Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbassati

Numero di risultati: 8 in 1 pagine

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Come devo comportarmi?

172121
Anna Vertua Gentile 1 occorrenze
  • 1901
  • Ulrico Hoepli
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Ce ne sono che fanno le modestine: tengono gli occhi abbassati ; hanno i capelli lisci, il vestito semplicissimo, un'aria di « non guardatemi che mi profanate » che fa compatire e tiene a distanza. Altre, e sono le più, affettano una disinvoltura, direi quasi un'audacia americana. E ridono e scherzano con i giovinotti, che trattano da compagni, calpestando ogni abitudine di contegno e scandolezzando chi ci tiene alle tradizionali convenienze. Queste signorine non fanno assolutamente nulla di male e forse sono preferibili alle santerelline; ma danno di sè un'idea che non si accorda punto con la loro età e la loro educazione; e allontanano le simpatie vere e sincere che sono quasi sempre il principio di un sentimento più forte.

Pagina 130

Signorilità

198341
Contessa Elena Morozzo Della Rocca nata Muzzati 1 occorrenze
  • 1933
  • Lanciano
  • Giuseppe Carabba Editore
  • paraletteratura-galateo
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Trattandosi di poche persone, la cosa più pratica è usare il tavolino a due piani, scorrevole su rotelle, con chiusura a vetro; i quattro vetri abbassati fanno poi da mensola per posarvi i piatti e i vassoi di tartine e di biscotti. Oppure basta qualsiasi tavolino, purchè sia coperto da una bella tovaglietta. Simpaticissimo è l'accordare la tovaglietta e i tovagliolini al colore dei piatti e delle tazze del servizio da thè: per esempio, il ricamo Assisi in cotone color pavone, s'intona magnificamente alla «Vecchia Savona»; quello in cotone color ruggine ai servizi di maiolica, che ora godono tanto favore; il ricamo colorato alle tazze multicolori di Laveno, una tovaglietta ricamata a fiori o a galletti o a cestini di frutta, alle ceramiche gaje e primitive di Pordenone, ecc. Chi possiede un servizio antico, l'adoperi con cautela, lo lavi di sua mano con acqua leggermente tiepida, tenendo a mente che l'acqua calda ne sciupa specialmente il bordo dorato. Per uso giornaliero la porcellana bianca o con piccolo bordo dorato, resta sempre bella, signorile, ed ha il vantaggio che, incidentalmente rotta, si può sostituire. I piattini per i dolci e la marmellata non debbono essere necessariamente eguali. I tovagliolini bianchi e la tovaglietta bianca vanno sempre, purchè di bucato. Non è consigliabile perdere tanto tempo in lavori che oggi sono di moda e che domani non vanno più, mentre, quando si tratta di cosette spiccie, è simpatico variare bizzarramente, secondo il capriccio del momento. Con il thè si servono latte, cognac e limone. Siccome la maggioranza lo prende con latte e zucchero, certe padrone di casa ne mettono, per semplificare il servizio, in tutte le tazze. Ma è molto più gentile ricordare il gusto delle persone che vengono abitualmente in casa. Ora è invalso uso di porgere un vassoio lungo e stretto, dove ci stia la tazza, la piccola lattiera, o una piccola «alzata» piena di panna, la zuccheriera, e un piattino eguale al servizio con fette di limone. La bottiglia del cognac, che è meno richiesto, può restare sul tavolino pronta e piena. Così ogni invitato, senza scomodarsi e lasciare la sua poltrona, potrà mescersi il thè secondo il proprio gusto. Una cosa è indispensabile: un'occhiata della padrona di casa al tavolino da thè, per vedere che nulla manchi. È così frequente e così antipatico vedere la signora uscire dal salotto perchè non vi sono i tovagliolini, udire uno sbatacchiare di chiavi... o notare assenza del limone o delle molle da zucchero! Conosco un'amica che ha fatto l'inventario di ciò che occorre sul tavolino da thè, lo ha scritto sul rovescio del calendario che tiene sulla scrivania, e lo consulta, prima che le sue invitate arrivino. È un metodo da seguire. Se ci sono parecchi invitati, è più comodo servire il thè in sala da pranzo o nella più modesta stanza da pranzo; però questo richiede preparativi più complicati, e dà l'aria di «ricevimento» vero e proprio. La tovaglia deve essere non di Fiandra, ma da thè, quindi ricamata in bianco o in colore, con applicazioni di merletto ecc.; i tovagliolini devono essere relativi alla tovaglia; ogni tazza deve avere il suo piatto per il dolce o per i dolci, con accanto le posate d'argento o, meglio, di argento dorato proprie per i dolci. In mezzo alla tavola ci deve essere una guarnizione di fiori o di verde. In inverno, però, i fiori sono a prezzi proibitivi e non è sempre possibile recarsi in un bosco a raccogliere dei rami pittoreschi, o dell'edera o del vischio; allora si può fare cosi: si prendono dei vasetti - preferibilmente quelli speciali per guarnizioni di tavola, - vi si mette un po' di terra con la sabbia, vi si seminano delle lenticchie o del miglio. L'effetto degli esili steli bianchi e'vercti è grazioso. Se poi si ha uno specchio da posare nel centro della tavola, vi si fa specchiare una figurina di porcellana, un vasetto di Sèvres, alcuni graziosi cagnetti di «bisquit», oppure una bestiola d'argento, oppure un piatto di Murano con frutte vere o finte, con fiori veri o finti, oppure si comprano dei piccoli vasetti trasparenti di Murano, di forma graziosa, sei per colore e si riempiono di fiori intonati al loro colore. Un giorno, cosi, s'avrà la tavola guernita di fiordalisi, nei sei vasetti azzurrastri; un altro di petunie nei vasetti violacei, un terzo di rose rosa, nei vasetti rosati...

Pagina 113

Mitchell, Margaret

221980
Via col vento 2 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Rossella si sentí ancora impossibilitata a rispondergli; ma avendo riacquistata un po' di padronanza di sé, continuò a tenere gli occhi pudicamente abbassati ma sollevò un poco gli angoli delle labbra in un piccolo sorriso. - Guardatemi. È per il mio denaro? - Oh, Rhett! Che domanda! - Guardatemi e non cercate di imbrogliarmi. Io non sono Carlo né Franco ne uno di quei giovinotti della Contea che si sono lasciati prendere alla pania delle vostre ciglia palpitanti. È per il mio denaro? - Ma..., in parte, sí. - In parte? Sembrò che la risposta non lo irritasse. Respirò ancora rapidamente, e fece uno sforzo per spegnere nei propri occhi l'ardore che le parole di lei vi avevano acceso; un ardore che a lei la confusione impediva di scorgere. - Ecco - cominciò Rossella imbrogliandosi e confondendosi nelle parole - il denaro è necessario... Lo sapete benissimo, Rhett; E Franco non ne ha lasciato molto. Ma poi... noi siamo adatti uno all'altro... E voi siete il solo, fra quanti uomini ho conosciuti, che sopporta la verità da una donna; è piacevole avere un marito che non vi crede una stupida e al quale non occorra raccontare delle frottole... e... sí, Rhett, vi voglio bene. - Mi volete bene? - Oh Dio - ribatte ella stizzosamente - se dicessi che vi amo pazzamente, mentirei; e per di piú, voi non lo credereste. - A volte, gioia mia, ho l'impressione che esageriate nel dire la verità. Non credete che sarebbe piú carino da parte vostra dire: «Rhett, vi amo», anche se non fosse vero? Ella rimase anche piú confusa, non comprendendo dove egli volesse arrivare. Sembrava cosí strano, agitato, irritato, beffardo; lo vide ritrarre le mani da quelle di lei e ficcarle nelle tasche dei calzoni, e si accorse che stringeva i pugni. «Se anche dovessi perdere il marito, voglio dire la verità» pensò allora torva, col sangue in tumulto come sempre quando egli la tormentava. - Sarebbe una menzogna, Rhett; e a che scopo dovremmo dire delle sciocchezze? Vi voglio bene, ve l'ho detto. E voi mi capite. Una volta mi avete detto che non mi amavate perché avevamo troppi punti in comune. Tutti e due furfanti; questa fu la vostra... - Dio mio! - sussurrò Rhett rapidamente volgendo il capo altrove. - Preso nella mia stessa trappola! - Che avete detto? - Nulla. - La guardò e rise; ma non era un riso cordiale. - Fissate l'epoca, cara - e rise di nuovo, chinandosi a baciarle le mani. Ella provò sollievo nel vedere che il malumore era passato, e sorrise a sua volta. Rhett giocherellò per un istante con la sua mano rispondendo al suo sorriso. - Vi è mai capitato, fra i romanzi che leggete, di trovare la vecchia situazione della moglie indifferente che si innamora del proprio marito? - Sapete che non leggo romanzi - rispose Rossella; e cercando di mettersi all'unisono col suo tono scherzoso continuò: - Del resto, una volta mi avete detto che è il colmo del cattivo gusto, marito e moglie che si amano. - Quante cose maledettamente idiote ho detto! - ritorse egli bruscamente e si alzò in piedi. - Non imprecate. - Dovreste abituarvici, e imparare a imprecare anche voi. Dovreste assuefarvi a tutte le mie cattive abitudini. Questo fa parte del prezzo per... volermi bene e mettere i vostri graziosi artigli sul mio denaro. - Sentite: non mettete le cose in questi termini, soltanto perché io non ho voluto mentire allo scopo di farvi diventare presuntuoso. Voi non siete innamorato di me, non è vero? Perché io dovrei esserlo di voi? - No, cara, non vi amo, come voi non mi amate; e se vi amassi, sareste l'ultima persona a cui lo direi. Dio protegga l'uomo che vi ama davvero. Perché voi spezzereste il suo cuore, tesoro, da quella gattina perversa e crudele che siete, cosí incurante e sicura che non si prende neanche il disturbo di nascondere i suoi artigli. La trasse in piedi e la baciò di nuovo; ma questa volta la sua bocca era diversa; sembrava che egli cercasse di irritarla, offenderla, insultarla. Le sue labbra scivolarono sulla sua gola e infine premettero il taffettà sul suo seno, cosí a lungo e con tanta forza che ella si sentí bruciare la pelle. Alzò le mani a respingerlo, con verecondia oltraggiata. - Non dovete! Come osate...?! - Avete il cuore che batte come quello di un coniglio - motteggiò Rhett. - Se fossi presuntuoso, penserei che quei battiti son troppo veloci per un semplice affetto. Lisciatevi le penne arruffate. E smettete quell'aria di verginella. Ditemi che cosa debbo portarvi dall'Inghilterra. Un anello? Come lo volete? Ella ondeggiò un momento fra l'interesse destato da queste ultime parole e il desiderio femminile di prolungare la scena di collera e di indignazione. - Oh... un anello di brillanti, Rhett... molto grosso! - Cosí potrete farlo scintillare dinanzi agli occhi delle vostre amiche povere dicendo: «Vedete che cosa ho ghermito!» Benissimo; avrete un grosso anello, tanto grosso che le vostre amiche meno fortunate potranno consolarsi sussurrando che portare delle gemme cosí grandi non è da signora. Improvvisamente attraversò la stanza ed ella lo seguí stupita fino alla porta chiusa. - Che c'è? Dove andate? - A casa mia, a finire il bagaglio. - Ma... - Che cosa? - Niente. Vi auguro buon viaggio. - Grazie. Aperse l'uscio e attraversò il vestibolo; Rossella lo seguiva, un po' sconcertata come per un mutamento inatteso dell'atmosfera. Egli infilò il soprabito e prese guanti e cappello. - Vi scriverò. Fatemi sapere se cambiate idea. - Non volete... - Che cosa? - Sembrava impaziente di andar via. - Baciarmi come saluto? - Fu un bisbiglio, come se ella avesse temuto le orecchie della casa. - Non vi pare di avere avuto abbastanza baci per una sera? - ritorse egli sorridendole. - Pensare che una giovine donna pudica e bene allevata... Ma non ve lo avevo detto che vi sarebbe piaciuto? - Siete un individuo impossibile! - gridò lei incollerita, senza piú curarsi di essere udita da Mammy. - E se non tornate piú, non me ne importa nulla! Si voltò e corse a precipizio su per le scale, aspettando di sentire la sua calda mano sul braccio per fermarla. Invece egli aperse tranquillamente la porta d'ingresso; una corrente fredda penetrò nel vestibolo. - Ma tornerò - disse soltanto; ed uscí, lasciandola in cima alle scale con gli occhi fissi sulla porta chiusa.

