Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 6 occorrenze

Aveva fatto questo conto freddamente, tenendo gli occhi abbassati, ma con una chiarezza non consueta nel suo bizzarro parlar misterioso. Il marchese Carlo Cavalcanti annuiva col capo, a ogni nuova spesa annunciata dall' dall'assistito, rovandola ragionevole. -… E per voi? - chiese, dopo aver contate le quaranta lire nelle mani di don Pasqualino. - Sapete che non ho bisogno di niente, - disse quello, schivandosi. - E quando ci vediamo? - Domattina, dopo la mia veglia, se lo spirito i lascia vivo. Venerdì scorso mi bastonò talmente, che mi sentivo morire, - disse con enfasi, ma a bassa voce, l' assistito. Io fido in voi, - mormorò il marchese Carlo Cavalcanti. - Fidiamo in lui, ribattè l'altro, fervidamente, mostrando il bianco degli occhi. - Pregatelo, pregatelo, - scongiurò il marchese. Si lasciarono, dopo che il marchese ebbe strette due dita molli e umide, che don Pasqualino gli stendeva. De Feo risalì verso Tarsia, Cavalcanti discese verso Toledo: andava al Banco lotto numero 177, all'angolo del vico Nunzio, dove era tenitore del banco il bel don Crescenzo dalla barba castana, e dove giuocavano Cavalcanti e i suoi amici. La bianca bottega, sulle cui mura da poco era stata passata la calce, divampava di luce: tre becchi a gas erano accesi, in tutta la loro forza, sul grande banco di legno, ad alta graticciata di fil di ferro, che tagliava in fondo la bottega, andando da una parete all'altra. Dietro questo banco, seduti su tre alti seggioloni, di fronte a tre sportelletti aperti nella graticciata di ferro, lavoravano don Crescenzo e i suoi due commessi, i giovani, osì chiamati, malgrado che uno, don Baldassarre, avesse settant'anni e un'aria così decrepita che pareva avesse un secolo, malgrado che l'altro avesse uno di quei visi scialbi, dalle linee e dalle tinte indefinite, che non hanno età. Tenevano innanzi squadernato un grande registro, detto a madre figlia, ioè col duplice polizzino giallo: vi scrivevano sopra i numeri con una grossa penna, a tre punte, per avere una calligrafia molto forte e molto chiara: e scrivendo due volte i numeri, li ripetevano macchinalmente, si vedevano le loro labbra agitarsi, pronunciando le cifre: poi tagliavano il polizzino con un colpo secco delle grandi forbici che tenevano a destra, rapidissimamente lo passavano, per farlo asciugare, nell'arena nera contenuta in una scodella di legno, e lo consegnavano al giuocatore, dopo averne ritirata la moneta. Don Crescenzo conservava la sua bell'aria contenta, di soddisfatto mangiator di maccheroni, sorridendo nella sua barbetta nera, mentre il vecchissimo don Baldassarre, così curvo che pareva gobbo, col naso adunco, che pareva gli piombasse nella bocca rincagnata, sulle gengive senza denti, lavorava con molta flemma, e don Checchino, lo scialbo scrivano, scriveva correndo, per finire, per andarsene. Quando il marchese Cavalcanti giunse, verso le nove e mezzo, la bottega era piena di gente che giuocava. Il giuoco comincia debolmente la mattina del venerdì, nel pomeriggio va crescendo, e nella sera diventa una fiumana. Il marchese di Formosa fece un cenno, e don Crescenzo, premurosamente, aprì la porticina del banco e gli porse una sedia. Il venerdì sera il marchese Cavalcanti lo passava lì, in un cantuccio, seduto, guardando tutta la gente che giuocava, volendo eccitarsi in quello spettacolo ed eccitandosi fino a un grado forte di esaltazione. Egli aveva in tasca la sua giuocata, coi denari: ma non la faceva mai appena entrato, delibava questa voluttà, lungamente, guardandola delibare, di un tratto, a cento e cento altri. Folta di gente, la bottega: vi si entrava dalle due porte spalancate, una in via Toledo, una nel vicoletto del Nunzio, e la fiumana si avvolgeva e si svolgeva, continuamente, venendo a battere contro quel bancone di legno, unto da tanti contatti umani. La folla era di tutte le condizioni, di tutte le età, con tutta la varietà dei volti umani, belli e brutti, sani e malaticci, lieti, dolenti, stupefatti, ebeti, una folla venuta da tutte le strade, là intorno, dalle Chianche della Carità e dalla Corsea, dal Chiostro San Tommaso di Aquino e dal piccolo rione del Consiglio, da Toledo e dal vico San Liborio. Certo, a poca distanza, in giù, a via Magnocavallo, vi era un altro Banco lotto; a poca distanza, in su, in via Pignasecca, ve ne era un altro, di Banco lotto; e sempre, nel raggio circolare di due a trecento passi, ve ne erano degli altri, di Banco lotto, tutti aperti, tutti fiammeggianti di gas, tutti riboccanti di gente: ma se il venerdì sera e il sabato mattina, per le vie principali di Napoli, si aprisse un Banco lotto, ogni tre botteghe, tutte queste botteghe della popolarità della fortuna avrebbero la folla. Del resto, anche i Banco lotto hanno la loro simpatia e la loro antipatia, fruiscono della impopolarità o della popolarità: e quello del vico del Nunzio, come quello in piazza Plebiscito, come quello della Strada Nuova Monteoliveto, godevano una grande reputazione di fortuna. Vi si erano guadagnate somme enormi: e molta gente, quindi, si muoveva di lontano, per giuocare proprio lì la lira, le cinque lire, le cento lire. I tre gruppi di gente, innanzi ai tre sportelli del Banco lotto di don Crescenzo, si confondevano in un gruppo solo, fluente e rifluente, sempre: e il marchese di Formosa, col cappello messo un po'indietro, con la nobile fronte scoperta, su cui compariva qualche stilla di sudore, guardava questo spettacolo, con gli occhi incantati, tenendo, fra le gambe, la sua mazza di ebano. Ogni tanto, riconoscendo una persona amica o conoscente, innanzi a uno dei tre sportelletti, gli occhi scintillavano di soddisfazione, lusingato profondamente che la sua passione fosse la passione di tante altre illustri e buone persone. Spalancava gli occhi, per vedere tutto, per abbracciare quel quadro sempre cangiante, tendeva l'orecchio per cogliere tutti i dialoghi, tutti i soliloqui, - poiché spesso i giuocatori di lotto parlano da soli, ad alta voce, e anche in pubblico, - per udire fra i tanti numeri pronunziati, quali più fittamente ritornassero sulla bocca di tutti, per poterli giuocare nella serata o all'indomani. Faceva caldo e la luce era forte, in quella piccola bottega piena di gente: ma il marchese di Formosa provava un benessere singolare, un senso pieno e largo di vitalità, sembrandogli di essere ringiovanito, nel trionfo della salute e della forza. Intanto la folla non diminuiva, cresceva. Mentre innanzi allo sportelletto dello scialbo don Checchino lo scrivano, un gruppo di studenti tumultuava, strillando i propri numeri, ridendo e dandosi degli urtoni; allo sportello del vecchissimo don Baldassarre, innanzi alla minuta folla, erano due o tre forti giuocatori, che giuocavano filze intere di numeri, arrischiandovi diecine e centinaia di lire, che il commesso scriveva lentamente, flemmaticamente, rileggendoli, prima di consegnare i polizzini; e allo sportello di don Crescenzo, dove il lavoro i sbrigava più presto, la scena mutava ogni minuto, l'impiegato succedeva al soldato attendente che era venuto a giuocare i numeri pel colonnello, l'operaio torvo lasciava il posto alla nutrice contadina dalla faccia stupida, la vecchia pinzocchera si ficcava dietro il magistrato in ritiro, e tutti avevano o un'estrema parlantina, o un'aria estatica, o un profondo quasi doloroso raccoglimento. Giusto, don Domenico Mayer, il misantropo vice-segretario all'Intendenza di Finanza, ora stava fermo innanzi a don Crescenzo e con gli occhi bassi, con voce cavernosa, gli veniva dettando dieci terni, terni secchi, su cui don Domenico Mayer giuocava audacemente due lire per terno, per prendere diecimila lire, salvo la ricchezza mobile. Al terzo terno, domandò, trucemente: - Quanto è la ricchezza mobile? - Tredici e venti per cento, - rispose, ridacchiando, don Crescenzo, la cui mano bianca e grassa di lieto divorator di pasta al pomidoro, aveva una quantità di gesti eleganti. - Governo mariuolo! - esclamò una voce stridula, dietro don Domenico. Era il lustrino Michele che aspettava, per fare la giuocata piccola del venerdì sera: la giuocata grande l'avrebbe fatta al sabato mattina, quando donna Concetta, la strozzina, gli avrebbe prestato le quaranta lire. Intanto provava il gusto di stare là, di attendere il suo turno. Al settimo terno secco, don Domenico spiegò la sua giuocata: - Non m'importa di vincere l'ambo, quindici lire non mi fanno niente. - Già, - disse il compiacente don Crescenzo. Prese le venti lire dell'impiegato, gentilmente piegò i polizzini, e glieli consegnò. Già, rizzandosi sulla punta dei piedi per arrivare allo sportello, il gobbo sciancato dettava i suoi numeri, e a ogni biglietto dava la spiegazione. - Questo lo giuoco da ventidue anni… questo è il terno di padre Giuseppe d'Avellino… questo è l'ambo della giornata… questo è il terno del morto ucciso in piazza degli Orefici… Ma erano piccole giuocate, in tutto sette ad otto lire: e quelli che aspettavano dietro a lui, s'impazientivano. Invece, da don Baldassarre il quasi centenne, per una singolare attrazione, si fermavano i giuocatori di grosso. Ninetto Costa, elegantissimo, con la marsina che s'indovinava sotto il soprabito, col gibus messo un po'di traverso sulla zazzeretta arricciata e profumata, coi denti bianchissimi che comparivano nel sorriso delle rosse labbra, aveva consegnato una lista allo scrivano, e fumando un avana, disinvolto, sempre allegro, si prestava gentilmente alle domande di don Baldassarre, che, non meravigliato delle grosse giuocate, ma per precisione, si faceva ripetere le somme arrischiate: - Al primo biglietto settanta sul terno, venti sulla quaterna? - Sì, - e gittava uno sbuffo di fumo odoroso. - Al secondo terno secco, centocinquanta? - Centocinquanta. - Al terzo, tutto il bigliettone, uecentoquaranta lire? - Duecentoquaranta. Il marchese Formosa che aveva scambiato un sorrisetto con Ninetto Costa, tendeva l'orecchio a udir le cifre, e trasaliva, punto da una lieve invidia, rimpiangendo di non aver tanti denari da giuocare. E quando udì la cifra totale, milleseicentocinquanta lire, e vide Ninetto Costa cavare lietamente questa somma e consegnarla a don Baldassarre, impallidì, pensando quanto si potea guadagnare con tal rischio. Quasi soffocando, uscì sulla porta, a prender aria; Ninetto Costa ve lo raggiunse e ambedue guardarono Toledo, e la sua folla, e i suoi mille lumi, senza vederli. - Siete fortunato, - balbettò il vecchio nobile. - Avete denaro… - Se sapeste, - disse l'altro, sottovoce, diventato grave improvvisamente. - Ho impegnato dei gioielli che ho pagato ventimila lire, e non ne ho avuto nemmeno cinquemila: il Monte di Pietà diminuisce i suoi prestiti il venerdì e il sabato, tanta è la roba che s'impegna… - Che importa? Vincerete! - disse il vecchio, roteando gli occhi esaltati, alla visione della vincita. - Lunedì ho la liquidazione in Borsa, ventimila lire di perdita, non ho un soldo in saccoccia. Se non prendo, ove batterò la testa? - E avete buoni numeri? - chiese con ansietà. - Ho giuocato tutto: Pasqualino de Feo ha voluto cinquanta lire per ingraziarsi lo spirito, mi ha dato tre terni, due ambi e un situato quella ragazza popolana a cui fo la corte, - le ho regalato un orologetto, - mi ha dato certi numeri, ma sotto simbolo: avrò indovinato? Poi i numeri della cabala che facciamo in comune: poi quelli del ciabattino di Marzano, l'avvocato…che so io? So che se non vinco, marchese, una grossa somma, debbo fallire, - e la voce dello spensierato agente di cambio ebbe un tremore tragico. - Vado a ballare, buona sera, - disse poi, riaccendendo il suo avana. E si allontanò, col suo passo svelto. Esaltato da quel dialogo, il marchese di Formosa rientrò nel botteghino del lotto. Ora, innanzi a don Checchino, lo scrivano pallido e floscio, appoggiata col gomito al piano del bancone, Carmela, la sigaraia, che aveva dato per dieci lire i suoi orecchini a donna Concetta l'usuraia, fiaccamente, a pause, veniva dettando i numeri, giuocando tre o quattro biglietti popolari: - Sei e ventidue, giuocatemi mezza lira; otto, tredici e ottantaquattro, due soldi per l'ambo, otto per il terno; otto e novanta, ambo, altri quattro soldi… - Spicciati, spicciati! - gridò una voce di donna impaziente. E si fermava, ogni tanto, come se altri dolorosi pensieri se la portassero via, e una fiamma saliva a colonne le guance delicate. E quando don Checchino le fece il conto, quattro lire e otto soldi, ella cavò il rotoletto dei denari di rame, e si mise a contare, lentamente. - Spicciati, spicciati! - gridò una voce di donna impaziente. Ella si voltò e riconobbe la donna, una serva vecchia, donna Rosa, quella che serviva nella casa, dove stava la disgraziata sua sorella, e parlarono sottovoce. - O donna Ro'… e come sta Maddalena? - Bene sta: tribolata: ha mandato a giuocare questo biglietto: anzi lo hanno giuocato in tre ragazze… Siccome vi è stato un ferimento, per disgrazia… - O Gesù! Dio la benedica, povera sorella: e voi, fino qua venite? - Abito alle Chianche e torno a casa. - Salutatela, Maddalena, - mormorò appassionatamente Carmela. E stringendosi nello scialletto, se ne andò, crollando il capo, quasi una infinita stanchezza la vincesse. Le succedette, accanto a Rosa, la serva delle povere infelici, il barone Annibale Lamarra, grosso, smorto, ansante della sua affannosa passeggiata a piedi, da un Banco lotto all'altro. Egli giuocava molti biglietti da venti, da cinquanta, da cento franchi l'uno, ma temendo di essere spiato dall'avara sua moglie di cui mangiava la dote, malgrado le orribili scenate, temendo di essere sorpreso da suo padre, un pezzente risalito da scalpellino ad appaltatore, da appaltatore a possidente, aveva inventata la furberia di giuocare un biglietto per parte. Da un Banco lotto all'altro, correva sbuffando, non volendo pensare che al sabato, all'estrazione in cui avrebbe vinto e ritirato la cambiale data a don Gennaro Parascandolo, quella cambiale, che portava la firma sua e di sua moglie, che lo faceva rabbrividire di terrore. Quando uscì dal Banco lotto di don Crescenzo, respirò e contò mentalmente. Delle duemila lire ne aveva date duecento all'avvocato Ambrogio Marzano, il buon vecchietto ridente, come intermediario fra lui e don Gennaro Parascandolo; ne aveva giuocato milleseicento per i Banco lotto da Chiaia a San Ferdinando, da San Ferdinando alla piazza della Carità. Gli restavano duecento lire; le avrebbe giuocate l'indomani; forse la notte avrebbe potuto sognare qualche buon numero, non bisognava arrischiare così la riserva. Intanto dall'altra porta, mentre egli usciva, entrava giusto don Ambrogio Marzano, che si fermò col marchese di Formosa: - Avete qualche buon numero? - chiese ansiosamente Cavalcanti, che riteneva il lindo e ridente vecchietto come un buon portafortuna. - Ci ho un quarantanove secondo, he è un amore, marchese! - mormorò l'appassionato, per non farsi udire. - Ah! e che altro? - Ventisette, lo sapete, è il simpatico i questa fine di mese… - Ce l'ho anche io. E del quattordici, che ne dite? - È bello, archese mio. Ma volete proprio, proprio sapere il numero lampo, il numero fulmine? - Dite, dite, dite. - Ve lo dico per amore di fratello, perché quando ci ho un tesoro, non so essere egoista e tenerlo per me: abbiatelo per prova di affezione, è il trentacinque!