebbe voluto essere morta ed essere amata così, di un amore che l'eterna lontananza della persona amata rendeva ancor più potente!... No, la morta non era da compiangere; da compiangere era lui, ridotto a combattere contro tutto ciò che cospirava per portargli via la sua pietosa memoria. Infine, era una colpa se la povera morta aveva ancora un posto nel suo cuore? Come essere gelosa di chi non era più?... Se ella avesse osato!... Gli avrebbe parlato di lei, avrebbe ascoltato tutto ciò che egli le avrebbe detto di lei, avrebbe saputo trovargli un rimedio contro l'infinita amarezza del suo ricordo.... L'uscio si schiuse. Nella semi-oscurità che al sopravvenire del crepuscolo aveva invaso la stanza, ella scorse la figura di Roberto. Prima ancora che avesse avuto il tempo di ricomporsi, se lo vide inginocchiato dinanzi nasconderle la testa in grembo. - Emma! perdono.... Ella lo attirò a sè, lo baciò in fronte, lo accarezzò, passandogli e ripassandogli una mano fra i capelli. - Oh sì, Roberto... povero Roberto mio!... Vi fu un istante di silenzio. La donna riprese: - Senti, Roberto... io vorrei dirti una cosa.... - Ella parlava pianissimo. - Se sarà una bambina... nostra figlia si chiamerà... Bianca.... - O buona!... o Emma mia buona!... Le loro teste si confusero di nuovo. Come era già buio, egli non potè vedere gli occhi di lei, dove luccicavano due lacrime.

. - E scostandosi d'un passo, col cappello abbassato, a voce più forte: - Signora baronessa, faccia una buona passeggiata! Lentamente, la carrozza si allontanò. Il duca di Majoli e il Giussi si avvicinarono. Andrea Ludovisi si mise in mezzo agli amici, e terminando di abbottonare il suo guanto: - Ora - disse - andiamo a vedere le armi.