Pagina 817

Melania teneva gli occhi abbassati sulle mani incrociate nel grembo. Ashley sembrava afflitto ma inflessibile. Per un attimo rimase silenzioso. Quindi il suo sguardo si incontrò con quello di Rhett e sembrò che vi trovasse comprensione e incoraggiamento; Rossella si avvide di quell'occhiata. - Non voglio far lavorare i forzati, Rossella - riprese Ashley con voce ferma e tranquilla. - Davvero?! - ansimò Rossella. - E perché? Avete paura che si sparli di voi come si è sparlato di me? Ashley alzò la testa. - Non ho paura di quel che dice la gente, finché sono dalla parte della ragione. E non ho mai creduto che fosse giusto far lavorare i galeotti. - Ma perché... - Non posso guadagnare sulla miseria altrui e sul loro lavoro forzato. - Eppure eravate proprietario di schiavi! - Non erano miserabili. E del resto, li avrei liberati alla morte di mio padre, anche se non li avesse liberati la guerra. Ma questa è un'altra faccenda, Rossella. È un sistema che dà luogo a troppi abusi. Forse voi lo ignorate, ma io lo so. So che Johnnie Gallegher ha ucciso almeno un uomo nel suo accampamento. Forse anche piú d'uno: chi si cura di un galeotto di piú o di meno? Ha detto che l'uomo è stato ucciso mentre tentava di evadere; ma io ho sentito narrare la cosa diversamente. E so che fa lavorare gli ammalati. Chiamatela pure superstizione; ma io non credo che la felicità possa venire dal denaro guadagnato per mezzo dei patimenti altrui. - Per la camicia di Giove! Vorreste dire... Dio santo, Ashley, non avrete preso tutte le chiacchiere del reverendo Wallace per moneta contante? - Non ne ho avuto bisogno. Credevo a tutto ciò molto prima che egli lo predicasse. - E allora secondo voi tutto il mio denaro è maledetto - esclamò Rossella sentendo salire la collera. - Perché ho fatto lavorare dei forzati e sono proprietaria di uno spaccio di bevande e... - Si interruppe. I due Wilkes apparivano imbarazzati e Rhett sogghignava. «Che il diavolo lo porti!» pensò Rossella con ira. «Sta pensando che io mi occupo degli affari degli altri; e anche Ashley lo pensa. Sbatterei insieme le teste di tutti e due!» Ringhiottí la collera e cercò di assumere un'aria dignitosa, ma con scarso successo. - Del resto, non è affar mio! - Non crediate che io voglia criticarvi, Rossella! Neppur per sogno... Ma noi guardiamo le cose da diversi punti di vista; e ciò che è buono per voi non lo è per me. Ella provò improvvisamente il desiderio di esser sola con lui; avrebbe voluto che Rhett e Melania fossero all'altra estremità della terra per potergli gridare: «Ma io voglio vedere le cose come le vedete voi! Spiegatemi, in modo che io possa capire ed essere come voi! Ma in presenza di Melania, tremante per il dispiacere della scena, e di Rhett che sogghignava, poté soltanto dire, con tutta la freddezza e l'aria di virtú offesa di cui fu capace: - Certo è affar vostro, Ashley; e mi guarderò bene dal darvi consigli in proposito. Ma vi confesso che non capisco il vostro atteggiamento né le vostre osservazioni. Se fossero soli ed ella non fosse costretta a dirgli quelle parole glaciali che lo rendevano infelice! - Vi ho offesa, Rossella; e non ne avevo l'intenzione. Dovete credermi e perdonarmi. Non vi è nulla di enigmatico in ciò che ho detto. Solamente, sono convinto che il denaro guadagnato in un certo modo non porti con sé la felicità. - Ma avete torto! - esclamò Rossella incapace di dominarsi piú a lungo. - Guardatemi! Voi sapete come ho guadagnato il mio denaro! Sapete in che condizioni ero prima... Ricordatevi quell'inverno a Tara quando faceva tanto freddo ed eravamo costretti a tagliare i tappeti per farne delle scarpe, e non c'era abbastanza da mangiare e non sapevamo come avremmo fatto per dare un'educazione a Beau e a Wade. Vi ricor... - Mi ricordo - rispose Ashley con stanchezza - ma preferirei dimenticare. - Non potrete dire che eravamo felici allora! E guardateci adesso! Voi avete una bella casa e un bell'avvenire. E vi è nessuno che abbia una casa piú sfarzosa della mia, dei vestiti piú eleganti, dei cavalli migliori. Nessuno ha una tavola meglio servita né offre ricevimenti piú splendidi; e i miei bambini hanno tutto ciò che desiderano. E dove ho preso il denaro per fare tutto questo? L'ho trovato sugli alberi? Nossignore! Il lavoro dei forzati e gli utili dello spaccio... - E non dimenticare l'assassinio dello yankee - fece Rhett soavemente. - È stato il tuo punto di partenza. Rossella si volse verso di lui, pronta a ribattere aspramente. - E il denaro ti ha reso molto molto felice, non è vero, tesoro? - proseguí egli, con velenosa dolcezza. Rossella trattenne le parole che stavano per uscirle di bocca e i suoi occhi passarono rapidamente dall'uno all'altro dei tre interlocutori. Melania era quasi piangente per l'imbarazzo; Ashley era diventato improvvisamente cupo e rinchiuso in sé e Rhett la osservava, fumando, con aria tranquillamente divertita. Ebbe l'impulso di gridare: - Sicuro, mi ha resa felice! Ma non riuscí a pronunciar sillaba.