… - Ah! - disse il marchese di Formosa, con grande stupore di ammirazione. Intanto, sempre tutto sereno, don Ambrogio Marzano andò a giuocare da don Crescenzo. Veramente aveva dovuto dare le solite quindici lire al suo cabalista ciabattino e ignorante, dieci ne aveva date all' assistito on onPasqualino, sebbene vi credesse poco, e altre trenta gli era costato un viaggio a Marano, da padre Illuminato, per portargli una tabacchiera di tartaruga, ma queste le aveva prese da un anticipo di spese processuali, fattegli da un suo cliente: sicché le duecento lire erano intatte e le giuocò tutte. Gaetano, il tagliatore di guanti, il marito della misera Annarella cui moriva il figliuolo, aspettava il suo turno per giuocare: ma era una dura settimana, non aveva trovato un soldo in prestito e a stento aveva potuto avere una anticipazione di cinque lire dal suo padrone; ne giuocò quattro, conservò la lira per i numeri che avrebbe potuto avere il sabato mattina. Ora, come la notte si appressava, don Crescenzo e i due commessi, stanchi, storditi, avevano una cert'aria inebetita, simili a chi ha assistito a un troppo lungo spettacolo musicale e coreografico, con un abbarbagliamento negli occhi e un assordamento negli orecchi; ma continuavano a lavorare, era la gran messe settimanale, una raccolta di migliaia, di centinaia, di diecine, per il Governo, su cui si prelevava il tanto per cento; e don Crescenzo dava un soprassoldo ai giovani elle buone settimane! Anche la gente che arrivava continuamente a giuocare, adesso aveva un aria curiosa: chi era affannato, chi si guardava attorno con una certa diffidenza, chi si trascinava stanco, chi aveva gli occhi vaganti delle persone che non sono in sé. Erano coloro che solo allora avevano saputo i numeri, o avuto i denari per giuocare; serve che terminato il servizio, prima di andare a letto, scappavano al Banco lotto; commessi di negozio, che avevano chiuso bottega, allora; giovanotti che facevano una scappatina fra un atto e l'altro del teatro Fiorentini; cabalisti del Caffè Diodato delle sale del Caffè Testa d'Oro, he erano clienti di don Crescenzo e che dopo aver lungamente confabulato, capitavano ad arrischiar quanto possedevano, in quella sera! Un magistrato carico di figli e di miseria, che tornando da una partita di scopa, a un soldo, arrischiava le venti lire con cui dovevano mangiare per quattro giorni, in casa; il pittore di santi, malaticcio, smonto, che aveva esatto anticipatamente i denari di una Santa Candida, a quell'ora, e li veniva a giuocare, salvo a rigiuocare, la mattina, quelli promessi da donna Concetta, per la statua di una Immacolata Concezione. Finanche una elegantissima piccola vettura chiusa si fermò e una mano guantata di grigio perla, ingemmata di brillanti al braccio, consegnò una carta e del denaro dallo sportello, a un servitore gallonato: il marchese di Formosa, che per la nervosità aveva lasciato la sedia e si agitava fra i giuocatori che andavano e venivano, riconobbe il profilo di una dama del suo ceto, la spagnuola principessa Ines di Miradois. - È dunque vero che Francesco Althan la spoglia di tutto… - pensò fra sé il vecchio signore. Adesso egli si era unito al dottor Trifari e al professor Colaneri che arrivavano ancora frementi di collera. Per quelle settecentosessanta lire del povero Rocco Galasso, si litigavano da ore e ore, per la divisione: Trifari pretendeva di aver indotto Rocco Galasso, suo compaesano, a firmare e voleva cinquecento lire: Colaneri pretendeva che Rocco Galasso aveva firmato la cambiale, per aver poi il tema dell'esame da Colaneri, compromissione grande che egli, Colaneri, si assumeva tutta e per cui poteva essere destituito, quindi a lui cinquecento lire. La lite era stata tremenda: due volte erano stati per venire alle mani; ma Trifari, a malincuore, sbuffando di collera, cedette, perché sapeva che Colaneri, nella notte, aveva delle rivelazioni, cosa che a lui uomo pletorico, eretico e bestemmiatore, non accadeva; e Colaneri cedette, perché Trifari gli portava molti studenti, con cui egli faceva degli affari per gli esami, affari veramente pericolosissimi, di cui temeva egli stesso, ma a cui cedeva per soddisfare il suo vizio. Infine, si erano divise le settecentosessanta lire. Avevano incontrato l' assistito he aveva domandato loro, in tono da ispirato, se volevano fare la elemosina di cinque lire a San Giuseppe: ed essi dettero le cinque lire, pensando che quella domanda erano numeri, e che dovevano giuocare il cinque, la moneta e il diciannove, che è il numero di San Giuseppe. Tutto ciò che dice l' assistito, l venerdì sera e il sabato mattina, sono numeri. Tanto che Trifari e Colaneri, dopo aver fatto la giuocata sui numeri prelibati, scendevano man mano a giuocar quelli, secondo loro, meno probabili; poi giuocavano, tanto per uno scrupolo, i biglietti popolari, che erano tre o quattro; e infine, appoggiati al grande banco di legno, guardandosi in volto, col sorriso ebete, cercavano ancora, se nulla avessero dimenticato. Malgrado l'ora tarda, la gente continuava a ingombrare il Banco lotto di don Crescenzo, a cui, in quell'ultimo venerdì di marzo, per un riflusso di febbre viziosa, sarebbe toccato un grosso introito; uno di quegli impeti furiosi, collettivi, dell'inguaribile malore che consuma tutte le forze della fortuna napoletana. Erano persone che escivano dai teatri e che avendo pensato tutta la serata a un biglietto da giuocare, non volevano rimandarne al sabato l'esecuzione, per paura di dimenticarlo, nella breve mattinata; erano dei cocchieri di carrozze da nolo, di notte, che si fermavano innanzi alla bottega, scendevano dalla cassetta e aspettavano il loro turno di giuocata, con la indivisibile frusta in mano e gli occhi pazienti di chi è uso alle lunghe aspettazioni; erano quei laceri, miseri venditori ambulanti notturni, figure piene di ombre, che la vivida e calda luce del gas faceva fremere di timidità, il venditore di giornali, il venditore di frittelle, il trovatore di mozziconi, il venditore di pizze, l lupinaio, il venditore di gramigna per i cavalli delle carrozze di notte, tutti, passando, volta a volta, gridando la loro merce, si erano fermati innanzi al posto i lotto ed erano entrati, non potendo resistere alla voglia di giuocare una lira, mezza lira, sei soldi; vennero il conduttore e i due facchini dell' omnibus he aveva portato all'albergo dell' Allegria viaggiatori arrivati con l'ultimo treno, mentre i conduttori e i cocchieri degli omnibus n piazza della Carità, man mano che le corse finivano, e che essi dovevano ritirarsi stanchi morti, prima di andare a casa, erano venuti a giuocare il loro biglietto. Intanto Formosa non si era deciso a giuocare, con quella specie di transazione col tempo, che fanno tutti i grandi amanti e i grandi appassionati: sulla soglia della bottega, da un canto per far passare la gente, egli discorreva con Trifari e Colaneri, che neppure volevano andar via, malgrado avessero esaurito il piacere della giuocata, stando lì per godere di quella luce, di quel caldo, di quelle persone, di quei denari che fluivano, di quei polizzini che partivano, pegni di fortuna, pegni di ricchezza, fantasticando in quale di essi vi fosse la verità. Quale, quale? Ecco il dubbio tremendo e dolce, l'ignoto immenso e ardente, il mistero che vi sorride a traverso i suoi veli, che non si sollevano. Dopo aver fatto una passeggiatina per Toledo, non potendo resistere, l'avvocato Ambrogio Marzano era ritornato anch'esso e si era unito al gruppetto dei suoi amici cabalisti che confabulavano fittamente. Incapace di non parlare del suo numero, del suo fulmine, aveva detto il trentacinque, il famoso trentacinque, tanto che Colaneri e Trifari erano rientrati per giuocarlo, e lui, Marzano, era rientrato per giuocare il sessantatré datogli da Colaneri. No, Formosa non giuocava ancora. Ma il termine della voluttà si approssimava ed egli sentiva l'imminenza del gran momento: e mentalmente, in uno dei suoi fervidi slanci mistici, pregava il Signore, la Madonna di casa Cavalcanti, l' Ecce Homo he egli venerava nella sua cappella gentilizia, perché lo illuminassero, lo ispirassero, perché gli facessero l'unica, la suprema grazia che egli chiedeva da anni. Di nuovo, i suoi amici, dopo aver bevuto questo altro piccolo sorso di piacere, erano esciti fuori e parlottavano vivacemente di numeri, eccitandosi in quelle grandi ombre che oramai regnavano su Toledo, spezzato da quel quadrato luminoso che gittava sul marciapiede la luce del Banco lotto. In quest'ora videro entrare anche Cesare Fragalà. Dopo aver chiusa la bottega, il gaio pasticciere andava sempre a passare un paio di orette al suo Circolo, dove giuocava al domino, con altri commercianti di coloniali, di panni, di agrumi, di olio, di baccalà, arrischiando un soldo a ogni partita. Il venerdì sera, anche giuocava quelle lunghe partite, ma distratto, un po'nervoso, attraverso la sua inesauribile giocondità giovanile; e scappava via un po'più presto per andare dal suo caro don Crescenzo, a fare la sua gran giuocata settimanale. Veramente, al suo ardore di giuocatore si mescolava una certa ritrosia, come un piccolo senso di rimorso, una vergogna di buttare il suo denaro in quella maniera; e perciò arrivava al Banco lotto molto tardi, quando vi era minor gente che lo vedesse, che lo conoscesse; e quella sera, al saluto di Formosa, rimase interdetto, gli seccava di essere stato veduto dal suo vicino. Poi, si strinse nelle spalle e fermatosi presso il suo carissimo amico don Crescenzo, che continuava a scrivere, piegando la sua bella barba nera sul petto e facendo una quantità di volatine eleganti con la penna, si mise a dettargli de'numeri, a lungo, a lungo, mostrando i suoi denti bianchi, in un sorriso. Don Crescenzo scriveva, imperturbabile: da sei mesi che Cesarino Fragalà giuocava al suo Banco lotto, ogni settimana le somme arrischiate venivano crescendo. E in quel fluire di numeri dettati, don Crescenzo riconosceva, con la sua osservazione particolare, i numeri dati dall' assistito, ioè per simbolo, e che ognuno aveva interpretati a suo modo, tanto che Formosa, Colaneri, Trifari, Marzano, Ninetto Costa e Cesare Fragalà, e quanti prendevano la sorte dalle parole di don Pasqualino, giuocavano numeri diversi, molti numeri, così che ognuno di loro, ogni tanto, finiva per fare qualche piccolo pericolosissimo, guadagno, quindici o venti scudi sopra un numero situato, eicento lire sopra un ambo: raramente, è vero, ma tanto da attizzare fatalmente la loro passione e da renderli schiavi di tutte le nebulose frasi di don Pasqualino. Per il che, con un lieve sorriso, mentre faceva la somma delle giuocate, don Crescenzo disse: - Voi pure siete cliente di Pasqualino De Feo? - Lo conoscete? - disse ansiosamente Cesare Fragalà. - Eh, siamo amici…- mormorò don Crescenzo. - Sa i numeri, non è vero? - chiese Cesarino, con un tremito nella gola. - Spesso… - Come, spesso? - Quando il cliente è in grazia di Dio, - rispose il postiere, enigmaticamente. E volendo finire il discorso, con un atto gentile, consegnando i polizzini, disse al negoziante di generi coloniali: - Cinquecentoquaranta. Quello pagò flemmaticamente, con la tranquillità del negoziante, senza che la sua fisonomia si turbasse. Ma quando fu uscito dal Banco lotto, sulla porta, cadde il suo sorriso e si rammentò di aver fatto in quel giorno il suo primo debito usurario, si rammentò di aver dato fondo ai cassetti della bottega, levandone tutto l'introito, per formare quella grossa cifra che aveva giuocata. Fu per distrarsi da quei dolorosi pentimenti, che si unì al gruppo dei cabalisti. All'una dopo mezzanotte, fermi innanzi alla bottega del giuoco, essi non sentivano né l'ora che passava, né la notte avanzante, né l'umidità penetrante, ardendo del loro continuo fuoco interiore, che nella notte dal venerdì al sabato divampava. E lungamente, interrompendosi, ricominciavano mille volte le stesse istorie, riscaldandosi, eccitandosi, guardandosi in faccia con gli occhi stralunati e vividi di fluido, quasi fossero allucinati. Cesarino Fragalà ascoltava, cercando di prendere la medesima febbre, ma non riuscendovi; era uno spirito debole, niente altro, ma senza pazzie, senza nervosità. E quando tutti enumeravano le ragioni per cui giuocavano, la tale necessità materiale o morale, il tale bisogno urgente, impellente, a cui soltanto il lotto poteva dare un appagamento, egli ascoltava con malinconia; e a un certo punto egli potette dire: - Oh io… io… ho bisogno di sessantamila lire per aprir bottega verso San Ferdinando e fare la dote alla mia Agnesina. Una infinita tristezza lo teneva. Buono, onesto, incapace di mentire a sua moglie per qualunque cosa, egli la ingannava da molti mesi, come un ciurmadore, le toglieva di mano i libri di cassa, che ella spesso si fermava a sfogliare, cercava di nasconderle il suo vizio, con una cura di tutte le ore, smarrendo così il buon umore e la quiete. - Se non fosse questo magazzino… se non fosse per Agnesina…- mormorava, in preda a un rammarico inconsolabile. Adesso, verso l'una e mezzo di notte, veniva il momento di chiudere il Banco lotto, poiché la clientela si era fatta più rada, più rada, e il marchese di Formosa, deciso alla fine, entrò nella bottega del giuoco, a giuocare. Con la nota in mano, dicendo lentamente i numeri a don Crescenzo, un lieve tremito agitava la sua voce: e gli occhi fissavano la carta, dove aveva scritto la lunga filza delle cifre, quasi per una subitanea emozione di piacere. La bottega del giuoco, oramai, diventava deserta; e gli amici cabalisti, Colaneri, Trifari, Marzano, menando seco anche Cesarino Fragalà che si sentiva infelicissimo, si erano messi dietro al marchese di Formosa, ascoltando i numeri, battendo le palpebre per approvazione, o crollando il capo in segno di sfiducia, infine assistendo a quella non breve operazione del giuoco di Cavalcanti, con la gravità dei preti, che assistono il vescovo nel pontificale. Dietro il banco di legno, don Baldassarre, il vecchio decrepito, don Checchino dalla faccia smorta, stavano immobili, con gli occhi socchiusi, stanchi morti di quella sgobbata di dieci ore, pensando all'altra sgobbata dell'indomani, dalle sette all'una, nel grande ardore dell'ultima ora. Solo don Crescenzo conservava la sua disinvoltura e la placida beatitudine del napoletano, che ha il suo piatto di maccheroni assicurato, e che serenamente assiste alla corsa affannosa degli altri, dietro il fantastico piatto di maccheroni, o dietro molti fantastici piatti di maccheroni, nel grande, immaginoso paese di cuccagna. Carlo Cavalcanti, infervorato, giuocava, tanto che al pagare vi mise le lire che il suo cameriere Giovanni s'era fatto prestare dalla usuraia Concetta, le lire che la sua cameriera Margherita s'era fatte prestare dall'usuraio don Gennaro Parascandolo, e settanta lire che aveva avute dal Monte di Pietà, impegnando due antichi e artistici candelabri di bronzo dorato, ritrovati in una stanza di vecchiumi, a casa Cavalcanti, in tutto duecentoventi lire; e rimase pallido, scontento, malinconico, a un tratto sfiduciato sul valore di certi numeri, dolente di non aver potuto arrischiare di più su certi altri, e infine disperato di non poter giuocare tutti gli altri, utti quelli che erano nei suoi calcoli. Così l'amante, dopo aver lungamente desiderato un colloquio con l'amata, quando l'ha ottenuto, ne vede fuggire i momenti con rapidità crudele e, dopo, resta profondamente addolorato per non aver detto una parola di quello che sentiva, alla donna sua. Quel vecchio, in cui l'età non arrivava a domare la furiosa passione, piegava il capo, subitamente accasciato come se avesse vissuto dieci anni in un minuto; e lento, tacito, uscì con gli altri, lenti e muti, per la via buia, andandosene a casa sua. Avevano freddo, tutti, in quell'inoltrata ora notturna; li vinceva un brivido sottile, per cui si stringevano nei soprabiti e abbassavano la testa, senza parlarsi fra di loro. Così arrivarono in piazza Dante, sotto il palazzo Rossi, già Cavalcanti, e il discorso cabalistico ricominciò; due o tre volte andarono su e giù nella piazza, mentre la candida e severa statua del poeta parea li sdegnasse, con le sue bianche occhiaie vuote. Conducevano seco il povero Cesarino Fragalà, corroso adesso da un pentimento invincibile, per aver buttato via tanto denaro, il denaro della sua famiglia, quello della sua Agnesina: ma era inutile, egli giuocava, perché era una creatura debole e allegra, cui pungeva un po'di ambizione commerciale; non sarebbe mai stato un cabalista, la pazzia negli altri lo sorprendeva dolorosamente, ma non gli si comunicava. Pure, restava con loro, quasi non avesse la forza di rientrare a casa, per coricarsi accanto a sua moglie, con quel rimorso di aver gittato cinquecento lire; e ogni tanto, distraendosi, si metteva a guardare le ombre della gran piazza, fisamente, quasi si vedesse apparire qualche visione straziante. A un certo punto, Marzano salutò e si allontanò, verso l'arco di Porta Medina, abitando egli a via Tribunali: ma gli altri continuarono ad andare su e giù, farneticando in quell'oscurità, in quel freddo, che non sentivano più: e più fremente di tutti, il marchese Carlo Cavalcanti, dagli occhi scintillanti, la cui figura si ergeva nella oscurità, forte e salda, simile a quella di un uomo trentenne. Poi, a un certo punto, si licenziarono Colaneri e Trifari, che abitavano ambedue in una povera casa del Cavone. Allora Formosa continuò, monologando, dirigendo la parola a Cesare Fragalà, o alle tenebre, o a sé stesso: e pian piano, discendevano verso Toledo, un'altra volta, quando una tranquilla voce li salutò: - Buona notte a questi miei signori. - Buona notte, don Crescenzo, - disse il marchese. - Avete chiuso, eh? Buona giornata. - Trentaduemila cinquecentoventisette, - disse d'un fiato il tenitore del Banco. Vi fu un silenzio. - Voi non giuocate, don Crescenzo? - domandò Cesarino Fragalà. - No, mai. Buona notte. - Buona notte. Egli si allontanò, sveltamente. Essi, visto che il Banco lotto era chiuso, oramai, tornarono indietro, pesantemente. E fu con un sospiro, che bussarono pianamente al portone del palazzo: rincresceva loro di tornare a casa. Si licenziarono, al primo piano, con una stretta di mano e un'occhiata di allucinati.