Pagina 60

Donna Paola

244882
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1897
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
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L'ufficiale svizzero era in uniforme, tutto gallonato, tutto scintillante di oro: ma teneva il capo abbassato sul petto. - Che avete fatto? - chiese ella, duramente. - Sono scappato, signora. Fuggo da tre ore; due ore siamo stati nascosti in una macchia, il mio cavallo e io. - Non avete preso parte alla battaglia? - No, signora, vi dico che sono scappato. - E perchè? - chiese ella a quel colosso. - Perchè avevo paura - disse lui, semplicemente. - Oh! - fece soltanto lei, celandosi il volto per ribrezzo. - Avete ragione - disse lui, umilmente.- Ma la paura non si vince: sono fuggito. - Non vi vergognate, non vi vergognate? - chiese ella, tremando di emozione. Egli non rispose. Si vergognava, forse. Stava buttato sulla sedia, grande corpo accasciato dalla viltà. - E i vostri soldati? - Chissà! - disse il maggiore, levando le spalle. - Chi ha vinto, dunque? - Non lo so. Avranno vinto gli Italiani. - E siete fuggito? - Già. Vi ripeto, avevo paura. Che m'importa della battaglia? Voi dovete salvarmi, signora. - Io? - Sì. Dovete farmi fuggire. Voglio ritornare a Napoli, in sicurezza. Ho famiglia io: ho figli io: che me ne importa di Francesco II? Salvatemi, signora, ve ne scongiuro. - E perchè dovrei farlo? - Perchè siete donna, perchè siete buona, perchè anche voi avete una figlia... e capite... - Siete un nemico, voi, - V'ingannate, sono un disertore. - Ebbene? - Significa che io temo egualmente i Borbonici, come i Garibaldini. Se mi trovano i vostri, sono un nemico e mi fucilano; se mi trovano i Borbonici, sono un disertore e mi fucilano. Ecco perchè vi chieggo di salvarmi. - Se rientrate a Napoli vi fucileranno. - Garibaldi è buono - disse umilmente il maggiore svizzero. - È una vergogna - ripetette lei duramente. - Lo so; ma che posso farci? Salvatemi voi. - Stamane avreste lasciato - morire la mia bambina. - Che potevo fare? - Eppure il re contava su voialtri! Che uomini siete. dunque? - O signora mia, per carità, non ne parliamo; se avete viscere di madre, trovatemi un mezzo per fuggire. - Io non ne ho. - Lasciatemi stare qua, in questa stanza. - Se vi ci trovano, siamo perduti tutti. - È vero - disse lui, dolorosamente. La bambina aveva ascoltato tutto il discorso, guardando ora sua madre, ora il maggiore. Adesso, ambedue tacevano Egli era immerso nel più profondo avvilimento; ella era combattuta da tanti sentimenti diversi. - Ho anch'io un bimbo di questa età - mormorò il maggiore. - Non Io vedrò più, forse. -Aspettatemi qui - disse donna Cariclea; decidendosi. E uscì. Il maggiore si era inginocchiato vicino al letto e aveva baciata la piccolina. Donna Cariclea tardava. Alla fine, muta, lieve come un'ombra, ritornò. Portava un involto di panni: - Smorzerò il lume - disse, con voce breve, superando ogni ritrosia di donna - toglietevi I'uniforme e mettete questi abiti. Così fece. Dopo pochi momenti ella riaccese il lume; il maggiore era vestito da contadino e l'uniforme giaceva per terra. Egli se ne stava tutto umile, tutto contrito. - Bisogna nascondere quest'uniforme e questa spada - disse lui, - trovandosi, sareste perduta. - È vero - disse lei. - Spezzate dunque la spada. Senza esitare, egli tentò di spezzare la spada sul ginocchio. Ma la buona lama resisteva Alla fine, con la tensione dei suoi muscoli robusti, la spezzò. - Scucite i galloni dall' uniforme - ordinò donna Cariclea. Parzialmente, il maggiore strappò i galloni del suo uniforme. Ella raccolse tutto. - Andiamo a buttarli via. Egli la segui per le scale; essa lo guidava con un fioco cerino. Scesero nel cortile macchinalmente, ella buttò i frammenti della spada nel profondo pozzo, che era in mezzo al cortile. Il maggiore sospirò di sollievo. Poi passarono vicino alla conserva dell'olio; ella vi buttò l'uniforme disadorno di galloni. Alla fine, passando presso un mucchio di letame, ella vi buttò i galloni, rivoltandoli con una pala, per farli andare sotto. - Dio mio, ti ringrazio! - esclamò il maggiore. - E il cavallo? che facciamo del cavallo? Se lo trovano siamo perduti. - È vero - mormorò lui. - Bisogna farlo scomparire. Ora lo ammazzo. - Con che? - Non ho armi, è vero. Andarono presso il cavallo. La buona bestia nitrì; il maggiore fremette di paura. Poi, sciolse le redini dall'anello, trasse il cavallo fuori del portone e rinchiuse il portone. Stettero a sentire, il maggiore e donna Cariclea. Per un pezzo il cavallo scalpitò sulla soglia, battè col capo contro il legno della porta; ma poi ne sentirono il galoppo furioso e pazzo per la campagna. - Domani la campagna sarà piena di cavalli fuggenti - mormorò il disertore. - Andiamo su - fece lei. Risalirono. La bimba era sempre sveglia. Donna Cariclea si chinò e baciò sulla guancia la sua figliuola. In atteggiamento confuso il maggiore aspettava. - Sentite - disse donna Cariclea. - Io ho fatto svegliare Peppino, il boaro. È una creatura bestiale, ostinata e fedele. Farà tutto quello che gli ho detto. Ha messo una scala alla finestra del grande salone. Dà sull'orto. Voi scenderete per quella scala; siete forte, mi pare? - Fortissimo. - Bene; andrete a traverso i campi, ma senza affrettarvi, dovrete avere il passo dei contadini che vanno al mercato. Parlate poco con Peppino, i contadini non parlano. Avete i baffi di un signore e di un militare; ecco le forbici, tagliateveli. Egli eseguì senz'esitare. - Bene. Andrete a passare il Volturno, molto al disotto di Capua; là troverete una scafa, passerete il fiume e vi recherete a Napoli. Peppino vi lascerà, tornerà indietro, non dirà mai una parola con nessuno. Noi, probabilmente, non c'incontreremo più. Tanto meglio. Ma se ci dovessimo mai incontrare, badate bene, non mi ringraziate, non mi tendete la mano, non mi salutate, non mostrate di conoscermi. Se lo faceste, vi darei del disertore sulla faccia. Addio, dunque, signore. - Addio, signora. E fece per accostarsi al letto, donde la bimba lo guardava, e voleva baciarla. - No - fece la madre opponendosi. Egli uscì. Donna Cariclea lo sentì scambiare una parola con Peppino che l'aspettava pazientemente, seduto nell'ombra dello stanzone; udì lo scricchiolio della scala sotto quel corpo pesante; udì i due passi quasi allontanarsi. Allora si accostò al letto della sua piccolina, si curvò su lei: - Pensa che questo sia un sogno, Caterina; dimentica, dimentica tutto, piccolina mia.