Pagina 978

Il marito dell'amica

245109
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
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Rileggeva in quei giorni la Parisina, l'Edmengarda, Portia, tutte le storie truci di donne adultere - le leggeva raggomitolata sul divanuccio basso del gabinetto verde mare, coi trasparenti abbassati sulle cortine rosa delle finestre, immersa in un languore pizzicante, pieno di visioni. Il suo piacere maggiore era quello di immaginarsi che fosse veramente caduta; inventava il luogo, il come e il quando. Alfredo le avrebbe detto così e così - ella avrebbe risposto così e così. Chiudeva gli occhi e sentiva nel collo l'alito caldo di Bandini. Si immergeva in quel voluttuoso corrompimento della fantasia fino ad averne le vertigini, e poi saltava in piedi, colle braccia levate gridando: Sono pura! Sono pura! Un po' davvero, un po' affettata, le venne una febbricciuola, accompagnata da dolori reumatici, che la obbligarono a letto; dove Sofia si adagiò rassegnata, circondandosi di una nube di trine, di fiocchi color perla e color cielo appuntati su cuffiette trasparenti; in mezzo a lunghi accappatoi profumati d'ireos, a pezzuole cifrate, e a boccette di aceto aromatico. Il ritratto del suo bambino chiuso in una bella cornice di metallo niellato, con una viola nell'angolo, le stava davanti appeso alla parete. Formava dei progetti seri. Una volta guarita suo figlio tornava a casa; ella stessa se ne sarebbe occupata, sorvegliando i suoi giuochi, l'istruzione e l'igiene; lo avrebbe condotto a fare delle lunghe passeggiate, gli avrebbe insegnato presto che la vita non è altro che un martirio. Se Maria, seduta ai piedi del letto, accennava qualche volta ad un prossimo ritorno in America, ella balzava fuori, avvinghiandosele al collo, supplicandola di non rapirle l'amicizia, il più gran conforto che aveva dopo suo figlio. E Maria restava; presa alle attrattive dell'affetto, della carità; attaccandosi ogni giorno più a quella donna, che avrebbe potuto odiare e che invece amava con un sentimento bizzarro misto di compassione e di abnegazione. Una sera, Sofia dormiva; Maria erasi indugiata più a lungo del solito presso il letto, assorta nelle malinconiche riflessioni che scaturivano a lei da ogni oggetto e dai confronti che le riusciva impossibile il non fare - che faceva anche con una gioia amara, l'unica che le fosse ora concessa. Ella non rifuggiva dai tristi pensieri del suo amore, perchè erano sempre pensieri d'amore, pensieri di Emanuele; e preferiva soffrire con lui odiarlo anche, anzichè liberarsene, dimenticando. Il pendolo si era fermato; Maria non sapeva che ora fosse, ma si alzò sbigottita udendo risuonare nella stanza attigua il passo di Emanuele. Fino a quel giorno ella era riuscita ad evitare un incontro che non credeva pericoloso, ma che trovava della sua dignità l'eludere. Fu dunque con un movimento rapido che aperse l'uscio, decisa di attraversare il salotto senza fermarsi, rispondendo brevemente al saluto del professore. - Maria... - egli disse ponendosele davanti mentre stava per uscire dall'altra parte - Maria, perché fuggite? Era turbato, pallido. Il lume che teneva in mano gli rischiarava tutto il volto, dolcissimo in mezzo alla barba bionda. Maria non trovò una sola parola. - Ve ne prego... Era sempre la sua voce temperata, cristallina; senza effetti di chiaroscuro, vibrante naturale sotto l'impulso del cuore. - È tardi... - Ve ne prego, una sola parola... - Che cosa? Ella ebbe il coraggio di guardarlo, seria, colla fronte alta, mentre il cuore le martellava. Ed egli pure la guardò con tenerezza somma. - Maria, non negatemi il favore di potermi giustificare. - Giustificare? E di che? La durezza dell'accento di lei parve colpirlo; soggiunse con maggior dolcezza ancora, quasi umilmente: - So di avere dei torti agli occhi vostri, ma credetelo, sono torti apparenti, che espio come torti reali. - Non vi ho chiesto delle confessioni. - Permettetemi almeno una discolpa. - A qual pro? Il passato è sepolto. - Siete spietata; non volete neppure conservare una memoria scevra di rancore? - Non ho rancore. - Sì... lo vedo, voi mi credete un vile mentre non sono che un disgraziato. - Vi ingannate; ho di voi la stessa opinione che ebbi sempre... ma lasciamo questi discorsi, a che giovano? Si scostò, facendo un passo verso l'uscio.. Egli la prese per le mani, guardandola supplichevolmente, con una scintilla negli sguardi.. Aveva deposto il lume su di una scansia alta; si trovavano nella penombra dell'uscio aperto, come una volta, quando ella lo aspettava sulla scaletta solitaria e che egli se la stringeva pazzamente al petto. - Ma infine che volete? - mormorò Maria con voce che non era più ferma. Emanuele non rispose subito; solo all'atto che ella fece per sciogliere le mani, una parola gli uscì strozzata dalla gola e la disse a bassa voce, tremando, come un fanciullo che teme di essere battuto. - Vi amo. Maria non gridò, ma ebbe la stessa sensazione come se il fulmine le fosse passato davanti agli occhi; un freddo di paura e di ribrezzo la prese alla nuca, poi una vampa ardente le innondò il volto. Sedette. Egli al vederla così immobile, rigida, che non accennava nè a rispondergli, nè a fuggire, gli si inginocchiò davanti, timido, con le lagrime in fondo agli occhi: - Ascoltatemi, Maria, ascoltatemi per pietà. Sapete che ho passata la vita sui libri, non conosco le frasi galanti che sono come la scherma dell'amore. Altri al mio posto vi parlerebbe con maggior riflessione; io non so neppure quel che mi dica... Comprendo vagamente che dovrei tacere, ma non mi è possibile. Soffro da otto giorni come un dannato. Abbassò la testa sul lembo dell'abito di lei. Maria lo lasciò fare; sembrava pietrificata; cogli occhi sbarrati guardava davanti a sè, come una sonnambula che vede mondi ignoti agli altri mortali. Egli continuò sempre con quella voce che pareva un lamento, dolce, infantile, con una nota scorata di uomo che non spera nulla: Dovrei... no, non recito una parte. Amica mia, ch'io abbia ragione o torto non dico che la verità: è la mia scusa. Piansi tanto dell'abbandono, al quale mi costrinse allora la povertà della mia carriera, che solo oggi comprendo come si possa piangere di più. Tuttavia il tempo aveva cicatrizzata la mia ferita; ve lo confesso... non sono sincero? Mi ritenevo guarito, speravo di avervi dimenticata... il vostro matrimonio vi aveva contribuito moltissimo... ero troppo fiero, troppo onesto per pensare di approfittarne giammai... mi credete nevvero? Disilluso sull'amore e scettico, accettai più tardi un matrimonio di convenienza, fui punito nella perdita delle mie ultime illusioni... Ora vi ho riveduta, e nell'istante che i miei occhi si fissarono nei vostri, tutti questi anni di oblio scomparvero. Io vi ritrovo nel mio cuore così viva come se non foste uscita mai. Ebbene, non mi rispondete? Le labbra di Maria si contrassero a un sorriso strano, spasmodico. Egli le si avvicinò più ancora, senza che ella opponesse nessuna resistenza. - Non avete pietà di me?... Maria si scosse finemente, retrocedendo la sedia: - Pietà, di voi? Di voi? Si arrestò un momento, mettendosi la mano sugli occhi, quasi a persuadersi che non sognava. -E siete voi, Emanuele, che mi chiedete pietà? Voi a cui io la chiesi invano, orfana, abbandonata, struggendomi nel vostro amore? Ma non vi ho io amato fino al delirio, non vi ho dato i più begli anni della mia giovinezza, non ero pronta per voi a qualunque lotta? Voi solo mi respingeste. Che volete adesso? Che posso fare per voi?... Andatevene. L'ira, lo sdegno, il disprezzo fremevano nella sua voce. Emanuele avvilito mormorò: - Non mi perdonate ancora! Ella fece un gesto vivace. No, non mi avete perdonato. Ma che debbo offrirvi per placare la vostra collera? Eccomi disarmato nelle vostre mani; fate di me quello che volete... Colpitemi e sarete vendicata. - Quello che è stato è stato - disse Maria levandosi in piedi - dimentichiamo entrambi. - Null'altro? - Io vi perdono. Poi trascinata da una tenera pietà, soggiunse: - Da lungo tempo vi ho perdonato. Nelle giornate solitarie, in paese straniero, la mente ricorreva volontieri ai dolci sogni del passato. Rifacevo la vostra vita... Quando mancano tutte le gioie si tenta qualche volta la gioia crudele di rimuovere il ferro nella ferita. Io volli immaginarmi la vostra gioventù, atrofizzata da uno scetticismo precoce, rifugiarsi tutta nella idealità dei libri. Con uno sforzo del pensiero vi seguii attraverso i dedali complicati ed aridi dei vostri studi prediletti; a forza di conversare coi morti vi lasciaste sfuggire dalle dita le fila che vi univano ai viventi... eravate vecchio a trent'anni. E quando a voi si confidò il cuore ardente di una fanciulla, trasaliste di quel legger brivido dell'insetto che un bambino trapassa collo spillo, ma la ferita non fece sangue. Voi non sapeste amare. - È vero. Sono un triste scettico che non conobbe della vita altro che il lato cattivo, che non trovò in una felice serenità della mente la fede, che non seppe trarre dall'amore le sue forze maggiori: costanza e sacrificio. Ma questo disgraziato destinato a fare intorno a sé degli infelici, è egli stesso il più infelice di tutti. Se sapeste quante volte invidiai i caratteri caldi e appassionati che attirano le simpatie e che proiettano intorno tanti raggi da illuminare tutto ciò che li circonda! I poeti, gli artisti, i soldati, i martiri, tutti quelli che sorridono, che piangono, che amano, che combattono, essi sono i beniamini della natura. Noi, siamo i reietti. Ma vi è ancora peggio; quando uno dei nostri intorpidito dal lungo sonno, si sveglia, quando dopo tanti anni di tenebre e di negazione scorge improvvisamente la luce e la verità, se vuole rialzarsi, se cerca anch'egli una croce o una bandiera, allora non gli si crede. È un castigo meritato, direte, ma è molto crudele. Un leggero incarnato gli era salito alle guancie; la fiamma che prima gli brillava nelle pupille si era velata di una profonda mestizia. L'orgoglio solo gli impediva di piangere. - Se questa crudeltà esiste, essa non sta in me, ma nella forza di avvenimenti che non posso cambiare. Gli tese la mano, risoluta e calma, padrona della situazione. Egli non osò trattenerla. - Sia. Ma non troverete voi una parola di dolcezza per colui che fu il vostro primo amore? Nel cuore di Maria si combatteva una fiera battaglia; distolse gli occhi da lui: - Dite l'unico. E lo lasciò solo, nella penombra della stanza che la candela illuminava appena.