Ella taceva, con gli occhi abbassati: e le due sorelle sentivano l'approssimamento, l'invasione di un gran mistero. - Abbiamo portato le dieci lire, - disse timidamente Carmela, cavandole dalla cocca del fazzoletto e posandole sulla tavola, accanto alla mano di Chiarastella. La fattucchiara on batté palpebra: solo il gatto nero levò il capo, mostrando i begli occhi gialli come l'ambra. - Avete intesa la messa? - chiese Chiarastella, senza voltarsi. - Sì, - mormorarono le due sorelle. Ella aveva una voce bassa e roca; una di quelle voci muliebri che paiono sempre cariche di una intensa emozione, e che producono una vibrazione nel cervello, nell'animo di chi ascolta. - Dite tre Avemarie, re Pater noster, re Gloria patri, d alta voce. In piedi, innanzi ad essa, le due sorelle dicevano le sacre parole delle orazioni: ella stessa le diceva, con la sua vibrante voce, con le mani congiunte a preghiera, nel grembo, sul grembiale di lana nera. Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

Ma mentre Gaetano si allontanava, sotto il portone, passò accanto a lui, seria, lenta, con gli occhi abbassati, donna Concetta, dalla catena d'oro che le ondeggiava sul petto e dalle mani inanellate. - Avete guadagnato nulla, Gaetano? - domandò ella, con un lieve sorriso. - Ho preso una saetta che mi colga! - gridò lui, esasperato dal trovarsi accanto l'usuraia, che gli ricordava tutta la sua miseria, esasperato dalla domanda in quel momento. - Va bene, va bene, - ribatté ella, freddamente. - Ci vediamo lunedì, non vi dimenticate. - Non me lo dimentico, no, vi tengo in cuore, come la Madonna, - le gridò appresso, lui, con voce fischiante. Ella crollò il capo, andandosene. Non veniva là per interessi suoi, perché ella non giuocava mai; e neppure per tormentare qualche suo debitore, come Gaetano; veniva per interesse di sua sorella, donna Caterina, la tenitrice di giuoco piccolo, he non osava presentarsi lì, in pubblico. Donna Caterina comunicava a sua sorella i numeri che più temeva, cioè quelli che più erano stati giuocati da lei e per cui avrebbe dovuto pagare più forti somme: se questi numeri temuti uscivano, allora donna Concetta spiccava un ragazzino a sua sorella, la quale era pronta a far fagotto, per non pagare nessuno. Già tre volte aveva fatto fallimento così, col denaro delle giuocate in tasca, donna Caterina: ed era fuggita una volta a Santa Maria di Capua, una volta a Gragnano, una volta a Nocera dei Pagani, restandovi un paio di mesi; ed aveva avuto il coraggio di ritornare, affrontando i giuocatori delusi, con alcuni servendosi dell'audacia, ad altri dando pochi soldi, ricominciando il giuoco, mentre i rubati, i truffati, i delusi, ritornavano a lei, incapaci di denunziarla, ripresi dalla febbre, o tenuti in rispetto da donna Concetta, a cui tutti dovevano del denaro; e la speculazione continuava, il denaro passava da una sorella all'altra, dalla tenitrice di banco che sapeva fallire a tempo, alla strozzina che osava affrontare i più malintenzionati fra i suoi debitori. Né questa fuga era considerata come un delitto, come un furto, da donna Caterina e dalla sua clientela; forse che, più in grande, non fa così anche il governo, che ha assegnato una dote di sei milioni per ogni estrazione e per ogni ruota elle otto, e quando, per una rarissima combinazione, le vincite sorpassano i sei milioni, non fallisce anche il governo, diminuendo l'entità delle vincite? Oh, ma quel giorno non vi era bisogno, per donna Caterina, di fallire, di fuggire; i numeri estratti erano così cattivi, che non aveva vinto nessuno dei suoi giuocatori, forse; e donna Concetta se ne risaliva pian piano, per via Santa Chiara, senz'affrettarsi, sapendo che quello era un sabato desolante per tutta Napoli che giuoca, e preparandosi alle sue battaglie di usuraia, del lunedì. Le passavano accanto, tutte quelle creature infelici, dalle speranze infrante: ed ella crollava il capo, saggiamente, su quelle aberrazioni umane, stringendo i lembi dello scialle di crespo nero, fra le mani inanellate. Una donna che veniva in giù, rapidamente, tirandosi dietro una bimba e un bimbo, portando una creaturina da latte sulle braccia, la sfiorò, la oltrepassò, entrò nel cortile dell'Impresa, dove ancora qualche persona si tratteneva. Era una donna poverissimamente vestita, con una veste di percalla così sfrangiata e fangosa, che faceva pietà e disgusto; con un lembo sfilacciato di scialletto di lana, al collo; e nella faccia così scarna, così consunta, coi denti così neri e coi capelli così radi, che i suoi figli, i suoi tre figli, non laceri, non sporchi, e bellini, pareva non le appartenessero. Il lattante, un po' gracile solamente, le abbassava il capo sulla spalla, per dormire: ma la poveretta era così agitata, che non gli badava più. E vedendo Carmela, sua sorella, seduta sempre sull'alto macigno, con le mani abbandonate in grembo, la testa abbassata sul petto, sola sola, come immobilizzata in un dolore senza parola, le andò vicino: - Oh, Carmela! - Buon giorno, Annarella, - disse Carmela, trasalendo, abbozzando un pallidissimo sorriso. - Stai qua anche tu? - chiese, con una intonazione di sorpresa dolorosa. - Eh… già, - rispose Carmela, con un cenno di rassegnazione. - Hai visto Gaetano, mio marito? - domandò ansiosamente Annarella, facendo scivolare dalla spalla sul braccio la testolina del suo lattante, perché potesse addormentarsi più comodamente. Carmela levò i suoi grandi occhi sul volto della povera sorella, ma la vide così disfatta, così brutta di miseria e di privazioni, così già vecchia, così sacra di già alla malattia e alla morte, così disperata in quella domanda, che non osò dirle la verità. Sì, aveva visto Gaetano, il tagliatore di guanti, suo cognato, lo aveva visto prima fremente e ansioso, poi pallido e accasciato; ma sua sorella, ma il gracile lattante addormentato, ma i due altri fanciulletti, che si guardavano curiosamente intorno, le facevano troppa pietà. Ella mentì. - Non l'ho visto per niente, - disse, chinando gli occhi. - Ci doveva essere, - mormorò Annarella, con la sua voce rauca e lenta. - Ti assicuro che non vi era affatto. - Non lo avrai visto, - ripetè Annarella, ostinata nella sua dolorosa incredulità. - Come poteva non venire? Qua viene ogni sabato sorella mia. Può essere che a casa sua, con queste sue creature, non ci sia; può essere che alla fabbrica dei guanti, dove si può guadagnare il pane, non vi sia; ma non può essere, che non sia qui il sabato, a sentire che numeri escono; qui sta la sua passione e la sua morte, sorella mia. - Gioca assai, non è vero? - disse Carmela, che si era fatta pallidissima e aveva le lagrime negli occhi. - Tutto quello che può e anche quello che non può. Potremmo vivere alla meglio, senza cercare nulla a nessuno; ma invece, per questa bonafficiata, iamo pieni di debiti e di mortificazioni, e mangiamo, ogni tanto, così, quando porto io un pezzo di pane a casa. Ah, queste creature, queste creature, queste povere creature! E la voce era così maternamente straziata, che Carmela lasciava scendere le sue lagrime lungo le guance, vinta da uno infinito struggimento di pietà. Adesso erano quasi sole, nel cortile. - E tu, perché ci vieni, a sentire questa bonafficiata? domandò a un tratto Annarella, presa da una collera contro tutti quelli che giuocavano. - Eh, che ci vuoi fare, sorella mia? - disse l'altra, con la sua armoniosa voce infranta; - che ci vuoi fare? Tu lo sai che vorrei vedervi tutti contenti, mamma nostra, te, Gaetano, le creature tue e Raffaele, l'innamorato mio e…un'altra persona; tu lo sai che la vostra croce è la mia croce, e che non ho un'ora di pace, pensando a quello che soffrite. Così, tutto quello che mi resta, di quello che guadagno, lo giuoco. Un giorno o l'altro, il Signore mi deve benedire, debbo prendere un terno…allora, allora, vi dò tutto a voi, tutto vi dò. - Oh, povera sorella mia! povera sorella! - disse Annarella, presa da una malinconica tenerezza. - Deve venire quel giorno, deve venire… - susurrò l'appassionata, come se parlasse a sé stessa, come se già vedesse quella giornata di benessere. - Possa passare un angiolo e dire amen mormorò Annarella, baciando la fronte del suo lattante. - Ma dove sarà Gaetano? - riprese, vinta dalla sua cura. - Di' la verità, Annarella, - chiese Carmela, scendendo dal macigno e avviandosi per andarsene, - non hai niente da dare, ai bambini, oggi? - Niente, - disse con quella voce fioca. - Prendi questa mezza lira, prendi, - disse l'altra, cavandola dalla tasca e dandogliela. - Iddio te lo renda, sorella mia. E si guardarono, con tanta mutua pietà che, solo per vergogna di chi passava nel vicolo dell'Impresa, non scoppiarono in singhiozzi. - Addio, Annarella. - Addio, Carmela. La fanciulla appassionata depose un lieve bacio sulla fronte del bimbo dormiente. Annarella, col suo passo molle di donna che ha fatto troppi figli e che ha troppo lavorato, se ne andò per il chiostro di Santa Chiara, tirandosi dietro gli altri due figlietti, il bimbo e la bimba. Carmela, stringendosi nel gramo e scolorito scialletto nero, trascinando le scarpe scalcagnate, scese verso il larghetto dei Banchi Nuovi. Fu là soltanto che un giovanotto pulitamente vestito, coi calzoni stretti al ginocchio e larghi come campane sul collo del piede, con la giacchetta attillata, e il cappelletto sull'orecchio, la fermò, guardandola coi suoi freddi occhi di un azzurro chiaro e stringendo sotto i piccoli baffi biondi le labbra vivide, come quelle di una fanciulla. Fermandosi, prima di parlargli, Carmela guardò il giovanotto, con tale intensità di passione e di tenerezza che parve lo volesse avvolgere in una atmosfera di amore. Egli non sembrò addarsene. - Ebbene? - chiese egli, con una vocetta fischiante, ironica. - Niente! - disse lei, aprendo le braccia con un gesto di desolazione; e per non piangere, teneva la testa china, si guardava la punta degli stivaletti che avevano perduto la vernice e mostravano, dalle scuciture, la fodera già sporca. - E che ti pare! - esclamò il giovanotto, irosamente. - La femmina sempre femmina è. - Che colpa ci ho io, se i numeri non sono usciti? - disse umilmente, dolorosamente la fanciulla appassionata. - Dovresti cercarli, i buoni; andare dal padre Illuminato che li sa, e li dice solo alle donne; andare da don Pasqualino, quello che lo assistono gli spiriti uoni, e saperli, i numeri. Figliuola mia, levatelo della testa che io possa sposare una straccioncella come te… - Lo so, lo so…- mormorò quella umilmente. - Non me lo dire più. - Pare che te lo dimentichi. Senza denari non si cantano messe. Salutiamo! - Non vieni stasera, dalla parte di casa mia? - osò chiedere, ella. - Ho da fare; debbo andare con un amico. A proposito, me le presti un paio di lire? - Ne ho una sola, una sola…- esclamò lei, tutta rossa, mortificata, cavando la lira timidamente dalla tasca. - Possa morire uccisa la miseria! - bestemmiò lui, masticando il suo mozzicone di sigaro napoletano. à qua. Cercherò di accomodare alla meglio le cose mie. - Non ci passi, per casa? - pregò lei con gli occhi, con la voce. - Se ci passo, passerò assai tardi. - Non importa, non importa, ti aspetto al balconcino, - disse lei, crollando il capo, ostinata, in quella umiliazione della sua anima e della sua persona. - E non mi posso fermare… - Ebbene, fischia; fa un fischio, io ti sento e mi addormento più quieta, Raffaele. Che ti fa, passando, di fischiare? - E va bene, - annuì lui, con indulgenza, - va bene. Addio, Carmela. - Addio, Raffaele. Si fermò a vederlo andar via, rapidamente, dalla parte della via Madonna dell'Aiuto; le scarpette verniciate scricchiolavano, il giovanotto camminava con quel passo di fierezza che è speciale ai popolani guappi. La Madonna lo possa benedire, per quanti passi dà, - mormorò la fanciulla, fra sé, teneramente, andandosene. Ma, camminando, si sentiva fiacca e scorata; tutte le amarezze di quella perfida giornata, le amarezze che ella soffriva per amore degli altri, le amarezze di sua madre che faceva la serva a sessant'anni, di sua sorella che non aveva pane per i suoi figli, di suo cognato che si faceva trascinare alla rovina, del suo fidanzato che avrebbe voluto veder felice e ricco come un signore e a cui mancava sempre la lira in tasca, tutte queste amarezze e altre, più profonde ancora, e la più grande, la più profonda ancora, la più desolante fra le amarezze, quella della propria impotenza, tutte le si versavano dall'anima nel sangue, le salivano alle labbra, agli occhi, al cervello. Oh non bastava che ella lavorasse, in quel nauseante mestiere, alla Fabbrica dei tabacchi, per sette giorni alla settimana: non bastava che non avesse né un vestito decente, né un paio di scarpe non rotte, tanto che alla Fabbrica non la vedevano bene; non bastava che ella digiunasse, quattro volte su sette, nella settimana, per dare la lira a sua madre, le due lire a Raffaele, la mezza lira a sua sorella Annarella e tutto il resto, quando ce n'era, al giuoco del lotto; era inutile, inutile, non avrebbe mai fatto niente, per quelli che amava; non valevano né la fatica, né la miseria, né la fame; nulla serviva a nulla. E mentre scendeva per i gradini di San Giovanni Maggiore, a Mezzocannone, approssimandosi alla sua più dolorosa tappa, ella si sarebbe uccisa, tanto si sentiva misera, impotente, inutile. Pure, andava: e fu in un larghetto remoto dei Mercanti, un larghetto che sembrava una corticella di servizio, che si fermò, appoggiandosi al muro come se non potesse andare più avanti. Il larghetto era sporco di acque sudicie, di cortecce di frutta, di un cappellaccio feminile, sfondato, buttato in un cantuccio; e delle finestre di un primo piano, tre avevano le gelosie verdi socchiuse, lascianti passare solo uno spiraglio di luce: piccole finestre meschine e gelosie stinte, su cui la polvere, l'acqua e il sole avevano lasciato le loro impronte; portoncino piccolo, dal gradino sbocconcellato e umido, dall'androne stretto e nero come un budello. Carmela vi guardava dentro, con gli occhi spalancati da un sentimento di curiosità e di paura. Una donna piuttosto vecchia, una serva, ne uscì, sollevando la gonna per non insudiciarsi nel rigagnolo. Carmela, certo, la conosceva, perché le si rivolse francamente: - Donna Rosa, volete chiamare Maddalena? Quella la squadrò, per riconoscerla: poi, senza rientrare in casa, dal larghetto chiamò, verso le finestre del primo piano: - Maddalena, Maddalena! - Chi è? - rispose una voce roca, dall'interno. - Tua sorella ti vuole; scendi. - Ora vengo - disse la voce, più piano. - Grazie, donna Rosa, - mormorò Carmela. - Poco a servirvi, - rispose l'altra, brevemente, allontanandosi. Maddalena si fece aspettare due o tre minuti; poi un rumore cadenzato di tacchi di legno si udì per l'androne ed ella comparve. Portava una gonnella di mussola bianca, con un'alta balza di ricamo anche bianco: un giubbetto di lana color crema, molto attillato, con nodi di nastro, di velluto nero, alle maniche, alla cintura, sui fianchi: e uno sciallino di ciniglia color di rosa, al collo, - la gonna lasciava vedere gli scarponcini di pelle lucida, dai tacchi molto alti, e le calzette di seta rossa. Ella rassomigliava, nel volto, tanto ad Annarella quanto a Carmela; ma i capelli bruni, rialzati, pettinati bene, fermati da forcelle bionde di scaglia, ma le guancie un po' smorte, coperte di rossetto, facevano dimenticare ogni rassomiglianza con Annarella e la rendevano assai più seducente di Carmela. Le due sorelle non si baciarono, non si toccarono la mano, ma si scambiarono uno sguardo così intenso che valse per ogni parola e per ogni cenno. - Come stai? - disse con voce tremula Carmela. - Sto bene, - fece Maddalena, crollando il capo, come se non fosse la salute quella che importasse. - E mamma come sta? - Come una vecchiarella… - Povera mamma, poveretta!