Pagina 87

Il romanzo della bambola

245582
Contessa Lara 1 occorrenze
  • 1896
  • Ulrico Hoepli editore libraio
  • Milano
  • Verismo
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La bambina aveva abbassato la testa, con tanto di broncio. Voleva vedere Jenny Bilson; voleva un cavallino tutto bianco, simile a quello, voleva! E la Giulia stava lì, buttata di fianco sur un sedile, con gli occhietti mezzo chiusi, come svenuta. - Dov'è la spilla di brillanti? domandò vivamente la signora alla Marietta. Questa prese in braccio la bambola e cercò; cercò anche la madre; ma la spilla non c'era più; s'era perduta là giù nel prato, chi sa dove, in quale urto, in quale spasimo della povera bambola.

Pagina 27

Saper vivere. Norme di buona creanza

248834
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1923
  • Fratelli Treves Editore
  • Milano
  • Verismo
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Il gran velo nero, abbassato, dal cappello, innanzi agli occhi, e alla persona si porta così, per i primi sei mesi: dopo, sino alla fine dell'anno, si rigetta indietro: e ciò serve per le signorine, nel lutto dei genitori, per le maritate nel lutto di marito e di genitori. Nei primi tre mesi di lutto grave, non si apre il pianoforte in casa, nè si prende lezione di canto; basta un mese di questo rispetto, per i lutti meno gravi. La carta di chi è in lutto, i biglietti da visita, saranno sempre listati di nero, per qualunque occasione. Chi è in lutto, uomo o donna, non porta mai fiori sulla persona; non festeggia nè compleanno, nè onomastico; ma può, per lettera, partecipare agli onomastici o compleanni di persone amiche.