Pagina 110

L'indomani

246147
Neera 1 occorrenze
  • 1889
  • Libreria editrice Galli
  • Milano
  • Verismo
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Toniolo rifletteva, coi begli occhi abbassati, fissi sulla commessura di due mattoni. Marta intanto guardava il letto, dove aveva dormito la prima moglie, dove la seconda avrebbe raccolto i baci ancora tiepidi avanzati a Giuditta, e le danzavano davanti le parole «come si è consolata di te.» Anche Alberto dunque? Anche lui? I due amici si erano affacciati alla finestra; le loro teste, nella luce crepuscolare, apparivano giovani, quasi somiglianti. Alberto più colorito, più florido, ma egualmente dolce e simpatico all'aspetto. Ridevano. Su quelle bocche i baci di Giuditta erano volati, senza rivalità, stringendo anzi i loro vincoli, mettendo fra loro una cosa comune, imparentandoli. Potevano pensare entrambi, nello stesso tempo, allo stesso oggetto: le spalle o le braccia di Giuditta; intendersi senza parlare, a gesti. Il suo Alberto! Perchè suo? suo e di tutti. Quelle mani lì non avevano abbracciata, stretta, accarezzata Giuditta? e quante altre! Ora lo sapeva; e questa Giuditta era in paese. Quando lei passava al braccio di suo marito, Giuditta poteva vederla, scrutarne il volto e sorprendere i segreti della loro intimità. Avrebbe detto fra se stessa: Ecco Alberto, ha la faccia de' suoi giorni buoni: oppure: non ha la faccia de' suoi giorni buoni. - Me le danno, sai, le trentamila lire? - diceva Toniolo affacciato alla finestra. - Se non me le davano, lasciavo a loro anche la ragazza; non ch'io sia interessato, ma quello che ci vuole ci vuole, e poichè faccio questo sacrificio di mettermi la catena al collo per la seconda volta, qualche compenso è giusto. Si voltò, dando le spalle alla luce, così interessante nel suo pallore di giovanotto linfatico, che Marta non riuscì a mettere insieme quelle parole con quel volto, e stavolta la domanda, repressa prima, le sfuggì: - È molto innamorato della sua sposa? - Oh! innamorato... - fece Toniolo, sul cui volto passarono repentinamente la stanchezza e la vanità delle numerose conquiste - non è poi necessario. - Per lei, forse - interruppe Marta, meravigliandosi ella stessa del suo ardire. - Vedi - disse Alberto in tono conciliante - mia moglie si immagina che quando un uomo sta per ricevere il settimo sacramento debba prepararsi con mortificazioni, estasi, preghiere, ritiro dal mondo, astinenze... - Già, già - esclamò il farmacista ridendo - sono tutte eguali. Non per offenderla, sa? Le chiedo scusa, non per offenderla, ma anche la mia fidanzata mi domanda sempre se l'amo, se amo lei sola, se l'amerò sempre... E non è naturale? - disse Marta con fuoco. Rispose Alberto: - Tanto naturale che non occorre domandarlo. Marta conosceva oramai quell'accento reciso, quella specie di muraglia che suo marito innalzava quando il discorso non era di suo genio. Sentì pure la sua debolezza, la sua solitudine in mezzo a quei due alleati naturali, e allora più che mai vide la intimità di Alberto co' suoi amici, quella grande porzione di vita da cui era esclusa, lei, che aveva creduto, sposandolo, di fondere due vite. Un abisso la separava dall'uomo a cui s'era data, che le era straniero, che non aveva lo stesso sangue, nè gli stessi pensieri, nè la stessa anima, che aveva vissuto trent'anni senza di lei, ch'ella non aveva mai visto piangere, che trovava inutile dirle: ti amo... e un bisogno irresistibile l'assolse, il bisogno di gettarsi nelle braccia di sua madre. I due amici erano usciti dalla camera, avviandosi giù per la scaletta nel tinello. - Badi che c'è un chiodo accanto all'uscio - disse Toniolo gentilmente - l'avverto per l'abito. Sul tavolino, nel tinello, giaceva ancora il ritratto della sposa. Marta lo guardò a lungo, con una malinconica simpatia, e non riuscendo a vincere la tenerezza di cui il suo cuore traboccava, si accostò ad Alberto e gli strinse furtivamente la mano. - Sì, sì - fece egli col tono di chi vuole acchetare un bambino riottoso. In quella entrarono Merelli e il dottorone. - Che bell'incontro! Il volto di Alberto raggiò: - Nido di tortore! - esclamò il dottore. - Fortunato mortale cui è dato abbellire la propria casa con la presenza di una donna! oh la donna!

Pagina 64

La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246928
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Difatti, Gaetanella le rialzò, con le forcinelle invisibili, i capelli abbassati sulla fronte. La fronte, un po' troppo alta, apparve nuda: e il viso lungo di Carmela si allungò ancora. - Quanto sono più brutta, così - ella soggiunse, dopo essersi rimirata, con un accento pieno di sincerità e pieno di amarezza. - Sì, non state bene, così - Ora ve l'abbasso di nuovo, la frangetta. - Non importa - ribattè Carmela, rassegnatamente. - Preferisco non prendere delle sgridate. Mentre Gaetanella, compita la pettinatura, vi ficcava certi spilloni di grezza chincaglieria, false perle, falsi smeraldi, strassi poco scintillanti, Carmela si sogguardò nuovamente e si trovò bruttissima, con quella fronte che le pareva enorme. Non aprì bocca. La pettinatrice aveva finito: tirava, i capelli caduti o strappati, dai denti del pettine, ne faceva un batuffoletto, deponendolo sul piatto della toilette, si soffiava sulle mani, si riavvolgeva attorno alla cintura il suo grembiule bianco. Carmela cavò dalla tasca quattro soldi e glieli dette, in pagamento della sua pettinatura. In verità, Gaetanella si faceva sempre pagare a mese, da tutte le donnette del vicinato, tre o quattro lire il mese, il che riduceva la pettinatura a due soldi il giorno. Ma la ballerina si pettinava da lei, solo nei giorni in cui ballava: e il contratto era diverso. Su per giù, con quindici rappresentazioni al mese, venivano le medesime tre lire al mese: ma la povera corifea preferiva pagare volta per volta, quei quattro soldi non le pesavano tanto. Furlai, il parrucchiere di San Carlo, voleva sei e spesso otto lire il mese: Carmela non poteva, non poteva, non aveva protettore vecchio o giovine. - Domani, a che ora? - chiese Gaetanella, dalla soglia. - Sempre alle due, mi raccomando. - Non dubitate. La porta si richiuse. Carmela andò a guardare l'ora a un vecchio orologio da tasca, di argento, che le aveva lasciato sua madre; erano le due e mezzo. - Doveva sbrigarsi. - Quando vi erano due spettacoli, l'impresario voleva che le ballerine si trovassero in teatro, alle tre, mentre appena cominciava la prima opera in musica; sino alle tre e mezzo, una lira di multa; dopo le tre e mezzo, ritenuta di una giornata. Era una crudeltà tener lì, in quei grandi cameroni nudi, male odoranti, riscaldati dalla fiamma del gas, dove le corifee si vestivano e si spogliavano, a quattro, a otto, a dodici per camera, tre ore prima, tutte quelle che dovevano ballare; ma le proteste, i gridi, la collera erano inutili: col regolamento non si scherzava. Di domenica si entrava in teatro alle tre del pomeriggio, si usciva all'una dopo mezzanotte, tredici ore di fatiche pesanti e di ozii anche più pesanti, chiuse dentro, con quella luce cruda, con tutti quei fiati, con quei pessimi profumi da una lira la boccetta e tanti altri odori più nauseanti. Molte profittavano di un'ora di libertà, fra uno spettacolo e l'altro e scappavano a casa: ma, non era peggio, vestirsi, spogliarsi, correr via, ritornare? Una vita da cani, in carnevale, quando tutti si divertono. Così, con quella monotonia di movimenti che indica una consuetudine oramai invincibile, Carmela mise in una scatola di cartone lunga e stretta le sue gonnelluccie di velo tarlatana, bianche: erano nuove, leggieri, molto sbuffanti, come è sempre il tarlatana, quando si adopera la prima volta; ma alla terza, alla quarta, che appassimento! Vi mise anche le sue scarpette di raso rosa, ohimè, non più nuove, tutte sciupate, portabili solo per pochi giorni, ancora: e costavano quattro lire il paio! Vi unì due o tre vasetti dove restava un po' di cold cream, un po' di rossetto, un po' di cipria: vi depose un piumino spelato e una spelata zampetta lepre. Guardò, se dimenticasse qualche cosa. - Niente altro? No: Niente. Il suo misero bagaglio di ballerina di terza fila, pagata a tre lire e cinquanta il giorno, era al completo, nella sua perfetta povertà. Ebbe un minuto di tristezza, così, improvviso. Pensava a Emilia Tromba che, malgrado fosse una semplice ballerina di prima fila, niente altro che una guida, sol perchè era bella, sfrontata e insolente, portava in teatro un nécessaire di argento con le sue cifre, per la sua toilette: quei vasetti, quelle fialette erano ripiene dei più fini e dei più soavi cosmetici, che Emilia Tromba distendeva sul suo volto ridendo, strillando, bestemmiando, persino, con quella sua voce roca di donnaccia ubbriaca, che contrastava così forte con la beltà pura del suo volto: quel nécessaire, invidia di tutto il palcoscenico, non glielo aveva, forse, donato Ferdinando Terzi? Il gentiluomo dal glaciali occhi azzurri, limpidi e taglienti nel superbo sguardo, che su ogni cosa e ogni persona volgevasi con la medesima indifferenza, aveva fatto quel dono di mille lire, più di mille lire, si dicea, a Emilia nel giorno del suo onomastico, per fare schiattare le altre ballerine. Ma l'ora urgeva: Carmela chiamò il figliuolo del portinaio, un ragazzetto di dieci anni, e gli confidò la scatola. Quel monello gliela portava ogni giorno, a San Carlo e gliela riportava a casa, il dì seguente, per qualche soldino che la ballerina gli donava. Ella si sarebbe vergognata di portare, per Toledo, quello scatolone lungo e leggiero, che indicava la sua professione e avrebbe fatto voltar la gente. Quando il ragazzo fu partito, saltando gli scalini di quel quarto piano a quattro a quattro, Carmela pensando a quelle tredici ore di reclusione, mise in un giornale due fette di pane in cui stava stretto un pezzo del ragout domenicale, da lei stessa cucinato, vi unì una mela rossa e un coltellino, facendone un pacchettino decente; quello lo portava con sè, avrebbe mangiato un boccone, fra uno spettacolo e l'altro, senza uscire di teatro. Andò verso il letto e mentalmente disse un'Ave Maria alla Madonna di Pompei che aveva, a capo letto, tre Gloria Patri a Sant'Antonio di cui era specialmente tenera, per le grazie che fa - tredici al giorno - e si mise in tasca il rosario, per abitudine. Andando a mettersi il cappello, innanzi alla spera, vide una carta, sul piano della toilette. L'aprì; rilesse quella lettera, scritta in uno stile amoroso fra il romantico e il brioso, da Roberto Gargiulo, il Cassiere della casa Gutteridge. Il giovane, in quell'inverno, era stato varie, troppe volte a San Carlo, introdottovi da un amico giornalista: e sentendo che ognuno di quei abbonati alle poltrone aveva la sua innamorata, la sua amante, fra quelle ballerine, udendo tutti quei discorsi di piccoli e grandi don Giovanni, vedendo Carmela danzare, ogni sera, sapendo che non aveva nessuno che la corteggiasse, sapendola molto restìa, ma non totalmente restìa, si era rimesso a farle dichiarazioni amorose, in prosa e in versi - i versi, li copiava qua e là - ad aspettarla, innanzi al teatro, quando esciva. Il suo sogno sarebbe stato di andare nelle quinte, come tanti gentiluomini in marsina, in cravatta bianca, col fiore all'occhiello: ma egli non era che un oscuro impiegato di commercio! Carmela diceva no, sempre, con quel diniego costante e disperato di chi si ostina ciecamente: ma le lettere non le dispiacevano. Ed obbedì a un senso di vanità, mettendosi in tasca la ultima lettera di Roberto Gargiulo, a cui non aveva risposto. Quando avevano un quarto d'ora di riposo, di libertà, le ballerine, nelle quinte, nei loro cameroni, dove si acconciavano, cavavano fuori subito le lettere dei corteggiatori. E alle tre meno venti, puntuale come un soldato, Carmela Minino avendo un po' freddo, sotto la sua mantellina di panno nero, guarnita da una falsa pelliccia nera, tenendo nascosto il pacchetto della sua cena, col suo passo cauto, leggiero, misurato uscì dal portoncino del Vico Paradiso, per andare a San Carlo.