… Annarella, come sta? - Oh quella sta piena di guai… - Miseria, eh? - Miseria. Sospirarono ambedue, profondamente. Quando si guardavano, era un rossore e un pallore che tramutava loro il viso. - Anche oggi, mala nova ti porto, Maddalena, - disse finalmente Carmela. - Niente, eh? - Niente. - È cattiva sorte la mia, - mormorò Maddalena, a bassa voce. - Ho fatto tanti voti alla Madonna, non già all'Immacolata, che non sono degna neppure di nominarla, ma all'Addolorata che capisce e compatisce la mia disgrazia… ma niente, niente ci ha potuto!… - La Madonna Addolorata ci farà questa grazia, - disse piano, Carmela, - speriamo quest'altro sabato. - Così speriamo, - rispose l'altra, umilmente. - Addio, Maddalena. - Addio, Carmela. Maddalena voltò le spalle e col suo passo, cui facevano da ritmo i tacchetti di legno, scomparve nell'androne: allora solo Carmela fece per slanciarsele dietro per richiamarla; ma quella era già in casa. La fanciulla se ne andò, correndo, stringendosi convulsamente nello scialle, mordendosi le labbra per non singhiozzare. Oh tutte le altre amarezze, tutte, anche quel sabato senza pane, non erano niente di fronte a quella che si lasciava dietro, ma che veniva anche con sé, eterna avvelenatrice, vergogna eterna del suo cuore. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Alle cinque e mezzo il cortile dell'Impresa era perfettamente vuoto e silenzioso; non vi entrava più nessuno, neanche per guardare quella solitaria tabella dei cinque numeri estratti; i cinque numeri erano già stati affissi a tutti i botteghini di lotto di Napoli e innanzi a ognuno, per tutta la città, vi era un gruppo di gente ferma. Niuno entrava più nel cortile dell'Impresa; la folla sarebbe ritornata solo fra sette giorni. Allora uno scalpiccìo si fece udire. Era un usciere del Lotto, che si menava per mano i due bambini dell'Albergo dei Poveri; quello che aveva estratto i numeri e quello che li doveva estrarre il sabato venturo; l'usciere li riportava all'Ospizio, dove avrebbe consegnato le venti lire di pagamento settimanale che fa il Regio Lotto al bimbo che estrae i numeri. I due fanciulletti sgambettavano dietro all'usciere, cinguettando allegramente; la cucitrice di bianco, che lavorava alla sua macchina, levò il capo e sorrise loro. Poi ricominciò a battere col piede sul pedale e a condurre il pezzo di tela, diritto, sotto l'ago; seguitò quietamente, instancabilmente, figura umile e pura del lavoro.

Era lì lì per parlare, per chiederle bruscamente dove si sentisse male; ma gli occhi dolci e fieri si erano abbassati, nella loro errabonda espressione di pensiero; e la bocca aveva quella linea severa di taciturnità che chiede, impone l'altrui silenzio. E la fanciulla sparve, senza che egli avesse detto nulla. Il dottor Antonio Amati si strinse energicamente nelle spalle, salendo in carrozza, immergendosi nella lettura di un giornale medico; così faceva ogni giorno, per occupare utilmente anche il po' di tempo del tragitto. La carrozza rotolava senza rumore sul selciato, che l'umidità copriva di un sottile strato di fanghiglia: l'umidità aveva steso una lievissima ombra sui cristalli della carrozza, e il medico sentiva nell'aria e in sé il fastidio di quella triste giornata sciroccale. Né l'ospedale poteva consolare la malinconia tutta fisica del dottore; per distrarsi egli s'immerse più profondamente nel lavoro pratico della visita medica e in quello scientifico della spiegazione agli scolari. Andava e veniva, da un letto all'altro, seguìto da una turba di giovanotti, più alto di tutti loro, con la breve fronte dell'uomo ostinato, che due rughe segnavano, dall'alto in basso, per il continuo aggrottamento delle sopracciglia, le rughe della volontà, della concentrazione: e dalla bruna spazzola dei neri capelli, piantati rudemente sulla fronte, dove già qualche ciuffo bianco si mostrava, tanta era l'attività del suo pensiero, della sua parola, della sua azione sempre pronta, che pareva che dovesse uscire il fumo dei vulcani in eruzione. Gli ordini ai coadiutori, agli assistenti, alle monache erano dati con durezza: tutti obbedivano in silenzio, subito, provando, malgrado la brutalità di quegli ordini, una simpatia per quella volontà ferrea, una ammirazione per colui che tutti chiamavano il grande salvatore. anche la sala a lui affidata, in quel giorno, aveva l'aspetto più triste, più lugubre; la oscurità dell'aria rattristava quei malati, l'umidità pesante e male odorante faceva loro sentire più acutamente i mali: e un lamentìo sommesso, come un lungo respiro affannoso, si udiva da un capo all'altro della sala e i pallori degli infermi diventavano gialli in quella scialba luce, le mani scarne distese sulle coperte parevano di cera. E malgrado che cercasse di stordirsi nel lavoro, nella parola, il dottor Antonio Amati sentiva più forte, più acuto, il fastidio della professione… e attraverso quella sala lunga e stretta, piena di letti allineati e di smorti volti stanchi di soffrire, piena di un costante odore di acido fenico, attraverso quello scurore e quella umidità sciroccale, in cui anche i rosei volti delle monache parevano esangui, egli ebbe un sogno, una visione sparente di una campagna soleggiata, verde e calda, chiara e odorosa, ebbe al cuore la strettura di un idillio apparso un minuto, scomparso per sempre. - Addio, signori, - disse Amati bruscamente agli studenti, licenziandosi. Essi sapevano che, quando li salutava così, non desiderava di essere accompagnato: sapevano, avevano inteso che il professore era in una delle sue cattive ore: lo lasciarono andare. Uno degli infermieri gli consegnò due o tre lettere, giunte mentre faceva la visita e la lezione: erano chiamate, biglietti pressanti per ammalati che lo invocavano: un padre cui la malattia di suo figlio facea perder la testa, delle donne disperate. Egli, leggendo crollava il capo, come sfiduciato, quasi che tutti i malanni della umanità lo trovassero scoraggiato della loro salvazione. Andava, sì, andava, ma lo teneva una stanchezza profonda, che gli doveva nascere dall'anima, perché aveva lavorato assai meno degli altri giorni: andava, taciturno, concentrato, quando un'ombra surse innanzi a lui, per le scale dell'ospedale. Era una povera donna, senza età, scarna, coi capelli radi e bigiastri, coi denti neri, coi pomelli sporgenti; una povera donna con una vestaccia lacera e sporca, mentre il bimbo che portava assopito fra le braccia, era poveramente coperto, ma pulito. - Eccellenza, Eccellenza… - mormorò costei, con voce di pianto, vedendo che il medico passava avanti, borbottando, senza curarsi di lei. - Che vuoi? Chi sei? - disse ruvidamente il dottore, senza guardarla. - Sono Annarella, la sorella di Carmela, quella che voi avete scampata dalla morte… - disse l'altra, - la misera moglie di Gaetano, il tagliatore di guanti. - Stamattina tua sorella, oggi tu! - esclamò il medico, impaziente. - Ah non per me, signore, non per me, - mormorò la moglie del giuocatore - io posso morire, non me ne importa niente, tanto che ci fo a questo mondo? Non trovo neppur modo di dar pane ai figli… - Sbrigati, sbrigati… - È per questa creaturina, per questo figliuolino malato, signore mio, - e si chinò a baciare la fronte calda del piccolo assopito. - Io non so che ha, ma ogni giorno va giù, va giù, e io non so che dargli a questo cuore mio… sanatemelo voi, signore mio… Il medico si chinò sul piccolo infermo, dal bel volto gracile e pallido, dalle palpebre violacee, dal respiro impercettibile, che appena schiudeva le labbrucce; gli toccò la fronte e le mani, poi guardò la madre. - Gli dài latte? - domandò brevemente. - Sissignore - diss'ella, con un lievissimo sorriso di soddisfazione materna. - Quanti mesi ha? - Diciotto. - E ancora dài latte? Tutte eguali, voi altre napoletane! Levagli il latte. - Oh, signore mio! - esclamò ella, spaventata. - Levagli il latte, - replicò lui. - E che gli dò? - diss'ella, quasi singhiozzando. - Il pane mi manca spesso, per me e per gli altri due: ma il latte no… deve morire di fame, anche quest'altra anima di Dio? - Tuo marito non lavora, eh? - chiese il medico, pensando. - Nossignore: lavora - diss'ella, crollando il capo. - Ha qualche altra donna? - Nossignore. - E che fa allora? - Giuoca alla bonafficiata, disse lei, chinando il capo. - Ah! ho inteso. Leva il latte al ragazzo. Ha la febbre. È il tuo latte che lo avvelena. Ella, dopo aver guardato il dottore e suo figlio, disse, sottovoce, soltanto: Gesù! E un singhiozzo le spezzò il petto materno. Amati aveva scritto una ricetta, col lapis, sul foglio di un suo taccuino. E scendeva le scale seguìto da Annarella, le cui lacrime cadevano sul volto del ragazzo e il cui singulto seguitava, cupo, come un lamento. - Questa è la ricetta e queste sono cinque lire per spedirla, - disse il medico, rapidamente, facendo un cenno, per impedire che Annarella lo ringraziasse. Ella lo guardava, con gli occhi imbambolati, mentre lui attraversava il grande e freddo cortile dell'ospedale per andare a mettersi in carrozza: sola, chinando gli occhi sul suo bimbo, ricominciò a piangere, e la ricetta nella sua mano tremava, tanto le era insopportabilmente amara, l'idea di aver avvelenato il suo figliuolo, col suo latte. - È stata la collera, è stata la collera - diceva fra sé, poiché fra il popolo napoletano il dolore i chiama spesso la collera. l dottor Amati aveva ancora crollato il capo, con un atto energico, come se avesse la più assoluta sfiducia nella guarigione della umanità. Mentre apriva lo sportello della carrozza, per salirvi, una donna che sino allora aveva chiacchierato col portiere dell'ospedale gli si accostò, per parlargli. Era una donna vestita di un nero vestito, di un nero scialle claustrale, con un fazzoletto di seta nera che le nascondeva il capo ed era legato sotto il mento, con un volto pallido e gli occhi neri di un colore opaco di carbone, gli occhi di chi vive nella penombra e nel silenzio. Ella parlava piano. - Vostra Eccellenza vorrebbe venire con me, per una carità urgente? - Ho da fare, - borbottò il medico, facendo atto di salire in carrozza. - È una persona che sta male, molto male, - insistette la donna, ma senza levare la voce. - Tutte le persone che debbo vedere, stanno male… - È qui vicino, Eccellenza, nel monastero delle Sacramentiste. Mi hanno mandata all'ospedale, per trovare un medico, non posso tornare senza medico… la persona sta assai male. - Sopra vi è ancora il dottor Caramanna, cercate lui, - ribattè Amati. - Sta male una monaca? - soggiunse, poi. - Nossignore, le Sacramentiste sono di clausura: non possono chiamare gli uomini in convento, - disse la servente, con un movimento delle labbra. - È una persona che si è sentita male nel parlatorio delle monache… è fuori clausura. - Vengo io - disse subito Amati. E spinse la servente nella sua carrozza, entrandovi e chiudendo lo sportello. La carrozza rotolò nuovamente per la via dell'Anticaglia così bruna, e sporca di fango, e triste di vecchiaia la servente e il medico non scambiarono neppure una parola, durante il breve tragitto. La carrozza si fermò innanzi alla porta del convento chiusa: la servente, invece di tirare la catenella di ferro che corrispondeva alla campanella dell'interno, mise una chiave nella toppa e schiuse il portone. Essa e il dottore attraversarono prima un gelido cortile dove sporgevano una quantità di finestre dalle gelosie verdi, poi un corridoio terreno, a colonne, lungo il cortile: dappertutto una completa solitudine e un perfetto silenzio. Entrarono in una vasta stanza anche terrena, con due porte-finestre sul corridoio. Lungo le muraglie della stanza, semplicemente biancheggiate di calce, vi erano delle sedie di paglia, niente altro: un grande tavolone, nel fondo, con una sedia dove sedeva la servente portiera. A una parete, un crocifisso. Lungo un'altra parete due grate fitte e, in mezzo, la ruota: di là si parlava e si passava qualche oggetto alle monache. Presso questa parete era distesa, su tre sedie, una forma femminile presso cui un'altra era inginocchiata, piegandosi sul volto di quella. Prima che il medico arrivasse alla giacente, la servente si accostò alla grata e parlò: - Sia lodato il Santissimo Sacramento. - Oggi e sempre! - rispose una fievolissima voce, all'interno, come se uscisse da una cava profonda. - Vi è il medico? - Sì, suor Maria. - Bene, - e un sospiro si udì, fievole e lungo. Intanto il dottor Antonio Amati si era accostato alla fanciulla svenuta, a cui Margherita bagnava la fronte con un fazzoletto molle di aceto, mormorando sottovoce: - Figlia mia, figlia mia. Il dottore che aveva posato il cappello in terra, s'inginocchiò anche lui, a esaminare più da presso il volto bianco della fanciulla svenuta. Le toccò il polso: delicatamente le sollevò una palpebra, l'occhio era vitreo. - Da quanto tempo sta così? - domandò a voce bassa, mentre le strofinava le mani gelide. - Da mezz'ora, - rispose la vecchia. - Che le avete fatto? - Solo l'aceto: me l'hanno dato dalla ruota: qui non vi è niente: è un monastero di clausura… - Ne soffre? - chiese lui, insistendo in altra forma. - Stanotte… stanotte ebbe un altro svenimento… l'ho trovata per terra, nella sua stanza… ho chiamato il padrone. - È rinvenuta da sé, stanotte? - Sì. - Ha avuto paura? - Non so… non credo… - disse quella esitando sempre. Parlavano a voce bassissima, mentre la servente si teneva ritta presso la grata, quasi a custodia. - Sta meglio? - chiese la fievolissima voce di dentro. - Lo stesso - rispose monotonamente la servente. - Oh Dio! - esclamò la voce, angosciata. Intanto il medico si era inclinato, per udire meglio il respiro. Pareva pensoso e preoccupato, mentre Margherita lo guardava con la disperazione negli occhi. - Ha avuto paura, mezz'ora fa, qui dentro? - ricominciò ad interrogare lui, mentre aveva delicatamente sollevata la testa di Bianca Maria e l'aveva appoggiata sul suo petto. - No… certamente, no… - susurrò Margherita. - Io era in chiesa, non ho udito quello che dicevano; mi hanno chiamata. - Chi è quella monaca? - chiese lui, accennando alla grata. - È suor Maria degli Angioli: la zia. Allora egli si levò e si accostò alla grata, mentre la servente