Pagina 223

Una peccatrice

249661
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
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Pochi minuti dopo, prima ancora che il sipario fosse abbassato, udì aprire la porta di un palchetto sul corridoio, e dei passi che si avvicinavano, mischiandosi al fruscio d'una veste. La contessa gli passò dinanzi, questa volta allegra e ridente, al braccio di uno di coloro ch'erano stati nel suo palchetto. Pietro in quel momento avrebbe dato dieci anni della sua vita per uno sguardo di quella donna. Le sue vesti lo toccarono senza che ella mostrasse di avvedersi di lui. Solo il conte si volse a fissarlo con occhio assai cupo e sospettoso. Il giovane scese le scale quasi insieme a lei; la vide montare in carrozza col conte, dopo aver dato la mano agli altri, e partire. Egli rimase immobile sul limitare. - Non vai a casa? - gli disse alle spalle la voce di Raimondo. - Sì... ti aspettavo per dirti addio... - A domani, non è vero? - Non lo so... Avrò forse da studiare tutto il giorno... E s'incamminò lentamente per la Marina. A due ore del mattino Raimondo si disponeva tranquillamente ad andare a letto, quando fu bussato con furia alla sua porta. - Chi può essere a quest'ora? - disse fra di se il giovane sorpreso andando ad aprire. - Son io, Raimondo... son io! Apritemi, di grazia! - udì la voce della signora Brusio, quasi delirante dietro la porta. - Che c'è, signora?... Dio mio!... ella mi spaventa! - esclamò il giovane introducendo la madre del suo amico nella sua camera. - Pietro!... Dov'è Pietro? Dov'è mio figlio, signor Angiolini? - disse la povera madre colle lagrime agli occhi. - Pietro non è in casa? - domandò. Raimondo vieppiù sorpreso. - Son due ore del mattino e mio figlio non si è ancora ritirato... Ho mandato il domestico a cercarlo al teatro, e ritornò dicendo che il teatro era chiuso da un pezzo, ma che sulla porta era avvenuta una rissa fra alcuni giovanotti; che vi erano stati dei feriti e degli arrestati... Mio Dio!... gli sarà accaduta qualche disgrazia... Dove lo lasciaste voi?... - Ci separammo all'ingresso del teatro, e mi disse che andava subito a casa... Ma io non so nulla di risse... - Dio!... Dio mio!... - singhiozzò la madre torcendosi le braccia, - come farò, Dio mio, come farò!... Son sola, sig. Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n'è di mio figlio!... Aiutatemi; corriamo all'ufficio di Questura a prendere informazioni... - Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi qui. Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il cappello ed uscì. Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in mente mentre la signora Brusio si disperava per l'inusitata e straordinaria tardanza dl figlio suo, e per la notizia che il domestico le avea rapportato, egli si diresse per la strada Stericorea ed indi per quella Etnea, verso la casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo sotto i veroni, sul marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche cosa di nero immobile sul lastrico. Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a voce bassa. - Che vuoi? rispose una voce rauca e ancora tremante, come se inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe stentato a riconoscere, nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse stata meno famigliare. Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le mani. - Tu qui!... a quest'ora! - esclamò Raimondo. - Che vuoi, ti dico?! - replicò con maggiore asprezza Pietro. Non son forse più padrone di fare quello che mi piace?!... Raimondo capì che quello non era il momento di parlare al suo amico: e sospirando tristamente, poichè allora soltanto scoperse lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si cullava, sedette silenzioso al suo fianco. Pietro rimase muto, come non avvedendosene, cogli occhi, di una sorprendente lucidità, fissi sul lume che brillava dietro le tende di seta del verone. Qualche volta, a lunghi intervalli, egli trasaliva, ed una gocciola, come di sudore, che partiva dall'orbita, luccicava un momento solcando le sue guance. Ad un tratto egli afferrò con violenza il braccio di Raimondo. - Guarda!... guarda anche tu! - disse egli con la voce stridente ed interrotta del delirante o del pazzo. E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino al verone per meglio osservare. - Io non vedo niente, mormorò Raimondo che si fregava gli occhi inutilmente. Pietro, senza rispondergli, gli porse la busta del suo occhialetto che trasse dalla saccoccia del soprabito. - Guarda, ti dico!... c'è da diventar pazzo! Coll'aiuto dell'occhialetto Raimondo vide la contessa, presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona, ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori; ed un uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si chinava verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte. Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorchè il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch'era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa. Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell'astuccio l'occhialetto, disse con tuono di chi prende una risoluzione: - Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia! - Mia madre!... - esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore; mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte. - Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza. - È tanto tardi dunque? - domandò egli come parlando io sogno. - Son le tre fra poco. - Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini! Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto. - Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli! - replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e strascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.

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