Pagina 87

La ballerina (in due volumi) Volume Secondo

247294
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
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Segretamente, non amava quelle cene notturne, dopo la fatica del ballo, in qualche trattoria di Toledo, dove si trovavano i lumi abbassati e i camerieri sonnacchiosi, dove si incontravano altre ballerine, con gli amanti, altre donnette di genere equivoco con nottambuli ostinati, coppie formate da una lunga e già stanca consuetudine o formate dal caso, in una serata, destinate, queste ultime, a non vedersi più, forse a non ritrovarsi mai più. D'altronde, più la gente la vedeva con Roberto Gargiulo, in quella relazione che egli ostentava con tanta ampiezza, più ella, assai intimamente, ne soffriva di un dolore sottile, penetrante, continuo: faceva la bocca da ridere, la sua fronte restava serena, ma ci pativa mille trafitture interiori. - Dove vuoi andare? - ella chiese, senza dimostrare per nulla la sua tristezza. - Alla Regina d'Italia - rispose Roberto, mentre seguitavano il loro cammino, a piedi, su per Toledo. - Restiamo poco, è vero? - ripigliò lei, con accento affettuoso. - Perchè? Hai sonno? - ...Anche per te; non devi essere presto, domani, al magazzino? - Dimentichi che domani è domenica, Lina? - Ah sì! Hai ragione. E sospirò. Quello che le piaceva, nel suo istinto sentimentale, era di andar a pranzo fuori Napoli, la domenica, in una di quelle piccole osterie di Posillipo, insieme a Roberto: innanzi a quel bel mare napoletano che ella vedeva così di rado, abitando in un quartiere interno e lontano, uscendo solo per andare alla pruova, iu teatro, o alla rappresentazione istessa. Piccole osterie piene di gente borghese e popolana, ignota a lei, essa ignota a loro: nessuno che la notasse, che la riconoscesse, che mormorasse qualche cosa, vedendola passare. Assai meglio le osterie modeste, umili, delle colline napoletane, sul Vomero, sulla collina di Villanova, sul Campo di Marte, dove, addirittura, era un pranzar rustico, fra popolani. Ma Roberto Gargiulo non era sentimentale ed era, sovra tutto, desideroso di compagnie eleganti, o quasi eleganti, desideroso di farsi vedere da coloro che fanno la vita, la notte, giusto per le trattorie di Toledo, dopo i teatri. Ora, con questa cena della sera, la gita dell'indomani sfumava. Gargiulo non aveva molti denari e Carmela Minino si doleva anche di quei pochi che egli spendeva. Per lui, erano molti: e a lei sembravano moltissimi. - Hai fame - le domandò Roberto, con premura. - Sì, sì, abbastanza - rispose lei, per non essere sgarbata. - Ci vogliamo far fare un magnifico arrosto di mozzarelle, Lina: alla Regina d'Italia lo cucinano splendidamente - soggiunse lui, con quel tono importante ed enfatico, con cui qualunque napoletano parla di culinaria. - Già, è vero. Vi sarà la mozzarella? - Vi è sempre. È una specialità. Ieri sera, quando ti lasciai, vi salii un momento, per vedere se vi erano amici... don Gabriele Scognamiglio se ne faceva dare una seconda portata. - Stava lì, eh? - Sicuro. Con una donnetta, una francese. È un vecchio impenitente. Ha denari... è scapolo... allora.... - cercò di spiegare lei, nella sua indulgenza. - Ti ha sempre fatto un po' la corte, non è vero - disse, ridendo, Roberto Gargiulo. - Oh! - esclamò lei e arrossì, sotto il belletto. - Come a tutte le altre... - E tu non gli hai dato retta, come le altre? - No, no - rispose lei, in fretta. - Te lo giuro - soggiuuse poi, guardandolo in viso, con una certa umiltà. - Non giurare. Ti credo. Lo so che sei una buona ragazza. Se no, non ti vorrei bene - concluse lui, fattosi un momento pensieroso. Ella guardò in cielo, mentre continuavano a camminare, in silenzio, verso la trattoria. Era una notte stellata di aprile, già tiepidissima: molta gente circolava per le vie, gli uomini con i soprabiti aperti, le donne avendo allentato le loro giacchette, le loro mantelline, al collo. Erano le ultime sere di spettacolo, al San Carlo: la stagione si era prolungata molto, quell'anno, e il ballo L'Avventura di carnevale aveva preso il posto dell'Excelsior, dato in febbraio. Presto Carmela Minino avrebbe avuto del riposo. Ella lo desiderava e lo temeva, anche, questo riposo; giacchè se rappresentava una vita più tranquilla, era la cessazione di quelle tre lire e cinquanta al giorno. Si parlava di una grande stagione di ballo, al teatro estivo delle Varietà, per giugno, luglio e agosto; qualche cosa avevano detto pure a lei, ma erano state parole in aria. - Fa caldo, stanotte - disse Roberto, mentre arrivavano. - Fa caldo - approvò lei. La loro conversazione, persino nei momenti di amore, si manteneva su questo tono modesto e monotono. Roberto Gargiulo, dotato di quel grossolano e falso brio di certi meridionali, non ne faceva mostra che fra amici, al caffè, al teatro, nella vita di notte: con Carmela Minino egli ridiventava il borghese placido, dall'ingegno lento e torpido: tanto più che la ragazza, piena di buon senso, incapace di dire una cosa scorretta, non aveva nessuno spirito. Ciò, in fondo, faceva piacere a Roberto Gargiulo e lo seccava: privatamente era contento che Carmela fosse una creatura semplice e buona, ma, in pubblico, quando vi erano amici presenti, specie altre coppie di amanti, egli si annoiava che ella non facesse del chiasso, parlando forte, ridendo clamorosamente, dando del tu agli uomini, facendo saltare qualche bicchiere. Per lui, era, certo, un gran vanto e se ne ringalluzziva, di essere stato il primo amante di quella ragazza; avrebbe voluto, però, insegnarle il rumoroso gergo delle ballerine, delle chanteuses, delle altre donnette, quando sono in pubblico. Viceversa Carmela Minino ammutoliva innanzi alle persone e si contentava di sorridere cortesemente, dolcemente. Meno male che aveva un bel sorriso! La trattoria della Regina d'Italia è oltre la metà di Toledo, verso su: è a un primo alto, abbastanza alto, quello che si chiama pomposamente primo piano nobile, qui: ma l'entrata è da un portoncino, nel vicolo Speranzella, che sale verso i quartieri di Montecalvario, borghesissimi quartieri napoletani. È una trattoria di second'ordine, di molto second'ordine, quasi di terzo: essa è frequentata da studenti, quelli, però, che possono disporre di qualche ra, da impiegati, da viaggiatori di commercio, da provinciali di dimora breve o lunga, qui. Vi si paga una lira e cinquanta la colazione, due lire il pranzo: ma, per quel prezzo, dovuto alla concorrenza, vi si mangia bene, relativamente, con abbondanza, i signori studenti, impiegati , viaggiatori di commercio e provinciali essendo molto esigenti. La Regina d'Italia, dunque, è molto popolare e mentre altre trattorie allogate meglio, più nel centro della città, con gli stessi prezzi, languiscono e falliscono, essa mantiene la sua posizione, brillantemente. Giova molto alla sua popolarità l'essere aperta sino ad ora avanzata della notte, cosa che è rara, a Napoli: così che tutti i nottambuli, tutti quelli che hanno una ragazza da portare a cena, tutti i vitaiuoli, giuocatori che hanno vuotato le loro scarselle, giornalisti e reporters dei giornali notturni, delegati di pubblica sicurezza e agenti segreti, affiliati eleganti della mala vita, camorristi di qualità più fine, in soprabito e guanti chiari, tutti, nella sera, nella notte, dànno una capatina alla Regina d'Italia. Spesso, a ora tarda, vi si trova anche qualche gentiluomo elegantissimo, con qualche compagna molto chic: forse è per desiderio d'incanagliarsi un poco; forse, è per cambiare; forse, è per un celato criterio di economia; o, forse, perchè i grandi caffè, i grandi restaurants sono già chiusi. Carmela Minino e Roberto Gargiulo salirono per la scaletta di marmo, non assolutamente pulita, ma passabile, adorna di una striscia di tappeto, in cocco, che si era assai scolorita e sciupata, sotto i piedi degli avventori. Sulla soglia, un grosso e alto uomo si presentò a loro: - Ostricaro! Ostricaro! Volete ostriche? - Vuoi una dozzina d'ostriche, Lina? - chiese, magnificamente, Roberto Gargiulo, con un fare da ricco viveur. - No, no - diss'ella, subito, passando avanti. - Quattro fasolari, signorina; una dozzina di ancini... - diceva ancora, monotonamente, l'ostricaro. Nella prima stanzetta di entrata, che aveva una porta sulla cucina, erano esposte le vettovaglie, sovra una grande credenza di marmo bianco: delle costolette crude, in un piatto enorme; dei polli spiumati e già legati per essere arrostiti; in un grande piatto ovale dei pesci morti, crudi, una spinola, delle triglie, dei calamaretti. E, insieme, dei piatti contenenti un prosciutto cotto, roseo, tagliato a metà e delle salsiccie da cuocersi, contenenti dei latticini, cioè mozzarelle, formaggi freschi e secchi, contenenti frutta fresche e secche: una torta alla romana, cui mancava la metà, faceva mostra di sè, carica di zucchero, gocciolante di crema. Tutta quella roba cruda e cotta doveva eccitare la fame: ma Carmela Minino abbassò gli occhi, passandovi innanzi. - Hai visto, Linuccia? vi erano certe triglie grosse così, un amore. Ce le ordiniamo al pomodoro, eh? - Costeranno... - osò dire lei. - Questo non ti deve importare - replicò lui, subito, un po' sdegnato. - Questa sera si fa festa. - E sì, sì, ordina pure - soggiunse presto, lei, che non voleva contraddirlo. Le sale della Regina d'Italia sono come un budello, una dopo altra, quattro o cinque sino all'ultima, più grande, che sbuca su Toledo. Roberto Gargiulo lasciava andare avanti, per galanteria, la sua amante e la seguiva, col suo passo elastico di uomo abituato a quei posti, a quelle compagnie, a quelle cene; attraverso quelle sale, tutte stuccate di bianco, mobigliate di reps rosso, con certi divani, lungo il muro, innanzi