faceva quel movimento delle labbra per indicare la clausura, quasi volesse opporsi alla conversazione del medico con la monaca. - Suor Maria, - disse lui, pian piano. - Oggi e sempre… - disse la voce tenue, precipitosamente, udendo la voce maschile. - Vostra nipote ha avuto qualche spavento? Silenzio dall'altra parte. - Qualche cattiva nuova? Sempre silenzio profondo. - Vi ha detto ella qualche cosa di spiacevole che le sia accaduto? - Sì, sì, - soffiò, tremando, la voce. - Potete dirmi di che si tratta? - No, no… - riprese subito, tremando sempre, quella di là. - Qualche cosa di assai doloroso…non posso dirlo. - Bene: grazie, - mormorò lui, rialzandosi. - E come sta? Non le date niente? - chiese la voce della suora. - La portiamo a casa: qui non si può farle niente. - Siamo povere monache… - mormorò la suora. - Come la portate? - In carrozza, - disse lui brevemente. Poi, accostandosi a Margherita, egli riprese, con voce bassa ed energica: - Ora vengo col mio cocchiere: qui essa non può restare, non posso darle nessun aiuto. La trasporteremo nella carrozza, qui fuori, e andremo a casa. - In questo stato? - chiese ella, incerta. - Volete farla morire qui? - interruppe lui, bruscamente. - Per carità… professore, scusate. Egli era già uscito, senza cappello, senza pastrano, attraversando il corridoio e la gelida corte. Ritornò dopo un minuto, col suo cocchiere, a cui aveva evidentemente date le sue istruzioni. Il dottore, delicatamente, sollevò il corpo della fanciulla svenuta, da sotto le braccia, facendole appoggiare la testa sul suo petto, mentre il cocchiere la sollevava dai piedi: era quasi rigida e pesante. Il cocchiere aveva il volto spaurito, gli pareva forse di trasportare una fanciulla morta, vestita di nero, attraverso quel nudo parlatorio, quel corridoio deserto, quel deserto e gelido cortile: e malgrado che, stando al servizio di un celebre medico, non fosse nuovo allo spettacolo del dolore fisico, quell'idea di trasportare un freddo corpo di fanciulla, un cadavere forse, gli dava tale ribrezzo, da voltare altrove lo sguardo. Dietro veniva la vecchia Margherita, il cui viso, nel chiarore del cortile, apparve più giallo, più incartapecorito, pieno di mille rughe dolorose: e il corteo silenzioso nella gran solitudine, nel gran silenzio, attraverso quel chiostro muto come una tomba, il corteo fatto dal dottore pensoso e turbato, dal servo sgomento, da quel corpo rigido ammantato tristamente di nero e dall'antica serva, curva dolorosamente sotto una nova angoscia ignota, il corteo, invero, era funebre. Delicatamente, con la precauzione che si usa a non risvegliare dal lieve sonno un bimbo dormiente, i due uomini posarono la povera creatura esanime nella carrozza, appoggiandole la testa sulla spalliera e i piedi sul sedile dirimpetto. Ella non aveva dato segno di vita, durante il trasporto: le due rughe si approfondivano fra le sopracciglia del dottore Antonio Amati, rughe di volontà e di concentrazione, caricandone la fronte di preoccupazione. Pure, gentilmente, cercò di riappuntare le trecce nere della fanciulla che si erano disciolte e le erano cadute sul petto: ma non ci arrivava. Con le scarne mani tremanti, Margherita che era anche salita nell'ampio landau raccolse lei carezzevolmente le trecce della padrona: e il dottore udiva che ella mormorava: - Figlia mia… figlia mia… Le tendine azzurre della carrozza erano state abbassate dal medico, contro gli occhi indiscreti: la carrozza andava al passo; e in quell'ombra, azzurrastra, acquitrinosa, con quel passo lento, il carattere di convoglio funebre si conservava, risaltava più forte. Anzi, a un certo punto, la carrozza si fermò; dopo un poco il cocchiere aprì lo sportello senza neppur guardare il corpo della fanciulla, e consegnò al dottore una boccettina chiusa ermeticamente, che costui fece odorare alla svenuta. Subito un acuto odore di etere si diffuse nella carrozza che continuava ad andare pian piano. Bianca Maria non si riscosse: dopo un poco, per solo segno di sensibilità, le palpebre chiuse le si arrossirono e grosse lacrime le sgorgarono fra le ciglia, rotolarono sulle guance, si disfecero sul collo. Il medico non distoglieva un momento il suo sguardo da quel viso, mentre teneva fra le sue la mano di Bianca Maria. Piangeva, ella, sempre immersa nello svenimento, senza dare altro segno di vita: come se nella mancanza di sensibilità, ancora la sensibilità del dolore le rimanesse, come se nella perdita di ogni memoria sopravvivesse ancora un ricordo angoscioso, un solo, quello. non rinveniva. Quando giunsero nel cortile del palazzo Rossi, appena aperto lo sportello, un mormorìo, un rumorìo nacque, crebbe, crebbe, impossibile a dominarsi. Vicino allo sportello la portinaia esclamava e strillava, quasi che la fanciulla fosse morta; tutte le finestre che davano sul cortile, tutte le porte che davano sul pianerottolo, si erano schiuse, e al vedere estrarre dalla carrozza la povera creatura esanime, bianca bianca, vestita di nero, con le trecce pendenti, strascicanti, accompagnata dal medico che invano cercava d'imporre silenzio, il gridìo di sorpresa, di compassione cresceva, cresceva, salendo per l'aria grave. Sul pianerottolo del primo piano era uscita Gelsomina, la nutrice di Agnesina Fragalà, tenendo nelle braccia la bella creaturina già florida: e dietro era apparsa anche la madre felice, Luisella Fragalà, vestita da uscire, col cappellino in testa. Ma appoggiata alla ringhiera di ferro, sorridendo vagamente alla sua bambina, ella s'indugiava, guardando con pietà quello strano trasporto; e una stanchezza preoccupata teneva la persona giovanile della bella borghese che, da poco tempo, ubbidendo a un istinto, a un presentimento, superando una certa fierezza, discendeva ogni giorno al magazzino di piazza Spirito Santo, legando i sacchetti dei dolci e i cartocci delle paste, con le sue mani bianche, sempre ricche di anelli. - Poveretta, poveretta… - mormorava Luisella Fragalà, con una compassione che aveva un senso più acuto, più profondo. Sollevando la tenda pesante di broccato giallo, dietro il doppio cristallo della sua finestra, anche al primo piano, era comparsa la scialba faccia della signora Parascandolo, la moglie del ricchissimo usuraio che aveva perduto tutti i suoi figli. Ella usciva raramente, chiusa nel suo magnifico appartamento che era pieno zeppo di ricchi mobili, tristi ed inutili, poiché ella non riceveva nessuno, da che le erano morti i figliuoli: solo ella compariva ogni tanto, dietro i cristalli, appoggiandovi la faccia scolorita, guardandosi intorno, con l'aria di dolente ebetismo che le era divenuta naturale. Per vedere Bianca Maria, portata in su in quel modo, la povera donna cui nulla più arrivava a scuotere, aveva aperto i cristalli, e la sua voce si univa al crescente mormorio, esclamando come una invocazione e una preghiera: - Gesù, Gesù, Gesù... Sul pianerottolo del terzo piano, lasciando le tre stanze del misero quartierino che sporgeva dirimpetto al teatro Rossini, era uscita tutta la famiglia misantropica dell'impiegato Domenico Mayer: il padre sempre con la faccia lunga e arcigna, con un par di maniche di lustrino sul soprabito, togliendosi a un lavoro di copiatura che compiva a casa tornando dall'Intendenza di Finanza; la madre, donna Cristina, guarita dal mal di denti, ma afflitta dal torcicollo: la figliuola Amalia, dai grossi occhi sporgenti, dalle grosse labbra, dal grosso naso, che aveva sempre il suo aspetto ingrugnato di fanciulla che ancora non trova marito: e Fofò, il figliuolo, sempre contristato da una fame che i suoi parenti dichiaravano una misteriosa malattia. Tutta la famiglia, si buttava giù, quasi, dalla ringhiera, per la curiosità, ed esclamava in coro, gridando, strillando: - Povera figlia, povera figlia, povera figlia!… Erano alla finestra la donna con la cuffia di batista e l'uomo in grembiale azzurro da spazzare, finanche la governante e il servitore del dottor Antonio Amati: né il vedere salire il loro padrone li distolse dal guardare, tanto l'eccitamento di tutto il palazzo Rossi, nelle sue finestre, nel cortile e sui suoi pianerottoli, era diventato invincibile. Quel trasporto per le scale, fra la compassione chiassosa di tutta quella gente diversa, fra quegli strilli metà di spavento, metà di pietà, che avevano una duplice nota esagerata, parve eterno al dottor Amati; in quanto alla vecchia Margherita, ella tremava di dispiacere e di vergogna, come se quel rumore, quella pubblicità offendessero la sua padrona. Quando la porta dell'appartamento si richiuse dietro a loro, ella disse a Giovanni, sgomento: - La marchesina sta male: non vi è Sua Eccellenza? - No, - disse quello, facendo largo a coloro che portavano la svenuta. Margherita crollò il capo, disperatamente, e accompagnò il dottore e il servo nella stanza di Bianca Maria: la fanciulla fu deposta sul suo letto. Il servo disparve. Ancora, il medico tentò di farla rinvenire con l'etere: niente. Egli si mordeva le labbra: due o tre volte disse: impossibile. ncora una volta sollevò le palpebre violacee, guardando l'occhio. Viveva, ma non rinveniva. - Il padre, dov'è? - chiese, senza voltarsi. - Non lo so, - mormorò la vecchia. - Avrà qualche posto dove va, ogni giorno: mandatelo a cercare, sbrigatevi. - Manderò… per ubbidire… - disse lei, sempre esitando, ma uscendo. Egli si era seduto presso il letto: aveva posato la boccetta dell'etere, oramai convinto della sua inefficacia. Quella piccola stanza, nuda, gelida, con un aspetto di purità nivale infantile, aveva un po' calmato la sua collera di scienziato che non giunge né a vincere il male, né a darsi ragione del male. Aveva visto, cento altre volte, dei lunghi e bizzarri deliqui: ma erano il portato di malattie nervose, o di temperamenti anormali, disordinati dal loro principio: ed erano stati vinti con mezzi ordinarii. La pallida fanciulla pareva che riposasse profondamente: e che ancora per molte ore, per molto tempo dovesse stare così, immersa nel buio regno della insensibilità. Egli si armava di pazienza, sfogliando mentalmente i volumi medici dove si parlava di questi deliqui. Due o tre volte Margherita era rientrata nella stanza, interrogandolo con lo sguardo, angosciosamente: egli le aveva detto di no, ol capo. Poi le aveva chiesto del cognac; lla era stata incerta: in casa non ve n'era; e Amati le aveva bruscamente ordinato di andarlo a cercare in casa sua, alla porta accanto. Con un cucchiarino, un misero cucchiarino che aveva perduto tutta la falsa argentatura, egli aveva aperto le labbra della fanciulla e, attraverso la chiostra serrata dei denti, aveva versato il liquore energico: senza risultato. Di nuovo, a Margherita che si agitava confusamente, egli aveva chiesto che mettesse a riscaldare dei panni di flanella; ma vedendola ancora impacciata, le aveva di nuovo ingiunto di andare a casa sua, a chiederne alla sua governante. Mentre ella era assente, rientrò Giovanni, trafelato: parlava ansando, al dottore. - Non l'ho trovato in nessun luogo, il marchese: né al posto i lotto di don Crescenzo, né alla Congregazione di Santo Spirito, né a casa di don Pasqualino l' assistito, ove si riuniscono ogni giorno. - Chi si riunisce? - chiese distrattamente il medico, udendo appena appena il discorso. Gli amici di Sua Eccellenza… ma ho lasciato detto, dovunque, che egli ritornasse a casa, perché la marchesina sta male. - Va bene: spedite questa ricetta, - disse il medico che l'aveva scritta, come al solito, col lapis, sopra un foglietto del suo taccuino. La faccia del vecchio servitore si decompose nel pallore. Il medico, sempre intorno alla svenuta, non aveva visto. - Andate, - disse, sentendolo ancora di là. - Gli è che… - balbettò il pover'uomo. Allora il medico, come aveva fatto per Annarella, la povera moglie del tagliatore di guanti, cavò dieci lire dal portamonete e gliele dette. - … non essendoci il padrone e non potendo dirlo alla padrona, - mormorò Giovanni, volendo giustificare la mancanza di denaro. - Va bene, va bene, - disse il dottore, tornando alla svenuta. Ma una forte scampanellata risuonò per tutto l'appartamento. Un passo vibrato si udì e il marchese di Formosa entrò. Parve non vedesse che la figliuola distesa sul letto e cominciò a baciarle la mano, la fronte, parlando forte, angosciandosi: - Figlia mia, figlia mia, buona figlia mia, che è, che ti senti, rispondi a tuo padre?! Bianca, Bianca, Bianca, rispondi! Dove hai il male, come ti è venuto, creatura mia, viscere mie, corona della mia testa, rispondi, rispondi! È tuo padre che ti chiama, sentimi, sentimi, dimmi che hai, io ti guarisco, buona figlia mia! E continuava a esclamare, a gridare, a singultare con parole confuse, volta a volta pallido e rosso nella faccia, mettendosi le mani nei capelli bianchi, piegando il corpo ancora robusto ed elegante, mentre il dottore, smorto, lo guardava acutamente. In un intervallo di silenzio, il marchese si accorse della presenza di Amati e lo riconobbe per il suo celebre vicino. - Oh dottore! - esclamò - datele qualche cosa, non ho che questa figliuola! - Vado provando, - disse il medico lentamente, a bassa voce, come se rodesse il freno della propria impotenza scientifica: - ma è un deliquio ostinato. - Le è venuto da molto tempo? - Da circa due ore; nel parlatorio delle Sacramentiste… - Ah! - esclamò il padre, impallidendo. Il dottore lo guardò. Tacquero. Il segreto sorgeva fra loro, avvolto nei veli più fitti e più profondi. - Datele qualche cosa… - balbettò don Carlo Cavalcanti, con la voce tremante. Ma vennero a chiamarlo. Giovanni gli parlò sottovoce: il marchese ebbe un momento di incertezza. - Ritorno subito… - disse, andandosene. Il dottore aveva raccolti i piedini della inferma nei panni caldi di flanella; ora voleva ravvolgerle le mani. Ma ad un tratto sentì una lieve pressione sulla sua mano. Bianca Maria, con gli occhi aperti, lo guardava, quietamente. La fronte del medico si corrugò per un minuto di meraviglia, fugacemente. - Come vi sentite? - chiese, chinandosi sulla inferma. Ella ebbe un piccolissimo sorriso stanco e agitò la mano, come per esprimere che aspettasse, che non poteva ancora parlare. - Va bene, va bene, - disse il medico, affettuosamente. - Non parlate. E impose anche silenzio a Margherita che rientrava. I poveri occhi stanchi della serva scintillarono di gioia, quando vide Bianca Maria sorridente. - State meglio? Fatemi un cenno, - chiese il medico affettuosamente. Ella fece uno sforzo e pian piano, invece del cenno, pronunziò la parola: - Meglio. Piccola, ma tranquilla la voce. Con la familiarità del medico, egli le aveva preso una mano e la teneva fra le sue: mano che si riscaldava. - Grazie, - diss'ella, dopo un intervallo. - Di che? - disse lui, interdetto. - Di tutto, - soggiunse lei, con un nuovo sorriso. Ora pareva che avesse riacquistato completamente la forza di parlare. Parlava, ma restava immobile, vivendo solo intensamente negli occhi e nel sorriso. - Di tutto, che? - domandò lui, punto da un'acuta curiosità. - Io ho inteso, - disse lei, con un'occhiata profonda. - Inteso? Tutto avete inteso? - Tutto: non potevo né muovermi, né parlare: ma ho inteso. - Ah! - mormorò lui, pensoso. E mandò Margherita ad avvertire il marchese di Formosa, che la signorina era rinvenuta. - Soffrivate? - Sì: molto, per non poter vincere il mio svenimento. Ho pianto. Avevo uno strazio, dentro il cuore. - Sì, sì,- disse lui, sempre più pensoso. - Non parlate più, riposatevi. Al marchese che entrava, il dottore fece cenno di tacere. Formosa si chinò sul letto della figliuola e le toccò la fronte con la mano, come se la benedicesse. Ella ebbe un battimento di palpebre e sorrise. - Vostra figlia ha avuto un deliquio lucido, na delle forme più rare di deliquio… - disse il dottore, a bassa voce. - Lucido? - chiese il marchese con una strana voce. - Sì: vedeva ed udiva tutto. È una sensibilità portata alla sua massima raffinatezza… Ora, dalla bottiglia versava ancora del cognac el cucchiaino, per farlo bere a Bianca Maria. Don Carlo Cavalcanti, la cui faccia si era stravolta, si chinò sul letto e domandò: - Che hai visto? Dimmi che hai visto? La figliuola non rispose, ma guardò il padre con una sorpresa così dolorosa che il medico, tornando, se ne accorse e aggrottò le sopracciglia. Non aveva udito che cosa avesse chiesto il padre alla figliuola, ma intese di nuovo sorgere il gran segreto della famiglia, vedendo la tenera e dolente occhiata di Bianca Maria. - Non le domandate nulla, - disse bruscamente il dottore a don Carlo Cavalcanti. Il vecchio patrizio represse un moto di sdegno. Covava la fronte della sua figliuola con lo sguardo, come se ne volesse strappare magneticamente un segreto. Ella aveva abbassato le palpebre: ma il viso rivelava sofferenza. Poi guardò il medico, quasi gli cercasse aiuto. - Volete qualche cosa? - domandò lui. - Vi è un uomo presso la mia porta; fatelo andar via, - pronunziò ella, sottovoce, paurosamente. Il dottore trasalì: trasalì don Carlo Cavalcanti. Infatti, fuori la porta, in quella sua eterna, miserevole attitudine di attesa, sporco, lacero, con la barba incolta e le guance smunte, malamente tinte di un sangue morboso, a strie, vi era Pasqualino De Feo, l' assistito. l marchese lo aveva lasciato nel salone; ma egli era scivolato sino alla soglia della stanza di Bianca Maria, con quel suo passo timido e silenzioso di straccione che teme di essere scacciato da tutti i posti. - Chi è quell'uomo? - disse il dottore con quel suo tono rude, accostandosi alla porta, come per scacciarlo. - È un amico… - rispose il marchese, con un vago gesto d'imbarazzo, affrettandosi ad accorrere. - Mandatelo via, - disse il medico, duramente. Fuori la porta, il marchese e don Pasqualino parlottarono, vivamente, sottovoce. Bianca Maria aveva un'aria d'attenzione, come se potesse udire quello che suo padre diceva di fuori: poi, a un tratto, crollò il capo. Il dottore che la guardava negli occhi, intuì il suo desiderio. - Volete che mandi via dalla casa quell'uomo? - Lasciatelo, - diss'ella, debolmente. - Farebbe dispiacere a mio padre. Ah egli non sapeva nulla di nulla, il dottore; e già, nel ritorno alla rude realtà, si rimproverava quel romanzo oscuro e doloroso che entrava nella sua vita: ma lo avvinghiava un sentimento imperioso, che egli credeva la forte curiosità scientifica. Le ore erano passate, scendeva la sera: egli non aveva fatto nessuna delle sue visite e rimaneva in quella gelida stanza di fanciulla, nobile, povera e inferma, quasi non potesse più staccarsene. - Debbo andare…- disse come fra sé. - Ma ritornerete? - chiese ella, sottovoce. - Sì…- rispose lui, risoluto a vincersi, a non tornare più. - Ritornate, - e la voce umile pregava, pregava. - Sono qui, accanto: se soffrite mandatemi a chiamare. - Sì, sì, - soggiunse, tranquillandosi all'idea della protezione. - Addio, signorina. - A dio, - fece ella, marcatamente, staccando le due parole. Margherita lo accompagnava, ringraziandolo pian piano di aver salvato la sua padrona; ma egli era ridiventato l'energico e frettoloso uomo di sempre, nemico delle parole. - Dove è il marchese? - volle sapere, senz'altro. - Nel salone, professore. E ve lo accompagnò. Giusto, don Carlo Cavalcanti e Pasqualino De Feo passeggiavano su e giù, taciturni. Era quasi notte: pure il dottore covrì l' assistito i una occhiata scrutatrice e diffidente. - Come sta Bianca? - chiese Formosa, uscendo da un sogno. - Meglio, ora, - soggiunse con voce breve e fredda, il dottore. - Ma è una fanciulla colpita prematuramente, nel morale e nel fisico, da uno squilibrio crescente: se non le date sole, moto, aria, quiete e giocondità, vi può morire, da un giorno all'altro. - Non dite così, dottore! - gridò il padre, sdegnato e addolorato. - Debbo dirlo, perché così è. La causa del suo male, di quello di oggi, mi è ignota… non voglio saperla. Ma ella è ammalata, capite, ammalata! Ci vuole sole e pace, pace e sole. Se volete un medico, io sono sempre pronto, è il mio mestiere. Ma la ricetta l'ho fatta. Mandate la fanciulla in campagna. Se rimane un altro anno in questa casa, vedendo solo voi e andando sempre al monastero, muore, ve lo affermo io. E insisteva, freddamente, come se questa verità dovesse essere proclamata in tutta la sua forza, come se volesse convincerne anche la ribelle anima sua. - Dottore, dottore! - si lamentò Formosa, cercando pietà. - È ammalata, muore. In campagna, in campagna! Buona sera, marchese. E se ne andò, quasi fuggendo. Il marchese e l' assistito he non aveva detto verbo, ripresero la loro passeggiata taciturna. Ogni tanto, Formosa sospirava profondamente. - Lo spirito che mi assiste…- soffiò l' assistito. Eh? - esclamò l'altro, trasaltando. -…mi avverte che donna Bianca Maria ha avuto una visione celeste…e che ve la comunicherà… sotto simbolo… - Voi che dite? È possibile? Questa grazia mi avrebbe concessa l'Ente Supremo? È possibile? - Lo spirito non inganna, - sentenziò l' assistito. È vero, è vero, - mormorò Formosa, con voce profonda, guardando nell'ombra con gli occhi stravolti.

Parlava presto, con gli occhi abbassati, come se prevedesse e non volesse vedere l'orribile occhiata fredda e desolata che scambiarono i due contadini, colpiti al cuore, gelidi. Stavano muti, il padre e la madre, guardando a terra: e allora lui, presto, affannosamente, cercando di raddolcire la sua aspra voce, li pregò, li pregò se gli volevano bene, che gli dessero quel denaro, se non lo volean veder morto. Ed essi, taciturni, s'incoraggiavano con un'occhiata: con le senili mani tremanti il padre sciolse il sacchetto di tela e ne cavò i denari, contandoli lentamente, con cura, ricominciando ad ogni cento lire, seguendo il denaro con un occhio torbido e con un moto convulsivo del labbro inferiore. Erano quattrocentoventi lire, tutta la fortuna di loro tre. Di pallido, il dottore si era fatto rosso rosso e pareva che gli occhi gli si fossero riempiti di lacrime: senza che quei due lo avessero potuto impedire, egli si era abbassato e aveva baciata la vecchia mano al padre e alla madre, la vecchia mano scura, rugosa e callosa, che aveva tanto lavorato. Nessun'altra parola era stata scambiata fra loro: egli era sparito. La sera non era rientrato nell'alberghetto; ma oramai a queste assenze non badavano più. Pure, il giorno seguente non era rientrato a pranzo, il che accadeva per la prima volta: avevano aspettato sino a sera, egli non era venuto e la contadina sgranava il rosario, ricominciando sempre: avevano finito per pranzare con un pezzo di pane e due arance, che si trovavano nella stanza. Il dottor Trifari non rientrò neppure la seconda notte e fu verso il meriggio del secondo giorno che arrivò una lettera diretta al signor Giovanni Trifari, albergo di Villa Borghese: na lettera impostata con un francobollo di un soldo, alla posta interna. Ah, essi eran contadini, con la fantasia ottusa e il cuore semplice, essi non immaginavano, non pensavano che assai scarsamente, eran gente corta e silenziosa: ma quando quella lettera fu loro portata e quando riconobbero l'assai nota e assai amata calligrafia del figliuolo, si misero a tremare, ambedue, come se una improvvisa, indomabile paralisi li avesse colti. Due o tre volte, con gli occhiali grossolani tremolanti sul naso, con la voce trepida della vecchiaia e dell'emozione, con la lentezza di chi sa legger male e deve frenare le lacrime, il vecchio contadino aveva riletta la lettera con cui il figliuolo, prima di partire per l'America, li salutava, teneramente, filialmente: sentendo quella lettura, imprimendosi bene nella mente quelle terribili e dolci parole del figliuolo, la vecchia contadina baciava i grani del suo rosario e gemeva sottovoce. Due volte un servitore dell'albergo era entrato, con la sua aria scettica di persona abituata a tutte le traversie della vita: e aveva chiesto loro se volevano mangiare, ma quelli, dimentichi, sordi, acciecati, non avevano neppure risposto. Quando, verso le sei, entrò don Crescenzo, dopo aver bussato inutilmente, li trovò quasi al buio, seduti vicino al balconcino, in un gran silenzio. - Vi è il dottore? Nessuno dei due rispose, come se il sopore della morte li avesse presi. - Volevo dire se vi è il dottore? - Nossignore, - disse il vecchio padre. - È uscito? - Sì. - Da quanto tempo? - È molto tempo, - mormorò il vecchio contadino e alla sua voce rispose un gemito di sua moglie. - E quando torna? - gridò don Crescenzo, agitatissimo, preso da un impeto di furore. - Non si sa, non si sa, - disse il vecchio, scrollando il capo. - Voi siete il padre, voi lo dovete sapere! - Non me l'ha detto… - Ma dove è andato, dove è andato, quell'infame? - In America, a Bonaria. Gesù! - disse solo don Crescenzo, cadendo di peso sopra una sedia. Tacquero. La madre stringeva devotamente il rosario. Ma ambedue parevano così stanchi, che don Crescenzo fu preso da una disperazione, trovando dovunque disgrazie diverse e maggiori della sua. Pure, si aggrappava alle festuche: e anzi tutto voleva sapere, voleva sapere tutto, con quell'acre voluttà di chi vuole assaporare tutta l'amarezza della sua sventura. Anche costui era fuggito, dunque, anche costui gli sfuggiva, anche questi denari erano perduti, perduti per sempre. - Ma chi gli ha dato i denari per andar via? - gridò, esasperato. - Siete amico suo, voi? - Sì, sì, sì! - Veramente? - Veramente, vi dico. - Ecco la lettera, tenete: così saprete tutto. Allora lui, alla poca luce del giorno che cadeva, lesse la lunga epistola del disgraziato che, roso dai debiti, roso dalla sua passione, senza saper dove dare la testa, scriveva ai suoi genitori, licenziandosi da loro, per cercar fortuna in America. Delle quattrocento lire se ne era prese un trecentocinquanta per pagarsi un posto di terza classe sopra un piroscafo, aggiungendovi qualche lira per vivere i due o tre giorni primi a Buenos-Ayres. Confessava tutto: tutta la rovina sua e della sua famiglia, maledicendo il giuoco, la fortuna e sé stesso, imprecando alla mala sorte e alla sua mala coscienza. Rimandava poche lire ai due poveri vecchi, pregandoli a ritornare in paese, a provvedersi come potevano, fino a che egli avesse potuto mandar loro qualche cosa, da Buenos-Ayres; tornassero al paese, egli non li avrebbe dimenticati, - e i denari appunto bastavano per due posti di terza classe, sino al paesello, non vi sarebbe neanche restato nulla per mangiare; - egli pregava, in ginocchio, che gli perdonassero, che non lo maledicessero, che non aveva avuto la forza di uccidersi, per loro, ma gli perdonassero, che se li lasciava così, non gli dessero, per il suo miserabile viaggio, senza bagaglio, senza denari, buttato in un dormitorio comune e soffocante di nave, anche il triste viatico di una maledizione. La lettera era piena di tenerezza e di furore: e le ingiurie ai ricchi, ai signori, al Governo, si alternavano con le preghiere di perdono, con le umili scuse. Due volte don Crescenzo lesse quella lettera straziante, scritta da un' anima inferocita contro di sé e contro gli uomini, che si vedeva ferita nella sola tenerezza della sua vita. La piegò macchinalmente e guardò i due vecchi: gli sembrò che avessero cento anni, cadenti di decrepitezza e di lavoro, curvati dall'età e dal dolore. - E che fate, adesso? - egli domandò, sottovoce, dopo un certo tempo. - Andiamo al paese, - mormorò il vecchio. - Domani, ce ne andiamo, col primo treno. - Sì, sì, ce ne andiamo, - gemette la povera contadina, senza levare il capo. - E che fate, là? - soggiunse lui, volendo approfondire tutto quel dolore. - Andiamo a giornata, - disse il vecchio, semplicemente. Egli li sogguardò ancora così vecchi, così stanchi, così curvi, che si apprestavano a ricominciar la vita, per aver pane, a zappar la terra con le braccia tremolanti, abbassando il volto bruno e i radi capelli bianchi sotto il sole di estate. E trafitto dall'ultimo colpo, sentendo intorno a sé crescere il coro delle disgrazie, non aprì bocca sui denari che doveva avere da Trifari: anzi, fievolmente, tanta era la pietà per i due vecchi, disse loro: - Vi serve niente? - No, no, grazie, - dissero quei due, con quel gesto desolato delle persone che più non aspettano soccorso. - E fatevi coraggio, allora… - Sì, sì, grazie, - mormorarono ancora. Li lasciò, senz'altro. Era notte, adesso, quando discese in istrada. Un minuto, sbalordito, atterrato, pensò: dove andare? E di nuovo, sospinto da uno stimolo tutto meccanico, prese la rincorsa e, attraversando Toledo, salì sino all'altezza della chiesa di San Michele, dove si ergeva bruno e alto il palazzo Rossi, già Cavalcanti. In quel palazzo abitavano gli ultimi suoi debitori grossi, i più disperati di tutti, e per non cominciare con un malaugurio, egli se li era riserbati per la sera. Ma non aveva trovato denaro in nessun posto, in nessuno: e adesso, per il naturale rimbalzo degli infelici che si ribellano alla infelicità, per quella forza di speranza che giammai non muore, adesso si metteva di nuovo a credere che Cesare Fragalà e il marchese Cavalcanti gli avrebbero dato del denaro, in qualche modo, piovuto dal cielo. Quando entrò nell'appartamento di Cesare Fragalà, introdotto dalla piccola Agnesina che era venuta ad aprire la porta portando una stearica mezza consunta, e guidato attraverso l'appartamento vuoto e scuro, egli si pentì subito di esser venuto. Marito, moglie e figlia ad una piccola tavola, sopra una tovaglia anche troppo corta per la tavola, pranzavano in silenzio, guardando ogni pezzettino di fegato fritto che si portavano alla bocca, per paura di lasciarne troppo poco agli altri due: e la bimba specialmente, dal grosso appetito delle creature sane, misurava i bocconcini di pane per non mangiarne troppo. Cesare Fragalà, serio, con la linea del sorriso sparito per sempre dal suo volto, guardava la tovaglia, con le sopracciglia aggrottate: e la moglie, la buona Luisa dai grandi occhi neri, sulla cui fronte aveva brillato la stella di diamanti della madre felice, aveva l'aria dimessa e umile, in un vestitino di lanetta. Quietamente, col