ai quali erano collocate le tavole, divani lunghi e stretti, molto duri e, insieme, molto sfiancati per le migliaia di persone che vi si erano sedute da anni, con certi specchi dalle sbiadite cornici di oro, Gargiulo sogguardava, qua e là, se vi fossero altri vitaiuoli, sue conoscenze, se la gente lo guardasse e lo ammirasse, con la sua aria di finto gran signore, il suo panciotto bianco sotto il thait, la sua catena di oro, e la catenella di argento, dalla tasca del panciotto in quella dei pantaloni, per sostenere le chiavi e il lapis, ultima moda inglese. Nella prima sala, non vi era nessuno. Nella seconda, un solo tavolino occupato, da un marito e una moglie, certo, di provincia, che dovevano aver assistito a uno spettacolo teatrale; il marito aveva condotto la moglie colà, per darle un'idea delle ebbrezze cittadine; nella seconda, due tavolini occupati, da un giovanotto biondo e fine, venticinquenne, con una ragazza vestita vistosamente, la gonna di un colore, il busto di un altro, un fiocco di un terzo colore al collo, un cappello bizzarro, e le mani rosse e nude, una sartina, o una modista, certo, di quelle che si acconciano coi ritagli delle stoffe che rubacchiano alle clienti - l'altro tavolino da Rosina Musto, la zitellona quarantenne, brutta ma simpatica, goffa ma ballerina provetta, col suo antico e costante amatore, don Pasquale Sambrini, il negoziante di generi coloniali. Mentre Carmela passava, Rosina Musto le fece un cenno affettuoso di saluto. - Sta sempre con Sambrini - mormorò Roberto Gargiulo. - Si dice... si dice che siano sposati, in chiesa - osservò Carmela Minino. - Oh! - esclamò lui diventato freddissimo. Eran fermi, nel salone , l'ultimo, il più vasto, che formava angolo, avendo una finestra sul vicolo Speranzella e due balconi sulla via Toledo. Roberto non cenava che lì. Egli cercava, con gli occhi, quale tavola dovesse prescegliere. Si decise per una, situata giustamente nell'angolo, fra la finestra e il balcone. Mentre si sedevano, il cameriere rianimò i becchi del gas. Carmela, macchinalmente, si tolse la giacchetta di panno, a taglio maschile: apparve con un vestito di casimiro lilla, guarnito di velluto lilla alla cintura, al collo e alle maniche: un dono di Roberto, stoffa, guarnizione, fodera, ella avendone pagato solo la manifattura, giacchè non accettava mai un soldo, in denaro, da lui. Anzi, quelle dodici lire di manifattura le erano pesate abbastanza: ma non aveva detto nulla, poichè egli era stato così gentile e generoso! - Perchè non hai messo il cappello nuovo? - chiese lui, che la esaminava attentamente. - Si sciupa tutto, in quel teatro... - ella rispose, vagamente. - Qui non siamo in teatro - osservò l'amante. - Non sapevo... non sapevo che saremmo venuti. Ella era alquanto cambiata, nell'aspetto. Anzi tutto, un tempo, prima di uscire da teatro ella si strofinava sempre il volto per toglierne le traccie del rossetto e dei cold cream; ora, per desiderio di Roberto, espresso più volte, ella si rifaceva il viso, prima di venir via, giacchè egli odiava le facce pallide e opache come la sua: pure gli occhi erano sottolineati dal kohl, sebbene non ne avessero bisogno e le labbra erano vivificate dal lapis di carminio. A lui piaceva, perversamente, di mostrarsi con una giovane molto imbellettata, sempre tendendo a far prendere la povera, semplice timida corifea di terza fila, per qualche donna di grande vita di piacere, carica di cosmetici: ed egli stesso le portava tutte quelle pomate, quegli unguenti, quelle polveri. Ella aveva un paio di guanti portabili, una catenina d'oro con la crocetta, al collo, un paio di orecchini, falsi - ma bene imitati - di brillanti, alle orecchie. Tutto lui, le aveva dato, man mano, dispiacendosi di vederla con le mani nude, senza un ornamento al collo, senza orecchini: erano guanti di fondo di bottega, a una e cinquanta il paio, la crocetta con la catenina era di argento dorato, gli orecchini costavano quindici lire: ma egli se ne teneva, come se accompagnasse una donna coperta da mezzo milione di diamanti. E al lume del gas Carmela Minino si mostrava sotto il suo nuovo aspetto: bizzarramente imbellettata, meno brutta, un po' più piacente, conservando di sincero solo i suoi ricchi capelli neri e un sorriso dolce, assai dolce: le mani, malgrado la glicerina, erano restate brunastre, magre, con le traccie delle fatiche materiali che ella compiva, da anni, in casa sua. Roberto l'aveva pregata di togliersi i guanti meno che poteva; tanto più che non aveva potuto ancora regalarle nessun anello. Erano appena seduti, che entrò una altra coppia, nel salone: era un giovane signore dell'aristocrazia napoletana, un transfuga e un degenerato, veramente, che aveva mangiato al giuoco e con le donne tutta la sua proprietà; egli aveva dato l'ultimo colpo alla sua fortuna con Lodoiska, una chanteuse che portava un nome russo, ma che era genovese: ora, senza un soldo, egli viveva sempre con Lodoiska, alle spalle di lei, anzi si annunziava, dappertutto, il loro matrimonio. I suoi parenti lontani, poiché Placido Massamormile non aveva parenti vicini, facevan di tutto, perché egli lasciasse Napoli, non potendo sopportare tanto obbrobrio. Placido Massamormile era piccolo, asciutto, molto ben fatto, bruno, con capelli e baffi nerissimi, una fisonomia orientale, ma senza mollezze di linee: Lodoiska era alta, bionda, formosa, rosea, con certi begli occhi celesti, ma di cui uno, disgraziatamente, era storto. Ella vestiva di rosso, con un gran cappello bianco, coperto di piume bianche, sulla testa, e aveva un paio di orecchini, almeno di duemila lire, alle orecchie. Roberto Gargiulo e Massamormile si salutarono: Roberto arrossì dal piacere, tanto teneva al saluto delle persone nobili, anche se fossero corrotte e perdute come Placido Massamormile. Carmela e Roberto mangiavano in silenzio un piccolo antipasto banale, di sottaceti, burro e alici: Lodoiska, al solito, con voce bassa, sorda e roca, si disputava con Placido. Ella lo sopportava, adesso, anche povero in canna, anche squalificato, messo al bando da tutte le persone per bene, lo sopportava perchè Placido Massamormile era sempre una buona insegna per una donna come lei, perchè non aveva altri in vista, in quel momento, e perchè, forse, lo amava un poco. Ma si litigavano sempre, irritati ognuno dalla propria condizione, non sapendo come uscirne, Placido col suo fare beffardo e sprezzante, sprezzante anche di sè stesso, Lodoiska con la sua trivialità di chanteuse grottesca, abituata alle smorfie, agli urli, ai salti. Si vedeva che Placido Massamormile sotto quella bella maschera di arabo smarrito in Italia, sotto quell'aria ironica e superba, soffriva di quel contatto, di quei litigi, di quelle scene: e lei ne godeva, invece, più rotonda, più rosea che mai, col suo terribile occhio azzurro che guardava da una parte, mentre l'altr'occhio guardava dall'altra. Invero Roberto Gargiulo invidiava Placido: che era mai quella piccola pecora taciturna di Carmela Minino, innanzi a quella chanteuse che possedea, dicevano, trecentomila lire non guadagnate col canto e che, forse, si sarebbe fatta sposare da un nobile? La meschinità, la grettezza della sua conquista amorosa, ogni tanto, umiliavano profondamente Roberto Gargiulo e gli facevano gittare degli sguardi indifferenti, talvolta astiosi, su Carmela Minino. Comprendeva ella? Forse. Da che Lodoiska era entrata, ella aveva curvato il capo, teneva gli occhi abbassati sul piatto, faceva meccanicamente delle pallottole di mollica: giungendo, così, a irritare sempre più il suo amante che avrebbe voluto vederla tutta lieta, scintillante negli occhi, brillante nella voce e nella parola. - Che hai? Che ti è successo? - le domandò, duramente. - Niente... niente - ella disse, levando gli occhi, un poco sgomenta. - Tu mi sembri un convoglio funebre - soggiunse lui, anche più annoiato dal vederle gli occhi pieni di lacrime. - Era meglio che ti avessi condotta a casa. - Io... io non volevo venire - balbettò lei, soffocando un singulto che le rompeva il petto. - Ci penserò bene, un'altra volta - concluse lui, con secchezza, dandosi accuratamente a liberare la triglia dalle sue spine. Tacquero. Per frenare le lacrime, le palpebre di Carmela battettero, due o tre volte: ella giunse a comporre il suo viso: finse di mangiare, disinvoltamente. Del resto, altra gente entrava. Era Carlo Altamura, un usuraio a giorni, a ore, che esercitava il suo ufficio strozzatorio nelle case da giuoco, dove faceva firmare delle cambiali di ventiquattr'ore ai giuocatori, facendo mettere firme false, facendo firmare delle implicite dichiarazioni di truffa, di furto, tendendo, infine, ogni tranello ai poveri giuocatori disperati e appassionati: era Gaetano d'Amora, un grosso e grasso reporter di giornale notturno, una figura di monaco sfratato; era, infine, tutto solo, senza compagnia di donne, don Gabriele Scognamiglio, il galante, ricco e popolare farmacista di via Pignasecca. Questi tre erano giunti insieme: Altamura, perchè i suoi tetri lavori notturni erano compiuti, per quella notte: Gaetano d'Amora fra una gita e l'altra alla questura e al giornale: e don Gabriele per abitudine, per vizio, non potendo andare a dormire senza cena, senza veder donnette a cenare, magari non con lui, preferendo reggere il moccolo alle coppie degli innamorati, anzi che non avere lo spettacolo dell'amore. Con la sua barbetta bianca bene tagliata e profumata, con le sue guancie colorite e i suoi occhietti maliziosi, elegantemente vestito, col fiore all'occhiello, con due fulgidi anelli di brillanti alle mani, con un bastone dal manico d'argento cesellato, col suo passo ancora fermo malgrado i cinquantacinque anni molto suonati, egli godeva, nei teatri, nei