suo occhio tranquillo, la bimba guardava il visitatore, come se capisse, come se aspettasse la domanda che egli doveva fare, serenamente, con la pazienza del martire. E dinanzi a quel dolce e pensoso occhio di fanciulletta, don Crescenzo sentì legarsi la lingua e fu con un grande sforzo che balbettò: - Cesarino, ero venuto per quell'affare… Una vampa di fuoco arse le guance di Cesarino Fragalà: la moglie si arrestò dal mangiare e la bimba abbassò le palpebre, come se il colpo fosse oramai disceso sulla sua testa. - È difficile che ti possa servire, Crescenzo: tu non sai in che imbarazzi ci troviamo… - disse fiocamente Cesarino. - Lo so, lo so, - disse l'altro, non sapendo frenare la sua emozione, - ma io sono in una situazione peggiore della tua… - Non credo, - mormorò malinconicamente il negoziante che da pochi giorni aveva compita la sua liquidazione, - non credo. - Tu hai salvato l'onore, Cesarino, ma io non lo salvo! Che vuoi che ti dica? Non posso aggiungere altro… E non potendone più, sentendo sul suo volto lo sguardo pietoso della piccola Agnesina egli si mise a piangere. Un po' di vento della sera, entrando da un balcone socchiuso, facea vacillare la lampada a petrolio, ed era un gruppo fantasticamente malinconico quello del marito, della moglie, della figliuola che stretti fra loro, infelicissimi, sogguardavano quell'infelicissimo che singhiozzava. - Non si potrebbe dargli qualche cosa, Luisa? - sussurrò timidamente Cesarino all'orecchio di sua moglie, mentre l'altro si lamentava vagamente. - Che deve avere? - disse Luisa, pensando. - Cinquecento lire.., erano di più… ho pagato una parte… - Ed è debito di… giuoco? - disse ella, freddamente. - … Sì. - Che diceva egli, di onore? - Egli ha fatto credito a noi, e se non paga, il Governo lo mette in carcere. - Ha figli? - …Sì. Ella sparve, di là. I due uomini si guardavano, dolorosamente, mentre la ragazza li guardava or l'uno, or l'altro, coi suoi occhi buoni e incoraggianti. Dopo un poco, Luisa ritornò, un po' più pallida. - Questa è l'ultima nostra carta da cento, disse, con la sua voce armoniosa. - Restano certi spiccioli, per noi: ma per noi, Dio provvede. - Dio provvede, - ripetette la bimba, prendendo la carta da cento dalle mani di sua madre e dandola a don Crescenzo. Ah, in quel momento, di fronte a quella povera gente che contava i bocconi del suo pane e che si disfaceva dell'ultima sua moneta per aiutarlo, in quel momento, fra quegli sguardi dolci e tristi di gente rovinata che pure serbava la fede, serbava la pietà, egli si sentì infrangere il cuore e vacillò come se dovesse perder conoscenza. Per un istante, pensò di non prender quel denaro, ma gli sembrava affatato, sacro, passato da quelle mani di donna buona e forte, passato per le manine di quella coraggiosa e placida fanciulletta: disse solo, tremando: - Scusate, scusate… - Non fa niente, - disse subito Cesarino Fragalà, con la sua bonarietà. - Siete stati così buoni, tanto buoni… - mormorava, licenziandosi, guardando umilmente le due donne che sopportavano così nobilmente l'infortunio. Cesarino lo accompagnò fuori l'anticamera. - Mi dispiace che sono poche… - gli disse, - non ti serviranno. - Per il cuore valgono centinaia di migliaia, - esclamò tristemente il tenitore del Banco lotto. - Ma ho da dare quattromila seicento lire al governo, e ho solo queste… - Gli altri… non ti hanno dato nulla? - Nulla: tutta una disgrazia, tutta una mala sorte. Andrò su, dal marchese Cavalcanti… - Non ci andare, - disse Fragalà, crollando il capo, - è inutile. - Tenterò… - Non tentare. Stanno peggio di noi: e ogni giorno hanno paura di veder morire la marchesina. Il padre ha perduto la testa. - Chissà… - Ascoltami, non andare. Ti puoi trovare a qualche brutta scena… - Brutta scena? - Sì, la marchesina ha delle convulsioni che le strappano grida terribili. Ogni volta che le sentiamo, ce ne usciamo di casa. Grida sempre: mamma, mamma. no strazio. - Ma è pazza? - No: non è pazza. Chiama aiuto, nelle convulsioni. Dicono che vede Non vi andare, è inutile. Fa buone cose. - Grazie, - fece l'altro. E si abbracciarono, tristi, commossi, come se non si dovessero vedere più. Adesso, quando don Crescenzo si trovò sotto il portone del palazzo Rossi, dopo esser disceso in gran fretta per le scale, quasi temesse udire scoppiare alle sue spalle le grida strazianti della marchesina Cavalcanti che moriva, quando si fu trovato solo, fra la gente che andava e veniva da Toledo, in quella sera dolce di primavera, egli pensò, a un tratto, che tutto era finito. Le cento lire che il suo pianto aveva strappato alla miseria dei Fragalà, erano chiuse nel suo vuoto portafoglio e il portafoglio messo nella tasca del soprabito; e a quel posto egli sentiva come un calore crescente, poiché quella moneta era veramente l'ultima parola del destino. Non avrebbe trovato più niente: tutto era detto. La sua disperata volontà, la sua emozione sempre più forte, i suoi sforzi di una giornata, correndo, parlando, narrando i suoi guai, piangendo, e il gran terrore della rovina che gli sovrastava, non erano riesciti che a togliere l'ultimo boccone di pane ai più innocenti fra i suoi debitori: cento lire, una derisione, di fronte alla somma che egli doveva pagare il mercoledì, infallibilmente: cento lire, niente altro, una goccia d'acqua nel deserto. E lo intendeva: poiché aveva esaurito un immensa quantità di forza e di commozione, arrivando solo a strappare quelle lire alla onestà della famiglia Fragalà, poiché si sentiva fiacco, debole, esaurito, era dunque quella, l'ultima parola, non vi erano altri denari, non vi erano più denari, per lui, doveva considerarsi perduto, perduto senza nessuna speranza di salvezza. Una nebbia - e forse erano lacrime - nuotava avanti ai suoi occhi: e la corrente della folla lo trascinava verso il basso di Toledo. Si lasciava trasportare, sentendosi in preda al destino, senza forza di resistenza, come una foglia secca travolta dal turbine. Non poteva fare più nulla, più nulla: tutto era finito. Qualcun altro, ancora, gli doveva del denaro, il barone Lamarra, il magistrato Calandra, due o tre altri, somme piccole, ma egli non voleva neppure andarvi: tutto era inutile, tutto, poiché dovunque egli era apparso, dovunque aveva portato la sua disperazione, egli aveva trovato il solco di un flagello eguale al suo, il flagello del giuoco che aveva messo fra la vergogna, la miseria e la morte, tutti quanti, come lui. Non osava entrare in casa sua, ora, malgrado che si facesse tardi. Era disceso per Santa Brigida e per via Molo alla Marina, dove abitava una di quelle alte e strette case, in cui si penetra dagli oscuri vicoli di Porto e che guardano il mare un po' scuro, fra la dogana e i Granili: e dalla via Marina, lungo la spiaggia dove erano ancorate e ammarrate le barche e le barcaccie dei pescatori, egli guardava, fra le mille finestre, la finestrella illuminata, dietro la quale sua moglie addormentava il suo bambino. Ma non osava rientrare, no; tutto non era dunque finito? Sua moglie avrebbe letto la sentenza, la condanna, sul suo volto, ed egli non reggeva a questa idea. Una fiacchezza lo teneva, sempre più grande, spezzandogli le braccia e le gambe, in quell'oscurità, in quel silenzio, dove solo le carrozzelle che portavano i viaggiatori ai treni partenti la sera, dove solo i trams he vanno ai comuni vesuviani mettevano ogni tanto una nota di vitalità, nella bruna e larga via Marina. Non reggendosi, si era seduto sopra uno dei banchi della lunga e stretta Villa del Popolo, il giardino della povera gente, che rasenta il mare: e di là, vedeva sempre, sebbene più lontana, lontana come una stella, la finestrella illuminata della sua piccola casa. Come rientrare, con qual coraggio portare le lacrime e la disperazione in quel pacifico, felice, piccolo ambiente? E quel bimbo innocente e l'altro che doveva nascere, e la madre così gloriosa di suo marito, del suo fanciulletto, doveva lui, lui, in quella sera farli fremere di dolore e di onta? Ah questo, questo gli era insopportabile! Un castigo così grande, così grande, piombato sulla testa di tutti, come se fossero i maledetti, distruggendo la salute, la fortuna, l'onore, tutto! E in una successiva visione, egli riannodò tutte le fila di quel castigo, partendo da sé, a sé ritornando, andando dalla propria disperazione a quella altrui, sempre guardando il breve faro luminoso, dove la sua famiglia aspettava. E rivide la faccia pallida e smunta di Ninetto Costa che partiva per un assai più lungo viaggio, certo, che quello di Roma, lasciando un nome di fallito e di suicida a sua madre; rivide il corpo colpito di apoplessia dell'avvocato Marzano, le labbra farfuglianti e la miseria atroce, per cui non aveva neppure il denaro necessario per comperare dell'altro ghiaccio, mentre su di lui si aggravava un'accusa disonorevole, svergognante la sua canizie; e il professor Colaneri, scacciato dalle scuole, accusato di aver venduto la sua coscienza di maestro, e dopo aver buttato l'abito talare, costretto a rinnegare la religione, dove era nato, di cui era stato sacerdote; e la tristezza del dottor Trifari, navigante in un battello di emigranti, senza un soldo, privo di tutto, mentre i due suoi vecchi genitori tornavano, per aver pane, a scavare l'arida terra; e la rassegnata dedizione di Cesare Fragalà, dedizione in cui era finito il nome dell'antichissima ditta e in cui eravi tutto un avvenire di miseria da affrontare; e infine, su tutto, la malattia di cui moriva la fanciulla Cavalcanti, mentre suo padre non aveva più un tozzo di pane da portare alla bocca. Tutti, tutti castigati, grandi e piccoli, nobili e plebei, innocenti e colpevoli; ed egli insieme con loro, egli e la sua famiglia, castigati in tutto quello che avevan di più caro, la fortuna, la felicità della casa, l'onore. Una schiera d'infelici, dove coloro che più piangevano, erano i più innocenti, dove le piccole creature, dove le fanciulle, dove le donne scontavano gli errori degli uomini, dei vecchi, una schiera di miserabili, a cui mentalmente egli aggiungeva gli altri che conosceva, di cui si ricordava: il barone Lamarra, sulla cui testa la moglie teneva sospesa l'accusa di falsario e che era tornato a far l'appaltatore, sotto il sole, nelle vie, fra le fabbriche in costruzione; e don Domenico Mayer, l'impiegato ipocondriaco, che in un giorno di disperazione, non potendone più dai debiti, si era buttato dalla finestra del quarto piano, morendo sul colpo; e il magistrato Calandra, dai dodici figliuoli, tenuto così in mala vista, che arrischiava ogni sei mesi di esser messo a riposo; e Gaetano il tagliatore di guanti che aveva ammazzato sua moglie Annarella, con un calcio nella pancia, mentre era incinta di due mesi, e nessuno aveva saputo nulla, salvo i due figliuoli che odiavano il padre, poiché anche a loro, ogni venerdì, prometteva di ammazzarli, se non gli davano denaro; e tutti, tutti quanti, agonizzanti e pur viventi fra le strette del bisogno e il rossore dell'onta; ed egli, infine, che aveva la sua famigliuola là, nella picciola casa, quietamente aspettante, mentre egli non aveva il coraggio di tornarvi, sapendo che la prima notizia della loro sventura gli avrebbe abbruciato le labbra. Tutto un castigo, tutta una punizione tremenda: vale a dire la mano del Signore che si aggrava sul vizioso, sul colpevole e lo colpisce sino alla settima generazione; anzi lo stesso vizio, la stessa colpa, quel giuoco infame, quel giuoco maledetto, che si faceva istrumento di punizione, contro coloro che di questo vizio, di questa colpa si erano fatti il loro idolo; nella istessa passione, come in tutte le altre, che sono fuori della vita, fuori della realtà, nella passione istessa il germe, la semente della durissima penitenza. Colpiti dove avevano peccato, anzi dal peccato istesso! Tutto un lungo scoppio di pianto, da tutti gli occhi, dai più puri, uno scoppio di singulti dalle più pure labbra: una folla di povere creature oneste, dibattentisi fra la fame e la morte, scontando gli errori altrui, dando ai colpevoli il rimorso di aver gittato le persone che più amavano, in quell'immenso abisso. Non uno salvo, non uno, di quelli che avevano dato la loro vita al giuoco, all'infame giuoco, al giuoco sciagurato, divoratore di sangue e di denaro: neppur lui salvo, neppur la sua famiglia, anche lui spezzato, anche i suoi figli ridotti, certo, a stendere la mano. Ah troppo grande, troppo grande, insopportabile il castigo! Che aveva egli fatto, per dover esser lì nella strada come un mendico che non osa rientrare al suo tugurio, non avendo potuto avere l'elemosina dal duro cuore degli uomini? Che aveva fatto lui, per dover andare in carcere, come un malfattore, perché sua moglie si vergognasse di appartenergli e i suoi figli non nominassero più il suo nome? Ah era troppo, era troppo: che colpa aveva dunque commessa? Una coppia di guardie passò nella via Marina e interrogò con lo sguardo le oscurità della banchina e della Villa del Popolo: l'ombra era profonda, le guardie non videro don Crescenzo, disteso sul sedile. Ma egli, come per un rapido cambiamento di scena, si vide dinanzi agli occhi, nel Banco lotto suo, al vico del Nunzio, le ardenti sere del venerdì e le affannose mattinate del sabato, in cui i giuocatori si affollavano ai tre sportelli del suo Banco, con gli occhi accesi di speranza e le mani tremanti di emozione: e rivide i cartelloni a grandi numeri azzurri e rossi, che incitavano i giuocatori a portare nuovo denaro al lotto: rivide i cento avvisi dei giornali cabalistici e i motti: Così mi vedrai! Sarò la tua fortuna! - Il tesoro del popolo! - L' infallibile! - Il segreto svelato! - La ruota della fortuna! - e le visite frequenti dell' assistito le fatali connivenze con tutti gli altri cabalisti, frati, spiritisti, matematici, che infiammavano i giuocatori col loro strano gergo, con le loro strane imposture: rivide le settimane di Natale, di Pasqua, in cui il giuoco diventa furioso, feroce, tanto è il desiderio del popolo di entrare nel sempre sognato Paese di cuccagna e si rivide sempre lui, contento di quelle illusioni che finivano in una dolorosa delusione, contento che quel miraggio acciecasse i deboli, gli sciocchi, gli ammalati, i poveri, gli speranzosi, tutti quelli che desideravano il Paese di cuccagna, contento che tutti, tutti quanti fossero attaccati da tale lebbra, che niuno se ne salvasse: contentissimo, quando, nelle grandi feste, cresceva l'ardore, e cresceva il giuoco, e cresceva il suo tanto per cento. Vide tutto, lucidamente, dalla sua persona che si curvava a scrivere sui registri le cifre maledette e le promesse fallaci, alle facce rosse o scialbe dei giuocatori, roventi di passione. E piegò il capo, abbattuto, sentendo di aver meritato il castigo, egli stesso, la sua famiglia, fino alla settima generazione. Il giuoco del lotto era una infamia che conduceva alla malattia, alla miseria, alla prigione, a ogni disonore, alla morte: ed egli aveva tenuto bottega di quell'infamia.