caffè, nei ritrovi notturni, presso donne giovani e vecchie, attrici, ballerine, chanteuses, creature dallo stato civile impreciso, una popolarità, invincibile. Appena entrato, egli aveva salutato affettuosamente Roberto Gargiulo e Carmela Minino, inviando loro quasi un cenno di benedizione. Poi, vi fu un cambio. Gaetano d'Amora aveva chiamato un minuto, in disparte, Roberto Gargiulo e man mano lo aveva condotto fuori il secondo balcone di Toledo, a parlottare: cortesemente, don Gabriele Scognamiglio si era subito avvicinato a Carmela Minino, per non lasciarla sola. - Oh donna Carmelina nostra, voi diventate sempre più bella - le disse, a voce bassa, con un sorriso sulle labbra. - Sono belli gli occhi vostri - rispose, con la frase consuetudinaria simbolica napoletana, Carmela. - Oh io son vecchio, son vecchio, donna Carmelina! nessuno vuole più saperne di me. - Non dite questo... non è vero, cavaliere. - E voi, forse, mi volete? Non mi avete sempre detto no? E invece, come tutte le altre, avete preferito il giovanotto. Egli sogguardava verso il balcone, cautamente, con finezza, parlando piano, con un amabile sorriso. Ella lo guardava, arrossendo, impallidendo, non avendo il coraggio d'interromperlo, poichè quel vecchio ricco, generoso, bene educato, dalle avventure fantastiche, le faceva soggezione. - Che ci trovate, in quel giovanotto? Gli volete molto bene, proprio molto? - chiese don Gabriele, sempre più aggressivo. - Oh! - esclamò lei senz'altro, turbatissima. - Vi dà molto danaro forse? E dove lo piglia? - Niente danaro, niente! - replicò lei, subito, con un moto d'ira e di fierezza. - Non vi offendete, perdonatemi donna Carmelina. Allora vi fa morir di fame? Per i suoi belli occhi? Qualche regaluccio, null'altro, ho capito! E voi ci rimettete anche qualche soldo... Ella tremava di sgomento, poichè tutto quello che don Gabriele diceva era crudele, ma vero, poichè le sembrava un delitto non difendere Roberto Gargiulo, poichè le pareva ben brutale che le si potesse parlare così, da quel peccatore che non si voleva pentire; tutto era vero e tutto era così doloroso, per lei, che ella si appoggiò alla sedia, come se mancasse. - Non vi affliggete, donna Carmelina, non vi voglio vedere così triste - soggiunse il farmacista. - Ma ve lo dico da vero amico, quale vi sono, perchè vi ho conosciuta da bambina e perchè siete una brava ragazza... Ella gli rivolse uno sguardo supplichevole. Don Gabriele ebbe l'aria di non notarlo e proseguì: - Ve lo dico schietto: un giorno o l'altro, Roberto Gargiulo vi lascia. Forse il giorno non è lontano... - Forse il giorno non è lontano... - ripetè lei, macchinalmente, come se ciò rispondesse a un suo intimo pensiero. - E che fate, allora? Chi vi trovate? Chi chiamate, donna Carmelina? - Chi trovo? Chi chiamo? - replicò lei, smarrita. - Vi trovate il vostro vecchio amico Gabriele, che non ha ventott'anni, che non ha i baffetti in aria e la scrima all'imperatore, ma è una persona seria, donna Carmelina. Chiamate don Gabriele e don Gabriele vi risponde, col saluto militare: presente! E coronò con una bella risata il suo discorso, poichè Roberto Gargiulo si riavvicinava, con la sua aria d'importanza. Anzi, osservando che Carmela era scomposta nel viso, evidentemente commossa, don Gabriele si lanciò in un discorso, frammezzato da risate: - Caro, caro Gargiulo, giacchè scortesemente avevate lasciata sola questa bella ragazza, io, da fedel cavaliere, sono venuto a tenerle compagnia... - E le avete fatto la corte? - disse, briosamente, Roberto, ricominciando a cenare. - Già, gliela faccio sempre. Stasera più che mai. - E con che risultato, cavaliere? - A mia vergogna, lo confesso, con nessun risultato - disse, sghignazzando, l'antico peccatore. - Voi mi mortificate, cavaliere... - mormorò Carmela che era già rimessa dall'emozione, ma restava imbarazzata. - Tenetevela cara, questa donnetta, Gargiulo, vi vuol bene: vi adora: è un mostro di fedeltà. Nulla ha potuto smuoverla. Io sono un vecchio birbante, ma lei è un angelo! E malgrado il leggiero tono d'ironia che era in queste parole, malgrado la loro esagerazione, Roberto Gargiulo si ringalluzzì. Quando don Gabriele Scognamiglio si fu allontanato per andare a cenare, soddisfatto di quel che era riescito a dire a Carmela, Roberto le stese la mano sulla tavola e le toccò, con una carezza, la mano. - Ti chiedo scusa, se sono stato maleducato, poco fa. - Non importa, non importa - diss'ella, di nuovo molto commossa. Quando salì le scale di casa sua, di quel quarto piano nel vicolo Paradiso, tutta sola, la ballerina abbassava il capo, ansando per una pena fisica e morale e il fiato le sibilava fra i denti stretti. Sotto il portoncino di casa sua, come ogni volta che l'accompagnava, dopo cena, Roberto Gargiulo le aveva domandato di lasciarlo salir sopra, un poco, non per tutta la notte, per una mezz'ora. E lei, ostinatamente, aveva rifiutato. In casa, no! Da che si era data a Roberto Gargiulo e la gente, purtroppo, lo aveva saputo, ella si vergognava immensamente dei suoi vicini, dalla fruttivendola rabbiosa che aggrottava le ciglia, vedendola passare, e faceva esclamazioni apertamente maligne, alla carbonaia, che seguitando a sferruzzare sulla sua calzetta, cRollava la testa malinconicamente, da don Santo il panettiere, che dava grandi colpi di coltello per tagliare i grossi tortani di pane, dicendo: che siamo noi, che siamo mai, noi, al giovane vinaio, figliuolo della Sangiovannara, che le aveva tolto il saluto. Persino Gaetanella la pettinatrice, adesso che ella si pettinava ogni giorno, veniva da lei a bocca stretta, con parole caute e sottolineate, con qualche allusione alle giovani che si rovinavano, sul teatro e via: e infine il suo portinaio, quello di cui essa più aveva scorno, che la guardava con un certo sogghigno strano, ogni volta che ella usciva a ora insolita. In casa, no, mai! Si vergognava di tutto quello che vi era dentro, della Madonna sospesa a capo letto, delle reliquie di sant'Antonio di cui era tanto devota, di tutto quello che le rammentava la sua giovinezza ancora casta, ancora pura. Non esprimeva nulla di ciò, a Roberto, per paura che si burlasse di lei; ma si ostinava a non volerlo, in casa. La stanza era così miseramente arredata, malgrado le sue fatiche per tenerla pulita, che una fiamma le saliva al viso all'idea che il suo amante, così pretenzioso sullo chic, volesse penetrarvi. Quella sera, anche, egli aveva insistito, presso lei, infastidito di doverla vedere, da solo a sola, in un alberghetto di terz'ordine, verso la ferrovia, una locanduccia detta La bella Napoli, come se ella fosse una donna maritata, con un marito geloso: infastidito, anche, senza volerlo dire, di dovere spendere qualche lira, per questo convegno, quando ella era sola in casa, e con cinquanta centesimi dati al portinaio, costui avrebbe taciuto. - No, no, no - aveva replicatamente risposto lei, con la cocciutaggine dei timidi, dei paurosi. Quella sera istessa, Roberto Gargiulo le aveva offerto di farle cambiar casa, di affittarle una stanza mobiliata, in un'altra via, in un altro quartiere, dove nessuno la conoscesse; offerta già fattale altre volte, ma sempre vagamente, senza mai fissarne i termini. Ella aveva sempre rifiutato: e, in fondo, Roberto Garginlo sarebbe stato bene mistificato, se ella avesse accettato. Una stanza mobiliata, almeno quaranta o cinquanta lire al mese; spesa insopportabile al bilancio del giovane cassiere: e, insieme, tanti altri obblighi, una serva da pagare, il portinaio da compensare, e le padrone di casa corrompitrici e avide, e il vincolo con Carmela fatto più saldo, più forte da questo cambiamento di vita, da lui voluto. Così, per scimmiottare il gran signore, egli aveva pronunziato, due o tre volte, questa frase: felice di non essere preso in parola. Ella non aveva voluto, seria, con quel senso di economia rigorosa che le veniva dalla povertà, con quel senso di conservazione di tutte le creature semplici, che amano la loro vecchia strada, la loro brutta casa, i loro cattivi vicini. Pure, ogni volta che non lo lasciava salire in casa, Roberto Gargiulo andava via in collera. Sicuro di esser adorato da Carmela Minino, sapendola obbediente a ogni suo cenno, certissimo di tenerla soggiogata sotto il fascino del suo amore, della sua generosità - non le faceva sempre dei regalucci? - questa ribellione lo indignava. - Dunque, ti vergogni di quel che hai fatto? E perchè lo hai fatto? - la investiva, arrivando alle ingiurie. - Perchè... perché... - diceva lei, cRollando il capo, misteriosamente. Giunta innanzi alla sua porta e avendo aperto, senza togliersi nè il cappello, nè la giacchetta, all'oscuro, con la fioca luce che veniva dalla finestra, donde erano chiusi solo i vetri, ella si lasciò cadere sopra una sedia, che aveva urtato col piede, e si nascose il viso fra le mani. Ella sapeva che, adesso, Roberto Gargiulo se ne tornava alla sua casa, sull'altura di San Potito: e che, dormitovi su, non avrebbe più pensato alla loro lite, piccola del resto. Ma essa, sola, all'oscuro, si sentiva così miserabile, così perduta, così disperata, che si chiese, ad alta voce, come se vi fosse un'altra persona: - Ma che ho? Che mi è successo? Ah pensando, pensando, in quella ombra, in quel silenzio, in quell'ora alta della notte, ella lo vedeva bene, quello che le era successo! Le era successo che aveva commesso il suo primo e il suo grande errore, quello che non si ripara mai più, quello per cui solo Dio, forse, può aver misericordia, commesso non per passione, non per amore, non per vanità, non per interesse, ma perchè era una creatura fiacca e senza volontà, incapace di resistere, incapace di reagire: aveva offeso il Signore e la Madonna, aveva addolorato la benedetta anima di sua madre che era, forse, in Purgatorio, si era perduta nell'opinione della gente onesta, non si poteva più confessare, non si poteva più comunicare, così, così, senza una ragione forte, possente, che la scusasse, che le servisse di compenso. Ella era molto legata a Roberto Gargiulo per gratitudine delle sue gentilezze, della sua bontà, dei doni che le faceva, ella avrebbe fatto per lui ogni sacrificio, per mostrargli la propria riconoscenza, ma volergli bene, come si vuol bene a un amante, questo non lo sentiva. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perche l'ho fatto? Nella notte che si faceva più fredda, in quella stanza in cui aveva battuto i denti tutto l'inverno, sotto le sue grame coverte, ella rivolgeva a sè questa frase che, tante volte, nelle dispute, era proferita da Roberto: e niuna risposta ne veniva dai recessi oscuri della sua anima, dove, pure, qualche cosa di profondo viveva. E come se ne era pentita, subito dal primo momento, si pentiva quella notte, di ritorno da quella cena alla Regina d'Italia, quella cena che ella aveva inghiottita di traverso, fra quella gente curiosa notturna, con quelle pretensioni, quei malumori, quegli sgarbi di Roberto Gargiulo, con quel terribile discorso di Don Gabriele Scognamiglio, il discorso in cui le si rivelava, limpidamente e crudamente, l'errore passato e il dolore futuro. Forse che Roberto Gargiulo veramente era innamorato di lei? Non era ella brutta, malgrado la gioventù, malgrado i begli occhi neri e i bei capelli neri, e Gargiulo non era, forse, un bel giovane e aveva avuto delle altre amanti, almeno come diceva lui, centomila volte più belle di lei? Che ci poteva trovare in lei, Roberto Gargiulo? Per questo la obbligava a caricarsi le guancie di belletto, e tingersi gli occhi e le labbra, a riempirsi di gioielli falsi, a lavarsi le mani con la pasta di mandorle, perchè la doveva trovare rozza, comune, brutta, servile. L'amava Gargiulo? Ma che! ma che! Ella non era di quelle donne cui si vuol bene: la fortuna d'ispirare un grande amore, almeno un amore forte, non le era riserbata. Ciò era fatto per le prime ballerine, per le comprimarie, per quelle felici di prima fila, che sanno ballare bene, che hanno le gonnelline sempre fresche, i bustini di raso sempre nuovi, le mani bianche della donna oziosa e qualche bel gioiello, al collo: non era ella una infelice ballerina di terza fila, perduta fra le sorelle Musto e Marietta Sanges, fra Filomena Scoppa e Checchina Cozzolino, portando delle gonnelle appassite, dei calzari sdruciti e niente al collo? Gargiulo, amarla? Ma che! - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Ella se ne pentiva amaramente. Le gioie fisiche dell'amore nulla avevano detto al suo temperamento abituato alla castità: ella le subiva senza mormorare, come una punizione del suo peccato: in certi giorni le davano una ripugnanza invincibile. Sentimentale, di quella piccola sentimentalità meridionale, ella avrebbe voluto che Roberto Gargiulo le scrivesse sempre delle lunghe lettere, come le prime, che le trascrivesse dei versi, da qualche libro, che le portasse dei fiori, che le dicesse tante dolci parole, che le facesse tante carezze, soavi e pure: e lui, invece, avendo preso una ballerina per amante, riteneva inutile, oramai, tutto questo che si fa con le signorine per bene, con la fidanzata e assumeva un tono disinvolto, superiore, cinico, di persona rotta alla vita. Sì, le faceva dei doni: una quantità di cose, che le mancavano, di cui aveva sentito molto la mancanza, poichè sono necessarie alla vita, gliele portava lui, col suo contegno bonario e largo di persona generosa. Ella aveva dei fazzoletti di falsa battista, delle calzette di mezza seta, una sottana di surah, comperata di seconda mano: qualche gioielletto di poche lire, lo aveva. Le aveva dato il vestito lilla, per Pasqua, e gliene prometteva uno di setina, a righe bianche e nere, per l'estate. Egli spendeva, per le piccole cene, per le piccole colazioni, per le carrozze: forse, ella gli costava già tre o quattrocento lire, in due mesi di relazione. Ma Carmela stessa, non era costretta, dalla sua relazione, a una quantità di cose che non avrebbe mai fatte? Non cucinava più da sè, per non rovinarsi le mani, come egli diceva: e aveva una servetta, cui dava otto lire il mese. Non aveva dovuto spendere in un paio di scarpini, in un busto nuovo, in quella giacchetta che un sarto le aveva fatto, a credito, pagando due lire la settimana? Ora, ai 15 maggio quando ricorreva il compleanno di Roberto, ed ella lo sapeva, non doveva ella disobbligarsi, facendogli un dono, spendendo almeno una trentina di lire in un portasigarette d'argento? Egli era un giovine così innamorato dello chic! Ella si trovava singolarmente spostata, in finanze. Di solito, nei quattro mesi in cui San Carlo era aperto, con quelle centocinque lire mensili, ella faceva delle economie, le quali, in estate, insieme a qualche scrittura a Bari, a Caserta, a Reggio, dove le davano un paio di lire al giorno, l'aiutavano a vivere. Ora, da due mesi, non faceva più un soldo di economia: aveva speso tutto, per figurar bene, con Roberto: e aveva anche qualche debito, il che la faceva tremare di dispiacere. Tutte le sue abitudini erano mutate: ella non dormiva più quanto le serviva per riposarsi, mangiava dei cibi che le facevano male, ad ore insolite, era tormentata sempre da una grande fretta. Nei crepuscoli liberi, non andava più al vespero nella parrocchia dei Pellegrini; per la messa aveva cambiato chiesa, lasciando Io Spirito Santo per la Madonna delle Grazie, dove niuno la conosceva. Non indossava più lo scapolare della Vergine del Carmine, sua patrona, invocata in ogni momento di pena di tristezza: si era tolto dai fianchi il cordone di Terz'Ordine di san Francesco, poichè non si credeva più degna ne dell'uno, nè dell'altro. Viveva in istato di peccato: in quella Pasqua di risurrezione non aveva potuto comunicarsi. Dio è misericordioso, Dio perdona, Dio assolve: ma bisogna uscire dal peccato, ed ella vi era dentro. - Perchè l'ho fatto, dunque? Perchè l'ho fatto? Se vi pensava, innanzi, nell'avvenire imminente, ella tremava di ribrezzo, di sgomento. Quanto poteva durare, questa relazione con Roberto Gargiulo? Ella lo sentiva, non legato a lei, non preso con l'anima e coi sensi; ma lusingato nell'amor proprio maschile per aver sedotto una giovane che si era mantenuta onesta, sino allora, malgrado la povertà e malgrado le insidie del palcoscenico; accarezzato nelle sue fantasticherie di piccolo impiegato di commercio, spostato nel voler fare la vita di piacere del signore; ma tutto contento, esteriormente, nella sua vanità meridionale di andar a teatro la sera, per sorridere ostentatamente all'amante ballerina, che, arrivando innanzi alla ribalta, ballando, con tutta la sua fila, ostentatamente lo saluta e gli sorride. Egli era gentile, ma non tenero; egli era galante, ma non amoroso; egli era facile al dono, ma al dono che serviva a lui, che doveva farlo figurare come un uomo largo, spendereccio, spensierato, non al dono pratico, utile, dell'amante provvido e innamorato. D'altronde, spesso Roberto Gargiulo aveva dei mutamenti di umore che Carmela Minino osservava subito e di cui non domandava conto, con la sua timidità abituale, ma che la turbavano molto. Si mostrava pensieroso, preoccupato. Talvolta usciva in escandescenze, contro la umiltà della sua condizione, mentre egli era nato con istinti principeschi, con gusti di uomo raffinato: parlava dei ricchi, specialmente del suo principale, che era già milionario, con dispetto, con rabbia. Spesso nominava la cifra di danaro che gli era passata per le mani come cassiere, con una intonazione bizzarra, che faceva rabbrividire di un'ignota paura la sua amante. Spesso, taceva. Ella sapeva che nel magazzino inglese erano molto buoni, molto cortesi, non a parole soltanto, ma anche a fatti, con gli impiegati, pagandoli bene compensandoli per il lavoro soverchio, dando loro delle belle gratificazioni quando le chiusure d'inventario erano brillanti, ma che, in cambio, domandavano intelligenza, zelo, solerzia, integrità, correttezza, buoni costumi. Roberto Gargiulo le aveva nascosto che, nel passato, egli aveva avuto varii freddi richiami, circa la sua condotta privata, dal capo della casa; pure, qualche cosa di ciò Carmela Minino aveva intravvisto, da qualche frase sfuggitagli. Subito, Roberto Gargiulo, che prometteva di mutar vita, faceva due o tre mesi di astinenza, nel senso che andava poco a teatro, non si faceva vedere con donne, non frequentava le trattorie e i caffè notturni. Poi ricominciava. Adesso, da più di due mesi, egli si faceva vedere dappertutto con Carmela Minino, con un contegno di uomo superiore, di mondano lanciato nella esistenza più ardente dei piaceri, infischiantesi della casa inglese, del suo rigido capo. Pure, talvolta, aveva dei lunghi minuti di silenzio. Forse spendeva troppo, anche. Aveva qualche economia, ma doveva essere finita da un pezzo. Su che spendeva? Qualche giorno diventava avaro; non prendeva neppure una carrozzella per mezza corsa, per risparmiare i sette soldi, non entrava, con Carmela, in caffè, contentandosi di pagarle un bicchiere di acqua e sciroppo dall'acquafrescaio, spendendo un soldo. Aveva, dei debiti, forse, di già. E ripensando a tutte queste cose, che notava ogni giorno, senza che neppure una le sfuggisse, sentendo che il suo errore pesava egualmente sulla vita di Roberto Gargiulo, come sulla sua, ella affannosamente, si chiedeva: - Perchè l'ho fatto? Perchè l'ho fatto? E la ragione intima, profonda, segretissima che era chiusa in un recesso oscuro della sua anima, ella non voleva dirla nè ad altri, nè a se stessa.