E quando tutti ebbero saputo chi era quell'uomo, come una stupefazione li colse: i lumi delle lampade parve si fossero improvvisamente abbassati: un gran pallore parve caduto sulla vivezza dei volti, dei mobili, delle stoffe: un silenzio profondo si fece, dove ancora si trascinava, fioca, flebile, la mistica parola: - L' assistito, l' assistito 'istessa Luisella Fragalà, l'intrepida, impallidì nel bruno volto, e le mani che stringevano il ventaglio, tremarono. L' assistito aveva finito di mangiare e di bere, ora si riposava tranquillo, girando intorno il suo sguardo vago, incerto, non sapendo che cosa farsi delle sue mani scarne e giallastre; un po' di sangue gli era salito alle guance smunte, spuntando sotto la barbaccia nera; ma era un colorito malaticcio, a strie, un colorito di sangue guasto, di sangue povero, di sangue che è stato, o è consumato da una febbre che non si guarisce. Eppure così brutto, sporco, miserabile, ignobile come era, l' assistito veva concentrato su sé tutti gli sguardi, intenti, dell'assemblea; sguardi di curiosità, di lusinga, di ossequio, di speranza, sopratutto sguardi di rispettoso spavento, uno spavento fantastico che traluceva specialmente dagli occhi feminili. Poiché ancora le donne, nel lieve tremore dei loro nervi, ripetevano a sé stesse: - Dio mio, ecco l' assistito. come per una attrazione forte e naturale, man mano, intorno all' assistito un cerchio di persone si venne formando, stringendosi sempre più, un cerchio di facce lievemente ansiose, dove si leggeva il vivido lavorio della fantasia meridionale, la fuga di tutte quelle immaginazioni nel paese dei sogni e dei fantasmi. Alle persone meno timide, che per le prime si erano avvicinate, si venivano ad aggiungere le altre, più ritrose, ma infine vinte anch'esse, sognando anch'esse tutto il fantomatico corteo degli spiriti assistenti, l corteo degli spiriti buoni e degli spiriti cattivi, che ogni giorno, ogni notte, ogni ora del giorno e ogni ora della notte si agita, combatte, vince o è vinto intorno all'anima e intorno alla persona dell' assistito Il cerchio si era talmente ristretto che don Gennaro Parascandolo, uno dei primi accorsi, pur conservando il suo sorriso un po' scettico, si rivolse a Cesare Fragalà e gli disse: - Cesarino, presentami a questo signore. Cesare Fragalà che era molto imbarazzato, non trovando una via di uscita, colse al volo questa domanda e disse subito: - Il cav. Gennaro Parascandolo, mio compare: Pasqualino De Feo, un bravo amico. L' assistito sorrise vagamente e tese la mano: don Gennaro stese la sua e toccò una mano gelida e un po' molle di sudore, una di quelle mani repulsive che dànno un brivido di ribrezzo. Ma nessuna parola fu scambiata. Le donne che stavano fuori del cerchio e non osavano avvicinarsi, si domandavano, tormentate da un desiderio profondo: - Che dice, che dice? - Non dice nulla, - rispondeva donna Carmelina Naddeo, che era la più vicina all' assistito e che non lo perdeva d'occhio un sol minuto. Le donne si mordevano le labbra, intimidite dalla presenza degli uomini, un po' vergognose, non osando accostarsi all' assistito, entre ognuna di esse fremeva d'impazienza, fremeva di desiderio di sentire la fatidica parola di quell'uomo che viveva in continua comunicazione col mondo dei fantasmi e a cui gli spiriti buoni dicevano tutte le verità nascoste della vita, a cui gli spiriti che lo assistevano, rivelavano, ogni settimana, i cinque o almeno tre dei numeri del lotto. Che diceva? Nulla. Son gente che vive per lunghe ore, concentrata, perduta forse in un gran combattimento interiore, perduta dietro le voci dall'alto che le parlano e che ogni tanto, strappata alle sue visioni dalla realtà umana, pronuncia una frase, una frase fatale, dentro cui è il segreto che si vuole scoprire, avviluppato nel mistero di parole spesso informi, ma che s'intendono, miracolosamente, da chi ha una forte fede, una forte speranza. Tutti, uomini e donne, vinti da un grande sogno, balzati d'un tratto dalla quotidiana realtà nella ardente, consumatrice regione delle visioni, dimentichi del minuto presente, attendevano la parola dell' assistito, ome un verbo sovrumano. Ah, certo, don Gennaro Parascandolo conservava il suo sorriso di napoletano che ha viaggiato, che ha vissuto, che ha una grossa fortuna sicura; ma, in fondo al cuore, il vecchio istinto partenopeo, l'istinto del grosso guadagno, del guadagno illecito, ma non colpevole, senza fatica, improvviso, dovuto al caso, dovuto alla combinazione, a burla fatta al Governo, sorgeva, così, naturalmente, di fronte all'uomo che sapeva i segreti delle cose nascoste. Certo, certo, tutti quei Fragalà, quei Naddeo, quegli Antonacci, quei Durante, erano abituati a vendere i dolci stantii, le stoviglie di creta grossolana, i pannilana avariati e il puzzolente baccalà, nelle oscure botteghe nei freddi depositi i via Tribunali, di via Mercanti, alla Pietra del Pesce, alla via Marina: erano abituati a tutte le glacialità, le volgarità, le meschinità del commercio, dove per anni e anni si mette il soldo sopra il soldo, la lira sopra la lira, e infine, dopo due o tre generazioni, si arriva ad avere una fortuna: certo, tutti costoro sapevano che il valore del denaro è quello del lavoro, il valore dell'economia e della diligenza, ma che importa! Potere, per una frase detta da un misterioso personaggio, che costava solo la pena di raccogliere e d'interpretare, in una settimana, anzi in un sol giorno, guadagnare con una piccola posta una grossa somma, avere, in un giorno, il guadagno di venti anni di vendita di baccalà, di quarant'anni di vendita di zucchero marmoreo e di caffè arenoso, era un regalo così prelibato, era una visione così luminosa alle borghesi fantasie! Certo, tutti quei contabili, quei commessi di negozio avevano un'idea modesta, limitata del proprio avvenire, avevano vissuto di nulla, vivevano di poco, desideravano vivere con qualche cosetta di più, null'altro, umili a ogni desiderio; ma la figura dell' assistito quel pezzente così potente, quello straccione che discorreva ogni notte con gli spiriti superni e inferi, li buttava a un tratto in un mondo fantastico, dove i poveri miracolosamente si trasformavano in ricchi, dove essi, oscuri lavoratori, potevano, a un tratto, diventare dei signori. Ah, don Domenico Mayer, nipote, figliuolo, fratello, padre e zio d'impiegati, non aveva fede che nella santa burocrazia, gelida carriera di taciturni sofferenti: pure, stretto nel suo soprabitone nero, aveva lasciato in un cantuccio la sua misantropica famiglia, si era accostato al gruppo della gente che circondava Pasqualino De Feo, l' assistito, vibrava quelle sue occhiate fra severe ed ansiose, aspettando anch'esso la frase che lo doveva trarre, in un giorno solo, dall'ambiente sepolcrale della sua Intendenza di finanza. Ma le donne, le donne erano quelle che più ardevano nell'immaginazione! Certo, almeno dieci di esse, per la nascita, per il matrimonio, per le virtù proprie e per quelle dei loro parenti o mariti, erano ricche, possedevano la quiete della fortuna e l'avvenire dei figli assicurato: dieci di esse, almeno, godevano il lusso borghese dei mobili di broccato, dei gioielli, della biancheria a bizzeffe: e tutte le altre, per la saviezza, per la modestia, per l'economia, virtù proprie e virtù dei parenti e mariti, non mancavano del necessario - ma la vivace passione del sogno si era risvegliata in loro e le abbruciava; ma sorgevano loro nell'anima tutti i desiderii di benessere, di ricchezza, di lusso; ma esse volavano, volavano, pei campi del desiderio, con la forza, con la intensità che le donne più tranquille mettono in queste improvvise follie: ma le teneva una irrefrenata voglia di sapere il gran segreto; ma una crollante piramide di oro e di gioielli pareva accendesse di fiamme i loro occhi. Finanche la vecchia marchesa di Castelforte, curva, dal naso adunco, con la bocca rincagnata, rovina di una donna, avanzo isolato, solitario di una famiglia, senza parenti, senza eredi, avendo settant'anni e con la tomba per solo avvenire, si era levata su e portando seco la borsa di velluto nero, era venuta a tendere il suo profilo di vecchia civetta, fra due spalle di uomini. Perfino donna Carmela Naddeo, la bella, la ricca, la felice, la fortunata donna Carmela Naddeo, tendeva l'orecchio, convulsa di curiosità, istintivamente, dicendo a mezza voce: - Se mi dice i numeri, mi compro la stella di brillanti come quella di Luisella. Pure, l' assistito aceva: tanto che don Gennaro Parascandolo, sentendo dietro di sé l'impazienza della sala, arrischiò una domanda: - Vi è piaciuta la festa, don Pasqualino? Infine costui schiuse la bocca e dalle labbra sottili, violacee, tutte maculate dalla febbre, una voce bassa e fievole uscì: - Sì, - disse - è un bel battesimo. Anche il battesimo di Gesù Cristo nel Giordano era bello… Immediatamente vi fu un mormorio, un agitazione nella sala; tutti parlavano fra loro, sottovoce o ad alta voce, commentando la frase, cercandone subito la spiegazione, formando circoli, crocchi, le donne discutendo fra loro, mentre il numero trentatré, l numero del Redentore, correva su tutte le bocche. Placidamente, come se prendesse la data di una cambiale, don Gennaro Parascandolo aveva trascritta la frase nel suo taccuino: e celandosi dietro una portiera, senza lasciare la sua gravità burocratica e misantropica, don Domenico Mayer ne aveva preso nota. La vecchia marchesa, che era sorda, andava domandando, rabbiosamente: - Che ha detto? Che ha detto? Finì per chiederlo a Luisella Fragalà, che, immobile, con gli occhi imbambolati, sedeva presso la malinconica signora Parascandolo, e Luisella non seppe dire altro: - Non so, comare marchesa, non ho inteso. Però don Gennaro Parascandolo, non contento, insisteva: - Vi sono piaciuti i dolci, don Pasqualino? Ho visto che li mangiavate con piacere. - Sì, - mormorò costui. - Io mangio, ma non mastico… - Non avete denti? - Non ho denti… E girò gli occhi intorno, in alto, vagamente, senza fissar mai nessuno, come se vedesse delle cose di là; fece un cenno con la mano, appoggiando tre dita sulla guancia. Vi fu lo stesso mormorio, la stessa agitazione: ma sorse anche una incertezza. La frase era ambigua: e il cenno con le tre dita, che significava? Anche don Gennaro Parascandolo, mentre prendeva la sua annotazione, si fermò, pensando: e il mistero di quella seconda frase, il mistero di quel cenno scatenava tutte quelle già frementi fantasie, in un mondo sovrasensibile. Oh la fede, la fede, ecco quello che ci voleva, per intendere le parole dell' assistito E ognuno, concentrando le potenze dell'anima, cercava di avere uno slancio sublime di fede, per sapere la verità, e per conoscere come si traducesse in numeri, e per cambiarla nei danari del lotto. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A notte tarda, quando la casa fu vuotata di gente, Cesare Fragalà, insieme con le serve sonnacchiose, andò smorzando i lumi, chiudendo tutte le porte, come faceva, per prudenza, ogni sera. Rientrato nella stanza nuziale, trovò Luisella, semi spogliata, seduta nella penombra. La culla di Agnesina era stata portata nella stanza della nutrice; gli sposi erano soli. Pareva che la stanchezza li avesse ammutoliti. Pure, accostandosi alla sua giovane moglie, egli vide che ella piangeva, silenziosamente, a grosse lacrime che le si disfacevano sulle guance. - Che hai, Luisella, che hai? - chiese, abbracciandola, tremante anche lui di emozione. - Niente, - ella disse, piangendo ancora, nel silenzio, nella penombra.

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